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CHE COS’È L’ANTROPOLOGIA CULTURALE Antropologia etimologicamente significa “studio dell’uomo”. Lo studio dell’uomo può essere affrontato come sapere empirico e come disciplina teorica. Come disciplina teorica è un «sapere che si inserisce in un progetto scientifico del tutto nuovo, quello dello studio comparato delle società e delle culture» (Fabietti). Antropologia equivale quindi in generale come “scienza dell’uomo” che si pone l’obbiettivo di studiare i caratteri e le differenze tra le società e le culture. Cerchiamo di stabilire il significato di cultura, da cui deriva l’aggettivo culturale che qualifica un certo tipo di studio dell’uomo, esaminando la definizione di Taylor (1871) che considerato, come vedremo, uno dei fondatori dell’ Antropologia culturale come disciplina scientifica. 1 «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquista dall’uomo come membro di una società». In questa definizione si trovano alcune importanti nozioni: 1. La cultura si trova in qualsiasi gruppo sociale. Riguarda le modalità di esistenza di diversi popoli: non esistono popoli con cultura e popoli privi di cultura. 2. La cultura è un insieme complesso di elementi che ingloba tutte le attività umane (non solo quelle di carattere intellettuale) che si trovano in tutti i popoli: economia, morale, tecnologia, l’arte, il diritto, i riti, le credenze, i modi di pensare e di vedere il mondo, i comportamenti sociali ... 3. La cultura non è connaturata all’uomo, ma è acquisita. 4. La cultura è un fatto sociale, è cioè acquisita dall’uomo nell’ambito della vita associata. Poiché esistono molteplici forme di vita associata, esistono tante culture quante sono le società. Come si vede, la cultura è essenzialmente un fatto sociale e questo ci permette di distinguere il termine dall’uso corrente e tradizionale, legato essenzialmente all’individuo. In questa accezione la cultura si identifica con l’attività intellettuale dei singoli: è il sapere (in campo artistico, filosofico, letterario, scientifico) che ciascun individuo assimila mediante lo studio. Si tratta di un sapere che rimanda ad una grande tradizione fondata sulla scrittura, che riguarda, come si è detto, essenzialmente la sfera intellettuale e spirituale e che è anche espressione di valori riconosciuti come universali. Inoltre è un concetto per così dire elitario che presuppone quindi la distinzione tra colti e non colti. In questa nozione di cultura sono escluse le società illetterate. Tylor ricoprì nel 1896 la prima cattedra di “Antropologia culturale” nell’università di Oxford. 1

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CHE COS’È L’ANTROPOLOGIA CULTURALE

Antropologia etimologicamente significa “studio dell’uomo”. Lo studio dell’uomo può essere affrontato come sapere empirico e come disciplina teorica. Come disciplina teorica è un «sapere che si inserisce in un progetto scientifico del tutto nuovo, quello dello studio comparato delle società e delle culture» (Fabietti). Antropologia equivale quindi in generale come “scienza dell’uomo” che si pone l’obbiettivo di studiare i caratteri e le differenze tra le società e le culture.

Cerchiamo di stabilire il significato di cultura, da cui deriva l’aggettivo culturale che qualifica un certo tipo di studio dell’uomo, esaminando la definizione di Taylor (1871) che considerato, come vedremo, uno dei fondatori dell’ Antropologia culturale come disciplina scientifica. 1

«La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquista dall’uomo come membro di una società». In questa definizione si trovano alcune importanti nozioni:

1. La cultura si trova in qualsiasi gruppo sociale. Riguarda le modalità di esistenza di diversi popoli: non esistono popoli con cultura e popoli privi di cultura.

2. La cultura è un insieme complesso di elementi che ingloba tutte le attività umane (non solo quelle di carattere intellettuale) che si trovano in tutti i popoli: economia, morale, tecnologia, l’arte, il diritto, i riti, le credenze, i modi di pensare e di vedere il mondo, i comportamenti sociali ...

3. La cultura non è connaturata all’uomo, ma è acquisita. 4. La cultura è un fatto sociale, è cioè acquisita dall’uomo nell’ambito della vita associata. Poiché esistono molteplici forme di vita associata,

esistono tante culture quante sono le società. Come si vede, la cultura è essenzialmente un fatto sociale e questo ci permette di distinguere il termine dall’uso corrente e tradizionale, legato essenzialmente all’individuo. In questa accezione la cultura si identifica con l’attività intellettuale dei singoli: è il sapere (in campo artistico, filosofico, letterario, scientifico) che ciascun individuo assimila mediante lo studio. Si tratta di un sapere che rimanda ad una grande tradizione fondata sulla scrittura, che riguarda, come si è detto, essenzialmente la sfera intellettuale e spirituale e che è anche espressione di valori riconosciuti come universali. Inoltre è un concetto per così dire elitario che presuppone quindi la distinzione tra colti e non colti. In questa nozione di cultura sono escluse le società illetterate.

Tylor ricoprì nel 1896 la prima cattedra di “Antropologia culturale” nell’università di Oxford.1

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CONCETTI E METODI DELL’ANTROPOLOGIA

L’Antropologia fonda il proprio statuto sul postulato dell’unità del genere umano, ma non considera l’uomo in modo uniforme. I primi oggetti di indagine sono stati i gruppi sociali che nel linguaggio evoluzionista venivano chiamati “arcaici” o “primitivi”, in contrapposizione alle società civilizzate”, nell’ottica di una visione del mando basata su uno schema evolutivo lungo una linea di progresso costante dell’umanità dal primitivo al civilizzato. In seguito l’obbiettivo si allargato alla considerazione di tutte le diversità, abbandonando le idee di progresso lineare e di supremazia di una civiltà rispetto ad altre.

L’altro

«Poiché studia le differenze tra società e culture, l’antropologia si assegna il compito di pensare l’altro» (Rivière). L’alterità è stata dapprima concepita come storica e quindi si caratterizzava come “il primitivo” in contrapposizione all’uomo europeo che nel corso del tempo si era evoluto; o come geografica: il non europeo in contrapposizione all’europeo. In ogni caso il primitivo e il non europeo apparteneva alla sfera del negativo; l’europeo e il civilizzato a quella del positivo. Occorre tuttavia tenere presente che i termini “positivo” e “negativo” nel corso del XX secolo si sono invertiti. Al primitivo sono stati associati i valori di uguaglianza, libertà, fratellanza, spirito comunitario; al civilizzato invece quelli di alienazione, competitività, disuguaglianza, perdita di senso, Si tratta di giudizi estremi legati a posizioni ideologiche, che una ricerca più attenta ha smentito o notevolmente ridimensionato. L’altro non si riferisce necessariamente a realtà lontane. Nel momento in cui l’antropologo studia ad esempio la cultura degli emarginati di una grande città la distanza rispetto all’oggetto non è più geografica, ma sociale e cognitiva.

L’etnocentrismo «Parlare degli altri non significa parlare alle loro spalle o contro di loro, Ciò tuttavia è molto comune, dato che l’etnocentrismo è connaturato a tutti gli uomini, all’indiano quanto all’arabo, al francese come al lappone. Ciascun individuo si identifica, per la lingua, l’aspetto e il modo di vivere, con una comunità di cui ha assimilato i valori, e tende a rifiutare, criticare e svalutare coloro che non sono come lui. Quando venne scoperta l’America, gli spagnoli rifiutarono inizialmente di assegnare agli indiani l’attributo dell’umanità, a volte giustificando in tl modo la schiavitù a cui li assoggettavano. Gli indiani, al contempo uccidevano gli spagnoli per verificare se erano esseri mortali. I bantu affermano di essere “gli uomini”, al singolare muntu significa “l’uomo”.

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L’etnocentrismo, di cui l’antropologo cerca di liberarsi, è l’atteggiamento secondo cui si tende a giudicare le forme morali, religiose e sociali di un’altra comunità sulla base delle proprie norme, e a considerare le differenze riscontrate come anomalie. [...] L’etnocentrismo cela l’orgoglio locale, lo spirito di corpo degli studenti e degli impiegati di una grande impresa, l’intolleranza religiosa, ecc. ed è presente anche nei conflitti internazionali sotto forme di manifestazioni che mettono in pericolo l’ordine sociale. L’esotismo, in quanto culto del pittoresco che sottolinea le curiosità e le bizzarrie degli altri, può virare verso l’etnocentrismo allorquando è accompagnato da un atteggiamento di svalorizzazione, e verso il vero e proprio razzismo laddove produce rifiuto e ostilità. Diedero prova di etnocentrismo L. Levy-Bruhl, quando oppose la mentalità prelogica dei primitivi a quella logica, e lo stesso R. Lowie, peraltro eccellente antropologo, quando tentò di ridurre i sistemi di parentela e di matrimonio a varianti della famiglia monogamica. L’antropologo deve dunque fare attenzione a non ridurre il pensiero degli altri alle proprie griglie interpretative, sia guardarsi dal considerarsi superiore a coloro che costituiscono il suo oggetto di studio» (C. Rivière).

L’etnocentrismo della cultura occidentale «La cultura occidentale è stata per molto tempo caratterizzata (e lo è in parte ancora oggi) dall’affermarsi di un rigido etnocentrismo. Dietro i processi di colonizzazione dei “mondi nuovi”, che hanno avuto luogo a partire dagli inizi dell’epoca moderna (e che si sono protratti fino al secolo scorso), si nascondeva la presunzione della superiorità dell’Occidente. Il modello occidentale è stato a lungo considerato come il prototipo della civiltà: tutto ciò che si scostava da esso veniva considerato espressione di una “subcultura” o di una “sotto cultura”. A rafforzare questa posizione, legittimandola a livello scientifico, ha soprattutto concorso la nascita e l’enorme sviluppo delle teorie evoluzioniste. I criteri dell’evoluzione biologica vengono, infatti, trasposti all’interpretazione della società concepita come un macroorganismo. Il grado di avanzamento tecnologico diviene così il parametro in base al quale fare discernimento tra le culture , accentuando il vantaggio di quella occidentale sulle altre. La stessa proclamazione dei diritti mani, frutto maturo dell’Illuminismo, non attenua questa pesante discriminazione. La fondazione di tali diritti sulla visione di una ragione – quella occidentale appunto, che viene assolutizzata – implica automaticamente la formulazione di un giudizio negativo verso quelle culture dominate dalla persistenza di costumi e stili di vita che si ispirano ad altre forme di ragione o fanno appello a visioni cosmovitaliste e sacrali. La ragione occidentale è dunque il metro decisivo per valutare la qualità di ogni altra cultura e il grado del suo sviluppo» (G. Piana)

Razza «Il termine razza è a lungo servito per designare una suddivisione della specie umana basata su criteri biologici. Emerse nel XVIII secolo, le classificazioni razziali con pretese scientifiche hanno subito ampie modificazioni, in funzione del numero di razze considerate e dei caratteri ritenuti adatti a definire ciascuna di esse. Queste variazioni testimoniano l’arbitrarietà che presiede alla loro elaborazione, poiché sono spesso opera di autori contemporanei che hanno esposto diversamente le stesse osservazioni. Le classificazioni razziali sono state stabilite fin dall’origine e poi durante il lungo periodo successivo alla definizione dei principi classificatori linneani della specie, per aggregazione di campioni di popolazioni umane chiamate “tipi”..

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I tipi principali sono costituiti partendo dall’opposizione tra le popolazioni africane o dell’Estremo Oriente, scoperte all’epoca dell’ultimo grande movimento di esplorazione del pianeta, e i popoli europei. Le classificazioni distinguevano, comunemente, tre razze maggiori, il cui esatto contenuto era variabile: la razza bianca (o leucoderma), la razza nera (o melanoderma o negroide) e la razza gialla (o xantoderma, o mongoloide). La classificazione tipologica è stata applicata, in antropologia, più a lungo, rispetto agli altri settori della biologia. È solo da una trentina d’anni che una riflessione sulla fondatezza delle classificazioni razziali si è fatta strada, sulla base delle acquisizioni della tassonomia numerica e della genetica di popolazioni. Implicitamente o esplicitamente, la classificazione razziale pensa di poter ordinare ciò che, nella diversità umana, è genetico. Considerare in termini di razza tutto ciò che è geneticamente differente porta, però, a fare di ogni essere umano (una combinazione unica di geni) una razza a sé. La sola distinzione accettabile consiste nel tentare di classificare le popolazioni umane, definite secondo la tendenza dei loro membri a sposarsi tra loro, secondo una procedura logica di raggruppamento, basata sul loro grado di somiglianza genetica. È questo l’approccio della tassonomia numerica, che parte da una misurazione della differenza tra popolazioni (o “distanza biologica”) – operata in ragione di una serie di caratteristiche la cui varietà è totalmente o largamente di natura genetica – e tenta, su questa base, di delineare degli “agglomerati” di popolazioni. La sua applicazione alla specie umana – ancora molto lacunosa – suggerisce una distribuzione quasi omogenea della popolazione nello spazio delle distanze biologiche, e questa configurazione rende ogni classificazione oggettivamente inutile. Con un procedimento completamente diverso, alcuni specialisti di genetica delle popolazioni, come R. Lewontin (1974) sono arrivati a una conclusione analoga: la suddivisione in razze non spiega che una parte molto piccola della diversità genetica, propria della specie umana. Per esempio la distanza genetica tra due popolazioni francesi, non è in media inferiore che del 15 per cento, alla distanza tra due popolazioni prese a caso nel mondo. Le classificazioni razziali ancora in vigore sono arbitrarie e inefficaci. Perciò, un gran numero di antropologi sono oggi convinti dell’inapplicabilità del concetto di razza alla specie umana. Altri, tuttavia, fanno difficoltà a rinunciare al conforto mentale di una logica classificatoria, spesso legata, nella loro mente, a uno schema evolutivo che vede nelle razze il ramo finale di successive biforcazioni, a partire da un tronco che rappresenta il ceppo umano primordiale. Questa immagine è assai lontana dal corrispondere alla realtà: a causa dell’intensità della mescolanza delle popolazioni umane, associata alla loro capacità di vivere negli habitat più disparati e alla loro debole predisposizione ad adattarsi biologicamente ad ambienti inospitali: L’immagine della rete rappresenta l’evoluzione umana in modo molto più realistico, rispetto a quella dell’albero. Tuttavia il ricorso alle classificazioni razziali non è ancora scomparso. In certi ambienti si continua a fare appello alle tipologie razziali, vale a dire a considerare ogni popolazione umana come costituita, in percentuali differenti, da un piccolo numero di tipi razziali definiti arbitrariamente (come i tipi nordico e mediterraneo), con concezioni di cui la genetica ha peraltro dimostrato l’infondatezza scientifica. Comunque sia, l’antro-biologia, si dedica ormai essenzialmente allo studio della diversità umana, senza derive classificatorie, e a cercarne le spiegazioni in termini di genetica di popolazioni, e di influenza dell’ambiente sulle espressioni genetiche. Anche prima che i biologi avessero messo in discussione la pertinenza del concetto di razza, l’antropologia sociale aveva già smesso di cercare correlazioni tra “razza” e “cultura” » (J. Hiernaux)

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«Nei dizionari di scienze umane si è soliti menzionare la voce “razza” per concedersi l’opportunità di affermare che questa nozione, inapplicabile all’umanità, vi appare a titolo di curiosità storica, che essa appartiene e un’epoca passata, il ricordo della quale non merita d’essere richiamato alla memoria se non per dimostrarne l’obbrobrio. Le concezioni dell’antropologia razziale del XIX secolo, esacerbando le divisioni nella specie umana, accentuando all’estremo le differenze e associando a categorie classificatorie a fantasmagoriche essenze invisibili (“sangue”, “anima della razza”, “costituzione mentale”, “attitudine civilizzatrice”, “qualità di carattere”), trovano le loro abominevoli conseguenze nelle dottrine che rendono possibile la Shoah. Quando la guerra finisce e i crimini nazisti vengono giudicati, la nozione di razza si trova sul banco degli imputati. Il concomitante emergere della genetica delle popolazioni e della teoria sintetica dell’evoluzione sembra dare il colpo di grazia alla vecchia nozione: il pensiero tipologico del tassonomista, che ipostatizzava unita classificatorie basate su differenze anatomiche, si vede sostituito dal pensiero genetista, che si dedica all’analisi dei sistemi di riproduzione, delle mutazioni individuali e delle frequenze genetiche. L’umanità diventa così una sola specie politipica, mentre “la razza” si trasforma in un risultato indefinito ed effimero della circolazione di geni tra le popolazioni, Da quel momento il problema delle razze umane non costituisce più solo un oggetto di ricerca sbagliato, ma è un oggetto inesistente. Eppure, questo connubio tra un contesto politico e una rivoluzione teorica in biologia non pone fine alla nozione di razza e all’interesse verso le varietà delle specie umana. L’uomo della strada continua a meravigliarsi che le razze, delle quali i genetisti proclamano l’inesistenza, siano tuttavia così facilmente “riconoscibili”. La razza rimane sempre una categoria delle nostre classificazioni vernacolari e, nel crogiolo della cultura popolare, continuano a essere elaborate nuove concezioni razziali e razziste che conservano la suddivisione dell’’umanità in classi tradizionali e accordano una superiorità ora ai “Bianchi” ora ai “Neri”, ora ai “Gialli”. Tuttavia non si deve pensare che la nozione di razza sopravviva esclusivamente nelle speculazioni nutrite di pregiudizi e di fantasmi. Alcuni ricercatori prendono in esame le novità riguardanti la differenziazione interna della specie umana, decisi a non abbandonare la questione delle fantasticherie del pensiero comune. Senza l’intenzione di recuperare l’idea di una ripartizione dell’umanità in categorie statiche e chiaramente separate le une dalle altre, certi peloantropologi non esitano a utilizzare il termine razza per indicare i grandi gruppi geografici che si sarebbero originati da un’antichissima differenziazione della specie umana arcaica, in seguito all’abbandono della culla africana, e che sembrano aver conservato, nel corso di diverse centinaia di migliaia di anni, alcune caratteristiche anatomiche regionali. Alcuni genetisti, lavorando su un altro tipo di dati, provano a suddividere la specie umana calcolando le “distanze genetiche” tra le popolazioni, il che li porta a distinguere delle “regioni etniche” o “dei gruppi di popolazioni”, a volte stranamente simili alle vecchie categorie razziali (Human Genome Diversity Project). Questo ritorno all’interesse per la diversità della specie umana, a dispetto del pericolo di una deviazione ideologica dei risultati, ancora molto discutibili, potrebbe diventare un antidoto alle speculazioni ingenue sulla razza che non mancheranno di abbondare nella cultura popolare finché i ricercatori non saranno in grado si spiegare perché gli uomini, tutti appartenenti alla stessa specie biologica, non hanno per questo tutti lo stesso aspetto» (W. Stoczkowski).

In DIZIONARIO DI ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA, a cura di P. Bonte e M. Izard. Einaudi,Torino 2006

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LA NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA E L’EVOLUZIONISMO

La culla dell’antropologia intesa come forma di riflessione scientifica sulle società e le culture umane è l’Inghilterra della regina Vittoria (che regnò dal 1837 al 1901): Ad eccezione delle ricerche della Società degli Osservatori dell’uomo fondata alla fine del Settecento nel clima culturale dell’Illuminismo, non è possibile rintracciare prima della metà dell’Ottocento una teoria che serva da criterio generale per la riflessione sulle altre società (per altre società si devono intendere tutte quelle organizzazioni sociali che non sono riconducibili al modello europeo) (U. Fabietti). 2

L’antropologia si afferma come il prodotto dell’incontro di metodi di ricerca e di tipi d’interesse scientifico nel contesto di una visione ottimistica e progressiva del divenire storico, che caratterizza l’età del positivismo nella quale le scienze naturali e storiche ricevono un nuovo impulso.

Alcune opere gettano nuova luce sul passato del mondo e dell’uomo. La ricerca sulle origini della civiltà umana poteva coesistere accanto alla ricerca sulle origini dei cambiamenti della superficie terreste o accanto a quella dell’evoluzione della specie (Si tenga presente l’importanza che ebbe la pubblicazione, nel 1859, de L’origine della specie di C. Darwin).

Venuto meno l’ostacolo del “creazionismo”, anche la ricerca antropologica si muove nella stessa direzione in cui sono volte le ricerche sull’evoluzione del mondo fisico. In Inghilterra l’idea dell’evoluzione è assunta come ipotesi generale per spiegare tutte le forme di organizzazione sociale. Secondo il filosofo Spencer, un organismo più evoluto si distingue da uno meno evoluto per la sua maggiore complessità. Questa concezione, propria del campo della biologia, veniva trasferita anche alla sociologia. Le società più evolute sono quelle più complesse . 3

EDVARD BURNETT TYLOR

Sono queste le condizioni generali in cui si sviluppa l’antropologia culturale che, però, si costituisce come disciplina vera e propria, cioè socialmente riconosciuta, solo alla fine dell’Ottocento. Il primo lavoro teorico di carattere generale si deve a Edward Burnett Tylor (1832-1917) con La cultura dei primitivi. Tylor cerca di definire l’oggetto e il metodo dell’antropologia. Il tentativo di elaborare il concetto di cultura è un momento

U. Fabietti, Linee di antropologia, in Introduzione alle scienze umane, Zanichelli, Bologna 1979.2

In questo contesto si sviluppa in Inghilterra un’ideologia autocelebrativa che considerava la civiltà inglese come quella che più di tutte aveva realizzato un progresso cumulativo 3

e continuo. Questa ottica di una cumulatività del progresso materiale non fu però solo l’effetto di un’ideologia etnocentrica. Essa fu l’elemento che consentì ai primi antropologici di liberarsi dai condizionamenti che derivavano dalle linee di ricerca indicate dall’ortodossia religiosa. Il progresso materiale inteso come effetto di un lento processo che si realizzava con continuità nel corso del tempo consentiva di guardare la civiltà non più come un dono divino, ma bensì come una lenta e faticosa conquista dell’intelligenza umana (U. Fabietti). Op. cit. pag. 17.

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importante nella storia della riflessione antropologica perché in questo modo si individua un oggetto di studio e gli strumenti che si devono utilizzare per analizzarlo.

Tylor dà una definizione di cultura che crea uno spazio per un discorso autonomo da quello di altre discipline. Come abbiamo già visto, la cultura è intesa da Tylor come un complesso che comprende le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume. Per T. la cultura coincide con qualsiasi abitudine e comportamento che siano acquisiti dall’uomo in quanto membro di una società.

Tylor adotta un punto di vista storico-evolutivo che lo conduce a individuare nell’organizzazione sociale primitiva la fase originaria dello sviluppo dell’umanità, una fase che si presenta con caratteri uniformi e analoghi presso tutti i popoli. Egli presuppone l’esistenza di una cultura primitiva in sé omogenea e strutturalmente diversa da quella dei popoli civilizzati: tutti i popoli hanno percorso questa fase di sviluppo storico-culturale. Mentre alcuni popoli - ossia i popoli civilizzati hanno superato questa fase primitiva, altri si sono arrestati a quella.

Nel formulare questo schema di sviluppo T. si richiama alla concezione illuministica del processo storico come passaggio da un originario stato selvaggio alla barbarie, e quindi dalla barbarie alla civiltà. Ma mentre per gli illuministi lo stato selvaggio si configurava come uno stato fondamentalmente asociale, Tylor attribuisce anche allo stato primitivo una forma di organizzazione. Inoltre, mentre gli illuministi attribuiscono alle civiltà civilizzate la capacità di produzione culturale, Tylor riconosce che c’è una cultura primitiva così come c’è una cultura progredita, a livello di sviluppo civile.

Lo sviluppo culturale non coincide più con il progresso delle scienze e delle arti, con lo sviluppo intellettuale ed estetico dei popoli civilizzati: prima di giungere a questo stadio l’umanità di è data un’organizzazione sociale primitiva, ha personificato fenomeni in entità mitiche, ha concepito l’universo come la dimora di spiriti invisibili e tuttavia attivi. Ma tale estensione dell’arco storico dello sviluppo culturale si accompagna con, e in un certo modo trova la sua base in una trasformazione dell’ambito oggettivo della cultura. Proprio perché il concetto di cultura potesse venir applicato anche allo stadio primitivo dell’evoluzione umana era necessario cheil suo ambito si allargasse e comprendesse – accanto al sapere scientifico, alle credenze religiose, alle manifestazioni artistico – letterarie, al diritto e alla morale – anche i costumi e, in generale, a tutti i modi di comportamento “acquisiti” in virtù dell’appartenenza a una data società» (P. Rossi

I concetti di animismo e sopravvivenza T. concepisce l’evoluzione culturale su una base cognitiva che coincide con la progressiva crescita delle conoscenze e il graduale sviluppo e

raffinamento della ragione. Questo aspetto di un’evoluzione basata su un progresso intellettuale emerge nel suo concetto di animismo al quale è legato quello di sopravvivenza.

1. L’animismo nella dottrina di T. corrisponde alla credenza in esseri spirituali e nelle anime in genere. Secondo T. è una caratteristica dei popoli primitivi per i quali anche gli oggetti inerti possedevano un’anima. L’origine va ricercata nell’esperienza del sogno e dello stato di trance: i 4

trance: lo stato di trance è un fenomeno per il quale la persona entra, per un periodo relativamente breve e in determinate circostanze, in uno stato di coscienza diverso da quello 4

normale. Durante questa esperienza la persoan perde la propria identità sostituita dalla volontà di entità spirituali.

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fenomeni dello sdoppiamento della personalità e delle apparizioni dei defunti che si verificano durante il sonno inducevano la convinzione che esistesse un “doppio” o anima, invisibile e separata dal corpo, la quale conduceva un’esistenza indipendente dal corpo sia durante la vita che dopo la morte.

In seguito, sempre secondo T., questa credenza si estese a tutti gli esseri viventi, alle piante agli oggetti e a quei fenomeni naturali che colpivano in modo particolare l’immaginazione.

L’animismo rappresenta la forma originaria dalla quale trae origine ogni altra espressione religiosa. Dall’animismo, infatti, si sarebbero sviluppate la magia e, attraverso una lenta evoluzione, tutte le credenze religiose, dal politeismo fino al monoteismo. Per T. l’animismo era «dunque una nozione che permetteva di definire in un sol colpo l’essenza del pensiero mitico, magico e religioso e di distinguerlo, per opposizione, da quello scientifico e razionale».

2. Con il termine sopravvivenza si indicavano gli elementi culturali e sociali che erano considerati come residui sopravvissuti, “relitti”, un “fossile sociale” di una precedente fase evolutiva. Per Tylor le sopravvivenze permettevano di risalire alle epoche culturali del genere umano e di inserire ogni usanza all’interno di uno schema evolutivo.

Al pari di altri antropologi del tempo, Tylor riteneva che i primitivi fossero da considerare come i rappresentanti di epoche passate della storia dell’umanità occidentale. La società europea del tempo, e in particolare quella inglese, era ritenuta l’ultimo stadio dell’evoluzione culturale. Il progresso era concepito come l’effetto di uno sviluppo intellettuale.

Come si vede, il presupposto a cui Taylor fa appello è quello di sviluppo culturale di tutti i popoli, pur nella diversità dei “tempi” che ogni popolo impiega a percorrere le fasi successive di questo sviluppo. In questa prospettiva è possibile istituire un rapporto di corrispondenza tra i singoli momenti evolutivi di popoli differenti, e in particolare tra la condizione attuale di popoli tuttora rimasti allo stadio primitivo e un periodo ormai remoto dello sviluppo dei popoli civilizzati. Si tratta insomma, come si è accennato di un’evoluzione unilineare che sarà ripresa da altri antropologi e contro il quale si rivolgerà la critica dell’antropologia post-positivista.

L'eevolizionismo

«Pur riservando un’attenzione particolare alle società più arcaiche, [....] L’evoluzionismo intende costruire un corpus etnografico di tutta l’umanità e una tipologia intelligibile di tutte e società. La sua teoria della civilizzazione giustifica l’impresa coloniale. L’evoluzionismo costituisce tuttavia una tappa decisiva della costruzione della scienza antropologica, che ne acquisisce alcune problematiche e il vocabolario tecnico. Ciò non toglie che sia necessario mettere in discussione gli assunti di questo indirizzo. Non vi è nella storia dell’umanità alcuna evoluzione unilineare, e ciò che conosciamo sono piuttosto forme differenti di cultura dislocate nello spazio. La storia umana non si traduce necessariamente in un accumularsi di successi: intricata e divergente, essa può includere anche fallimenti, degenerazioni, involuzioni. Ciascuna congettura è gravida di

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sviluppi diversi. Non è possibile attribuire i cambiamenti a un’unica causa, poiché essi possono dipendere da effetti di propagazione, di sommovimento, di sfasamenti temporali. Talvolta può essere proprio il ritardo ad agire come stimolo per il movimento» (C. Rivière)

«Pur avendo il merito di aver inquadrato per la prima volta in modo scientifico il problema della preistoria dell’uomo, l’evoluzionismo aveva semplificato in modo eccessivo i processi storici, fissando l’esistenza di un unico schema di sviluppo le cui fasi dovrebbero essere percorse da ogni società. Inoltre, poiché – più o meno esplicitamente – gli evoluzionisti ponevano la civiltà occidentale come la più avanzata espressione dell’evoluzione sociale, essi finivano per dividere la storia dell’umanità in due parti: da un lato le società “civili”, le cui vicende ed i cui sviluppi sono noti, dall’altro le società “primitive”, destinate a percorrere il cammino evolutivo già percorso da altri o addirittura a stagnare per sempre in una condizione di inferiorità. I gruppi primitivi diventano così delle “sopravvivenze” di tappe remote, repliche più o meno arretrate della civiltà occidentale» (P. Scarduelli).

ARNOLD VAN GENNEP: I RITI DI PASSAGGIO

Nel linguaggio dell’antropologia l’espressione ‘riti di passaggio’ non solo è entrata stabilmente , ma è una categoria dall’indubbio valore strumentale. Lo studioso che ha illustrato con abbondante documentazione la natura e la struttura di questi riti è Arnold Van Gennep (1873 - 1957) in un volume (pubblicato nel 1903) intitolato appunto “I riti di passaggio”. Sono definiti di passaggio quei riti che segnano la transizione di individui o gruppi sociali da una condizione sociale ad un’altra. Sono i meccanismi cerimoniali che guidano, controllano e regolamentano i mutamenti di ogni tipo degli individui e dei gruppi.

Secondo Van Gennep i riti di passaggio sono lo strumento mediante il quale gli uomini rendono comprensibili a se stessi i passaggi attraverso diverse condizioni sociali.

Van Gennep ha il merito di aver elaborato un modello tripartito che dimostra di possedere una grande utilità operativa per mettere ordine nella infinità varietà di riti che gli etnologi hanno individuato nelle loro ricerche sul campo. Lo schema da lui proposto non è applicabile solo alle società di interesse etnologico, ma anche al nostro tipo di società.

Prima di analizzare lo schema dei riti di passaggio, è necessario chiarire per sommi capi l’immagine di società sulla quale si basa Van Gennep. La società umana è assimilabile ad uno spazio delimitato dall’esterno da linee di confine e organizzato all’interno in un certo numero di comparti delimitati secondo precise linee di divisione. «Ogni società generale può essere considerata come una specie di casa divisa in camere e corridoi. Quanto più essa si avvicina alle nostre società per la forma della sua civiltà, tento meno le pareti sono spesse e tanto più le porte di comunicazione sono ampie e aperte. Presso i

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semicivilizzati, invece, questi compartimenti sono accuratamente isolati gli uni dagli altri, e per passare dall’uno all’altro, sono necessarie formalità e cerimonie […]». Tutte le società si caratterizzano per due grandi divisioni: una a base sessuale, che comporta la distinzione tra maschi e femmine, l’altra a base magico-religiosa, che si esprime nell’opposizione sacro-profano. Esistono poi nella maggior parte delle società altri tipi di raggruppamenti speciali: le società religiose, i gruppi totemici, la caste, le famiglie, i gruppi parentali , ecc. Esistono anche altri livelli di divisione, come la distinzione tra il mondo che sta al di qua della vita, il mondo dei vivi e il mondo che sta al di là della vita. Infine ci sono eventi che determinano di volta in volta la posizione dell’individuo: la nascita, il matrimonio, le malattie, i viaggi, la morte. Dalla nascita alla morte l’individuo passa da una condizione all’altra, da una stanza, per usare l’immagine di Van Gennep, all’altra, da un compartimento a un altro. Nella vita di un individuo si presentano continuamente delle occasioni in cui si passa da una stanza all’altra di quel grande edificio che è la società alla quale appartiene. «Da un punto di vista sociale vivere, per Van Gennep, è un processo continuamente scandito dai movimenti di separazione e aggregazione, di uscita e entrata. Vivere è un continuo morire per rinascere» (F. Remotti). Questi passaggi implicano continui mutamenti che di per sé potrebbero essere elementi disgregatori della società. Sorge quindi il problema di assicurare la coesione e la continuità del tessuto sociale nonostante il mutamento degli individui e la crisi dell’ambiente interno.

Ogni società si preoccupa di fare in modo che i mutamenti degli individui possano avvenire «senza scosse violente per la società né bruschi arresti della vita individuale e collettiva»». Per questo motivo in ogni società si mettono in atto meccanismi di controllo di questi cambiamenti. In società come la nostra, le linee di demarcazioni sono piuttosto deboli: ad esempio il passaggio dalla condizione di impiegato a quella di dirigente comporta solo un mutamento di natura economica e non richiede l’esecuzione di particolari cerimoniali. Invece il passaggio dallo stato laicale a quello religioso richiede un rituale complesso in quanto si entra nella sfera della distinzione tra sacro e profano. Secondo Van Gennep, quanto più è basso il grado di civiltà, tanto maggiore è il predominio del sacro di conseguenza numerosi passaggi sono segnati da questo carattere. Numerosi passaggi che nella nostra società si svolgono in modo del tutto profano, nelle società semicivilizzate rivestono un carattere sacro. Bisogna tener presente che Van Gennep ha inteso il passaggio attraverso le differenti situazioni sociali in termini di “passaggio materiale”. Per lui il passaggio materiale non è soltanto un simbolo: spesso si verifica una vera e propria separazione materiale e l’occupazione di uno spazio particolare. Esempio del matrimonio: il cambiamento di categoria sociale implica un cambiamento di domicilio. Il passaggio materiale è il modello iniziale su cui Van Gennep ha costruito il concetto generale di riti di passaggio.

Da questo modello di passaggio materiale Van Gennep ricava una nozione che è fondamentale nella struttura dei riti di passaggio: si tratta della nozione di margine. In qualsiasi passaggio materiale si incontrerà sempre una linea di confine più o meno chiara e rigorosamente segnata, una zona neutra o terra di nessuno. È la zona che possiamo chiamare terra di nessuno che sta tra lo spazio occupato prima del passaggio e lo spazio successivamente raggiunto.

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La struttura dei riti di passaggio riproduce, in termini simbolici, questa articolazione fisica. I riti di passaggio si configurano necessariamente come a)riti di separazione b)riti di margine o liminari c)riti di aggregazione o postiliminari

I riti di separazione agevolano il distacco dell’individuo da una situazione originaria. I riti di margine lo collocano in uno stato di sospensione I riti di aggregazione assecondano l’introduzione dell’individuo nel nuovo territorio, nel nuovo gruppo o nella nuova categoria sociale. La commensalità è rito di aggregazione. Il mangiare e bere insieme è denominato “sacramento di comunione”. Per mezzo del rito del convivio l’ospite o lo straniero si integra, seppur momentaneamente, nella comunità.

Le varie forme di saluto rientrano nei riti di aggregazione. “I diversi saluti dei cristiani rinnovano ad ogni occasione il legame mistico determinato dall’appartenenza alla stessa religione”. Nella categoria dei riti di aggregazione si colloca anche un certo numero di riti sessuali come lo scambio delle donne.

Al rito dell’arrivo e dell’integrazione dello straniero o dell’ospite corrisponde simmetricamente il rito della separazione. Ai riti d’arrivo corrispondono i riti di congedo.

Anche la gravidanza e il parto costituiscono un insieme compiuto. Spesso sono preceduti da riti di separazione che hanno lo scopo di far uscire la donna dalla società generale. I riti del parto hanno lo scopo di reintegrare la donna nella società alla quale apparteneva in precedenza e di assicurarle una nuova condizione, soprattutto se si tratta del primo parto o di un figlio maschio. “Nei riti della gravidanza e del parto bisogna vedere dei riti di un’estesa portata individuale e sociale”.

Alcuni dei riti si riferiscono non solo alla madre, ma anche al bambino. Anche qui si incontrano la sequenza dei riti di separazione, di margine e di aggregazione.

Il bambino, come lo straniero, deve essere prima di tutto separato dal mondo precedente (la madre). In alcune popolazioni, il bambino nei primi giorni di vita è relegato presso un’altra donna. La più importante separazione è però costituita dalla resezione del cordone ombelicale con i riti relativi al pezzo di cordone che, una volta tagliato, cade da solo dopo un certo numero di giorni.

Merito di Van Gennep è quello di aver richiamato l’attenzione sulla centralità non soltanto spaziale, ma anche funzionale della nozione di margine. Infatti è proprio il margine che elimina quel brusco passaggio che provocherebbe una crisi pericolosa sia nella vita sociale sia nella vita individuale. Il margine rallenta il passaggio e introduce una gradualità tipica del rituale. Il margine impedisce la coincidenza tra il momento a) della separazione e b) il movimento di aggregazione.

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«Non pare di forzare troppo il pensiero di Van Gennep – afferma uno studioso – se asseriamo che la nozione di margine costituisce la chiave di volta della struttura formale dei riti di passaggio. In effetti lo studioso francese si sofferma molto spesso sul margine e addirittura individua forme di autonomizzazione del margine, nel senso che la situazione di margine non si configura più soltanto come l’elemento intermedio di un rito di passaggio, ma appare come uno stato rispetto a cui esistono riti preliminari, liminari e postliminari. Il fidanzamento, per esempio – oltre al noviziato, alla gravidanza, al lutto – svolge indubbiamente la funzione di margine nel processo sociale che conduce al matrimonio; ma è un margine talmente elaborato che prevede l’applicazione a se stesso dello schema integrale dei riti di passaggio» (F. Remotti). L’importanza del margine può essere colta in riferimento ai ritmi naturali. Secondo Van Gennep il margine non è solo un fatto puramente rituale: «Il margine – afferma – si ritrova nell’attività biologica generale, nelle applicazioni dell’energia fisica, nei ritmi cosmici». Le attività biologiche e sociali subiscono un indubbio logoramento e per questo necessitano di pause che consentano di ristabilire le forze. E i riti di passaggio «rispondono a questa necessità fondamentale». Molto spesso, infatti, i riti di passaggio sono connessi alle vicende biologiche degli individui e trovano rispondenza in certi ritmi dell’universo: «persino nella vita dell’universo esistono tappe e momenti di passaggio, avanzamenti e fasi di arresto relativo, interruzioni».

Questo rapporto fa pensare che i riti di passaggio introducono nella vita sociale un aspetto o una dimensione naturale, ma nello stesso tempo avvicinano la natura alla società: «i passaggi cosmici – afferma Van Gennep – sono infatti sottoposti a cerimonie (del plenilunio, del solstizio, dell’equinozio, del capodanno), ed è necessario «riconnettere» queste cerimonie ai riti di passaggio che concernono le vicende umane. «Naturalizzazione della società umana e socializzazione o umanizzazione della natura possono essere considerate (interpretando Van Gennep al di là delle sue scarne indicazioni in proposito) come gli effetti convergenti dei riti di passaggio: i quali si configurano dunque come un ponte, un termine di mediazione tra i due regni o, in modo pregnante, un codice di lettura comune, che consente di concettualizzare l’uno con le categorie dell’altro» (F. Remotti).

Se si va oltre le scarne indicazioni di Van Gennep, si può affermare che gli effetti convergenti dei riti di passaggio sono la naturalizzazione della società umana e la socializzazione o umanizzazione della natura.

I riti di iniziazione si presentano come un ponte, un termine di mediazione tra i due regni. Nonostante questo rapporto con l’universo naturale realizzato attraverso i riti di passaggio, Van Gennep si rende pienamente conto della trasformazione che le vicende e i ritmi biologici subiscono nel processo di ritualizzazione. Ad esempio si distingue una parentela fisica e una parentela sociale, vi è un’unione fisica e un matrimonio sociale, vi è un parto naturale e un parto sociale. Questo avviene nel momento in cui si riproduce su un piano simbolico un evento naturale (nascita, morte, unione sessuale ecc.), il processo di ritualizzazione richiede la messa in opera di una serie di eventi parallela a quella naturale, ma non del tutto coincidente (ad esempio difficilmente pubertà fisiologica e pubertà sociale coincidono). «Per quanto dunque cerchi di connettere i ritmi sociali a quelli naturali, anzi di interpretare i primi mediante i secondi, la ritualizzazione non consiste nel riconoscimento dei fondamenti naturali, ma è la creazione – attraverso riferimenti naturali – di eventi sociali: è – per dirla in termini più moderni – un linguaggio sociale che impiega termini naturali. Là dove si producono riti, inevitabilmente si determina una divergenza rispetto alla natura, in quanto si produce una sovrastruttura culturale caratterizzata da un relativa autonomia» (F. Remotti).

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Tuttavia Van Gennep osserva che nei tipi superiori di civiltà si riscontra una maggior aderenza ai ritmi e ai processi naturali. La spiegazione va ricercata nello sviluppo delle conoscenze della natura da parte del pensiero scientifico. Van Gennep osserva che anche da noi pubertà fisiologica e momento in cui ci si può sposare non coincidono, e se finiranno per coincidere ciò sarà dovuto agli sviluppi del pensiero scientifico. Lo sviluppo del pensiero scientifico va quindi di pari passo con il declino della ritualità. Se, infatti, il rito produce una sovrastruttura culturale che si sovrappone ai processi naturali, la scienza rimuove questa sovrastruttura lasciando affiorare le leggi naturali che la società finirebbe per assumere come criteri per la propria organizzazione.

MARCEL MAUSS

Dotato di vasta cultura, fu attento lettore dei resoconti etnografici. La notorietà di M. in campo antropologico è legata soprattutto al saggio sul dono Essai sur lo don (1923-24). Mauss interpreta il dono come fatto sociale totale, cioè come fenomeno su cui convergono significati economici, giuridici, morali e religiosi. Il saggio rappresenta un approfondimento del pensiero di Durkheim alla luce delle ricerche etnografiche di Malinowski e di Boas Leggiamo l’introduzione di Marco Aime alla nuova edizione (2002) del saggio che era già stato pubblicato in Italia da Einaudi nel 1965.

Un immaginario colonizzato.

I doni, da noi, si fanno e si ricevono, generalmente a Natale o in occasioni stabilite, come compleanni o eventi particolari. Insomma non è considerato «normale» fare regali senza un motivo che lo giustifichi. Il dono è un'eccezione alla regola, dove la regola è invece tenere le proprie cose per sé e ottenerne altre tramite l'acquisto o lo scambio esplicito.

L'antropologia, in particolare quella classica, ci ha offerto invece molti esempi di società presso le quali il dono costituisce uno degli elementi fondanti delle società stesse. Lo studio delle culture «altre» è stato spesso caratterizzato da quelli che potremmo chiamare «marchi d'area». L'Africa, per esempio, è il continente della parentela. È sufficiente scorrere le monografie classiche di Edward E. EvansPritchard, Darryl Forde, Meyer Fortes, John Middleton e di molti altri antropologi britannici africanisti per notare come lo studio delle strutture parentali e delle loro dinamiche occupi un ruolo fondamentale. La parentela è stata per gli africanisti una sorta di ossessione, ma anche una forca caudina sotto la quale era inevitabile dover transitare. Oggi che in antropologia l'oggettività non è più considerata possibile, è difficile dire quanto sia stata la parentela a determinare l'orientamento degli studi africanisti oppure quanto siano stati proprio questi studi a rendere la parentela così importante. Il gioco degli specchi si fa complesso. Il «marchio» del dono viene invece assegnato all'Oceania. Nello scrivere il suo Saggio sul dono, Marcel Mauss venne

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fortemente influenzato dagli studi oceanistici e in particolare da quelli di Bronislaw Malinowski sullo scambio kula. Se si eccettuano le citazioni relative alla pratica del potlatch presso gli indiani Kwakiutl della costa nord, occidentale del Canada, la maggior parte degli esempi sui quali si fonda la sua teoria sono tratti da studi condotti n elle isole del Pacifíco. «Nel sistema melanesiano per essere un uomo prestigioso bisogna l'avere», certo, come dappertutto. Il prestigio sta nel donare, donare molto e donare dappertutto. Il contrario del mondo capitalista! » sostiene in un suo discorso il leader kanak Jean Marie Tjibaou mettendo in evidenza un tratto importante della cultura del suo popolo, condiviso da molte altre culture del Pacifico. Donare è importante, ma perché? Per instaurare relazioni. Lo aveva già rilevato Maurice Leénhardt, secondo il quale i Kanak si riconoscono solo grazie alle relazioni che intrattengono con gli altri.

In una raffinata analisi dell'opera di Leenhardt, Michel Naepels pone in evidenza come dagli studi sulla lingua kanak emerga una sorta di «io» timido, debole che segnala l'importanza della partecipazione e induce a un sentimento di identificazione con il mondo, la collettività Ciò che colpisce è la prevalenza della relazione sull'individuo, un primato della società che Leenhardt sintetizza con l'espressione «uno è una frazione di due»,. Sotto questo profilo il dono acquisisce una posizione di rilievo in molte società dell'Oceania, come è confermato da molte monografie etnografiche.

Anche in questo caso non è facile dire in che misura le isole del Pacifico siano entità che appartengono al nostro immaginario esotico più spinto o quanto tale immaginario sia stato costruito anche attraverso la diffusione di studi di carattere etnografico. È però vero che l'antropologia, soprattutto quella classica, mettendo l'accento sulle differenze ha spesso indotto a creare delle dicotomie che contrapponendo «noi» a «loro», attribuivano a ciascuna di queste categorie caratteristiche estranee all'altra. Così il confronto è stato reso più facile: esistono ancora società che hanno preservato la loro armonia tradizionale, presso le quali lo scambio di doni rappresenta la quotidianità. Queste popolazioni ci vengono spesso dipinte come fortemente solidali. Tutto il contrario che da noi, dove, dopo Adam Smith, l'economia e alcune correnti della filosofia concordano nell'affermare che, affinché la società funzioni bene, ciascuno deve perseguire il proprio interesse egoistico. Tanto è vero che nella società moderna sì tende talvolta a considerare il dono come un'ipocrisia.

L’opposizione tra un'idea di società basata sulla solidarietà e quella di un mondo dove ognuno, per natura, persegue solo i propri interessi non solo ha diviso il pensiero degli studiosi, ma ha anche dato vita a una sorta di dicotomia geografica. Se c'è qualcuno che «dona» per creare le basi di una convivenza non siamo certo noi occidentali, razionali e utilitaristi. Infatti, l'utilitarismo dominante nel pensiero occidentale e nelle scienze sociali, come ha dimostrato Alain CailIé ha relegato il dono in un dominio etnografico, congelandolo in ambiti esotici e impedendo quindi una sua ricontestualizzazione nel mondo occidentale e la sua riattualizzazione in epoca moderna.

Grazie alla forte tendenza alla dicotomizzazione che ha segnato la ragione etnologica del passato, si è pertanto venuta a formare una netta distinzione tra noi utilitaristi, ossessionati dal guadagno, e gli altri meno attenti al profitto individuale, più disposti a donare in quanto caratterizzati da un’economia incastonata nella società, embedded per dirla con le parole di Kárl Polanyi. Se da noi gli affari economici risultano spesso essere pensati come fatti esterni alla moralità, presso molte popolazioni «primitive» l'economia è strettamente connessa ai legami parentali, alla religione, alle gerarchie sociali.

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Si tratta di una distinzione che talvolta, soprattutto nel pensare comune, assume tratti evoluzionisti. Gli «altri» non sono solo gli esotici, ma anche comunità del nostro passato. Così, non senza una certa dose di nostalgia, siamo spesso propensi a pensare a un mondo perduto dove la gente era più generosa, non come ora che siamo diventati tutti utilitaristi. Ma è davvero così? Prendiamo il caso del mitico Nordest di casa nostra, osannato e celebrato quale esempio del boom della piccola industria, della cultura del lavoro, dell'ideologia capitalista convertita a livello familiare. In questa terra che vanta i redditi medi più alti d'Italia, dice Paolo Rumiz, ci si attenderebbe di incontrare gente ossessionata dal lavoro e dal guadagno la quale passa il tempo a parlare di schei. In parte è senz'altro così ma proprio qui, nella patria della famiglia trasformata in azienda si riscontra la più elevata presenza di attività di volontariato. In una società che sembra avere posto in cima alla propria scala dei valori l'ideale del guadagno e dell'ottimizzazione dei profitti, in cima alla ritroviamo numerose testimonianze di un impegno che non ha nulla di remunerativo, se analizzato in chiave utilitaristica. Che cos'è l'azione di volontariato se non un dono offerto sotto forma di servizi? E che dire dei moltissimi «donatori» di sangue e di organi che consentono di salvare numerose vite, senza guadagno materiale alcuno? Anche noi doniamo. Il problema è perciò un altro: non ce ne rendiamo conto. Il nostro immaginario è stato talmente condizionato dall'ideologia del mercato, che ci sembra impossibile uscire dagli schemi dominanti. Serge Latouche mette in luce come spesso questa colonizzazione dell'immaginario ci induce a pensare che ogni forma di scambio sia necessariamente finalizzata all’ottenimento di un utile: «Si presuppone implicitamente che ogni scambio sia un mercato e si attribuiscono più o meno a ogni mercato le virtù del grande mercato della teoria economica». Così finiamo per definire noi occidentali come assillati dal mercato. […]

Il dono si nasconde nelle pieghe delle nostre azioni e non ci accorgiamo che molte di queste non sono affatto mosse da logiche utilitaristiche. Intendiamoci, «non utilitaristiche» non significa «gratuite». Il dono non è mai gratuito. Come mise già in evidenza Marcel Mauss, il dono non è una prestazione puramente gratuita, né una produzione o uno scambio puramente a fine di lucro, ma una specie di ibrido. Chi dona si attende un controdono. Qual è allora la differenza tra donare e contraccambiare e un normale scambio mercantile? Quando si pone il problema a coloro che donano, quando si chiede perché donano, emerge un aspetto sostanziale: la libertà. L’assenza di costrizione, vale a dire assenza di contratto, di coercizione. Prendiamo un esempio estremo: i donatori di sangue. Uomini e donne che donano parte di se stessi senza materialmente ricevere nulla in cambio, tranne un appagamento personale che è uno dei moventi dell’atto del donare.

Il terzo paradigma.

Nelle scienze sociali si sono venuti a creare due paradigmi fondamentali. Il primo è quello che viene definito utilitarista o individualismo metodologico e che in qualche modo rivolge la sua analisi all'individuo, concependolo soprattutto come homo oeconomicus, teso a perseguire il proprio interesse individuale. Tale concezione deriva dall'idea che il rapporto sociale può e deve essere compreso come la risultante dell'intrecciarsi dei calcoli effettuati dai singoli individui. Il secondo è invece un paradigma collettivista, di cui Emile Durkheim, maestro (e zio) di Mauss, è stato uno dei maggiori fautori, che vede l'individuo assoggettato alle regole della sua cultura e della sua società. In questo caso è la cultura a fare sì che gli uomini si scambino doni affinché

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la società possa continuare a esistere. Su questa linea di pensiero si colloca anche lo strutturalismo di Claude LéviStrauss […]: sono i legami sociali che spingono gli uomini a donare.

Uno o tutti? Individuo o società? «Noi» o «loro»? Ecco le dicotomie create da questi paradigmi, nessuno dei quali però, avverte Caillé, spiega la genesi del legame sociale. Infatti, dipingendo gli esseri umani come individualisti e tesi solo a soddisfare i propri interessi, si attribuiscono loro caratteristiche predeterminate di egoismo, quasi «genetiche», preesistenti e immutabili. Nel caso dei collettivisti, anteponendo la società all'individuo e ritraendo quest'ultimo come assoggettato a una sorta di vincoli rituali, religiosi, sociali calati dall'alto, si arriva a concludere che cultura e società preesistono all'individuo.

Ma non sono forse, cultura e società, prodotte dagli individui? E questa la domanda che si sono posti, tra gli altri, i fondatori del MAUSS (Mouvement Antiutilitariste dans les Sciences Sociales, Movimento Antiutilitarista nelle Scienze Sociali), il cui acronimo non è certo casuale e tradisce la stima nutrita nei confronti del grande studioso francese. Uno dei punti su cui maggiormente si sono concentrati questi studiosi è stata la rilettura in chiave moderna della teoria di Mauss e la riattualizzazione del concetto di dono. Caillé propone un terzo paradigma o paradigma del dono, ponendo la questione quasi in termini di scommessa: e se fosse proprio il dono l'elemento attraverso il quale gli uomini creano la loro società? Il dono diventa in questo caso promotore di relazioni. Ciò che apre la strada al dono è la volontà degli uomini di creare rapporti sociali, perché l’uomo non si accontenta di vivere nella società e di riprodurla come gli altri animali sociali, ma deve produrre la società per vivere.

Questo paradigma non propone solo il dono come elemento fondante della società primaria, ma costringe a spostare in avanti il livello di lettura del «valore» di beni e servizi. Nell'economia classica, con approccio condiviso anche da Marx, si sostiene che beni e servizi da un lato hanno un valore determinato dai bisogni che riescono e soddisfare (valore d'uso), dall'altro valgono in base alla quantità di denaro o di altri beni e servizi che si riescono ad acquistare (valore di scambio). Se accettiamo il terzo paradigma, dobbiamo allora aggiungere che esiste un altro tipo di valore, quello legato alla capacità che beni e servizi, se donati, hanno di creare e riprodurre relazioni sociali: un valore che potrebbe essere chiamato valore di legame, in quanto, con tale approccio, il legame diventa più importante del bene stesso.

Ecco come, con un'eccellente definizione, Jacques T. Godbout sintetizza il carattere del dono: «Definiamo dono ogni prestazione di bene o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone».

In questa nuova prospettiva pesa molto un'intuizione di Mauss forse neppure troppo valutata dall'autore stesso. Mauss introduce nel collettivismo teorizzato da Durkheim lo spazio di libertà d'azione fornito dal dono. Il dono, infatti, implica una forte dose di libertà. È vero che c'è l'obbligo di restituire, ma modi e tempi non sono rigidi. In ogni caso si tratta di un obbligo morale, non sanzionabile per legge. Il valore del dono sta nell'assenza di garanzie da parte del donatore. Un'assenza che presuppone una grande fiducia negli altri. Il valore del controdono sta nella libertà: più l'altro è libero, più il fatto che ci donerà qualcosa avrà valore per noi quando ce lo darà`.

Ma perché ci si sente obbligati a restituire? Secondo Mauss negli oggetti donati esiste «un'anima» che li lega a colui che li dona. Tale forza fa sì che ogni oggetto prima o poi tenda a ritornare al suo proprietario sia nella sua forma originaria sia sotto forma di altri doni equivalenti. Mauss in particolare faceva riferimento allo hau, un concetto che per i Maori esprime un'essenza vitale insita negli esseri umani, nella terra e nelle cose. Quando un oggetto, che incorpora lo hau, viene donato ad altri, lo spirito dell'oggetto cerca di ritrovare il suo luogo d'origine. Gli oggetti donati

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possederebbero pertanto una forza propria, un loro spirito, trasmesso all'oggetto dalla persona che li possiede. Questo perché sono una sorta di prolungamento degli individui e questi si identificano nelle cose che possiedono e che scambiano.

Letture Marcel Mauss Lo spirito della cosa donata

A proposito dello hau, dello spirito delle cose, Tamati Ranaipiri, uno dei migliori informatori maori di Elsdom Best, ci offre del tutto casualmente e senza alcuna prevenzione la chiave del problema. «Vi parlerò dello hau... Lo hau non è il vento che soffia. Niente affatto. Supponete di possedere un oggetto determinato (taonga) e di darmi questo oggetto; voi me lo date senza un prezzo già fissato. Non intendiamo contrattare al riguardo. Ora, io do questo oggetto a una terza persona che, dopo un certo tempo, decide di dare in cambio qualcosa come pagamento (utu); essa mi fa dono di qualcosa (taonga). Ora, questo taonga che essa mi dà è lo spirito (hau) del taonga che ho ricevuto da voi e che ho dato a lei.1 taonga da me ricevuti in cambio dei taonga (pervenutimi da voi), è necessario che ve li renda. Non sarebbe giusto da parte mia conservare per me questi taonga, siano essi graditi o sgraditi. lo sono obbligato a darveli, perché sono uno hau del taonga che voi avete dato. Se conservassi per me il secondo taonga, potrebbe venirmene male, sul serio, perfino la morte. Questo è lo hau, lo hau della proprietà personale, lo hau dei taonga, lo hau della foresta

Questo testo fondamentale merita qualche commento. Prettamente maori, impregnato di uno spirito teologico e giuridico ancora impreciso, ma mirabilmente limpido a tratti, è oscuro solo in punto: l'intervento di una terza persona. Tuttavia, per comprendere bene il giurista maori, basta dire: « I taonga e tutti i ben rigorosamente personali sono dotati di uno hau, di un potere spirituale.Voi me ne date uno, io lo do a una terza persona; quest'ultima ne dà un altro perché è spinta a fare ciò dallo hau del mio regalo ed io sono obbligato a darvi questo oggetto, perché è necessario che vi renda ciò che in realtà è il prodotto' dello hau del vostro taonga.

Così interpretata, l'idea non solo diventa chiara, ma appare e me una delle idee fondamentali dei diritto maori. Ciò che obbliga, nel regalo ricevuto e scambiato, è che la cosa ricevuta non è inerte. Anche se abbandonata dal donatore, è ancora qualcosa d lui. Per mezzo di essa, egli ha presa sul beneficiario, così come, per mezzo di essa, ha presa, in quanto proprietario, sul ladro. Il taonga, infatti, è animato dallo hau della sua foresta, della sua terra, del suo suolo; è veramente « native »: lo hau insegue tutti detentori.

Esso insegue non solo il primo donatario, ed anche even1ualmente un terzo, ma ogni individuo al quale il taonga venga semplicemente trasmesso. In fondo, è lo hau che desidera tornare al luogo della sua nascita, al santuario della foresta e del clan e al proprietario. È il taonga o il suo hau che, d'altra parte, è esso stesso una specie di individuo che si attacca a tutti coloro che ne beneficiano, fino a che questi ultimi non rendano, prendendolo dai propri taonga, dai propri beni, o dal proprio lavoro o dal proprio commercio, con banchetti, feste e donativi un equivalente o un valore superiore, che, a sua volta, darà ai donatori autorità e potere sul primo donatore divenuto ultimo donatario. Ed ecco l'idea fondamentale che sembra presiedere, alle Samoa e in Nuova Zelanda, alla circolazione obbligatoria delle ricchezze, dei tributi e dei doni.

Quanto precede illumina due importanti sistemi di fenomeni sociali polinesiani e anche non polinesiani. Innanzitutto, si coglie la natura del vincolo giuridico creato dalla trasmissione di una cosa. È chiaro, per il momento, che nel diritto maori, il vincolo giuridico, vincolo attraverso le cose, è un legarne di anime, perché la cosa stessa ha un'anima, appartiene all'anima. Donde deriva che regalare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi. In secondo luogo, ci si rende meglio conto, in tal modo della natura stessa dello scambio di doni, di tutto ciò che noi

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chiamiamo prestazioni totali. Si comprende. chiaramente e logicamente, nel quadro di questo sistema di idee, che è necessario rendere ad altrui ciò che è in realtà una particella della sua natura e della sua sostanza; accettare, infatti, qualcosa da qualcuno equivale ad accettare qualcosa della sua essenza spirituale, della sua anima; tenere per sé questa cosa sarebbe pericoloso e mortale, non solo perché sarebbe illecito, ma anche perché questa cosa che proviene da una persona, non solo moralmente, ma anche fisicamente e spiritualmente, questa essenza, questo nutrimento, questi beni, mobili o immobili, queste donne o questi discendenti, questi riti o queste comunioni, danno una presa magica e religiosa su di voi.(da Marcel Mauss, « Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche », (4923), trad. it., in Hubert, H. e Mauss, M.; Teoria gnerale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 169-72).

Società fredde e società calde

All’interno del pensiero di Lévi-Strauss, è costante l’idea secondo la quale le “società primitive” si troverebbero ad un grado di lontananza dalla natura inferiore a quello in cui si trova la civiltà industriale o comunque tutte le civiltà, come quelle dell’estremo oriente o dell’area mediterranea, tutte soggette a processi di trasformazione storica. Nasce così la grande distinzione tra quelle che Lévi-Strauss chiamerà società fredde e società calde, tra società che funzionano « in modo meccanico », come quelle primitive, e società che, come la nostra, producono innovazioni continue traendo energia dalle proprie contraddizioni interne. È questa fondamentale distinzione male interpretata, che ha fatto parlare ai filosofi idealisti di società senza storia e società con storia.

La meditazione di LéviStrauss sul progresso contenuta in Tristi Tropici del 1955, un libro che costituisce una eccezionale testimonianza esistenziale e culturale, si ispira questa grande metafora costituita tra società fredde e società calde. In essa si esprime la sostanziale sfiducia di un grande intellettuale di fronte ai processi totalizzanti e distruttivi di cui ha dato prova la civiltà occidentale e industriale in questi ultimi secoli di storia. Ma il lirismo e la raffinatezza intellettuale del discorso di Lévi-Strauss non ci possono persuadere dell'inutilità di certe scelte militanti che ancora oggi, perfino a livello antropologico, possono aiutarci a capire il mondo nel quale viviamo. […]

Il lavoro di LéviStrauss contiene certamente un aspetto fortemente problematico sotto l'aspetto affettivoesistenziale che entra in una dinamica non risolta con l'aspetto precedente. Di fronte all'immutabilità delle strutture dello spirito umano, il cui studio sembra essere l'obbiettivo più immediato della predisposizione scientista di LéviStrauss, vi è la contemplazione nostalgica di un tramonto dell'uomo travolto dai sistemi di distruzione e di dominio della civiltà « calda ». Un tramonto di fronte al quale l'antropologo dovrebbe tentare ciò che oggi appare impossibile e discutibile allo stesso tempo: vegliare sul patrimonio intellettuale comune a tutta l'umanità: l'immutabilità delle strutture dello spirito. (U. Fabietti)

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Il Folklore Il termine “Folklore” nasce in Inghilterra nel 1846, forse come traduzione del tedesco Volkstunde (conoscenza del volgo). Questo termine già in uso nei primi anni dell’800 indica quelle testimonianze del passato che ancora sopravvivono in alcune zone e in alcune fasce della popolazione:costumi, credenze, superstizioni , proverbi. L’interesse per le antiquitates vulgares (così venivano chiamate queste testimonianze prima che entrasse nell’uso il termine folclore) nasce attorno al 700 e si fonda sul riconoscimento del valore storico di usi, costumi e credenze diversi da quelli degli strati sociali dominanti (Chiesa, nobili, artisti, eruditi e pochi altri). Prima che suscitassero l’interesse di alcuni studiosi, gli usi e costumi popolari erano giudicati errori o superstizioni da condannare.

folklore e antropologia Con le elaborazioni teoriche dell’”evoluzionismo”, in particolare con la definizione del concetto di cultura e della nozione di sopravvivenza (Taylor), lo studio del folclore diventa un momento essenziale di ricerca entro un progetto teorico di portata universale: per gli evoluzionisti il folclore europeo (in quanto sopravvivenza di precedenti stadi evolutivi), rappresenta il punto di contatto tra le popolazioni primitive e le popolazioni civili e consente di risalire fase per fase il percorso seguito dall’umanità nello sviluppo della cultura, fino alle sue origini. Il termine folclore subisce, quindi, due importanti modifiche semantiche: da un lato, poiché gli evoluzionisti operavano comparazioni su scala universale (metodo comparativo), l’ambito di applicazione del termine si estende anche alle popolazioni extraeuropee; dall’altro con l’introduzione del termine cultura, per indicare l’insieme complesso dei modi di vita di un gruppo sociale, il significato di folclore si restringe a quella parte “spirituale” della cultura caratterizzata dalla trasmissione orale, mentre per indicare gli aspetti “materiali “ di una cultura (taniche, oggetti ecc,) si usa il termine “etnografia”. È importante precisare che sia il termine folclore, sia il termine etnografia si riferiscono tanto all’oggetto di studio quanto alla disciplina che se ne occupa, il che ha contribuito non poco a creare l’ambiguità che ancora oggi avvolge il termine e che si è riflessa nei rapporti tra folclore e antropologia. Secondo Levi Strauss il termine folclore designa una disciplina che, anche se ha per oggetto di studio la società di cui lo stesso studioso è membro, impiega tecniche d’osservazione e metodi d’indagine analoghi a quelli impiegati nello studio di società lontanissime e, quindi, dipende strettamente dall’antropologia. Non tutti gli studiosi sarebbero disposti a sottoscrivere questa suddivisione disciplinare. L’assimilazione delle ricerche flocloriche all’antropologia implica il riconoscimento di culture diverse, espressioni di strati sociali diversi, all’interno di una stessa società o nazione (è il caso dell’Italia, in cui si è avuta una particolare impostazione degli studi di demologia), laddove nei paesi che non presentano una forte differenziazione socioculturale interna, per esempio i paesi scandinavi, la ricerca folclorica si presenta si caratterizza come ricerca sulle proprie tradizioni orali, più che come analisi delle differenze culturali interne. In Italia il primo tentativo di fondare una scienza del folclore autonoma si deve a Pitré. che la denomina nel 1911 “demopsicologia”; nel secondo dopoguerra Cocchiara introduce il termine nell’accezione inglese per indicare la disciplina che studia le tradizioni popolari. Tuttavia, a folclore per

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indicare la disciplina, è stato preferito da alcuni “demologia”, da altri “storia delle tradizioni popolari”, e di conseguenza, il termine folclore – che tra l’altro ha assunto una connotazione svalutativa, finendo per indicare aspetti più che altro “turistici” (si pensi all’opposizione tra gli aggettivi “folclorico” e “folcloristico”) – è stato sostituito, in riferimento all’oggetto di studio, da “fatti demologici ” o “tradizioni popolari”» (Fabietti – Remotti)