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Universit degli Studi di Sassari DIPARTIMENTO DI SCIENZE ZOOTECNICHE Corso di laurea in Scienze Zootecniche APPUNTI DEL CORSO DI ZOOTECNICA GENERALE prof. Giuseppe Pulina Se una cosa difficile continua a restare difficile, vuol dire che non si L studiato abbastanza Sassari, anno accademico 2003-2004

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Università degli Studi di Sassari

DIPARTIMENTO DI SCIENZE ZOOTECNICHE Corso di laurea in Scienze Zootecniche

APPUNTI DEL CORSO DI ZOOTECNICA GENERALE

prof. Giuseppe Pulina Se una cosa difficile continua a restare difficile, vuol dire che non si è studiato abbastanza Sassari, anno accademico 2003-2004

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1. I SISTEMI ZOOTECNICI

Le modalità con cui è esercitata la pratica dell�allevamento animale sono diverse, ma tutte

riconducibili ad un�idea di sistema zootecnico.

Con il termine sistema zootecnico intendiamo l�organizzazione delle singole parti costituenti in

termini di entità che lo compongono e che ne rappresentano le variabili di stato (ambiente fisico,

animali, produzioni, mezzi tecnici impiegati, lavoro, capitali), e delle loro relazioni che ne

rappresentano le funzioni (transiti di energia, di materiali e di informazioni.

Tentare un approccio tassonomico per definire le categorie nelle quali i sistemi zootecnici possono

essere classificati è certamente un�impresa ardua, anche perchè le aree di confine fra un sistema e

l�altro sono aleatorie ed i criteri in base ai quali formuliamo la classificazione sono talora arbitrari.

Tuttavia una ripartizione in classi è necessaria per consentire un approccio globale per quanto

possibile univoco al problema della comprensione delle varie facies in cui si articola questa attività

produttiva fondamentale nel campo del comparto agricolo, agroalimentare ed ambientale.

Possiamo effettuare la classificazione dei sistemi zootecnici secondo questi quattro criteri guida:

1) produttività e legame con la base territoriale agricola dal quale dipende il rifornimento degli

alimenti zootecnici impiegati nel ciclo produttivo;

2) specializzazione aziendale e livello produttivo degli animali;

3) grado di organizzazione interna;

4) aspetti socio-economici.

Per quanto riguarda il primo criterio (produttività e legame con la base territoriale), l�allevamento

animale può dipendere in toto, parzialmente oppure essere slegato dalla base territoriale di

riferimento per la produzione degli alimenti. Tale base territoriale, inoltre, può essere a sua volta

classificata in funzionedella produttività nel senso che su di essa sono presenti colture o superfici

foraggere ad alto, medio oppure basso livello produttivo. Nel caso in cui tutti gli alimenti impiegati

siano acquisiti dall�esterno, gli allevamenti prendono il nome di imprese senza terra.

La produttività delle colture foraggere zootecniche è legata alla fertilità del suolo, alle condizioni

ambientali, agli interventi tecnici quali l�irrigazione, la concimazione, le lavorazioni, la difesa dalle

malerbe e dai parassiti. Un indicatore indiretto di produttività è fornito dal carico animale

mantenibile che rappresenta il numero di capi (normalmente espressi in unità convenzionali o in kg

di peso corporeo mantenuto) per unità di superficie (normalmente l�ettaro) in condizioni ordinarie

(ovvero in un�annata media). E� ovvio che tale carico deve essere calcolato esclusivamente sulle

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risorse foraggere aziendali, con l�esclusione degli alimenti acquisiti dall�esterno. E� comunque da

tenere presente che gli animali occupano una base territoriale virtuale in quanto gli alimenti che

consumano sono, in ogni caso, derivati dalla coltivazione di una porzione di terreno appartenente

alla stessa azienda nella quale essi sono allevati oppure in aziende lontane (a volte dislocate in altri

continenti). In sintesi, la quantità di alimenti provenienti dalla azienda in cui risiede l�allevamento

rapportata al consumo complessivo di alimenti su base annuale (tutto espresso in termini di energia

o di sostanza secca) costituisce l�indice di autoapprovvigionamento.

Ad esempio: consideriamo un allevamento bovino nel quale sia effettuato il finissaggio dei vitelloni

dai 200 ai 600 kg di peso corporeo (vitellone pesante) in 300 giorni. La consistenza è di 1000 capi

ed il consumo complessivo di sostanza secca è stimato in 2.400 tonnellate all�anno. La base

foraggera aziendale è costituita dalla coltivazione di mais da insilamento a maturazione cerosa e la

produzione di tale coltura è di 15 tonnellate di sostanza secca per ettaro. La razione è mediamente

costituita da ¾ di silomais e da ¼ da concentrati (a loro volta costituiti dall�80% da granella di

mais e dal 20% da farina di estrazione di soia) acquistati dal mercato (grado di

autoapprovvigionamento = 75%) . I consumi complessivi sono pertanto di 1.800 tonnellate di

silomais, 480 tonnellate di granella di mais e di 120 tonnellate di farina di estrazione di soia. Il

carico aziendale si distribuisce in 1.800/15 = 120 ettari di mais necessari per

l�approvvigionamento ed è pari a 1000/120 = 8,33 animali per ettaro. Se però consideriamo che i

concentrati sono acquistati dall�esterno e che la resa media del mais da granella è di 8 t/ha di

sostanza secca, dobbiamo aggiungere 480/8 = 60 ha di mais da granella; se infine consideriamo

una produzione di soia pari a 5 t/ha di sostanza secca dobbiamo ulteriormente aggiungere 24 ha di

soia. La superficie virtuale (somma di tutte le superfici che hanno contribuito alla produzione degli

alimenti consumati duramte l�anno) è allora di 204 ettari ed il relativo carico è di 4,9 vitelloni per

ha. Nonostante sia molto utile il calcolo della superficie virtuale, soprattutto nel caso in cui il

nostro oggetto di studio non iil singolo allevamento, ma una porzione territoriale più vasta (un

bacino montano, un comprensorio irriguo, una regione), normalmente si fa riferimento al carico

aziendale.

Per quanto riguarda il secondo criterio (specializzazione aziendale e livello produttivo degli

animali) dobbiamo innanzitutto distinguere le aziende specializzate, ossia quelle nelle quali è

allevata una sola specie animale normalmente con un solo indirizzo produttivo (ad esempio, nel

caso dei bovini produzione di latte oppure di carne; in quello degli ovini, produzione di latte, di

carne o di lana, in quello dei suini produzione di carne o di riproduttori, ecc..) da quelle miste nelle

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quali sono presenti più specie; il livello produttivo, riferito alla media della popolazione per quel

carattere ,e normalmente espresso in termini percentuali, individua la posizione nella quale si

colloca l�azienda rispetto alla produttività della popolazione di riferimento.

Ad esempio, consideriamo un allevamento di vacche della razza Frisona Italiana che abbia una

media produttiva di 9.200 kg di latte per capo. Si tratta di un allevamento specializzato (sola specie

bovina), ad indirizzo esclusivo per la produzione del latte con un livello produttivo buono in quanto

è superiore alla media della popolazione (8.500 kg) dell�8,2%. Se nello stesso allevamento venisse

praticato anche l�ingrassamento dei vitelli eccedenti la quota di rimonta, allora avremo un

indirizzo produttivo misto.

Per quanto riguarda il terzo criterio (grado di organizzazione interna) possiamo distinguere le

imprese zootecniche in base al livello delle tecnologie impiegate. Possiamo allora classificare gli

allevamenti dotati di elevato livello tecnologico (uso dell�inseminazione strumentale, diagnosi di

gravidanza, computerizzazione di alcune operazione, elevato livello di meccanizzazione), da quelli

a medio o a basso livello tecnologico nei quali sono adottate mediamente oppure episodicamente

tecniche avanzate di produzione. Questo criterio fa riferimento non soltanto all�impiego di mezzi

tecnici dotati di alta tecnologia, ma anche alle modalità di rilevazione e di elaborazione dei dati

aziendali. Questo punto è cruciale in quanto l�azienda zootecnica è quella che, nel settore agricolo,

produce la maggior mole di dati e la capacità di raccoglierli ed elaborarli in tempo reale è di

importanza fondamentale affinchè l�imprenditore possa prendere tempestivamente le decisioni

tecniche e gestionali sulla conduzione dell�impresa. Ad esempio: un allevamento di suini per la produzione del suino magro è normalmente ad elevato

livello tecnologico in quanto impiega le soluzioni tecniche più recenti per restare competitivo sul

mercato (raccolta ed elaborazione informatizzata dei dati, massimo livello di meccanizzazione e di

organizzazione del lavoro, monitoraggio continuo del ciclo produttivo, sistemi di riproduzione

ottimizzati). Per contro, un allevamento di bovini rustici allo stato brado è normalmente dotato si

soluzioni tecniche di basso livello, di solito tradizionali, con uno schema di organizzazione molto

semplice.

Per quanto riguarda il quarto criterio (aspetti socio-economici) possiamo classificare gli allevamenti

in funzione del contesto sociale ed economico in cui essi sono collocati. Il tipo di impresa ed i suoi

collegamenti con il mercato nazionale o internazionale, sia per la vendita dei prodotti che per

l�approvvigionamento di mezzi tecnici e di capitali, sono rilevanti ai fini della sua collocazione nel

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contesto produttivo. Questo criterio è particolarmente importante nelle condizioni dei paesi in via di

sviluppo nei quali alcune forme di allevamento sono praticate non ai fini produttivi ma con la

finalità di tesaurizzazione del capitale bestiame.

Resta valido un principio orientatore secondo cui la competizione fra le imprese in .regime di

concorrenza porta ad un aumento di intensità produttiva al fine di ridurre il costo unitario di

produzione. Viceversa, il costo unitario può anche essere ridotto con un abbassamento del grado di

impiego dei fattori produttivi: tale concetto è uno dei perni della politica dell�Unione Europea per

gli anni 2000-2006 (contenuta nella cosiddetta Agenda 2000, reg. 1257-1260/99) ed è indicata con

il termine di estensivizzazione. In particolare l�estensivizzazione proposta dalla PAC (Politica

Agricola Comunitaria) tende a ridurre il carico unitario (espresso in Unità Bovine Adulte UBA, una

misura standardizzata della consistenza animale) e a utilizzare la risorsa foraggera disponibile in

modo sub-ottimale. Sulla base dei criteri sopraddetti possiamo allora classificare grossolanamente gli allevamenti in quattro tipi di sistema

produttivo a seconda dell�intensità con cui sono impiegati i fattori della produzione (terra, lavoro, capitale,

organizzazione).

1) Intensivo. Questo sistema di allevamento è di norma specializzato, con un unico indirizzo

produttivo principale (ed eventualmente uno secondario come nel caso in cui si produca latte,

ma si vendano anche gli animali per il ristallo = ingrassamento o per la macellazione), ad

elevato livello produttivo, con alta tecnologia e ben calato in un ambiente imprenditoriale

maturo e ampiamente collegato. Uno degli indicatori più utilizzati per il grado di intensità di una

impresa è il rapporto fra il costo del lavoro e il fatturato definito come indice costo del lavoro

(ICL). In questo caso l�ICL è compreso fra il 20 e il 30% ed il maggior onere di costo è

rappresentato normalmente dall�alimentazione. Rientrano in questa categoria le aziende di

allevamento senza terra di suini, di avicoli e di conigli senza terra, nelle quali l�intero

ammontare degli alimenti è acquisita dal mercato; i centri di ingrassamento dei vitelloni; gli

allevamenti di vacche, pecore e capre da latte nei quali sussistano le condizioni di elevato

impiego di tecnologie, alta produzione unitaria delle colture praticate, alto livello produttivo

degli animali e buon contesto sociale ed economico. Gli animali sono in genere mantenuti in

stabulazione permanente.

2) Semintensivo. In questo sistema di allevamento i fattori della produzione sono impiegati ad un

livello inferiore rispetto al precedente. Gli animali sono mantenuti in stabulazione

semipermanente e l�ICL è compreso fra il 30 ed il 40%. Appartengono a questa categoria gli

allevamenti di bovine da latte in cui è praticato anche il pascolamento, i nuovi sistemi di

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allevamenti avicoli �a terra� e suini �plein air�, i sistemi semistabulati di allevamento degli

ovini e dei caprini da latte (parziale ricorso al pascolamento).

3) Semiestensivo. Questo sistema di allevamento è normalmente praticato con ampio ricorso al

pascolamento, ma con alcune scelte tecniche per quanto attiene alla mungitura meccanica, alla

tecnica di riproduzione e all�integrazione alimentare. Rientrano in questa categoria gli

allevamenti ovini da latte e da carne di buon livello produttivo, gli allevamenti bovini

all�alpeggio, gli allevamenti bovini rustici nei quali sia praticato l�incrocio industriale e il primo

magronaggio dei vitelli, l�allevamento dei suini come complemento. Si tratta solitamente di

allevamenti misti, con livello produttivo medio-basso e con un ICL compreso fra il 40 ed il

50%.

4) Estensivo. Si tratta di un sistema di allevamento in cui tutti i fattori della produzione sono

utilizzati al livello minimo. Il ricovero degli animali è inesistente oppure saltuario. la risorsa

alimentare largamente prevalente o esclusiva è il pascolo, l�indirizzo produttivo è di solito

misto, i carichi unitari sono piuttosto bassi. E� il tipico sistema di allevamento degli ovini da

lana e da carne, dei bovini rustici, dei caprini e dei suini allo stato brado. Occorre precisare,

comunque, che in alcuni casi, come ad esempio nell�allevamento degli ovini da lana australiano

e neozelandese, che il livello tecnologico degli allevamenti è piuttosto elevato anche in presenza

degli altri criteri che farebbero propendere per una classificazione del tipo estensivo. Questo

sistema di allevamento è diffusissimo o addirittura esclusivo in vaste aree dei paese in via di

sviluppo, ma è frequente anche in quelle zone dei paesi sviluppati non diversamente

valorizzabili con altre forme di attività zootecnica. E� invalso da qualche tempo indicare questo

tipo di allevamento come �marginale�; in realtà, secondo la teoria economica, le imprese

marginali sono quelle che chiudono il bilancio senza alcun profitto. Il termine economico è stato

perciò traslato ed adattato ad una situazione territoriale caratterizzata da forti limiti sotto il

profilo della morfologia, della fertilità dei suoli, del clima e delle infrastrutture: tali aree sono

attualmente indicate col temine di aree marginali e gli allevamenti che vi si praticano sono

comunemente indicati come allevamenti marginali. Pur non concordando con questa

attribuzione, riconosco che un termine che si radica nell�uso è efficiente per la comunicazione.

Consiglio comunque, ove possibile, di evitarne l�impiego.

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2. RICHIAMI DI FISIOLOGIA DELLA DIGESTIONE

MICROBICA E CENNNI SULL�INGESTIONE E SUL

COMPORTAMENTO ALIMENTARE

2.1. PREMESSA

In tutte le specie zootecniche la digestione microbica gioca un ruolo più o meno importante

nell�utilizzazione nutritiva degli alimenti.

Nel canale digerente di tutti gli animali, infatti, è sempre presente una certa attività microbica, di

gran lunga più importante nelle specie erbivore, meno un quelle onnivore e marginale in quelle

carnivore.

L�attività dei microbi nelle specie erbivore è indispensabile. I microorganismi alberganti nel

digerente infatti:

1) consentono l�attacco e la degradazione della parete della cellula vegetale (fibra), la cui

composizione non la renderebbe digeribile in quanto il corredo enzimatico degli animali non è

dotato di enzimi capaci di attaccare i carboidrati strutturali (emicellulose, cellulosa);

2) producono acidi grassi volatili (AGV) utilizzati dall�animale nel proprio metabolismo;

3) sintetizzano proteine ad elevato valore biologico;

4) sintetizzano vitamine del gruppo B.

Per quanto riguarda il sito nel quale si concentra l�attività microbica, possiamo avere tre possibilità:

1) prepeptica, cioè anteriormente alla digestione gastrica (ruminanti e pseudoruminanti);

2) postpeptica, cioè posteriormente alla digestione gastrica (equidi);

3) interpeptica, cioè intermedia alla digestione gastrica (ciecotrofi = conigli).

Nel primo caso la fermentazione degli alimenti avviene in un sacco prestomacale (rumine, come per

i bovini, o pseudorumine, come per i camelidi) ed è accompagnato da una masticazione secondaria

rispetto a quella ingestiva. Il grosso delle sostanze nutritive sono utilizzate in questa sede (circa il

70%) e la digestione gastrica riguarda prevalentemente le proteine. Questa soluzione evolutiva

consente la migliore utilizzazione della fibra e dell�azoto non proteico (vedi dopo), ma la non

ottimale utilizzazione dei carboidrati di riserva (CNS = carboidrati non strutturali, quali zuccheri

semplici e amido).

Nel secondo caso la digestione della fibra avviene nel grosso colon, cioè dopo che gli amidi e le

proteine sono state soggette alla digestione gastrica e intestinale. Questa soluzione evolutiva

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consente la migliore utilizzazione dei CNS, ma una minore degradazione della fibra rispetto a

quella precedente. Infatti,se in presenza di alimenti poveri (ricchi in fibra e poveri in CNS), gli

equidi devono ingerire una quantità decisamente superiore rispetto ai ruminanti per trarne la stessa

quantità di energia.

Nel terzo caso, infine, la digestione microbica avviene nel grosso colon con la produzione di una

particolare forma di digesta detta ciecotrofo. Il ciecotrofo si presenta come una pallottola

mucillaginosa, in stato di fermentazione, di odore pungente; queste digesta sono emesse dall�ano

del coniglio (o della lepre) , reingerite e quindi ridigerite nello stomaco e nell�intestino tenue. Alla

fine di tale processo avviene l�espulsione delle feci vere (praticamente inodori) per via anale. La

ciecotrofia è il sistema digestivo degli animali erbivori dotato di massima efficienza. I componenti

degli alimenti digeribili per via enzimatica dall�animale sono infatti digeriti prima che inizi la

fermentazione microbica che attacca la fibra e i composti non digeriti con la produzione di AGV; la

seconda digestione gastro-intestinale serve per digerire i prodotti non volatili ottenuti dalla

fermentazione microbica.

Fra i tre tipi quello di gran lunga più importante nelle scienze zootecniche è il primo in quanto è il

sistema tipico di digestione dei ruminanti che comprendono la parte più rilevante delle specie

allevate: i bovini, i bufalini, i caprini e gli ovini. Di seguito esamineremo brevemente alcuni aspetti

della ruminazione e delle fermentazioni microbiche ruminali.

2.2. RITENZIONE DEGLI ALIMENTI NEL RUMINE- RUOLO DELLA MASTICAZIONE

2.2.1 Il contenuto del rumine

Nel rumine-reticolo è presente in continuazione una massa alimentare fibrosa in corso di

fermentazione che rappresenta all�incirca i ¾ del contenuto digestivo totale e dall�8 al 17% del peso

corporeo (PC) totale dell�animale, in funzione del tipo della razione somministrata. Tale quantità è

superiore agli 80 kg in una vacca da latte di 600 kg di PC ed i 100 kg nella vacca Charolaise

alimentata con fieno. L�acqua rappresenta l�80-90% del contenuto fresco del rumine e le pareti

cellulari (CS = carboidrati strutturali determinati analiticamente dalla fibra al digerente neutro =

NDF) più dell�80% del contenuto secco.

Il rumine è approvvigionato durante 5-8 ore al giorno con gli alimenti che vengono ingeriti in una

dozzina di pasti. Gli animali al pascolo effettuano due grandi pasti, uno all�alba e l�altro alla sera;

tale comportamento è stato osservato anche con animali in stabulazione, sia fissa che libera, ed i

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pasti coincidono con le due somministrazioni giornaliere. Il contenuto ruminale si accresce durante i

pasti ed arriva al massimo, di solito, durante il grande pasto della sera.

L�acqua è apportata dagli alimenti, dall�abbeverata e, soprattutto, dalla saliva che è secreta sia

continuamente (ghiandole parotidi) che in abbondanza nel corso dell�ingestione e della ruminazione

(ghiandole sottolinguali): la quantità è di circa 150 litri al giorno nel bovino adulto e di circa 10 litri

negli ovini adulti. La saliva è leggermente alcalina (pH 8,2) e ricca in sostanze tampone

(bicarbonati e fosfati) che contribuiscono al mantenimento della reazione del mezzo ruminale in un

ambito assai stretto(da 6,2 a 6,5). Il contenuto ruminale è inoltre molto ben condizionato nei

riguardi della temperatura ( quella corporea dell�animale) e dell�anaerobiosi: infatti, l�efficienza

delle fermentazioni è massima in totale assenza di ossigeno, con temperatura costante, con un pH

subacido e con un sistema dotato in continuo sia dell�alimentazione che della rimozione dei prodotti

della fermentazione.

Figura 1.1 � Rappresentaione schematica della stratificazione dei componenti del contenuto del

rumine.

Il contenuto ruminale è rimescolato in permanenza attraverso dei circuiti obbligatori attivati da circa

2500 contrazioni giornaliere che percorrono la parete ruminale, i pilastri e le pliche di separazione

fra i diversi sacchi. Le contrazioni principali, dette primarie, partono dal reticolo (durata 4 secondi)

al ritmo di 1,5 circa al minuto durante i pasti e di uno al minuto nel restante tempo. Esse si dirigono

verso la parte posteriore dell�organo e sono spesso seguite da delle contrazioni secondarie le quali

partono dal fondo del sacco ventrale e si dirigono in senso opposto verso la parte anteriore dello

stesso.

Il flusso di alimenti e di liquidi implica lo svuotamento del rumine; gli alimenti scompaiono per due

vie:

GAS Particelle grossolane Particelle fini

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1. La distribuzione quasi totale dei tessuti e delle pareti non lignificate da parte della microflora

albergante accompagnata dall�evacuazione dei prodotti terminali della loro fermentazione

(assorbimento degli AGV ed eruttazione della CO2 e del metano);

2. L�evacuazione verso valle attraverso l�orifizio reticolo-omasale (ORO) delle particelle fibrose

non degradate, essenzialmente costituite da tessuti lignificati, , accompagnate dalla massa

batterica in fermentazione ( invero gli alimenti che realmente digerisce il ruminante sono

rappresentati dai prodotti che lasciano il rumine indigeriti � il cosiddetto escape ruminale � e

dai corpi dei batteri e dei protozoi che albergano nel rumine e che hanno colonizzato le

particelle alimentari o che nuotano liberamente nel fluido ruminale).

La dimensione di questo orifizio è piccola, ma varia in maniera ciclica; esso si dilata

improvvisamente alla fine della contrazione del reticolo e forma un�apertura ellittica lunga 4 cm e

larga 1 cm al massimo nei grossi bovini. E� durante questo periodo di apertura dell�orifizio, che si

ripete per circa 1600 volte al giorno, che si effettua l�evacuazione del contenuto ruminale. Questo

particolare dell�orifizio reticolo-omasale, in combinazione con gli altri meccanismi della

frantumazione degli alimenti per mezzo della masticazione mericica, fa in modo che oltrepassino

questa soglia soltanto le particelle di dimensione inferiore agli 1-2 mm negli ovini e 2-4 mm nei

bovini. Nella stragrande maggioranza le particelle presenti nell�omaso hanno una dimensione non

superiore al millimetro; esse non subiranno una ulteriore riduzione di dimensione nel corso della

successiva digestione.

2.2.2 Circuito di frantumazione degli alimenti: ruolo della ruminazione

I ruminanti masticano gli alimenti nel corso dell�ingestione (masticazione ingestiva) con una

velocità che è 2 volte più elevata nei piccoli ruminanti (125-150 movimenti manddibolari per

minuto negli ovini) rispetto ai bovini (70-80 movimenti).

Il tempo di masticazione richiesto per kg di sostanza secca è basso per gli alimenti concentrati in

quanto essi sono stati macinati più o meno finemente nel corso della preparazione. Esso è tanto più

lungo per i foraggi quanto questi sono più fibrosi: circa 30 minuti per un buon fieno, oltre 60 minuti

per una paglia, 20 minuti per l�insilato di mais contro 5-10 minuti per i concentrati, nel caso della

vacca da latte

La masticazione ingestiva riduce gli alimenti in un insieme di particelle di dimensione e di forma

estremamente variabili, da un minimo di 1 mm ad un massimo di 4-5 cm. Le piccole particelle (<1

mm) rappresentano circa il 15% della sostanza secca dei foraggi coriacei e intorno alla metà nei

foraggi teneri.

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Tabella 1.1 Valore dell�indice di fibrosità degli alimenti

(da Sudweeks et al., 1980)

Alimento Tempo di masticazione per

kg di s.s. in minuti Fieni e paglie Medica �chopped� 44,3 Farina disidratata medica 36,9 Medica lunga 61,5 Medica pellettata 36,9 Fieno misto finemente macinato e pellettato 13,19 Fieno misto buona qualità 87,105 Fieno misto media qualità 103,109 Paglia di avena 160,0 Paglia di avena finemente macinata e pellettata 18,0 Sottoprodotti Seme di cotone 30,1 Insilati Medica taglio corto 22,3 Medica taglio medio 26,0 Medica taglio grossolano 66,1 Mais taglio corto 40,0 Mais taglio medio 59,6 Sorgo 67,3 Erba silo 99-120 Grano 68,9 Cereali e altri concentrati Farina orzo 15,0 Concentrati pellettati 12,0 Farina di mais 5,1 Farina di avena 2,0 Farine di estrazione 6,0 Altri ingredienti Minerali 0 Melasso 0 Urea 0

I frammenti alimentari originatisi da questa masticazione ingeriti con un fiotto di saliva

costituiscono il bolo alimentare. Essi sono energicamente sospinti verso la porzione caudale del

rumine dalle contrazioni del reticolo quale sia la loro dimensione, e sono costretti ad immergersi

nella massa fibrosa presente nell�organo. Tale immersione è tanto più rapida quanto più piccoli, più

densi e più idrofori sono i frammenti; essa è più rapida per i concentrati e più lenta per i foraggi

secchi. Il contenuto ruminale alimentare con razioni costituite da foraggi secchi, è nettamente

stratificato: sotto una cupola di gas, si ha uno strato di particelle di foraggi più grandi e leggeri; nel

sacco ventrale si ha invece un contenuto più fluido con particelle più piccole e più dense.

Poco dopo la fine di un pasto, solitamente da 5 a 15 minuti, per l�animale inizia un periodo di

ruminazione che è la successione di cicli la cui durata è di circa 1 minuto. Ciascun ciclo inizia con

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una contrazione supplementare del reticolo, che precede la sua contrazione primaria di qualche

secondo. Un bolo (50-80 gr nell�ovino e 600-1000 gr nel bovino) derivante del contenuto del

reticolo o del sacco craniale del rumine, è aspirato dall�esofago e rimonta fino alla bocca (bolo

mericico) . Se il bolo è troppo grosso, la parte eccedente è reingerita ed il rimanente subisce una

intensa masticazione (masticazione mericica) che è effettuata con 40-60 movimenti di mandibola al

minuto nei bovini e 80-100 negli ovini. In tal modo, le grosse particelle sono ridotte di dimensione e

trasformate in piccole particelle (<1mm). Con razioni normali a base di foraggi la ruminazione

occupa più tempo dell�ingestione e si effettua in un numero maggiore di periodi; la quantità di

sostanza secca così masticata al giorno nel corso della ruminazione è 2 o 3 volte superiore a quella

ingerita.

E� dunque la masticazione mericica che gioca un ruolo principale nella frantumazione delle

particelle alimentari e nel loro tempo di ritenzione ruminale. Con la riduzione della taglia e

l�aumento della densità e la perdita delle parti degradabili le particelle hanno una probabilità sempre

maggiore di sfuggire alla massa fibrosa, di immergersi verso il sacco ventrale e di guadagnare la

parte inferiore di quello craniale da cui sono sospinte verso orifizio reticolo omasale.

Figura 1.2 � Circuito delle particelle alimentari nel rumine.

= ORO (orifizio reticolo omasale) = movimenti parti leggere = movimenti parti pesanti

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La masticazione mericica permette lo svuotamento del rumine che è necessario per un suo

successivo riempimento. Tuttavia la sua efficacia è accresciuta dalle fermentazioni ruminali che

rendono meno resistenti le pareti cellulari e privano le particelle della frazione degradabile.

2. 2.3 Tempi di masticazione, tempi di ritenzione, ingombro e ingeribilità.

I tessuti più resistenti alla masticazione, nel corso della ruminazione come dell�ingestione, sono

quelli lignificati: lo sclerenchima ed i vasi legnosi. Essi costituiscono l�ossatura della pianta,

soprattutto del fusto del quale assicurano la rigidità. La loro proporzione si accresce nel corso dello

sviluppo della pianta a spese del tessuto vivo e la lignificazione si può estendere dal fusto agli altri

tessuti.

Il risultato è che per kg di sostanza secca ingerita si ha un aumento simultaneo:

• del tempo di ingestione;

• del tempo di ruminazione, accentuato dal fatto che la popolazione microbica, che è alimentata

meno bene per effetto della diminuzione del contenuto cellulare costituito dal CS e proteine,

degrada più lentamente la parete cellulare;

• del tempo di ritenzione medio delle particelle nel rumine in quanto è fondamentalmente

dipendente dal tempo di ruminazione;

• dell�effetto di ingombro esercitato dalla razione in quanto questo è prodotto dalla proporzione

delle particelle non degradabili per il loro tempo di ritenzione, che aumentano entrambi;

• del peso del contenuto ruminale espresso in tal quale ed ancora di più in sostanza secca.

Il tempo dedicato alla ruminazione non è mai superiore alle 11 ore al giorno; quando è vicino a tale

valore può ridursi il tempo di ingestione in quanto il tempo totale di masticazione(ingestione +

ruminazione) non può eccedere le 18 ore al giorno a causa dell�affaticamento dei muscoli

masticatori e delle altre esigenze dell�animale.

Il tempo di ritenzione ruminale (MRT = medium retention time) esprime (in ore) la permanenza

media di una determinata classe di particelle, o del liquido compresi i suoi soluti, nel rumine. Il

ricambio delle parti solide e dei liquidi presenti nel rumine prende il nome di turnover ruminale. I

MRT dei solidi è superiore a quello dei liquidi ; esso è maggiore nei bovini rispetto ai piccoli

ruminanti per i solidi, mentre quello dei liquidi è pressoché uguale fra le specie. Il MRT dei solidi

rispetto ai liquidi è di circa 3 volte nei bovini e di 1,6-1,7 volte nei piccoli ruminanti.

Da quanto abbiamo detto in precedenza risulta chiaro che il MRT dipende sia dalle dimensioni che

dal peso specifico delle particelle alimentari. L�influenza del peso specifico è rilevabile nel grafico

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allegato in cui è possibile notare che al crescere della densità relativa (g/ml) il MRT si riduce: ciò

significa che le particelle più pesanti hanno maggiore probabilità di affondare nel rumine e di

depositarsi sul fondo dal quale poi sono sospinte nel reticolo per passare oltre; la dimensione è

anche essa rilevante ai fini del MRT: il grafico successivo, infatti, mostra l�effetto combinato della

densità e della dimensione delle particelle. E� facile notare la riduzione del MRT con l�aumento

della densità, ma con MRT sempre maggiore a parità di peso con particelle più grandi.

Figura 1.3 - Tempo di ritenzione ruminale medio per liquidi e solidi in vacche, pecore e capre.

2.3 LE FERMENTAZIONI MICROBICHE

2.3.1 La micropopolazione ruminale.

Nel rumine è presente una imponente massa di microorganismi appartenenti ai gruppi dei batteri,

dei protozoi e dei funghi. La maggio parte di essi è anaerobio stretto, ma sono anche presenti delle

specie e dei ceppi aerobi facoltativi che hanno il compito di assorbire l�ossigeno che penetra nel

rumine con gli alimenti e quello che filtra dalla parete dell�organo.

I microorganismi, di solito flagellati o dotati di ciglia mobili per nuotare nel liquido ruminale,

colonizzano i frammenti di alimento che si trovano immersi nella massa in fermentazione.

La concentrazione batterica e quella protozoaria si riducono al crescere della dimensione del

microorganismo. Per tale motivo, la massa netta dei microorganismi, espressa in milligrammi per

millilitro di liquido ruminale, è massima agli estremi delle dimensioni delle cellule.

0

5

10

15

20

25

30

liquidi solidi

Tem

po d

i rite

nzio

ne ru

min

ale

(h)

vaccapecoracapra

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Fra la popolazione microbica ruminale intercorrono gli stessi rapporti che è possibile registrare in

qualsiasi sistema vivente: abbiamo, oltre che l�indifferenza, la competizione per il substrato, il

parassitismo, la predazione, la cooperazione, la sequenzialità. Quest�ultimo caso, in cui un prodotto

della fermentazione di una specie batterica è indispensabile per la sopravvivenza di una o più

specie, é il più comune�

I batteri, come già detto, sono il gruppo più numeroso e ponderalmente preponderante della

micropopolazione ruminale. Il loro compito è quello di colonizzare le particelle di piante ingerite

dall�animale, attaccarle con esoenzimi, solubilizzare i CS e fermentarli fino ad AGV, attaccare le

proteine alimentari e l�azoto non proteico (NPN) per risintetizzare le proteine del loro corpo,

sintetizzare le vitamine del gruppo B.

I protozoi hanno un ruolo non ancora ben definito nel quadro delle fermentazioni del rumine. La

loro azione di predazione nei confronti dei batteri li rende capaci di accrescere il valore biologico

delle proteine che dal rumine passano alla digestione gastrica (il VB delle proteine dei protozoi è

superiore a quello delle proteine del batteri); sono capaci di inglobare sia batteri in fase di

fermentazione attiva, ma anche frazioni del contenuto ruminale, e favorire così la fermentazione.

I funghi anaerobi presenti nel rumine possono essere sia parassiti dei protozoi ciliati che saprofiti

dei tessuti vegetali. Questi ultimi sembra che giochino un ruolo importante nell�aumentare le

disponibilità dei contenuti intracellulari delle cellule vegetali per azione meccanica o enzimatica,

anche per mezzo della solubilizzazione di parte della lignina (che non sarà poi digerita comunque).

Ai funghi è riconosciuto anche un ruolo sinergico con i batteri nella produzione del metano.

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Figura 1.4 � Schema della popolazione microbica del rumine.

Rappresentazione della popolazione batterica nel rumine dei bovini. I batteri si trovano nel fluido ruminale, sulle particelle alimentari, e attaccate all�epitelio ruminale, dal quale le cellule distali cadono nel fluido. Sono mostrati i batteri aderenti al tessuto in relazione all�urea e all�ossigeno che si diffondono attraverso la parete dell�organo, e verso le cellule epiteliali distali, le quali comprendono il loro substrato nutritivo.

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2.3.2. Le fermentazioni

I batteri del rumine colonizzano i substrati costituiti dagli alimenti e si accrescono.

Figura 1.5 - Microfotografia dei batteri ruinali che colonizzano una particella di alimento

L�accrescimento della popolazione necessita di energia, che è ottenuta dalla fermentazione dei

carboidrati, e di proteine che sono ottenute a partire dalle sostanze azotate. I lipidi, a causa della

mancanza di ossigeno, non possono essere impiegati dai batteri come fonte energetica. Tuttavia i

grassi sono utilizzati per la costruzione della membrana cellulare batterica e gli acidi grassi insaturi

(che rappresentano la gran parte dei costituenti dei lipidi vegetali) sono saturati dai batteri in quanto

sono per loro tossici.

Le fermentazioni sui carboidrati.

La degradazione ruminale dei carboidrati inizia con l�attacco da parte dei batteri dei principali CS

(cellulose ed emicellulose) e CNS (amidi e zuccheri semplici) con enzimi extracellulari. Tale

attacco porta alla formazione direttamente di glucosio (cellulosa, amidi) o di fruttosio (pectine,

emicellulose, pentosani, fruttosani). Le cellule animali hanno una grande affinità per il glucosio in

quanto presentano meccanismi per inglobarlo; le cellule della parete del rumine si sono evolute nel

senso che sono impermeabili al glucosio in modo tale da non sottrarlo al liquido ruminale e rendere

possibile la successiva utilizzazione da parte dei batteri.

Terminata la fase extracellulare, i monosaccaridi sono assorbiti dai batteri che li impiegano per il

proprio metabolismo. La prima fase metabolica dei batteri consiste nella demolizione del fruttosio

1-6 DI_P (6 atomi di carbonio= 6C) fino ad acido piruvico (3C , si hanno 2 moli di piruvato per

ogni mole di monosaccaride fermentato). L�acido piruvico è pertanto l�intermediario della

fermentazione.

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Ora, se il ceppo (o i ceppi) batterico sta fermentando la cellulosa, o gli altri componenti della fibra

(normalmente tali batteri sono chiamati cellulosolitici e fermentano bene ad un pH superiore a 6,1),

la fisiologia di tali batteri prevede la produzione terminale di acido acetico (CH3-COOH = 2C), di

anidride carbonica e di acido formico (CHOOH). L�acido formico fornisce a sua volta il substrato di

fermentazione per una classe di batteri importantissimi per il mantenimento della reazione del

mezzo nei sistemi anaerobici: i metanobatteri. I batteri metanogeni li possiamo considerare dei veri

e propri archeobatteri in quanto sono giunti a noi dalla notte dei tempi, da quando cioè la vita sulla

terra era di tipo riducente anzichè ossidativo. Si stima che questi batteri abbiano la stessa struttura

dei loro progenitori di 3 miliardi di anni or sono. Il loro compito è quello di ossidare l�idrogeno che

si libera abbondantemente nel corso delle fermentazioni con il carbonio per produrre metano (CH4),

con un meccanismo che possiamo considerare come analogo alla fosforilazione ossidativa degli

organismi aerobici: in questo caso il metano rappresenta l�analogo dell�acqua dei sistemi aerobi. In

definitiva, l�attacco a una mole di esoso (6C) che deriva dalla degradazione dei carboidrati della

parete cellulare (CS), porta alla produzione di 2 moli di acido acetico (2 x 2C = 4C), ad una mole di

metano (1C) ed a una mole di anidride carbonica (1C). Il guadagno energetico per ciascuna mole di

esoso fermentato per questa via è di 4 ATP (1 per la glicolisi + 1 per la produzione di acetato, per

mole di piruvato, essendoci 2 moli di piruvato per ogni mole di glucosio che entra nella catena).

Il butirrato (CH3-CH2-CH2-COOH = 4C) è prodotto dai batteri butirrici particolarmente attivi ad

un pH compreso fra il 6,3 e il 5,5 con una via iniziale molto simile a quella dei batteri acetici. Il

prodotto finale però non è l�acetato in quanto quest�ultimo è attivato ad ecetil_COA e, attraverso la

β-condensazione (o la via alternativa del malonato) , condensato in acido butirrico (2C + 2C = 4C).

Anche in questo caso, per mole di esoso fermentato abbiamo la produzione di una mole di metano

ed una mole di anidride carbonica. Il bilancio definitivo per mole di esoso è pertanto di una mole di

butirrato (4C) + una mole di metano (1C) + una mole di CO2 (1C), con un guadagno energetico di 3

ATP (2 nella glicolisi ed 1 nella butirrogenesi).

I batteri che attaccano i substrati costituiti da CNS sono normalmente chiamati amilolitici ed hanno

un pH ottimale di azione compreso fra 6 e 5. La loro attività fermentativa porta alla produzione di

acido propionico (CH3-CH-COOH = 3C) che, fra i 3 AGV, è quello meno forte (pKa 4,87 rispetto

ad un valore di 4,82 per il butirrico e di 4,75 per l�acetico). Da una mole di esoso si ottengono 2

moli di propionato: in questa reazione non si ha perdita di materia ne di energia, in quanto non si

perde carbonio ne sotto forma di CO2 ne sotto forma di CH4. Tale via fermentativa fornisce un

bilancio dell�ATP dovuto solamente alla glicolisi (2 ATP), ma ha il grande vantaggio di scaricare

(ossidare) i sistemi di trasporto dell�idrogeno (NAD+, FAD+) che, in ambiente riducente come

quello anaerobico, sono normalmente carichi (ridotti = NADH-H+; NADPH-H+).

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Un quadro riassuntivo delle fermentazioni ruminali è riportato di seguito: si parte da 5 moli di

carboidrati vegetali (30 C) per arrivare ad un rapporto molare fra i tre AGV tipico (67:22:11) nel

caso di razioni medie: 6C sono trasformati in acetato; 2C in propionato; 1C in butirrato; 4C in

metano; 6C in CO2; il bilancio dell�ATP è di 16 moli (3,2 per mole di esoso fermentato).

(30 atomi di C) 6 ATP 6 ADP 4 FRUTOSIO 6 P + FRUTTOSIO 1,6 DI P 4 ATP 4 ADP 4 FRUTTOSIO 1,6 DI P 10 TRIOSO P 10 NAD+ 20 ADP 10 NADH + H+ 20 ATP 10 PIRUVATO 8 CO2 2 SUCCINATO 8 (2H)

8NAD+ 8 NADH + H+

8 ACETIL CoA MALONIL CoA 6 ADP ATP ADP 6 ATP 2 PROPIONATO 6 ACETATO BUTIRRATO Bilancio dell�ATP per mole di esoso digerito: + 3,2 moli

CARBOIDRATI VEGETALI

6 CO2 + 2 CH4

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Una particolare fermentazione è quella che si sviluppa per opera dei batteri lattici. Poichè la loro

attività si sviluppa in maniera tanto maggiore quanto minore è il pH e poichè il loro prodotto finale

(acido lattico) è un acido organico molto più forte degli AGV (pKa 3,86), se le razioni sono ricche

di zuccheri solubili, l�azione dei lattici è esaltata, il pH è influenzato dalla loro presenza e se non si

rimuove la causa (uso dei tamponi, riduzione dell�apporto di zuccheri semplici), l�acido lattico si

accumula nel rumine causando la riduzione dell�attività degli altri batteri fino alla loro scomparsa.

Questa descritta è l�eziologia della acidosi lattica, una delle forme di disturbo digestivo più

importanti e fastidiose per i ruminanti.

Figura 1.6 - Proporzioni molari di acidi grassi volatili e di acido lattico, in funzione della acidità (pH) del liquido ruminale.

Le fermentazioni sui substrati azotati

Le proteine ed i composti azotati non proteici (NPN) contenuti nella razione subiscono profonde

modificazioni ad opera della micropopolazione ruminale. Questa degrada più facilmente le proteine

solubili nel liquido ruminale (sieroalbumine, proteine della soia, ovoalbumine, ecc..) e l�NPN

rispetto alle proteine insolubili (glutamine, prolamina, ecc..).

Le proteine degradabili (solubili ed insolubili) e l�NPN danno origine ad un pool di azoto

fermentescibile che, attraverso prodotti intermedi (ammoniaca, peptidi e aminoacidi), è utilizzato

dai microorganismi per la sintesi delle proteine cellulari (proteina grezza microbica). L�azoto

ammoniacale, in presenza di una adeguata fonte energetica rappresentata dall�ATP derivante dalla

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fermentazione dei carboidrati, è pertanto organicato dai batteri (prevalentemente da quelli

cellulosolitici) e trasformato in proteine: questa possibilità di organicazione dell�azoto, comune al

regno vegetale, pone i ruminanti nelle condizioni di fornire all�uomo alimenti di alto valore

biologico (latte e carne a partire da composti azotati di basso valore biologico (sostanze azotate

vegetali) o addirittura a partire dall�azoto inorganico. In tal senso i ruminanti sono �realmente� non

competitivi con l�uomo per le fonti alimentari, e ciò è particolarmente importante nei sistemi

agricolo-zootecnici dei paesi in via di sviluppo.

Nel caso in cui l�NH4 fosse in eccesso rispetto alla disponibilità di ATP (oppure l�ATP fosse in

difetto rispetto alla disponibilità azotata), la quota ammoniacale in eccesso filtra la parete del

rumine, arriva al fegato in cui è trasformata in urea (l�ammoniaca è tossica) che è eliminata per via

renale oppure riciclata per via salivare; il riciclo dell�urea per questa via è una importantissimo

meccanismo di risparmio di azoto nel caso di animali che si alimentano con foraggi molto poveri in

sostanza azotate (paglie, sottoprodotti poveri, stoppie di pascolo, ecc..).

Le proteine alimentari non degradate nel rumine (che rappresentano l�escape ruminale proteico) più

le proteine dei batteri che colonizzano le digesta o il liquido ruminale che oltrepassano l�ostio

reticolo-omasale, rappresentano l�entità di proteine realmente a disposizione dell�animale per la

digestione successiva.

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Figura 1.7 -Schema dell�utilizzazione della proteina ed e dell�azoto non proteico (NPN).

2.4 L�INGESTIONE ALIMENTARE

L�ingestione alimentare è la quantità (espressa in sostanza secca) di un determinato alimento (o

razione) che un determinato animale è in grado di assumere ad libitum nell�arco di 24 ore.

Tale parametro può essere espresso in termini assoluti (kg di s.s.) e allora la chiamiamo ingestione,

in termini relativi (in % del peso corporeo dell�animale), allora la chiamiamo livello di ingestione,

oppure ancora in termini relativi ad un determinato alimento di riferimento (normalmente l�erba) e

allora la chiamiamo capacità di ingestione.

Ad esempio: se la pecorella Pasqualina che pesa 40 kg ingerisce in un giorno 2,2 kg di sostanza

secca di una determinata razione, la sua ingestione è di 2,2, il suo livello di ingestione è del 5,5%

(2,2:40 x 100) e, posto che la razione abbia una ingeribiltà di 1,1 volte l�erba di riferimento, la sua

capacità di ingestione è pari a 2 unità di ingombro (l�erba di riferimento ha una capacità di

ingombro = 1 per kg di s.s.).

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In tutti gli animali (ruminanti e non) l�ingestione alimentare dipende:

- dall�animale (specie, mole, stato di ingrassamento, gestazione);

- dall�alimento (composizione chimica, aspetto fisico, appetibilità);

- dalle modalità di distribuzione e presentazione (management);

- dal clima;

- dalla conduzione dell�allevamento (presenza di altri animali, sanità, ecc..).

Tale fenomeno, particolarmente importante in quanto limita la possibilità di ingerire principi

nutritivi e, quindi, la produzione degli animali, è regolato dai centri della sazietà e da quelli della

fame che sono collocati nell�ipotalamo.

Restando al caso dei ruminanti, questi centri agiscono come un interruttore nel senso che quando il

centro è orientato verso la fame il comportamento dell�animale è orientato verso la ricerca e

l�ingestione dell�alimento e, viceversa, quando questo è orientato verso la sazietà, l�animale smette

di alimentarsi. Il centro è influenzato da recettori meccanici che si trovano nelle pareti del rumine

che, percependo lo stato di replezione dell�organo, intervengono con l�interruzione o l�inizio

dell�alimentazione, e da recettori metabolici, collocati nel fegato o nell�intestino, che monitorano

l�entità di metaboliti in circolazione. L�ampiezza del segnali di fame/sazietà (Is) è pertanto

condizionato sia dal grado di distensione del rumine (S) che dalla concentrazione ematica dei

metaboliti (C), nonchè dalla numerosità dei recettori fisici (Ns) e chimici (Nc) secondo la relazione

studiata da Conrad e altri:

Is = (S x Ns) ± (C x Nc).

La digeribilità degli alimenti influenza la loro ingestione in quanto tanto più rapidamente un

alimento è degradato nel rumine tanto più rapidamente scompare per lasciare il posto ad un nuovo

alimento. Con alimenti a bassa digeribilità prevalgono gli stimoli legati al grado di replezione

ruminale, mentre mano a mano che cresce la digeribilità, iniziano a entrare in gioco i vincoli

all�ingestione di tipo metabolico. La figura allegata mostra come l�ingestione in vacche da latte

aumenti all�aumentare della digeribilità delle razioni fino ad un massimo del 67% (limite di

funzionamento del controllo fisico dell�ingestione) oltre il quale l�ingestione cala per azione del

controllo metabolico. Poichè la digeribilità delle razioni è legata al contenuto in pareti cellulari ed in

proteina, è ovvio che esista una relazione inversa fra ingestione e contenuto in CS della razione ed

un rapporto diretto fra ingestione e concentrazione proteica (vedi figura allegata). Nel primo caso

l�aumento del contenuto in fibra riduce la digeribilità e aumenta i tempi i MRT; nel secondo caso,

l�aumento di disponibilità azotata consente ai micoorganismi di riprodursi con maggiore efficienza

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e quindi di attaccare la fibra con superiore efficacia. In entrambi i casi la velocità di svuotamento

del rumine aumenta con conseguente più frequente rilascio dei recettori dello stato di distensione

delle pareti e quindi più frequente segnale di fame all�ipotalamo.

Figura 1.8 - Alcune vie ritenute essere coinvolte nel controllo dell�ingestione ( Ac., acetico; GH, ormone della crescita; glu�n, glucagone; Ins., insulina; Lac, acido lattico) (Forbes, 1980)

2.5 IL COMPORTAMENTO ALIMENTARE DEI POLIGASTRICI

La più importante differenza fra le diverse specie ruminanti deriva dal rapporto allometrico noto per

tutti i mammiferi fra apparato digerente e massa corporea e fabbisogni energetici e massa corporea:

il primo mostra un esponente per il peso corporeo di 0,94, o di 1,0 secondo Demment e Van Soest ,

mentre per il secondo tale esponente è lo 0,75 della famosa legge di Kleiber. Ciò in pratica significa

che: a) i piccoli ruminanti (PR) hanno una massa corporea 10-12 volte inferiore a quella dei grandi

ruminanti (GR); b) ambedue presentano un volume totale dell�apparato digerente che varia in

maniera proporzionale al peso corporeo e che mediamente rappresenta il 13%-18% di questo; c) i

fabbisogni nutritivi di mantenimento (ovvero quelli legati al metabolismo basale ed alle attività

spontanee dell�animale) sono meno che proporzionali al peso corporeo essendo infatti legati al

cosiddetto peso metabolico (PM = peso corporeo0,75), per cui i grandi ruminanti (bovini, bufali)

tendono ad avere un maggiore volume di apparato digerente per unità di fabbisogni energetici di

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mantenimento che non i piccoli ruminanti (ovini, caprini, caprioli, ecc..). Ci sono importanti

implicazioni pratiche legate alle differenze nella capacità digestiva. Per compensare la loro bassa

capacità digestiva e per soddisfare i loro fabbisogni i piccoli ruminanti devono aumentare la velocità

di transito degli alimenti nel rumine ed avere livelli di ingestione più elevati dei grandi ruminanti.

Questo comporta, nei piccoli ruminanti, una riduzione dei tempi di ritenzione ruminale ed una più

bassa digeribilità delle frazioni a lenta fermentazione (soprattutto fibra), che viene però compensata

da maggiori ingestioni giornaliere di sostanze digeribili.

Altre differenze anatomiche riguardano:

- il rapporto fra volume ruminale e volume dell�apparato digerente nel suo complesso. I GR

hanno normalmente un intestino tenue relativamente più piccolo dei PR e pertanto sono in grado

di digerire con minore efficienza gli amidi che eventualmente �scappassero� (escape ruminale)

dal rumine non fermentati. In altre parole, gli ovini e i caprini hanno una efficienza nella

digestione degli amidi superiore a quella dei bovini per effetto di una maggiore quota di intestino

in cui può avere sede la digestione enzimatica;

- la dimensione delle ghiandole parotidi che è molto maggiore nei PR rispetto ai grandi in

quanto nei primi hanno anche la funzione di produrre sostanza in grado di tamponare gli

alcaloidi (sostanze aromatiche che hanno funzione di difesa nelle piante e che riducono la

digeribilità dei principi nutritivi del foraggio) presenti nei foraggi di cui si alimentano (fronde di

alberi e di cespugli, particolari specie erbacee);

- la mobilità del labbro superiore di PR rispetto ai GR e la possibilità dei primi di esplorare con

più efficacia lo spazio tridimensionale (i caprini ad esempio possono rizzarsi sugli arti posteriori

per pascolare le fronde dei cespugli e degli alberi.

Le conseguenze di queste differenza antomo-fisiologica fra PR e GR sono che i primi rispetto ai

secondi:

a) devono avere livelli di ingestione più alti per soddisfare i loro fabbisogni di mantenimento

cui consegue una maggiore velocità di transito ed una minore digeribilità della fibra;

b) tendono ad essere più selettivi;

c) sono più influenzati nell�ingestione alimentare dalla quantità e dalla dimensione della fibra degli

alimenti;

d) devono spendere più tempo per ingerire e ruminare ciascun kg di alimento;

e) tendono ad avere una maggiore digeribilità delle granelle e delle razioni ricche di energia.

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Sulla base di queste differenze anatomo-fisiologiche, i ruminanti sono stati classificati in 3

categorie:

1) i concentrate selectors, a cui appartengono le specie che vivono nei boschi (cervi, daini, ecc..) e

che selezionano diete molto ricche in principi nutritivi e povere in fibra, ma con elevate

concentrazioni di alcaloidi;

2) i grazers, a cui appartengono i bovini e i bufalini che pascolano esclusivamente (o quasi) le erbe

e che mal si adattano ad utilizzare le fronde degli alberi e dei cespugli

3) gli intermediate feeders, a cui appartengono i caprini e gli ovini che hanno un comportamento

intermedio, ma più simile ai selectors i caprini e ai grazers gli ovini.

2.6 CENNI DI METABOLISMO (con particolare riguardo ai poligastrici)

Il metabolismo energetico degli animali erbivori differisce da quello degli onnivori (e dei granivori

quali gli avicoli) in quanto i nutritivi che derivano dalla digestione sono costituiti nel primo caso

prevalentemente da acidi grassi volatili e nel secondo da glucosio (e lipidi).

Il glucosio gioca un ruolo essenziale nel metabolismo di tutti gli animali: esso è il precursore del

lattosio nel latte, è il nutritivo per eccellenza del tessuto nervoso in particolare di quello cerebrale, è

il nutriente che la madre utilizza per alimentare il feto. La differenza fondamentale fra poligastrici

(e parzialmente anche erbivori monogastrici e ciecotrofi) e monogastrici (onnivori e granivori)

risiede nel fatto che nei primi i polisaccaridi strutturali (carboidrati strutturali = CS) e quelli di

riserva (CNS) sono degradati prevalentemente nel rumine con la produzione dei 3AGV, mentre nei

secondi il glucosio deriva in massima parte dalla digestione intestinale degli amidi.

Nei ruminanti il metabolismo energetico finale è sostenuto direttamente dall�acetato (e dal beta-

idrossi-butirrato di origine ruminale, che entra nel ciclo Krebs direttamente, mentre nei

monogastrici tale funzione è assolta dal glucosio che produce acetato (in realtà acetil_COA)

attraverso la glicolisi.

I poligastrici, per i quali soltanto una quota limitata di glucosio proviene dalla digestione degli

amidi (in effetti, soltanto l�escape ruminale di amido è digerito nell�intestino), sintetizzano glucosio

nel fegato a partire dal principalmente da propionato, ma anche dagli aminoacidi neoglucogenetici e

dal glicerolo che deriva dall�idrolisi dei lipidi.

Per motivi didattici possiamo distinguere il metabolismo in assorbitivo e in postassorbitivo: nel

primo, che avviene nelle ore successive ai pasti, prevalgono i processi anabolici in quanto i nutritivi

assorbiti a livello ruminale e intestinale sono in elevata concentrazione; nel secondo, lontano dai

pasti, prevalgono i processi catabolici.

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In effetti, nel caso dei ruminanti operare questa distinzione è quasi impossibile in quanto la messa di

alimenti in fermentazione continua nel rumine assicura un continuo rifornimento di metaboliti;

purtuttavia, in alcune circostanze la domanda metabolica dovuta alla produzione (ad esempio,

animali con elevata produzione di latte; fase finale della gestazione), può essere eccedente rispetto

all�apporto di nutritivi con la razione alimentare assunta dagli animali. Parleremo pertanto di

bilancio metabolico positivo (in cui gli apporti dal digerente superano la domanda metabolica per il

mantenimento e la produzione) e di bilancio metabolico negativo (in caso contrario).

2.6.1 Bilancio metabolico positivo

In questo stato i flussi sono orientati dall�apparato digerente al fegato (vero intermediario del

metabolismo) e dal fegato ai tessuti periferici.

I principali metaboliti derivanti dalla digestione (aminoacidi, acetato-butirrato, propionato) sono

trasferiti dalla vena porta al fegato. L�acetato non è trattenuto dal fegato e passa nella circolazione

generale. Esso è captato dai tessuti periferici e inserito direttamente nel ciclo di Krebs per la

produzione di energia. Può anche essere utilizzato dal tessuto adiposo per la produzione di acidi

grassi attraverso la beta-condensazione o il ciclo del malonato. Gli acidi grassi sono poi esterificati

con glicerina e depositati sotto forma di lipidi nel tessuto stesso. Il butirrato (in realtà l�acido

butirrico filtra la parete del rumine ed è trasformato in beta-idrossi-butirrato) segue lo stesso destino

in quanto nei tessuti è idrolizzato ad acetato.

Il propionato è trattenuto dal fegato che, attraverso la gluconeogenesi, lo converte in glucosio.

Questo metabolita è rilasciato dal fegato ed è impiegato per la nutrizione del tessuto nervoso, per la

produzione del latte (ricordiamo che la quantità di latte è funzione del lattosio sintetizzato dalla

mammella) e per la nutrizione del feto. Esso è anche indispensabile per la sintesi dei grassi nel

tessuto adiposo in quanto fornisce la glicerina necessaria per l�esterificazione degli acidi grassi. Il

glucosio è usato anche per fornire il substrato energetico per la contrazione muscolare anaerobia: in

questo caso è catabolizzato a lattato che ritorna la fegato per essere ritrasformato in glucosio (ciclo

di Cori). Il glucosio può essere, in piccola parte, accumulato nel fegato e nei muscoli sotto forma di

glicogeno; l�eventuale quota eccedente è convertita in grasso principalmente nel tessuto adiposo o

negli adipociti presenti negli altri tessuti.

Gli aminoacidi, infine, subiscono nel fegato la transaminazione per la sintesi degli AA non

essenziali (quelli essenziali sono apportati dalla razione); nel caso dei ruminanti però il concetto di

AA essenziale è molto vago, in quanto il valore biologico delle proteine di cui è composta la

micropopolazione ruminale è elevato, per cui questi animali non hanno, di fatto, delle vere e proprie

esigenze in AA. Gli AA rilasciati dal fegato sono captati dai tessuti per il turnover proteico, per la

deposizione delle proteine (durante l�accrescimento) e per la produzione (ad es. proteine del latte).

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Una quota di AA può essere impiegata nel fegato per la sintesi di glucosio (AA glucogenetici).

2.6.2 Bilancio metabolico negativo

In questo stato i flussi sono orientati dai tessuti (eccetto il nervoso) al fegato.

Da diagramma allegato è possibile notare che tutte le frecce convergono verso la sintesi di glucosio:

uno sbilanciamento energetico significa, pertanto, una carenza metabolica di glucosio (considerate

che una vacca che produce 45 kg di latte al giorno, elimina sotto forma di lattosio 2,25 kg di

glucosio) e l�intero organismo è impegnato a tamponare questa domanda.

la domanda iniziale di glucosio può essere soddisfatta con la riconversione del suo polimero, il

glicogeno, che era stato depositato nel fegato e nei muscoli. L�entità di glicogeno così disponibile è

però molto bassa ( in realtà il glicogeno serve a tamponare le situazione di grave emergenza, come

una improvvisa caduta della glicemia o la necessità di energia per i muscoli per una fuga) per la

domanda energetica di rivolge al tessuto di elezione per l�accumulo: il tessuto adiposo.

Sfortunatamente l�acetato e gli acidi grassi a più lunga catena non possono essere utilizzati per la

produzione di glucosio (si veda a proposito il riquadro inferiore dell�ultima figura allegata: la

freccia che porta da piruvato a acetil_COA è unidirezionale). Esiste una sorta di limite metabolico:

tutti i composti C3 (acido propionico, glicerolo, ecc.) possono essere utilizzati per la

gluconeogenesi; i composti C2 o i loro polimeri (C4, C6, ecc..) invece non sono impiegabili per

questo scopo. Il risultato è che dall�idrolilsi dei trigliceridi del tessuto adiposo può essere utilizzata

per la produzione di glucosio soltanto la glicerina. La forte richiesta di energia ( in realtà di

glucosio) porta però alla mobilizzazione degli AG dal tessuto adiposo: questi, arrivati nel fegato

sotto forma di AG non esterificati (NEFA = not estrified fatti acid) , non possono essere utilizzati

nella gluconeogenesi e pertanto sono captati dai mitocondri per la produzione di ATP e, la quota in

eccesso, è eliminata dal fegato sotto forma di corpi chetonici (aceto-acetato, betaibrossibutirrato).

Se la richiesta di glucosio è imponente e il rifornimento alimentare di propionato insufficiente

(razioni povere in amidi; livello di ingestione basso), il fegato inizia a produrre una quantità

notevole di corpi chetonici che sono utilizzati dai tessuti per fini energetici, ma che sono anche

eliminati dall'animale con l�expirium e con le urine; questa perdite netta di energia aumenta lo

sbilanciamento energetico e. se non si mette rimedio con la somministrazione di razioni più

adeguate, si può incorrere in una sindrome dismetabolica nota come CHETOSI che dalla forma

subclinica (cioè senza sintomi evidenti) può sfociare in conclamata e mettere a repentaglio anche la

vita dell�animale (le produzioni sicuramente). Questa dismetabolia è più frequente: a) nella vacca da

latte nelle prime settimane di lattazione, per la nota disincronia fra il massimo livello produttivo

(che si verifica intorno alle 6 settimane), ed il massimo livello di ingestione (che si verifica intorno

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ai 3 mesi); b) nelle pecore, nelle ultime settimane di gestazione soprattutto con gravidanze plurime,

quando la domanda di glucosio del feto è alta e l�ingestione alimentare è limitata proprio dalla

presenza del feto. Il diagramma allegato mostra, nella prima figura, la via della formazione del

betaidrosibuttirrato e, nella seconda figura, le modalità con cui i trigliceridi sono sintetizzati e

veicolati sotto forma di lipoproteine (fase anabolica) o utilizzati per la produzione di energia nel

mitocondrio (fase catabolica) con produzione di corpi chetonici.

Fra tutte le mobilizzazioni evidenziate dal diagramma, quella degli aminoacidi dai muscoli

interviene per ultima e porta alla perdita nella di massa corporea dell�animale (la variazione del

tessuto adiposo è, di solito, temporanea in quanto con buone condizioni alimentari il livello delle

riserve corporee è ristabilito).

In sintesi: un bilancio nutritivo positivo da la garanzia che l�energia in eccesso sia conservata sotto

forma di lipidi; uno negativo deve comunque assicurare una produzione di glucosio tale da far

fronte alla domanda delle funzioni vitali e produttive degli animali ed evitare un aumento dei corpi

chetonici circolanti.

2.6.3 Il ciclo dell�urea

L�ammoniaca prodotta in eccesso nel rumine nel corso delle fermentazioni (e lo ione ammonio

derivante dalla deaminazione degli AA) è rimossa dal sangue ad opera del fegato e trasformata in

urea. Tale funzione epatica è indispensabile in quanto l�NH3 è tossica, soprattutto per il tessuto

nervoso in quanto blocca l�ossalacetato (verso la reazione del 2-oxoglutarato) che è invece un

metabolita indispensabile per la respirazione.

In sintesi il ciclo dell�urea (detto anche dell�ornitina-citrullina) si svolge in parte entro il

mitocondrio dell�epatocita, in parte nel citoplasma; dal digramma allegato possiamo verificare che

dei 2 gruppi NH3 dell�urea, uno deriva dal glutammato ed uno dall�azoto ammoniacale che deve

essere smaltito. Ciò significa che per ogni mole di ammoniaca da smaltire una mole di gruppi

amminici è di origine endogena. Come è possibile osservare, tutta la reazione è fortemente

endoergonica: si consumano 4 moli di legami P per mole di urea sintetizzata, per cui un g di azoto

trasformato in urea ha un costo metabolico di 12.000 kcal.

In sintesi, nei casi in cui si abbia uno sbilanciamento fra apporti energetici e apporti proteici (sia in

termini quantitativi che in termini di cinetica di degradazione), oppure nel caso di forte domanda di

glucosio che comporta una elevata attività di deamminazione a carico degli AA neoglucogenetici,

l�ammoniaca prodotta nel rumine è convertita in urea dal fegato con un aggravio energetico

notevole. Basti pensare che 100 g di proteina grezza inutilizzata nel rumine sono equivalenti per una

pecora alla spesa energetica necessaria alla produzione di 200 g di latte.

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3. GENETICA DI POPLAZIONE APPLICATA AL MIGLIORAMENTO DEGLI ANIMALI ZOOTECNICI 3.1 INTRODUZIONE La branca della zootecnica che tratta i metodi di riproduzione e di miglioramento si fonda sulle

attuali conoscenze della genetica. I fenomeni ereditario sono considerati non solo nel ristretto

quadro delle generazioni filiali (F1, prima generazione filiale; F2 seconda generazione filiale, ecc..),

ma sono ricompresi nel più vasto ambito delle popolazioni animali.

Per popolazione animale si intende un gruppo costituito da molti individui (tale che possiamo

approssimare le statistiche su esso calcolato ai valori asintotici per n→∞) appartenenti alla stessa

specie o, all�interno della stessa specie, alla stessa razza, definiti nel tempo, nello spazio e dai

caratteri oggetto di interesse zootecnico.

La genetica di popolazione, applicata alle scienze zootecniche, é una branca della genetica che

studia, con metodi matematici, statistici e sperimentali, le cause ed i meccanismi che determinano la

distribuzione e le variazioni dei genotipi al passare delle generazioni nonchè la dinamica delle

popolazioni e fornisce così un insieme di modelli teorici e di prove sperimentali capaci di chiarire il

processo di evoluzione della specie.

Se le forzanti agenti sul sistema popolazione, in grado di favorire alcuni genotipi a scapito di altri,

sono di origine naturale, siamo in presenza del fenomeno della �selezione naturale�, scoperto da

Charles Darwin e che oggi rappresenta il paradigma largamente accettato per spiegare il fenomeno

dell�evoluzione delle specie. Se la scelta degli individui é fatta dall�uomo, secondo criteri di

convenienza, la selezione é detta artificiale e si sovrappone, e a volte contrappone, a quella naturale.

Poichè gli zigoti derivano dall�unione di due gameti, maschile e femminile, e l�espressione genetica

è fondamentalmente il risultato della combinazione indipendente di due geni alleli (uno per

cromosoma paterno e materno), la comprensione dei meccanismi di combinazione genetica non può

prescindere dalla conoscenza dei principi della probabilità. Ne daremo ora un accenno sommario,

richiamando i concetti principali che utilizzeremo poi nella disciplina.

Il lancio ripetuto per numerosissime volte di una moneta (non truccata) porta ad ottenere un numero

equivalente di teste e di croci. Maggiore sono le ripetizioni, più tale equivalenza converge al limite

del 50% degli eventi. Da ciò deriva che la probabilità di tale evento (testa nella moneta) é data dal

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rapporto fra l�evento stesso e la somma di tutti gli eventi possibili del fenomeno esaminato (questa é

la prima grossolana definizione di probabilità).

Nel caso di un dado (non truccato), vi sono 6 possibili eventi (le facce del dado) e, dopo un elevato

numero di lanci, ciascuna di esse sarà risultata con una frequenza che si avvicina ad 1/6: ne

deduciamo che la probabilità di ottenere una determinata faccia é di 1/6. Ancora, da un bussolotto

contenente 100 biglie, 20 verdi, 30 rosse e 50 bianche, compiamo numerose estrazioni di 10 biglie.

La frequenza media dei colori si avvicina al rapporto 0,2 verdi, 0,3 rosse e 0,5 bianche.

Definiamo allora la probabilità di determinato evento:

se un evento può avvenire in n modi egualmente possibili (equipotenti) che si escludono a vicenda

(mutualmente esclusivi), dei quali �a� possiede una certa proprietà �x�, la probabilità di ottenere

�x� é data dalla relazione:

p(x) = a/n

Nel caso in cui gli eventi non siano mutualmente esclusivi, ma siano indipendenti, la probabilità che

si verifichino entrambi é data dal prodotto delle singole probabilità:

p(x e y) = p(x) p(y)

Ad esempio, nel caso di due lanci di una moneta, la probabilità di ottenere due volte consecutive

�testa� é di 0,5 x 0,5 = 0,25; con tre lanci, la probabilità di ottenere tre �testa� in sequenza é di 0,5 x

0,5 x 0,5 = 0,125.

Un caso classico, fonte di sorpresa e di grandi discussioni, é il rapporto statistico dei sessi alla

nascita. Nella realtà, le famiglie in cui sono presenti 8-10 figli maschi (oppure femmine)

costituiscono un caso noto a tutti noi, ma non possiamo dire che sia un caso frequente. Come

sappiamo, il sesso é determinato all�atto della fecondazione dallo spermatozoo che può portare nel

proprio corredo aploide il solo cromosoma X o Y (questo negli artiodattili, mentre nel caso dei

volatili é il contrario), mentre l�oocita ha il solo cromosoma X. Poichè gli spermatozoi sono prodotti

in grande copia dal maschio (alcuni miliardi), moltissimi di questi si affollano intorno all�oocita

prima che solo uno di essi riesca a fecondarlo rendendo così praticamente uguale (50%) la

probabilità che questo evento sia operato indifferentemente da un tipo o dall�altro. Il rapporto dei

sessi alla nascita si avvicina, pertanto, al 50% (salvo fattori occasionali che possono generare delle

derive).

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Se indichiamo con p la probabilità di ottenere un maschio e con q quella di ottenere una femmina,

avremo che p = 0,5 e q = 0,5, con p + q = 1.

Supponiamo che una vacca partorisca nella sua carriera riproduttiva 6 vitelli e vogliamo conoscere

quale sarà la ripartizione dei sessi dei nascituri. Intuitivamente potremo dire che avrà 3 vitelli e 3

vitelle, ma questa non é l�unica possibilità. Infatti potremo avere:

1. 6 femmine

2. 5 femmina + 1 maschio

3. 4 femmine + 2 maschi

4. 3 femmine + 3 maschi

5. 2 femmine + 4 maschi

6. 1 femmina + 5 maschi

7. 6 maschi.

Sempre intuitivamente, pensiamo che le probabilità degli eventi 3 e 5 sono uguali, inferiori a quelle

dell�evento 4 che dovrebbe essere la massima, e superiori a quelle degli eventi 2 e 1 e 6 e 7. E

abbiamo ragione! Ma quali sono queste probabilità? Ci viene incontro una vecchia conoscenza, lo

sviluppo del binomio

(p + q)n

i cui coefficienti possono essere calcolati con il �famoso� triangolo di Tartaglia

Nel nostro caso avremo che p = 0,5 (probabilità di ottenere maschi), q = 0,5 (probabilità di ottenere

femmine) e n = 6, per cui lo sviluppo del binomio é il seguente:

(p+q)6 = p6 + 6p5q + 15p4q2 + 20p3q3 + 15p2q4 + 6pq5 + q6

a cui corrispondono le seguenti probabilità (simmetriche) dei 7 eventi cercati:

1. 6 femmine 0,016

2. 5 femmina + 1 maschio 0,093

3. 4 femmine + 2 maschi 0,234

4. 3 femmine + 3 maschi 0,312

5. 2 femmine + 4 maschi 0,234

6. 1 femmina + 5 maschi 0,093

7. 6 maschi. 0,016

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Dall�elenco si deduce che la probabilità di trovare un evento 7 oppure un evento 1 é molto bassa.

In pratica, in una stalla di 500 vacche di razza Bruna, le bovine capaci di ottenere una carriera

riproduttiva di 6 femmine (evento molto ricercato dagli allevatori, perchè le femmine costituiscono

la quota di rimonta della stalla, mentre i maschi sono quasi tutti �svenduti� per la macellazione)

sono: 500 x 0,016 = 7,8 ≈ 8!

La potenza del binomio vista più sopra da origine ad una distribuzione cosiddetta �binomiale� che,

per n→∞, si approssima alla distribuzione �normale� o curva Gaussiana.

3.2 SPECIE, RAZZE E POPOLAZIONI

Abbiamo detto che la genetica di popolazione studia la dinamica dei geni nella popolazioni con

l�ausilio di metodi matematico-statistici e sperimentali. Tuttavia, occorre operare una distinzione

fra popolazioni animali e popolazioni di geni.

Per popolazione animale intendiamo un insieme di individui la cui numerosità tende all�infinito (o é

talmente elevata da approssimare le statistiche a tale limite) capaci di riprodursi fra loro. La specie

può essere considerata una popolazione animale.

Per specie si intende un gruppo di organismi aventi in comune un numero rilevante di caratteri

morfologici, fisiologici ed ecologici, capaci di riprodursi fra loro generando prole illimitatamente

feconda.

Il concetto di razza deriva dall�osservazione che all�interno delle varie specie esiste un

polimorfismo (diversa modalità con cui si presenta un determinato carattere, ad esempio il colore

del mantello) più o meno rilevante per diversi caratteri. La definizione più semplice é quella che

considera la razza come un insieme di individui della stessa specie che si distinguono per

caratteristiche somatiche e funzionali proprie trasmissibili ai discendenti per eredità.

Questa definizione é stata completata con il concetto genetico di razza (gruppo di individui della

stessa specie, omozigoti rispetto a uno o più caratteri) dal concetto zootecnico secondo cui la razza

é una popolazione risultante dalla mescolanza di genotipi diversi, ma affini per espressione

fenotipica, per cui gli individui della stessa razza presentano un complesso di caratteri morfologixi,

fisiologici e funzionali simili e trasmissibili ereditariamente.

Oggi il concetto di razza é in via di veloce superamento in quanto inglobato da quello di

popolazione che, nella tassonomia classica era subordinato a quello di razza e definiva gruppi di

soggetti distinguibili dagli altri della stessa specie, ma non ancora dotati di caratteristiche definite. Il

termine oggi prevalente é quello di �gruppo genetico� che comprende un raggruppamento di

animali della stessa specie dotati di caratteristiche comuni differenziate rispetto alla media dei

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caratteri di interesse zootecnico presenti nella specie a cui appartengono. Tuttavia., essendo il

concetto di razza zootecnica fortemente radicato nella pratica, continuiamo ad utilizzalo ben consci

delle limitazioni a cui é soggetta una tale rigida tassonomia.

Le razze zootecniche sono descritte generalmente in termini di medie statistiche dei caratteri

rispetto alle quali esse differiscono dalla specie o da altre razze della stessa specie. Questa

impostazione �biometrica� (= misurazioni applicate sul vivente) ha il pregio di stabilire degli

�standard� per mezzo dei quali gli individui di un determinato gruppo candidato a diventare razza

possono essere comparati fra di loro e con quelli appartenenti a una differente razza.

In termini genetici, le differenze fra le razze sono dovute ordinariamente a variazioni nelle

frequenze relative dei geni nelle varie popolazioni piuttosto che alla mancanza di certi geni

indeterminati individui e alla omozigosi dei geni stessi in altri gruppi di individui.

Le razze non sono un�entità statica, ma sono il frutto di un processo in continua evoluzione. La

formazione di una razza avviene quando la frequenza di un gene, o un gruppo di geni, diventa

leggermente diversa in un gruppo di animali rispetto alla popolazione di appartenenza (le cause

della variazione possono essere naturali oppure, come nelle specie zootecniche, artificiali). Se il

gruppo di individui con la frequenza variata é isolato rispetto al resto della popolazione, la

differenziazione genetica si accresce e si consolida rispetto alla restante popolazione sino a

giungere, talvolta, alla perdita di alcuni geni e alla fissazione dei loro alleli (vedi oltre per il

meccanismo).

Lo studio esauriente di una razza comprende la conoscenza:

1) dell�origine, che porta a verificare l�eventuale derivazione da razze preesistenti, la formazione

nel luogo in cui é allevata (e da cui normalmente prende il nome, es. la razza ovina Sarda dalla

Sardegna, la razza bovina Frisona dalla Frisia, ecc..) per cui può essere considerata autoctona, il

grado di selezione artificiale che ha subito, ecc.... La denominazione della razza può derivare

anche da caratteri morfologici salienti (Bruna nei bovini a causa del mantello bruno; Large

White nei suini, un quanto si trattava di un animale di grossa mole e con mantello chiaro)

oppure dai metodi di selezione applicati (Purosangue inglese, derivato dall�applicazione della

consanguineità);

2) dell�area di diffusione, per cui può essere classificata come razza locale (non é allevata

all�infuori dell�areale di origine), diffusa (é presente in altre aree limitrofe a quella di origine)

oppure cosmopolita (é presente in molte parti del continente o del mondo);

3) della consistenza, che può essere elevata (svariati milioni di capi), media (da qualche centinaia

di migliaia fino al milione di capi), bassa (alcune migliaia), o di reliqua (da poche centinaia a

pochi soggetti);

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4) dei principali caratteri morfologici, costituiti da peso e mole dei due sessi e alle età tipiche, dal

mantello, dalle principali misure somatiche (altezza al garrese, lunghezza del tronco,

circonferenza toracica, ecc..), dalla presenza di corna o di altri caratteri di specie, ecc.

5) dei principali caratteri produttivi, costituiti da quantità e qualità delle produzioni, durata della

carriera produttiva e variabilità delle produzioni stesse intorno alla media della razza;

6) dei principali caratteri riproduttivi, costituiti dall�età al primo parto (per le femmine) e al

primo salto (per i maschi), dalla fertilità (% delle femmine gestanti nel corso dell�anno rispetto

alle femmine adulte), della prolificità (n. di nati per parto) e della fecondità (fertilità x prolificità

= n. di nati per femmina adulta e per anno).

Le razze degli animali zootecnici, pur potendosi considerare �pure� rispetto ad un numero assai

limitato di caratteri, costituiscono delle popolazioni che presentano nel loro seno un grado rilevante

di variabilità genetica e quindi una serie di genotipi diversi, benché affini sotto l�aspetto della

manifestazione dei caratteri fenotipici. Una razza-popolazione deve essere considerata come una

popolazione mendeliana di genotipi, o ancora meglio, di geni la cui distribuzione negli zigoti é

regolata dai due meccanismi della:

1) segregazione dei geni alla gametogenesi, e le conseguenti numerose combinazioni che si

ottengono negli individui eterozigoti che producono, come é noto, 2n classi di gameti, dove n é

il numero di geni presi in considerazione;

2) probabilità d incontro dei gameti alla fecondazione, che ovviamente dipende dalla frequenza

delle singole classi di gameti rispetto a tutti quelli prodotti nell�intera popolazione.

Nello studio teorico dei problemi attinenti alla distribuzione dei genotipi individuali, ai principi

mendeliani, si aggiunge il criterio probabilistico delle frequenze con le quali si verificano le unioni

fra gameti e si originano gli zigoti.

3.3 NUMEROSITA� DEI GENI E DEI GENOTIPI POSSIBILI

Le ricombinazioni dell�assetto cromosomico che si verificano al momento della gametogenesi

rappresentano una fonte notevole di variabilità. Sotto l�aspetto statistico, la produzione degli

spermatozoi e degli oociti é un vero e proprio campionamento che obbedisce alla regola di formare

un campione pari alla metà dell�assetto cromosomico individuale, nel quale sia compreso un

cromosoma per ogni coppia. Poichè i geni presenti in ciascun cromosoma sono numerosissimi

(diverse migliaia), é praticamente impossibile che ciascun paio abbia esattamente gli stessi geni (ad

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es. AA, bb, cc, DD, EE, .....KK). La condizione media più probabile é quella di una prevalenza dei

loci eterozigoti su quelli omozigoti (ad es. Aa, BB, Cc, dd, ....Kk). Ne consegue che non si può

avere una vera eguaglianza fra il patrimonio genetico contenuto nei cromosomi i ciascun paio e

quindi, se n é il numero aploide dei cromosomi di una specie, il numero di classi di gameti portatori

di un patrimonio ereditario sostanzialmente diverso sarà pari a 2n, mentre il numero dei genotipi

possibili assommerà a 3n. Nel caso dei bovini, in cui n = 30, il numero di genotipi possibili é di 330

= 205.891.132.094.649, cifra di gran lunga superiore al numero di bovini passati, presenti e futuri

apparsi sulla terra. Possiamo quindi ragionevolmente affermare che, a meno che il numero degli

eterozigoti esistenti in una popolazione non sia molto limitato, il numero di individui che possono

differire nel patrimonio genetico é praticamente infinito.

Tuttavia, occorre tenere presente che, pur essendoci un gran numero di geni nel patrimonio

individuale, molti di essi hanno manifestazioni fenotipiche simili e additive (poligeni), altri

agiscono cooperando con geni maggiori nel determinare i singoli caratteri, molti infine non

possiedono manifestazioni visibili pur agendo sulla vitalità e fecondità degli animali. Possiamo

quindi affermare che a medesimi fenotipi possono corrispondere, e corrispondono nella realtà,

genotipi differenti, di cui alcuni omozigoti e la maggior parte eterozigoti. Questo aspetto

rappresenta un grosso ostacolo nel lavoro di miglioramento genetico delle razze, date le dificoltà

che si incontrano nell�identificare e nell�isolare quegli individui che, pur pregievoli per i loro

caratteri, sono anche geneticamente puri e perciò capaci di trasmettere ai discendenti le

caratteristiche desiderate.

3.4 LA FREQUENZA DEI GENI NELLE POPOLAZIONI ZOOTECNICHE

Immaginiamo una popolazione infinita (o estremamente numerosa) nella quale esistono due geni

alleli A e a e supponiamo che il numero dei gameti prodotti da ciascun individuo adulto sia lo

stesso. Ammettiamo ancora che non vi siano differenze nella fecondità, né nella sopravvivenza

degli individui, che gli accoppiamenti avvengano in maniera casuale e che il rapporto fra i sessi sia

del 50%. Queste condizioni (teoriche) sono denominate panmissia e le popolazioni animali che

ricadono sotto queste condizioni sono dette panmittiche.

In tali condizioni l�incontro fra spermatozoo e ovocellula é perfettamente casuale e poiché ogni

gamete é portatore di un solo allele (A oppure a) ne deriva che le probabilità di ottenere i tre

genotipi possibili (AA, Aa, aa) dipendono esclusivamente dalla frequenza dei due alleli nella

popolazione (e quindi nella massa dei gameti).

La frequenza di un gene in una popolazione é il rapporto fra i loci occupati dal gene e il numero

totale di loci disponibili

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Se la frequenza dei due alleli é indicata con p(A) e q(a), tale che p+q=1, la distribuzione dei

genotipi nella popolazione sarà funzione della frequenza dei geni nella stessa. La percentuale dei

genotipi in funzione della frequenza del gene A nella popolazione é riportata nella figura 3.1.

Dall�analisi del grafo si evince che mentre in una popolazione può essere teoricamente ottenuta la

totale omozigosi, dominante o recessiva, con l�eliminazione dell�allele dominante o di quello

recessivo, la frequenza massima ottenibile del genotipo eterozigote é del 50%. Le variazioni delle

frequenze eterozigotiche, al cambiare di una unità di frequenza di un gene, sono inoltre inferiori a

quelle omozigotiche.

Nella tabella 3.1 é mostrato lo sviluppo numerico di tale affermazione

Figura 3.1 � Andamento della frequenza dei genotipi in una popolazione panmittica al variare dela frequenza di un allele.

0102030405060708090

100

0 0,2 0,4 0,6 0,8 1

Frequenza del gene A

% d

i gen

otip

i nel

la p

opol

azio

ne

AaAAaa

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Tabella 3.1 - Percentuale dei vari genotipi nella popolazione al variare della frequenza del gene A

p(A) Aa% AA% aa% 0 0 0 100

0,05 9,5 0,25 90,250,1 18 1 81

0,15 25,5 2,25 72,250,2 32 4 64

0,25 37,5 6,25 56,250,3 42 9 49

0,35 45,5 12,25 42,250,4 48 16 36

0,45 49,5 20,25 30,250,5 50 25 25

0,55 49,5 30,25 20,250,6 48 36 16

0,65 45,5 42,25 12,250,7 42 49 9

0,75 37,5 56,25 6,250,8 32 64 4

0,85 25,5 72,25 2,250,9 18 81 1

0,95 9,5 90,25 0,251 0 100 0

La regola dello sviluppo binomiale de genotipi di una popolazione panmittica ssi estende anche a

due o più coppie di geni alleli indipendenti (cioé con associazione praticamente nulla). Se

indichiamo p(A), q(a), p1(B) e q1(b) le frequenze di due coppie indipendenti di geni, la distribuzione

dei genotipi nella generazione F1 é data dallo sviluppo della relazione

[p(A) + q(a)]2 x [p1(B) + q1(b)]2

In generale, la distribuzione statistica dei genotipi derivanti dalla libera combinazione di n paia di

geni alleli è un polinomio di ordine 2n della forma

[p(A) + q(a)]2 x [p1(B) + q1(b)]2 x [p2(C) + q2(c)]2 x ......... x [pn(K) + qn(k)]2

3.5 EQUILIBRIO GENETICO NELLE POPOLAZIONI ZOOTECNICHE

Una importante conseguenza della distribuzione binomiale dei genotipi venne scoperta

indipendentemente da due genetisti Hardy e Weinberg i quali studiarono la struttura dei genotipi e

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la frequenza degli alleli nel passare da una generazione alla successiva nella popolazioni

panmittiche.

Nel 1908, i due studiosi supposero che in una popolazione panmittica fossero date delle frequanze

genotipiche, ad esempio 64% AA, 32%Aa e 4% aa. Poichè la frequenza zigotica è il quadrato di

quella gametica, possiamo ricavare facilmente quest�ultima

p(A) = √fAA = √0,64 = 0,80

q(a) = 1-0,80 = 0,20

cioé nella popolazione saranno prodotti l�80% dei gameti con il gene A e il 20% di gameti con

quello a. Tenute conto le caratteristiche della popolazione panmittica, la probabilità di incontro

dei gameti portatori dei due alleli sarà proporzionale alla frequenza, per cui si avrà nella

generazione successiva la distribuzione zigotica

0,82AA : 2x0,8A0,2a : 0,22a = 0,64AA : 0,32Aa : 0,04 aa

vale a dire, che la nuova generazione avrà esattamente la stessa composizione genetica della

generazione parentale.

La �legge di Hardy-Weinberg� afferma che, in condizioni di riproduzione casuale e in popolazioni

molto numerose (vicine alla panmissia teorica) la distribuzione dei genotipi e la frequenza dei geni

non subiscono alcuna modificazione con il passare delle generazioni. In altri termini, la

composizione genetica di una popolazione panmittica resta costante e non dipende che dalla

frequenza dei singoli geni.

Questa legge ovviamente non può essere valida in alcun caso, essendo le restrizioni poste alla

definizione di popolazione panmittica non realizzabili in nessuna delle popolazioni reali. Tuttavia, é

partendo da tale �assurdo� che é possibile confutare la legge a studiare i fattori che tendono a

modificare le frequenze zigotiche e gametiche al passare delle generazioni e, pertanto, a verificare

quantitativamente l�influenza di tali cause sul disequilibrio genetico registrabile in popolazioni

animali o in gruppi di individui da esse derivati.

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3.6 APPLICAZIONI DELLA LEGGE DI H-W

La legge di Hardy-Weinberg é particolarmente utile nei seguenti 3 casi.

Frequenza genica un allele recessivo: se i genotipi della popolazione sono in equilibrio di H-W ,

l�allele cercato é ottenibile anche se non conosciamo la frequenza dei 3 genotipi con la equazione

q(a) = [f(aa)]1/2

Parimenti si può ottenere la proporzione della popolazione che é portatrice del gene recessivo

trovando la frequenza degli eterozigoti che é data da

f(Aa)/T = 2q(1-q), nell�intera popolazione e

Frequenza di portatori: può interessare la conoscenza dei portatori del gene recessivo all�interno

della popolazione normo-fenotipica. Tale frequenza é calcolata dalla relazione

f(Aa)/Norm. = 2q/(1+q), fra gli individui fenotipi dominanti

Test di equilibrio di H-W: con l�impiego di alcuni marcatori genetici é possibile calcolare la

frequenza dei geni in una popolazione parentale. Se la frequenza dei genotipi osservata nella F1 non

scosta in maniera significativa da quella teoricamente attesa, allora la popolazione é in equilibrio

genetico

3.7 CAUSE DI DISEQUILIBRIO GENETICO DELLE POPOLAZIONI ZOOTECNICHE

(ovvero, la legge di Hardy Weinberg non é valida, quasi, mai)

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Le cause di ordine naturale o artificiale (cioè provocate dall�intervento dell�uomo) che allontanano

le popolazioni animali dalla staticità genetica sono numerose. La conseguenza é che la invariabilità

genetica della popolazione dovuta alla panmissia viene meno per cui le popolazioni si evolvono.

I fattori più importanti in grado di determinare la modificazione delle frequenze dei geni nelle

popolazioni sono:

a) le migrazione

b) le mutazioni

c) la deriva genetica

d) la selezione

e) i sistemi di accoppiamento

Analizziamo ora ciascuna di queste cause e le conseguente nell�evoluzione delle popolazioni

animali .

a. Migrazione.

Una popolazione animale ristretta (quale una razza zootecnica) non é mai isolata da altri gruppi di

animali della stessa specie. Il fenomeno della migrazione, importante causa di variazione delle

frequenze genetiche nelle popolazioni naturali, é sostituita nel caso degli animali zootecnici dal

commercio di soggetti che permette lo scambio di individui fra varie popolazioni. In tal modo le

due popolazioni (quella migrante e quella ricevente) sono mescolate e perdono, o guadagnano, un

certo numero di geni modificando in tal modo la frequenza allelica.

La nuova frequenza genetica q1 può essere quantificata con la relazione:

q1 = (1-m)q + mqx

in cui m é la frazione della popolazione scambiata , q é la frequenza del gene nella popolazione

originaria e qx è la frequenza del gene nella popolazione migrante .

Ad esempio, se fra due popolazioni di bovini é scambiato il 5% degli effettivi, (m = 0,05), la

frequenza di un gene nella popolazione originaria é di q = 0,5 e quella nella popolazione migrante

é qx = 0,3, la nuova frequenza del gene q1 é

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q1 = (1-0,05)0,5 + 0,05x0,3 = 0,49

Se invece la frazione in uscita degli animali non é bilanciata da una eguale frazione in entrata,

occorre fare i conti con i geni che escono e con quelli che entrano.

Se nella popolazione originaria costituita da 1000 soggetti p(A) = 0,7 e in quella migrante nella

prima con 100 soggetti px(A) = 0,3, nuova frequenza dell�allele si ottiene con il seguente calcolo.

Genotipi della popolazione originaria = 490 AA; 420 Aa; 90 aa;genotipi nel gruppo immigrato

(considerato un campione casuale della popolazione di provenienza) = 9 AA; 42 Aa, 49 aa.

Nuovi genotipi nella nuova popolazione di 1100 individui = 499 AA; 462 Aa; 139 aa

Gameti A = 499 + 231= 730; a = 139+231 = 370

Frequenza gametica = p1 (A) = 730/1100 = 0,664 ; q1 (a) = 370/1100 = 0,336

b. Mutazioni

Le mutazioni sono delle variazioni del patrimonio genetico dovute a cause naturali (errori di

trascrizione nella replicazione del DNA, radioattività natrale, ecc., ) o artificiali (esposizione a

sostanze mutagene, radioattività artificiale) che portano a delle alterazioni nella frequenza dei geni

in una popolazione.

Noi considereremo solo le mutazioni che agiscono sulla struttura del gene tali che A1 →A2

Le mutazioni possono essere dirette, se il gene originale muta nel nuovo gene, oppure inverse se il

gene mutato torna, con lo stesso meccanismo, allo stato di gene originario. La velocità con cui le

mutazioni si compiono é detto tasso di mutazione, diretto (µ) e inverso (ν), calcolati dalla

frequenza con cui i nuovi geni compaiono nella generazione successiva.

In altre parole, se il gene A1 muta in A2 con una frequenza µ per ciascuna generazione (ossia µ é la

proporzione di tutti gli A1 che mutano in A2 da una generazione alla seguente) e se poniamo la

frequenza di questo gene nella popolazione parentale pari a p0, la frequenza del gene mutato A2

nella generazione successiva (q1) sarà data dalla somma della frequenza del gene nella generazione

parentale q1 = q0 + µp0, mentre la nuova frequenza del gene originale A1 é p1 = (p0 � µp0).

Le mutazioni sono un evento raro; il tasso di mutazione naturale é compreso fra µ= 1:10.000 �1:

1.000.000). Poichè i geni mutati sono in genere recessivi, occorrono alcune generazioni (o

popolazioni molto numerose) affinché possa comparire un genotipo omozigote recessivo e dare così

visibilità al gene.

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Ad esempio, se il gene A1�colorazione del mantello� degli asinelli muta in quello recessivo

A2�albino� con un tasso di 1:50.000 da una generazione all�altra e la popolazione di asinelli

italiana é di 100.000 soggetti, ad ogni gametogenesi avremo che si formano 4 geni mutati. Infatti,

gli alleli sono 200.000 corrispondenti ad altrettante classi di gameti, per cui con µ=1/50.000=

0,00002, si hanno 0,00002 x 200.000= 4 gameti portatori del gene mutato. Se nella popolazione di

asinelli sono presenti 250 soggetti albini (quasi tutti locati all�Asinara) la frequenza del genotipo

albino (A2A2) nella popolazione originaria é di q2(A2A2) = 250/100.000 = 0,0025, per cui q0(A2) =

0,05 e p0(A1) 1 � 0,05 = 0,95. La nuova frequenza del gene mutato nella popolazione alla

successiva generazione é

q1(A2) = 0,05 + 0,95 x 0,00002 = 0,05002

per cui gli asinelli bianchi nella generazione F1 sono dati dalla relazione

[q1(A2A2)]2 x n. = 0,050022 x 100.000 = 0,00025052 x 100.000 = 250,2

cioè, la probabilità di ottenere un �ulteriore� asinello albino nella generazione successiva é

inferiore all�unità, per cui occorrono almeno cinque generazioni per maturare la possibilità di

ottenere almeno un altro asinello bianco nella popolazione.

Nel caso di mutazioni reciproche, si osserva un accumulo del gene mutato A2 nella popolazione se

il tasso di mutazione diretta é superiore a quello di mutazione inversa, cioè µ > ν; viceversa se µ <

ν.

In generale, nella popolazione le variazioni della frequenza del gene originale in presenza di

entrambi i sensi di mutazione é data dalla

∆p = µp0 - νq0

Riprendendo l�esempio precedente, se il tasso di mutazione inversa da albino e normale é di 10

volte inferiore a quello i mutazione diretta, cioè ν= 0,000002, la variazione della frequenza del

gene normale nella popolazione é

∆p = 0,00002x0,9842 � 0,000002x0,0158 = 0,00001965240

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E� evidente che in questa relazione, mano a mano che il gene mutato si accumula nella popolazione,

la variazione della frequenza del gene originale diminuisce, in quanto aumenta la frequenza dei geni

mutati e si riduce quella dei geni originali. Con il passare delle generazioni questa progressione

tende a zero, ovvero all�equilibrio genetico anche per i mutanti e il punto di equilibrio si ottiene per

∆p = 0 , per cui

µp = νq ;

p/q = ν /µ;

poiché q= 1-p, possiamo sostituire p/(1-p) = ν /µ; da cui p = (ν- ν p) /µ; µp= ν- ν p; µp + ν p = ν da

cui si ricava le relazione per cui si ha l�equilibrio genetico

p = ν/ (µ + ν)

Nel nostro esempio, l�equilibrio genetico si raggiunge nella popolazione di asinelli quando la

frequenza del gene normale é

p(A1) = 0,000002/(0,00002+0,000002) = 0,0909

cioé quando i genotipi albini hanno una frequenza di 0,826446281, corrispondenti a 82.644

asinelli. Nella ipotesi che la popolazione di asinelli italiani si avvicini alla panmissia, occorreranno

oltre 35.000 generazioni affinché la frequenza del genotipi normale scenda a circa il 50% (ossia

che la popolazione sia costituita dal 25% di asinelli albini) e diverse centinaia di migliaia di

generazioni per raggiungere l�equilibrio genetico.

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Figura 3.2 � Andamento del gene albino sottoposto a sola mutazione.

Con questo esempio possiamo apprezzare che le sol mutazioni che agiscono anche in popolazioni di

media dimensione hanno un effetto limitatissimo sulla frequenza dei geni.

c. Deriva genetica casuale (random genetic drift).

Alla gametogenesi avviene una estrazione casuale dei geni presenti nella popolazione. Maggiore é il

numero di soggetti che costituiscono la popolazione, più vicina sarà la probabilità che la frequenza

degli gametica degli alleli sia uguale a quella dei geni nella popolazione. In piccoli gruppi possono

però verificarsi delle discrepanze dovute alla limitatezza del numero degli individui. Questo

scostamento fra le frequenze teoriche e quelle effettivamente riscontrabili sulla base della

numerosità del campione é chiamata �deriva di campionamento� e, se il campionamento coinvolge i

geni della popolazione, prende il nome di �deriva genetica casuale�.

Riprendendo l�esempio precedente, la frequenza dell�allele �albino� nella popolazione di asini é

del 1,58% . Se però considero un gruppo di 100 animali estratti casualmente dalla popolazione

posso riscontrare una frequenza differente da quella della popolazione in quanto posso essermi

capitati animali con maggiore o minore frequenza del gene. Come abbiamo visto nel paragrafo 1,

Fequenza dei geni normale (A) e albino (a) nella popolazione di asini

0

0,2

0,4

0,6

0,8

1

1,2

0 10000 20000 30000 40000

Generazioni

Freq

uenz

a de

i gen

i

pAqa

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via via che ci allontaniamo dalla frequenza teorica, la probabilità che un evento accada si riduce

esponenzialmente.

La misura dell�errore di campionamento che proviene dalla numerosità degli eventi esaminati é

misurata dalla �deviazione standard della probabilità� che é data dalla relazione

σ = √pq/2n

dove p + q =1 e n = numerosità degli eventi, nel nostro caso il gruppo di soggetti.

Nell�esempio precedente, con 100 asinelli la probabilità di ottenere una frequenza teorica del gene

albino A2 in un gruppo di 100 asinelli é data da

p(A2) = 0,05±(0,05·0,95/200)1/2 =0,0 5%±0,0154

il che significa che il ho il 68% di probabilità che la frequenza dell�allele recessivo del gruppo di

animali ricada nell�intervallo fra 3,46% e 6,54%. Se avessimo scelto un gruppo di 50 soggetti,

questo intervallo sarebbe stato (σ= 0,0218) di 2,82% e 7,18%. Ciò significa in soldoni che la

probabilità di ottenere soggetti con una frequenza del gene A2 q(A2) = 0,0718 é del 16,5% (il dato

si trova esattamente su media+ deviazione standard; poichè all�esterno dell�intervallo media±

diviazione standard ricade il 33% della popolazione di eventi, 33/2= 16,5 che rappresenta

l�ordinata della equazione di Gauss nel punto di ascissa media±d.s.).

Questa causa di variazione delle frequenza genetiche nei piccoli gruppi é particolarmente

importante nel caso di popolazioni animali a numerosità limitata o reliquie. Una quota rilevante del

patrimonio genetico può andare perduta esclusivamente a causa della deriva genetica casuale.

d. Selezione

La trattazione di questo paragrafo riprende gli esempi descritti dal collega Pagnacco (Genetica

applicata alle popolazioni animali, CittaStudiEdzioni, Milano, 1996).

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Le frequenze dei geni nelle popolazioni e dei relativi caratteri ad esse associati possono essere

cambiati attraverso la selezione. Selezionare significa scegliere gli animali ai quali é permesso avere

dei discendenti. La selezione artificiale viene operata dall�uomo, il quale sceglie gli animali in

quanto portatori di un patrimonio genetico di interesse economico. La selezione naturale, la vera

grande forza agente sulle popolazioni e che secondo Darwin genera l�evoluzione, favorisce i

genotipi più adatti alle condizioni ambientali e sfavorisce i meno adatti. La sopravvivenza di un

gene in una popolazione sottoposta a selezione dipende dalla sua fitness , ossia dal suo adattamento

o capacità di lasciare discendenti. Con fitness si intende la proporzione del genotipo che si riproduce

rispetto agli altri genotipi. Fitness = 1 significa che quel genotipo si riproduce completamente, ossia

non é esercitata alcuna selezione nei suoi confronti. Fitness <1 significa che sul quel genotipo di

esercita una qualche selezione e nel caso limite del valore 0, quel determinato genotipo é totalmente

escluso dalla riproduzione.

Ad esempio, nei suini il gene per la sensibilità al gas alotano (H) é associato a forme patologiche

che compromettono la trasformazione delle carni in prodotti di salumeria. I soggetti sensibili

all�alotano (hh) sono riconoscibili a pertanto allontanati dall�allevamento; possono però restare

fra i riproduttori soggetti portatori (Hh) non riconoscibili. Supponiamo che in una popolazione in

equilibrio la frequenza degli omozigoti sia del 4%, per cui q(h)=0,2.

Avremo la seguente situazione

genotipo frequenze prima

della selezione fitness frequenze relative dopo la

selezione HH p2 = 0,64 1 p2 Hh 2pq = 0,32 1 2pq hh q2 = 0,04 0 0 Dopo l�intervento selettivo che escluderà completamente dalla riproduzione i soggetti sensibili

all�alotano (fitness del genotipo hh = 0), i geni h saranno meno frequenti nella popolazione: infatti

la frequenza di questo gene nella generazione successiva é data

q1 = ½ 2 pq/(1-q02) = q/(1 + q) = 0,1667

Qualora la selezione contro un gene recessivo sia protratta per n generazioni, la formula é

generalizzabile nella

qn = 0

0

1 nqq

+

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Questa formula deriva dalla considerazione che se noi eliminiamo dalla popolazione gli omozigoti

recessivi hh, la proporzione della popolazione che si riproduce é 1- q02, per cui i geni h possono

derivare solo dai genotipi Hh nella proporzione di ½, per cui

q1 = ½ 2 pq/(1-q0

2) poiché p0 = 1 � q0, e 1-q0

2 = (1-q0)(1+q0) avremo che (1-q0) q0 q1 = ----------------- = q0 /(1+q0) (1-q0) (1+ q0) Nell�esempio dei suini sensibili al gas alotano, la frequenza del gene h con il passare delle

generazioni, nei casi di q0 = 0,9 oppure 0,5, é illustrata nel grafico e tabella seguenti:

Figura 3.3 � Andamento della frequenza del gene recessivo h sottoposto a selezione contro (fitness

del genotipo h =0)

Selezione contro gene recessivo

0,000

0,100

0,200

0,300

0,400

0,500

0 20 40 60 80 100 120

Gnerazioni

Freq

uenz

a ge

ne h

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Tabella 3.2 � La frequenza del gene recessivo contro il quale si opera la selezione tende a diventare simile in poche generazioni. Generazione q0 = 0,9 q0 =0,5

0 0,900 0,500 1 0,474 0,333 2 0,321 0,250 3 0,243 0,200 4 0,196 0,167 5 0,164 0,143

10 0,090 0,083 50 0,020 0,019

100 0,010 0,010 1000 0,001 0,001

Dalla tabella e dal grafico é possibile comunque osservare che non é possibile eliminare

completamente il gene recessivo dalla popolazione.

Nel caso in cui sia possibile invece riconoscere l�eterozigote ed eliminarlo completamente, la

frequenza del gene recessivo nella popolazione dipenderà esclusivamente dal tasso di mutazione del

gene dominante in quello recessivo.

Nella pratica dell�allevamento comunque va considerato che non sempre é possibile l�eliminazione

di tutti gli omozigoti recessivi in relazione al mantenimento della dimensione della popolazione. Se

in un allevamento di 100 vacche, vi sono 50 individui aa che vorremo eliminare, non potremo

operare una tale selezione in quanto non sarebbe possibile mantenere una stabilità numerica della

stalla. Infatti, con una quota di rimonta annuale del 25% (ovvero, ogni anno mi servono 25

giovenche per rimpiazzare le vacche a fine carriera) e una fecondità della stalla del 80% (cioé ho 80

nuovi nati ogni anno di cui mediamente 40 maschi e 40 femmine) mi occorrono, 25 vitelle

nell�ipotesi di non perdere nessuna delle femmine nei 2 anni intercorrenti fra la nascita e il primo

parto. Le madri che daranno origine a tale rimonta sono 62,5 (62,5 x 0,8 = 50 nati di cui 25 maschi

e 25 femmine) e allora sarò costretto a destinare alla riproduzione, oltre le 50 vacche

fenotipicamente normali, anche 12,5 vacche con il genotipo recessivo aa. Poichè mantengo 12,5

vacche aa su 50, la pressione di selezione �s� su questo genotipo é di 12,5/50 = 0,25.

Pertanto, con pressione di selezione (s) intendiamo la proporzione di individui indesiderati che

siamo costretti a mantenere nella popolazione per preservarne la consistenza numerica. s= 0

significa pressione di selezione massima; s=1 é la minima.

In tal caso la frequenza del gene recessivo nella generazione successiva a quella in cui si é operata

la selezione é data dalla relazione

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q0 (1 � sq0)

q1= ----------------------

1 � sq02

Nel nostro esempio della stalle di vacche s=0,25, q0(a)= 0,707 per cui q1 = 0,6651.

e. Sistemi di accoppiamento

La legge di Hardy-Weinberg presuppone per il mantenimento dell�equilibrio genetico fra le

generazioni, che la riproduzione sia totalmente libera e che gli accoppiamenti avvengano in modo

del tutto casuale. Se ne deduce che qualsiasi altro metodo di accoppiamento che si allontana dal

modello teorico provoca una variazione nella distribuzione dei genotipi e, pertanto, nella frequenza

dei geni.

I metodi di selezione possono essere distinti in 5 classi differenti che descriveremo nel dettaglio.

e.1. Accoppiamento casuale

E� impiegato in zootecnica quando gli animali prescelti sono fatti accoppiare fra di loro a caso,

senza alcun controllo particolare. Questo tipo di accoppiamento tende a mantenere stabile la

struttura genetica della popolazione, salvo variazioni casuali dovute al numero ristretto degli

individui che costituiscono il gruppo selezionato (vedi drift paragrafo 3.7c) oppure allo stabilirsi di

una parentela fra i componenti del gruppo (vedi paragrafo 3.9 sulle relazioni fra animali).

L�accoppiamento casuale non é in grado di fissare i geni desiderati, ma può essere utile per svelare

il patrimonio genetico di un riproduttore (ad esempio un toro) che abbia un numero sufficiente di

figli generati con un gruppo di femmine estratte a caso dalla popolazione.

e.2 Accoppiamento omeogamico

Per tale tipo di accoppiamento sono scelti individui geneticamente simili che, per definizione, sono

parenti e pertanto il metodo é indicato come accoppiamento fra consanguinei o consanguineità.

Questo tipo di accoppiamento porta ad una graduale diminuzione dei genotipi eterozigoti con un

conseguente aumento degli omozigoti.

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e.3 Accoppiamento selettivo somatico

Consiste nel fare accoppiare animali simili nei caratteri somatici e funzionali. E� la forma

tradizionale di selezione zootecnica nella quale gli animali riproduttori sono scelti esclusivamente

sulla base di criteri morfologici e funzionali. Il risultato di questo tipo di selezione dipende in gran

parte dall�ereditabilità dei caratteri che sono stati presi come base per la scelta.

In generale si ottiene un aumento della rassomiglianza fra genitori e figli e fra discendenti di ogni

coppia, ma non si aumenta in modo apprezzabile la frequenza dei geni desiderati ne si giunge alla

produzione di un individuo omozigote.

Questo tipo di accoppiamento, praticato sistematicamente su tutti i componenti di una popolazione,

tende a produrre una progressiva differenziazione delle popolazione stessa in due tipi estremi

rispetto all�intensità del carattere selezionato e aumenta perciò la variabilità complessiva del

carattere.

e.4. Accoppiamento eterogamico

Questo tipo di riproduzione si basa sulla dissomiglianza genetica degli individui che sono destinati

alla riproduzione ed é conosciuto con il nome di incrocio. I prodotti che sono ottenuti dall�incrocio

sono geneticamente ibridi, cioè sono eterozigoti rispetto ad un numero maggiore di geni rispetto

alla media della popolazione di appartenenza. L�accoppiamento eterogamico compiuto in una razza-

popolazione, tende a produrre una certa uniformità genetica e somatica, ma non esercita alcuna

influenza apprezzabile sulla frequenza del geni.

L�incrocio intrarazziale (ad esempio fra linee pure di suini) o interazziale può essere molto

vantaggioso nel caso l�eterozigosi degli F1 determini un aumento di vigore e produttività (eterosi o

vigore degli ibridi).

e.5. Accoppiamento fra individui somaticamente diversi

Questo tipo di modalità riproduttiva é concettualmente l�opposto dell�accoppiamento somatico

selettivo. L�accoppiamento fra individui somaticamente diversi comporta una maggiore uniformità

negli F1 con una minore rassomiglianza fra genitori e figli.

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In pratica, l�accoppiamento fra animali che differiscono fra loro notevolmente in determinate

caratteristiche morfologiche o funzionali, può essere utile per realizzare un tipo intermedio

desiderato o per compensare difetti ed inconvenienti presenti nei tipi estremi.

Geneticamente non si modifica apprezzabilmente la frequenza degli alleli, ma si aumenta

moderatamente quella degli eterozigoti nella popolazione.

3.8 QTL E GENI MAGGIORI (Macciotta N.P.P.)

Vediamo ora di approfondire uno degli aspetti più interessanti delle applicazioni della genetica

qualitativa o mendeliana ai caratteri di interesse zootecnico. Riprenderemo e approfondiremo alcuni

concetti già enunciati nei precedenti pargrafi e daremo alcuni esempi applicativi.

I caratteri produttivi di interesse zootecnico sono in gran parte quantitativi: la loro manifestazione è

cioè considerata come il risultato dell�azione di un grande numero di loci (poligeni) i cui effetti

molto piccoli (infinitesimi) si sommano dando luogo alla espressione fenotipica del carattere (ad

esempio la produzione del latte).

Questo modello teorico, che ha consentito di ottenere indubbi risultati sotto l�aspetto applicativo (i

metodi di stima del valore genetico degli animali si basano su di esso), fornisce comunque una

visione alquanto semplicistica del problema: sembra piuttosto difficile che tutti i geni che

influenzano la produzione del latte abbiano un�azione infinitesima, cioè che una sostituzione

allelica in uno di essi determini una variazione piccolissima nella quantità di latte prodotto. Una

ipotesi più realistica sembra quella che prevede l�esistenza sia di loci ad effetto infinitesimo, che

rappresentano la maggior parte, sia di altri che esercitano un�influenza tale da non poter passare

inosservata. Questi ultimi sono i cosiddetti QTL: la sigla deriva dalle iniziali delle parole inglesi

Quantitative (Quantitativo) Trait (Carattere) Locus, cioè locus che esercita un effetto su un carattere

quantitativo.

I QTLs, a loro volta, vengono distinti per convenzione in due gruppi:

Geni Maggiori, la cui presenza può essere evidenziata mediante l�uso dei dati fenotipici e delle

informazioni sulle parentele;

QTL veri e propri, per la cui individuazione non sono sufficienti i dati fenotipici e le informazioni

parentali, ma è necessario ricorrere all�uso dei marcatori genetici.

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L�individuazione di QTL e di geni maggiori rappresenta un vantaggio per il miglioramento

genetico, sia in termini di migliore comprensione del determinismo genetico dei caratteri

quantitativi sia, soprattutto, in termini di miglioramento dell�efficienza degli schemi di selezione

(Selezione Assistita da marcatori), soprattutto nel caso di caratteri a bassa ereditabilità o che

possono essere misurati in un solo sesso.

a. Geni Maggiori

Un gene Maggiore, o gene ad effetto maggiore, è un gene allelico che esercita una influenza su un

carattere quantitativo; come detto in precedenza, l�effetto deve essere tale da poter essere

evidenziato con l�ausilio dei soli dati produttivi e delle informazioni sulle parentele.

Un esempio molto noto di gene maggiore è quello del Gene Booroola, identificato nella razza ovina

australiana Merinos, che influenza la prolificità. La Merinos, razza specializzata per la produzione

della lana, è caratterizzata da una modesta prolificità (valore medio pari a 1,2 nati per parto); esiste

però un ceppo, denominato appunto Booroola, che presenta valori medi di 2,5 nati/parto. La

differenza nella prolificità media tra Merinos normale (M) e Merinos Booroola (MB) è

ragguardevole e di non facile interpretazione; essa risulta ancor più sorprendente se si considera che

una delle proprietà fondamentali dei caratteri quantitativi è quella di presentare una variabilità

graduale (cioè continua), mentre in questo caso ci si trova chiaramente di fronte ad un netto divario

(cioè ad una variabilità discontinua). Ricordiamo (vedi cap. 4) che la prolificità, come gran parte dei

caratteri legati dalla sfera riproduttiva, presenta valori di ereditabilità piuttosto bassi (0,10-0,27) e

che conseguentemente è prevedibile un limitato progresso genetico ottenibile per via selettiva: nel

caso specifico va sottolineato invece che la MB è stata ottenuta dalla M mediante una selezione

attuata sulla sola linea femminile (i fratelli Sears, gli allevatori australiani che hanno creato la MB,

sceglievano per la riproduzione le femmine nate da parti gemellari mentre i maschi li prendevano

casualmente da allevamenti esterni: si pensi agli effetti sul progresso selettivo dei bovini da latte se

si scegliessero solamente le vacche e si prendessero a caso i tori, un disastro!). Con tale programma

selettivo, i notevoli risultati ottenuti non potevano essere solamente dovuti all�aumento della

frequenza degli alleli favorevoli in loci con un effetto piccolissimo sul carattere, ma l�unica

spiegazione possibile era quella di un graduale aumento della frequenza degli individui portatori di

un allele favorevole in un singolo locus ad effetto maggiore sulla prolificità.

Attualmente, si ritiene che al locus Booroola esistano almeno due alleli:

F, che determina una alta prolificità e che si ritrova con elevatissima frequenza nelle MB;

+, che determina una normale prolificità e che è largamente prevalente nella M.

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La distinzione degli animali sulla base del loro genotipo è basata sui dati fenotipici, che consistono

non nel numero di nati per parto, bensì in un carattere ad esso fortemente correlato: il tasso di

ovulazione (TO), cioè il numero di cellule uovo che l�animale produce nel corso di un ciclo

sessuale. I tre genotipi possibili vengono così distinti:

FF pecore che hanno avuto nel corso della loro carriera riproduttiva almeno

un volta un TO≥5:

F+ pecore che hanno avuto nel corso della loro carriera riproduttiva almeno

una volta un TO≥3 ma mai superiore a 4:

++ pecore che nel corso della loro carriera riproduttiva non hanno mai avuto

TO>2.

L�effetto dell�allele F sulla prolificità è stato stimato pari ad 1 agnello per parto: cioè una pecora

con genotipo F+ produce in media 1 agnello in più per parto rispetto ad una con genotipo ++. Di

recente, grazie all�ausilio delle tecniche dell�ingegneria genetica, il gene Booroola è stato

localizzato sul cromosoma 6 della specie ovina. Va però messo in evidenza che non è stato

identificato il ruolo biochimico del gene Booroola, cioè non si conosce quale sia il prodotto diretto

della sua attività (un enzima, un ormone etc.); tale caratteristica è comune alla maggior parte dei

geni maggiori e QTL scoperti in campo zootecnico.

Il gene Booroola controlla una quota importante della variabilità genetica della prolificità nella MB;

il vantaggio selettivo che ne deriva può essere compreso considerando la storia della MB: i fratelli

Sears hanno selezionato, anche se inconsciamente, a favore dell�allele F ottenendo dei risultati in

termini di miglioramento genetico assolutamente non raggiungibili nel caso di un totale controllo

del carattere da parte di soli loci ad effetto infinitesimo.

Oltre al gene Booroola sono stati individuati altri geni maggiori che influenzano le produzioni

zootecniche:

- il gene Weaver, messo in evidenza nella razza Bovina Brown, che è responsabile di una malattia

che colpisce il sistema nervoso dei bovini, ma che influenza (sicuramente in maniera indiretta)

anche la quantità di latte prodotto;

- il gene dell�ipertrofia muscolare, evidenziato in alcune razze bovine da carne (Blu Belga,

Charolaise, Piemontese) che determina la presenza della cosiddetta �doppia coscia�, caratteristica

di pregio per gli animali destinati alla produzione della carne;

- il gene della caseina αs1 che, nei caprini, influenza il contenuto proteico del latte.

- il gene alotano, evidenziato nei suini, che influenza la qualità della carne.

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b. Marcatori genetici

L�identificazione del gene Booroola è stata possibile grazie all�osservazione dei fenotipi (prolificità

o TO) e della trasmissione del carattere entro le famiglie (conoscenza dei rapporti di parentela). In

altri casi l�effetto del singolo locus, pur essendo di una certa entità (cioè non infinitesimale), non è

rilevabile in questo modo, ma bisogna ricorrere all�uso di marcatori genetici. Questo è il caso dei

QTL propriamente detti; prima di passare alla loro trattazione è necessario però chiarire il concetto

di marcatore genetico.

Se due geni si trovano molto vicini su un cromosoma, allora la possibilità che tra essi avvenga una

ricombinazione è piuttosto bassa. In questo caso i loci si dicono associati, cioè tra essi esiste quello

che in inglese si chiama linkage (in italiano associazione). Le combinazioni alleliche che si trovano

nei cromosomi parentali sono dette fasi di linkage. La conseguenza del linkage è che all�atto della

meiosi, la trasmissione degli alleli di due geni associati non avviene in maniera indipendente ma le

combinazione alleliche presenti nei cromosomi parentali le ritroviamo anche nei cromosmi presenti

nei gameti. Quando tra due geni esiste una stretto linkage, la seconda legge di Mendel

sull�assortimento indipendente degli alleli nei gameti non è più valida: si parla infatti di

disequilibrio di associazione (o di linkage).

Il linkage sta alla base dell�utilizzazione dei marcatori genetici. Spesso i geni oggetto di studio sono

di difficile identificazione: non si conosce quale realmente sia il gene che regola l�espressione del

carattere che stiamo studiando; oppure non è possibile determinare il genotipo degli animali sulla

base della manifestazione fenotipica del carattere; non si conosce la localizzazione cromosomica del

gene e così via. In questi casi lo studio del gene viene condotto indirettamente attraverso l�impiego

di un altro gene ad esso strettamente associato, cioè si ricorre all�uso di un marcatore genetico.

L�impiego di un marcatore genetico si basa sul fatto che, esistendo una forte associazione tra esso

ed il gene oggetto di studio, la segregazione degli alleli dei due loci non è indipendente (esiste il

disequilibrio di associazione): cioè se A e B sono due loci associati su un cromosoma, ciascuno con

due alleli (A1 e A2; B1 e B2), e il toro Gelsomino ha su un cromosoma la combinazione allelica A1

B1 e sul cromosoma omologo quella A2 B2, all�atto della formazione dei gameti l�allele A1 andrà a

finire nel nemasperma che contiene anche l�allele B1 (tranne il caso in cui si verifichino dei

fenomeni di crossing-over, tanto più rari quanto più i due geni sono vicini fra loro). In questo modo

i figli che hanno ereditato l�allele A1 da Gelsomino, avranno ricevuto anche l�allele B1. Lo stesso

discorso vale per A2 e B2

Quindi in questo caso è possibile conoscere l�allele presente al locus B sulla base dell�allele che è

presente al locus A; il locus A è un marcatore genetico del locus B. Va però tenuto ben presente il

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fatto che se si considera un altro toro, non parente di Gelsomino, non è detto che anche in questo

animale l�allele A1 si trovi associato a quello B1 e l�A2 al B2. Cioè la fase di associazione allele

marcatore-allele gene di interesse cambia da famiglia a famiglia e, entro la stessa famiglia, può

cambiare con il passare delle generazioni (possibilità che si verifichino crossing over).

Sulla base di quanto detto in precedenza, possiamo definire un marcatore genetico come gene che

presenta le seguenti caratteristiche:

a) deve essere strettamente associato con il gene oggetto di studio, poiché più i due loci sono vicini,

minore è la probabilità che tra essi si verifichi una ricombinazione. I risultati di numerose prove

sperimentali indicano che la distanza massima tra marcatore genetico e gene non dovrebbe superare

i 20 cM;

b) deve presentare un elevato polimorfismo (cioè avere più alleli). Il polimorfismo consente di

stabilire l�origine di un allele: se l�allele portato da un individuo è presente nel padre e non nella

madre, ovviamente l�individuo lo avrà ricevuto dal padre. E� chiaro quindi che tanto maggiore sarà

il polimorfismo di un locus marcatore, tanto maggiore sarà la possibilità che i genitori abbiano

genotipo differente e maggiore sarà la probabilità di individuare l�origine dell�allele. Una delle

ragioni della grande diffusione dei marcatori a livello del DNA, ed in particolare dei microsatelliti,

deriva proprio dall�elevatissimo polimorfismo che essi presentano;

c) deve avere una sicura e facile identificazione genotipica. Cioè il genotipo al locus marcatore

deve essere facilmente ed inequivocabilmente determinato. Sino a qualche tempo fa tale

determinazione veniva fatta a livello fenotipico, ora grazie all�avvento dell�analisi genetica

molecolare, la determinazione del genotipo o tipizzazione, viene fatta a livello di DNA. Tra i

vantaggi di quest�ultima tecnica, va ricordato il fatto che essa consente di tipizzare gli animali

indipendentemente dalla manifestazione fenotipica del carattere e quindi il più precocemente

possibile;

d) deve avere un meccanismo ereditario di tipo mendeliano semplice, in modo che la

identificazione dell�origine degli alleli posseduti da un individuo sia il più agevole possibile.

Ovviamente, un marcatore codominante sarà più informativo di uno i cui alleli presentano fenomeni

di dominanza e recessività.

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c. Genotipo del locus alotano nei suini

Questo esempio riprende in modo approfondito quello del paragrafo 7 relativo alla selezione contro

un gene recessivo.

Un caso paradigmatico di impiego di marcatore genetico per lo studio di un gene di interesse

economico è rappresentato dal caso del cosiddetto gene alotano. Nei suini è presente una patologia

nota come Ipertermia Maligna che determina una rapida modificazione post-mortem del tessuto

muscolare: le carni dei suini colpiti da questa sindrome si presentano pallide, soffici ed essudative

(carni PSE).

A livello biochimico, tali caratteristiche negative delle carni sono determinate da una glicolisi

muscolare troppo rapida con conseguente eccessivo abbassamento del pH del muscolo entro la

prima ora post mortem; l�interazione tra basso pH e ed elevata temperatura determina una

denaturazione delle proteine del muscolo con conseguenti scarsa capacità di ritenzione idrica,

colore pallido (per effetto dell�ossidazione del ferro del gruppo eme dell�emoglobina) ed una carne

eccessivamente molle. L�insorgenza di questa patologia è accentuata dalle situazioni di stress alle

quali possono essere sottoposti gli animali ad esempio nel trasporto dall�allevamento al macello, e

nelle diverse fasi della macellazione; infatti l�ipetermia maligna insieme con la sindrome PSE delle

carni vengono compresa nella più ampia sindrome suina dello stress (PSS). Le carni PSE

presentano delle caratteristiche qualitative piuttosto scadenti delle carni con conseguente danno

economico per il deprezzamento delle stesse. Per quanto riguarda la produzione della carne per il

consumo fresco (suino magro da macelleria), le carni PSE presentano, oltre ad un aspetto poco

attraente, anche delle maggiori perdite durante la fase di cottura ed una evidente stopposità all�atto

della masticazione. Nella produzione del suino pesante destinato alla trasformazione in insaccati, le

carni PSE comportano una riduzione delle rese in prosciutto cotto, mentre nella lavorazione del

prosciutto crudo comportano maggiori cali di stagionatura, una sapore più salato e difetti di colore.

Il locus responsabile di tale anomalia, denominato appunto gene alotano (Hal), può presentare due

alleli: uno dominante (N) che da luogo a carni normali, ed uno recessivo (n) che, se presente in

forma omozigote (nn), determina la presenza di carni PSE; gli eterozigoti Nn presentano

caratteristiche qualitative della carne comunque inferiori rispetto a quelle degli individui �sani�

(NN). La diffusione dell�allele recessivo pare sia stata favorita in maniera involontaria dalla

selezione che è stata operata nei suini a favore dell�aumento dei tagli magri nella carcassa in quanto

questa caratteristica pare sia associata alla sensibilità allo stress (e quindi all�allele n). I tre diversi

genotipi al locus Hal e le rispettive espressioni fenotipiche sono:

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Genotipo Fenotipo

NN carni normali

Nn carni normali

nn carni PSE

La sindrome PSE può essere evidenziata nelle carni dopo la macellazione; il genotipo al locus Hal

può essere determinato anche sugli animali vivi, attraverso un test che consiste nel mettere a

contatto gli animali con il gas anestetico alotano (da cui deriva il nome del gene): gli animali nn, in

presenza del gas, hanno un comportamento particolare (spasmi muscolari, irrigidimento degli arti) e

possono essere pertanto scartati dalla riproduzione. Il test però non è in grado di individuare gli

eterozigoti Nn, che possiedono comunque l�allele n e possono trasmetterlo alla discendenza.

Pertanto è stato necessario ricorrere all�uso dei marcatori genetici. Il gene Hal si trova in un gruppo

di sintonia di cui fa parte anche il gene dell�enzima fosfoesoso isomerasi (PHI), enzima presente nei

globuli rossi, che può essere usato come marcatore genetico. Il genotipo degli animali al locus PHI,

che presenta due alleli (A e B) codominanti è facilmente determinabile mediante elettroforesi.

Nel caso dei loci Hal e PHI si stabilisce una associazione fra alleli che rimane fissa nelle

generazioni successive. Nella tabella 3.3 è riportato un esempio di previsione del genotipo alotano

attraverso l�impiego del marcatore genetico PHI e del test alotano in una famiglia di suini.

Tabella 3.3 - Previsione del genotipo alotano con l�uso del marcatore genetico PHI Test alotano Genotipo PHI Genotipo Hal Verro No test AB ? Scrofa No test AB ? Figli A Negativo AB NN o Nn B Positivo BB nn C Negativo AA NN o Nn D Negativo AB NN o Nn Il verro e la scrofa non sono stati sottoposti ad un test con l�alotano: tre figli (A,C.D) risultano

negativi (possono essere NN oppure Nn) ed uno positivo (B, sicuramente nn).

Come risalire al genotipo dei tre figli negativi e dei due genitori?

Nella terza colonna della tabella 2a è indicato il genotipo al locus PHI degli animali. Il figlio B, che

è l�unico di cui conosciamo con certezza il genotipo Hal è anche l�unico omozigote BB al locus

PHI; tutti gli altri sono eterozigoti AB. Allora, poiché i loci PHI e Hal sono associati e quindi le loro

combinazioni alleliche (aplotipi) si mantengono fisse e siccome B è nn nel locus Hal e BB nel locus

PHI, l�aplotipo Hal-PHI sarà nB; quindi, nella famiglia di suini che stiamo esaminando ogni volta

che nel locus Phi c�è l�allele B, nel locus Hal vi sarà l�allele n e, viceversa, A sarà associato ad N.

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Una volta stabilita la fase di associazione tra gli alleli dei due loci è possibile ricostruire il genotipo

al locus Hal di tutti i componenti della famiglia (Tabella 3.4).

Tabella 3.4. Previsione del genotipo alotano con l�uso del marcatore genetico PHI Test alotano Genotipo PHI Genotipo Hal Verro no test AB Nn Scrofa no test AB Nn Figli A Negativo AB Nn B Positivo BB nn C Negativo AA NN D Negativo AB Nn Va sottolineato che la fase di associazione PHI-Hal (A-N e B-n) è valida solo per la famiglia

oggetto di studio e non può essere estesa a tutta la popolazione suina: se si ripetesse l�analisi in

un�altra famiglia si potrebbe trovare l�allele A di PHI associato con l�allele n di Hal. Inoltre,

condizione indispensabile per l�applicazione di tale analisi è che nella famiglia sia presente almeno

un componente positivo al test alotano.

Nel 1991 un equipe di studiosi canadesi ha evidenziato che l�ipertermia maligna è adovuta ad una

sostituzione di basi (C-T) nel nucleotide 1843 del gene CRC (Calcium Release Channel) che regola

il flusso di Calcio nel reticolo sarcoplasmatico del muscolo scheletrico relassociato ad l�ipertermia

maligna: la sostituzione delle basi determina una sostituzione aminoacidica in posizione 615 della

proteina (Arginina.-Cisteina) con una riduzione del flusso del Calcio. Il genotipo al locuc CRC oggi

viene pertanto determinato direttamente a livello del DNA mediante un�analisi condotta con la

tecnica della Reazione a Catena della Polimerasi (PCR) che permette l�identificazione precoce e

sicura (cioè distingue anche gli eterozigoti). Una recente indagine condotta con tale analisi su verri

di diverse razze suine allevato in Italia utilizzati in F.A. (Tabella 3.5) ha mostrato come nelle razze

Large White italiana e la Landrace italiana, tradizionalmente allevate in Italia per la produzione del

suino pesante razze e da anni selezionate per l�eliminazione alla sensibilità all�alotano (attraverso

l�impiego di tale test sui verri da impiegare in F.A.), la frequenza dell�allele n sia molto ridotta,

mentre in altre, come la Pietrain, che presentano delle caratteristiche eccezionali dal punto di vista

della muscolosità e della resa in tagli magri della carcassa, la situazione è completamente

rovesciata, con la stragrande prevalenza dell�allele n su quello N.

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Tabella 3.5. Frequenze geniche del locus alotano (CRC) nelle razzze suine allevate in Italia (Russo et al., 1996) Razza Numero Frequenze alleliche N n Large White Italiana 257 0,967 0,033 Landrace Italiana 150 0,897 0,103 Duroc 154 0,929 0,071 Landrace Belga 44 0,023 0,977 Pietrain 37 0,027 0,973 Hampshire 20 1,000 0,000 Gene dell�ipertrofia muscolare (doppia coscia) nei bovini da carne Altro caso di gene ad effetto maggiore su caratteri di interesse zootecnico è quello del gene che

determina ipertrofia muscolare nei bovini, carattere noto come doppia coscia. Tale carattere si

manifesta in diverse razze bovine: la razza dove è stato maggiormente studiato è la Blu Belga; tra le

razze italiane esso è presente nella razza Piemontese e anche in quella Marchigiana. A livello

fenotipico, gli animali con il carattere doppia coscia, presentano:

a) una ipertrofia muscolare generalizzata di circa il 20%, mentre tutti gli altri organi sono di

dimensioni ridotte;

b) ) tessuto muscolare con contenuto adiposo ridotto sino al 40% ed anche minore contenuto di

tessuto connettivo, caratteri entrambi apprezzati dal consumatore;

c) ) indice di conversione alimentare inferiore del 9% rispetto alla norma.;

d) ) aumento delle distocie (+15%) a causa del maggiore peso alla nascita ed alla conformazione

dei vitelli.

Il gene responsabile del carattere della doppia coscia è un locus autosomale nel quale sono presenti

due alleli: uno normale (+) ed uno che determina l�ipertrofia muscolare (mh). Il tipo di rapporto che

esiste tra questi due alleli non è del tutto chiaro. In un primo momento si riteneva che l�allele mh

fosse recessivo e che pertanto gli animali con genotipo (+/+) e (+/mh) fossero normali mentre gli

animali (mh/mh) fossero quelli che manifestavano l�ipertrofia muscolare. In realtà una recente

ricerca condotta su bovini di razza Piemontese e su loro incroci, ha evidenziato che gli eterozigoti e

gli omozigoti +/+ non presentano differenze per quanto riguarda la difficoltà di parto mentre le

differenze esistono per il peso dei vitelli all nascita: gli animali +/+ pesavano kg 36,9, gli eterozigoti

kg 40,8 e gli omozigoti mh/mh 41,2. Pertanto l�eterozigote è in posizione intermedia tra i due

omozigoti anche se più spostato verso il genotipo mh/mh.

A livello genomico, il responsabile del carattere della doppia coscia è stato stato identificato nel

gene della miostatina (GDF8), un enzima che esercita una funzione di regolazione negativa sullo

sviluppo delle masse muscolari e che nel bovino è localizzato sul cromosoma 2. Le variazioni

genetiche che hanno causato la formazione dell�allele responsabile dell�ipertrofia muscolare non

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sono le stesse nelle differenti razze. Nella razza Piemontese l�allele che determina la doppia coscia

è caratterizzato dalla mutazione alla posizione 938 del terzo esone, con una sostituzione di una

guanina con una adenina; tale sostituzione causa nella proteina una sostituzione alla posizione 313

di una tirosina con una cisteina, fatto che inattiva la funzionalità della proteina e quindi determina

l�ipertrofia muscolare. Nel caso invece della razza Blu Belga, c�è la delezione di una sequenza di

11 basi (819-829) nel terzo esone del gene della miostatina, che determina una prematura

interruzione nella fase di traduzione. Nella razza Marchigiana infine, gli individui ipertrofici

mostrano una sostituzione transversione Guanina � Timina in posizione 874, con conseguente

cambiamento di un codone che codificava l�acido glutammico in un codone di stop della

traduzione. Questa mutazione fa si che una parte della proteina ricca in cisteina (6 aa), e che

giocherebbe un ruolo importante nella struttura dell�enzima, non venga tradotta con conseguente

perdita dell�attività della proteina stessa.

d. QTL

Il primo esperimento in cui è stata evidenziata una associazione tra un locus marcatore ed un QTL è

stato quello condotto da Sax nel 1923 su due varietà di fagiolo (Phaseolus vulgaris) che differivano

sensibilmente per il peso e per la colorazione del seme; il primo rappresentava il carattere

quantitativo oggetto di studio, il secondo il marcatore. La varietà gialla, omozigote dominante (PP)

al locus responsabile della colorazione, presentava un peso medio dei semi di 48 centigrammi; la

varietà bianca, omozigote recessiva (pp), presentava un peso medio dei semi pari 48 cg. Incrociando

le due varietà Sax ottenne degli F1 ovviamente tutti eterozigoti Pp; incrociando gli F1 tra di loro

ottenne una F2 con i seguenti genotipi e peso dei semi

Genotipo marcatore PP Pp Pp

Peso semi (cg) 30.7 28.3 26.4

E� evidente che a ciascuna classe di genotipi al marcatore corrispondeva un diverso peso medio dei

semi; ciò fu interpretato come la prova dell�esistenza di una associazione tra il locus responsabile

della colorazione del seme e un QTL che influenzava il peso dei semi stessi. Per cui indicando con

A e a gli alleli del QTL che determina un peso superiore ed inferiore rispettivamente, i genotipi al

QTl sarebbero i seguenti:

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Genotipo marcatore PP Pp pp

Genotipo QTL AA Aa aa

Peso semi (cg) 30.7 28.3 26.4

L�effetto di sostituzione allelica al QTL può essere stimato dalla relazione:

(peso semi PP - peso semi pp)/2 cioè (30.7-26.4)/2 = 2.15 g

Si noti che l�effetto risultava perfettamente di tipo additivo in quanto l�eterozigote Pp presentava un

peso intermedio rispetto a quello dei due omozigoti.

La ricerca dei QTL nelle specie animali di interesse zootecnico si presenta più complessa e difficile:

il principio fondamentale è lo stesso, cioè bisogna raggruppare gli animali in base all�allele

marcatore posseduto e poi vedere se i due gruppi così costituiti differiscono tra loro nel carattere

produttivo oggetto di studio; per ovvi motivi di ordine economico e tecnico però non è proponibile

un approccio tipo quello visto in precedenza. Se si vuole ricercare, ad esempio, un eventuale QTL

con effetto sulla produzione di latte nella razza ovina Sarda non è pensabile di costruirsi una

popolazione ad hoc attraverso un piano di incroci come quello attuato da Sax (ci vorrebbe troppo

tempo ed i costi sarebbero pazzeschi), ma la popolazione ovina Sarda deve essere analizzata così

come è; ciò comporta, rispetto al lavoro di Sax, un maggiore sforzo soprattutto nella fase di

elaborazione dei dati. L�analisi inoltre va condotta, come nel caso del gene Hal, entro le singole

famiglie.

Ad esempio, noi abbiamo l�Ariete Tommaso che è eterozigote ad un locus marcatore A (Tommaso

è A1A2); separiamo le figlie di Tommaso (poniamo 60) sulla base dell�allele marcatore che hanno

ereditato dal padre, in un gruppo tutte quelle che hanno A1 e nell�altro quelle che hanno A2, e

confrontiamo le medie produttive dei due diversi gruppi. Se le medie dei due gruppi,

opportunamente corrette per i principali fattori zootecnici che influenzano la produzione (ordine di

parto, tipo di parto etc.), sono diverse in maniera statisticamente significativa possiamo concludere

che entro la famiglia di Tommaso è associato al locus A un qualcosa (forse un QTL) che influenza

la produzione del latte. Le elaborazioni statistiche che vengono realmente svolte per evidenziare la

presenza del QTL sono estremamente complesse; inoltre, una condizione essenziale è che si possa

determinare con esattezza l�allele marcatore che ciascuna figlia ha ereditato dal padre.

Numerose ricerche sono in atto per la individuazione di QTL in diverse specie di interesse

zootecnico (bovini, ovini, suini, polli). Uno studio condotto recentemente su bovini da latte dal

Gruppo del Prof. Georges negli Stati Uniti, ha evidenziato la presenza di QTL che influenzano la

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produzione quantitativa di latte, con effetti di sostituzione allelica che possono portare a differenze

nella produzione di latte pari ad oltre 300 chilogrammi per lattazione.

e. Prospettive.

Le recenti acquisizioni sui Geni Maggiori e QTL aprono indubbiamente nuove e allettanti

prospettive per il miglioramento genetico; è necessaria però una attenta valutazione tecnica ed

economica del problema. La ricerca di QTL in una popolazione di bovini da latte, ad esempio,

comporta la necessità di disporre oltre che dei dati relativi alle produzioni ed alle parentele

(operazioni di routine nei programmi selettivi imperniati sulle prove di progenie quali quelli dei

bovini da latte) anche del genotipo degli animali ai loci che fungono da marcatori genetici, con

conseguente aumento del costo complessivo di attuazione del programma selettivo stesso. Di

conseguenza , gli incrementi di progresso genetico ottenibili con schemi di selezione che utilizzano

i QTL (schemi MAS= Selezione Assistita da Marcatori) debbono essere mesi a confronto con il

relativo l�aumento dei costi. Al giorno d�oggi il confronto sarebbe probabilmente a sfavore

dell�utilizzo dei QTL, per lo meno in schemi selettivi quali quelli utilizzati per i bovini da latte, sia

per gli elevati costi delle analisi sia per la complessità delle elaborazioni; è prevedibile però che in

un futuro non troppo lontano, in considerazione del fatto che i criteri generali della selezione

animale sembrano spostarsi verso schemi caratterizzati dall�aumento della velocità del

miglioramento genetico (schemi �giovanili�) piuttosto che verso quelli che prediligono l�aumento

dell�accuratezza (i cosiddetti �schemi convenzionali�), tale situazione possa essere ribaltata.

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3.9 LE RELAZIONI DI PARENTELA FRA GLI ANIMALI

Gli animali parenti hanno un corredo genetico simile e l�accoppiamento fra di loro (inincrocio o

accoppiamento omeogamico) produce una progenie che ha una frazione di omozigosi più elevata

delle media della popolazione. Viceversa l�accoppiamento di animali con corredi cromosomici

molto diversi (esincrocio o accoppiamento eterogamico) da origine a figli con un grado di

eterozigosi superiore a quello medio della popolazione a cui essi appartengono.

La conoscenza del grado di parentela fra due individui è perciò importante in zootecnica da un lato

per l�applicazione dei sistemi di valutazione genetica dei candidati alla selezione, dall�altro per le

tecniche riproduttive dell�incrocio e della consanguineità.

In questo capitolo apprenderemo le modalità di calcolo dei coefficienti di parentela e di

consanguineità e faremo un breve accenno ai metodi di accoppiamento fra animali parenti.

a. La relazione di parentela

Gli animali di una popolazione zootecnica hanno una frazione di geni in comune, ma due animali

parenti fra di loro presentano una frazione addizionale di geni uguali nel loro corredo genetico. Nel

senso comune due individui sono considerati parenti quando hanno un ascendente in comune per

cui la frazione addizionale di geni comuni dipende dalla distanza, espressa in atti fecondativi (o

generazioni), che li separa dall�antenato comune. I gradi di parentela esprimono la probabilità che

due individui abbiano un gene in comune ed è intuitivo il fatto che parenti lontani siano coloro la

cui probabilità di avere geni comuni è più bassa.

La parentela è calcolata, sia in zootecnica che in tribunale per dirimere le controversie in materia di

eredità, in linea diretta ed in linea collaterale: la prima è quella che separa �direttamente� un

individuo dal suo ascendente (genitore, nonno, bisnonno); la seconda è quella che separa due

individui che hanno un ascendente comune. I gradi di parentela sono il numero di atti fecondativi

intercorrenti fra gli individui in considerazione e poiché per ogni passaggio la probabilità che sia

trasmesso un gene è del 50%, essi sono misurati da un coefficiente espresso in frazioni di unità.

Esempio. Consideriamo questa struttura familiare

A→B→C

D

E

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in cui le frecce indicano gli atti fecondativi che separano gli individui. Il grado di parentela fra A e

B (genitore/figlio) in linea diretta è di primo grado ed il suo coefficiente è 0,5 in quanto la

probabilità che essi abbiano un gene in comune è del 50%; quella fra A e C (nonno/nipote) è

sempre diretta, ma di 2° grado ed il suo coefficiente è di 0,25 (0,5 x 0,5). La parentela in linea

collaterale fra C e E si computa in base agli atti fecondativi che separano i due individui che, nel

nostro caso, sono 4, per cui la parentela è di 4° grado ed il suo coefficiente è 0,0625.

I gruppi di individui parenti fra di loro prendono, in zootecnica, diverse denominazioni in base

all�entità della parentela che li contraddistingue.

La famiglia è un gruppo di individui discendenti da antenati comuni; poiché però il corredo

genetico ereditato da questi antenati comuni si dimezza con il passare delle generazioni, il concetto

di famiglia si perde rapidamente.

La linea è un insieme di animali caratterizzati da elevata consanguineità ottenuta con accoppiamenti

fra individui parenti; la creazione di linee parentali, di largo impiego nel miglioramento genetico dei

vegetali, è utilizzata in zootecnica in alcune specie quali i suini e i conigli in cui esse sono sfruttate

per l�incrocio con l�ottenimento dei cosiddetti ibridi commerciali.

Il ceppo è un gruppo di animali abbastanza numeroso appartenenti ad una razza in cui gli

accoppiamenti all�interno del gruppo si sono verificati, per varie cause, con una frequenza superiore

a quelli del resto della razza. Ad esempio, nella razza bovina Frisona si riconoscono, oltre al ceppo

originario olandese, i ceppi tedesco, britannico, italiano, ecc., che si sono originati per il fatto che

all�interno dei confini degli stati (ed in alcuni casi anche di regioni geografiche molto limitate)

esiste una maggiore facilità di scambio dei riproduttori per ragioni linguistiche; un fatto analogo

avviene anche nel caso dei matrimoni (donne e buoi dei paesi tuoi).

b. Il coefficiente di parentela R

Il coefficiente di parentela fra due animali A e B (RAB) è uguale alla frazione media di geni comuni

che coppie di animali con la stessa relazione di parentela di A e B possiedono in più rispettoalla

frazione media di geni comuni fra due individui qualsiasi della popolazione. Come abbiamo

illustrato nell�esempio, il calcolo del coefficiente di parentela è piuttosto facile se gli animali sono

collegati in linea diretta, ma di complica un po' se essi sono collegati in linea collaterale, soprattutto

se essi hanno più di un ascendente comune.

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La conoscenza della struttura degli ascendenti, che per gli uomini è detta albero genealogico, nelle

specie zootecniche è chiamata genealogia o pedigree. Essa è normalmente riportata con i nomi (o

con le matricole) degli ascendenti dell�animale in oggetto.

Esempio. Vediamo come può essere riportata la genealogia di Telemaco, ronzino baio del figlio di

Don Chisciotte (della Mancia).

(Nonno P) (Nonna P) (Nonno M) (Nonna P)

Arconte (a) Geronzia(b) Fiorellino(e) Maga Magò(f)

(Padre) (Madre)

Fritto Misto(c) Sailor Moon(g)

TELEMACO (x)

e quella di Paride, mezzo fratello (suo malgrado) di Telemaco;

(Padre) (Madre)

Fritto Misto (c) Biancaneve (h)

PARIDE(y)

calcoliamo il coefficiente di parentela fra Maga Magò e Telemaco Rfx e notiamo come esso sia la

risultante del prodotto fra i coefficienti di parentela fra Maga Magò e Sailor Moon (Rfg) e di quelli

fra Sailor Moon e Telemaco (Rgx) = 0,5 x 0,5 = 0,25. Anche il coefficiente di parentela fra Paride e

Telemaco è di 0,25.

In generale, il coefficiente di parentela fra due individui X e Y in linea diretta separati da n

generazioni è calcolato con

[1] Rxy = 0,5n;

quello in linea collaterale è ottenuto dal prodotto dei coefficienti calcolati in linea diretta.

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Esempio (continua) Poniamo che vogliamo calcolare la parentela fra Paride e Galla Placidia (z)

sua sorella piena (cioè anche essa figlia di Fritto Misto e di Biancaneve); in questo casi i parenti

comuni sono 2, per cui il coefficiente di parentela è la somma dei singoli coefficienti calcolati per

via paterna e per via materna Ryz = 0,25 + 0,25 = 0,5: il grado di parentela tra fratelli pieni (non

gemelli omozigoti che è l�unico caso negli animali in cui il coefficiente di parentela è 1) è perciò

uguale a quello intercorrente fra un genitore ed un figlio.

In generale se X e Y sono imparentati tramite più ascendenti comuni, il coefficiente di parentela è

calcolato con la relazione

[2] Rxy = Σ 0,5n(a)

in cui la sommatoria è estesa a tutti gli ascendenti comuni per ciascuno dei quali sono calcolate il

numero di generazioni per via diretta.

c. La consanguineità

Un animale è detto inincrociato (o consanguineo) quando esiste una relazione di parentela fra il

padre e la madre; gli accoppiamenti fra animali parenti sono detti accoppiamenti in inincrocio o in

consanguineità.

L�effetto della consanguineità è l�aumento di loci omozigoti nell�individuo inincrociato rispetto alla

media della popolazione. La probabilità che un individuo x abbia un locus omozigote è calcolata dal

coefficiente di consanguineità Fx e dipende dalla parentela fra i genitori Rcg. secondo la relazione

[3] Fx = 0,5 Rcg.

Notiamo subito (e ricordiamo bene) che il coefficiente di consanguineità è riferito ad un singolo

animale, mentre quello di parentela a due animali.

Esempio. Poniamo che nell�esempio precedente colui che ha trascritto il nome dei genitori di

Sailor Moon fosse leggermente ubriaco (capita..) e, una volta smaltita la sbornia, abbia accertato

che il padre di Sailor non era Fiorellino, bensì Arconte. A questo punto Sailor Moon e Fritto misto

risultano parenti (mezzi fratelli) con un coefficiente di parentela di 0,25. Il coefficiente di

consanguineità di Telemaco è allora 0,5 x 0,25 = 0,125, il che significa che la sua probabilità di

avere geni omozigoti rispetto al grado di omozigosi media della popolazione di ronzini della

Mancia è superiore del 12,5%.

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Analogamente al coefficiente di parentela, il coefficiente di consanguineità può essere calcolato

direttamente dal pedigree dell�animale con la formula

[3] Fx = Σ 0,5n(a) + 1

dove la sommatoria è estesa a tutti gli ascendenti comuni (del padre e della madre di x) ed n è il

numero di frecce che collegano ,nel diagramma familiare, il padre e la madre attraverso tale

ascendente.

Qualora anche gli ascendenti di un animale siano essi stessi consanguinei, occorre tenere conto di

ciò nel calcolo del coefficiente che diventa

[4] Fx = Σ 0,5n(a)+1 (1 + Fa)

dove Fa sono i coefficienti di consanguineità degli ascendenti comuni al padre ed alla madre di x.

d. L�impiego dell�inincrocio e dell�esincrocio in zootecnica

Secondo Grasselli, la conoscenza sulle relazioni di parentela fra gli animali è sfruttata, nell�ambito

del miglioramento genetico degli animali zootecnici, non solo per aumentare il numero di

informazioni fenotipiche utilizzabili nella stima del valore genetico di un individuo, ma anche per la

costruzione di veri e propri schemi di selezione che utilizzino adeguatamente i vantaggi derivanti

dall�omozigosi oppure quelli dell�eterozigosi per alcuni caratteri produttivi. Di norma la

consanguineità provoca effetti depressivi sull�espressione del carattere mentre l�eterozigosi ne

esalta l�espressione per effetto del meccanismo che nei vegetali prende il nome di vigore ibrido.

Le conseguenze negative dell�inincrocio per l�uomo e per gli animali sono note da molto tempo;

Darwin scriveva che �le conseguenze dell�accoppiamento fra parenti sono la riduzione di statura, la

perdita di robustezza costituzionale e di fertilità, talvolta accompagnate dalla tendenza alle

malformazioni�.

Poiché la consanguineità comporta l�aumento della frazione di loci omozigoti rispetto alla media

della popolazione, non dovremo notare differenze, nel caso di caratteri quantitativi, fra individui

consanguinei e non a causa della stessa frazione di geni positivi e negativi che diventa omozigote. I

caratteri legati alla vitalità dell�individuo non sono normalmente di tipo additivo (dominanza,

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sovradominanza, ecc..) l�individuo eterozigote ha espressioni fenotipiche superiori rispetto a quello

omozigote.

Vi sono geni recessivi che sono responsabili di malformazioni, alcune addirittura letali, che si

esprimono soltanto allo stato omozigote. La loro ricerca e l�eliminazione dei riproduttori portatori,

che pur vitali e fertili, sono in grado di trasmettere il carattere negativo alla discendenza, costituisce

uno degli strumenti concreti in mano alla selezione per contenere il diffondersi dei geni indesiderati.

Le tecniche di monitoraggio per tali geni fanno ricorso all�accoppiamento dei maschi candidati alla

selezione con le femmine sicuramente portatrici oppure con le proprie figlie; il responso

dell�indagine è del tipo �ad esclusione� e riporta la probabilità che l�animale testato possa essere

portatore del gene indesiderato.

Poiché la consanguineità deprime in particolare la vitalità dell�individuo, gli animali inincrociati

presentano in generale la depressione delle produzioni, evidente soprattutto nel caso in cui essi

siano posti in condizioni ambientali difficili.

La tabella seguente riporta gli effetti della consanguineità sui caratteri produttivi e riproduttivi delle

principali specie zootecniche (da Piechner, pubblicato su Chapman).

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Specie e carattere Cambiamento per

ogni 1% di F (in % sulla media)

Bovini produzione di latte -0,5 tasso di concepimento -1,26 peso alla nascita -0,70 peso a 6 mesi -0,44 peso a 12 mesi -0,16 incremento postsvezzamento -0,20 efficienza di conversione alimentare -0,32 spermatozoi/eiaculato -0,50 Suini numero nati vivi (figliata consanguinea) -0,28 numero svezzati � -0,73 numero nati vivi (madri consanguinee) -0,70 numero svezzati � -0,46 peso della nidiata alla nascita -0,50 incremento ponderale giornaliero -0,42 Ovini produzione di latte -0,26 peso corporeo all�anno di età -0,22 peso del vello -0,70 Polli fertilità -0,04 produzione di uova -0,38 taglia -0,20 L�esincrocio è una tecnica che consente l�aumento del grado di eterozigosi negli animali che ne

derivano i quali presentano, rispetto alla popolazione, di norma una robustezza costituzionale

superiore che si riflette, in alcuni casi, in una performance produttiva superiore a quella che

deriverebbe dalla media delle prestazioni paterne e materne. Il fenomeno dell�eterosi da cui ciò

deriva, detto anche lussureggiamento degli ibridi, negli animali non è di norma così evidente come

nei vegetali.

Al contrario che per inincrocio, non esiste un coefficiente che misuri il grado di eterosi, poiché una

tale definizione comporterebbe la completa conoscenza del genotipo della popolazione da cui sono

estratti gli individui da accoppiare. Il grado di eterosi si misura allora semplicemente con la

superiorità della media dei fenotipi rispetto a quella delle popolazioni da cui derivano i genitori.

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Esempio. Poniamo di voler calcolare il grado di eterosi eventualmente esistente nell�incrocio fra le

razze bovine Limousine (razza da carne francese) e Sarda (razza rustica isolana) e di disporre dei

dati degli accrescimenti medi misurati sulle sue popolazioni che sono di kg 1,350 nella prima e kg

0,740 nella seconda. Se sono fatti accoppiare casualmente individui delle due razze (e di norma

nella realtà avviene così) e si misurano gli accrescimenti in condizioni analoghe a quelle utilizzate

per il rilievo dei dati parentali, la media di tali dati, risultata di kg 1,120), può essere confrontata

nel seguente modo:

media parentale = (1,350 + 740)/2 = 1,045

media filiale = 1,120

effetto di eterosi = +0,075

sempre che i dati siano stati raccolti correttamente.

L�eterosi è sfruttata in molti sistemi di produzione animale, particolarmente in suinicoltura ed in

avicoltura: nel primo caso si assiste normalmente all�incrocio fra razze diverse (molto utilizzato è

quello fra Large White x Landrace, Pietrain x Large White) oppure fra linee diverse della stessa

razza; nel secondo caso si utilizzano schemi selettivi che fanno ricorso quasi esclusivamente

all�incrocio fra linee. Questa tecnica prevede la creazione di linee inincrociate fortemente

selezionate (grand parents) che sono incrociate fra loro con l�ottenimento dei cosiddetti parents i

quali forniranno i prodotti finali da impiegare nella produzione. Lo schema di selezione è detto a

due, tre, quattro (o più) linee in funzione del numero di linee che entrano nella costituzione del

soggetto definitivo.

La tecnica riproduttiva che sfrutta l�eterosi è, in pratica, detta incrocio ed indica l�accoppiamento di

animali della stessa specie geneticamente molto diversi; questa denominazione di norma è

utilizzata nel caso dell�impiego di due razza; la riproduzione entro la razza (o entro la linea) è

invece chiamata accoppiamento. Pertanto, un toro di razza Charolaise ed una vacca di razza

Modicana sono incrociati fra di loro; due soggetti di razza ovina Sarda sono accoppiati fra loro.

Fra i diversi tipi di incrocio, possiamo ricordare:

a) l�incrocio industriale che si effettua, nella produzione della carne, fra due razze differenti per

l�ottenimento di un prodotto (detto F1 = 1a generazione filiale) da destinare completamente alla

macellazione; questa tecnica è detta industriale in quanto i prodotti ottenuti sono caratterizzati da

grande uniformità morfologica quasi come i manufatti industriali;

b) l�incrocio di sostituzione che si attua qualora con la razza A si voglia assorbire gradualmente

quella B; il caso classico è quello che, nel passato, ha portato la razza bovina Bruna a sostituire la

razza Sarda in molte plaghe della Sardegna;

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c) l�incrocio continuo o ricorrente, in cui gli F1 sono accoppiati alternativamente con una delle due

razze di provenienza per mantenere il grado in insanguamento delle generazioni entro limiti

prefissati (37,5 - 66,5).

Epilogo

In un famoso film Alberto Sordi, che rimbrottava la moglie per non ricordo quale ragione, conclude

il litigio dicendole: �Sta �mpò zitta te che nun semo nanche parenti�.

Libri consigliati per il capitolo 3 Falconer D.S. e Mackay T.F.C., 1996, Introduction to quantitative genetics. 4a edizione. Longman, Essex. England. Pagnacco G., 1996, Genetica applicata alle produzioni animali. Città Studi Edizioni, Milano.

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4. MODELLIZZAZIONE MATEMATICA NELLA

BIOLOGIA APPLICATA

4.1 Realtà e Modelli

Dare una definizione esauriente del concetto di modello è difficile in quanto, spesso, a questo

termine sono attribuiti significati diversi, oppure, con la medesima espressione -ad esempio

�modello matematico�- ci riferiamo a realtà del tutto eterogenee. Limitandoci al campo della

conoscenza scientifica, una tassonomia schematica dei significati più importanti che si attribuiscono

al termine modello deve comprendere almeno:

a) il modello logico, inteso come interpretazione semantica, o realizzazione, di un sistema di

assiomi tale che gli assiomi sono veri per questa interpretazione. Il modello, in questo senso, è

una entità non linguistica, la cui struttura logica è la stessa della teoria; è cioè isomorfo con la

teoria.

b) Il modello analogico, vale a dire una rappresentazione fisica tridimensionale di un oggetto o di

un sistema. E� utile in quanto mostra i rapporti esistenti fra le parti costitutive del sistema.

Rientrano in questa categoria modelli come i planetari, i circuiti elettrici che vengono adottati

come modelli di sistemi acustici, i modelli meccanici dell�etere di Kelvin e, in genere, anche i

grafici. Tutti questi modelli hanno in comune il fatto di essere rappresentazioni basate su un

isomorfismo fra le leggi che governano i due processi. Una sottospecie di modello analogico è

il modello proporzionale, in cui è essenziale che i rapporti fra elementi corrispondenti restino

costanti.

c) Il modello immaginario. E� un insieme di assunzioni su un sistema, che ci mostrano ciò che il

sistema potrebbe essere se soddisfacesse certe condizioni che di fatto non soddisfa. Il modello

è qui inteso nella sua accezione di �come-se�. Ne sono esempi il modello di un mondo non

euclideo, elaborato da Poincarè, che ci mostra a cosa assomiglierebbe un mondo fisico che

soddisfacesse la geometria di Lobacevskij; oppure il modello del campo magnetico proposto

da Maxwell, che mostrava come il campo sarebbe nel caso fosse completamente meccanico,

ma non affermava che in effetti lo fosse.

d) Il modello teorico. E� un insieme di assunzioni su un sistema, che lo descrive attribuendogli

una struttura interna, per cui molte delle sue proprietà vengono spiegate riferendosi a questa

struttura. Un esempio è il modello atomico di Bohr o il modello di punti materiali per la teoria

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dei gas. Quando si parla di insieme di assunzioni, si vuole anche significare che questo

modello è diverso da un costrutto fisico, che può semmai essere usato per rappresentarlo. Tale

modello viene in genere identificato con la teoria, oppure è concepito come stadio intermedio

fra le osservazioni empiriche ed una teoria definitiva.

e) Il modello matematico. E� una traduzione in termini matematici di una teoria empirica, cioè

l�insieme di proposizioni matematiche che ha la stessa forma delle leggi di questa teoria; il

loro rapporto è di isomorfismo fra strutture.

Tutti i modelli sopraricordati svolgono una qualche funzione nello sviluppo della conoscenza

scientifica, ma il ruolo fondamentale � sia per quanto riguarda la crescita delle capacità esplicative e

del potere previsionale dei fenomeni oggetto della ricerca scientifica, sia per lo sviluppo delle

applicazioni tecnologiche della scienza contemporanea - spetta sicuramente alla famiglia dei

modelli teorici e, in particolare, al suo sottoinsieme costituito dai modelli matematici. E� questa la

ragione del processo accelerato di matematizzazione della scienza che, a partire dalla fisica, ha

interessato la chimica, la biologia pura e le varie biologie applicate, ma anche le cosiddette scienze

umane, dalla logica alla sociologia, dall�economia alla scienze dell�informazione.

La tassonomia di cui sopra, certamente non-esaustiva, è tuttavia sufficiente ad evidenziare due

proprietà essenziali che sono comuni a tutti i tipi di modello. La prima proprietà è che il settore

della realtà che fa da referente al modello, vale a dire la realtà modellizzata, è sempre un sistema.

Anche il termine sistema, come già il termine modello, non è privo di ambiguità; tuttavia, le

diverse accezioni in cui lo si impiega hanno in comune la connotazione minima secondo la quale

un sistema è costituito da diverse unità fra loro interconnesse in qualche modo. Vale a dire che si ha

un sistema se e solo se, dato un insieme di elementi qualunque, possono essere definiti uno o più

criteri che connettono fra loro tali elementi secondo determinate relazioni. Così, ad esempio,

l�insieme delle cellule di un organismo animale è certamente un sistema, mentre non lo è

l�aggregato dei granelli di sabbia di una spiaggia.

La seconda caratteristica comune a tutti i tipi di modello è che il modello è, necessariamente,

diverso dalla realtà modellizzata. Il primo passo nello sviluppo di un modello è sempre un processo

di astrazione, tramite il quale alcune proprietà e relazioni di un settore della realtà vengono isolate

come fondamentali mentre altri aspetti sono giudicati inessenziali, almeno riguardo al contesto

prescelto, e conseguentemente trascurati dal modello.

Ciò che si astrae come importante e ciò che invece si decide di ignorare può ovviamente variare da

modello a modello, ma il processo di astrazione in sé non ha nulla di arbitrario. Al contrario, si

tratta di un processo inevitabile, senza il quale non si dà conoscenza alcuna. Quale che sia il settore

della realtà considerato, infatti, esso è sempre estremamente � meglio infinitamente � complesso e

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conseguentemente non rappresentabile e non conoscibile in tutti i suoi aspetti. La conoscenza non

inizia dal vedere bensì dal guardare la realtà, richiede cioè una decisione pregiudiziale su ciò che si

vuole conoscere.

Questa proprietà è all�origine di una sorta di contraddizione intrinseca nell�utilizzazione dei

modelli, che possiamo indicare come il paradosso della modellizzazione. Se è vero infatti che un

modello è �nel senso che deve essere- diverso dalla realtà, è però altrettanto vero, ovviamente, che

un modello è tanto più valido quanto più numerosi sono gli elementi della sua struttura che sono

invece isomorfi alla realtà modellizzata.

Migliorare un modello significa allora renderlo sempre più simile alla realtà ma, d�altra parte, se un

modello si complica oltre un certo limite, perde la sua capacità esplicativa ed ogni funzione

conoscitiva.

Questo paradosso era ben noto già agli studiosi dell��800. Lewis Carrol, l�autore di ALICE NEL

PAESE DELLE MERAVIGLIE che era anche un noto matematico, ci racconta, nel linguaggio della

favola, cosa succede quando si spinge all�estremo il paradosso dei modelli. Seguite questo dialogo:

�abbiamo effettivamente realizzato una mappa del paese, su una scala di un miglio a un miglio!�. �L�avete usata molto?� chiesi. �Finora non è mai stata diffusa� disse Mein Herr, �i contadini hanno avuto da ridire: sostengono che avrebbe ricoperto l�intero paese, occultando la luce del

sole! Così adesso usiamo l�intero paese come sua stessa mappa, e posso assicurarvi che funziona davvero bene�.

Einstein ricordava in questo modo la necessità di mantenere ferma la distanza fra modelli

matematici e realtà modellizzata:

�quando le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, non sono certe, e quando sono certe non si riferiscono alla realtà�

Il paradosso dei modelli ha una conseguenza fondamentale, che riguarda il contenuto di verità dei

modelli stessi. La proprietà sopra ricordata, per cui un modello è sempre per alcuni aspetti simile

ma, per altri �infiniti- aspetti, diverso dalla realtà a cui si riferisce, mostra, per un verso, che il

medesimo settore della realtà può essere modellizzato in una infinità di modi diversi a seconda delle

proprietà e delle relazioni che, di volta in volta, si astraggono dalla realtà; ma, per l�altro, forza

anche alla conclusione, certamente non facile da accettare, onde un modello non può essere valutato

in base ad un criterio di verità, cioè di una sua corrispondenza o perfetta sovrapponibilità alla realtà

modellizzata. Un modello non è più vero o più falso di un altro; può essere più o meno valido, più o

meno utile o funzionale, più o meno proficuo od opportuno; ma interrogarsi sul suo contenuto di

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verità non ha significato alcuno, almeno che non si voglia rispondere �ma la risposta può essere

pericolosa al livello del buon senso comune- che tutti i modelli sono egualmente falsi.

Recentemente una prestigiosa rivista di fisica teorica ha pubblicato una vignetta in cui era figurato il

buon Dio, con tanto di barba bianca, che comodamente seduto su una nuvola, dopo aver letto un

manuale di meccanica quantistica, non riesce a trattenere una fragorosa risata. Quale altro modo può

esprimere meglio l�abbandono da parte dei fisici teorici di ogni pretesa di descrivere con i loro

complicatissimi modelli matematici la realtà delle molecole, degli atomi, dei nuclei, dei quarcks, e

via dicendo? Eppure la meccanica quantistica funziona, basta pensare alle bombe nucleari!

La necessità di non pensare più a teorie e modelli in termini di verità è forse la pietra di inciampo

più dura e la ragione più fondamentale di contrasto fra quella che possiamo chiamare cultura

modellistica ed il paradigma culturale della biologia tradizionale.

Ma i paradossi, come gli esami, non finiscono mai! C�è anche chi, non senza ragione se ci si riflette

un attimo, si spinge ancora più a fondo e non si limita a rompere il legame funzionalità-verità , ma

ritiene che un modello possa essere valido e funzionale senza che lo si comprenda a fondo e senza

che si conoscano perfettamente le ragioni della sua funzionalità.

Consideriamo il brano seguente:

�Ci fu un tempo in cui i giornali dicevano che solo dodici persone capivano la teoria della relatività. Io non credo che questo tempo sia mai esistito. Ci può essere stato un momento in cui

solo una persona capiva, perchè egli era il solo uomo che ci aveva pensato, prima di scriverne. Ma dopo la lettura del suo lavoro, molte persone capirono la teoria della relatività, certamente più di

dodici. Invece io penso di poter affermare con sicurezza che assolutamente nessuno capisce la meccanica quantistica� .

Chi scrive queste cose non è un uomo della strada o una persona dotata di sola cultura umanistica,

nè un medico o un biologo; è Richard Feymann, uno dei più prestigiosi studiosi di meccanica

quantistica della seconda generazione.

Nel seguito di questo capitolo ci occuperemo prevalentemente dei modelli teorici e dei modelli

matematici, con qualche cenno alla modellizzazione analogica, dato il ruolo centrale che questo tipo

di modelli ha giocato e gioca nello sviluppo della conoscenza scientifica e della tecnologia

contemporanea. Il settore della realtà modellizzato, a cui faremo riferimento nella maggior parte

degli esempi, è quello tradizionalmente oggetto delle scienze zootecniche, ma i concetti generali ed

i metodi analizzati sono facilmente trasferibili ad altri ambiti della biologia pura ed applicata.

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4.2 Modelli teorici e modelli matematici

I modelli teorici, comunemente noti come teorie, hanno la funzione primaria di accrescere la

conoscenza relativa ad ambiti specifici della realtà oggetto delle diverse scienze empiriche. Essi

sono costruiti come strutture di proprietà e di relazioni, espresse nei linguaggi specifici delle

discipline a cui appartengono.

I modelli matematici costituiscono, come si direbbe per l�appunto in matematica, un sottoinsieme

proprio dei modelli teorici, caratterizzato dal fatto che le proprietà e le relazioni di una teoria sono

espresse nel linguaggio, e seguono la logica, della matematica. Ciò equivale a dire che, mentre ci

sono molte teorie che non si possono tradurre in modelli matematici, al contrario tutti i modelli

matematici sono anche � o meglio prima- modelli teorici. Questa precisazione deve essere

considerata con attenzione, perchè da essa discendono conseguenze molto importanti per la pratica

della modellizzazione matematica, particolarmente in campo biologico.

Nelle discussioni sul ritardo del il processo di matematizzazione che ancora interessa vari settori

importanti delle scienze biologiche, si sente spesso obiettare, da parte di studiosi anche molto seri e

preparati ma formati alla cultura della biologia tradizionale, che la ragione di tale ritardo deve

essere cercata nella scarsa preparazione matematica della maggior parte dei ricercatori in questi

campi. Questa obiezione è però un comodo alibi, che cerca di coprire, più o meno consapevolmente,

un problema più profondo e molto più grave, vale a dire la carenza di riflessione teorica: gli ambiti

della biologia per i quali mancano i modelli matematici sono quelli in cui sono assenti teorie

esplicativa strutturate e coerenti.

Una decisiva prova a contrario dell�attendibilità di questa affermazione è la seguente. Tra i vari

settori coperti dalle scienze zootecniche, la disciplina della genetica quantitativa è l�unica altamente

matematizzata. Lo è tanto da aver innescato un meccanismo di feed-back, grazie al quale la

zootecnica può vantare il merito di aver fatto avanzare la conoscenza matematica in un campo di

grande interesse quale è la teoria dei cosiddetti modelli lineari misti. Ebbene, la genetica

quantitativa è l�unico settore delle scienze zootecniche che ha sviluppato autonomamente un

edificio teorico compatto ed articolato, ben fondato su una solida base concettuale, mentre altri

settori, non meno importanti della zootecnica, derivano i concetti essenziali dall�anatomia, dalla

fisiologia, dalla biochimica, e non sempre riescono a ricollocare tali concetti in una struttura teorica

originale e dotata di una sua autonoma coerenza interna.

Un�altra proprietà fondamentale accomuna tutti i modelli teorici e, di conseguenza, tutti i modelli

matematici. La potente funzione conoscitiva di questi modelli non si esplica con un rapporto im-

mediato della teoria al settore della realtà modellizzato. Il referente diretto di un modello teorico è

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invece un insieme astratto di oggetti, come oggi si direbbe, virtuali, completamente definiti dalle

proprietà e relazioni in cui si articola la teoria. Il rapporto è pertanto mediato dalla teoria al sistema

oggettuale astratto e, infine, al mondo oggettuale empirico o reale. Tra il modello teorico ed i suoi

oggetti virtuali vige, evidentemente, una relazione di verità; mentre fra un modello teorico, o un

modello matematico, e la realtà il rapporto è, come si è già detto nel paragrafo precedente, di utilità

e di funzionalità.

Questa caratterizzazione dei modelli teorici, che si è affermata definitivamente negli ultimi

decenni con il notevole impulso dato allo sviluppo dei modelli matematici sempre più sofisticati

dalle enormi potenzialità di calcolo degli elaboratori elettronici, configura una vera e propria

rivoluzione nella concezione del realismo ingenuo che ha dominato il campo dell�epistemologia

dagli albori della scienza moderna fino ai primi decenni del novecento. Nessun teorico della

matematica applicata contemporanea potrebbe oggi condividere questo brano del SAGGIATORE di

Galileo, universalmente riconosciuto tra i padri fondatori della scienza moderna:

�La filosofia (scienza per Galileo) è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, ma non si può intendere se prima non si impara ad intendere la lingua, a conoscere i caratteri, nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.�

Oggi siamo molto più modesti, non pretendiamo di conoscere il linguaggio in cui è scritta la

natura, anche per evitare che il Padreterno continui a ridere della nostra presunzione. Ci è

sufficiente che i nostri modellini funzionino �finchè funzionano -; che ci diano una spiegazione

sufficiente e credibile dei fenomeni che in un dato momento ci interessano, spiegazione sempre

provvisoria, sempre perfettibile, sempre rimovibile. Almeno in campo scientifico non siamo più

dogmatici, siamo diventato pragmatici e convenzionabili, non sosteniamo un modello perchè

crediamo che sia vero, ma perchè siamo d�accordo sulla sua proficuità e sulla utilità, per noi, dei

suoi prodotti.

4.3 Dentro la pratica della modellizzazione matematica

Come la famiglia dei modelli teorici comprende i due sottoinsiemi dei modelli matematici e delle

teorie che si lasciano tradurre in linguaggio matematico, così l�insieme dei modelli matematici è a

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sua volta segmentato in diversi sottoinsiemi, che è fondamentale saper distinguere, non certo in

ossequio ad una qualche foga classificatoria, ma al fine di evitare equivoci o confusioni, che hanno

prodotto � e ancora producono- gravi conseguenze nella pratica della modellizzazione matematica.

Una prima differenziazione separa i cosiddetti modelli statici dai modelli dinamici.

I valori delle grandezze sviluppate nei modelli matematici sono sempre, in qualche modo e in

qualche scala, dipendenti dal tempo; ma non sempre un modello tematizza esplicitamente la

relazione fra le variabili che interessano e la variabile tempo. Ad esempio, uno studioso di

alimentazione potrebbe essere interessato a costruire un modello capace di collegare la quantità di

sostanza secca di erba (Y) ingerita da un gregge di pecore alla quantità di erba presente in campo

(X1), all�altezza dell�erba (X2), alle proporzione delle leguminose (X3), al contenuto in proteine (X4)

e a quello in fibra (X5) dell�erba. Il modello, se riesce, si presenterà nella forma del tipo:

Y = f(X1, X2, X3, X4, X5)

dove f è il simbolo corrente di funzione, cioè dell�equivalente matematico del concetto logico di

relazione o legame. E� ovvio che l�ingestione è un fenomeno che avviene nel tempo, ma l�interesse

del ricercatore non è indirizzato, in questo caso, all�evoluzione temporale dell�ingestione, bensì alla

sua dipendenza dai fattori detti sopra.

Ma i modelli statici più diffusi sono quelli che si utilizzano per indirizzare l�analisi statistica dei

campioni di informazioni sperimentali. Purtroppo l�ambito della statistica è il regno degli equivoci e

delle pessime interpretazioni! Non basterebbe un libro intero solo per elencare i gravi errori che si

riscontrano nelle applicazioni della statistica alle scienze biologiche. Ci limiteremo pertanto ad

evidenziare i due equivoci essenziali che maggiormente si legano alla caratterizzazione dei modelli

matematici che abbiamo sviluppato nei paragrafi precedenti. Il primo equivoco è che parecchi

ricercatori non paiono consapevoli del fatto che, quando sviluppano un�analisi statistica, si servono

di un modello matematico. Così non è affatto inverosimile la situazione di un ricercatore che,

elaborando i dati osservativi relativi all�altezza di un campione di esseri umani di età compresa fra

20 e 60 anni, con l�analisi della varianza comprendente il solo fattore sesso, affermi � io non ho

fatto uso di alcun modello; ho solamente verificato se il fattore sesso ha un�influenza nel

determinare l�altezza degli esseri umani, testando la significatività statistica della differenza fra

l�altezza media dei maschi e l�altezza media delle femmine presenti nel mio campione�.

Contemporaneamente egli, però, avrà scritto una relazione di questo tipo:

ijh� = µ + αi

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la quale dice che l�altezza stimata ijh� del j-mo individuo di sesso i (i = 1 per i maschi e i = 2 per le

femmine) è data dalla somma della media generale µ

più il contributo specifico (α1 o α2) del sesso dell�individuo in esame. Ma questo è,

evidentemente, un modello matematico! Ignorando ciò, il nostro ricercatore ignorerà anche � ed è

questo il secondo ed ancor più grave errore � di aver adottato una teoria che, come tutte le teorie,

non si riferisce direttamente agli esseri umani del campione, ma ad un insieme di individui astratti,

definiti dalla proprietà onde tutti i maschi hanno la stessa altezza (µ + α1) e così tutte le femmine

(µ + α2). Un individuo reale invece ha un�altezza hij = ijh� + eij , dove il termine eij , che tanto per

aumentare la confusione si chiama normalmente errore, non è niente di di sbagliato, ma vuole solo

significare lo scarto irriducibile fra la previsione teorica e la realtà, scarto che, per definizione, nel

contesto definito dal modello non interessa ed è perciò lasciato al caso: è il residuo casuale del

modello.

Interrompiamo qui questa digressione sui modelli della statistica � ampiamente sviluppati in capitoli

specifici � accontentandoci di aver evidenziato che: a) ogni analisi statistica si sviluppa alla luce di

un modello matematico e b) i modelli statistici appartengono alla classe dei modelli matematici

statici.

E passiamo ai modelli dinamici, che trovano largo impiego nelle scienze biologiche pure ed

applicate, pur non essendo anche essi sempre compresi pienamente nè sempre utilizzati in modo

corretto.

Nella sua forma più semplice e più diffusa un modello dinamico si limita a rappresentare in termini

matematici l�evoluzione temporale di una o più grandezze ritenute essenziali per la descrizione del

fenomeno oggetto di studio. Il risultato della modellizzazione è allora, per ciascuna grandezza, una

funzione continua e regolare del tempo, vale a dire una funzione del tipo y = f(t), nella quale

compaiono, oltre al tempo, uno o più parametriche debbono essere determinati nei modi di cui

diremo. Se questo è il risultato, le informazioni sperimentali, cioè la realtà empirica a cui il modello

è riferito in modo più o meno diretto, costituiscono invece sempre un insieme finito e discreto y1, y2,

y3,....yn di valori della grandezza y rilevati nei tempi t1, t2, t3,....tn . Il modello sostituisce pertanto la

successione dei valori sperimentali, rappresentabile in un piano (y,t) da una nuvola di punti, con

una curva continua e regolare, immagine della funzione y = f(t). Immaginiamo, ad esempio, di aver

misurato dieci valori compresi nell�intervallo di crescita di una popolazione naturale, e che tali

valori siano rappresentati dai dieci punti della figura 1.

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0

20

40

60

80

100

Tempo (Scala arbitraria)

W (s

cala

arb

itrar

ia)

Figura 4.1 - Crescita esponenziale della numerosità della popolazione

La curva continua che passa attraverso la nuvola di punti è sicuramente un buon modello

matematico del processo di accrescimento. Essa costituisce la rappresentazione grafica di una

funzione esponenziale crescente del tipo:

W(t) =W0 ekt [1]

la quale contiene due parametri W0 e k, il cui significato, rispetto al fenomeno modellizzato, è di

semplice e fondamentale interpretazione. Il parametro W0 indica, infatti, il valore iniziale, al tempo t

= 0, della grandezza W(t) numerosità della popolazione al tempo t, mentre il parametro k è il

cosiddetto tasso relativo di accrescimento, cioè l�accrescimento nell�unità di tempo = dW/dt, riferito

al valore di W; vale a dire:

k = 1/W * dW/dt [2]

I modelli matematici di questo tipo sono noti come modelli dinamici empirici, o descrittivi, perchè

� si dice � la loro funzione conoscitiva non va oltre una descrizione in termini matematici del

fenomeno studiato. In particolare i modelli empirici non ambiscono a comprendere le ragioni dei

processi evolutivi che rappresentano, cioè non penetrano nel meccanismo o nei meccanismi che

stanno all�origine degli andamenti temporali delle variabili espresse in funzione del tempo e che,

per questo tipo di modelli, rimangono al livello di scatole nere (black box models è infatti un altro

termine che comunemente denota i modelli empirici; Figura 4.2).

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Sistema reale

Modello

Figura 4. 2 � I modelli descrittivi imitano il sistema con l�uso diinput e output (da Bossel, modificata).

Questa caratterizzazione deve, però, essere considerata con mol

necessario evitare di dare alla qualificazione di �modello descrit

fondamento teorico o quello di un riferimento immediato alla re

in cui la successione discreta dei dati sperimentali è costituita da

= f(t), si afferma una concezione teorica molto forte, secondo la

dell�evoluzione temporale della grandezza in esame è del tipo co

rimanda a qualche meccanismo, più o meno profondo, di regola

Inoltre, il riferimento immediato del modello non è l�insieme de

l�insieme dei valori stimati y� = f(t) che, come accade in tutti i m

più volte, differiscono dai valori misurati, di una quantità più o m

solitamente indicata come �residuo o errore casuale�, non spieg

non trascurabile contenuto teorico generale, rimane tuttavia il fa

empirico non è sviluppare una teoria specifica sui meccanismi p

input

osservazioni

input

relazioni matematiche che legano

ta cautela. In particolare è

tivo� il significato di un�assenza di

altà empirica. Infatti, nel momento

l grafico di una funzione analitica Y

quale la componente essenziale

ntinuo e regolare, cioè del tipo che

zione e controllo del fenomeno.

i valori sperimentali y, bensì

odelli e come abbiamo ricordato

eno grande y - y� = Σ ,

ata dal modello. Malgrado questo

tto che costruire un modello

rofondi che stanno all�origine della

output

output

regressione e correlazione

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particolare evoluzione temporale rappresentata dalla funzione � o dalle funzioni- che esso

suggerisce.

I modelli matematici che, invece, si pongono esplicitamente questo ulteriore compito di

esplicazione sono detti del tipo meccanico, o esplicativo o white box, nella misura che penetrano � o

tentano di penetrare � ed illuminano le scatole nere del sistema di regolazione e di controllo dei

processi evolutivi superficiali modellizzati al livello empirico (Figura 4.3).

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Sistema reale

Modello

Figura 4.3 � I modelli esplicativi rappresentano la struttura essenziale del sistema (da Bossel, modificata). Ritorniamo all�esempio della dinamica di una popolazione naturale, la cui numerosità varia nel

tempo con un andamento la cui componente continua e regolare è rappresentata dalla funzione

esponenziale [1]. Il meccanismo più elementare di regolazione del numero di individui in una

popolazione isolata, in assenza di processi migratori, è costituito dalle nascite e dalle morti, i cui

tassi rispettivi b e d, possono essere combinati nel tasso di crescita k = b � d, positivo se il tasso di

natalità è maggiore del tasso di mortalità, negativo nel caso contrario. Possiamo allora scrivere:

dW/dt = kW [3]

input

output input

output

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La relazione [3] appartiene alla famiglia delle equazioni differenziali e configura un particolare

modello meccanico di dinamica delle popolazioni naturali nella misura che traduce in termini

matematici, una concezione teorica del meccanismo regolatore della numerosità di una popolazione.

Nel linguaggio corrente tale asserzione suonerebbe così: la variazione del numero degli individui

nell�unità di tempo (dW/dt) si spiega con gli individui che, nell�unità di tempo, nascono a cui si

sottraggono quelli che muoiono. Sia il numero dei nuovi nati che quello dei morti sono

proporzionali al numero di individui presenti al tempo t (dW/dt = bW � dW = (b-d)W = kW).

La soluzione dell�equazione differenziale [3] o, come si dice in gergo matematico, la sua

integrazione, sfocia per l�appunto in una funzione esponenziale del tipo [1], attinta dalla

modellizzazione empirica delle informazioni sperimentali originarie.

A questo punto il cerchio può essere chiuso, nel senso che siamo autorizzati a dire che la nostra

popolazione evolve secondo una legge di crescita esponenziale, in forza di un meccanismo

regolatore della numerosità che, nella sua essenza, si riduce ai fenomeni biologici più elementari

della riproduzione e della morte.

Il percorso logico che abbiamo seguito in questo esempio, dalle informazioni sperimentali al

modello empirico-descrittivo al modello meccanico-esplicativo, pur essendo il più diffuso nella

pratica, non è tuttavia obbligatorio. Altrettanto, se non più proficuo, può rivelarsi in certe situazioni

il percorso inverso che muove da una teoria � che funge da ipotesi teorica � arriva alla sua

traduzione in termini matematici, prosegue con il modello descrittivo, cioè con lo sviluppo di una o

più funzioni continue e regolari compatibili con il modello meccanico, e infine verifica se esistono

insiemi di dati sperimentali che si adattano in buona misura a tali funzioni. Se, e quando, il

percorso è completato con successo, l�ipotesi teorica di partenza diventa una teoria verificata dove,

come al solito e con buona pace dell�etimologia, verificata non significa accertata come vera, bensì

riconosciuta come utile.

Esemplifichiamo questo secondo percorso logico rimanendo nell�ambito delle popolazioni naturali.

Ipotizziamo un meccanismo di regolazione della numerosità, tale che i fenomeni biologici

elementari delle nascita e della morte siano, a loro volta, controllati da quella che gli ecologi

chiamano capacità di sostentamento (carring capacity) dell�ambiente, nel senso che, quando il

numero degli individui = Wt è molto inferiore al numero massimo = Wf che l�ambiente può

agevolmente sostenere, la popolazione nel complesso tende a crescere rapidamente; mentre, a mano

a mano che la numerosità si avvicina al massimo tollerato dall�ambiente, il tasso di crescita rallenta

fino ad azzerarsi. La traduzione matematica di questa ipotesi teorica è nuovamente un�equazione

differenziale che assume la forma:

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dW/dt = k (Wf - W) [4]

Integrando l�equazione [4] si ottiene una funzione continua e regolare del tipo:

W(t) = Wf (1 - e-kt) [5]

la cui rappresentazione grafica è la curva ad andamento asintotico riportata nella figura 4.4.

0

0,2

0,4

0,6

0,8

1

Tempo (Scala arbitraria)

W (s

cala

arb

itrar

ia)

Figura 4.4 - Crescita esponenziale asintotica

Poichè non è affatto difficile trovare popolazioni naturali, soprattutto fra quelle capaci di darsi una

qualche organizzazione sociale, che evolvono in modi simili a questo, concluderemo che il

meccanismo regolatore ipotizzato può essere annoverato fra i modelli matematici dotati di potere

esplicativo, nell�ambito della dinamica delle popolazioni.

Un po� per ragioni di completezza, ma soprattutto al fine di illustrare la flessibilità caratteristica

della modellizzazione matematica, vale a dire la possibilità di articolare ed arricchire un modello

originario che appaia troppo elementare ed astratto fino a renderlo il più possibile isomorfo alle

situazioni reali più diffuse, consideriamo sempre in riguardo alla dinamica delle popolazioni

animali, il seguente modello meccanico:

dW/dt = kW (Wf - W) [6]

La concezione teorica espressa dell�equazione differenziale, non più lineare, dovrebbe risultare

immediatamente chiara. Essa afferma che la variazione della numerosità è controllata da un

meccanismo che risulta dalla combinazione dei due processi elementari suggeriti dai due modelli

precedenti; vale a dire che il tasso di accrescimento è proporzionale, per un verso, al numero degli

individui presenti e, per l�altro, alla distanza di tale numero dalla carring capacity dell�ambiente.

L�integrale generale dell�equazione [6] è la ben nota funzione logistica:

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W W WW W W e

f

fkt=

+ − −

0

0 0( ) [7]

la cui rappresentazione grafica è la curva sigmoide della figura 4.5.

0

0,2

0,4

0,6

0,8

1

Tempo (Scala arbitraria)

W (s

cala

arb

itrar

ia)

Figura 4.5 - Crescita di tipo logistico

L�importanza di questa funzione, non solo riguardo alla dinamica delle popolazioni naturali, ma in

generale nella modellizzazione empirica di tutti i processi di accrescimento, non ha bisogno di

ulteriori commenti.

Non sempre i modelli matematici che si utilizzano nella pratica, in riferimento ad un ambito

specifico della realtà ed in una situazione altrettanto specifica di sviluppo delle conoscenze, possono

essere classificati sotto l�una o l�altra categoria, dei modelli descrittivi e dei modelli esplicativi.

Succede spesso che un modello realizzi un compromesso fra queste due categorie, si presenti cioè

come una sorta di gray box model, per certi aspetti empirico, per altri meccanico. Ciò accade, in

particolare, per quegli ambiti della realtà per i quali è possibile tematizzare una successione in

profondità di livelli diversi di organizzazione, come è il caso, ad esempio, del sistema allevamento

dal cui livello si può far partire la serie (France & Thornley, 1984):

livello descrizione del livello

i + 1 allevamento i animale i � 1 organi

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i � 2 tessuti i � 3 cellule In generale, i modellizzatori empirici formulano le equazioni ad un dato livello di organizzazione

sulla base dei dati ricavati a quello stesso livello. Pertanto, i dati ottenuti a livello di allevamento (i

+1) sono utilizzati per la descrizione del comportamento del sistema allevamento e non per quello

del sistema animale (livello i) ne tantomeno per quello del sistema organo ( livello i � 1). Viceversa,

le equazione ottenute ad un livello inferiore possono essere combinate fra di loro in un modello

semiempirico sviluppato a uno o più livelli superiori. Ad esempio, un modello di azienda può

essere costruito dall�assemblaggio di molte equazioni costruite al livello animale ed il livello

animale può a sua volta derivare dalla riunione di più modelli ottenuti al livello di organi.

Chiudiamo questo paragrafo cercando di dare una risposta all�interrogativo fondamentale che, a

questo punto, necessariamente si apre. Immaginiamo di aver sviluppato un modello con una

componente empirica ed una componente esplicativa, per un complesso di fenomeni che riteniamo

utile descrivere e comprendere in termini matematici. Come giudicheremo il risultato del nostro

lavoro? Quali sono i criteri a cui si deve fare riferimento per formulare un giudizio di merito

obiettivo su un modello matematico? La risposta a questo punto discende logicamente da tutto ciò

che abbiamo detto finora sul rapporto fra modelli e realtà, è molto semplice e deve essere formulata

in modo netto e deciso, anche se può lasciare in molti un senso di insoddisfazione: non esistono

criteri obiettivi per la valutazione delle bontà di un modello matematico, sia esso empirico o

meccanico; un modello è funzionale o proficuo se la comunità scientifica nel suo complesso lo

accoglie e lo utilizza; è inutile nel caso contrario. Ma un modello che è inutilizzato oggi, potrà

essere ripreso fra dieci anni; mentre una teoria che oggi va per la maggiore potrà, fra qualche anno,

essere completamente dimenticata.

Tuttavia, se ciò che si deve fare rimane necessariamente indefinito, è invece possibile e doveroso

dire ciò che non si deve fare per valutare la bontà di un modello. In estrema sintesi: non si deve fare

quanto sembra ovvio fare. Consideriamo il caso di due o più modelli a prevalente componente

empirica, sviluppati allo scopo di descrivere in termini matematici l�evoluzione temporale della

stessa grandezza, a partire da un insieme discreto di informazioni sperimentali. L�idea più ovvia è

quella di confrontare i modelli in competizione sulla base della loro diversa capacità di adattamento

ai dati sperimentali per poi scegliere, come migliore, la funzione che consente l�adattamento

maggiore, o lo scarto minore, rispetto alla realtà modellizzata. La teoria della regressione suggerisce

varie tecniche per valutare quantitativamente l�adattamento di una funzione continua ad una nuvola

di punti. Un criterio assi diffuso è il famigerato R2. Maggiore è l�R2 migliore è la capacità di

adattamento. Eppure scegliere fra più funzioni in competizione quella per cui l�R2 è più elevato può

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essere un grave errore. Torniamo un attimo ai diversi patterns per i processi di accrescimento.

Immaginiamo una grandezza che evolve con andamento di tipo logistico, ma tale che i dati

sperimentali siano addensati nella parte prossima all�asintoto con solo qualche valore rilevato nella

fase iniziale e in vicinanza del punto di inflessione. Può bene accadere che la funzione esponenziale

asintotica [5] si adatti all�insieme di informazioni sperimentali meglio della curva logistica.

Analogo è il caso dei modelli a prevalente componente meccanica. Poichè lo scopo essenziale di

questi modelli è la comprensione dei meccanismi che regolano il fenomeno in esame, il

suggerimento più ovvio è quello di privilegiare i modelli che tengono conto del maggior numero di

dettagli, o meglio che si adattano alla complessità di qualsivoglia sistema regolatore naturale.

Anche questo criterio, se lo si adotta in maniera dogmatica, può portare a conseguenze disastrose.

Accade frequentemente, infatti, che più si complica un modello meccanico, più aleatoria diventa la

sua risposta, che risulta controllata dal dettaglio rappresentato in modo più impreciso.

Infine, si rischia di dimenticare il requisito più cogente della modellizzazione matematica e, più in

generale, della elaborazione teorica: le teorie hanno bisogno di tempo; un modello che appare

inizialmente ultra-schematico ed astratto, deve avere il tempo per dimostrare la sua flessibilità, la

sua capacità di articolarsi gradualmente, di correggersi, di complicarsi e di ristrutturarsi.

Nessuna delle teorie che attualmente accettiamo, nei diversi campi della ricerca scientifica, starebbe

ancora in piedi se, nella sua fase embrionale, la si fosse sottoposta al criterio dell'abbondanza dei

dettagli.

4.4 alcune applicazioni della modellizzazione ad un settore della biologia applicata: le scienze

zootecniche

La modellizzazione matematica dinamica, sia del tipo empirico che meccanico, si è sviluppata in

direzioni particolarmente interessanti nel campo della zootecnica, data l�intrinseca complessità del

sistema animale e la necessità che ne consegue di utilizzare strumenti di calcolo sofisticati e capaci

di fornire risposte adeguate in tempi brevi.

In questo capitolo sarà brevemente illustrato il problema degli strumenti da impiegare nella

modellizzazione computerizzata e saranno forniti alcuni esempi di modelli dinamici e statici.

4.4.1. Gli strumenti della modellizzazione

I modelli più interessanti, nelle applicazioni al settore zootecnico, sono sviluppati con l�ausilio di

elaboratori elettronici con l�impiego di softwares che, a seconda del tipo di modello elaborato,

possono essere continui o discontinui.

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I softwares discontinui, per le loro caratteristiche intrinseche, non possono che accertare soluzioni

(punti) che individuano i risultati realizzabili date determinate scelte, ma non permettono di trovare

il risultato ottimo in assoluto né tutti i risultati possibili contemporaneamente e non consentono

quindi la simulazione completa e continua del processo.

Il prodotto della simulazione è rappresentato, in questo caso, da un insieme di soluzioni

nell�ambito delle quali può essere scelta quella più idonea per il raggiungimento degli obiettivi

preposti.

I modelli di questo tipo sono prevalentemente realizzati con l�utilizzo di una classe di programmi,

i cosiddetti fogli elettronici o spreadsheets, di larga diffusione e di facile utilizzazione anche da

parte di utenti non esperti nell�uso dell�informatica.

La realizzazione del modello presuppone la conoscenza approfondita della realtà operativa da

simulare, ma l�uso dei fogli elettronici non richiede particolari competenze in informatica.

La costruzione del modello avviene con l�inserimento all�interno del foglio, della serie desiderata

di relazioni tra celle o blocchi di celle: il compito dell�utilizzatore si riduce all�inserimento dei dati

nelle caselle predisposte, ed il software rende i risultati immediatamente disponibili.

Nel caso dei softwares continui, le informazioni riguardanti la struttura generale di un sistema

dinamico possono essere trasformate in un modello matematico caratterizzato da un certo numero di

equazioni. Le relazioni fra le variabili di stato, però, possono anche essere vantaggiosamente

rappresentate in un modo diverso, strettamente legato alla potenza di calcolo e alle capacità grafiche

dell�elaborazione elettronica, che realizza una originale e proficua combinazione dei modelli

matematici e della modellizzazione analogica. La grande utilità di questo metodo di lavoro si deve

al fatto che esso non richiede la scrittura di formule anche se durante lo sviluppo di modelli

complessi, sono spesso necessarie numerose e ripetute modifiche dell�architettura del modello.

Un programma molto diffuso che lavora in questo modo è il software STELLA® della High

Performance System (Hanover - USA) in cui la notazione utilizzata è quella del metodo detto dei

sistemi dinamici di Forrester (1961, 1968) basati su un linguaggio di simulazione denominato

DYNAMO (BOSSEL, 1994). La componente analogica consiste nella rappresentazione del sistema

simulato in termini idraulici in cui i flussi esprimono i ritmi di cambiamento del livello dei serbatoi

rappresentanti le variabili di stato (figura 4.6).

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variabili di stato

variabili intermedie

stato

tasso

parametro

a

ab

b Figura 4.6. Principali notazioni grafiche usate dal programma STELLA.

Questi flussi, in entrata o in uscita, sono regolati da valvole la cui taratura è a sua volta regolata da

manometri (graficamente indicati con circonferenze ad esse legati da frecce). I flussi sono

rappresentati da frecce con linea doppia (tale linea doppia rappresenta il tubo all�interno del quale

scorre il liquido, cioè il flusso di variazione della variabile di stato, in una direzione indicata dalla

freccia: in entrata al serbatoio per indicare aumento del valore della variabile di stato, in uscita per

la diminuzione), le influenze da frecce con linea singola o connettori. I diagrammi di STELLA

mostrano contemporaneamente i due diversi processi relativi alle variazioni (positive o negative)

dei valori delle variabili di stato sotto forma di flussi ed ai fattori responsabili di queste variazioni.

La costruzione di un modello con STELLA inizia con la rappresentazione del diagramma di struttura

del sistema. Per ogni serbatoio (indicato da un rettangolo) e per il ritmo di variazione ad esso

associato, il programma crea una equazione generica che deve essere completata dai valori relativi

alla condizione iniziale della variabile di stato (un numero) e dell�entità della variazione del flusso

(un numero o una relazione fra più variabili). Da ultimo è necessario stabilire la durata del tempo di

simulazione. Il risultato della simulazione può essere visualizzato sia sotto forma di tabella che di

grafico. I risultati di diverse simulazioni possono essere combinati in un unico grafico comparativo

che rende così più immediatamente visibile l�influenza della variazione del valore di un parametro

sul comportamento del modello.

Nella figura 4.7 è riportata la notazione utilizzata da STELLA per rappresentare un diagramma di

flusso relativo ad un fenomeno di tipo esponenziale semplice.

La doppia freccia di cui è dotato in questo caso il tubo indica che il flusso di variazione della

variabile di stato può essere in aumento o in diminuzione; il connettore che collega il serbatoio al

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manometro rende conto del fatto che l�accrescimento è, istante per istante, proporzionale al valore

del suo contenuto; il valore iniziale del flusso è determinato dal circolo collegato al manometro dal

connettore.

W

k

dWdt

Figura 4. 7 - Esempio della rappresentazione di STELLA riportante un fenomeno esponenziale semplice.

4.4.2 LA MODELLIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE DEL LATTE

La produzione del latte

Il fenomeno della produzione del latte è, probabilmente, una delle più interessanti manifestazioni

naturali sia sotto l�aspetto speculativo perché è espressione di un meccanismo biologico altamente

complesso, sia sotto quello pratico-applicativo poichè anche noi, in quanto mammiferi, ne siamo

intimamente partecipi. Il latte dei ruminanti domestici (ma in certe zone anche degli equidi e dei

camelidi) rappresenta inoltre uno degli alimenti principali per vasti strati della popolazione

mondiale.

La produzione quantitativa di latte considerata interspecificamente per gli ungulati (ordine al quale

appartengono i ruminanti), se espressa in energia (E0 in kcal/d), è legata allometricamente al peso

corporeo della madre (W in kg) secondo la relazione (Mepham, 1987):

E0 = 176 W0,731

il cui valore dell�esponente non è significativamente differente da quello della cosiddetta legge di

Kleiber (metabolismo basale = k * (peso corporeo)3/4 ) in quanto l�output energetico sotto forma di

latte è, ovviamente, fortemente correlato al metabolismo materno. Se si prende per riferimento il

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valore di k = 70,5 calcolato da Benedict (cit. da Calder, 1996), si può notare che l�output

energetico di un animale che allatta è di 2,5 volte il suo fabbisogno metabolico basale.

Il latte è secreto dalla mammella, un organo di elevata complessità intimamente raccordato con la

restante parte dell�organismo animale. La massa della mammella (Mm) è allometricamente legata a

quella corporea dell�animale (W) secondo la relazione (Handwell e Pearker, 1977):

Mm = 0,045 W0,819

il cui maggior valore dell�esponente rispetto a quello dell�equazione [1] è spiegabile con la

necessità che mammelle più grandi abbiano una maggiore quantità di tessuto di sostegno rispetto al

tessuto secretorio (Calder, 1996).

La lattazione è un processo fisiologico caratterizzato da sintesi e secrezione, oltrechè dalla

filtrazione attiva e passiva dal sangue, di composti organici e inorganici e di acqua da parte di

cellule epiteliali specializzate della ghiandola mammaria. Queste cellule, di forma cuboide con

orientamento polarizzato, sono disposte in strutture sferiche (alveoli) con lume centrale all�interno

del quale è secreto il latte. La struttura secretoria subisce una sostanziale modificazione nel corso

della lattazione: ad una fase di rapida attivazione cellulare, che inizia durante la gestazione e

prosegue con ritmo decrescente per la prima fase della lattazione, segue una di più o meno lenta

regressione (rimodellamento cellulare) che si conclude con la cessazione della lattazione (Hurley,

1989). Quest�ultimo evento riveste un�importanza biologica fondamentale in quanto consente lo

svezzamento del neonato e la possibilità di riorientare le risorse alimentari a disposizione della

madre verso una nuova gestazione.

La quantità di latte prodotto (LP) da una ghiandola mammaria, in una determinata fase della

lattazione, dipende dal numero di cellule secretrici attive (nC) e dall�efficienza di sintesi di ciascuna

cellula (h) per cui:

LP = h nC

I meccanismi di evoluzione e rimodellamento cellulare incidono direttamente su nC e pertanto

danno origine, a parità di animale in cui l�efficienza secretiva h è prioritariamente determinata

geneticamente, ad una evoluzione produttiva nel corso della lattazione nota come curva di

lattazione. Tali meccanismi sono governati: a) per via locale, ossia nel caso in cui la mammella

non sia svuotata dalla poppata oppure dalla mungitura (questi meccanismi hanno l�importanza

evolutiva di salvaguardare la potenzialità riproduttiva materna nel caso in cui questa perda uno o

più figli), dal Fattore Autocrino di Secrezione FIL (Peaker e Wilde, 1996), dai fattori

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proinfiammatori (Colditz, cit. da Davis et al., 1999), dalla distensione alveolare e dal flusso

sanguigno nella mammella; b) per via generale, cioè in lattazioni che decorrono normalmente, dal

sistema enzimatico plasmina/plasminogeno (Pulina et al., 1996) e dall�apoptosi cellulare (Hurley,

1999).

La descrizione dell�evoluzione temporale della produzione di latte nei ruminanti domestici

rappresenta una delle più importanti applicazioni della modellistica matematica al settore delle

scienze zootecniche. La causa sta nel fatto che la lattazione è il principale fenomeno che si verifica

nelle aziende specializzate per la produzione del latte e che la previsione del suo andamento è di

grande rilevanza sia sotto l�aspetto della conduzione (al livello di produzione sono legati gran parte

degli input aziendali) che sotto quello del miglioramento genetico (una accurata descrizione della

lattazione è indispensabile per la stima del fenotipo in quanto sono normalmente disponibili soltanto

alcuni dati produttivi per ciascun capo in lattazione) (Olori et al., 1999). La lattazione rappresenta

infine un buon esempio di approccio sia empirico che meccanico al problema della modellizzazione

dinamica.

I modelli empirici della curva di lattazione

Nel 1927 Gaines propose per i bovini la seguente equazione che rappresenta uno dei primi

tentativi di stima della produzione lattea in funzione del tempo:

yi = K e-hi [8]

dove yi rappresenta la produzione media giornaliera di latte dello i-esimo rilievo; K è la produzione

iniziale (per i = 0) ed h è il ritmo di diminuzione della produzione giornaliera nell�unità di tempo.

Questo modello però presenta un difetto di fondo in quanto la rappresentazione della curva di

lattazione è effettuata tramite una funzione esponenziale decrescente che non può essere adatta alla

descrizione della curva di lattazione tipica della bovina il cui andamento è rapidamente crescente

nelle prime settimane, raggiunge un picco e quindi decresce gradualmente fino all�asciutta (figura

4.8).

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010203040

Tempo (Scala arbitraria)

Prod

uzio

ne d

i lat

te Ym

tm

tf

Figura 4.8 - Curva di lattazione tipica di bovine da latte (Ym produzione al picco di lattazione che

si verifica al tempo tm; tf durata della lattazione)

La fase iniziale crescente, seppur breve, riveste una grande importanza e quindi non può essere

trascurata poiché è capace di influenzare l�andamento successivo della lattazione.

Un ulteriore tentativo di rappresentazione in termini matematici della curva di lattazione completa

delle bovine ha portato, nei primi anni �60 (Vusicic e Bacic, citato da Cappio-Borlino et al., 1989),

alla seguente forma modificata del modello di Gaines:

yi = Kie-hi [9]

in cui yi è la produzione di latte nell�intervallo temporale i-esimo, e K ed h sono dei parametri il

cui valore dipende dai dati sperimentali e ai quali però non si adatta in modo del tutto soddisfacente.

Nedler nel 1966 propose la seguente equazione polinomiale inversa che ha mostrato un migliore

adattamento ai rilievi produttivi rispetto alla [14]:

y(t) = t(b0 + b1t + b2 t2)-1 [10]

in cui y(t) è la produzione lattea giornaliera media relativa al rilievo al tempo (t), e b0, b1 e b2 sono

dei parametri che consentono di ricostruire l�intera curva di lattazione.

L�anno successivo, Wood (1967) propose di descrivere la lattazione con una funzione gamma

modificata che rappresenta il modello di tipo empirico attualmente più noto e diffuso:

y(t) = a tbexp(-ct) [11]

in cui y(t) è la produzione giornaliera media al tempo (t) ed a, b e c sono parametri con valore

positivo che caratterizzano la forma della curva di lattazione.

Il procedimento di adattamento del modello di Wood ai dati sperimentali, allo scopo di stimare i

valori ottimali dei parametri è, di solito, condotto sulla base di uno dei due metodi seguenti:

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- con il primo metodo si procede ad una trasformazione logaritmica della funzione [16] in seguito

alla quale si ottiene :

log y (t) = log a + b log t - ct [12]

la quale consente di stimare i parametri con un metodo di regressione lineare multipla di log y su

log t e su t (ponendo log y = Y; log a = A; log t = X1; t = X2, si ottiene l�equazione Y = A + bX1 +

cX2 il cui adattamento ai dati sperimentali è ottenuto con il metodo dei minimi quadrati);

- con il secondo metodo si mantiene il modello nella sua forma originaria che, essendo non

lineare nei parametri, presuppone il ricorso ad una tecnica di regressione non lineare (molti dei

software di statistica in commercio contengono ottime routine di regressione non lineare).

Qualunque sia il metodo utilizzato, il modello di Wood conserva il pregio di consentire una facile

relazione dei suoi parametri con i tratti caratteristici delle curve di lattazione; l�analisi della

funzione da infatti i seguenti risultati:

1) la derivata rispetto al tempo dell� equazione di Wood assume la seguente forma:

dy / dt = (b - ct) Y / t [13]

che permette una prima stima approssimata dei parametri con le seguenti relazioni:

c = r (tf + tm) / (tf - tm) [14]

b = c tm [15]

a = ym (c / b)b e-b [16]

in cui: r è la velocità specifica media di riduzione della produzione di latte nell�intervallo fra il

tempo del picco tm ed il tempo di asciugamento tf; ym è la produzione massima di latte; b è una

misura del ritmo di incremento produttivo fino al picco di lattazione; c è una misura del ritmo di

decremento produttivo dopo il picco; ln a è il logaritmo naturale della produzione iniziale che

fornisce una sorta di coefficiente di scala dell�intera produzione;

2) i valori dei parametri a, b e c possono essere combinati fra loro per arrivare ad una stima:

i) della persistenza s, data dalla relazione

s = - (b + 1)ln c; [17]

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ii) della distanza tm del picco dal parto, che deriva dalla relazione

tm = b/c; [18]

iii) dell�entità del picco stesso ym, che deriva dalla relazione

ym = a (b/c)b e-b . [19]

Il modello di Wood si è rivelato idoneo per la descrizione della curva di lattazione dei bovini in

quasi tutti gli ambienti produttivi della specie ed è risultato in grado di rappresentare, con una buona

approssimazione, anche quella dei caprini e degli ovini soprattutto delle razze da carne e da lana

(Tabella 4.1)

Tabella 4.1 - Parametri delle curve di lattazione di diverse specie adattate all�equazione di Wood (1967).

Specie a b c Autore

Bovini 3,74 0,20 0,04 Wood (1969)

Ovini da carne 1,06 0,32 0,02 Torres-H & Hohenboken (1980)

Ovini da latte 1,05 0,19 0,04 Cappio-Borlino et al. (1989)

Caprini 0,84 0,23 0,01 Mukundan & Bhat (1983)

Esso è stato correntemente utilizzato anche per rappresentare l�andamento temporale della

concentrazione dei principali costituenti del latte (grasso, proteine, caseina, ecc..); in questo caso,

essendo quest�ultimo normalmente speculare a quello della produzione del latte, il parametro c

assume segno positivo.

Nel caso degli ovini da latte, l�andamento caratteristico della curva di lattazione presenta alcune

peculiarità che il modello di Wood non tiene in considerazione per cui il problema specifico risulta

di gran lunga più interessante di quanto non lo sia la constatazione della molteplicità dei fattori di

perturbazione che ne nascondono parzialmente l�andamento regolare. Quando l�equazione [16]

viene adattata alle curve di lattazione individuali di un campione di pecore da latte, succede

abitualmente che, in un numero non trascurabile di casi (30-50%), alcuni parametri si portino al di

fuori del range dei valori consentiti, cioè di quei valori per i quali la funzione conserva un chiaro

significato biologico. Il caso più tipico è quello del parametro b, che la relazione [20] collega al

valore del tempo tm, in cui si verifica il picco di lattazione, e che, nei casi suddetti, assume segno

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negativo. Evidentemente, un valore negativo del tempo non ha alcun significato. Si potrebbe dire

che le curve con b negativo sono in effetti prive del picco di lattazione; ma questa affermazione non

è corretta perché, se è vero che in alcuni casi il segno negativo della stima di b si accompagna ad un

andamento della produzione lattea che si contrae alla sola fase decrescente, in altri casi una fase di

produzione crescente continua ad essere presente, anche se contenuta in un intervallo di tempo

molto ristretto e quindi con andamento quasi impulsivo. Alcuni softwares di regressione, lineare e

non lineare, offrono un'opzione che permette di predefinire i limiti della variabilità consentita agli

stimatori. Utilizzare questa opzione per imporre condizioni restrittive (del tipo b>0) è una scelta

matematicamente corretta, ma completamente fuorviante sotto l'aspetto interpretativo: l�analisi del

fenomeno richiede invece che sia tratta la conclusione più radicale, con il riconoscimento esplicito

che l�equazione di Wood - come qualunque altro modello empirico della curva di lattazione

standard della vacca da latte - non è applicabile alle curve di lattazione delle pecore in un 30-50%

dei casi. A questo punto una soluzione possibile è quella di cercare una funzione specifica per le

curve che non presentano apparentemente picco di lattazione. Cappio e colleghi (1995) hanno

percorso questa strada ed hanno suggerito una modifica esponenziale dell�equazione di Wood del

tipo y(t) = atbexp(-ct) che possiede la proprietà di arrampicarsi al picco di lattazione, anche quando

questo è raggiunto in maniera quasi impulsiva; altri ricercatori hanno successivamente confermato

la buona adattabilità di tale modello alle curve che non presentano picco di lattazione. Tuttavia,

fermarsi a questa soluzione equivale ad ammettere, non solo che la produzione lattea delle pecore

può evolvere nel tempo secondo due forme diverse, ma anche - affermazione assai più impegnativa

sotto l�aspetto sia matematico che biologico - che le due forme della curva di lattazione debbono

essere pensate come reciprocamente irriducibili.

I modelli meccanici della curva di lattazione

Una descrizione più adeguata del fenomeno della lattazione, può essere raggiunta con il ricorso ai

modelli meccanici, i quali però spesso manifestano in pratica una certa complessità legata sia

all�eccessivo numero di variabili, che alla loro difficile determinazione.

Un approccio ridotto, adattato da Cappio-Borlino e colleghi (1997) agli ovini da latte, é quello

bicompartimentale. Questo modello, la cui capacità di descrivere in modo empirico la curva di

lattazione era già nota da tempo (Brody, 1945), non stima il numero reale di cellule secretirci, ma

la produzione da esse ottenuta nell�ipotesi semplificatoria che il tasso di secrezione lattea sia

costante per tutte le cellule e per tutte le fasi della lattazione (ad esempio, la produzione di 1,5 litri

di latte al giorno equivale a 1500 cellule nell�ipotesi che ciascuna di esse secerna 1 g di latte al dì).

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La mammella è considerata come un sistema a due compartimenti, il primo con q1 cellule

indifferenziate, il secondo con q2 cellule differenziate dalle quali dipende la produzione di latte.

Il modello bicompartimentale può essere agevolmente rappresentato con un diagramma di flusso

costruito in ambiente STELLA , in cui le variabili di stato sono rappresentate da due serbatoi, i ritmi

di variazione da cerchi contenenti le relazioni matematiche che li legano alle variabili di stato ed i

trasferimenti da manometri che misurano il flusso. I serbatoi della figura seguente rappresentano

rispettivamente le cellule differenziate (q2) e quelle indifferenziate (q1), mentre i cerchi

rappresentano il ritmo di differenziazione (k1) e quello di inattivazione (k2).

?

cellule indifferenziate

?

cellule differenziate

?

flusso di differenziazione

?

flusso di inattivazione

?

tasso di differenziazione?

tasso di inatttivazione

Figura 4.9 - Il diagramma di flusso del modello bicompartimentale della mammella (i punti interrogativi evidenziano che non è stato inserito il valore dei parametri).

Le equazione differenziali che descrivono il flusso compartimentale sono:

dq dt k qdq dt k q k q

1 1 1

2 1 1 2 2

//

= −= −

[32]

Questo sistema di equazioni è equivalente alla seguente equazione differenziale di secondo ordine:

d2q2 / dt2 + (k1 + k2) dq2 / dt + k1k2q2 = 0 [33]

il cui integrale generale assume la forma che segue:

q t B e B ek t k t2 1 2

1 2( ) = +− − [34]

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dove B1 + B2 = Q2; B1 (k1 - k2) / k1 = Q1. Le grandezze Q1 e Q2 sono i valori iniziali dei parametri

q1 e q2 rispettivamente, cioè rappresentano l�entità delle cellule indifferenziate e di quelle

differenziate all�inizio della lattazione.

I valori assunti dai parametri del modello nei bovini e negli ovini sono riportati in tabella 4.3.

Tabella 4.3 � Valori dei parametri del modello bicompartimentale della curva di lattazione (Ferguson & Boston, 1993; Cappio-Borlino et al., 1997).

Specie Q1 Q2 k1 k2

Bovini 6420 8493 0,162 0,034

Ovini 6912 1500 0,067 0,163

BIBLIOGRAFIA CITATA NEL CAP. 4

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