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N22 Il miglior interprete: D’Annunzio, del Pascoli Intervista a Stefan Damian Nepal: in punta di piedi sul mondo Paola Pastura L’impeto dell’informale Tra vita e arte Edvard Munch visto da uno psicoanalista Un Oscar per l’architettura aRTe leTTeRaTuRa SpeTTacolo 2 o TRIMeSTRe 2013 SaTuRa aRTe leTTeRaTuRa SpeTTacolo 22/2013 Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, - CNS/CBPA-NO/GE - n. 22 anno 6 ® DESTINATARIO TRASFERITO ® DESTINATARIO SCONOSCIUTO ® INDIRIZZO INSUFFICIENTE ® INDIRIZZO INESATTO attenzione: in caso di mancato recapito rinviare all’ufficio postale di Ge CMP1 detentore del conto per restituzione al mittente, che si impegna a pagare la relativa tariffa

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N22

Il miglior interprete: D’Annunzio, del Pascoli

Intervista a Stefan Damian

Nepal: in punta di piedi sul mondo

Paola PasturaL’impetodell’informale

Tra vita e arte Edvard Munch visto da unopsicoanalista

Un Oscar perl’architettura

aRTe leTTeRaTuRa SpeTTacolo

2o TRIMeSTRe 2013

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Anno 6 n° 22secondo trimestreAutorizzazione del tribunale di Genova n° 8/2008

in copertina Senza titolo, 2012, olio e acrilico su tela, 100x80

SATURA è un trimestrale di ArteLetteratura e Spettacolo editodall'Associazione Culturale SaturaProprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, ancheparziale, di testi pubblicati senzal'autorizzazione scritta della Direzionee dell'Editore

Corrispondenza, comunicati, cartellestampa, cataloghi e quanto utile per laredazione per la pubblicazione vannoinviati a:

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Le opinioni degli Autori impegnanosoltanto la loro responsabilità e nonrispecchiano necessariamente quelladella direzione della rivista

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RedazioneGiorgio Bárberi Squarotti,

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Guido Zavanone

Redazione milaneseSimona De Giorgio

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Direttore responsabileGianfranco De Ferrari

Segreteria di RedazioneFlavia Motolese

Collaboratori di Redazione Silvia Bottaro, Francesca Camponero, Manuela Capelli, Wanda Castelnuovo,Elena Colombo, Fiorangela Di Matteo,

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EditoreSATURA associazione culturale

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Progetto graficoElena Menichini

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sommario

3 Il miglior interprete: D’Annunzio, del PascoliGiorgio Bárberi Squarotti

8 DUE POESIEParlo di noiVerrò fuori di nuovoGuido Zavanone

10 Intervista a Stefan Damian Rosa Elisa Giangoia

13 DUE POESIELavorando a magliaLondra 15 aprile 2013Milena Buzzoni

15 Li Gulfi Francesco Macciò

18 Nepal: in punta di piedi sul mondo Milena Buzzoni

27 Emigrante Rosa Elisa Giangoia

40 TRE POESIEApprodo in LiguriaTramonto nel Golfo del TigullioLuoghiLuigi De Rosa

43 L’emarginazione sociale: riflessioni e considerazioni per arrivare con il cuore al cuore del problema Rita Muscardin

51 UNA POESIALa provincia dei caniGian Citton

53 DUE POESIENei tuoi occhiAlbaRosanna Pozzi

54 UNA POESIAGrands yeux dans ce visageJules SupervielleGrandi occhi in questo visoTraduzione di Guido Zavanone

56 PROSPEZIONIUN NOIR FRA CRONACA E STORIAGiuliana Rovetta MISIA, CONTROVERSA REGINA DIUNA STAGIONE MAGICAGiuliana RovettaIL FRUSCIO DELLA SPERANZARosa Elisa GiangoiaPER UN ESAME DI COSCIENZARosa Elisa GiangoiaAUTORITRATTO DI UN POETAdi Rosa Elisa GiangoiaSTORIE DI DONNERosa Elisa GiangoiaOLTRE il NULLARosa Elisa GiangoiaNOI E I CLASSICIRosa Elisa Giangoia

CRITICA 65 PAOLA PASTURA

L’IMPETO DELL’INFORMALE Flavia Motolese

73 TRA VITA E ARTE EDVARD MUNCH VISTO DA UNO PSICOANALISTALuca Trabucco

78 UN PAESAGGIO “DA ESPOSIZIONE”: IL PARCODELLE SCULTURE DI KRIESTERA VENDONE INCONTRA LA CERAMICA D’ARTE CONTEMPORANEASilvia Bottaro

ARCHITETTURA82 UN OSCAR

PER L’ARCHITETTURAGianluigi Gentile

85 FOTOGRAFIAFOTOGRAFIA OGGI ARTE O DOCUMENTO?Guido Alimento

89 ANDANDO PER MOSTREWanda Castelnuovo

97 I LIBRI DI ELENA COLOMBOSPECIALE CILEElena Colombo

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IL MIGLIOR INTERPRETE: D’ANNUNZIO, DEL PASCOLI

di Giorgio Bárberi Squarotti

Un sottogenere di poesia che si incontra molto significativamente nellanostra letteratura è la critica in versi, dove fondamentale è la sequenza di rit-mo, immagini, capaci di offrire il più efficace giudizio di letteratura. Non di-mentico che analoghe forme di poesia riguardano le arti figurative, ma mi fer-mo su un esempio mirabile che propone d’Annunzio, ne Il commiato di Alcyo-ne, a proposito del Pascoli: “Ode, innanzi ch’io parta per l’esilio, / risali il Ser-chio, ascendi la collina / ove l’ultimo figlio di Vergilio, / prole divina, / quei cheintende i linguaggi degli alati, / strida di falchi, pianti di colombe, / ch’egualeoffre il cor candido ai rinati / fiori e alle tombe, / quei che fiso guatare osò nelcèsio / occhio e nel nero l’aquila di Pella / e udì nova cantar sul vento etèsio/ Saffo la bella, / il figlio di Vergilio ad un cipresso / tacito siede, e non t’aspet-ta. Vola! / Te non reca la femmina d’Eresso, / ma va’ pur sola; / ché ben t’ac-coglierà nella man larga / ei che forse era intento al suono alterno / dei liccio all’ape o all’altra ora di Barga / o al verso eterno”. Si badi bene: è un altro mododi scrittura poetica diversissimo dalle odi in compianto della morte di VictorHugo e in celebrazione di Dante che scrive d’Annunzio e raccoglie in Elettra,o analoghi componimenti carducciani e pascoliani, per rimanere ai tempi pros-simi del tardo Ottocento e del primo Novecento: questi sono unicamente ce-lebrativi con tutta l’enfasi che è legata con l’occasione, e di interpretazione egiudizio critico in forma di poesia non c’è neppure una traccia; e lo stesso sipuò dire per il “canto” XX della Laus vitae, dedicato a Enotrio, condotto com’èfra laudatio ed elogio, e, insieme, come riflessione autobiografica e discorsopolitico e morale.

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Il punto di partenza della forma di critica in poesia è la Commedia, nei can-ti XI e XXVI del Purgatorio, con le considerazioni e le sentenze di Oderisi a pro-posito dei due Guido della “mainera” moderna e di dante per quel che riguardaGuido Guinizelli e di quest’ultimo a proposito di Arnaut Daniel, con il canto XXIVcome punto centrale, dove Bonagiunta non soltanto giudica la propria rimerìa equella del Notaro e di Guittone come imperfetta di fronte alla maniera moderna,ma definisce anche la poetica dantesca, quella che Dante stesso ha pronunciatodavanti al rimatore lucchese, che conclude con un estremo e definitivo commen-to. E di critica in versi, sull’eco dantesca, ci sono, a modo di ulteriore esempio, l’iro-nica considerazione dell’Ariosto per bocca di Astolfo e di san Giovanni sulle “men-zogne” dei poeti e della loro eccessiva vanità, mentre altro non sono che medio-crità e sicumera, e anche, in un altro luogo dell’Orlando furioso, la rassegna deipoeti moderni degni di plauso e memoria; ci sono, nell’Adone del Marino, analo-ghe classificazioni di poeti valorosi e di poeti insignificanti; c’è la dichiarazionedi poetica in forma di parodia nella conclusione del Baldus, quando i poeti sonocacciati dentro la zucca e lì dovranno espiare i loro peccati di poesia menzogne-ra o sciocca, lasciandosi cavare i denti che subito spuntano.

I versi dannunziani appaiono rigorosi e chiarissimi come descrizione einterpretazione dell’opera poetica del Pascoli nelle diverse esperienze e pro-ve: quello che la critica contemporanea non aveva presso che mai individuatoe indicato, neppure nei casi migliori, mentre del tutto erronei e incapaci di com-prendere il significato dell’opera pascoliana furono Thovez e Croce, e meno an-cora i lettori del Novecento, fino alla geniale rottura degli schemi idealisti e diquelli realisti, ugualmente “ideologici”, che compì genialmente Contini, da cuipoi prendemmo tutti l’aire.

La sequenza delle saffiche dannunziane sono la sintesi delle diverse e com-plesse ricerche poetiche del Pascoli: sì, le Myricae e i Canti di Castelvecchio e i Poe-metti, ma anche i Poemi conviviali, a dimostrazione che d’Annunzio non si è fer-mato alla facile lettura del poeta delle campagne, delle piccole cose, della natu-ra, del lamento dei morti, ma ha compreso la sua straordinaria reinvenzione del-la classicità, libera dal classicismo commemorativo e patetico del Carducci, e in-vece rievocatore di un passato greco e romano di cui rimangono imponenti rovi-ne e la memoria che è soltanto possibile descrivere con estremo sconforto. La clas-sicità pascoliana contiene in sé la verità e il significato della poesia, delle arti, del-le imprese, delle scelte morali e politiche, della morte, in quanto è l’attualissimaallegoria del senso della storia e della vita.

Più in là va d’Annunzio, quando, nella parte conclusiva del Commiato, com-menta anche un testo decisivo della poetica di Odi e inni, quello che si intitola Lapiccozza, che gli appare rivolto a lui stesso Gabriele, in quanto poeta del sublime,quanto il Pascoli è: “L’artefice nel flettere lo stelo / vedea sul Sagro le ferite anti-che / splendere e su l’Altissimo l’anelo / peplo di Nike. / Altro è il Monte invisibi-le ch’ei sale / e che tu sali per l’opposta balza. / Soli e discosti, entrambi una im-mortale / ansia v’incalza. / Or dove i cuori prodi hanno promesso / di rincontrar-si un dì, se non in cima? / Quel dì voi canterete un inno istesso / di su la cima”.L’interpretazione de La piccozza da parte di d’Annunzio è ben più profonda del-la consueta riduzione del testo a un atto d’orgoglio del Pascoli come protesta da-vanti alle riduzioni georgiche e patetiche dei critici. La poetica del sublime che pro-nuncia il Pascoli è sentita da d’Annunzio analoga: è un’idea della poesia che si con-trappone potentemente sia all’idea borghese e minimale del crepuscolo contem-

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poraneo, sia all’incapacità della critica di concepire il sublime a opera dei due poe-ti che salgono da opposte balze fino alla montagna di Apollo e delle Muse, che d’An-nunzio vede essersi concretata nell’Altissimo, nelle Alpi Apuane, consacrata dal-la presenza, in quello spazio, di Michelangelo e del “Cuor de’ cuori”, di Shelley mor-to in quel mare ai piedi dei marmi da cui sono uscite fuori le opere dello scultoresupremo. La poesia ha da essere, appunto, altissima, capace di giungere fino al Mon-te del dio delle arti e della parola e del canto: è l’interpretazione che d’Annunziodà de La piccozza pascoliana, e, contemporaneamente, è anche il giudizio che nericava nei confronti della concezione della poesia come sola lirica (crocianamen-te), a differenza dell’epica a cui è giunto Gabriele nelle Laudi a incominciare dallaLaus vitae e analogamente il Pascoli, sia nei Poemi conviviali sia nei contempora-nei Odi e inni.

Del resto, all’inizio della dichiarazione di poetica, che ricava da La piccoz-za, d’Annunzio ha detto: “E chi coronerà oggi l’aedo / se non l’aedo re di solitudi-ni?”: La poesia moderna è bassa, volgare, banale: rimane, sublime e solitaria, quel-la degli unici due poeti capaci di affrontare le ragioni fondamentali della scrittu-ra poetica. È una vigorosa affermazione di unicità, con un che, tuttavia, di dram-matico, così come è l’autobiografia che il Pascoli racconta ne La piccozza, che piùesplicitamente vede sé poeta sublime, salito fino alla cima del monte della parolae della bellezza, morire nel ghiaccio profondo della solitudine, ora che nessuno èin grado di seguire quella via e arrivare al culmine. Per d’Annunzio due sono i poe-ti della sublimità e del bello: ma la concezione di tale poesia comporta solitudine,mentre il Pascoli esprime anche la speranza che altri con l’analoga piccozza voglia-no e possano ascendere la cima divina; e d’Annunzio risponde che soltanto se stes-so e il Pascoli sono in grado di giungere a tale altezza, cioè ancora tale poesia esi-ste ed è presente e vera, ma non avrà seguaci, perché “il crasso Scita ed il fucatoMedo / la Gloria ha drudi” (e credo che qui ci sia qualche allusione alla letteratu-ra contemporanea che è di moda e suscita entusiasmo e celebrazioni: quella rus-sa e quella parnassiana e crepuscolare di lingua francese; ed è anche la presa diposizione di Gabriele nei confronti delle venture poetiche precedenti rispetto al poe-ma moderno che è la Laus vitae e alle altre “laudi”, quelle politiche e storiche e con-cettuali di Elettra e di Alcyone).

Che d’Annunzio si rivolga al Pascoli con l’appellativo di “figlio di Vergilio”non è soltanto un omaggio gentile, ma vuole rilevare il fatto che il Pascoli ha rin-novato le tre forme poetiche che Virgilio ha sperimentato: le Ecloghe, le Georgi-che e il poema epico e narrativo e lirico. Precisa, infatti, d’Annunzio, nel rivolger-si al Pascoli nel “commiato” nel morire dell’estate versiliese: “Forse il libro del suodivin parente / sarà con lui, su’ suoi ginocchi (ei coglie / ora il trifoglio aruspicevirente / di quattro foglie / e ne fa segno del volume intonso, / dove Titiro can-ta? O dove Enea / pe’ meati del monte ode il responso / della Cumea?)”. È il chia-rimento ulteriore della molteplice scrittura poetica del Pascoli che d’Annunzio ri-leva e commenta: assolutamente non soltanto il poeta delle campagne e del do-lore e della morte, non il rinnovatore esclusivo delle vicende delle stagioni nellafamiglia garfagnina, ma anche il nuovo Enea che visita il regno dei morti, tragi-camente ed elegiacamente, come dicono tanti “poemi conviviali”. E che il Pasco-li abbia in mano il libro del “divino parente” e con il quadrifoglio “virente” (cioè,vivo, vero, vitale) metta il segno alla pagina del libro del poeta latino, significa chequell’idea di poesia è al tempo stesso una garanzia e un augurio di verità e di bel-lezza, non soltanto un omaggio o una decorazione o un eccesso di eleganza e di

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ampliamento verbale. La classicità del Pascoli non ha nulla a che fare con il neo-classicismo carducciano e parnassiano: e lo dimostra il fatto che d’Annunzio elen-chi le opere di Virgilio come quelle di cui il Pascoli è figlio. L’allusione al viaggiodi Enea agli inferi sotto la guida della Sibilla di Cuma rimanda ai viaggi verso laconoscenza della morte che il Pascoli racconta nei poemi di Ate, Psyche, e anchealle odi e agli inni degli ultimi anni dell’Ottocento pascoliano. La poesia del Pa-scoli è colta da d’Annunzio nella frequente interrogazione del senso della vita edella morte, a partire dalle stesse Myricae: il poeta di Castelvecchio è come se ascol-ti ed esprima e chiarisca i responsi che vengono dalla divinità per il tramite del-la Sibilla che allora coincide con se stesso poeta, e le quattro foglie allegoricamen-te sono quelle che incidono le sentenze del poeta moderno sicure e decisive comequelle che Enea ascolta e apprende.

Dice d’Annunzio che il messaggio che invia al poeta che abita al di là del-le Apuane giungerà mentre questi “è intento al suono alterno / dei licci o all’apeo all’alta ora di Barga / o al verso eterno”. Sono tutte interpretazioni critiche del-la poesia del Pascoli: il verso eterno è quello virgiliano e, più ampiamente, dellaclassicità, alternativo rispetto a quello moderno che è simbolista; l’ora di Barga èla voce del tempo e della morte (“alta”, perché, sì, la chiesa della città della Gar-fagnana è al culmine dell’itinerario del paese, ma il termine vale anche, anfibolo-gicamente, “profonda”, “che viene dal profondo”, ed è sentenza e messaggio diverità); l’ape è il simbolo della laboriosità del poeta, che non si concede ozio e ab-bandono, e il miele è la poesia; il suono dei licci è l’altro aspetto dell’attività poe-tica, l’attenzione alle norme, ai canoni del verso, alla regola. Sinteticamente d’An-nunzio esprime, usando gli stessi termini del simbolismo pascoliano, l’idea di poe-sia del Pascoli. L’interpretazione della poesia pascoliana in quanto simbolista emisterica è sinteticamente esposta in un’intera saffica: il Pascoli “intende i linguag-gi degli alati”, cioè le onomatopee pascoliane non sono, come tante volte si è det-to dai critici soprattutto crociani, una decorazione o un’ingegnosità o un balbet-tare alquanto infantile, ma la comprensione delle voci divine che giungono all’uo-mo per il tramite degli uccelli che sono classicamente augurali, e il Pascoli (diced’Annunzio) è colui che traduce nel verso della parola umana il messaggio delledivinità che è misteriosamente tramandato per il canto e i suoni degli uccelli chesono al tempo stesso i messaggeri degli dei e i modelli della voce poetica. È la ge-niale interpretazione ed esplicazione del genere di poesia che il Pascoli ha scel-to: d’Annunzio esemplifica sinteticamente ed efficacemente il significato di queiversi degli alati che il Pascoli ode: “stride di falchi”, cioè le voci di minaccia e didolore e di violenza, e “pianti di colombe”, cioè il lamento della sofferenza, deldolore, della crudeltà della vita, delle vittime (si ricordino le due rappresentazio-ni del sacrificio di Niobe e dei figli e delle figlie a opera di Artemide e di Apolloper la colpa di hybris che la madre ha compiuto, dal Pascoli nel “poema convivia-le” Sileno, d’Annunzio ne Il Gombo in Alcyone, in entrambi i testi con la citazio-ne dei lamenti della madre e dei figli).

Subito dopo d’Annunzio indica due altri emblemi fondamentali della poesiapascoliana, sempre con la consapevolezza che si tratta di figurazioni sublimi del-le esperienze umane offerte come spiegazioni decisive, esemplari: i “rinati fiori”, quel-li della primavera come allegoria della rinascita del ciclo della natura, ma anche del-la vicenda umana (e d’Annunzio rinvia implicitamente non soltanto a tante Myri-cae floreali, quanto a molti Canti di Castelvecchio e ai Poemetti via via pubblicati frala fine dell’Ottocento e i primissimi anni del nuovo secolo, che datano il Commia-

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to di Alcyone), mentre le “tombe” sono un tema costante e ossessivo della poesiapascoliana: ma l’alternanza di fiori e tombe – le quali sono pur fiorite nel giorno deimorti a cui il Pascoli si richiama – è la spiegazione simbolista delle due vicende es-senziali dell’esistenza: nascita e morte. L’interpretazione che d’Annunzio offre diun aspetto cospicuo dell’opera poetica del Pascoli è tanto più preziosa quanto piùappare oggettivata da un poeta che pochissimo guarda alle tombe e i molti fiori (lerose, in particolare) non sono l’allegoria della nascita, ma la manifestazione dellapienezza dei sensi, dell’erotismo, del fulgore dell’esistere. In più d’Annunzio imma-gina che “il figlio di Vergilio” sieda “ad un cipresso”, cioè presso il cimitero, dovesono gli alberi che onorano e confortano il luogo dei morti (Il giorno dei morti è po-sto dal Pascoli in apertura delle Myricae, e il testo è popolato di cipressi, ma tantialtri cipressi sono nelle varie Myricae e nei Canti di Castelvecchio).

Ugualmente fondamentale ed esemplare è l’altra interpretazione che d’An-nunzio dà dei Poemi conviviali, molto al di là delle “letture” classicistiche che lacritica pascoliana diede per molti decenni prima da nuova e autentica interpreta-zione di Leonelli, Giovanni Bárberi Squarotti, Perugi. Nel Commiato d’Annunzio in-dica che il Pascoli non è il poeta unitario e monotono delle campagne e dei lamen-ti e della morte, ma molte sono le sue scelte poetiche, quella simbolista dei fiori edelle tombe, quella allegorica delle voci divine via via udite, comprese ed esplici-tate, quella della sublimità epica con, accanto, la poetica della poesia eterna che hale radici nella classicità, con le due esemplificazioni che Gabriele propone per ri-levare il significato e la verità dell’opera pascoliana come alternativa rispetto al sim-bolismo: la liricità di Saffo che offre il supremo esempio di amore e morte, con lacitazione di Solon e della cantatrice di Eresso che reca al vecchio politico e poetadi Atene i due canti di Saffo, e l’epica dell’eroe glorioso, il vincitore e il conquista-tore e il fondatore di città, di Alexandros, e i due opposti colori degli occhi che ilPascoli identifica come dell’avventura e delle imprese e quello della morte giova-ne e della vanità dell’agire e del godere. Il Pascoli (dice d’Annunzio) è riuscito a in-terpretare la caratteristica fisica dell’ “aquila di Pella” come emblema della contrad-dittoria aspirazione dell’uomo (l’aquila è l’eroe vittorioso, il simbolo dell’ascensio-ne alla sublimità delle vette e del cielo a cui Alessandro è giunto), e il pianto fina-le dopo tante conquiste fino all’estremo confine del mondo deriva dalla consape-volezza della vanità dell’agire di fronte alla brevità della vita e alla morte. In que-sto modo d’Annunzio commenta e rileva l’aspetto epico e lirico della scrittura poe-tica del Pascoli come reinvenzione dei miti e delle storie della classicità; e, di con-seguenza, l’interpretazione dell’opera poetica del Pascoli ridonda nella presenta-zione analoga della propria poesia che è una gara, proprio nel volume di Alcyone,ma con l’eco più vasta delle altre “laude”, la Laus vitae ed Elettra.

Conclusivamente d’Annunzio in modo allusivo e segreto aggiunge allasua interpretazione critica della poesia del Pascoli la citazione del componi-mento che nei Canti di Castelvecchio egli dedica all’ulivo, come ulteriore omag-gio per il tramite dell’allusione a L’ulivo di Alcyone. È una gara, suggerisce Ga-briele, e, al tempo stesso, è la dimostrazione dell’uguale valore, analogo al mon-te e alla cima più ardua a cui entrambi aspirano. Citando l’ulivo, d’Annunzioindica un altro aspetto della poesia del Pascoli: l’allegoria: “Gli uomini il tuopensier nutre ed irradia, / come l’ulivo placido produce / agli uomini la sua bac-ca palladia / che è cibo e luce”. Il Commiato di Alcyone è, per una non esiguasezione, la dimostrazione della critica della poesia fatta racconto e ritmo e im-magini.

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DUE POESIE

di Guido Zavanone

PARLO DI NOI

Perché noi cerchiamo qualcosache non sia stato,o non sia stato a quel modo,non parlo d’ideali, ne serbiamoun guardaroba completodiviso per stagioni,io parlo della vitala vita che ripete, oggi, i suoi gestiuguali, incapace di stupore,ha sorrisi avvizzitisu una bocca venale,purifica i genocidicon un benessere pio.E neppure la forza di piangere.Parlo di noi, non so corpo o anima– abolita, forse, non sostituita,i corpi hanno parabole brevis’alzano appena da terra e vi ritornano in fretta –non abbiamo più favoleda raccontarci l’un l’altro,la paura non s’inganna con le formule,asserragliati nei laboratorîattendiamo un’impossibile salvezza,neppure le parole sono nostreabbandonate tra noi da generazioni sepolte.Non è il caso di sorriderese noi cerchiamo qualcosache non sia stato,o non sia stato a quel modo.

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VERRÒ FUORI DI NUOVO

Verrò fuori di nuovoschizzando come una ranada una pozzanghera nascostaper salutareil mio vecchio amico cielo.Mi scrollerò il terricciodalle vesti in disordine l’animasobbalzerà stupitad’esistere davvero.Un trillo d’uccellomi darà il ben tornatoun vento caldo come l’amorepercorrerà le mie vene. Vedròin ogni parte esultare la vitala pace s’affacceràda mille arcobaleni.

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INTERVISTA A STEFAN DAMIAN

di Rosa Elisa Giangoia

Lei insegna italiano in un’importante Università rumena e parla perfet-tamente la nostra lingua. Da dove è venuta questa sua scelta culturale e pro-fessionale di dedicarsi alla lingua italiana?

«Non vorrei affermare un truismo e cioè che l’italiano è una lingua ca-rissima ad ogni rumeno e persino a coloro che non lo parlano. L’origine comu-ne dei due idiomi neoromanzi contribuisce pienamente ad apprezzarsi recipro-camente e a cercare i punti di unione, molto più numerosi di quanto qualcu-no potesse pensare. Come si sa, la romanità orientale ha avuto, nei tempi an-tichi, una più ampia diffusione, mentre ora si è ristretta, nello spazio balcani-co, a poche isole, sufficienti però a ricomporre, mentalmente, l’intero territo-rio di formazione e diffusione della lingua dei nostri popoli.

Per quanto mi riguarda, i primi contatti con l’italiano parlato l’ho avuto sinda fanciullo, perché mio nonno materno, da giovane come ex soldato austriaco, ave-va trascorso nel campo di prigionia di Avezzano ben più di due anni, durante i qua-li ha imparato l’italiano (dal 1917 fino all’estate del 1919!) perché il regime di pri-gionia era molto permissivo, si andava a lavorare in città (il terremoto del genna-io 1915 l’aveva distrutta al 90%) e nelle contrade, per cui i contatti con la gente delposto non mancavano. Di ritorno in Transilvania (già unita alla Romania) ha con-tinuato a usare l’italiano in varie occasioni. Io, quale “allievo” ho avuto poi l’oppor-tunità di migliorarlo nell’Università di Cluj-Napoca, dove attualmente insegno Let-tere italiane. La mia Università, che conta più di 40.000 studenti, è una strutturamulticulturale (ci sono quattro linee di studio, in romeno, ungherese, tedesco edebraico), in cui lo studio delle lingue ha una notevole tradizione».

Nel suo lavoro di critico letterario quali metodologie di analisi e di va-lutazione delle opere segue?

«Gli insegnanti di letterature straniere, credo, subiscano in tutto il mon-do la “dolce oppressione” di due sistemi: quello nazionale e quello della lin-gua d’azione. Nel mio caso, si tratta dell’oppressione del sistema referenzia-le e metodologico italiano, determinato da tanti e tanti fattori, che influenza-no (positivamente e negativamente) la mia formazione e le modalità di affron-tare gli argomenti. A questo si aggiungono le influenze nazionali, di cui devotener conto, perché mi rivolgo ad un lettore abituato a pensare in un certo modo.Però, un’intellettuale “né carne né pesce” spesse volte deve affermare ferma-mente le proprie opinioni ed imporre il proprio gusto, le sue scelte… C’è poitanto da recuperare per quanto riguarda le relazioni tra le nostre letterature!Già all’inizio degli anni novanta la critica marxista non ha trovato più alcunaaderenza tra gli intellettuali romeni, mentre lo strutturalismo si era dimostra-to incapace di fornire strumenti di ricerca adeguati. I nostri critici ricorronoquasi sempre alla critica estetica, anche se poi si dichiarano critici struttura-listi o partigiani della semiotica! C’è poi, almeno nella critica promossa dalleriviste, una forte dosi d’impressionismo!».

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La Romania è un paese che ha radici linguistiche e culturali neolatine inun’area di lingue diverse, per lo più slave. Questo fatto determina propensio-ni e interessi verso l’Italia e verso il mondo classico?

«Le vicissitudini della storia dei Romeni non sono state poche. Si pensi chegià nel III secolo d.C. l’esercito romano abbandonava la Dacia, una delle provin-cie più ricche dell’Impero, perché sul limes erano già comparsi altri popoli mi-gratori. Tra questi popoli, di maggiore importanza si rivelarono gli Slavi, attrat-ti anche loro dal miraggio dell’antica e della nuova Roma. Non potendo raggiun-gere né l’una né l’altra, gli Slavi si insediarono sui Carpazi e nei Balcani, dunquenei territori abitati dai Daci romanizzati, obbligati a ritirarsi sulle alture difficil-mente accessibili agli invasori. Queste isole neoromanze sono ancora presentiin Grecia (nel Pindo), in Albania, Macedonia, Bulgaria, Serbia, Croazia. Per non par-lare poi dei Romeni che vivono tuttora in Ungheria ed Ucraina… Nel XV e XVI se-colo ce ne erano tanti nei pressi di Trieste, in Istria e Dalmazia… Recuperare spi-ritualmente la patria perduta, conservata nello stesso denominativo di “romeno”(da Roma) è stato un vero programma dei rappresentanti della “Scuola transil-vana” del XVIII secolo, programma che si è poi tramandato fino ad oggi. Per mol-ti secoli i Romeni hanno identificato nell’Italia il paese dei loro antenati di cui an-davano orgogliosi. La riscoperta dell’Italia ha costituito tante volte una chiave divolta della stessa esistenza romena, sia in campo politico che culturale».

Questa specificità linguistica della Romania ha avuto ripercussioni cul-turali nei rapporti con gli altri paesi, slavi o di altro ceppo?

«Coscienti del proprio isolamento linguistico nel dilagante mare slavo,di religione ortodossa, parte dei Romeni transilvani si erano uniti con la Chie-sa di Roma nel 1700. Era, quest’atto, anche una risposta alle proposte dell’im-peratore d’Austria, a sua volta costretto a fronteggiare le riforme ecclesiasti-che calviniste e luterane, ungheresi e tedesche, il quale aveva bisogno di nuo-vi alleati fidati anche contro i Turchi (in quel periodo ancora presenti nei Bal-cani ed in altre provincie storiche romene). L’atteggiamento ostile al panslavi-smo russo si era manifestato fino a tardi, per non parlare poi della resistenzaanti-sovietica prima e dopo la seconda guerra mondiale!».

Nell’ambito della storia della letteratura italiana quali autori e quali mo-vimenti sono più conosciuti e apprezzati in Romania?

«Lungo gli anni, la letteratura romena si era dimostrata capace di assimi-lare la grande cultura italiana, a cominciare dagli scrittori del Duecento (le ver-sioni romene, pubblicate da me, del Cantico di Frate Sole sono più di 30!), del Tre-cento (sei versioni integrali della Divina Commedia) e via dicendo. Si arriva, così,fino alle ultime generazioni di poeti e narratori, molti di loro poco conosciuti per-sino in Italia. Si deve tener conto che in Romania c’è sempre stata una sete di let-teratura moderna, forse per riflesso agli anni in cui il regime ne limitava l’acces-so. Adesso, invece, sul mercato librario romeno e sulle pagine delle nostre rivi-ste, la letteratura italiana si trova in casa propria, tanto da venir pubblicate di-verse antologie di poesia regionale (ligure, piemontese, siciliana)».

Dal suo particolare punto di osservazione quale valutazione può dare del-l’attuale produzione italiana, in particolare della poesia?

«La poesia italiana odierna è estremamente variegata, per questo non hauna linea facilmente definibile. Questo perché la grande tradizione della poe-sia che si conclude negli anni Sessanta e Settanta è stata boicottata dalle nuo-ve generazioni di poeti. Non convincono se non parzialmente gli esperimenti

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(ridotti, piuttosto, agli aspetti linguistici, agli innesti dialettali, gergali, alle vio-lenze verbali.), così come non è da pensare un ritorno ai grandi del Novecen-to. Ci sono molti poeti interessanti, però pochi da includere tra coloro che pos-sono costituire dei veri capiscuola. Non vorrei fermarmi su alcun nome, dia-mo tempo al tempo…».

Quale è attualmente l’orientamento della produzione letteraria in Roma-nia? Quali generi, quali filoni, quali tematiche si privilegiano?

«Dopo la grande apertura degli anni ‘90 si attendeva un vero dilagare del-la letteratura vietata. Orbene, finora niente di niente! La poesia, non più costret-ta alla censura, è diventata troppo esplicita (per il mio gusto!), ha perso la sot-tigliezza, la concisione, l’allusività, il mistero… È diventata retorica, volgare,violenta e narrativa. La poesia ha perso moltissimo, gli anni in cui si manife-stava il geniale Nichita Stanescu restano un doloroso ricordo. Anche la narra-tiva ha subito un evidente degrado, non potrei citare, tra gli autori di roman-zi del momento, nessuno che mi interessi veramente. Qualche nome, propo-sto anche dalle case editrici italiane, non ha se non poche affinità con MirceaEliade, ad esempio. Sono trascurati autori importanti, come Eugen Barbu, Con-stantin Toiu, Stefan Banulescu, D. R. Popescu, in cui realismo ed immaginariosi intrecciano, seguendo a volte canovacci specifici del romanzo giallo o dellascrittura lirica. Certo, non sono più giovani, taluni sono scomparsi, però la loroopera ha aperto tante strade ai giovani. Alla narrativa si sono ispirati anche al-cuni poeti odierni, i quali cercano di innestare sulle esperienze del Gruppo ‘63italiano esperienze linguistiche della narrativa romena. Il cosiddetto Gruppo80 ha lasciato però poco spazio ad altre innovazioni».

Che prospettiva vede per gli sviluppi della letteratura e della lingua ro-mena nel futuro dell’Europa unita che si va allargando verso Est? A suo giudi-zio, quali lingue resteranno minoritarie e quali destini potranno avere?

«L’integrazione europea presuppone una grande sfida per tutte le nazio-ni, non soltanto per quella romena. Grazie all’apertura dei confini, la conser-vazione della lingua sarà facilitata anche nei paesi dove, attualmente, le mino-ranze romene sono tuttora private della possibilità di usarla a scuola o in chie-sa. E questo avviene in tutti i paesi circostanti la Romania. Per quanto riguar-da l’emigrazione romena (si pensi che in Italia vivono attualmente circa un mi-lione di romeni, in Spagna circa ottocentomila, in Canada più di mezzo milio-ne), secondo me non conserverà a lungo il romeno; anzi, già la seconda gene-

razione lo parla con difficoltà se addirittu-ra non lo dimentica. Una lingua viva si par-la sul territorio d’origine, altrimenti diven-ta artificiale. Dunque, credo che la vera evo-luzione della letteratura romena avverrà inRomania e Moldavia. Certo, grazie all’emi-grazione, essa sarà forse meglio conosciu-ta in altri paesi, tramite traduzioni piùconsistenti ed aggiornate».

Stefan Damian insegna Lingua e Letteratura italiana all’Università di Cluj Na-pote e ha tradotto in rumeno parecchi poeti italiani contemporanei.

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DUE POESIE

di Milena Buzzoni

LAVORANDO A MAGLIA

Seduta in poltrona,i ferri sotto il braccio,riprendo le maglie cadute:scende l’uncinettonella trama della lana,entra ed escescavalcando il filofino a raggiungerequell’ultima magliarimasta sganciata.Trovare un uncinoper tirar fuori dal tempoun perduto mattino,una sera cadutasul fondo di ieri,un minuto impigliatosul rovescio dell’ora!

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LONDRA 15 APRILE 2013

Svegliata dalla lunaentri nella vitacon i tacchi alti.Il Tamigi porta via la nottee dimentica le luci.Sotto lo sharde altri cristalli,il London bridgeaccende i fuochidel vostro tempio.Lo attraversate tenendovi per mano.Veneremette alialle cavigliee inventa per voivolidi plenilunio

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LI GULFI

di Francesco Macciò

Buona parte dell’infanzia di Sofia è trascorsa in Sicilia, in un grosso bor-go agricolo della campagna agrigentina.

Il nonno di Sofia faceva il guardiano di un faro collocato su una sco-gliera di gesso a picco sul mare. Lasciò il faro un venerdì gelido di dicembre,scortato da due carabinieri; lasciò con il faro anche i topi e i gabbiani che loabitavano, con i quali ogni giorno doveva scendere a patti nel concordare glispazi di una difficile convivenza. Era stato chiamato alle armi dopo Caporet-to. Dal momento però che alla chiamata non aveva risposto, fu convinto a sa-lire su un convoglio ferroviario, poi su una tradotta e infine su un autocar-ro che lo scaricò direttamente al fronte. Non aveva ancora diciotto anni quan-do si trovò in guerra contro gli austriaci, che erano già arrivati al Piave conun travolgente contrattacco e avevano costretto gli italiani, nel tentativo difermarlo, a impiegare ogni mezzo e ogni uomo in grado di imbracciare unmoschetto.

I topi lasciati al faro se li era ritrovati in trincea, dove l’affollamento ela ristrettezza degli spazi li avevano resi più aggressivi. Gli era capitato diavvistare anche due gabbiani che sorvolavano il greto secco del fiume. Ne ave-va seguito le traiettorie, intercettato il grido, che gli ricordava il faro a stra-piombo sulla scogliera e il fragore del mare. Li aveva osservati incrociare conle loro grandi ali bianche un nugolo di corvi che stringevano il volo sui restidi uomini e animali caduti in battaglia. Pensò che se si era salvato da quel-la carneficina, lo doveva al fatto di aver chiesto di essere aggregato alle trup-pe d’assalto. Non che in quel reparto non si corressero dei rischi, che anzierano maggiori, ma almeno non si veniva falciati dal fuoco a macchia di leo-pardo dell’artiglieria. Meglio morire combattendo in prima linea piuttosto checentrati da una palla di cannone sparata nelle retrovie da chissà chi e da chis-sà dove. Meglio vedere il nemico in faccia, fare affidamento sul proprio co-raggio e sperare nella sua paura. Poter scegliere, sia pure in un infinitesimodi secondo, tra la sua vita o la tua, anche se si tratta di una decisione che di-pende, per l’altra metà, dalla velocità di pensiero e di esecuzione di chi stadi fronte con un fucile puntato. Senza ovviamente conteggiare i diritti di pre-lazione della sorte. D’altra parte, molte cose nella vita non sono dovute allarapidità e alla risolutezza di chi compie movimenti uguali e contrari, oltre-ché, naturalmente, a una buona dose di fortuna?

Anche mio zio Giovanni aveva combattuto sul Carso e poi sulla lineadifensiva del monte Grappa, dove era finito sotto le macerie di una trinceacrivellata dai colpi dei mortai austriaci. Ma non si era perso d’animo. Ave-va trovato il modo di risparmiare ossigeno entrando quasi in uno stato dicatalessi, mantenendosi desto, però, e vigile. Ed era rimasto lì, sepolto perdue giorni con le orecchie ben tese a captare ogni minimo rumore dall’ester-no, finché qualcuno captò la sua voce, ormai flebile, e cominciò a scavare.

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Ritornò a casa dopo Vittorio Veneto, con un diploma di onorificenza e unacroce di guerra appuntata sul petto. Anche nel suo caso la velocità, in ac-cordo con la fortuna, aveva reso possibile la conquista di una salvezza ri-dotta al lumicino.

Il nonno di Sofia, tornato dalle linee di fuoco e dalle trincee bianchedel Carso, non se l’era più sentita di abitare sulle scogliere di gesso della co-sta meridionale e di accendere ogni giorno al tramonto un grande occhio lu-minoso che guidava milioni di altri occhi nelle insidie notturne del mare. Ave-va sempre provato orgoglio nel ritenersi, oltre che il guardiano del faro, an-che il custode della tomba di Minosse, pur non sapendo spiegarsi perché ilre di Creta avesse stabilito di collocare il suo mausoleo in una montagnolabianca proprio a due passi dal suo piccolo alloggio. Per la verità i resti di Mi-nosse non furono mai trovati, ma alcuni archeologi, che continuavano a sca-vare, asserivano con convinzione che ogni minuscolo frammento portato allaluce avesse a che vedere con quel leggendario personaggio. Comunque stia-no i fatti, la guerra cambia le cose e le persone. E così, complice Li Gulfi, ungrosso appezzamento ricevuto in eredità da un cugino che non aveva fatto,a sentir lui, la fesseria di sposarsi, si era trasferito in un paese dell’interno.

La terra a Li Gulfi si stendeva a perdita d’occhio in un paesaggio col-linare sormontato da una casupola che si ergeva nel punto più alto, come unatorre di avvistamento. Da lassù il mondo gli parve più appagante e sereno.Li Gulfi era un mare verde che aspettava soltanto un faro e braccia forti peressere solcato. Si era risolto nel frattempo a non commettere la fesseria delcugino, e così prese moglie, accrebbe la casupola ingrandendola e alzando-la di un piano e accrebbe pure la sua famiglia di tre maschi e una femmina.Arava la terra e la seminava, piantava alberi da frutta, potava le viti rimanen-do a lavorare nei campi dall’alba al tramonto. Era un uomo infaticabile e lasua operosità si era via via rafforzata nel fermo proposito che i suoi figliolinon avrebbero mai dovuto chiedere nulla ai vicini, nulla di tutto ciò che laterra potesse offrirgli. Pesche, susine, gelsi rossi, albicocche, fichi, uva, po-modori, cipolle, peperoni, cavoli, “tenerume”, zucche così grosse da fare a garaa sollevarle: un intero universo vegetale di forme e colori si sgranava davan-ti agli occhi di quei bambini che correvano a perdifiato da un albero all’al-tro e da grandi non vollero più lasciare quel luogo.

In ossequio a usanze e tradizioni contadine allora vigenti, il nonno diSofia prese poi la decisione che un figlio, il più gracilino, quello che fin dapiccolo gli era parso non adatto alle fatiche dei campi, l’avrebbe lasciato “pilu Signuruzzu”. Solo che, dopo qualche settimana di collegio presso i fratiminori conventuali, quel ragazzetto era fuggito nottetempo e se l’era ritro-vato all’alba, mezzo addormentato, sotto il pergolato. Gli era parso un segnoinequivocabile che il pargolo non era adatto manco “pi lu Signuruzzu” e co-munque lu Signuruzzu non l’aveva voluto. Così si prodigò per farlo studia-re all’istituto tecnico commerciale. Dato che la banca gli aveva negato un pre-stito per cominciare onerose trivellazioni, non mancava occasione di sotto-lineare che suo figlio sarebbe diventato banchiere e si sarebbe “accattato latrivella e magari la banca”.

La perforazione cominciò qualche anno più tardi nel punto esatto in-dicato dalle bacchette di legno di un infallibile cercatore. La punta dell’eli-

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coide affondò per una decina di metri, poi si piegò, continuò a ruotare, si spez-zò ed è ancora conficcata lì in un conglomerato di arenaria. A Li Gulfi il si-stema di irrigazione, costituito da un reticolo di canaline di stagno serpeg-gianti a un metro da terra, continuò ad essere alimentato da una grossa ci-sterna di acqua piovana.

Il figlio gracilino, invece, divenne ragioniere diplomandosi con il mas-simo dei voti, si sposò, fu assunto in banca. Non divenne banchiere, ma feceugualmente carriera trasferendosi in una città del nord a destare dal torpo-re una piccola filiale. Portò con sé la moglie e la figlia biondissima nata a LiGulfi, che il nonno chiamava “Normanna”, ma tutti, tranne il nonno, chiama-vano con il suo vero nome di origine greca, Sofia.

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NEPAL: IN PUNTA DI PIEDI SUL MONDO

di Milena Buzzoni

La valle di Kathmandùci accoglie con lo spiegamen-to delle sue smaglianti cate-ne di monti che compaionoattraverso i finestrini dell’ae-reo creando una sequenza divedute mozzafiato. Sotto,ghirlande di nuvole candidee dense a una prima occhia-ta confondono l’orizzontetra punte seghettate e morbi-de ondulazioni, poi comincia-no a distinguersi le cime del-le vette dalla cortina nuvolo-sa che ci si è appoggiata so-pra. Lo sguardo si abitua albianco e nel bianco individual’asperità delle rocce, lo slan-cio delle guglie, l’ininterrottosvolgimento dei rilievi messi in luce dal sole. Scendiamo in un’atmosfera frescae temperata, ma il piacere di questo primo impatto frena all’interno del piccoloaeroporto di mattoni e legno dove, per i visti, dobbiamo fare un’ora di coda! Sia-mo stanchi del viaggio e non vediamo l’ora di arrivare in albergo. La strada dal-l’aeroporto all’hotel è un delirio di traffico in cui confluiscono biciclette, auto, ca-mion, motorini, risciò, carri e animali, nonché persone in mezzo alla strada permancanza di marciapiedi. La carreggiata è ingombra di grosse pietre che costrin-gono i mezzi a deviazioni e sobbalzi. Per fortuna lo Yak and Yeti Hotel non è mol-to lontano e vanta la fama di essere il migliore del Nepal. In effetti il padiglionestorico e quello moderno creano un complesso enorme e movimentato con un belgiardino fornito di lago e piscina. Givan, un trentacinquenne nepalese, sarà la no-stra guida, attenta e competente: il suo italiano è praticamente perfetto, impara-to grazie a una famiglia di Bologna che lo ha aiutato a studiare. Nell’atrio siamoaccolti con collane di tagete color zafferano e bicchieri di succo d’arancia, licys ecarcadè. La nostra stanza al quinto piano della parte vecchia è ampia e porge pro-prio sul giardino. Apro la mia valigia con la disarmante constatazione di avercimesso, come al solito, troppo poco! Segue bagno caldo e riposo di circa un’ora.Poi si esce per la cena. Per arrivare al ristorante percorriamo strade completamen-te buie piene di buche e spazzatura. Ogni tanto i fari di qualche auto illuminanoil cammino e ci permettono di valutare il terreno. Il locale al quale approdiamodopo poche centinaia di metri, è un posto caratteristico a tre piani. Una scala dilegno ci conduce in cima, sotto un tetto foderato da un’enorme tendone borde-

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aux con motivi di tondi e riquadri ritagliati a patcwork. Seduti per terra su cusci-ni colorati, davanti a tavoli lunghi e bassi, prendiamo un aperitivo a base di bir-ra, arachidi e ravioli al vapore, i tipici momo, piccanti e squisiti. Danzatrici nepa-lesi molto carine si esibiscono tra i tavoli con la leggerezza di farfalle e la graziadi bambine. Le applaudiamo finendo i nostri saché a lume di candela. Per la cenascendiamo al piano inferiore dove assaggiamo il classico riso con zuppa di len-ticchie e vari contorni di verdure al vapore, cinghiale e pollo. Sarà questo il pasto-base per tutto il periodo, le spezie finiranno per attentare all’integrità dei nostriintestini e un diffuso rifiuto per questo tipo di menu si impadronirà di ciascunodi noi! Ma per ora consumiamo con entusiasmo questa “novità della casa”!

Finalmente è arrivata l’ora di andare a letto e, dato che non ne vediamouno da ieri mattina, ci ritiriamo felici per un sonno che raddrizzi fusi orari estanchezza.

La mattinata è dedicata alla visita del centro storico di Kathmandù: unsusseguirsi di magnifici templi nel tipico traffico orientale fatto di moto, autoche si sfiorano, clacson. Siamo nella Durbar Square ; la piazza è in parte oc-cupata da una bancarella di “oggetti antichi” all’ombra dei tetti sovrapposti deitempli sparsi un po’ ovunque. Tra i diversi piani, mezzanini, balconi e fine-stre a traliccio formano un vero e proprio merletto di legno, elegante e raffi-nato. I sostegni delle parti sporgenti dei tetti sono decorati con figure femmi-nili che sembrano sfidare la legge di gravità. La loro leggerezza contrasta conil realismo delle scene erotiche comuni a tanta architettura orientale che fa diesse un inno alla vita. Da questi balconi i re Malla, rimasti famosi per lo lorovocazione a costruire, potevano vedere una parte del proprio regno e contem-plare tutta la valle di Kathmandù. L’entrata del Palazzo Reale che include uncomplesso insieme di quattordici cortili o chowk, collegati da passaggi e cir-condati di statue e pagode risalenti al XIV secolo, è presidiata dalla statua diHanuman Dhoka, il dio-scimmia che nel Ramajana aiutò Rama a liberare la pro-pria sposa Sita e che dà il nome al palazzo. Troneggia sotto un baldacchino drap-peggiato nel suo rosso mantello per impedire agli spiriti maligni di entrare.

Saliamo al Tempio delle Scimmie con un grande stupa centrale bianco egiallo circondato dalla sequenza dei cilindri di bronzo istoriati appesi sotto unastretta pensilina: facciamo tre volte il giro dello stupa in senso orario e faccia-mo ruotare su se stessi i cilindri delle preghiere per assicurarci futura fortuna.Da qui la vista della vallata è ampia e Kathmandù, che occupava il bacino di unlago, è stesa ai nostri piedi. Attorno colline coperte di vegetazione: siamo a piùdi 1300 metri ma l’aria è tiepida e ogni tanto soffia una brezza piacevole.

Scendendo dal tempio, visitiamo la casa della Kumari che aspettiamo siaffacci alla finestra, nel cesellato cortile in legno del settecentesco monasteroche la ospita. La “dea vivente” viene scelta nell’ambito di una famiglia buddi-sta di orefici o di fabbri. Deve avere tra i 4 e i 5 anni e un corpo privo di mac-chie, segni o cicatrici. Le candidate vengono severamente selezionate anche inbase all’oroscopo che deve essere giudicato favorevole. Le “finaliste” devonosuperare una serie di prove e dimostrare coraggio: tra le altre, la futura Kuma-ri viene chiusa in una stanza buia che contiene teste di bufali appena decapi-tati e ancora grondanti sangue. Se sopporta la prova senza piangere, i sacer-doti la giudicano degna di essere la personificazione vivente della figlia delladea Kalì. Lascerà la casa dei genitori per assumere il ruolo mitico della vergi-ne vestale attraverso cui tutto si purifica, non si comporterà più come una bam-

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bina ma come una dea, non camminerà più ma verrà portata, smetterà di par-lare ma alla sua presenza si tacerà, non potrà toccare certi oggetti per non ri-schiare di ferirsi. All’inizio della pubertà, lascerà il palazzo per ritornare nelmondo. Superstizione vuole, però, che chi sposa una ex-Kumari muoia nei mesisuccessivi alle nozze. Colei di fronte alla quale la folla si prosternava, che ve-niva portata in trionfo su un carro in occasione delle grandi festività, che ave-va il privilegio di apporre la Tika sulla fronte del re, è spesso condannata a ri-manere sola. In Nepal altre città hanno voluto avere la propria Kumari e se necontano una decina in tutto il paese.

Il patio che ci circonda è un vero e proprio puzzle ligneo in cui ciascun pez-zo si incastra nell’altro: gli artigiani newar, infatti, non utilizzavano né chiodi nécolla. Finalmente appare la bambina tra i merletti delle finestre al secondo pianoombreggiate dallo spiovente del tetto: indossa una veste rossa e il suo faccino ètruccato come quello di una maschera. Si mostra per pochi minuti ma sembra di-sinvolta nel difficile ruolo che le compete.

Proseguiamo per visitare Patan, l’antica capitale, ubicata a cinque chilome-tri dal centro di Kathmandù, sull’altra riva del Bagmati, un fiume di poca acquadagli argini coperti di spazzatura. Detta anche Lalitpur, “città della bellezza”, dalsuo fondatore il re Veera Deva nel 299, è un vero e proprio museo all’aperto coni suoi palazzi, pagode, monasteri e santuari che le hanno valso anche l’appellati-vo di “città delle belle arti”.

Nel 1884 Gustave Le Bon, uno dei primi turisti ad aver visitato la città, scri-veva: “Dubito che un fumatore d’oppio abbia mai intravisto nei propri sogni un’ar-chitettura più fantastica di quella della strana città di Patan. Pur avendo visitatol’Europa, da Londra a Mosca, e tutto l’Oriente classico, dal Marocco all’Egitto e allaPalestina, non avevo mai visto uno spettacolo più avvincente di quello della gran-de via di Patan”.

Giriamo per la Durbar Square con il naso per aria, dal palazzo reale sul qua-le le diverse dinastie hanno lasciato l’impronta del proprio stile, alla pagoda di Ta-leju con il suo triplo ordine di tetti coronati di guglie che si innalzano oltre i cin-que piani, alla fontana ottagonale scavata nel suolo, le cui pareti sono affollate disculture religiose del XVII secolo e sostengono due file di divinità sistemate in nic-chie e incastonate in una minutissima decorazione floreale di pietra. L’acqua sgor-gava da una testa di coccodrillo dalla forma allungata.

Ci riposiamo e prendiamo un tè sulla terrazza di un café-restaurant dallaquale si gode una vista mozzafiato della piazza e di tutti i suoi templi, incarna-zione di una storia e di una civiltà antichissime che qui vivono a stretto contattocon la popolazione e le sue attività. È un’emozione trovarsi tra gli spioventi di que-ste pagode, i bordi rialzati dei tetti, il rosso degli edifici, il grigio della pietra: nonè solo il viaggio in un paese spazialmente lontano ma anche sprofondato in untempo remotissimo di cui mantiene tutto il fascino. Qui la bellezza non è protet-ta in un museo ma è parte integrante della vita di tutti e, anche se a rischio, hauna verità e una fruibilità introvabili in occidente.

Torniamo a Kathmandù per perderci nelle affollate stradine del quartie-re di Thamel dove non ci si può sottrarre a uno shopping sfrenato. Le nostreborse si riempiono di sale rosa dell’Himalaya dalle infinite proprietà terapeu-tiche, di maglieria di cachemire, sciarpe, pullover, mantelle, di coperte in lanadi yak, calde e pelose! Ci aspetta una cena piuttosto modesta nel locale più vec-chio di Kathmandù.

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La mattina seguente arriviamo a Bodnath, il cui nome significa “Signore del-l’illuminazione”, a otto chilometri dalla capitale. È contemporaneamente il cen-tro principale del buddismo nepalese e il regno del mondo tibetano più auten-tico. Accoglie migliaia di pellegrini e ancora oggi i più devoti si sottopongono albaudaum che consiste nel misurare il tragitto con la lunghezza del corpo: get-tato a terra il rosario costituito da 108 piccoli grani, si stendono nella polvereper raccoglierlo e ricominciano subito daccapo. L’esercizio può durare settima-ne, persino mesi! Qui sorge lo stupa più largo del mondo: sette piani che rappre-sentano i sette passi compiuti da Buddha subito dopo la nascita e, tranne il pri-mo, interdetti ai visitatori. Osservandolo, si comprende il suo carattere simbo-lico e di Mandala: attorniato da cerchi di case che simboleggiano il ciclo senzafine della vita e della morte, lo stupa rappresenta, in opposizione ad esse, l’eter-no e l’immutabile. La cupola arriva a 38 metri ed è sormontata da un parasoledi ottone. Facciamo il giro della circonferenza in senso orario, dando un’occhia-ta ai negozi ai piedi delle costruzioni distribuite tutt’attorno in un ininterrottopercorso curvilineo. Vengono in mente le piazze di certi borghi toscani, ovali orotonde, che proteggono con il loro abbraccio un nucleo pregiato!

In pomeriggio proseguiamo per la Benares del Nepal, Pashupatinath, cin-que chilometri a est di Kathmandù, in una zona boscosa sulle rive del Bagma-ti: il fiume sacro percorre il Terai, la vasta pianura alluvionale che fa da fron-tiera tra Nepal e India, per gettarsi nel Gange. Qui hanno luogo i riti della cre-mazione: i corpi vengono adagiati sui ghats, piattaforme alla sommità di pila-stri in cemento distribuiti lungo il fiume , e inceneriti sulle pire nelle quali siinfilano foglie di tulsi, burro, sandalo e canfora.

La riva opposta è sormontata da una serie di tempietti, uomini e donnecompiono i riti di purificazione nelle basse acque del Bagmati, qualche sadhu(“uomo santo abitato dal verbo divino”) coperto di cenere, medita sull’argine.L’atmosfera ha tutta la gravità che la sua funzione richiede: prevale il grigio eil silenzio mentre il fumo che sale dalle pire offusca l’aria. Anche il lebbrosa-rio trasformato in ospizio per gli anziani che qui aspettano la morte, ha benpoco di vivo: vecchi ossuti dai volti asciutti chiedono una sigaretta, mastica-no qualche boccone di riso, accartocciati per terra come stracci o già stesi den-tro piccole stanze nella semioscurità.

Dopo una notte in cui ancora aleggiano i fantasmi di Pashupatinath, Bhak-tapur, detta anche Bhadgaon, ci aspetta a tredici chilometri dalla capitale e ciaccoglie attraverso una candida porta. Subito dopo, la piazza ci offre, come po-sata su un piatto pregiato, un’incredibile varietà di templi: da quelli a pagodacon doppio tetto, a quelli in pietra costruiti come un pan di zucchero di stilenepalese, a quelli in mattoni rossi sorretti da colonne finemente lavorate di sti-le indiano. In fondo a sinistra, la piazza è delimitata dal palazzo reale famo-so per le sue 55 porte. Arriviamo a un’altra deliziosa piazza con uno spetta-colare tempio a pagoda a 5 tetti sovrapposti, il Niatapola. Ci segue una bam-bina sui dodici anni che, grazie a un’adozione a distanza, studia e parla per-fettamente inglese. Porta in testa un cappellino di lana per nascondere un ta-glio di capelli che non le piace. Ci scorterà e guiderà per le strade di questa cit-tà rimasta al medioevo e ricca di edifici del XVII e XVIII secolo. Girando per ivicoli arriviamo a una piccola piazza, la pottery square, ricoperta per intero dal-l’esposizione di vasi, candelabri e salvadanai di terracotta, una lavorazione frale più antiche e sfruttata in Nepal per la decorazione di palazzi e templi.

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Le fontane, scavate un paio di metri sotto terra, con teste di serpenti perbocche, hanno profondi pozzi in mattoni dentro i quali le donne calano ripetu-tamente taniche di plastica per riempire senza imbuto le loro bottiglie. Non c’èspettacolarità nei loro gesti che sono assolutamente autentici: l’acqua scarseggianonostante i ghiacciai himalaiani e fiumi portentosi, lenti, sacri e inquinati. Le stra-de sono buie: solo i fari delle rare auto rischiarano i marciapiedi sconnessi per l’at-timo durante il quale passano e superano i pedoni. Persino nei grandi alberghi atratti, manca la luce e le stanze sono tutte fornite di pile e candele. I negozi e glistessi alberghi hanno generatori propri. I mercati che incontriamo sono quelli perla gente del posto: cavolfiori interi o sparsi a essiccare, spinaci, cesti di piselli, ca-rote corte e larghe. Sono esposti su stuoie stese per terra con le donne accuccia-te dietro. Spesso si incontrano vecchi seduti ai bordi di palazzi principeschi, im-preziositi da finestre cesellate e leoni di pietra a guardia dell’ingresso. Tutti han-no volti scuri, capelli corvini, occhi grigi, di ottone o neri come ossidiana. Alcunevecchie sono accucciate sotto portici di legno dai raffinatissimi intagli e filano conleggeri arcolai. Le donne non sono alte ma hanno lineamenti piccoli, denti perfet-ti e anche quelle anziane mantengono una bellezza e una signorilità difficili datrovare altrove: il bianco del sorriso vince le pieghe della bocca, gli sguardi vin-cono le rughe attorno agli occhi, i capelli lucidi e foltissimi vincono fronti stan-che. Questa gente è tutt’uno con i templi e le pagode, ha la carnagione del colo-re degli edifici di mattoni, è la parte vitale di un organismo qui da secoli. I bam-bini, anche di pochi mesi, hanno gli occhi segnati con il kajal: sembrano divinitàscese in terra ad alleviare la sorte di tutti.

In pomeriggio saliamo fino a Nagarkot, ventidue chilometri a est dellacapitale, 2200 metri di altitudine, un autentico anfiteatro naturale tra la valledi Kathmandù a ovest e l’Idravati, fiume alimentato dallo scioglimento dellenevi, a est e chiuso a nord dalla splendida sequenza della catena Himalayana:l’Everest, i quattro Annapurna, il Machapuchare, il Makalu, il Cho Oyu tutte cimeche superano gli ottomila metri e che riusciremo solo ad intravedere nella ra-refatta nebbia mattutina, dalla terrazza panoramica del nostro albergo posi-zionato, come una grossa tondeggiante pagnotta, ai piedi delle montagne. Lacena a buffet ci consente un menu abbastanza vario. Fa piuttosto freddo e nel-la nostra camera accendiamo la stufa. Il tentativo di usare internet per control-lare la posta è rapidamente mortificato dall’esasperante lentezza e da un im-provviso black out che spegne tutto.

La mattina successiva visitiamo il tempio della dea Kalì a Dakshinkali infondo a una gola ombreggiata da alberi secolari. Il santuario chiude una lun-ga scalinata e, nel recinto riservato agli animali, ancora oggi vengono sacrifi-cati polli e capre. Il luogo è piuttosto lugubre e probabilmente non vale l’escur-sione. Bellissimo, invece, e di ampio respiro il panorama su tutta Kathmandùche ci offre la salita al tempio di Adinath, coperto di piatti di metallo offertiqui dai novelli sposi.

I villaggi di Bungamati e Khokana, pochi chilometri a sud di Patan, of-frono indimenticabili esempi di architettura orientale: templi dalle guglie do-rate, pagode, palazzi, fontane, pozzi si confondono con una variopinta popo-lazione: donne dai sahari sgargianti filano con l’arcolaio mentre agnelli, capree cani girano per le strade.

Alle sette partenza per il parco di Chitwan, distante solo 150 chilometri daKathmandù con una previsione di 5 ore di pulmino! L’ “autostrada”, come vieneambiziosamente definita, è in realtà una strada di montagna con pochi tratti male

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asfaltati e per lo più sterrata. La carreggiata è stretta e incrociamo file di corrie-re, camion e poche auto che ci costringono a rallentare e accostare per permet-tere lo scorrimento. Attorno montagne altissime coperte di banani, eucaliptus, pini,sal, un albero simile al tek con cui sono costruite le colonne intagliate, le finestree tutti i fregi che ornano gli edifici. Ogni mezzo che ci sorpassa solleva un polve-rone accecante e il nostro pulmino procede a 20 all’ora tra sobbalzi, deviazionie qualche retromarcia quando non è possibile passare in due sulla carreggiata. Cifermiamo per vedere un lunghissimo ponte sospeso che scavalca il fiume: una pas-seggiata sulla passerella traballante, qualche foto e poi di nuovo verso Chitwan.Arriviamo al parco verso l’una e ci sistemiamo al Rhino Resort con giardino e pi-scina circondati da bungalow. Le stanze sono ampie in stile coloniale, con un vec-chio bagno ridipinto e acqua calda intermittente.

Raggiungiamo i villaggi vicini utilizzando dei carri tirati da una coppiadi buoi. L’alternativa è andare a piedi, ma il caldo è aumentato e approfittia-mo dei mezzi locali!

Il villaggio è fatto di alcune case costruite in bambù e rivestite di fango ta-lora dipinto a colori vivaci, altre sono in muratura, turchesi, con parti in mattonie parti non finite. Gli animali girano ovunque tranquilli e polverosi: cani, galli, gal-line, anatre, colonie di pulcini e soprattutto capre con uno stuolo di capretti sal-tellanti attorno. Le ragazze, bambine e adolescenti, sono anche qui bellissime conocchi neri e lucidi come i capelli, e denti perfetti. Distribuiamo le cose che aveva-mo portato: vestiti, penne, quaderni, caramelle. Vivono poveramente coltivandoriso e lenticchie ma il villaggio e la gente sono in ordine, con vestiti colorati e fac-ce pulite. Al rientro costeggiamo a piedi un lungo tratto di fiume per vedere il tra-monto spegnersi oltre l’argine, raggiungiamo l’albergo e concludiamo la serata conun bicchiere di rhum per conciliare il sonno.

Al risveglio niente di meglio di una bella doccia, ma l’acqua è ancora fred-da e rimandiamo il piacere a stasera. Inizia una giornata totalmente “into thewilde”. Il nostro gruppo si distribuisce su tre canoe dal fondo piatto, scavatein un unico tronco. Ci sediamo facendo abbassare, con il nostro peso, la canoaa pelo d’acqua. Ci lasciamo portare dalla corrente mentre i rematori spingonole barche con movimenti leggeri immergendo nell’acqua una canna di bambù.Sono le 8, non c’è nessuno, ci avvolge il silenzio insieme all’aria fresca che do-mina la prima mattina. Sul fiume galleggiano piante acquatiche, le stesse spar-se per il delta del Mekong, l’acqua limpida permette di vedere il fondo. Sull’ar-gine qualche pigro coccodrillo rimanda la sua caccia; lo oltrepassiamo fotogra-fando Martin Pescatori dal manto turchino. Attorno a noi solo lo sciabordìo del-l’acqua, che in alcuni punti si fa più mossa, e la voce degli uccelli; non vienevoglia di parlare per non violare la contemplatività del luogo dove persino unasottile canoa di legno può sembrare un’intrusione!

Nel tratto di fiume vicino all’albergo, con una spiaggia organizzata conpoltrone e ombrelloni, assistiamo al bagno degli elefanti sui quali qualche ra-gazzo si arrampica per lasciarsi investire dalle docce della proboscide e pre-cipitare in acqua quando l’animale decide di accucciarsi.

E saranno gli elefanti, in pomeriggio, a portarci nella giungla per scova-re cervi, cinghiali e rinoceronti. Dall’alto della groppa, il loro passo ondeggian-te ci permette lo sguardo su una foltissima vegetazione in mezzo alla quale nonè facilissimo individuare gli animali: il nostro conducente ha un’ottima vistae ce ne segnala parecchi.

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Prima di cena, dentro una costruzione di cemento larga e bassa, con unpalcoscenico e uno sfondo disegnato con ingenue scene agresti, assistiamo auna serie di danze locali: quella del pavone, del fuoco, del raccolto: la musicaè provocata solamente dai bastoni in bambù dei ballerini che battono gli unicontro gli altri determinando ritmi di differente intensità. L’atmosfera è spo-glia e lo spettacolo ha una semplicità primitiva ma forse è proprio questa for-za “naive” ad attrarre e coinvolgere noi esigenti spettatori occidentali!

Anche quella per Lumbini sarebbe ufficialmente un’autostrada ( e infat-ti oltrepassiamo una minuscola baracca con il tetto in lamiera dove tre ragaz-zi stanno chiacchierando: uno di loro stacca un biglietto da un carnet e lo dàall’autista) ma in realtà, a parte l’essere asfaltata un po’ meglio, non è diversadalle altre non a pagamento: sui bordi bambini con la divisa della scuola, ca-pre, donne, basse case di mattoni con piccoli negozi, cani addormentati, rishò.È difficile incrociare qualche macchina, sono quasi tutti camion che traspor-tano per lo più materiale da costruzione.

Verso l’una arriviamo a Lumbini, un piccolo villaggio del Terai, a 120 chi-lometri da Kathmandù, punto di ritrovo dei buddisti che si recano in pellegri-naggio nel luogo dove nacque Gotama Buddha, la “luce dell’Asia”. Un ampio ecurato giardino accoglie un basso edificio bianco al riparo del quale sono con-servate le rovine dell’insediamento originario. Al centro di queste, nel punto esat-to della nascita di Budda, un muro è ricoperto di quelle piccole scaglie d’oro chei buddisti applicano anche alle statue della divinità in segno di devozione; sopra,un bassorilievo raffigura Maya Devi, madre di Gotama Buddha, dalla cui ascella,secondo la tradizione, è venuto alla luce “l’illuminato”.

Davanti all’edificio una colonna fatta erigere dall’imperatore Ashoka intor-no al 250 a.C. porta una scritta arcaica. Nello specchio d’acqua di una grande va-sca si riflette la chioma di due enormi alberi sacri collegati fra loro dai festoni del-le variopinte bandierine votive. Il luogo ha la serenità della religione che vi si ce-lebra e con un senso di leggerezza addosso percorriamo la passeggiata lungo unampio canale che ci riporta al pulmino. Passiamo la notte al Maya Devi Hotel mala sveglia suona inesorabilmente alle sei per la partenza verso Pokhara. Sceglia-mo il percorso più lungo, 290 chilometri, anziché quello più breve di 190, per sfrut-tare una strada più agevole. Ci vorranno otto ore di una stretta strada parzialmen-te asfaltata , di deviazioni per lavori, di incidenti e rallentamenti dovuti a ingor-ghi di camion che si incastrano senza riuscire a superarsi, di retromarce per con-sentire il passaggio dei mezzi più ingombranti . La strada è però molto panora-mica tra boschi che ricoprono alte montagne ai piedi delle quali scorre il Trisulidall’ampio letto sinuoso sul quale si affacciano spiagge di sabbia bianca. Saliamoper una strada ancora più stretta per raggiungere Bandipur, un tempo prosperocentro commerciale in posizione strategica lungo l’itinerario fra India e Tibet. Èuna cittadina pittoresca arroccata sulle colline himalayane del Nepal. La strada prin-cipale si apre tra vecchie case in mattoni e legno intagliato che accolgono un tu-rismo recente: i negozi sono botteghe piccole e buie che appendono fuori la loromerce o spacci che con qualche tavolino all’aperto sono diventati bar. C’è qual-che internet point ricavato in un minuscolo magazzino, qualche guest house ri-cavata in una delle case caratteristiche del paese. Raggiungiamo un vasto piazza-le dal quale, in una diffusa foschia, intravediamo il candore dell’Annapurna die-tro, anzi sopra le verdi montagne in prima fila; infatti se, per vedere le nostre Alpi,basta puntare gli occhi al di sopra dell’orizzonte, qui le cime più alte vanno cer-cate direttamente in cielo , frugando tra le nuvole dove da noi cercheremmo luna

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e stelle! Le vette si distinguono per il bianco più netto e per le sagome taglienti.Le vedremo meglio dopo le ultime tre ore di viaggio, dal balcone della nostra ca-mera di Pokhara con il sole che ne illumina le superfici, portandole alla luce trala nebbia del tramonto imminente.

Facciamo due passi a Pokhara abbellita da un placido lago, il Phewa, doveil verde delle montagne che vi si rispecchiano, assume la tonalità di un muschiolucido e compatto. Il nome stesso della città deriva dalla parola pokhri, cioè “lago”. Questa è la prima città turistica che incontriamo: un susseguirsi di negozi, alcu-ni molto eleganti, offrono dal cachemire alle attrezzature sportive, agli argenti, allepietre dure. Bei ristoranti, locali caratteristici anche se spesso in mezzo a marcia-piedi rotti, sassi ammucchiati, polvere. Anche qui non esiste illuminazione pubbli-ca e solo le luci dei negozi rischiarano la sera. Ceniamo vicino all’albergo in unosquallidissimo, molto autentico, locale che sarebbe presuntuoso definire ristoran-te: luci fioche, pareti celesti con l’impronta scura delle mani in prossimità dell’ac-cesso al retro, sei tavoli di legno, al muro una grande foto dell’Annapurna e un ri-tratto del Dalai Lama. I momo in compenso sono buoni come i nuddles saltati inpadella. Alle 9 siamo in albergo perché domani, davanti all’Annapurna, ci attendel’alba. Sveglia alle 5. Come avevamo previsto, anche se è ancora buio, la mattina èavvolta dalla foschia. Ormai siamo svegli e non vogliamo rinunciare al tentativo divedere il sole sorgere dietro la bianca catena dei monti. La solita strada sterrata,questa volta più ripida, ci porta a una spianata dove una terrazza e un belvederesono già affollati di gente arrivata qui da ogni parte del mondo, pronti, con la mac-china fotografica in mano, a immortalare il fatidico momento. Il buio lascia il po-sto a una pallida luce nebbiosa. A un certo punto una macchia di sole appare al-l’orizzonte, un occhio luminoso e lontano, ma è tutto quello che si riuscirà a ve-dere: niente creste innevate contro l’azzurro terso del cielo! Per fortuna il pome-riggio precedente, dal balcone della stanza 510 dell’Hotel Barahi, siamo riusciti avedere la catena, con la “coda di pesce” proprio davanti a noi! Sul belvedere si èalzato il vento; ci scaldiamo bevendo caffè in una baracca che funge da bar. Tor-niamo in albergo per la colazione; poi Givan ci porta in giro per curiosità: scopria-mo il canale che distribuisce l’acqua dell’Himalaya, la gola del fiume Seti, proprionel centro della città, che ha formato un profondissimo taglio nelle rocce e le ca-scate di Devi, chiamate così per ricordare una coppia di svizzeri precipitati nelleacque che, attorno agli anni ’30, crearono un mito per la gente del posto. Ma la vi-sita più interessante è quella al campo profughi tibetano: praticamente apolidi, vi-vono qui senza diritti e si mantengono tessendo tappeti: le donne anziane filanola lana, quelle più giovani lavorano al telaio. Una grande sala ospita l’esposizionedi tappeti spessi e soffici dai magnifici disegni, che viene voglia di acquistare in bloc-co. Nell’adiacente negozio di antiquariato e chincaglieria compriamo una facilmen-te trasportabile collana di turchesi e granati e una piastra in argento, quadrata elavorata, raffigurante il calendario buddista, che si può appendere al collo.

Approfittiamo del pomeriggio libero per passeggiare lungo il lago e dareancora un’occhiata ai negozi. Ceniamo al primo piano di un piccolo ristoran-te nuovo dove però il menu è sempre lo stesso: riso condito con brodo di len-ticchie, pollo e agnello, verdure al vapore.

Anche la mattina successiva sveglia di buon ora per il rientro a Kathman-dù. La strada è, come al solito, stretta, a curve e malamente asfaltata: sale e scen-de a picco sui bacini di diversi fiumi ed è gravata da un traffico ininterrotto di ca-mion e pulman locali. Il nostro autista ha solo ventidue anni, ma è esperto e pru-dente, tuttavia i sorpassi sono fatalmente rischiosi e incontriamo diversi mezzi

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finiti fuori strada. Piove: i villaggi, gli agglomerati di poche case, le baracche chesuperiamo, i bambini che ci guardano e salutano, le donne con i sahari colorati,gli uomini seduti sulle soglie, appaiono ancora più affranti nel grigio della mat-tinata. Nonostante, rispetto all’India, quella del Nepal sia una povertà meno tra-gica e la fame non sembri tormentare questa gente, anche qui un’inerzia fatalepesa su un popolo privo di tutto. Lungo le strade abbiamo incontrato delle fale-gnamerie dove il mobile principalmente fabbricato è il letto matrimoniale, unicoarredo indispensabile della casa. Dalle porte aperte degli alloggi più miseri, si in-travedono spazi angusti, bui e spogli: non c’è neppure la tivù per mancanza di ener-gia elettrica che il Nepal, con la sua immensa disponibilità di acqua, vende all’In-dia. Qui una stessa fontana serve diverse famiglie e anche nei grandi centri comePattan o Bandipur, la gente prende l’acqua ai pozzi. I gruppi di bambini con ladivisa della scuola danno un senso di ordine e organizzazione, ma l’istruzione nonè obbligatoria e il 75% della popolazione è analfabeta. L’unica cosa a funzionarebene sono i cellulari per cui, anche nei luoghi più sperduti e desolati, capita di ve-dere un uomo al telefono che spinge un aratro o una donna china su un pozzocon il cellulare all’orecchio.

Ritornati allo Yak and Yeti smette di piovere e dopo una doccia veloceci rimettiamo in circolazione per gli ultimi acquisti: coperte di lana di yak, giac-che a vento e pile, creme e dentifrici marca Himalaya, pantofole di grossa lanalavorata ai ferri, tè e sale rosa nel traffico della stretta strada senza marciapie-di con le macchine e le moto che ci sfiorano e i clacson a stecca.

Sveglia alle 5, check out, mattinata splendida: la stessa sequenza di spi-golose bianche montagne che ci ha accolto all’arrivo, ci congeda ora; ancora unosguardo dal finestrino per rifarci dell’alba mancata a Pokhara, un ultimo sguar-do a un paesaggio che ha incarnato da sempre il mito della lontananza e del-l’irraggiungibilità, qualcosa di superumano e irreale, di mistico e misterioso.

Cerco di non perdere questa sensazione frugando tra le pagine della miaLonely Planet, nei fogli scaricati da internet e nel materiale raccolto prima del-la partenza che ho disordinatamente ficcato nella borsa. E trovo, come ultimoregalo, fedele souvenir per sempre evocatore di questo viaggio alle radici deltempo e della storia, una poesia di Mukul Dahal, generazione ’69, insegnantea Chitwan, tradotta da Ulisse Fiolo:

Tocco di fragranza

Tutte le sfumature consapevolidella coscienza vanno in fumocome per hashisho oppio.Così scivolo nellasua veneficazione.Questo breve momento,sfiorato da quel filotagliente di fragranza,pare più significativoe più potentedel fondale sabbiosodell’intero secolo.

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EMIGRANTE

di Rosa Elisa Giangoia

A Salvatore, detto Salî, mio suocero

Quando arrivò ad Ellis Islandil mare si era appena svegliato con l’alba e Salî si voltò indietro per cercare un sorriso nel vento,perché il mare sembra ovunque uguale,ma incontrò solo gli occhi di un gabbianoche lo guardavano curiosie lo invidiò, vedendolo volar via:per lui volava solo il ricordarenello smarrimento delle novità.A Genova, al di là dell’oceano,era rimasta Cinna, il suo amore,a sperare un marito più ricco;tormentato da una mancanza sconosciutasentiva il fragore della sua assenzae credeva fosse l’eco della felicità di lei.Lui aveva lo sguardo azzurro della gioventùed il capo folto di capelli biondi,ma solo al mondo e con pochi soldi,aveva ceduto al richiamo dell’avventura.Era il 13 aprile del 1903, un lunedìluminoso di primavera, quando giunsea Ellis Island, sempre ventosa:dopo controlli ed esami, superata l’insidia delle ventinove domande,

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nel vasto e rumoroso Registry Roomarcigni controllori con mano sicura scrissero il suo nome sul manifest,per darmi l’emozione di ritrovarlo oltre cent’anni dopo, con datae nome del piroscafo: Equità.

In un immenso ordito ancora scarso di tramatrovò un mondo verde d’erba sognata,dove lo spazio ed il tempo apparivano senza confini,i venti correvano sciolti rincorrendo gli uccelli che migravano senza frontiere.Si sentiva la vita pulsare oltre l’orizzonte,in quella città ove il presente era così poderosoche il passato si perdeva continuamentenell’ansia di vivere un eterno presente.

Arrivò insieme a tanti altri, di molti paesi,che trascinavano sfasciati bagagli di pena,con abiti che mostravano il loro troppo lungo sfregarsi contro il tempo del passato:per loro l’oscurità del futuro non eramaledizione per il genere umano, perché il presente era duro quando la neve cadeva fitta nelle fredde interminabili nottie la notte gelava tra le bracciamentre le ore troppo lente sembravano rinchiuse in orologiche rifiutavano di andare incontro all’alba.Lasciavano cieli depredati senza speranza,guardando il mondo da una piccola finestra di luce:di notte i loro sogni erano pieni di sbarre,oltre le quali il futuro era nelle braccia di un dio lontano.Tutti i loro visi si corrispondevanonell’immagine comune della fatica d’esistere,anche se ciascuno stava chiuso dentro la sua paura.

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Salî era alto, bello e biondo, parlava anche francese, e i suoi occhi azzurri non lo dicevano italiano, ma sembravano far memoria d’una bellezza d’altri luoghi.Mise un lucchetto fatto sulla misura del cuoreai sentimenti che ritmavano il suo sanguee si avventurò dove l’acqua e la terra sembravano più forti, mentre nel grido del vento si disperdevano i timorie le speranze si rafforzavano nella novità,perché la giovinezza dominava la sua vitae gl’insegnava ad osare e sperare.Sotto i suoi piedi le pietre risuonavano di solitudinequando camminava lungo percorsi imprevistiche sembravano andare verso il nulla;ignorando dove lo portava la stradache si apriva davanti ai suoi occhi,girava a destra e a sinistra per raggiungere la novità del ponteche sapeva oltrepassare il tempo di ierie portare al domani lungo una verticaledi emozioni sconosciute là dove si ergeva la statua degl’incontri promettenti.La vita schiaffeggiava l’anima.Bisognava imparare una storia diversa:ben poco gli sfuggiva, perché vedevaa volte anche col pensiero. E cosìfu rapido a capire che per lavorare in portobisognava giocare al lotto, sempre, tutti i giorni metterci un po’ di soldi,perché La Libertà che illumina il mondo1

non penetrava dove il lavoro era duroe il sindacato, un’offesa al Signore.Era pericoloso muoversi nel selvaggio west urbanodell’ovest di Manhattan per il traffico dei treni:area industriale, scalo di merci,densa di fabbriche e magazzini;per i troppi incidenti la Tenth Avenuera diventata la Death Avenue,nonostante i West Side Cowboyscavalcassero ardimentosi davanti ai trenisventolando enormi bandiere rosse.

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1 È il titolo della cantata che Charles Gounod fece eseguire al teatro dell’Opéra di Parigi nel maggiodel 1876, per lanciare il progetto della statua della Libertà e raccogliere fondi, pochi giorni prima cheFrédéric-Auguste Barholdi, creatore della statua, si imbarcasse per New York, con lo stesso scopo.

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Alla domenica, di prima mattina,per non rimpiangere Genova dall’alto,in quelle terse giornate d’inizio estate,in cui anche le cose peggiori di New York,sembravano belle d’improvviso,per strade sconosciute e traverseandava a Brooklyn Heights, da dovenon c’è vista migliore, con il sole ancora bassoche accende di fiabesco il profilo di Manhattan,gli archi gotici del ponte di Brooklyn,Battery Park con i moli verdi di antico metalloper l’attracco dei traghetti, con il calmo fluiredell’East River, sullo sfondo le coste del New Jersey,a sinistra la lontananza azzurra di Staten Island.Si accontentava di possedere New York con gli occhi:i gabbiani fluttuando sulle rigide alitracciavano lenti giri verso sudsu lungomari di luce e terreo il fiumes’arrendeva inerme e impotente all’oceanoche lo ricopriva fino a stremarlo,mentre s’imprimeva nel vento la cadenza del mare.Al pomeriggio percorrendo Tin Pan Alleysi godevano le musiche dei song-pluggerche improvvisavano arrangiamentiper soddisfare qualunque cliente.Salî sapeva che era meglio non entrare nei bar sulla strada, bordelli sul retro, sale per affari loschi, dove si uccidevacoi revolver e con i coltelli:lì c’erano tipi robusti sempre prontia buttar qualcuno fuori sul marciapiede,mentre l’onda della musica che uscivadal piano si sposava con i bicchierie con le sigarette che colmavano i posaceneriin sere di litigi e pericoli per tutti, anche se i camerieri continuavano a servire la birra gelata, cantando, come se niente fosse.E’ nuova la musica che irrompe per le stradeed inonda la vita con sonorità inusualiche insegnano un nuovo modo di stare insieme,di guardarsi negli occhi, di fare l’amore,mentre si ballano il tango, il cake-walking,il charleston ed il fox-trot per stare in allegriatra uno spettacolo e l’altro a Broadway:intanto nessuno sa cosa gli porterà la sera.

Attraverso la libertà Salî apprendeva la vita,in un mondo in cui il vuoto si riempivae tutto stava cambiando, rapidamente.

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La vita d’ogni giorno, una leggenda,che riduceva sempre di più l’impossibile.La novità del momento era l’altezzadel Flatiron Building, come una prua per frangere i colpi di vento che soffiavano all’intersezione, triangolare,tra la Fifth Avenue e Broadway:scoprivano le caviglie delle signoreper gli occhi curiosi dei passantie gli affanni della police per il reato 232.

Di fronte al palazzo dove trovò una stanza(anche se era difficile chiamare casauna prospettiva anonima di cameresenza memoria di chi l’aveva abitate,con una tavola zoppa, sedie spaiate,un letto dove la testa sbatteva sul duro,stoviglie troppe volte usate),c’era un edificio con una vetratache occupava tutto un isolato;

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2 Così veniva rubricato l’”oltraggio al pudore”.

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aveva un nome di ditta francesee s’illuminava di guizzi di lucequando il vento sbatteva i vetri,era animato da molte persone in ufficicon nere macchine da scriveresu cui ticchettavano figure sconosciutedi dattilografe contegnose,mentre scrivani indaffaratisegnavano numeri su quaderni quadrettatitra alti scaffali con spessi classificatori,anche se sembrava che dentro le paretifosse rimasto ancora il grido di qualcunorinchiuso per sempre nell’archivio.Salî guardava sovente quelle stanzeper rubare frammenti di vita,ma quando vi entrò vide un cortile freddo, spoglio e anche un po’ sporco,dove la fuliggine danzava nei giorni di vento.Intanto sarebbe durato poco, come tutto lì,dove ovunque si cambiava in fretta.Certe volte, quando la luce di tramontanasmaltava di terso azzurro il cielo,stava al davanzale a fumare sigarette per godersi la prospettiva aerea sulle persone nella via animata di negozi, passanti, traffico e locali.Osservava la vecchia all’angolo della Fifth Avenuechiedere l’elemosina e proporrecome sposa ai passanti soli una bella giovane per bene con buona dote, senza dire ch’era sua figlia.

Si susseguivano labirinti meccaniciin quel caleidoscopio di persone che diventava Il crogiolo3 in cui si fondevano

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3 Era questo il titolo di una celebre commedia dello scrittore inglese d’origine ebraica Israel Zangwill,andata in scena a New York per più di due anni, nella quale l’autore voleva esaltare, attraverso unacomplessa storia d’amore, il mescolarsi sul suolo americano delle razze e delle storie personali piùdiverse, per dar vita ad una nuova forte stirpe.

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l’Oriente e l’Occidente, il Nord e il Sudla palma e il pino, il polo e l’equatorela mezzaluna e la croce nella fiamma purificatrice.Salî si sentiva fuori posto,in quel mondo senza memorie,in una normalità fatta di assenze,perché bisognava guadagnarsi l’aria e la luce,lungo le banchine dell’East River, purgatorio terrestre nell’aria gelida,zattera dei sogni sfuggenti per uomini sfruttati fino all’ultima stilla di sudoree all’ultima lacrima, presi dal gioco d’azzardo,tra illusioni nobili condannate al fallimento.Le notti d’estate, insopportabili nel caldoavvolgente tra le lenzuola scomposte,richiamavano su balconi e avvitate scale antincendio,invece il gelo dell’inverno atlantico tagliava il cuoree il vento sotto i baveri mangiava le orecchiementre il ghiaccio sottile appannava le finestre.

Bisognava internarsi in un condominio,in duri letti neri di ferro dal troppo consumato patimento,attenti agli uomini che sanno far balenarele pistole, tra corse dei cavalli e ballerine,con abiti chiassosi e grossi sigari puzzolenti.Alla stessa tavola si parlavano lingue diverse,ma era difficile intendersi anche tra cattolici,troppo austeri e silenziosi gl’irlandesi,chiusi e defilati i polacchi, ma è meglio evitare i wop e cercare rifugio a Lower East Sidein quella che tra l’affettuoso e il derisoriotutti ormai chiamavano Little Italy,tagliata dalla Mulberry Street,nell’angolo di Genova del ristorante “Balilla”,dove Giovanni, diventato John,e l’Angiolina, all’americana Angy,si arricchivano anche barattandola fine segatura chiara per parmigiano.Tra uno sguardo annoiato e l’altroparlavano di questo e di quello,di feste o di rivoluzioni, di miserie nere,di poveri appena sbarcati e rimandati indietro:tutti sembravano sapere molti segreti…Ma si sentivano leggeri cantando i trallalleroe chiamandosi con i soprannomiispirati al loro modo di stare al mondo,mentre le parole non si esaurivano mai.

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Sentì dire che due fratelli erano riusciti a volare,assaggiò una bibita scura a base di colae bevve sorsi di birra sempre troppo fredda,mentre guardava sfrecciare le Harley-Davidsonlungo le strade solitarie con occhi pieni d’invidia.Bisognava anche imparare a difendersi, da tutti,come dai ragazzi irlandesi che rovesciavanoi carretti dei venditori ambulanti italiani.Per questo imparò l’inglese e prese la patente per guidare l’automobile e fare il taxistaperché lavorare a East River o sull’Hudsonera una punizione per il viso e per le mani,quando la tramontana menava fendenti e la fatica diventava di marmo.Né si potevano rovesciare carriole di chiacchere, proteste e bestemmieper diventare a real American,quando non si era un waps.

La lotta sindacale si avvitava a spirale,alimentata da reciproca violenza,mentre i gangster lavoravanoper chi pagava sempre di più.Alla sera sembrava sempre di dover attraversare la soglia del mondoper potersi addormentare.Erano frammenti di paurae momenti di felicità incoerentiche s’affacciavano sul tempodelle sere messe in fila tutte uguali.Le notti restavano senza illusioni,quando l’obliquo lampo di uno sguardoe labbra troppo rosse e lucide,morse da un sorriso sofferto,sparivano nel vento,mentre vecchie domandefiorivano nel buio delle ore

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che insegnavano ad amare gli enigmiquando la luna accendeva le finestre.

Salî vide l’accelerarsi della storianel progettare, fabbricare, smerciare,nel pulsare delle macchine,mentre i suoi giorni precipitavanonella loro rapida fugacità,incisi nel legno del tempo,solidi, stabili, perfino un po’ ostinati.Dei tanti che gli erano intornotutti restavano sconosciuti,tanti eroi ignoti, vivi quasi solo per sentito dire:lui stava saldo sulle tracce del suo paese,mentre il presente operoso tutt’intornopreparava il futuro di grandezza.Ma bisognava saper far posto al nuovo,alle nuove esigenze, alle nuove rivoluzioni,alle nuove manipolazioni,nel cuore, nella mente e nella vita,là dove la foresta pietrificata degli edificiuccideva a poco a poco il mare,mentre il vento ancora fischiavasferzando le erbe basse della costa,anche là a Coney Island con il suoThe empire of the nickel, dovenelle domeniche d’estate arrivavano a migliaiadai ghetti di Lowe East Side e di Harlemper vedere, anche solo da lontano,un po’ di quel mare che moltiavevano appena attraversato rinchiusi nei ponti bassi delle terze classi.

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Negli andirivieni del tempo treni sferragliavano solcando pianure sempre più lontane di atlanti fantasticanti,mentre il mondo s’affrettava o si vendeva.

C’era un rincorrersi di voci:là dietro fanno il gelato migliore…da gustare nei coni di cialda, passeggiandoper rinfrescare l’estate torrido.Ormai le fotografie si fanno a colori…Con la box è facile fare soldie avere successo: entra nel ring!Rodolfo Valentino entrava nella storiaimprovvisamente, a passo di tango, per uscirne troppo presto.

Anche Salî visse l’attimo breve del panico da cometa con l’afferrare le maschere antigase l’ingoiare le pillole contro il mal da Halley.Suoni, voci, immagini insistentiimbrogliavano i pensieri:erano voci ambigue, difficili da sottomettereche persuadevano a fare, comprare, consumarecose sempre nuove, per necessità non previste.

A Chelsea sbirciando nelle brownstones,attraverso la malinconia delle pietre marroni,invidiava la gaiezza del backyarde nella novità inquietante del subwayda City Hall alla Grand Central Stationsaccheggiava senza vergogna il voltodegl’innamorati, rubando loro i sorrisiper consolare la sua solitudinecon il passo leggero delle persone felici.In primavera fissava le nuvole veloci nell’azzurro e vedeva un angelo in volo tra le brezzed’una storia appena iniziatadestinata al fuoco di Wall Strett,mentre sorgevano le nuovemontagne rocciose dei grattacielidi cui il giorno e la notte si contendevano i tetti.Nei mattini ingialliti d’autunnonascondeva le angosce sotto l’audaciacon il cuore morso come da un cane.

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Era difficile vivere in quel mondo, terreno di scontro per milionari,tra conquiste e fallimenti, dolori patiti e sofferenze inflitte,che grandi tycoons, bramosi di possesso,nascondevano dietro opere d’arte:gli elegantoni della Fifth Avenue,a cena da Rector’s e il mondo dei creativi, le mille luci degli spettacoli e dei balletti di Broadwaydove le belle donne disponibilicollezionano corbeilles di fiori, galantibiglietti d’invito a party notturnie cene raffinate inondate di champagne,biglietti di banca, gioielli e regali costosi,mentre altre ragazze in carne ed ossaindossano le novità della modaper le fotografie sulle riviste.Bisognava essere dinamici, disinvolti e disincantati, ma non ciniciin quel mondo che macinavacontinuamente il proprio passatoper afferrare il sempre più nuovo.Il volo dell’aereo appannava l’entusiasmoper il dirigibile alto sulla torre Eiffel, mentre dall’Italia arrivava il segnale più lontano via radioper l’intelligenza di Marconi, Stanford White educava al buon gustopatinato dai secoli contro la volgarità dell’arrivismo. Si perdeva la testa davanti al telegrafo e al telefono, frodato a Meucci,alla macchina per scrivere, agli ascensori, alla luce elettrica, ai fonografi, alla radio e ai motori a benzina che facevano circolare le macchine stanche del troppo caldo dell’estate,al ritmo del ragtime che dava lo slancioper andare avanti, sempre più avanti,in quella luce che sembrava escludere la morte.

Salî non condivideva gli sguardi negativi, persino d’odio, verso i nericon i palmi delle mani bianchie le piante rosa dei piedi:popoli ritmici nel canto e nella danzadi grande elasticità muscolare,nel presente emarginati, offesi.

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Ma non era ancora il tempo di spezzarei paradigmi delle odiose discriminazioni,perché pensieri di concordias’addensavano solo in poche menti.Il mondo era dei furbi, dei più scafati,di chi mangiava la foglia e restava padroneindipendente, libero, ricco,forse anche felice, almeno talvolta,di chi sapeva stringere in manole ore, i minuti e gl’istanti.

Quando si rese conto che era difficile mettere radici,trapiantare la vita e renderla radiosae che lì gli mancava tutto, perchéa chi era perenne avventizioci voleva troppo per essere felice,sentì sotto la pelle scorribande di inquietudini,migrazioni e fughe di speranzein vagabondaggi di tristezze.Nelle pieghe del tempo maturò la siccità della vita, si riaprirono le ferite della nostalgia e la congiunzione dell’antico rimembrare ruppela misura dell’imbuto dei ricordi.Fu il vento a parlargli con voci di lontano e venne il giorno della decisione che cercò il compimento di ciò che s’era interrotto,per riannodare le memorie della vitae dipanare i tempi sovrapposti.Abbandonò una città che non riusciva ad amareperché non l’amava. Partì, e gli sembrò felice solo chi in una città suagusta negli stessi luoghi il ritorno delle stagionie vede le mattine seguite da sere calme,anche se sapeva di non poter risaliread una casa dell’infanzia felice.

In Italia, nel sipario di un tempo,ritrovò tutte le vecchie cosesistemate nell’apparenza di un ordine fasullo,autoritariamente imposta dall’alto,che era facile scambiare per buone regole di vita.Ma le sue idee non trovavano approvazionee non gli restò che metterle in serbo per dopo,anche il suo dialetto, preservato negli anni

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dentro le sue vene, era invecchiato: il sugô non era più l’amido, ma il sugo della pasta!Era difficile farsi riconoscere dopo tutto quel tempo, per riprendere a parlarecon parole che usava un tempoe che ora gli altri aveva dimenticato.Solo le onde col loro rumore ombrosocantavano ancora i suoi vent’anni.L’unica cosa vera per credereche tutto potesse ancora cominciareera la faccia della Luna,confusa con la finestra illuminatadella casa di Cinna, da cui Angiolita, la sua giovane bella figlia, pronta per lui, marito ormai ricco,s’affacciava ogni tanto, interrompendoil cucito con assorta assenzaper respirare una boccata di novità.Tornando ostaggio sui suoi passi,Salî stupito camminava per le vieche non credeva più di riconoscere,mentre l’occhio si posava su vetrinepiene di cose che non sapeva di aver perso.Si sorprese infine a pensare quanta faticaci fosse voluta per arrivare nella casa che ora l’accoglieva,perché i dollari proteggevano il suo futuro:capì che tutte le strade guidano a una città di sogno che restituisce le attese.Lì l’avrebbe portato anche un altro percorsosenza sforzo alcuno, ma oratutto era diverso: la sua vita si era riannodataal filo antico della memoriadove la cronologia non esistevae il ricordare non si perdeva più,perché il passato si era chiuso nella casa del tempo presente.Capì che era partito solo per tornare,che aveva dovuto perdersi nell’ignotoper potersi davvero ritrovare,ma che ci sarebbe voluta tutta la vitaper fare un rapporto dettagliatoche attivasse quanto aveva vissutonella pienezza dell’altra parte del mondo.

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TRE POESIE

di Luigi De Rosa

APPRODO IN LIGURIA

(Dopo lunga e travagliata navigazionesono approdato al luogo di partenza)

Gli abbocchi e i guizzi crèmisinella vasca a zampillo tra i falangi,la gazzarra felice degli uccellifra i rami più alti dei pini,due gabbiani solenni che plananolungo il torrente vicino al marein un vociare di anatre, sottoil vibrante viadottodi un’autostrada sospesa in cielo…

Stavolta ci sono anch’io,qui ed ora,dopo una vita nel mondo della scuola,per continuare a cantare d’amore,per il tempo indefinito che rimane.

Certe notti di Liguria,potrebbero essere, ancora, fatatenonostante le assurdità del mondo.

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TRAMONTO NEL GOLFO DEL TIGULLIO

Una liquida lastra rossoazzurraingoia il sole, in punta a Portofino,in un dolce tramonto di gennaio.

Agavi, fichidindia, pinisi protendono da terrazze e giardiniimbevendosi di luce e di calore.

Ma se un giorno dobbiamo svanireda questo palcoscenico che è il mondo,perché, così spesso, traboccadi così acuta dolcezza di vivere,di così ardente, creativo splendore?

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LUOGHI

I luoghi del tempodello spaziodella mentedello spirito e della carnei luoghi per i quali a lungoperdutamenteho sognato vagheggiatoi luoghi della nostalgiadella conoscenzadel mistero e della poesiai luoghi dove fosse possibiletrovare ancora una bricioladi felicitài luoghi che mi sembradi meglio conosceree amaresono i luoghi nei qualinon sono mai stato.

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L’EMARGINAZIONE SOCIALE: RIFLESSIONI E CONSIDERAZIONI PER ARRIVARE CON IL CUORE AL CUORE DEL PROBLEMA

di Rita Muscardin

PREMESSAForse il titolo di questo lavoro, che non ha la presunzione di definirsi un

saggio ma piuttosto un approccio diverso e un poco sopra le righe ad un pro-blema grave e purtroppo per niente marginale, non chiarisce con immedia-tezza le intenzioni di chi scrive e può suscitare non poche perplessità. Ma lavolontà è quella di affrontare un tema così delicato attraverso una prospettivadiversa: fornite alcune indicazioni a carattere generale che introducono la que-stione e ne definiscono gli aspetti fondamentali, vorrei arrivare, come espressonel titolo, perlomeno a sfiorare il cuore del problema e credo che l’unico modopossibile sia quello di lasciare da parte termini d’effetto, rapporti e indaginidi organismi preposti e freddi dati statistici, per tentare un approccio cuore acuore, benabe, come si dice in una delle tante lingue dell’Africa. Questa parolame l’ha insegnata un padre cappuccino che è stato missionario in quella terralontana per cinquant’anni e da quelle parti si cerca sempre l’essenziale, consemplicità e senza troppi giri di parole. Siamo abituati a pompose ed eruditerelazioni sulle varie emergenze umanitarie in molte parti del mondo, matroppo spesso sono solo vuote parole che soddisfano chi le pronuncia ed unpubblico distratto che finge di ascoltare, ma che sono ben lontane dalla con-tingenza reale e certo non propongono soluzioni realizzabili per risolvere levarie situazioni di crisi. Quindi questo lavoro cercherà di affrontare il tema del-l’emarginazione sociale secondo un approccio meno accademico e nozioni-stico e più intimistico, magari cercando di immedesimarsi, di mettersi neipanni di altri ben più sfortunati, di solito questo rende bene l’idea e avvicinadi più alla comprensione. Non c’è la presunzione di trovare strategie per scon-figgere questo grave problema, ma almeno la volontà di andare oltre ai freddie sterili nozionismi e mettersi in ascolto per superare ostinati pregiudizi eluoghi comuni.

A conferma di quanto detto fino ad ora, la particolarità di questo sag-gio risulterà evidente anche dalla bibliografia, ridotta a due soli riferimenti inquanto tutto il resto è frutto di personali riflessioni e opinioni.

***In un noto vocabolario alla voce “emarginazione” si legge: “nelle scienze

sociali situazione di chi viene “messo ai margini” o in qualche modo estro-messo dal sistema socio culturale in generale, ovvero da una sua parte o sot-tosistema. Sempre secondo questo testo, di emarginazione in Italia si iniziòa parlare verso la fine degli anni Sessanta, per indicare la condizione di co-

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loro che, in misura diversa, non partecipavano dei benefici e dei vantaggidella parte centrale della società: allora il termine “emarginato” venne riferitoin particolare agli studenti e agli operai. Il concetto si allargò poi dalla sferapolitica (carenza o assenza di potere) a quella sociale, indicando la condi-zione di coloro che, per qualche aspetto del loro comportamento, si discosta-vano dalla normalità identificata dal sistema sociale, i cosiddetti “diversi”dove per diverso si intendeva sempre qualcosa di negativo che provocavaconseguentemente l’emarginazione. L’emarginazione riguarda molte catego-rie di “diversi”, ci sono diversità di tipo fisico (il minorato fisico o psichico),razziale (il nero, l’ebreo, l’emigrante), sessuale (l’omosessuale ma spessoanche la donna), generazionale (l’anziano ma a volte anche il bambino), cul-turale (la persona non letterata, lo straniero), professionale (il lavoratore im-piegato in mansioni umili o disprezzate). Le cause che generano le diversitàpossono essere numerosissime e l’effetto di emarginazione che provocanopuò essere più o meno intenso.

Secondo una definizione piuttosto recente, le persone vengono conside-rate socialmente emarginate se “viene loro impedita la piena partecipazionealla vita economica, sociale e civile e/o quando il loro accesso al reddito o adaltre risorse (personali, familiari o culturali) è così inadeguato da impedireloro di condurre uno standard di vita considerato come accettabile dalla so-cietà in cui vivono” (Gallie e Paugam, 2002). L’emarginazione sociale può es-sere così definita come una combinazione di mancanza di risorse economiche,isolamento sociale e accesso limitato ai diritti sociali e civili; si tratta di unconcetto relativo e specifico di ogni particolare società e indica una progres-siva accumulazione nel tempo di fattori sociali ed economici. I fattori di ri-schio che possono contribuire a creare situazioni di emarginazione socialesono i problemi relativi al lavoro, agli standard educativi e di vita, alla salute,alla nazionalità, all’abuso di droghe, alla differenza di genere ed alla violenza.Sono quindi molteplici gli elementi che possono innescare quelle dinamicheche generano fenomeni più o meno consistenti di emarginazione sociale: pro-viamo a considerarli brevemente.

Senza dubbio il lavoro, il fatto che un individuo abbia un’occupazioneè già un elemento fortemente discriminante: il lavoro è condizione essenzialeper garantire la dignità alla persona e il mantenimento di un’esistenza perlo-meno autonoma. L’impossibilità di trovarlo o la perdita di un’occupazione sta-bile spesso provocano reazioni drammatiche negli individui, il numeroimpressionante di suicidi rilevato in questo periodo di grave crisi è un segnaleinconfutabile di quanto il fattore lavoro sia essenziale nell’assicurare condi-zioni di vita dignitose, una conditio sine qua non per non finire inesorabil-mente ai margini di una società che a volte sembra un meccanismo spietato,un ingranaggio nel quale si rischia di rimanere intrappolati. E poi naturalmentec’è la tipologia del lavoro e il riscontro economico: ci sono impieghi umili e cer-tamente non gratificanti oltre che poco retribuiti e i lavori di prestigio, quelliche offrono una posizione molto importante nella gerarchia professionale as-sieme a compensi elevati. Quindi senza dubbio il lavoro in un certo senso deveessere considerato come un potenziale fattore di rischio nel provocare feno-meni di emarginazione sociale anche di grosse proporzioni.

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Gli standard educativi e di vita ugualmente rappresentano elementi sen-sibili importanti nell’innescare dinamiche di emarginazione sociale: l’educa-zione di un individuo e il suo grado di istruzione rappresentano da sempre ea maggior ragione nella società attuale, in cui senza dubbio vi è un livello assaipiù elevato di persone con una formazione scolastica di tipo superiore-uni-versitario, un fattore altamente discriminante, soprattutto in una società com-petitiva come la nostra. Ne sanno qualcosa tutti quei genitori che si affannanonel garantire ai propri figli un’istruzione qualitativamente superiore iscriven-doli negli istituti più prestigiosi e poi nelle università che sfornano eccellentifuturi manager e professionisti di alto livello. Che poi le potenziali eminenzegrigie lascino molto a desiderare o non raggiungano gli standard prefissati dagenitori forse eccessivamente ambiziosi ed esigenti, questo è tutto un altrodiscorso che certo non verrà approfondito in questa sede. Comunque è inne-gabile che l’educazione possieda un valore intrinseco insostituibile e sia partefondamentale nella formazione di una persona e nello sviluppo di tutte le suepotenzialità. Purtroppo però pare ci sia sempre un rovescio per ogni medaglia,perché se l’istruzione è un diritto intoccabile per ogni individuo, o almenocosì dovrebbe essere, è vero anche che per certi aspetti può diventare un ele-mento altamente discriminatorio fra chi è stato educato e magari in un con-testo d’élite e chi non ne ha avuto la possibilità o comunque ha potutousufruirne in misura ridotta e qualitativamente inferiore.

Gli standard di vita sono il risultato di molteplici situazioni o congiun-ture che possono essere favorevoli o meno ad un’adeguata affermazione del-l’individuo e, nel caso questi standard non siano così elevati, ecco che siinnesca un altro meccanismo che alimenta il fenomeno dell’emarginazione so-ciale. Disponibilità di ricchezza determina possibilità di accesso a tutta unaserie di servizi per così dire esclusivi, dall’istruzione appunto, alla tipologia dilavoro, ai luoghi frequentati, alle conoscenze, ai viaggi che sono anche arric-chimento culturale.

La salute è un altro elemento fondamentale, uno spartiacque fra l’ac-cettazione dell’individuo nella società ed il suo rifiuto o, comunque, la suacollocazione ai margini in quanto “diverso” nei molteplici significati che sipossono attribuire a questo termine. Essere sani sembra costituire un dovere,una condizione indispensabile per venire accolti nella società di appartenenzae questa non è certo una novità di oggi, è qualcosa che si può dire intrinsecoalla natura umana: basti pensare alle antiche civiltà del passato, a Sparta ibimbi nati malati o con problemi che avrebbero potuto comprometterne lo svi-luppo e la crescita, venivano gettati giù dalla rupe. Si trattava insomma di unaspecie di selezione naturale di darwiniana memoria, con tutti gli orrori che laparola “selezione” può suscitare alla nostra memoria. Oggi forse la realtà èmeno cruenta o drastica, ma è innegabile che salute/malattia sia spesso unpunto di arrivo o di partenza per determinare differenti storie individuali incui si registrano fenomeni di emarginazione sociale dovuti proprio alla pre-senza di più o meno gravi deficit fisici e/o psichici. La persona malata (e credoche non dimenticare di considerare il malato anzitutto una persona sia già unpasso fondamentale per non scivolare a priori verso una discriminazioneanche solo teorica) si trova in una condizione di inferiorità perché il suo stato

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normale di benessere risulta alterato, può non essere più in grado di svolgerela sua attività e condurre la vita in maniera autonoma e indipendente. Natu-ralmente il rischio che la mancanza di salute e quindi la malattia diventi fat-tore scatenante di emarginazione è direttamente proporzionato alla gravità:più il male che affligge un individuo penalizza e limita lo svolgimento della suaquotidianità, maggiore è il rischio che le mutate condizioni di vita della per-sona affetta da una patologia diventino fattori scatenanti di tristi e dolorosiepisodi di emarginazione. In pratica troppe volte l’individuo malato rappre-senta un fardello, qualcosa di scomodo e pesante di cui liberarsi non appenapossibile e così scatta il meccanismo terribile dell’emarginazione: non servepiù a nessuno, non ha più valore secondo la squallida logica delle relazioniumane fondate sull’interesse e sul profitto, diventa un ostacolo e spesso ge-nera un senso di fastidio in chi deve convivere con la sua mutata condizionee perciò viene messo da parte come un abito usato e passato di moda, comeun oggetto inutile. La malattia fisica purtroppo fa precipitare l’individuo inuna situazione di sofferenza, di disperazione e nella consapevolezza di es-sere lasciato solo ad affrontare qualcosa di più grande. Ma c’è un altro tipo dimalattia che forse provoca quasi in maniera ineluttabile fenomeni di emargi-nazione sociale ed è il disagio psicologico: i pazienti psichiatrici che vivonospesso in strutture assistenziali conoscono forse la più terribile manifesta-zione dell’emarginazione, da parte delle famiglie che molte volte proprio nonli accettano e li abbandonano al loro triste destino e, naturalmente, da partedella società che li guarda sempre con sospetto, diffidenza e con un senso difastidio. E’ l’avversione, più o meno forte, per il diverso, per chi non potrà maisalire su quel treno in corsa che è la vita, dove sembra esserci posto solo peri forti, i sani, i furbi, tutti gli altri restano a terra, è selezione, un termine ter-ribile che ritorna troppo spesso.

Naturalmente diverso per eccellenza è l’anziano, persona che si avviaal tramonto della propria esistenza e, nel migliore dei casi, magari si trova incondizioni fisiche ancora discrete che gli consentono buoni margini di auto-nomia e quindi di relazioni sociali. Ma nel caso in cui l’anziano sia affetto dapatologie invalidanti che limitano drasticamente le sue normali funzioni, eccoche diventa un soggetto estremamente debole e quindi fatalmente a rischio didiventare vittima di emarginazione sociale. La sua storia individuale, la suaesperienza, tutto ciò che ha costruito nel corso della sua vita, perdono im-provvisamente valore, viene a crollare il suo mondo e spesso vengono anchea mancare gli affetti più cari e così l’anziano si trova in solitudine e ai marginidi un mondo che tende a rifiutarlo e isolarlo in quanto inutile e scomodo. Bastipensare a tristi episodi di maltrattamento subiti da pazienti anziani ospitatiin strutture sanitarie di lungodegenza che non di rado purtroppo la cronacaci racconta: uomini e donne indifesi costretti a sopportare ogni genere di umi-liazione e atti di violenza inaudita nelle mani di persone che dovrebbero ac-cudirli e proteggerli e invece si trasformano in spietati aguzzini che siaccaniscono su queste povere vittime.

Certo queste sono situazioni estreme e drammatiche che non riguar-dano tutte le persone malate o anziane che spesso trovano il conforto e l’ap-poggio della famiglia, degli amici e di tanti uomini e donne di buona volontà

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disposti a sacrificare il loro tempo per portare un sorriso e una parola di spe-ranza e comprensione a chi soffre. Ma purtroppo l’abbandono e la solitudinea cui sono condannate molte persone malate e anziane è un fenomeno inne-gabile ed è una delle manifestazioni più tristi del fenomeno dell’emargina-zione sociale. Si potrebbe paragonare per assurdo, ma credo sia un’immaginemolto efficace della situazione, ad un rigetto, un organismo vivente che nonriconosce più una sua parte, un suo organo indispensabile al corretto funzio-namento dell’insieme: così appare la società quando nelle sue complesse di-namiche sembra non riconoscere più e respingere individui che hannocontribuito a realizzare il suo tessuto e ne fanno indissolubilmente parte. Etutto questo non può essere semplicemente oggetto di sterili studi, freddi datistatistici che nemmeno lontanamente arrivano a sfiorare il cuore del problema,già, perché come affermavo all’inizio di questo saggio senza pretese e un pocoal di sopra delle righe, è solo con il cuore, con una presa di coscienza obiet-tiva e molto coraggio che ci si può veramente accostare e affrontare il feno-meno dell’emarginazione sociale con l’attenzione e la dedizione che richiede.Occorre porsi sullo stesso piano della persona emarginata, immedesimarsi,mettersi al suo posto per tentare di comprendere realmente e solo in questomodo cercare soluzioni o almeno tentativi per arginare questo doloroso e ver-gognoso fenomeno che è un male cattivo che aggredisce la società e la dignitàdelle persone.

Ci sono molti altri elementi che provocano emarginazione, ma alla basedi tutto credo ci sia la diversità: il malato è un diverso, il povero è un diverso,l’anziano è un diverso, l’extra comunitario è un diverso. Che sia la malattia, lamancanza di mezzi, la vecchiaia nella quale spesso confluiscono entrambe lesituazioni precedenti, certo sono tutte condizioni di diversità rispetto a quelloche si considera normalità. E’ la malattia che ci rende differenti da chi godebuona salute, è la povertà, la non disponibilità di denaro che apre un divarioprofondo con chi possiede beni e ricchezza in quantità, è la vecchiaia chesegna uno spartiacque con chi dalla sua ha il vigore, l’energia, le risorse fisi-che e talvolta anche mentali. Sono infine il colore della pelle, la zona di pro-venienza, i costumi, il credo religioso, che fanno la differenza fra noi echiunque non abbia lo stesso colore, la medesima appartenenza geografica, lestesse tradizioni e convinzioni religiose. Insomma credo sia evidente che ilconcetto di “diversità” sia il più forte elemento scatenante di situazioni più omeno gravi, a seconda del grado di tale diversità, di emarginazione sociale: infondo il malato, il disabile, l’anziano, lo straniero, il povero sono prima ditutto dei diversi ed è proprio tale diversità a provocare l’emarginazione.

Tra i vari aspetti dell’emarginazione non possiamo dimenticare che inmolte culture la donna è ancora considerata inferiore, diversa dall’uomo equesto comporta automaticamente emarginazione: nel mondo orientale ladonna non gode di molti diritti, non può istruirsi se non a livello elementare,non può votare, non ha voce in capitolo nell’educazione dei figli, non può la-vorare e soffre di tante altre forme di restrizione. Le è negata ogni forma diemancipazione e, di conseguenza, risulta emarginata socialmente, costretta avivere ai margini in una condizione di umiliante inferiorità e questo perchéconsiderata diversa, ecco che torniamo alle considerazioni di poco sopra. Na-

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turalmente la diversità, oltre che emarginazione, determina anche terribili epi-sodi di violenza perpetrati ai danni di individui che si allontanano dai canonidi certa normalità e le vittime sono sempre le stesse: bambini, anziani, malati,donne, tutte persone deboli, indifese e spesso abbandonate proprio perchéconsiderate diverse.

Sembra un circolo vizioso, ma la realtà dei fatti, le numerose vicende dellacronaca supportano questa convinzione. Mi vengono alla mente gli ultimi episodidi violenza ai danni di donne da parte di mariti, compagni, ex…, magari per unsemplice rifiuto che fa scattare in certi soggetti istinti di violenza e di sopraffa-zione e questo perché le vittime sono ritenute deboli, inferiori, diverse e quindinon degne di rispetto e considerazione. Diventano semplici oggetti dei quali cisi può sbarazzare tranquillamente senza nemmeno scomodare la propria co-scienza, è questa la prospettiva di chi si crede superiore e con la forza imponela sua volontà prevaricatrice. E questa arroganza e prepotenza cresce in modoesponenziale quando l’individuo non è solo di fronte alla sua vittima, ma si ri-trova nel “branco” dove crolla ogni inibizione e si sfogano i peggiori istinti.L’abuso di alcool e l’utilizzo di sostanze stupefacenti sono infine ulteriori fat-tori scatenanti di reazioni violente e incontrollabili.

Come si è potuto constatare in quanto esposto sino ad ora, numerosi edifferenti sono gli elementi che possono innescare il processo dell’emargina-zione sociale, ma forse ce n’è uno che più di tutti gli altri è motivo determinantee direi addirittura inesorabile per creare situazioni di emarginazione: la povertà.Nella povertà si riflettono e convivono tutti quei fattori che abbiamo visto essereresponsabili dei fenomeni di emarginazione sociale: la mancanza della salute equindi la malattia, spesso ci si ammala quando si è poveri e si è costretti a pri-vazioni estreme, cibo insufficiente, carenze igienico-sanitarie e quando la per-sona povera si ammala difficilmente riesce a curarsi perché non possiede i mezziper farlo. La povertà è anche conseguenza dell’impossibilità di entrare nelmondo del lavoro e garantirsi quindi condizioni di vita dignitosa che consentanola sopravvivenza e possibilità di crescita. Povertà implica anche il non accessoall’istruzione, l’educazione è un diritto fondamentale, ma spesso i poveri non go-dono di questa opportunità soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove moltevolte i bambini sono costretti addirittura a lavorare ore ed ore come veri schiaviricompensati con un poco di cibo o qualche moneta, sono merce di scambio, in-nocenti che barattano la propria esistenza con poco più di nulla. Per questi in-felici il mondo della scuola non aprirà mai le sue porte e quindi saranno privatidella possibilità di costruirsi un futuro, di crescere e risollevarsi da condizionidi vita disumane. Insomma non c’è prospettiva per chi nasce povero o lo diventae in questo senso senza dubbio la povertà è causa scatenante di processi diemarginazione, è un terreno fertile sul quale crescono facilmente divisioni sem-pre più profonde, isolamento e fratture insanabili, una serie di congiunture sfa-vorevoli che condanna la persona a vivere sempre più ai margini della società eanche di se stessa. Si tratta di una sorta di alienazione dal proprio contesto, unaperdita di identità per cui il soggetto perde ogni contatto con quel mondo a cuiappartiene ma che non lo riconosce più e lo rifiuta.

Sono drammi che si consumano spesso nell’indifferenza degli altri enella solitudine di chi è costretto a viverli e, a volte, a precipitare in una con-

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dizione di diversità, di inferiorità e quindi di emarginazione ci va molto poco.Quante volte, ad esempio, capita di incontrare, nelle fredde giornate d’invernosotto i portici di qualche via centrale delle grandi città, poveri infelici addor-mentati sotto un mucchio di stracci e di cartoni per cercare un impossibile ri-paro. E se qualche volta alla televisione trasmettono un servizio sul mondo deisenza tetto ecco che magari si scoprono delle storie incredibili di uomini edonne che conducevano una vita normale con una famiglia, un lavoro, degliamici e poi, improvvisamente, perdono l’occupazione, la famiglia e gli amicivoltano loro le spalle e così, quasi senza accorgersene, si trovano ai margini ecostretti a vivere per le strade o dentro macchine trasformate in abitazioni difortuna, in compagnia del loro dolore e di tanta, troppa solitudine. Allora ca-pisci che finire emarginati non è poi un fatto così raro e straordinario e a volteè veramente difficile comprenderne il perché.

Visto sotto questa prospettiva il fenomeno dell’emarginazione socialecredo possa considerarsi alla pari di una patologia di carattere endemico, con-tagiosa e di rapida trasmissione. Ma non è un virus sconosciuto che si devecombattere in questo caso, anzi, la causa è ben evidente: è l’indifferenza neiconfronti del nostro prossimo, l’incapacità o la non volontà di fermarsi edascoltare, accogliere, comprendere ed aiutare chi si trova in condizioni di sof-ferenza, di bisogno, di difficoltà. Siamo noi a produrre le cause e gli effetti, noicon i nostri comportamenti frutto di un individualismo e di un egoismo esa-sperati inneschiamo le dinamiche che portano all’emarginazione dei soggettipiù svantaggiati, insomma siamo catalizzatori di reazioni negative e pericoloseche si ripercuotono sugli altri e che un giorno potrebbero rivoltarsi anche con-tro noi stessi con un devastante effetto boomerang. Alimentiamo i fattori cheportano all’emarginazione di categorie particolari di individui, ma, prima opoi, rischiamo di finire anche noi ai margini di un sistema infernale che ab-biamo contribuito a creare.

Le cure? I rimedi? Difficile fornire una risposta adeguata e soprattuttoefficace che possa risolvere alla radice il problema. Senza ipocrisia né falsobuonismo, credo si possa dire che bisogna partire dal cuore: è proprio lì, fraun respiro ed un battito, che riusciamo a trovare una soluzione che restitui-sca a tutti la dignità di essere umano e il rispetto che ogni creatura merita.Si potrebbe fare appello alla carità cristiana, alla misericordia e all’amoreverso il prossimo che Cristo indicò come il comandamento più grande as-sieme a quello di amare Dio con tutta l’anima. Potremmo citare l’esempio disanti, uomini e donne d’ogni tempo, che hanno accolto e vissuto nella pie-nezza questo invito: San Francesco d’Assisi che scelse la Povertà come mi-stica sposa e visse donandosi a Dio ogni giorno attraverso l’amore per ifratelli, i più soli e sofferenti, lo stesso madre Teresa di Calcutta che si fecematita nelle mani del Padre per realizzare il suo progetto d’amore e acco-gliere nelle sue case e soprattutto nel suo cuore gli ultimi degli ultimi, quellirifiutati da tutti. E si potrebbe proseguire con un lungo elenco di anime stra-ordinarie che certo non hanno avuto bisogno di sterili dati statistici per ac-corgersi del dolore e dei bisogni altrui e hanno saputo porvi rimedio o,perlomeno, hanno fatto tutto il possibile senza mai arrendersi fino al loroultimo respiro quaggiù.

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Ma questo è solo un semplice saggio e forse è troppo definirlo tale, piut-tosto sono considerazioni nate da una presa di coscienza della realtà che ci cir-conda e da un poco di esperienza personale che impone alcune riflessioni.Ognuno si senta libero di trovare un senso a tutto questo dove meglio crede,nel proprio sentire religioso, in qualche frammento di coscienza, nelle pro-prie convinzioni morali, ma riconosciamo il problema per quello che è in mododa poterlo affrontare il più obiettivamente possibile.

L’emarginazione è un meccanismo complesso che nasce innanzituttodentro di noi, siamo noi a stabilire le regole secondo le quali una persona, unaltro essere umano come noi, sarebbe diverso e quindi debole, inferiore, da re-legare ai margini del nostro intricato tessuto sociale. La povertà, la malattia,la vecchiaia, la diversità di razza, professione religiosa, cultura, sesso, sono so-lamente alibi dietro ai quali nascondiamo il nostro individualismo, la nostraincapacità di volgere lo sguardo e il cuore al prossimo che incontriamo lungoil nostro distratto cammino. Noi abbiamo dato vita a tutti quegli elementi cheinnescano processi di emarginazione e solo noi abbiamo il potere di spezzarele catene del pregiudizio e dell’indifferenza: non ci potrà più essere emargina-zione e nessuno sarà più abbandonato e rifiutato se nel povero, nell’anziano,nel malato, vedremo riflessi anche noi stessi, se proveremo anche solo per unistante a metterci al loro posto. Allora ci guarderemo bene dall’etichettareun’altra persona come diversa e quindi inferiore, solo così, senza inutili studidi settore e sterili dati statistici, troveremo la soluzione attingendo nel pro-fondo delle nostre anime e nessuna cura sarà più efficace dell’amore cheognuno riuscirà a riversare verso il suo prossimo.

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UNA POESIA

di Gian Citton

LA PROVINCIA DEI CANI

Questa è stagione del passeggio dei cani.Dalle mie parti verso sera bastapassare l’asfalto di due-tre isolatie il greto di una rosta in una bava d’acqua,che da un grumolo di sterpi s’apre il pratopopolato di cani. È appena verde l’erba,è un verde stento che si aggriccia fra gelatee timidi tepori – è primavera, ma non qui ancora.

Questa al tramonto è la veglia dei cani.S’anima il prato di latrati vaganti(piccole e medie taglie), di proprietari anzianicol bastardino inquieto che gli sgusciatra le gambe, che cerca anfratti ad ustao le terga della femmina in afrore,salta, abballotta e guaiola ai rabbuffi.Chi lascia al fischio libera la bestia,e l’incita alla corsa, vigila a buffe zuffeo, all’abbaio, d’intesa lancia a riporto stecchi.

Questa è l’ora canonica dei cani.In questa luce bassa dei primi giorni legali.Per viottoli che cintano i poderigiovani digestenti vanno di mala vogliaguinzaglio corto, braccio teso a strattoni.D’abitudine a quest’ora la zitella scontrosastrappa severa da soste protrattee trae impettita il suo botolo grasso.Vanno in parata ostentando la bestiapadroni fieri d’un veltro di vaglia:bordano a destra frenandolo al passo.

All’imbrunire questa è la festa dei cani:cani serali non di cacciatori, canidi retrovia, razze pelose o rase, razze da marciapiede.Ci si incrocia d’abitudine ai soliti percorsi,si sosta un poco, si parla un pocodei propri cani (età, curiosità, prodezze)

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come fanno le mamme dei picciniper la strada, al mercato, con le carrozzine; perché a quest’ora è lo sfoggio dei caninell’unica provincia di poca mite luce.Ed è la meglio periferica stagione di sterrate,sui prati oltre il greto bavoso della rosta,su l’erbe stente prima del tarassaco in fiore,per campi incolti prima delle semineo che verdeggi il grano e il contadinoarmato spii lo strazio dei virgulti;prima del rombo dei trattori e il fumoin pula delle falciatrici; primadi piogge o d’afe senza vento, e primache col gelo sciami l’autunno in buio ed in silenzio:nemico qui degli uomini e dei cani.

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DUE POESIE

di Rosanna Pozzi

NEI TUOI OCCHI

Ti ride negli occhila certezza di un Cieloche è già il tuo.

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Qui, tra le colline senesi, albeggia:come un prodigio ad uno ad unosi svelano i colli, dorsi millenaridi giganti addormentati.

Gli alberi si protendonoa ricevere la luce;anch’io, la Tua,per rifletterti.

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UNA POESIA

di Jules Supervielle

GRANDS YEUX DANS CE VISAGE

Grands yeux dans ce visage,Qui vous a placés là?De quel vaisseau sans mâtsEtes-vous l’équipage?

Depuis quel abordageAttendez-vous ainsiOuverts toute la nuit?

Feux noirs d’un bastingageEtonnés mais soumisA la loi des orages.

Prisonniers des mirages,Quand sonnera minuitBaissez un peu les cilsPour reprendre courage.

(da Le Forçat innocent, 1930)

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GRANDI OCCHI IN QUESTO VISO

Grandi occhi in questo visochi vi ha collocate là?Di quale vascello disalberatovoi siete l’equipaggio?

Dopo quale abbordaggioattendete voi cosìaperti tutta la notte?

Fuochi neri d’un bastingaggiostupiti ma pur sottomessialla legge delle burrasche.

Prigionieri d’un miraggioquando suonerà mezzanotteabbassate un poco le cigliaper riprendere coraggio.

(Traduzione di Guido Zavanone)

Iules Supervielle (1884 – 1960), nato a Montevideo (Uruguay), mantenne lungo tuttoil suo itinerario letterario un legame profondo con le proprie origini sudamericane. Nella suacospicua opera in versi (Poemi, 1919; Gli scali, 1922; Gravitazioni, 1925; Il forzato innocente,1930; La favola del mondo, 1938; Memoria immemore, 1949; Il corpo tragico, 1959) si man-tenne sempre a una certa distanza dalle contemporanee tensioni formali dell’avanguardia eanche i suoi contatti con il surrealismo non gli impedirono di conservare una sostanzialeautonomia, accettando il sogno come dato pienamente utilizzabile, ma piegandolo alla vo-lontà della propria presenza cosciente. Supervielle così si è sempre rifiutato – sono parolesue – “di scrivere poesia per specialisti del mistero”, preferendo che nella poesia “il misterosia il profumo, la ricompensa”. Nei suoi testi migliori effettuò un’insolita sintesi tra la sen-sibilità latinoamericana e la cultura francese per scoprirvi visioni, sogni e sensazioni che po-polano il vuoto apparente d’una assenza universale di cui la figura più dolorosa è la Mortee che comunicano, al di là della Morte e del Tempo, con una Realtà talora chiamata Dio.

Fu anche autore di romanzi d’intensa atmosfera lirica (L’uomo della pampa, 1923; Illadro di ragazzi, 1926; Il sopravvivente, 1928; L’Arca di Noé, 1938), di racconti, di commedie(La bella nel bosco, 1932; Come vi pare, adattamento da Shakespeare, 1935; Bolivar, 1936; Ro-binson e Schéhérazade, 1949).

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UN NOIR FRA CRONACA E STORIAdi Giuliana Rovetta Il complicato e vertiginoso romanzo diJérôme Ferrari, edito da Actes Sud, cheha vinto un po’ a sorpresa l’ambito pre-mio Goncourt 2012 viene ora pubblica-to in Italia mantenendo nella traduzio-ne il solenne titolo Il sermone sulla ca-duta di Roma. Si tratta di un riferimen-to storico alla frase rivolta da sant’Ago-stino, vescovo di Ippona, ai fedeli incre-duli per la caduta dell’impero sotto i col-pi dei visigoti: «Il mondo è come unuomo: nasce, cresce, muore». E nell’in-treccio di diverse storie, proprio di diver-si mondi si tratta: intanto quello perso-nale di due studenti in filosofia in fugadall’ambiente intellettuale parigino perrecuperare, come dichiara il protagoni-sta Matthieu, le sue origini còrse, tornan-do a vivere in uno sperduto villaggio del-l’isola. In gioco sono però anche i mon-di delle generazioni passate, ad esempioquello che si sviluppa, con ricordi durie tragici, intorno a Marcel, il nonno diMatthieu, nato fra postumi e macerie del-la Grande Guerra, poi richiamato alloscoppio della seconda guerra mondiale.Un filo lega il progetto di vita degli aspi-ranti filosofi, ansiosi di provare a ricrea-re leibnizianamente “il migliore deimondi possibili” organizzando un bistrotin cui si gioca a carte e si beve a volon-tà, con il vissuto del vecchio Marcel che,lasciando l’isola in cerca di un nuovoorizzonte e spinto dall’entusiastica ade-sione all’esperienza coloniale, va incau-tamente incontro al naufragio di tutte lesue speranze. La traiettoria che beffar-damente attraversa gli anni e i ricordi diquesta famiglia nel suo tenace riferimen-to alle proprie radici locali riconducesempre all’evolversi dei mondi che cia-scuno progetta, crea e nutre come se que-sta rete di aspirazioni e relazioni pazien-temente costruita avesse vocazione dieternità mentre tutto è destinato alla con-sumazione, alla distruzione e infine al-

l’oblio per lasciare il posto a nuovi ten-tativi altrettanto visionari. In questapotente allegoria, a cui l’autore, docen-te di filosofia presso l’università di AbuDhabi, presta l’energia e la grazia di unascrittura complessa, incisiva e attenta-mente calibrata, i personaggi procedonoverso una fine irrevocabile -la mortalitàè propria di tutte le cose del mondo- congli strumenti e le riserve fornite a ciascu-no dal proprio temperamento: Marcelnon avendo metabolizzato la realtà sto-rica del crollo, nella rabbia e nel sangue,dell’impero coloniale francese è tornatoalla sua terra sotto il peso di un fallimen-to personale che l’ha incattivito. Quanto ai due giovani, se Matthieu mar-cia speditamente verso l’abisso, insensi-bile ad ogni avvertimento, l’amico Libe-ro che divide con lui una quotidianità direlazioni superficiali e precarie, percor-re la stessa strada, ma «dando il suo do-loroso, totale, disperato assenso alla stu-pidità del mondo». In realtà ciò che staaccadendo è che l’attività commercialea cui i due amici hanno fideisticamentelegato il loro riscatto esistenziale è de-stinata a diventare ostaggio della mala-vita, in una terra dove gli affari legali nonsono la norma: corruzione e violenza ten-gono qui il posto dell’assalto dei barba-ri contro la civiltà occidentale e il risvol-to noir del romanzo è una scelta autoria-le che permette di gettare uno sguardodisincantato e indagatore su una mate-ria in bilico fra cronaca e storia. L’universo ben circoscritto di cui Ferra-ri padroneggia ogni componente è em-blematico di una realtà senza luogo e sen-za tempo, anche se i paesaggi ricreanoevidentemente l’atmosfera poetica eselvaggia della Corsica. Nello scenario pa-radisiaco di spiagge e di alture che sem-bra fatto apposta per suscitare interro-gativi metafisici, i personaggi, anche inruoli marginali, vivono una dimensionetragica che non esclude a tratti intona-zioni grottesche. Il narratore indaga leloro individualità e, attraverso l’uso di un

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PROSPEZIONILetture di Rosa Elisa Giangoia e Giuliana Rovetta

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duttile discorso indiretto, lascia a ciascu-no la possibilità di esprimersi atteggian-dosi come se volesse orchestrare un can-to polifonico: «La vita è una coreografiain cui a ciascuno è richiesto di stare alproprio posto».

Jérôme Ferrari, Il sermone sulla cadutadi Roma, edizioni e/o, Roma, 2013, €17,00, traduzione di Alberto Bracci Te-stasecca.

MISIA, CONTROVERSA REGINADI UNA STAGIONE MAGICAdi Giuliana RovettaMusa ispiratrice del talento altrui, dota-ta di geniale intuito e sempre pronta auna capricciosa dedizione agli artisti pre-scelti, Misia Godebska, diventata MisiaSert per via del terzo matrimonio, è sta-ta una delle donne più ritratte del suo se-colo, se non di tutti i tempi. Ai dipinti diToulouse-Lautrec, Félix Vallotton, Édo-uard Vuillard, Pierre Bonnard e Renoirche la vedono protagonista di tele giu-stamente famose, vanno aggiunti i per-sonaggi letterari che hanno preso a pre-stito i suoi tratti e i suoi modi, tra artedella conversazione e non solo frivolamondanità, quali la Madame Verdurin ela principessa Yourbeletieff della Ricer-ca proustiana o la principessa de Bormestratteggiata da Cocteau in Thomas l’im-posteur. D’altra parte anche Mirbeau, Gidee Colette si lasceranno ispirare dal suofascino magnetico, mentre il musicistaSatie resterà per lunghi anni suo fedelecorteggiatore. Un ulteriore, ultimo ritrat-to sarà quello che farà di se stessa, met-tendo sulla pagina i momenti salienti del-la sua esistenza romanzesca e cosmopo-lita: compendio di una vita filtrata attra-verso il genio di artisti attivi nella stagio-ne d’oro delle avanguardie di fine Otto-cento e primo Novecento, di musicisticome Fauré e Ravel (che a lei dedicheràIl Cigno), di danzatori inimitabili comeNijinski e soprattutto l’amato Diaghilev,di poeti eccelsi come Verlaine e il devo-tissimo Mallarmé. Questo testo, pubblicato da Gallimard nel1952, due anni dopo la morte dell’autri-

ce, ora ripreso da Adelphi, è uno scrignodi notazioni che ricostruiscono da unpunto d’osservazione interno al milieuculturale il clima di un’epoca e le aspi-razioni di una generazione artistica nel-la sua grandezza e nella sua meschini-tà. Insieme racconta anche la parabola diuna donna che dopo aver incarnatol’energia insolente della giovinezza si pie-ga (ma malvolentieri: «La riflessionenon è strumento che io sappia maneggia-re bene: mi si rivolta contro») alle offe-se dell’età e della malattia. Impedita dauna vista sempre più imperfetta, non piùin grado di suonare l’amato pianoforte,la Misia degli ultimi anni soffrirà, lei cosìabituata a suscitare sentimenti tempesto-si e grandi passioni, di un’apatia artifi-ciosamente propiziata dalla morfina.Da giovanissima, già le idee della bellafiglia dello scultore Godebski, eranomolto chiare: accasarsi con un uomo diprestigio e frequentare la società emer-gente degli intellettuali e degli artisti. Se-guendo questo copione sposa a quindi-ci anni Thadée Natanson, giovane coltoe non certo sprovvisto di mezzi, fonda-tore col fratello della celebre RevueBlanche, rivista d’arte e letteratura; a ven-totto anni si unisce a Alfred Edwards,proprietario di spicco nel mondo dellacarta stampata e finanziere spregiudica-to; a quarantadue sposa José-Maria Sert,decoratore e affreschista, di qualcheanno più giovane di lei. Nel corso di ognu-no di questi ménages s’industria per fi-nanziare novità (ad esempio la rappre-sentazione dei Balletti Russi), animare sa-lotti con la capacità di catalizzare attor-no a sé i personaggi più in vista, sempretenendo saldamente in mano le sorti deisuoi protetti. Paul Morand, in un passag-gio del suo bel libro dedicato a Venezia,ricorda Misia come colei che era in gra-do di «risvegliare il genio solo con la vi-brazione del suo essere», pur senzapossedere una cultura in senso tradizio-nale o particolari conoscenze. Esuberan-te ed istintiva, Misia è l’esempio di unadonna-mito che ha saputo intercettare edinterpretare una fase storica in cui le di-verse arti sembrava potessero integrar-si e dar vita, come osserva Claude Ar-

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naud, a quella “opera d’arte totale” cheWagner prefigurava e caldeggiava. L’averesercitato il suo ascendente su figure en-trate poi nell’albo d’oro dei grandi arti-sti non la consolerà della sconfortantesensazione finale, quella di una brillan-te inconcludenza. E infatti con le sue pro-prie mani non avrà creato nulla, sarà sta-ta mediocre pianista, moglie disattenta,amica spesso crudele, donna affascinan-te ma priva di classe. “Una tigre infioc-chettata” per Cocteau, che pure le ave-va dedicato un celebre ventaglio-poesia:contraddizioni di una regina della BelleÉpoque vissuta fra molte luci e qualchemalinconica ombra.

Misia Sert, Misia, Adelphi, Milano, 2012,traduzione di N. Marotta, p.239, € 19,00.

IL FRUSCIO DELLA SPERANZAdi Rosa Elisa GiangoiaLa poesia d’apertura (Incipit) di questanuova silloge della poetessa calabrese An-gela Caccia si imprime subito con rilie-vo nella nostra mente, fin dalla prima let-tura, per quel suo incisivo tono riflessi-vo e sapienziale, che dimostra l’impegnodell’autrice a ricercare e a comunicare aglialtri, attraverso l’efficacia della parolapoetica, il senso della vita: un senso im-perniato sulla dialettica tra la salvezza,garantita dalla Resurrezione, e la nostraumana debolezza, che ci fa facilmente ca-dere nel tradimento, come quello diPietro, scandito dal canto del gallo. Cor-relativo oggettivo di questa tensione (allamaniera di Eliot e Montale) diventa il“fruscio feroce di ulivi ignari”, voce del-la natura, stravolta dall’incapacità di com-prendere il senso che misteriosamentepervade l’arco della nostra esistenza, dalnascere “nella penombra di una grotta”,come “una scintilla”, fino al morire chediventa l’”incipit di un’altra storia”, af-fermato con fiducia dalla poetessa. Ten-sione dialettica ripresa in Giardino, conforza nel verso “Storia perenne amare –tradire”, in una lirica che si conclude nel-la luce della speranza.Entro quest’arco sta tutto il vivere, lun-go il quale vengono tracciate linee esi-stenziali che ritmano la ricerca del sen-

so, il conquistarlo ed il perderlo (“Ti per-do tra i fili / ai limiti d’ogni pensiero Tiritrovo / e piovono note senza musica”,in Forse una preghiera), raffigurato conla metafora del viaggio (Senza titolo), perapprodare “dove la coscienza si fa por-to”, sempre “nell’insana nostalgia del cen-tro” (Il ciottolo). Ma l’impegno della poe-tessa è soprattutto quello di includere esistemare la vita in quest’arco, recupe-rando tutto ed orientandolo verso il cen-tro ed il valore. E’ il “chiarore di vita chesi dona per attimi”, che deve farsi “chic-co di grano che torna a cadere nel solco”(Ci sono giorni), in cui anche le Parole infuga della sensualità possono trovare unaloro giusta collocazione, perché la vitaè anche e soprattutto Nelle cose dell’amo-re e nei sentimenti, che comprendonola continuità della fedeltà matrimoniale(Ogni giorno) ed i momenti forti dell’espe-rienza della maternità e della conseguen-te crescita ed educazione dei figli (Sape-vi di bozzolo, Gli occhi negli occhi), chesi amplia ad una riflessione, in consonan-za, sulla maternità di Maria (Dal Vange-lo di Maria). Ma la poesia è anche stabi-lire legami con il padre defunto (Dal tuosilenzio) ed esprimere la malinconia perlo scivolare della madre nell’inconsape-volezza di una vecchiaia che l’isola e l’al-lontana (Altrove) dai rapporti d’affetto.La ricerca poetica di Angela Caccia è fi-nalizzata all’individuazione di quanto èautentico per l’uomo (“Sconfessa il fasul-lo del mondo / che il giorno ostentava/ ma attesa voluta o temuta / dal falsosi affranca” in Frammenti ), poiché soloattraverso l’efficacia e la pregnanza del-la parola poetica l’uomo “raccatta fram-menti di sé che / il giorno ha disperso”).La Poesia è un interrogarsi, un andare afondo, un mettersi in discussione con dif-ficoltà e fatica, tanto che la poetessa puòdire: “così / consumo le mie nocche / alleporte serrate della coscienza”. In que-st’ottica anche l’esperienza della preghie-ra è fatica e difficoltà nell’afasia difronte al divino e all’eterno (Due parole). A queste poesie d’intensa tensione esi-stenziale si affiancano liriche di più ripo-sata osservazione (Settembre e, Se fosse,E’ di marzo) e altre, come L’indistinto, in

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cui elemento rilevante diventa “l’alba”, che“incede” e che si fa simbolo di speranzae fiducia nel futuro che si rinnova ognigiorno. Quest’apertura fiduciosa allasperanza contraddistingue anche alcuneliriche di carattere sociale e civile, comeI giorni sottili, in cui il pensiero dell’au-trice va al terremoto in Emilia nel 2012,con un sofferto pensiero al mistero deldestino, pur sempre sostenuto da unasperanza di salvezza (“se il Gòlgota pro-fano / dà resurrezione”), e Lettera allamafia, in memoria dei giudici Falcone eBorsellino, anche qui nella fiduciosasperanza di superamento di una situazio-ne lacerante, espressa con immagini flo-reali che alonano il pensiero di un’ulte-riore positività (“se sotto le foglie marce/ cova il fiore / per cento bocci feriti / acui recidi il capo / mille girasoli si volge-ranno al sole”). Ed ancora cronaca, ispi-rata all’alluvione in Liguria nell’autunnodel 2001, quando “una pioggia impieto-sa ha tumulato / la Liguria”, fino al can-to altissimo A Giovanni Paolo II, “un uomodipinto di cielo / che si macchiò di ter-ra / e fu il racconto di Dio.”.Quella di Angela Caccia è una poesia ori-ginale nell’espressione, elaborata e crea-tiva, che ricerca modi sempre nuovi edefficaci di parlare delle cose della vita, inuna prospettiva aperta alla speranza tra-scendentale, una poesia che ha i suoi ele-menti forti di ispirazione letteraria in Ce-lan e Borges, ma anche in un’attenzioneparticolare per Davide Rondoni a cui èdedicata la lirica Di te conosco e che è l’au-tore dell’acuto e penetrante saggio intro-duttivo (Paradosso poetico).

Angela Caccia, Nel fruscio feroce degli uli-vi, FaraEditore, Rimini 2013, pp. 91, €12,00.

PER UN ESAME DI COSCIENZAdi Rosa Elisa GiangoiaLa lettura di questo libro di Cheikh Tidia-ne Gaye, poeta e narratore di origine se-negalese con cittadinanza italiana, che hascelto la nostra lingua come strumentoespressivo per affrancarsi dal francese,sentito come lingua del dominio colonia-le sul suo paese d’origine, scuote senz’al-

tro a fondo le nostre coscienze riguardoalla situazione degli immigrati in Italia epiù in generale in Europa, anticipando leraccomandazioni morali espresse dapapa Francesco in occasione della sua re-cente visita a Lampedusa.Lo scrittore, infatti, attraverso una seriedi lettere all’amico fraterno Silmakha, an-ch’egli emigrato lontano dal Senegal, ana-lizza con accorata acutezza la condizio-ne di chi, come lui e tanti altri, dal suoe da altri paesi dell’Africa nera, si sonotrasferiti in Italia, sperando in un futu-ro migliore, ma hanno dovuto affronta-re le durezze della vita in un ambientepoco accogliente ed anche con compo-nenti politiche di aperta ostilità, in cuicrearsi una buona condizione di quoti-diana esistenza è molto difficile, tantoche parecchi non ci riescono e precipi-tano nelle oscure sacche della clandesti-nità. Così Gaye sfaccetta la sua narrazio-ne in tante storie, ognuna con un uomoo una donna protagonista di una vicen-da difficile, resa ancora più dura dall’in-differenza, dalla mancata accoglienza esoprattutto da una pesante cappa di pre-venzioni e pregiudizi nei confronti di chiviene dall’Africa ed è nero di pelle, maanche di altri, soprattutto dei rom, de-gli zingari, degli albanesi… Sono storie che l’autore fa vivere davan-ti ai nostri occhi con le sue capacità nar-rative, venate di un afflato poetico, chegli derivano dalle sue radici nella linguae nella cultura wolof, in cui il griot, il poe-ta, il cantastorie è il custode della tradi-zione orale.Ma la situazione sua, che è quella di chi,seppure con fatica, è riuscito ad inserirsipienamente nella vita italiana con unbuon lavoro, una bella famiglia ed un cer-to successo letterario, a cui si aggiunge an-che l’impegno politico, e quelle degli altriemigrati lo portano a porsi delle doman-de che scuotono soprattutto le nostre co-scienze. L’interrogativo di fondo verte sulconcetto stesso di “civiltà”, quella che soloi popoli europei o da essi derivati ritengo-no di possedere e in passato hanno cer-cato di imporre con azioni di brutale vio-lenza, come la tratta degli schiavi dall’Afri-ca per incrementare il benessere del nord

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America. A questo proposito l’autore rie-voca la sua visita a Gorée, alla Casa degliSchiavi, posto che gli “è rimasto nell’ani-ma”, luogo simbolo di quella deportazio-ne di migliaia di “africani portati in Ame-rica, schiavizzati e poi trasformati in ani-mali per fertilizzare le terre”. Le accuse cheGaye rivolge alla storia dell’Occidentesono forti: «Non si può uccidere in Viet-nam, in Africa, malmenare innocenti, ru-bare loro le materie prime, prosciugare iloro pozzi di greggio, inquinare l’ambien-te, sfruttare il lavoro minorile, stuprare ledonne, incendiare villaggi, complottare percapovolgere regimi eletti democratica-mente, abbattere gli altrui luoghi di culto,seppellire credenze, umiliare dignitari, ven-dere armi, incitare alla guerra, sacrificareil destino di molti giovani, discriminare,infangare, e poi osare definirsi CIVILI!».Tutto questo, purtroppo, non riguarda soloil passato, la storia, ma molto continua an-che nel presente, nelle nostre città, nellaMilano in cui l’autore vive, dove la pellenera è guardata con sospetto, dove chi ar-riva dall’Africa non viene accolto e neppu-re accettato, ma continua ad essere ogget-to di discriminazione, in quanto non gli vie-ne riconosciuto il ruolo che la sua prepa-razione culturale e professionale compor-terebbe, ma viene relegato a svolgere i la-vori più pesanti, talvolta anche pericolo-si, confinandolo sempre in fondo alla sca-la sociale, sovente mettendo in difficoltào addirittura calpestando la sua dignità dipersona umana, come si è visto per gli sta-gionali di Sarno.Ma quello che più interessa all’autore, comesignificativamente indica anche il titolo dellibro, è mantenere la sua pelle nera, i suoilegami culturali con la sua terra, non spo-gliarsi della sua identità, fatta di tradizio-ni antiche della cui validità egli è ferma-mente convinto. A suo giudizio, infatti, equesto è il messaggio politico, di caratte-re profetico, che lancia con questo libro,solo una società in cui persone con tradi-zioni culturali diverse possano vivere, sen-za sopraffazioni, senza rancori, né odi, masecondo regole di piena giustizia, basatesull’amore, potrà garantire a tutti una vitaserena e felice. Questa è l’eredità che la-scia nella lettera conclusiva che scrive a suo

figlio mulatto, per aiutarlo «a diventareuomo», cioè a «saper convivere, accetta-re, accogliere e amare la vita». Lascia a luie ai lettori un’ultima raccomandazione: «lafiamma dell’uguaglianza deve illuminareogni stanza buia e sofferta; a te il mio so-stegno, a te il compito di svegliare l’albadei nuovi tempi, ma non odiare perché tusei “perdono”».

Cheikh Tidiane Gaye, Prendi quello chevuoi, ma lasciami la mia pelle nera, JacaBook, Milano 2013, pp. 121, € 10,00.

AUTORITRATTO DI UN POETAdi Rosa Elisa GiangoiaE’ interessante conoscere a fondo unpoeta, non solo dai suoi versi, ma pene-trando nella sua vita, nella sua umanità enella sua poetica. E’ quello che fa in que-sto libro Alessandro Rivali con una lungaintervista a Giampiero Neri, poeta milane-se, autore di una dozzina di raccolte, og-getto di ampia attenzione da parte dellacritica, anche se di fatto un «solitario «mae-stro in ombra» della nostra poesia», secon-do la «felicissima espressione di MaurizioCucchi». Il genere letterario dell’intervista è indub-biamente molto interessante, perché dà al-l’intervistatore la possibilità di indagare,di scavare nell’animo e nella vita del per-sonaggio intervistato, costringendolo a sve-larsi nella sua umana autenticità. Che que-st’intervista arrivi alla verità su Giampie-ro Neri è indiscutibile, trattandosi di unpoeta che afferma «Non mi è mai interes-sato contare le sillabe, ma soltanto la ri-cerca della verità». E così questo testo,«concepito e realizzato nell’estate del2012 tra le spesse mura di casa Neri, aErba, nella frazione di Incasate», percor-re tutta la vita del poeta, condizionata dal-l’uccisione del padre da parte dei partigia-ni, proprio durante la sua prima fuga dacasa, dalla successiva rovina economicadella famiglia nel dopoguerra, che lo indus-se a dedicarsi ad un lavoro in banca, sem-pre mal accettato, parallelamente al qua-le portò avanti l’attività letteraria, e dal«rapporto intenso ma così altalenante conil fratello Giuseppe Pontiggia, familiarmen-te «Peppo», narratore di successo e croce-

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via di destini editoriali del secondo Nove-cento», nei cui confronti esprime i suoi per-sonali «giudizi sorprendenti che stupiran-no molti lettori».In questa lunga intervista Rivali non si sof-ferma tanto sui caratteri della poesia diNeri, a suo giudizio ben compendiate nelsaggio di Victoria Surliuga (Uno sguardosulla realtà. L’opera poetica di GiampieroNeri, Joker, Novi Ligure 2005), ma si de-dica ad «annotare qualche retroscena sul«personaggio» Neri, sul suo «cantiere na-scosto»». Secondo Rivali Neri è un poeta che del-l’asceta «possiede la tenacia di scavo in-teriore, l’apertura al mistero, lo sprezzoper gli uomini che, come diceva Montale,identificano la realtà soltanto con quelloche si vede.» La sua è una poesia asseta-ta di verità, i cui caratteri specifici sono «laforte adesione al reale, la tensione mora-le, il rapporto diretto con gli oggetti, lo spic-cato elemento visivo, l’«abbassamento» del-l’io lirico, la tendenza alla prosasticità, ilprocedere oracolare e l’elaborazione delpaesaggio». Ma Rivali, attraverso la lungaed articolata intervista al poeta, vuole ca-pire come egli sia arrivato a questa sua spe-cifica espressione poetica, attraverso qua-li esperienze di vita, quali percorsi lette-rari e filosofici. Così il discorso si snoda,seppure con «cambiamenti di umore o l’in-terruzione di una sessione» ed anche con«Molti silenzio», lungo tutta la vita del poe-ta, con particolare attenzione alla sua for-mazione culturale e alle su preferenze let-terarie per autori come Melville, Pasternak,Fenoglio e Villon, e filosofiche, soprattut-to per Taubes.Particolarmente interessante è il Capito-lo sesto, intitolato Il cantiere del poeta, incui Rivali interroga Neri sulla sua poesia,chiedendogli il suo parere sui giudizi cri-tici espressi su di lui, sui suoi rapporti conil mondo letterario, in particolare sugli au-tori della Neoavanguardia, sulle sue per-sonali «regole» e «liturgie» per scrivere esoprattutto sulla poesia, che, secondo Neri«rimane un’esigenza dell’animo umano»,il che «consolida l’idea che la poesia sia si-nonimo di verità e come tale sarà semprericercata dall’uomo», ed in particolare suquella attuale, a proposito della quale Neri

afferma: «Mi sembra che la poesia di oggisia scesa dal suo piedistallo, ma non perdiminuirsi, semplicemente per farsi capi-re meglio, in quanto il poeta esiste comeuomo tra i suoi simili. Non è un unto delSignore, perché nessuno può dire di esser-lo». Per questo, a suo giudizio, il ruolo delpoeta oggi può solo essere quello «di voceascoltata, una voce fuori dal coro, come fula voce di Giovanni Battista». Una confer-ma a queste idee si può trovare anche neipochi Versi e prose inediti di Giampiero Neriche opportunamente chiudono questointeressante testo.

Alessandro Rivali, Giampiero Neri unmaestro in ombra, Jaka Book, Milano2013, pp. 158, € 14,00.

STORIE DI DONNEdi Rosa Elisa GiangoiaLa lunga esperienza letteraria, caratteriz-zata da una particolare attenzione alleemozioni e ai sentimenti, si raccoglie inquesta serie di racconti di Luciano Luisi,Donne e misteri, che hanno tutti cometema l’amore in uno sfaccettarsi di situa-zioni, vicende e personaggi che danno vitaa narrazioni sempre avvincenti. Sono sto-rie di fascinazione e di mistero, ma soprat-tutto di sogno, di sentimenti così forti ecoinvolgenti che portano i protagonisti asfondare con i loro desideri e le loro aspet-tative il muro della realtà, per vivere in unadimensione esclusiva che il isola dal con-tingente.Le donne protagoniste di questi raccontisono tutte di eccezionale bellezza e di stra-ordinario fascino, capaci di attrarre gli uo-mini che incontrano alla prima occhiata egli occhi sono quasi sempre il primo ele-mento che si nota di ciascuna di loro, sonoocchi da cui partono saette che vanno drit-te al cuore, secondo la più antica e conso-lidata tradizione letteraria, poi vengono icapelli, di vari colori e diversamente accon-ciati, ma sempre attraenti, come i corpi,slanciati e sinuosi. Il gioco narrativo sta quindi tutto nellaseduzione e nell’attrazione, ma soprat-tutto nelle strategie di conquista daparte dell’uomo, che polarizza tutto ilsuo mondo su queste donne fatali, da cui,

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una volta attratto, non sa più allontanar-si e a cui non riesce più a rinunciare. Mail mondo che queste donne fanno intrav-vedere è un mondo di sogno, che non col-lima con la realtà, anche per il fatto chequasi sempre, come suggerisce il titolo,sono donne che nascondono misteri, percui, una volta conquistate, la situazionesi capovolge e agli uomini appare una re-altà diversa da quella ipotizzata, desi-derata, sperata e sognata, una realtà chesovente va verso l’inaridirsi del deside-rio, a seguito del disvelarsi della verità,o peggio ancora verso la morte di uno odell’altro tra i protagonisti. In quest’ampia fenomenologia l’amoreappare declinato in tutte le sue possibi-lità, nelle più diverse situazioni persona-li, sociali, familiari, con vicende ambien-tate in luoghi diversi, in Italia e all’este-ro, con differenze di vita e di cultura, dal-le zone di guerra dell’ex Jugoslavia al Bra-sile degli antichi culti ancestrali. Nono-stante tutto questo, l’amore è pur sem-pre il sentimento più forte che si possasperimentare, il legame più vincolanteche si possa contrarre.Questo intrecciarsi di situazioni è descrit-to da Luciano Luisi con molta finezza, ele-ganza e garbo, senza cadere nell’eccessodel voyeristico e del morboso, con l’occhiocapace di indagare in fondo all’animo deipersonaggi, di ricostruire con precisioneed efficacia i loro stati d’animo, le loro emo-zioni più intime e profonde. Notevole è an-che la capacità dell’autore di delineare conesattezza scenari sempre diversi comesfondo delle varie vicende, descritti sem-pre con realismo e precisione, ma con lasobrietà necessaria a dare il giusto risal-to ai personaggi, alle loro vicende, ai lorodrammi interiori. E’ un mondo essenzia-le quello su cui si muovono gli uomini ele donne che vivono appassionanti edrammatiche vicende d’amore, perchéquello che conta sono i loro sentimenti ele situazioni che questi determinano, chesono sempre uguali, in quanto travalica-no lo spazio e il tempo.Belli questi racconti di Luciano Luisi, chesi conferma ancora una volta narratore digrande inventiva e di sicura capacità nel-la conduzione delle vicende, racconti che

costituiscono una ricca serie di fenomeno-logie del gioco dell’amore, ciascuno deiquali sa stabilire un forte patto narrativocon il lettore, tenendo desta e vigile la suaattenzione e portandolo sempre verso con-clusioni impreviste rispetto alla situa-zione iniziale, mai banali, mai scontate, asignificare che così è la vita, imprevedibi-le, sovente beffarda. Sono racconti che sileggono con grande piacere, anche se so-vente rimane una punta d’amarezza nelconstatare che di fatto nella vita gli uomi-ni e le donne sono pedine di un gioco mi-sterioso che non sta nelle loro mani.

Luciano Luisi, Donne e Misteri, Carabba,Lanciano 2013, pp. 197, € 15,50.

OLTRE IL NULLAdi Rosa Elisa GiangoiaQuesta nuova raccolta di liriche di Lui-gi Martellini, docente universitario di Let-teratura italiana moderna e contempo-ranea, critico letterario, già autore di unavasta produzione poetica, molto ap-prezzata da importanti studiosi, può de-finirsi incentrata sul senso della mancan-za, sulla percezione di un’incompiu-tezza, di fronte a cui la realtà sembra ap-parire come una “finzione” che rimandaal “nulla”, secondo i termini evidenzia-ti nel titolo stesso della silloge. Ma, leg-gendo queste liriche nel loro senso pro-fondo, non limitandosi al piano narrati-vo, alle componenti descrittive ed auto-biografiche, si comprende che la sensa-zione della mancanza e dell’incompletez-za è la vera percezione della realtà, inquanto acquisizione di un’incompiu-tezza che attende ed aspira ad un suopieno completamento.In questa chiave di lettura la poesia diMartellini si viene configurando comeuna lirica profondamente innervata dal-la dimensione metafisica di un rimandoad un oltre, desiderato e sperato, a cuil’autore guarda con fiduciosa speranza.Questo itinerario, per il poeta, è difficile,non certo lineare, ma è vissuto con impe-gno, in spirito di ricerca, da una Parten-za, in cui vive «il mistero / insondabile del-la cupa / ossessione di morte. / Senzaluce» all’affidarsi ad un’Ignota figura

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che ha «diffuso la Verità / delle opere difede rendendo / grazia all’eterno doloreterreno», in cui ripone «l’ultima speran-za / d’una segreta infermità mortale». L’animo del poeta oscilla tra quella «no-stalgia», che ritma con la ripetizione inanafora Quadro sinottico, facendosirimpianto del passato, e l’attesa «che laluce / si spenga e cessi l’assillo» di Sta-si, in un tempo sospeso, in cui «Orditaè la trama dello sconosciuto / disegnotessuto col filo della morte.» Ma questasospensione esistenziale («Lunga una vita/ la mia agonia», in Postuma), trova con-tatti con la quotidianità nella dimensio-ne dialogica della sezione Poesie per M.(2002-2003), in cui i luoghi, però, mostra-no tutta l’inconsistenza della loro real-tà, in quanto «La grande via imbiancatasi allontanava / nel tempo di un tragicosogno / che il vento intorno scavava / inun tramonto pieno di nebbia / nel cuo-re, senza suoni né colori.» Ma il poetaguardava ciò che gli ricordava «la vita chepassava nei cambiamenti / e nelle spe-ranze indicibili»: le speranze sono cosìforti, così diverse dalla realtà che nonpossono neppure essere dette, per loronon si riescono a trovare parole adegua-te, in quanto hanno radici nel più profon-do e segreto del cuore e salgono in alto,molto in alto, totalmente al di fuori del-l’apparente realtà del mondo.Ma, nonostante questo, il poeta ha fidu-cia nelle Parole, che danno il titolo allasezione successiva, che raccoglie le liri-che del 2004, componimenti di intensaessenzialità espressiva, che si sofferma-no sull’«anello che manca», sull’«immo-bilità / visibile di un confine, / muratonel meccanismo / di un rifiuto», sulla«provvisoria esistenza», con un costan-te riproporre il senso dell’incompiutez-za e della precarietà esistenziale. Nelle sezioni successive, in cui si raccol-gono le poesie dal 2005 al 2010, l’anda-mento si fa più continuativamente narra-tivo e descrittivo, anche se la percezionedei luoghi è sempre incompleta, quasi so-spesa ad un interrogativo. Basta leggerequesti versi di War cemetery: «Anche quistrani segnali dal corpo / mi ricordavanola paura / di morire (per non morire) / e

il disegno (divino?) a cui appartengo.»I luoghi stessi a cui il poeta fa riferimen-to sembrano straniarsi dalla realtà, comene La strada dei frantoi, in cui si ricerca «unitinerario archeologico» per poi recitare «al-cune parti di un tempo / di malinconie nonpiù nostro», o, come in Passeggiata con Bre-ton, in cui sono gravati da una «remota pre-senza del passato / che affiorava dalla me-moria». Sono luoghi dove si vive «nell’at-tesa aggrediti / dagli artigli della vita» (Nelluogo-giardino) e in cui si sentono «dellearcane / presenze e solo voci interne. / Pre-sagi» (Mysteria), ma dove si sente anche«una cosa vana addosso» (Ombre). Sonosoprattutto luoghi del passato, la cui re-altà non si può più recuperare: è un«oscuro paese di morti», quello di Soli, incui si va «in cerca del ricordo antico», men-tre nel Quartiere medioevale il poeta av-verte «la consapevolezza di essere / unLazzaro dalla storia misteriosa». Ma, al dilà delle situazioni contingenti, degli acca-dimenti quotidiani, a dominare nel cuoredel poeta è sempre l’interrogativo irrisol-to sul senso dell’esistenza, «Questa spa-da di Damocle che è la vita / eclisse del-la mente» (Idillio), a cui, però, si accompa-gna eternamente L’attesa, qui espressa congrande efficacia, anche visiva, dalla meta-fora della «bianca cresta che improvvisa/ increspava la superficie del mare […] elasciava una scia di schiuma / nel risuc-chio a spirale / dell’acqua verso il fondo»,nella lirica che chiude la silloge.

Luigi Martellini, La finzione il nulla,Rocco Carabba, Lanciano 2013, pp. 79,€ 12,00.

NOI E I CLASSICIdi Rosa Elisa Giangoia«Una casa colma di echi» è la felice espres-sione che Nicola Ferrari, docente di Lette-ratura Spagnola e di Letteratura Compara-ta all’Università di Genova, usa, prenden-dola da un verso di Sylvia Plath, per indi-care la nostra epoca contemporanea in cuipersistono «quei fili della memoria classi-ca», che ci congiungono all’antico.. La sua indagine è molto acuta e perspica-ce, in quanto non si limita ad una sempli-ce e generica ricognizione, ma si specifica

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nell’interrogarsi sulla persistenza degli ar-chetipi classici nel nostro tempo, in cui «siincontrano, scontrano e confrontano siste-mi globali e rinascite locali, istanze seco-larizzanti e misticismi integralisti, inflazio-ni e rivalutazioni dei modelli». Il suo è quin-di un tentativo di comprendere il senso eil valore di questa possibilità mondiale diappropriarsi degli archetipi classici, facen-doli nel contempo interagire con modelliprovenienti da altre tradizioni culturali. Larealtà del nostro tempo, infatti, è quella direcuperare contatti con il mondo classicoda posizioni marginali, senza una linea dipersistente continuità storica con la tradi-zione greca e romana, che sembrava potes-se perdurare solo nel nostro Occidente. Lo studioso indaga la «lunga durata» e l’ina-spettato riemergere di quella materia,scoperta fin dall’antichità e compostadalle vicende umane ed esistenziali degliUlissi, delle Antigoni, degli Edipi, degli Ore-sti e di tutti gli altri che, partendo dai pri-mordi della creazione artistica, sono sta-ti sottomessi al processo dell’invenzione,chiedendosi come possano l’arte e la cul-tura greca apparire capaci di penetrare glistrati più profondi e meno consapevoli del-l’esperienza di uomini, la cui sensibilità èstata formata su modelli di altre tradizio-ni. Tutto questo, a suo giudizio, è possibi-le se si penetra nell’intima sofferta contrad-dittorietà dei personaggi, nella loro «incom-prensibile composizione di luci apollineee ombre dionisiache», che è anche la no-stra e che di fatto accomuna tutti gli uo-mini sotto i cieli del mondo.Per Ferrari esiste di fatto il rischio di quel-lo che definisce «ossimorico classicismomodernista in cui i riferimenti a soggetti,miti, favole, generi, memorie dell’antichi-tà greco-romana, vengono avvicinati conprocedimenti di straniamento, in cui si in-crina la compattezza dell’universo dellaclassicità.» Questo, a suo giudizio, è inizia-to episodicamente da tempo, con il secon-do Faust di Goethe e con l’Ulysses di Joy-ce, ma è nei decenni a noi più vicini che«leggendolo con i filtri stranianti applica-ti dal modernismo, l’universo della classi-cità incrina la sua compattezza ». A dimostrazione dei suoi assunti, Ferrari,nella seconda parte del saggio, prende inconsiderazione numerosissimi testi, soprat-tutto narrativi, di lingue e letterature diver-se, che, da posizioni periferiche, rispetto

all’Occidente, recuperano fili del mondoclassico: innanzitutto l’Omeros di DerekWalcott, premio Nobel santaluciano, per poipassare a Cynthia Ozick, ebrea newyorke-se, John Banville, irlandese, Arno Schmidt,tedesco, Cormac McCarthy, statunitense,Ismaïl Kadaré, albanese, che scrive infrancese, Norman Manea, rumeno, KenSaro-Wiwa, nigeriano, Don DeLillo, statu-nitense, Milan Kundera, ceco naturalizza-to francese, Eric-Emmnuel Schmitt, france-se, Margaret Atwood, canadese, Les Mur-ray, australiano, Abraham B. Yehoshua,israeliano, John M. Coetzee, premio Nobelsudafricano, Murakami Haruki, giappone-se, Jonathan Littell, statunitense, fino al no-tissimo scrittore anglo-indiano SalmanRushdie e all’altrettanto famoso José Sa-ramago, portoghese, premio Nobel.Una rete di fili che recuperano nel mon-do di oggi ciascuno un elemento, una sto-ria, un personaggio della classicità, perriutilizzarlo autonomamente, tanto chei temi e i motivi antichi sembrano «rap-presentare una presenza ineliminabile delmetamorfico universo di storie che ci at-traversano e compenetrano», con una for-za tale che li rende capaci di oltrepassa-re i mezzi espressivi tradizionali dell’ar-te della parola e trasmigrare nelle nuo-ve attuali forme espressive dell’immagi-ne, del movimento, del suono e della vir-tualità. Per questo si può dire che «la pre-servazione si è mantenuta attraversostrategie di recupero del tutto irriduci-bili ai modelli noti». In definitiva i modelli classici continuanoa dimostrare, pur con tutti i salti di discon-tinuità che si possono riscontrare, un’enor-me forza di persistenza, che sta probabil-mente nella loro intima innervatura etica,per cui possiamo chiederci: «Nell’orizzon-te scristianizzato, nel cielo svuotato dal-la coazione lineare degli dei, pure, i dram-mi più recenti dell’etica contemporanea ri-chiedono nuovamente di rappresentarsi (econcepirsi) nella forma concettuale delleantiche tragedie?».La riposta sembra essere quella positi-va, sulla base dell’interessantissima in-dagine letteraria a dimensione mondia-le, condotta da Nicola Ferrari.

Nicola Ferrari, Una casa colma di echi,Editori Riuniti, Roma 2011, pp. 222, €18,00.

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PAOLA PASTURA L’IMPETO DELL’INFORMALEdi Flavia Motolese

Per parlare del percorso di Paola Pastura, bisogna salire a ritroso finoalla sua formazione artistica, alla frequentazione dell’Accademia Li-gustica di Belle Arti di Genova dove, a fianco dei primi risultati di stam-po prettamente figurativo, si è insinuata la passione per il naturalismoastratto, di origine informale. La storia della pittura ligure sembra di-mostrare una particolare propensione alla pittura Informale, la regio-ne, infatti, può vantare, alcuni dei più importanti esponenti a livellonazionale, basti citare G. Fasce, P. Lavagnino, T. Repetto e L. Sturla. For-se è la propensione tipica dei liguri all’essenzialità, il loro essere schi-vi che li spinge a rifuggire inutili manierismi, il vuoto delle forme e aprediligere la sostanza che vi sta dietro. O forse è semplicemente labellezza dei paesaggi in cui si fondono in perfetta armonia il mare ele montagne, la coesistenza in poco spazio di scorci suggestivi ed estre-

Bouganville solitaria, 2013, olio e acrilico su tela, cm 120x80

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mamente diversi tra loro o la luce del solecosì generosa da regalare sulla superfi-cie del mare riverberi abbacinanti.Paola Pastura si situa in questa tradizio-ne informale che ha radici profonde epone la natura come sua interlocutriceprivilegiata.Nonostante la padronanza tecnica acqui-sita le permettesse di ottenere ottimi ri-sultati in campo figurativo, la sua esigen-za era di andare oltre e di superare il li-mite della forma.È così che, a partire dagli anni Ottanta,inizia la sua ricerca artistica, culminatanella produzione di quest’ultima serie diopere. Ogni quadro è il risultato di un len-to procedimento, in cui tutto è attenta-mente ponderato, non deriva da gestiistintivi e veloci, ma da un susseguirsi di

stratificazioni: l’aspetto finale offerto allospettatore cela una lunga genesi. Laprima stesura, frutto dell’ispirazione,mantiene caratteristiche formali distin-guibili, a cui succedono varie fasi il cuiobiettivo è di distruggere ogni costrizio-ne strutturale per lasciare solo il coloreespandersi, libero da ogni controllo. Sullo sfondo, ampie campiture di colo-re creano un fermo equilibrio di base sucui vengono giustapposti, a più riprese,altri piani cromatici che cancellano ognitraccia residua dell’immagine iniziale.Man mano che la composizione emergeverso la superficie, si anima di una tra-ma di pennellate più sottili, di sgoccio-lature e rivoli di colore, simili a fremiti.A volte, l’artista ricorre all’uso di polve-ri di roccia, che vengono impastate al co-

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Esplosione di gioia, 2013, olio e acrilico su tela, cm 120x100

Movenze serali, 2013, olio e acrilico su tela, cm 120x100

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lore donando fisicità alla materia, comese lo spazio pittorico rispecchiasse nonsolo i colori della natura, ma ne condi-videsse la struttura portante, traendonedirettamente forza: un mondo nel mon-do plasmato dall’artista.In questa recente fase, l’assegnazione deititoli ricopre un ruolo più importante ri-spetto al passato, l’accenno poetico, inesso contenuti, suggerisce allo spettato-re una possibile chiave di lettura dell’ope-ra, rivelandogli la suggestione iniziale dacui è scaturita.È una pittura intimistica, nella misura incui le percezioni e l’interiorità di PaolaPastura mediano attraverso il gesto ar-tistico l’involucro del visibile per disve-lare l’essenza delle cose. Una pittura chesi nutre delle sensazioni e dell’esperien-

za dei luoghi, di quelle sedimentazionianche inconsce che si depositano nellamemoria e confluiscono nell’esigenza dicogliere il fenomeno naturale che perva-de il mondo.La concezione che sta alla base di ogniopera è quella di una superficie sulla qua-le affiorano immagini evocate dal ricor-do o dalle emozioni; l’artista parte da pre-cisi riferimenti figurali per superare la vi-sione iniziale, dissolvendo nel colore icontorni e ogni connotazione oggettiva.Ogni dettaglio è volutamente abolito: soloi colori mantengono inalterate la loro for-za e l’aderenza alla realtà. La visione siespande fino ad occupare tutto lo spa-zio, come se la tela racchiudesse una por-zione di una dimensione molto più am-pia, la cui forza espansiva tende a vali-

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Il tumultuoso infrangersi dell'onda, 2013, olio e acrilico su tela, cm 120x100

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care qualunque limite imposto. L’opera esprime il senso di continuatrasformazione insito nella realtà che ci circonda, solo sulla tela è pos-sibile catturare e rendere eterno quel singolo istante che fa parte diun flusso in continuo divenire. Il risultato è simile a quello che si ot-terrebbe immortalando un soggetto in movimento: un’immagine sfo-cata; allo stesso modo, i rigidi confini della forma sono aboliti, supe-

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Arpeggio di fronde, 2013, olio e acrilico su tela, cm 120x70

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rati, perché la finitezza è un’apparenzatransitoria. Ecco allora spalancarsi difronte ai nostri occhi apparizioni repen-tine, come se ci venisse concesso di scor-gere il senso delle cose. Immergendosinelle profondità del colore, come inabissi ignoti, si ha l’impressione di intui-re qualcosa d’altro, di vedere svelato ilmistero dell’esistenza. La luce è intessuta nella materia, nonscende dall’alto, ma pervade ogni cosa,illuminandola dall’interno. La poetica diPaola Pastura trova una consonanza tramateria e luce, una corrispondenza trai sentimenti e il colore. Anche quando ilsoggetto rappresentato tradisce unavena di malinconia, l’animo forte e otti-mista dell’artista prevale, lasciando unatraccia di sé in ogni opera: nella scelta di

colori vivaci, in uno sprazzo di luce im-provviso che rischiara l’oscurità o nei toniaccesi del rosso. La passione per il colo-re, guidata dall’esperienza, produce in-tense cromie; l’artista, infatti, usa i co-lori con audacia, prediligendo le tinte for-ti ai mezzi toni e spaziando nella tavo-lozza per rendere appieno le energie rac-chiuse nella terra, nell’acqua, nella vege-tazione. Quella rappresentata è una na-tura pulsante di vita, ma anche attraver-sata da un senso d’irrequietezza, scos-sa da forze impetuose e recondite. Nonvi è nessuna traccia di angoscia, soltan-to la piena consapevolezza di essere difronte a potenze generatrici che tracima-no, perché non possono essere imbriglia-te. Anche dei quieti glicini come in “Mo-venze serali” svelano una vitalità inaspet-

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Riflessi d'acqua, 2013, olio e acrilico su tela, cm 120x80

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tata: le campiture, le pennellate donanoalla composizione un moto interno chela anima, come se il flusso della linfa fos-se visibile dall’esterno. Questo ultimo ci-clo di lavori è caratterizzato, in genera-le, da un forte dinamismo, ogni quadropresenta un movimento interiore predo-minante. I fiori e la vegetazione sono tra i sogget-ti prediletti, come dimostrano opere come“Arpeggio di fronde” o “Parete di bougan-ville”, in cui la particolare intensità del ver-de delle foglie nel primo e del rosso dei fio-ri nel secondo riescono a far percepire ilpalpito di vita che li attraversa. La pittura è una continua ricerca di co-noscenza dell’immensità del mondo na-turale, di fronte alla quale l’uomo, purpercependo la sua piccolezza, ne rima-ne altresì affascinato per tutte le mera-viglie che offre. Il mare e, in generale, l’ac-qua in tutte le sue declinazioni sono sog-getti ricorrenti, l’attrazione che esercita-no sull’artista discende dall’attaccamen-to che hanno i liguri verso questi elemen-ti, così familiari. Rappresentano un richia-mo costante per le infinite suggestioniche suscitano come fonte primaria di vita.

Questo concetto è evidente, per esempio,in “Squasso di onde tra le rocce”: le pen-nellate, che tracciano traiettorie diago-nali spezzando la verticalità della com-posizione, rendono pittoricamente la for-za travolgente dell’acqua che, scorrendo,si scontra impetuosa tra le rocce e tra-scina ogni cosa che incontra. Il dipintorivela, però, la visione positiva dell’arti-sta che scorge in questo dualismo un’oc-casione generatrice. Analoga sensazione di forza si avverteanche in altre opere, marcatamente ge-stuali, come “Il tumultuoso infrangersidell’onda” o “Sento l’odore di salsedine”,in cui è resa appieno la potenza dell’ac-

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Squasso di onde tra le rocce, 2013, olio e acrilicosu tela, cm 120x70

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Sento l’odore di salsedine, 2013, olio e acrilico sutela, cm 120x100

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qua nel suo moto incessante. I colorisono quelli della Liguria: il blu del marein tutte le sue sfumature e il nero dell’ar-desia. La polvere di pomice di Lipari me-scolata nell’impasto pittorico dona allasuperficie del dipinto un aspetto ruvido,in qualche modo aspro, che richiama allamente le scogliere del litorale ligure.“Riflessi d’acqua” è la massima espres-sione del lirismo raggiunto nei suoi la-vori: sullo specchio d’acqua si proietta-no frammenti di un universo remoto, glielementi visibili sono trasfigurati inechi indistinti di memorie lontane. La ten-sione cromatica dell’opera, generata dalnero che tenta di dominare lo spazio eil bianco che lo argina e il segno quasigrafico di alcune pennellate, fanno rav-visare atmosfere simili ad alcune operedi Alfredo Chighine.Anche l’ora crepuscolare, rappresentatain molte sue opere, richiamo alla cadu-

cità della vita, e che solitamente nella tra-dizione letteraria è l’ora del ricordo, chegenera malinconia, viene interpretata daPaola Pastura in chiave più gioiosa e po-sitiva, tingendola di tonalità brillanti dal-la forte carica espressionista. “Ultimo rag-gio di sole”, rischiarato da uno sprazzodi giallo, non evoca nessun doloroso pre-sagio sulla fugacità dell’esistenza, piut-tosto mostra lo sguardo incuriosito edaffascinato sui misteri del ciclo vitale cuiè soggetto ogni essere vivente.Osservando nella totalità le opere di Pao-la Pastura, si può notare come ogni sin-golo dettaglio naturale possa dare l’av-vio all’ispirazione, al desiderio di esplo-rare la complessità del cosmo e farlo af-fiorare sulla tela, dopo essere stato rie-laborato dall’inconscio e trasfiguratodall’emozione e dal ricordo, mostrandola passione che la guida nella sua ricer-ca artistica.

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Parete di bouganville, 2013, olio e acrilico su tela, cm 120x100

Ultimo raggio di sole, 2013, olio e acrilico su tela, cm 120x100

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PAOLA PASTURA Genova 1947

Dimostra fin da piccolissima una forte attrazione per il colore e il di-segno, la sua attenzione, infatti, è rivolta a quanto di colorato riescea trovare, dalle carte dei cioccolatini ai fili di cotone o seta che lamamma le regala. Dopo gli studi magistrali, imposti dalla famiglia,riesce finalmente a coltivare questa sua innata passione per il disegnoe soprattutto per tutto quello che riguarda il colore. Alla fine deglianni Settanta, infatti, frequenta l’Accademia Ligustica di Belle Artisotto la guida dei professori Sirotti, Carreri, Chianese, Otria, e la do-cente di storia dell’arte Carla Mazzarello.In seguito, con alcuni compagni di Accademia costituisce un grup-petto che si prefigge di continuare la ricerca personale sotto la guidadel prof. Schiaffino. “Dopo alcuni anni ognuno di noi sentiva la neces-sità di un proprio studio senza distrazioni per continuare una propriaricerca” e così inizia i lavori concentrandosi su quello che è semprestato il leit motiv della sua arte: la luce ed il colore, il ritmo e il gesto.Verso la fine degli anni Ottanta entra a far parte del direttivo degliAmici di Albaro, un sodalizio che comprende pittori, scultori, poeti eceramisti, e che prosegue per oltre 12 anni. È proprio in questa occa-sione che incomincia ad interessarsi alla ceramica e con l’amico Mae-stro Giannetto Fieschi partecipa, nello studio di Salino nella fornacedi San Giorgio ad Albissola, a dipingere piatti coloratissimi e di forteimpatto cromatico.Dal 1985 inizia a partecipare a numerose mostre personali e collet-tive in tutta Italia. Nel 2000 la parrocchia di Santa Zita di Genova lecommissiona un’Ultima Cena di metri 6x4h da esporre per il periododella Quaresima, oltre a due stendardi della Madonna della Guardiae di Santa Zita. Nel 2002, nella galleria SATURA, espone una serie diquadri su un percorso roccioso delle coste liguri dal titolo Dodicimetri quadrati di roccia, con la presentazione di G. Scorza. Nel 2006,nella Galleria Ghiglione di Genova espone quadri di grande formatosul tema dell’ardesia, materia principale della Liguria, con critica diLuciano Caprile. Nel febbraio 2006 in occasione delle Olimpiadi inver-nali a Torino espone una serie di carte colorate .Nella prestigiosa sede settecentesca della Banca BIM di Milano tieneuna personale con quadri ispirati alle coste liguri. Nel 2008, in occasione della visita a Genova del Santo Padre Bene-detto XVI realizza un altorilievo in ceramica di cui gli fa dono.Dal 2009 le sue opere fanno parte del patrimonio artistico della BancaCarige.Nel 2012 nella Galleria Sartori di Mantova espone 15 grandi tele sul-l’energia della natura, sia marina che vegetale. Nello stesso anno, perla Notte Santa di Natale realizza nel Duomo di Genova un pannello dimetri 7x5h come sfondo per un presepe napoletano del ‘700, rice-vendo una menzione del Cardinale Bagnasco. Inoltre, è invitata allagrande rassegna “UN MUSEO PER UN MUSEO”, scambio culturale conartisti della Costa D’Avorio per la ricostruzione del Museo e della Bi-blioteca Nazionale di Abidjan.In quasi trent’anni di attività ha esposto in molte città italiane: Roma,Milano, Piacenza, Ferrara, Torino, ecc. e in importanti città europee:Madrid, Parigi, Londra, Barcellona. Tra gli altri, hanno scritto di lei icritici Beringheli, Bocci e Sciaccaluga.

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TRA VITA E ARTEEDVARD MUNCH VISTO DA UNOPSICOANALISTAdi Luca Trabucco*

Il mio interesse per Munch è nato piuttosto casualmente. Non ero unconoscitore della sua opera, e solo gradualmente sono stato avvintodalla evidente relazione tra la sua opera e la sua vita. L’insieme dellasua produzione mi è apparsa da subito contraddistinta da un inten-to esplicitamente “autobiografico” e “autoterapeutico”: attraverso lesue opere Munch cerca di far transitare nuclei di esperienza emozio-nale primari e contraddistinti da un profondissimo senso di angosciadi morte e di solitudine attraverso una funzione di elaborazione, rap-presentata per l’appunto dall’espressione artistica.L’espressione artistica è evidentemente un processo spontaneo dellamente umana che testimonia il misterioso “salto” natura/cultura percui l’uomo da specie animale diviene individuo “simbolico”. Dalle pit-ture rupestri preistoriche l’uomo è impegnato nella costruzione delproprio universo simbolico, attraverso il linguaggio, l’arte, la scienza,entro il quale può pensare di dare un senso all’esistenza e gestire lapropria “eccedente” esperienza emozionale, basalmente costituita dal-la consapevolezza straordinaria della propria finitudine.I percorsi attraverso cui la psicoanalisi tende a giungere in contattocon le esperienze e le emozioni più profonde dell’uomo seguono que-sto processo spontaneo legato all’esigenza espressiva che connota ilnostro essere umani, segnati dalla consapevolezza e dal bisogno, inprimo luogo bisogno di essere in relazione con l’altro. Bisogno che se-gna le caratteristiche e lo sviluppo di ogni individuo, legato profon-damente nel suo strutturarsi alle prime figure che si prendono curadel suo venire al mondo, i genitori.Le vicissitudini di questi primi legami vengono a segnare e connotare pro-fondamente ogni personalità. In questo senso l’opera di Munch mi ha cat-turato in quanto nelle sue linee essenziali segue un percorso strettamen-te biografico. Munch voleva definire l’insieme delle sue opere “Fregio del-la Vita”, andando a rappresentare i momenti essenzialmente rilevanti del-la vicenda umana, ma percorrendoli non in astratto, ma attraverso il con-creto dispiegarsi della sua esperienza esistenziale. Un’esperienza segna-ta fin dalla più tenera età da malattia, follia e morte.Edvard, nato nel 1863, era il secondo di cinque figli. La madre morì quan-do egli aveva 5 anni. E in questi cinque anni ebbe tre figli. Il nonno ma-terno morì di tubercolosi ossea. La sorella maggiore di un anno, Sophie,morì quindicenne. Laura, la sorella nata dopo di lui, in età adolescenzia-le cadde in una situazione psicotica. Il padre dopo la morte della mogliesviluppò una precedente tendenza ciclotimica, e morì nell’89 quando Ed-vard aveva 26 anni. Il fratello Andreas morì trentenne sei anni dopo, peruna polmonite, susseguente ad un rischiato annegamento. Solo la sorel-

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* Membro Ordinario Società Psicoanalitica Italiana, Genova

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la Inger, l’ultimogenita, nata in concomi-tanza con la morte della madre, soprav-viverà insieme ad Edvard, anche lei senzauna nuova famiglia e dedita solo all’ope-ra del fratello.Il percorso “biografico” della sua operarappresenta una sorta di iconografia delsuo dramma esistenziale: “i miei quadrisono i miei diari”, afferma. Tuttaviaegli non si ferma mai alla rappresenta-zione oggettiva dell’evento rappresenta-to, ma traccia parallelamente un percor-so soggettivo interno, in cui ciò che vie-ne rappresentato è al contempo l’even-to esterno e l’esperienza interna di fron-te a tale evento. L’espressione dellapropria interiorità.L’esperienza emozionale traumatica nonpuò essere da Munch affrontata in ma-niera massiva e immediata, come inogni caso è necessario avvicinarsi ad essa

tenendo conto della quantità di verità chela persona può tollerare. Così vediamocome la prima opera che affronta la suaesperienza vissuta, in modo esplicito, siaLa bambina malata.Questo era un tema consueto all’epoca:il maestro norvegese Krohg, presso cuiMunch si era formato, dipinge una bam-bina malata qualche anno prima diMunch.

Il dipinto di Krohg viene a definire unevento drammatico e doloroso, in una og-gettività che sembra sottolineare la di-mensione quasi mistica che nella secon-da metà dell‘800 veniva ad avere la ma-lattia tubercolare.La bambina malata di Munch viene a to-gliere completamente dall’isolamentol’evento della malattia, per renderla unfatto assolutamente partecipato.

Nel dipinto di Munch troviamo tre per-sonaggi: la bambina, la donna che l’as-siste, ripiegata nel dolore, e lo sguardodi Munch che dipinge, e dell’osservato-re che guarda il dipinto. La tecnica“espressionista” che Munch va usandoviene a solcare la trama dell’immaginecon le lacrime che bagnano gli occhi delpittore, le sfocature che si producono dal-la visione attraverso un ciglio intriso dilacrime e sofferenza, di paura e angoscia.Il dramma della malattia e della morteimminente, in un’età che dovrebbe es-

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sere il fiorire della vita, i sedici anni,sono totalmente umanizzati: ogni alo-ne mistico scompare, c’è solo un uma-nissimo dolore e disperazione. L’impo-tenza dell’uomo di fronte al fato, al pro-prio destino mortale, l’impotenza del-la donna a trattenere chi se ne va, di po-tersene prendere cura è rappresentatada questa impossibilità ad un incontrodegli sguardi: tre sguardi che non si in-contrano mai. L’unione che unicamen-te nel dipinto è rappresentata è quellatra la mano della bimba e quella delladonna - nella realtà la sorella della ma-dre che si occupò dei cinque figli - :un’unione confusiva e impotente. Le duemani sono indefinite, conglutinate inuna massa unica dove non si riesce a ri-conoscere quanto appartenga all’una oall’altra, in una descrizione dell’impo-tenza che accomuna tutti di fronte al de-

stino, per cui nessuno può fare alcun-ché che sia al di là della natura così li-mitata dell’essere umani.Munch riesce a dipingere questo quadrosette anni dopo l’evento: la sorella Sophiemuore nel ’79, l’opera è dell’86. Passanoaltri sette anni, e Munch dipinge Mortenella camera di una malata, la scena del-la morte della sorella.

Abbiamo qui l’esempio di una capacitàespressiva della complessità della vitamentale assolutamente straordinaria.Nel dipinto vengono rappresentati tut-ti i membri della famiglia raccolti intor-no alla poltrona della giovane morta,ognuno in una prospettiva divergente ri-spetto a tutti gli altri, a sottolineare an-cora la solitudine di ognuno che non puòcondividere con alcuno l’esperienza chesta vivendo.

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Il fatto rappresentato avviene, come hodetto, nel 1879, ma i personaggi familia-ri vengono qui rappresentati con l’età chehanno nel momento in cui Munch dipin-ge il quadro, nel 1893.Così Munch riesce in un’immagine a con-densare una problematica del tempo psi-cologico estremamente complessa: la coe-sistenza all’interno della mente di duetemporalità affatto differenti. Una tem-poralità “oggettiva”, cronologica, in cuiil tempo segue il suo corso e la vita sem-bra procedere, ed un tempo interno in cuil’esperienza resta come congelata, bloc-cata in un attimo che viene ad occupa-re il centro della mente stessa.Il tempo bloccato all’interno della men-te intorno ad un evento traumatico ci mo-stra una funzione mentale paralizzata,sovraccarica di un’esperienza emoziona-le che non può essere elaborata, che nonpuò evolversi.L’angoscia di morte paralizza la vita, lospazio interno è paralizzato intorno adessa. Non è un caso, credo, che nello stes-so anno in cui Munch dipinge la morte,rendendo evidente il suo avvicinarsi aquesta presenza perturbante dentro disé, dipinge anche il Grido.

Icona dell’angoscia esistenziale dell’uomo,questo dipinto ha nelle sue caratteristichemolti riferimenti strettamente personali (v.Trabucco 2008, 2009). W. Bion ha defini-to questo stato emozionale “angosciasenza nome” che definisce quello stato delbambino neonato, ma poi sempre ripro-ponentesi nel corso della vita, che si tro-va di fronte alla sconfinatezza del mon-do senza aver alcun mezzo per affrontar-la, e che abbisogna in modo assoluto del-l’altro, della “madre”, ovvero dell’am-biente accudente, per poter elaborareogni esperienza. È la mente altra, mater-na, che accoglie questa primarie sensazio-ni nel proprio spazio mentale interno e lerestituisce al bambino come qualcosa diassimilabile, pensabile, nominabile. Biondice che anche solo un grido può esserela prima forma di nominazione dell’ango-scia, la prima comunicazione.Credo allora che si possa veramente pen-sare che il grido più fondamentale, quel-lo a cui si avvicina questo dipinto cele-berrimo, sia un grido silenzioso, come ilgrido silenzioso della morte che percor-re la realtà nell’opera di Munch.Nel 1899 dipinge La madre morta e labambina.

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Il grido della morte assume qui il caratte-re personale di un’esperienza vissuta.Ciò che Munch qui rappresenta è la sce-na del trauma primario, la morte della ma-dre. Le “nuvole rosse come sangue vero”del Grido, divengono qui quel rosso cheda sotto il letto della madre morta vengo-no a coinvolgere il vestito della bimba inprimo piano, di fatto la sorella Sophie cheerediterà dalla madre la tubercolosi che laucciderà qualche anno dopo, il rossosangue delle emottisi fatali per i tuberco-lotici all’epoca.Il volto della bimba e il suo atteggiamen-to sono gli stessi della figura del Grido, maqui sono assolutamente individuati. Nel corso degli anni Munch si è progres-sivamente avvicinato al nucleo centrale del-la sua angoscia, rappresentata dall’evenien-za drammatica della morte della madrequando lui aveva cinque anni. Un nucleodi esperienza emozionale che forse pro-prio attraverso la propria espressivitàartistica cercava invano di elaborare.L’angoscia di vivere e di morire rappre-sentano i due lati di un abisso con nelmezzo una lama di rasoio su cui egli hasempre cercato di restare in equilibrio,e in questa scomoda situazione, io pen-so, la sua arte ha rappresentato il bilan-ciere che gli ha permesso, in qualchemodo, di mantenerlo.“Ho dovuto percorrere uno stretto sentie-ro lungo un precipizio. Da un lato, le pro-fondità del mare erano insondabili. Dall’al-tro c’erano campi - colline - case - perso-ne ... Qualche volta ho lasciato il sentieroper buttarmi nel mondo vivente dell’uma-nità e lottare con esso. Ma sempre ho do-vuto ritornare sul sentiero del ciglio del pre-cipizio”, ci dice Munch nei suoi scritti.Vorrei concludere citando un breve scrit-to di Kafka, inserito nei racconti: “Il silen-zio delle Sirene”, in cui ci racconta di comeUlisse debba fare affidamento su una il-lusione di onnipotenza per poter supera-re l’esperienza dell’angoscia che non tro-va uno spazio nella mente della madre perpoter essere veramente elaborata.Ulisse, dice Kafka, pensa che la sua astu-zia sia più potente del potere delle Sirene,che un po’ di cera e poche catene potes-sero vincere il loro potere. “Il canto delleSirene penetrava qualsiasi cosa, e la pas-

sione di quanti si erano lasciati sedurreavrebbe spezzato ben altro che catene ealberi di navi ... Le Sirene posseggono peròun’arma ben più terribile del canto, valea dire il loro silenzio. Anche se non è maiaccaduto, è possibile che qualcuno abbiapotuto magari salvarsi dal loro canto: madal loro silenzio, sicuramente no. Al sen-timento che si deve provare per averle vin-te con la propria forza, e all’orgoglio chene segue e che tutto travolge, non può re-sistere alcuna creatura terrestre”.Le Sirene silenziose possono così rappre-sentare il silenzio, l’assenza della madre,che non dà voce, non dà un nome, all’an-goscia del bambino rendendola affronta-bile. Se la madre-sirena tace, è solo nell’il-lusione della propria onnipotenza narci-sistica che il bambino può fare affidamen-to. È il fallimento, il venire a mancare, diquesta primaria relazione che dà corso allafuga nell’illusione, nell’onnipotenza, nel so-lipsismo compiaciuto che è in fondo la so-stanza di cui è fatta la follia.Solo in funzione di questa relazione prima-ria, e delle sue successive declinazioni, l’an-goscia del vivere può trovare lo spazio doveessere contenuta, elaborata, annessa di sen-so e mutata nella sua qualità affettiva, percui la relazione permette di accedere allabellezza del mondo e della vita.Per Munch questa funzione, venuta pre-cocemente e drammaticamente a manca-re, è stata in parte vicariata proprio dal di-pingere, dall’espressione attraverso il lin-guaggio artistico, ma con tutte le limita-zioni che ciò implica, perché la tela non èuna mente altra, ma può solo esserespecchio che rimanda un’immagine sen-za poterla elaborare.La sua vita è trascorsa nell’isolamento enella sterilità affettiva, tra angoscia e fol-lia, con il solo riconoscimento della suagrandezza artistica.La pittura ha permesso a Munch di so-pravvivere, non di vivere.

BIBLIOGRAFIATrabucco L. (2008) “I colori stavano urlando”.Morte, tempo e memoria: il Fregio della vita diEdvard Munch, in: A.V., Tra vita e arte: follia emorte in E. Munch, Nicomp, FirenzeTrabucco L. (2009) Munch: morte e follia, in:Mazzotta G.; Sgarbi V., Arte Genio Follia. Il gior-no e la notte dell’artista, Mazzotta, Milano

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UN PAESAGGIO “DA ESPOSIZIONE”:IL PARCO DELLE SCULTURE DI KRIESTER A VENDONE INCONTRA LA CERAMICA D’ARTECONTEMPORANEAdi Silvia Bottaro

La Fondazione Kriester, con Chiristiane Dass Kriester, alimenta da ol-tre dieci anni il ricordo efficace dell’opera di suo marito – Rainer Krie-ster. - che dal 1982 scelse la frazione di Castellaro di Vendone per vi-vere e, soprattutto, scolpire sotto il cielo la pietra di Finale. Sono nate,così, le sue steli, i suoi totem, le grandi e possenti sculture di pietralavorate, installate tra i pini e gli ulivi in un paesaggio “da esposizio-ne”, forse considerato, a torto “minore” (rispetto a cosa?) perché si-tuato dietro alle spalle della città delle cento torri, ossia Albenga, madotato di un suo linguaggio coerente che va dalle arti all’artigianato,alla bellezza impareggiabile del paesaggio ligustico alla gastronomia,all’olivicoltura a quelle opere straordinarie dell’ingegno umano che sonole fasce, i terrazzamenti con i maixé (dal latino maceries “muro a sec-co”): il più gran monumento ligure, appartenente già all’età del ferroma che si diffuse dall’epoca della conquista romana della Liguria. Rainer Kriester ha capito la presenza in questo luogo di una sorta di“museo diffuso” ed in sinergia con la forza di questa Terra, lì ha scol-pito, tagliato, inciso la materia. Sulla spianata di Castellaro di Vendone, all’ombra dell’antica torre sa-racena, sono sbocciate, via via, le steli di pietra bianca del Finale chenel loro nitore architettonico racchiudono, in una splendida crasi, ilsentire l’arte essere un tutt’uno con l’analisi, con la sua lucida sinte-si, con il pathos interiore che l’Artista ha profuso nei segni così razio-nali, nelle sue geometrie come fossero frutti di una personalissima me-ditazione sull’Uomo ed il suo rapporto con la Natura. In questa particolare Stonehenge, dove magia, storia, immaginazione,verità, rituali, divengono un tutt’uno così vicino al quel monumentopreistorico situato a Amesbury nello Wiltshire (Inghilterra) che ha ali-mentato studi, romanzi, fumetti – si fa riferimento al romanzo (“Stone-henge”) di Bernard Cornwell oppure ai personaggi del fumetto che han-no fatto una breve visita in quel mistico luogo, da Paperino (“Paperi-no- Il papero del passato e del futuro” di Don Rosa) a Corto Maltese,passando per Martin Mystère e Dylan Dog (n° 36 “Incubo di una not-te di mezza estate”) senza dimenticare Topolino, con molte avventu-re ambientate in quei dintorni, o Lara Croft nella versione a fumetti. Una mostra avvincente che non si può far a meno di sentirla, scoprir-la e con essa di partecipare al “mito”, all’ideale di questo paesaggioriconosciuto quale “patrimonio dell’umanità” prima da Kriester, poida chi parteciperà a tale evento.L’ astronomo sir Fred Hoyle ipotizzò nel 1966 una funzione astronom-ica del complesso megalitico inglese, certamente quelle pietre sono al-lineate con un significato particolare ai punti di solstizio ed equinozio.Tutto ciò ha affascinato l’Artista tedesco che lì – a Castellaro di Ven-

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done - ha collocato le sue avvincenti e,pure, ammalianti forme, sia grandi sia pic-cole, che mi rammentano la libertà di pen-siero, al di fuori di schemi predetermina-ti o mere soluzioni estetiche: il sudare sot-to il sole bruciante nelle estati a Vendo-ne ha reso l’uomo Kriester un tutt’uno conla potenza “narrativa” della pietra che hascavato, inciso, tormentato cercando inquella poderosa solidità, forse, risposteai suoi interrogativi di uomo e d’arti-sta, dialogando con gli arbustidella macchia mediterranea,spontanei e saldi, in una sortadi preghiera laica ed universa-le rivolta al cielo.Un “paesaggio d’artista” chedialoga intimamente col paesag-gio d’esposizione naturale chelì è situato. In esso si fondonoOccidente e Oriente in una sor-ta di specchio dell’anima.Nel 1525 Albrecht Altdorfer ri-voluzionò la pittura di paesag-gio inventando il paesaggiopuro, senza la figura umana: daquel momento l’arte ha inizia-to a rappresentare il volto e l’ani-ma della natura. Nel ventesimosecolo troviamo le forme essen-ziali di Matisse e i segni affastel-lati di Pollock, così nel cinemaMichelangelo Antonioni filma ilpaesaggio come stato d’animoed invece Ridley Scott ( in Bla-de Runner) ci mostra il futurodove le tradizioni occidentale eorientale si fonderanno e pro-muoveranno un sol cammino. Kriester ci ha dato il senso ditale orizzonte cercando il signi-ficato del nostro esistere.Segni e segni e materia (la pie-tra di Finale) che, in qualchemodo ci conduce all’arte diArturo Martini, so-prattutto se guar-diamo la consape-volezza dello Scul-tore tedesco di sceglie-re la propria cifra sti-listica primitiva e, nelfrattempo, così mo-

derna e nel rigore dell’elezione di una ma-teria – la pietra – così difficile, quantostraordinaria che riesce a dare alla scul-tura un’essenza millenaria, arcaica, rivol-ta alle grandi tradizioni e civiltà (dallaprecolombiana, all’egizia, alla greca e ro-mana, all’africana), cogliendone il sotti-le segreto che riesce a scrivere il transi-to ed il mutamento del tempo.In quest’ambiente di museo all’aperto sonostate collocate, con discrezione e quale

omaggio quasi intimo all’Artista ger-manico, le opere ceramiche di altrevoci italiane e straniere che ci aiute-ranno ad entrare, in punta di piedi econ lo sguardo rivolto all’in su, ver-so quel cielo terso di giorno e pun-teggiato di stelle di notte che sono lascenografia naturale, irraggiungibile,dove la “voce” di Kriester è semprepresente e ci parla delle testimonian-ze, custodite gelosamente dalla ter-ra, anche di quelle invisibili ma “mi-niate” sulle pietre, sotto la pelle, se-gni “… nascosti in una memoriasenza codici, preservati dall’anima deltempo con tutti i successivi segni” (N.Valentini).Il catalogo di questa rassegna espo-sitiva non vuole essere un’enciclope-dia di scritti, in parte critici ed im-portanti, ma piuttosto un “atlante”delle immagini coinvolgenti, trasci-nanti il curioso, il turista, l’amantedell’arte a Vendone per scoprirne la“regale”, solenne semplicità, il silen-zio della vallata, il profumo dell’ariaincontaminata dove s’incastona,come una gemma, il lavoro di Krie-ster, accompagnato, in questa incon-sueta iniziativa, dalle opere contem-poranee create con la terra con spe-rimentazioni, usi di terre rosse,gialle, nere, di ingobbi e Terre sigil-

late, smalti, invetriature, cri-stalline, al raku dolce onero, al gres, alla terra-cotta smaltata, al meto-

do Sangam (graffito).Pare importante il patroci-nio, tra i numerosi e signi-ficanti concessi a questaproposta, quello rilasciato

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dall’Associazione Italiana Città dellaCeramica perché nella mostra si potran-no confrontare diverse Scuole e Maestriceramisti che rappresentano l’eccellen-za di siti deputati fin dall’antichità all’usodella ceramica, al suo studio tra artigia-nato e arte, alla sua applicazione nell’ar-te contemporanea, al design. Si potrà, allora, spaziare da Faenza (Gio-vanni Cimatti che ci condurrà su percor-si antichi, ma al tempo stesso moderniche nascondono, in tale fare ceramica, ri-cerca e innovazione innestata sulla cono-scenza della storia della ceramica nonsolo italiana ma orientale), a Castellamon-te (Brenno Pesci che nelle sue opere af-fianca un tratto, anche, rude ed primiti-vo, ad un’espressività originale nellaglobosità delle forme, nelle posture scar-ne, essenziali). Il viaggio ideale ci porte-rà a Cunardo (Giorgio Robustelli che sen-te la ceramica come scultura, ossia la ren-de come immagine viva e comunicativa,inserita nello spazio) per soffermarci dipiù sul patrimonio creativo della Liguria,da Levante a Ponente, con varianti perso-nalissime ed uniche come nel caso di Al-fredo Gioventù (che inventa i suoi “sas-si” – forse talismani – con forme moltopensate e progettate con raffinata chia-rezza), e di Renza Sciutto (anche “amba-sciatrice” dalla Cina per la ceramica di cuiè una convinta sperimentatrice esaltan-done la componente evocativa), fino al-l’arte internazionale visitata da decennida Carlos Carlè: artista che, tra le altrecose, dal 1972 fa parte dell’Accademia In-ternazionale della Ceramica di Ginevra eche ha esposto davvero in tutto il mon-do (da Mino in Giappone a Parigi, da Fran-coforte a Zurigo, da Buenos Ayres a Val-lauris). Sperimentatore della materiagrès che gli offre, da decenni la possibi-lità di ascoltare e trascrivere i segni del-la Terra nelle sue geometrie (colonne, to-tem, globi) che sono sorgenti di raccon-ti primordiali, davvero originali.La rassegna, poi, presenta altre vocistraniere, ma ormai, adottate da Albis-sola Marina e Savona come l’argentinoAldo Pagliaro (con le sue sfere con glismalti fusi che racchiudono, anche, il ri-

chiamo alla quotidianità tecnologica) el’albanese Ylli Plaka (le sue opere sonoin equilibrio tra l’arcaico ed il contempo-raneo in una attenta analisi delle forme,dei segni, del loro significato).Tutti gli Artisti partecipanti hanno unloro linguaggio ceramico ben definito ed,ormai, consolidato dalla loro presenza innumerose mostre personali in Italia edall’estero.Si passa dal dato scultoreo inciso sullasuperficie alla sperimentazione del datocromatico, dalla severità di certa mate-ria scura e scavata con elementi ricor-renti, a volte aggettanti, che rendono tri-dimensionale l’opera lasciando intuireleggende, aneddoti, lotte, aspirazioni gra-zie, pure, alle cristalline, alle colature efenditure magmatiche della materia(Luigi Francesco Canepa, Caterina Mas-sa, Giacomo Lusso) alla ricerca, quasi, diuna propria iconologia ritualizzata e le-gata al presente dinamico, onirico, ric-co di stratificazioni e di linguaggi ancheinnovativi, arricchiti da un proprio “va-demecum” poetico sperimentale (Riccar-do Accarini, Rosanna La Spesa, GianniPiccazzo). Altri si cimentano con formenon solo scultoree ma di origine e sto-ria “popolare” come, per esempio, il“vaso” o altre fogge del quotidiano inuna plastica evocativa e del “fare”esperimentare l’attesa dell’interazione,quasi impensabile, tra gli elementi acqua,aria, fuoco e terra (Gian Genta, LucianaBertorelli, Bruno Grassi, Franca Briato-re) che vogliono ricreare un dramma mo-derno, intenso. Il miracolo della cerami-ca, che si rinnova da secoli, vive tutto ilsuo pathos con l’uso sapiente e perso-nale della tecnica raku (Sandra Cavalle-ri) che nasconde i codici dell’arcaica tra-dizione, rimodulandoli in un tempouniversale. Il fascino di millenni di ge-sti delle mani che traggono dalla cretale forme è presente in Maria PaolaAmoretti per la quale la terracotta è unvalore primordiale fatto di serena armo-nia, la stessa che si può cogliere in que-sta rassegna espositiva sospesa tra ilmare ed il cielo ligustico nel Parco del-le sculture di Rainer Kriester.

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UN OSCAR PER L’ARCHITETTURAdi Gianluigi Gentile

In una recente intervista rilasciata a l’Espresso nel 2007 Oscar Nieme-yer affermava: «Gli architetti lavorano per i governi e per la gente ric-ca: i poveri non offrono contropartita. Quando noi architetti creiamoqualcosa di diverso, il povero guarda l’edificio e ha una sensazione disorpresa. Non partecipa però. la vita è dunque più importante dell’ar-chitettura. In Brasile e nel resto del mondo i ragazzi passano il tem-po a pensare a come diventare vincenti e non invece al mondo che liaspetta. Il lavoro svolto dalla gente che va in strada a protestare è piùimportante del mio. Io sto cercando di dare il mio contributo per unmondo più giusto».Niemeyer ci ha lasciato poco tempo fa, dopo una vita, fortunatamen-te per lui e per noi, lunga e creativa.Tentare un’esegesi vorrebbe dire inoltrarsi su di un terreno già trop-po battuto, è più utile forse prendere spunto dalla sua scomparsa perinterrogarci sull’attualità dell’antinomia fra architettura progressistae architettura conservatrice, nel momento in cui la scomparsa delleideologie sembra far confluire ogni espressione creativa nella spetta-colarità, che spesso ricorre nelle parole di Niemeyer:“Molte opere esprimono complessità, come a voler provocare. Sembraquasi che il vero obiettivo sia apparire, si privilegia la forma, a scapi-to della complessità funzionale”. (L’Espresso 2007)Walter Benjamin dice che il valore politico di un’opera è la stessa ope-ra, un architetto può svolgere il suo compito prescindendo dalla com-mittenza o comunque rinunciando all’incarico.

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La Casa del Fascio di Terragni

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L’identità storica delle ideologie si è lique-fatta, rendendo problematica l’attribuzio-ne di progressista ad un certo modo difare architettura.La storia ha visto declinarsi di continuol’antinomia progressismo/conservazio-ne, ma, secondo la spirale vichiana dei cor-si e dei ricorsi, il discrimen si sposta ver-so l’alto, mentre le fasi storiche sviluppa-no nella loro dialettica pulsioni innovati-ve e conservatrici che possiamo identifi-care tutt’al più per una maggiore o mino-re saturazione del colore dominante,come nel caso dell’affermarsi dell’archi-tettura postmoderna.Posto che la progettualità scaturiscadalla volontà di esprimere contenutispecifici, stabilire un rapporto diretto fracausa ed effetto costituisce un’operazio-ne ideologicamente complessa, nel mo-mento in cui l’espressione artistica nonè dedotta dal processo storico, talvoltaanzi l’anticipa, mentre in altri casi segnala conclusione di un ciclo. La coerenza,l’unità, la continuità dell’opera di Niema-yer emergono dalle diversità, e persinodalle contraddizioni formali di un pro-cesso fondato sul costante superamen-to di prassi consolidate, e sulle stessescelte architettoniche.Un interrogativo di metodo sulla ri-spondenza fra progresso civile ed archi-tettura progressista appare legittimo, mala risposta può essere positiva a condi-zione di spingere l’analisi oltre le sovra-strutture, guardando oltre l’ossimoro di

una committenza acquisita e contesta-ta nel risultato progettuale.Piacentini e Terragni ebbero come com-mittente il regime fascista: il primo ne di-venne l’espressione ufficiale, mentre, se-condo lo storico Rykwert, Terragni co-struì la casa del fascio “per un fascismodi sua invenzione.”Il problema si riconduce dunque non tan-to alla attendibilità democratica di chicommissiona un lavoro, quanto all’auto-nomia dell’architetto nel riconoscere imargini necessari alla salvaguardia delbene collettivo La profondità intellettuale di Terragni lospinse ad esprimere la sua pulsione pro-gressista oltre gli stereotipi del regime,mentre Piacentini volle principalmentetrasmettere un messaggio veicolato daun’espressività omologata. Brasilia costituisce forse la realizzazionepiù significativa della storia di Niemeyer,che si dichiarava apertamente comunista;il progetto, che scaturiva da un’imposta-zione fortemente connotata ideologica-mente, fu realizzato in quattro anni. Interventi come quello citato nascono daun approccio progettuale incompatibilecon l’ideologia conservatrice, per le in-dissolubili connessioni con il progressosociale e civile storicamente recepitidal Movimento Moderno , che fece di que-sta tensione verso il rinnovamento il pro-prio manifesto, assumendola come ipo-tesi di lavoro e come elemento d’ispira-zione progettuale. Alle sue origini sono

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Piazza dei ministeri a Brasilia

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strettamente legati temi come gli studie le ricerche sull’edilizia popolare, l’ana-lisi del rapporto fra la morfologia urba-na e la tipologia edilizia, lo sviluppo del-la problematica ambientale. Nel 1964, Er-nesto Rogers, negli “Editoriali di archi-tettura”scriveva: “Può darsi, e non lonego, che vi possa essere un’urbanisti-ca delle destre conservatrici che non siacontro l’interesse dei più…. Sarei moltointeressato a seguirne l’iter teorico e pra-tico, perché personalmente non lo so im-maginare.” Chi si pone spregiudicatamen-te di fronte ai problemi del reale sa chenell’evoluzione è implicita una tensionecostante, una carica teleologica che pro-ietta il presente in un futuro possibile,Giorgio Labò., che è stato ricordato dapoco al Liceo Classico Colombo di Geno-va, di cui era stato allievo, poco prima diessere arrestato, torturato e ucciso, il 7

Marzo del 1944, scriveva: “sto studian-do urbanistica giorno e notte, non sostaccarmi dal pensiero del volto futuroche dovrebbero assumere le nostre cit-tà restaurate..bisognerà togliere lo svilup-po della città dalle mani della specula-zione per consegnarle a quelle della mo-rale e della dignità; ogni uomo deve fi-nalmente avere una casa dignitosa in unacittà che mantenga i suoi impegni non dialveare, ma di consorzio” È dunque necessario restituire all’utopiala sua concretezza ideologica e propul-siva, indispensabile per predisporre glistrumenti necessari a superare le contin-genze storiche, invece di assimilarlecome alibi, occorre accettare e promuo-vere l’uso della critica e dell’immagina-zione,che indubbiamente costituiscono“la materia di cui sono fatti i sogni” e diconseguenza i nostri progetti.

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Disegno di Sant'Elia per "La citta� futura"

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FOTOGRAFIA OGGI:ARTE O DOCUMENTO? di Guido Alimento

Inventata in Francia verso metà Ottocento, la macchina fotografica siimpose quale strumento per ottenere un’impronta fedele e riprodu-cibile di persone, oggetti o paesaggi. Per questo motivo è stata ed è spesso considerata inadeguata a gene-rare arte. Anche se le stampe di un medesimo negativo possono pre-sentarsi quali “pezzi unici” in base alla tipologia di sviluppo e al sup-porto scelti dall’autore, dai più viene ritenuta un semplice prodottoartigianale. Ciò nonostante i pittori sentirono la fotografia come una minaccia. Gau-guin si trasferì a Tahiti non solo attratto dai suoi esotismi, ma con-sapevole che per continuare a esistere la pittura dovesse differenziar-si dalla nascente rivale. A quella ricerca di luoghi nuovi corrispose undipingere diverso, compresa l’intitolazione di tipo letterario; adesempio: “Sei gelosa?”Più che in Europa la nuova invenzione, semplificata e resa accessibi-le dalla tecnologia, si trovò a suo agio nella mentalità egualitaria e de-mocratica americana e ancora oggi il visitatore del Vecchio Continen-te è colpito, nei musei statunitensi, dalle collezioni di fotografia ac-canto alla pittura e alla scultura; senza alcun complesso.

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Man Ray, The kiss, 1935

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A questo approccio non certo elitario, inquanto provocato dal semplice guarda-re, fa riscontro la povertà dell’oggetto fo-tografico che spesso fissa persone o og-getti tutt’altro che belli o importanti daiquali al contrario può risultare unasplendida foto. Diversamente da un dipinto, l’istantaneanon può trascendere del tutto quel che ri-trae. Spesso tuttavia un’inquadratura taglia-ta in modo particolare o scattata in “quel-le” condizioni del soggetto e/o della luce(di quel momento irripetibile) appare mi-gliore della realtà e racchiude un’aura.In tal senso uno scatto può essere riscat-to dai limiti dell’umano e del sensibile.D’altro canto la fotografia ha contribui-

to a rompere un incantesimo abbastan-za consolidato nell’arte occidentale: ri-trarre gli archetipi, cioè protagonistiideali come la Nike di Samotracia o il Di-scobolo di Mirone; oppure simboli reli-giosi o paesaggi aulici.Anche se ben prima della fotografia sonostate prodotte composizioni certo nonbelle ma folli o bizzarre, fantasiose odrammatiche come le opere di Brueghele Bosch, di Arcimboldo e Goya; o i pae-saggi onirici di Turner.L’influenza della fotografia sulla pittu-ra è continuata nel ‘900. Lo dripping diPollock può richiamare l’automatismo delgesto fotografico. Mentre l’iperrealismoprende le mosse dalla volontà di creare

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Ansel Adams, Yosemite valley clearing winterstorm, 1942

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immagini ancor più fedeli e dettagliatedi quelle fotografiche. Talvolta gli stes-si pittori vedono fotograficamente, comeDe Chirico il quale sembra aver inquadra-to col grandangolare molte sue piazze.L’introduzione del sistema digitale nonha modificato il funzionamento dellamacchina fotografica: premendo il pul-sante di scatto, l’otturatore permette allaluce di imprimersi su una superficie sen-sibile; era la pellicola nell’analogico ed èil sensore nel digitale. La rivoluzione sta a monte, nel fatto che(è stato scritto) “nell’immagine – infor-mazione digitale i numeri hanno presoil posto delle figure e ogni criterio di ve-rosimiglianza crolla.”Perciò i programmi di elaborazionesono tanto invasivi che la fotografia puòtrasformarsi da specchio della realtà aespressione non solo dell’occhio madel sentire del fotografo.In particolare dipingendo i suoi lavori eglisi sente libero di affrontare gli stessi temicosmici, esistenziali e religiosi delle al-tre arti o di fantasticare verso l’astrazio-ne e il simbolismo.Andando oltre la mission originaria di ri-produrre la realtà.Alcune capitali europee hanno accolto unamostra di Salgado sui paesaggi incontami-nati, intitolata “Genesi”: dinanzi a scena-ri non diversi rispetto all’origine del mon-do ci si sente in armonia col dinamismouniversale sperimentando la beatitudinedi un tempo eterno, altrove perduta. Lì inparticolare si manifesta la sacralità dellanatura la quale crea infinite immagini e sifa arte, in primo luogo grazie al fluire del-l’acqua e dei suoi derivati.Il fotografo deve non solo assecondarema spingersi senza presunzione oltre talifantasie, anche mediante il fotoritocco.Alla fotografia è indispensabile la presen-za umana: se il fotografo manca o nonsi è preparato per tempo allo scatto il suolavoro nemmeno nasce.Mentre un quadro dipende interamentedalla mano del pittore, il click equivalea premere frizione, freno o acceleratoredi un’automobile; automatismi che coe-sistono con la valutazione del guidato-re. Così il fotografo deve predisporre l’ap-

parecchio prima di inquadrare: in manua-le o in automatico; assecondando oesaltando i contrasti e le luci intense; bi-lanciando i bianchi… Comunque c’era(non poteva non esserci) e ha assapora-to fino in fondo la propria visione.Sta a lui decidere, rivivendo i suoi scat-ti sullo schermo del computer, se comee quanto intervenire in post produzione.Alcune foto non necessitano di elabora-zione in quanto esprimono compiuta-mente il suo messaggio, ma non è det-to che siano le migliori.Infatti uno scatto fotografico rispondenon solo alla vista ma più o meno a tut-ti i sensi potendo essere scatenato ancheda un profumo di fiori o dal guizzo di unpesce invisibile nel fondale.O dal sentire segreto del fotografo in quelmomento: gioia, tristezza, paura, scon-certo… Se vuole rendere questi “infoto-grafabili” interverrà disegnando e colo-rando, allungando a sua discrezionel’attimo dello scatto.

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Henri Cartier Bresson, Davanti alla Gare Saint Lazare, 1932

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Non si tratta di arbitrio in quanto il filedigitale è fatto per accogliere una simi-le azione. Né attesta una presunta fun-zione ancillare della fotografia rispettoalla pittura, in quanto come le altre artila fotografia ha a che fare anche con poe-sia e musica. Se il fotografo cerca di in-fondere poesia al proprio lavoro, a suavolta la grande poesia si manifesta nonsolo come suono ma anche mediante im-magini, spesso colorate.Ungaretti chiude “Vanità” con questoflash dando eco a un riflesso che pianpiano viene meno: “L’uomo curvato sul-l’acqua … si rinviene un’ombra cullata epiano franta”. Se l’ “Infinito”, nascosto dauna siepe, è più non vedere che vederelasciando spazio all’ascolto dello “stor-mir” di fronde, in “A Silvia” Leopardi co-lora con una patina le “vie dorate” e le“negre chiome”.Il colore rimanda al suono, come è sta-to teorizzato e messo in atto dal musi-cista russo Skriabin.Sotto l’influenza di simili suggestioni ilfotografo ricercherà la forza lieve, la vocesegreta, il colore nascosto delle personee delle cose e questo lo sospingerà oltreil file documentale.La camera è invenzione tecnologica maanche culturale basata sulla luce: men-tre al sentire cinese essa appare incertae ingannevole, l’Occidente sia biblico chegreco l’adora, insieme al fuoco. Basta pen-sare al “fiat lux” o al roveto ardente; almito platonico della caverna o al dire diEraclito: “la folgore governa ogni cosa”.Nella luce sentiamo certezza di continui-tà, ma basta un click per interromperla.Quel gesto alla portata di chiunque testi-monia la fotografia come altro rispetto allasua funzione originaria, meccanicamenteriproduttiva: cogliendo particolari chesfuggono allo stesso fotografo, essa testi-monia una funzione rivelatrice e magico– religiosa e in qualche modo assecondalo svelarsi al saggio, dal buio e dell’occul-to, del Tao quando recita: “Le immaginiemergono dal sottile mistero”. Bloccando frazioni della realtà dinami-ca, attesta che tutto è caduco, tanto chespesso è uno scatto non premeditato adavviare un “progetto”. Perciò il fotogra-fo non può mantenere un proprio stile.

Queste caratteristiche di spontaneità escarsa programmabilità allontanano la fo-tografia dal cinema, anche se oggi non po-chi lavori sono tableaux vivant costruiti allostesso modo degli spezzoni dei film conattori in posa e adeguata scenografia.Contemporaneamente un fotogrammarende struggente qualcosa che senzadubbio è mutato o scomparso ma che inquel momento è stato (il così detto noe-ma) prolungandone la vita verso l’eter-nità e fissando la memoria di persone,eventi o monumenti scomparsi, invec-chiati o degradati.In un certo senso la fotografia riprende ilvolo degli angeli i quali lasciano dietro disé una scia di luce “vergine” che non ab-baglia; la stessa ricercata dai fotografi.Più che parlare, gli angeli suonano can-tano e apprendono in un baleno, illumi-nati da una forza originaria che riluce erisuona come onde marine o torrentimontani. Il loro decidere è un click immediato eirrevocabile. Al contrario gli uomini co-noscono solo i nomi delle cose sfuggen-do loro la realtà segreta e profonda di ciòche nominano. Ma proprio in quanto limitati, abbiamo lapossibilità di riflettere sulle nostre azio-ni e di tornare sulle nostre decisioni.Se la fotografia analogico – documentalepresenta aspetti ultra umani, presupponen-do il fotografo quale semplice spettatore,sia pur attivo, il post produzione digita-le gli premette di riappropriarsi per inte-ro della sua creatività, in sintonia con l’im-maginazione della natura.

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Sebastião Salgado, Genesi, 2005

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ARTE INUIT A MARTIGNYMartigny, piccola perla del Vallese, rivelaun’infinità di tesori da scoprire acominciare dalla Fondazione Bernard eCaroline de Watteville cui si deve la nascitanel vecchio arsenale (vicino all’anfiteatro

romano e alla straordinaria FondazioneGianadda) del Musée et chiens du GrandSaint Bernard dove è possibile scoprireattraverso opere d’arte e documenti lagloriosa storia del Passo e del suo celebreOspizio e ammirare la parte vivente diquesto Museo, i leggendari cani: tantoimponenti quanto mansueti, nel passatohanno contribuito a salvare molte vite noncon il barilotto frutto di una pubblicitàinventata, ma con la capacità d’individuarechi si era disperso e oggi, allevati in modoeccellente in megacucce con tanto didehors, si possono coccolare nel rispettodei loro impegni.

Sensibile alle culture del freddo cui hadedicato alcune esposizioni, il Museo, inattesa della grande mostra sul vetro del2014, espone affascinanti e misteriosesculture inuit provenienti dalla collezioneprivata di Bernard de Watteville e realizzateda artisti famosi a livello internazionale.Singolari i materiali usati: dalle ossa dibalena alle mascelle di tricheco per oggettiche riflettono il credo, gli antenati e unacultura antica a rischio dopo che dagli anni‘50 gli Inuit - così è denominata una partedella popolazione indigena sparsa nelleestese regioni costiere artiche e subartichedi America settentrionale e del nord-estdella Siberia - hanno perso il millenarioisolamento e alcune abitudini tra cuil’igloo, tipica abitazione di ghiaccio.Particolare rilievo è dato a ManasieAkpaliapik (zona Artic Bay, Nunavut, 1955)che ha appreso a scolpire osservandoattentamente nonni e zia al lavoro e che,dopo il tragico incendio che gli ha distruttola famiglia che si era creato, si èinteramente dedicato alla sculturaapprofondendo la cultura tradizionaleanche allo scopo di trasmetterla alle nuovegenerazioni insieme ai valori basati sulrispetto degli anziani e degli animaliindispensabili in passato per lasopravvivenza. Convivono così nelle suecreazioni animali e uomini come in Spirito:tricheco e uomo in simbiosi da sempre.↪ ARTE INUIT A MARTIGNYMartigny/CH: Musée et Chiens du Saint-Bernard, Rue du Levant 3410.00 – 18.00 tutti i giorni (chiuso lunedìda ottobre a maggio)Fino a gennaio 2014Biglietto Museo: intero frs 12.00, senior (da60 anni) frs 10.00, bambini (8-16anni)/studenti (fino a 25 anni) frs 7.00,famiglia frs 25.00. Riduzioni per gruppi dialmeno 10 persone. Audioguida frs 3.00Informazioni e prenotazioni: 0041 (0)27 7204920,www.museesaintbernard.chNB: Per chi utilizza l’auto percorrendo iltunnel del Gran S. Bernardo il ‘pedaggio diritorno’ (entro tre giorni) in Italia è gratuitopresentando la ricevuta di andata e ilbiglietto di ingresso al Museo

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ANDANDO PER MOSTRE di Wanda Castelnuovo

Spirito di Manasie Akpaliapik

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LONTANANZEItinerari di viaggio di artisti tirolesi etrentini dal 1800 ad oggiLa volontà di conservare la cultura locale èil motore che fa nascere nel 1912 il “Museodi Brunico”.È il magistrato brunicense PaulTschurtschenthaler che promuove lafondazione del “Museums-Verein” nella“Magistratsgebäude” (oggi scuola media “KarlMeusburger”), utilizzando un migliaio tradipinti, rilievi, armi, oggetti della tradizione

popolare, monete, libri e documenti storicifacenti parti di una collezione acquistata dalComune di Brunico.Allo scoppio della prima guerra mondiale, ilpatrimonio museale dopo varie traversiegiunge negli scantinati del Museo Civico diBolzano da cui, depauperato anche percattiva conservazione, nel 1938 torna aBrunico ospitato pro tempore presso il‘Museo Provinciale degli Usi e Costumi’ diTeodone finché grazie all’impegno dellaneonata “Associazione Pro Museo Brunico”nel 1995 è fondato il nuovo “Museo Civico”cui oggi servirebbero spazi maggiori vistoil notevole incremento delle collezioni.Il Museo ospita - oltre a pezzi storici digrande qualità - un’intrigante mostra

temporanea che dà il polso del desiderio dievasione, libertà, avventura che da sempree in particolare dal XVIII secolosull’esempio di Goethe ha spinto artistitirolesi e trentini, a superare confini,convenzioni e costrizioni abituali perspingersi verso Roma il cui vivace quartieredi Piazza di Spagna pullula all’epoca distranieri affascinati dalla seduzione anticae da una luce smagliante proprie anche dialtri luoghi della Penisola.Splendide tra le altre testimonianze il Maretempestoso di Gottfried Seelos, l’oniricaAmalfi di Franz Richard Unterberger, leBarche di pescatori sulla spiaggia di Amalfidall’atmosfera sognante di Alois Delug, ilmagnifico Mare con barche di Carl Moserche ci trasporta in acque bretoni o in unCanale di Parigi con la neve. Dopo l’Italiadunque Parigi, simbolo di progressismo, lacui atmosfera è resa ironicamente daglieccezionali disegni di Eduard Thöni,l’Olanda (dove Albin Egger-Lienz trovaispirazione) e successivamente Siberia,Suadamerica, New York… e ogni altradestinazione capace di ispirare schizzi:visioni indimenticabili.Un’occasione per scoprire realtà pococonosciute e una cittadina deliziosamentesegreta.↪ LONTANANZE Itinerari di viaggio di

artisti tirolesi e trentini dal 1800 ad oggiBrunico/Bz: Museo Civico di Brunico, ViaBruder-Willram 1agosto 10.00 – 12.00 e 15.00 – 18.00 tuttii giorni; dal 1 settembre 15.00 – 18.00 mar,mer, gio e ven e 10.00 – 12.00 sa e do,lunedì chiusoFino al 27 ottobre 2013Biglietto mostra: intero € 2.50, ridotto €1.50, fino a 6 anni gratuitoInformazioni e prenotazioni: tel. 0474 553292, fax 0474 410685,www.stadtmuseum-bruneck.itCatalogo: Associazione Pro Museo diBrunico Editore

MODIGLIANI e l’Ecole de ParisA Martigny, deliziosa città svizzera in cuisono coniugati in modo intelligente passatoe presente, la Fondation Gianadda raccontacon un’ottantina di capolavori il dinamicoambiente artistico di inizio ‘900 a Parigi chedai quartieri prima di Montmartre e dopo ilprimo conflitto mondiale di Montparnassetrasmette libertà e gioia di vivere anche se

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Alois Delug Barche di pescatori sullaspiaggia di Amalfi

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pennellate di miseria e dolori e dove dominala pittura impressionista fautrice deldipingere en plein air.Una multiforme avanguardia - battezzata nel1925 Ecole de Paris da André Warnod,giornalista del Figaro - converte stalle e

depositi in atelier per pittori, si ritrova ai barDôme e la Rotonde e al cabaret Le Lapinagile (immortalato con tratto melanconico daMaurice Utrillo) e annovera personaggidiversi ed emblematici: dagli Impressionistiai Fauve, a Picasso con Les Demoisellesd’Avignon (dipinto innovatore del 1907).Tra gli altri Amedeo Modigliani (Livorno1884 - Parigi 1920), soprannominato Dedo,incarna il mito dell’artista maledetto:gracile di salute ed educato all’interno diuna famiglia ebraica, manifesta unanotevole indipendenza tanto che, lasciatala città natale nel 1906, compie un grantour al rovescio giungendo a Parigi dovenell’ambiente artistico stringe profondirapporti di amicizia: dipinge i ritratti diBrancusi (scultore, arrivato a piedi dalla suaRomania, con cui Modigliani intaglia testeieratiche dagli accentuati tratti verticali),

Soutine, Kisling, Juan Gris, Diego Rivera,Lipchitz, Survage, Picasso… divenendo uneccezionale memorialista di quel vivace evulcanico periodo.Una vita breve, sofferta e minata da alcol edroghe che ne consumano il fragile corpo,ma non gli ha impedito di lasciare pitture esculture di geniale originalità.Si possono ammirare l’amato mecenateJean Alexandre, la Tête de femme auchignon in cui convivono antico emoderno, la dolce Lolotte e i ritrattidedicati alla compagna Jeanne Hébuterneche non reggerà alla sua scomparsa oltre aFillette au tablier dai tratti finissimi: sonoalcune delle splendide opere quasi tuttevenate di melanconia.↪ MODIGLIANI e l’Ecole de ParisMartigny/CH: Fondation Pierre Gianadda,Rue du Forum 599.00 – 19.00 tutti i giorniFino al 24 novembre 2013Biglietto mostra: individuale: adulti € 16.00(Fr 20), senior € 14.50 (Fr 18), famiglie €33.50 (Fr 42), studenti fino a 25 anni €9.50 (Fr 12);gruppi: adulti € 14.50 (Fr 18), senior € 13.00 (Fr 16), bambini/studentifino a 25 anni € 8.00 (Fr 10)Consente di visitare anche il Museo gallo-romano, il Parco delle sculture, laCollezione Franck, il Museodell’automobile. Il prezzò in euro varia con il cambioNB: Per chi, anche in pullman, utilizza iltunnel del Gran S. Bernardo il ‘pedaggio diritorno’ (entro tre giorni) in Italia è gratuitopresentando la ricevuta di andata e ilbiglietto di ingresso alla FondationGianadda.Informazioni: 0041 27 7223978,www.gianadda.chCatalogo: Fondation Pierre GianaddaEditore

CAPOLAVORI DELLA FONDAZIONE OSKARKOKOSCHKASplendida scoperta Vevey, amena cittadina(tappa del ‘Grand Tour’, viaggio degliaristocratici del passato) di originepreistorica sita sul Lago Lemano, con il suointrigante Museo Jenisch da pocorestaurato.L’edificio in stile neoclassico risale al 1897quando è inaugurato grazie alla prodigalitàdi Fanny Jenisch, riconoscente per le ore

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Modigliani Fillette au tablier noir 1918

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felici trascorse a Vevey con il marito (unsenatore di Amburgo), e dotato di unareplica del fregio del Partenone sulfrontone, di una biblioteca e di animaliimpagliati (famosa la giraffa).Il recente restauro lo ha reso unicamentespazio espositivo: sede della CollezioneCantonale delle Stampe e della FondazioneOskar Kokoschka, ospita mostretemporanee tra cui una splendida dedicataall’affascinante lago Lemano e un’altra che,in occasione dei 25 anni della Fondazione

(creata nel 1988 da Olda, vedovadell’artista, che ha scelto come sede Veveypoco lontano dalla sua casa di Villeneuve),presenta i più affascinanti lavori diKokoschka (Pöchlarn/Austria 1886 –Montreux 1980), pittore espressionista, dicui illustrano le fasi artistiche da quandonel 1904 studia presso la Scuola di ArtiApplicate di Vienna fino alla scomparsa.Significativi la Madonna Lassing, primaopera a soggetto religioso, Paesaggioungherese la sua prima del genere e ancorai quadri dipinti nel corso dei suoi viaggi inparticolare nell’Africa del Nord. Risalgono aquesto periodo Il Marabutto di Temacine,pittoresca oasi tunisina non lontana da unlago salato nella quale incontra l’altodignitario spirituale e politico -appartenente a una famiglia che hadominato la regione dal XIII secolo - da cui

emana un’aura di grande dignità, e Donnearabe con bambino palpitante di vitaquotidiana e vibrante di contrasticromatici.Formidabile ritrattista, cerca di coglieresentimenti, carattere e indole, insommal’anima del modello, come dimostrano glisplendidi disegni e l’Autoritratto (dipinto aFiesole) in cui, pur manifestando sicurezzae serenità rispetto a quello del 1937, nonriesce a cancellare quel sensod’inquietudine sofferta propria della naturaumana.↪ CAPOLAVORI DELLA FONDAZIONE

OSKAR KOKOSCHKAVevey/CH: Museé Jenisch, Avenue de laGare 210.00 – 18.00 martedì, mercoledì, venerdì,sabato e domenica10.00 – 20.00 giovedìlunedì chiusoFino al 17 novembre 2013Biglietto mostra e museo: intero frs. 15.00,pensionati frs. 13.00, gratis fino a 25 anniInformazioni: 0041 21 9253520,www.museejenisch.ch,[email protected]: Coedizione MuseéJenisch/Fondazione in memoria di OskarKokoschka

IL FERVORE DI PIETRO IL GRANDEAmstelhof - ex casa di riposo in stileclassico, costruita grazie all’eredità di unricco mercante nel 1682 lungo il fiumeAmstel dall’architetto Hans van Petersomper conto della diaconia della ChiesaRiformata olandese, ha ospitato inizialmente400 anziane (all’epoca si era considerate talia 50 anni!) e dal 1817 anche maschirimanendo attiva fino al 2007 - è statatrasformata grazie a un accurato lavoro direstauro nella sede olandese del MuseoHermitage di S. Pietroburgo, inaugurata adAmsterdam nel 2009.Un cambiamento solo all’apparenzaazzardato che ha radici, invece, nei lontanirapporti tra i Paesi Bassi e colui che si puòa buon diritto considerare il fondatore dellaRussia moderna, Pietro il Grande (Mosca1672 - Pietroburgo 1725) che, nell’annodedicato alle relazioni con la Russia, ècelebrato da un’affascinante, straordinariae imperdibile mostra che ne evidenziastatura intellettuale, fisica, morale e praticaal di fuori della norma in un’epoca in cui la

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Autoritratto

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Russia è arretrata.Primo figlio di secondo letto dello zarAlessio, rappresenta una sorpresa dopo 13figli cagionevoli di salute: aitante, vivace,curioso, sensibile anche se collerico,festaiolo, capace di leggere e un po’ discrivere e amante fin dall’infanzia dell’artemilitare, costruisce per gioco ‘reggimenti’che gli sono utili durante i terribili edolorosi contrasti per l’ascesa al poterebagnato dal sangue di familiari del ramomaterno.Anticonformista, è attirato dal quartierestraniero dove, oltre a fare bisboccia,conosce attraverso mercanti, medici,militari… un mondo occidentale diverso edevoluto che visita per mezzo di dueambascerie con l’intento ufficiale di crearsialleanze contro l’Impero Ottomano, ma conquello ufficioso di apprendere nuovetecnologie anche nell’ambito dellecostruzioni navali per solcare quel mareper il quale ha concepito una passioneassoluta ad Arcangelo, unico portomarittimo del regno, e che lo convince atrasformare la Russia in una potenza

marittima.Politica estera e interna si mescolanoall’amore per il nuovo e alle riforme in ognisettore e così questo vulcanico ecarismatico personaggio, attratto dagli

avanzati Paesi Bassi di cui conoscel’olandese, appassionato viaggiatore(splendido il suo Laboratorio farmaceuticoda viaggio) e socievole con gli umili e con igrandi si ritrova ospite di un fabbro inquella che oggi si chiama Casa di Pietro o alavorare come falegname navale con ilnome di ‘mastro Pietro’ o ancora afrequentare il teatro anatomico del Waag,ad apprendere i rudimenti di anatomia dalmedico, anatomista e botanico FrederikRuysch, a studiare geometria, fisica… adacquistare animali imbalsamati, a fareimbalsamare la propria cagnetta Lisetta… afondare scuole, un laboratorio astronomicofino a creare una nuova città, SanPietroburgo, ‘finestra sull’Occidente’,corredandola della prima collezionepubblica in cui attira i visitatori con unbicchierino di vodka…Tutto questo e di più racconta la mostra diopere appartenute allo zar di cui alcuneprodotte da lui stesso come diletto e qualidoni: un fascino ben sintetizzato nelRitratto di Pietro il Grande di Jean-MarcNattier.↪ IL FERVORE DI PIETRO IL GRANDEAmsterdam: Hermitage Amsterdam, Amstel 5110.00 – 17.00 tutti i giorniFino al 13 settembre 2013Biglietto mostra: intero € 15.00, ridotto €12.00, ridotto 6-12 anni € 5.00Informazioni: 0031 (0) 205308755,www.hermitage.nlCatalogo: Heleen van Ketwich WerschuurEditore

PRIMA E DOPO LA SECESSIONE ROMANAPittura in Italia 1900-1935L’intrigante esposizione di Viareggio gettanuova luce sulla composita e complessatemperie culturale contestuale alle quattromostre della Secessione Romana (dallaprima del 1913 all’ultima del 1916)partendo, però, per ulteriore comprensionedalla Belle Epoque fino al rinato classicismodegli anni ‘20 e ’30 sottoposto a una lungadamnatio memoriae.Se all’inizio del ‘900 i ribelli sono Marinetticon la pubblicazione su Le Figaro delManifesto del futurismo e de Chirico che,pur ispirandosi al classico, lo presentaattraverso visioni frutto del subconscio, èinnegabile che dalle quattro esposizioni siascaturito un insieme di idee che hannoaperto la nostra cultura all’Europa.

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Laboratorio farmaceutico da viaggio diPietro il Grande

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La mostra inizia con la sezione “Sottol’impulso del nuovo secolo” che radicaverso la metà degli anni ’80 dell’800quando, venuta meno la fiducia nellaragione e nella scienza, si cerca discandagliare l’interiorità. IntroduceGiuseppe Pelizza da Volpedo che conL’annegato mostra quella sensibilità versoil ‘socialismo umanitario’ tipica deldivisionismo italiano ed evidente ne Loscaccino (unica scultura esposta) diMedardo Rosso; tra le altre testimonianzesplendide La madre di Giacomo Balla e ilRitratto del pittore Utter di Gino Severini. AFirenze Ardengo Soffici fissa in modomagistrale la tensione de I giocatori.La seconda sezione, “Il clima delleSecessioni Romane”, racconta lapoliedricità dell’espressione artisticaitaliana tra divisionismo, sintetismo,cézannismo, espressionismo,primitivismo…: artisti diversi quali adesempio Felice Casorati, Armando Spadinicon i suoi sfumati Giardini del Pincio, PlinioNomellini… - influenzati da linguaggifrancesi, mitteleuropei e nordici e allaricerca di una caratterizzazione - siesprimono in modo vario ponendocomunque le basi del futuro.L’ultima, “Ritorno all’ordine. NovecentoItaliano e oltre”, parte con il ‘rappel àl’ordre’ dallo scoppio del primo conflitto

mondiale purificando e ricostruendo unanuova classicità che manifesta la suamaturità con Achille Funi e Mario Sironifino al fascino espressionistico di OttoneRosai e Fausto Pirandello.Un fluire di stimoli.↪ PRIMA E DOPO LA SECESSIONE ROMANA

Pittura in Italia 1900-1935

Viareggio/LU: Centro Matteucci per l’ArteModerna, Via D’Annunzio 28fino al 15 settembre: 17.00 – 23.00 da lunedì a venerdì10.00 – 13.00 e 17.00 – 23.00 sabato e domenicadal 16 settembre: 15.30 – 19.30 damartedì a venerdì10.00 – 13.00 e 15.30 – 19.30 sabato edomenicalunedì chiusoFino al 3 novembre 2013Biglietto mostra: intero € 8.00, ridotto € 5.00Informazioni: tel. 0584 430614, fax 0584 54977,www.centromatteucciartemoderna.itCatalogo: Edizioni Centro Matteucci

MARIO SCHIFANO 1960 -1970A dispetto dell’attuale congiunturaeconomica il Castello Pasquini presentaun’intrigante mostra che raccontaattraverso un’ottantina di opere il primodecennio di attività di Mario Schifano(Homs/Libia 1934 - Roma 1998), tra i piùnoti artisti del secolo scorso in Italia eOltreoceano, capace di dare una rispostaitaliana originale e ironica alla pop artamericana con i marchi Esso e Coca Cola,espressioni pubblicitarie della società deiconsumi.Trasferitosi con la famiglia a Roma, neglianni sessanta s’innesta nel filonedell’informale fino alla conversione ai‘monocromi’ che insieme ai ‘paesaggianemici’, ai ‘televisori e ad altre operecostituiscono la base del suo futuro lavoro.Confluiscono nei suoi lavori suggestionidell’infanzia trascorsa in Libia come lestelle e le palme, ammirazione per ilFuturismo considerato fulcro deimovimenti artistici successivi e influssidella contemporaneità nelle sue sfaccettateespressioni che vanno dalla pubblicità allacronaca fino al rivoluzionario Sessantottorivisto con gli occhi critici di un artista cheriflette e spinge a meditare e ponderare.Un fluire di stimoli: da Congeniale, smaltosu carta intelata dal colore compatto chediverrà più tardi schermo del televisore,insieme finestra sul mondo e specchio perguardarsi, a Particolare di paesaggio, doveogni particolare si sopprime dando luogo avisioni/immagini appiattite e ‘anemiche’ eancora a Futurismo rivisitato con la famosa

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fotografia del gruppo variamenteinterpretata a Tutte stelle con la loroventata di ottimismo fino a Sulla giustasoluzione delle contraddizioni in seno allasocietà con il suo anelito a una giustiziache oggi sembra essere fagocitata dallaprotervia di un male rivestito di bene.

Il 1963 annuncia la presenza dei “paesaggianemici”: racconti di visioni appiattite,dove lo spettro cromatico si impoverisce eogni elemento descrittivo si annulla. Haaffermato in proposito Maurizio FagioloDell’Arco: “Niente cielo, niente tramonto,niente panorama; o meglio, il fantasma delpanorama, del tramonto, del cielo”. La produzione del 1967 si concentra inparticolare sui paesaggi stellati e sulle“palme”. Così l’artista recupera lo spiritodella terra natale attraverso toni squillantie antinaturalistici. Per lui la palma è unsimbolo di appartenenza. Invece lasequenza denominata Tuttestelle nonrimanda a una contemplazione del cielo,ma alle luci riflesse dalle insegne dei localinotturni che Schifano riproduce sulla tela

usando sagome stellate su cui intervienecon spray fluorescenti.L’ultima sala espositiva è dedicata alla serieCompagni Compagni del cui sloganrivoluzionari fanno da sfondo a personaggiche impugnano la falce e il martello.In chiusura si incontrano i “paesaggi TV”,concepiti tra il 1969 e il 1970. Questeimmagini di fatti significativi e spessodrammatici, trasmessi dalla televisione,vengono riportate da Schifano su telaemulsionata e sottoposte a un interventopittorico. Questo il commento dell’artista:“Naturalmente ciò che mi interessava nonera la cultura della TV, ma la culturadell’immagine della televisione”.Per approfondire questo aspetto,l’esposizione sarà accompagnata dallaproiezione dei film realizzati dallo stessoSchifano e delle interviste da lui rilasciatenel corso degli anni.↪ Mario Schifano 1960 -1970Castiglioncello (Rosignano M.mo/Livorno):Castello Pasquini, Piazza della Vittoria17.00 – 24.00 (fino all’8 settembre) damartedì a domenica10.00 – 18.00 (dal 10 settembre) damartedì a domenicalunedì chiusoLa biglietteria chiude un’ora primaFino al 6 ottobre 2013Biglietto mostra: intero € 5.00, ridotto € 3.00Info: Ufficio Cultura Comune di RosignanoM.mo, tel. 0586 724.395/496, Fax 0586 724286,www.comune.rosignano.livorno.it,www.castiglioncellomostre.itCentro per l’arte Diego Martelli, tel. 0586 759012 (in orario mostra)Catalogo: Skira Editore

VAN GOGH ALL’OPERAIl museo Van Gogh - composto da dueedifici di cui il principale progettato nel1973 dall’architetto Gerrit Rietveld e la salaesposizioni nel 1999 da Kisho Kurokawa -ha riaperto i battenti dopo un’operazione dirinnovo con un’eccellente esposizione,frutto di un lungo lavoro di ricercacompendiato nello splendido catalogo.200 pezzi (150 tele, documenti, lettere,taccuini di schizzi, tubetti di pittura el’unica tavolozza conservata) disposti inmodo tematico su quattro piani raccontanocome Vincent van Gogh (Zundert 1853 -

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Sulla giusta soluzione delle contraddizioniin seno alla società

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Auvers-sur-Oise 1890) - figlio di un pastoredella Chiesa Riformata Olandese e dotatodi una particolare sensibilità che lo porta ascelte anche affettive in contrasto con lafamiglia e a una difficoltà d’inserimento nelmondo lavorativo - dopo un inizio difficile,abbia acquisito applicandosi condeterminazione un suo stile.Interessante la comparazione con i suoicontemporanei dai quali ha tratto ispirazione

e straordinario potere osservare almicroscopio campioni di vernice o analizzarescansioni a raggi X: un modo nuovo eaffascinante di entrare nelle opere d’arte.A 27 anni Vincent decide - consigliatoanche dal fratello Theo che lo sosterrà pertutta la vita non solo economicamenteessendo collezionista anche delle opere delfratello - di dedicarsi a un antico amore: lapittura.Autodidatta, si forma presso Accademie,Musei e amici pittori e in soli dieci anniproduce un numero straordinario di dipinti,disegni, acquarelli, litografie e schizzi su

lettere: preziose testimonianze rivelatricidel suo carattere e della sua vita faticosache lo porterà dopo il mancatoriconoscimento del suo lavoro el’angosciosa malattia al dramma finale.Un continuo vagare prima in Olanda doveinizia a dipingere oltre al paesaggio uominial lavoro sulla scia di Jean-François Millet,opere preparatorie a I mangiatori di patate,poi a Parigi dove abita con il fratello nelquartiere degli artisti (incontra tra gli altriPaul Signac e Henri de Toulouse-Lautrec) edipinge 27 autoritratti sperimentando latecnica neo impressionista influenzatoanche dalle xilografie giapponesi e ancoranella luminosa terra di Provenza prima adArles dove vive nella famosa Casa giallainsieme a Paul Gauguin: la tumultuosa finedel sodalizio vede manifestarsi in modoplateale la malattia che lo spinge a farsiricoverare all’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy (vicino ad Arles).L’ultimo periodo a Auvers-sur-Oise, paese diartisti vicino a Parigi, sostenuto dall’amiciziadel dottor Gachet non cancella la suamelanconia e il suo timore per il futuro. Ilfratello scompare sei mesi dopo e la moglieha voluto che riposassero insieme.↪ Van Gogh all’operaAmsterdam: Museo Van Gogh, PaulusPotterstraat 79.00 – 17.00 da sabato a giovedì (9.00 –18.00 dal 27 dicembre al 5 gennaio 2014)9.00 – 22.00 venerdìFino al 12 gennaio 2014Biglietto mostra: intero € 15.00, gratuitofino a 17 anniInformazioni: tel. 0031 (0)20 5705200, fax0031 (0)20 5705222,www.vangoghmuseum.comCatalogo: Mercatorfonds Editore (Bruxelles)

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Van Gogh Casa gialla

Photissima Art Fair IIIEx Manifattura Tabacchi - Torino7 – 10 novembre 2013Dal 7 al 10 novembre, all’interno dell’ex Manifattura Tabacchi di Torino, si svolgerà la III Edi-zione di Photissima Art Fair, confermando il ruolo guida della città nello scenario contempora-neo. Un evento interamente dedicato alla fotografia che concorre per importanza con il notoMilan Image Art Fair (MIA), coinvolgendo gallerie d’arte, fondazioni e accademie specializzatenell’universo fotografico in tutte le sue declinazioni e una selezione di artisti mid-career.

iniziative per gli artisti per consultare

il regolamento completo:www.satura.it

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I GIORNI DELL’ARCOBALENOAntonio SkármetaEinaudi, 170 pp., 19€

Nel 1988, dopo quindici annidi feroce repressione, il Cilesembra un Paesecompletamente assuefatto alterrore e alla violenza: icittadini sono come “iprigionieri del mito dellacaverna di Platone” chepotevano guardare solo leombre delle cose reali. Anchein una situazione cosìdisperata, la musica e laletteratura conservano il loropotere universale e hannoancora la capacità di porredegli interrogativi e dirisvegliare l’allegria assopitanel cuore della gente. Quandol’arroganza della dittaturaindice un referendum pro ocontro Pinochet, pochipensano che la campagna peril No – trasmessa solo perquindici minuti – abbiaqualche possibilità disuccesso: sono troppi gliindecisi, quelli che hannopaura delle conseguenze delvoto. Persino il pubblicitarioAdrián Bettini non è

fuggente” di Peter Weir.IL CASO NERUDA Roberto AmpueroGarzanti, 332 p., 18,60 euro

Lo scrittore cileno RobertoAmpuero torna alle originidel suo detective CayetanoBrulé, un investigatore “delSud” (come direbbe LuisSepúlveda) che nasce dalsincretismo culturale, dallarealtà disordinatadell’America Latina e qui siconfronta con la complessitàgeopolitica degli anniSettanta. In quell’epoca difermenti, le cosiddette“Grandi Narrazioni” nonerano tramontate e il mondosi divideva in due blocchicontrapposti cheperseguivano diversi idealidi purezza. Ma in questoromanzo, come nella vita,non ci sono fenomenimonolitici: ogni scenariorichiede uno spostamentotanto fisico quanto mentale.Assumendo un punto divista eccentricamentefemminista, l’autore affrontail mito nazionale di Neruda,restituendone un profilo

convinto. Non è possibile chela formula vincente stia nellasemplicità spensierata di unvalzer di Strauss riadattato.L’immaginario collettivo èpieno di ricordi bui chedifficilmente sicancelleranno, ma forseproprio la leggerezza dellatelevisione può far presasulle coscienze avvelenate.Sotto le macerie dellademocrazia, l’amore puòimprimere una nuovadirezione agli eventi. Comemostra la bella foto scelta perla copertina, i giovanisentono la necessità delcambiamento e sono pronti aspiccare il salto verso lalibertà, interpretando il lororuolo e cercando le rispostetra le righe dei grandi classiciche si studiano a scuola onegli idoli della cultura pop.Nico Santos e Patricia Bettinisono tra quei ragazzi checonoscono i frammentiellenici e leggonoShakespeare e Dante,riscoprendone l’attualitàgrazie agli insegnamenti deldocente di filosofia e delprofessore d’inglese RafaelParedes; ma nei giorni cheprecedono il plebiscito, tuttopare sul punto di precipitareperché la scia di sparizioni edi sangue non accenna afermarsi. Antonio Skármetacostruisce con delicata poesiauna storia che erainizialmente destinata alteatro e che diventerà la baseper il film di Pablo Larraín“No – I giornidell’arcobaleno”, anche se nelromanzo lo sguardo degliadolescenti e il loro bisognodi resistere danno un tonodiverso alla vicenda,ricordando “L’attimo

SPECIALE CILE di Elena Colombo

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umano e credibile, pieno dipregi e di debolezze. Nellafinzione, è lui ad affidare ilprimo incarico a unospaesato Cayetano che,appena arrivato a Valparaísodal sole della Florida, viaggiaalla ricerca di una personascomparsa, armato di unascorta di gialli di Simenon edel suo intuito per chiarire ilati bui di un’icona dellaletteratura. Don Pablo è unapersona che, cambiandosinome e travestendosi, hasaputo reinventare se stessoe celarsi dietro ai versid’amore e d’impegnopolitico che hannoinfluenzato e plasmatointere generazioni. Latradizione artistica che parteda La vita è sogno diCalderón de la Barca insegnache l’esistenza è una sfilatadi maschere nella qualeognuno interpreta i ruoli chegli vengono assegnati dallepressioni interne ed esterne.I recenti lavori di Ampuero(El último tango de SalvadorAllende è ancora inedito inItalia) seguono unatraiettoria che toccamomenti lirici nelladescrizione magica deiluoghi della memoria, inequilibrio tra una Cubarivoluzionaria, un’Europaingrigita e un Cile sull’orlodell’incubo. In Il CasoNeruda, Roberto si ritrae inun cammeo, per poitrasformarsi in poeta, graziead alcuni corsivi chesembrano estratti daConfesso che ho vissuto: ilrisultato è una prosapiacevolissima e scorrevole,che però inciampa in unacaratterizzazione vicina allascuola di Pepe Carvalho che,demolendo i cliché del hardboiled classico, a voltes’incaglia in nuovi stereotipirovesciati.

deserto di sale – in un maresi è ritirato da millenni –veste ancora i panni delladea fatale e affronta leantiche divinitàsopravvissute a tutte lecolonizzazioni. Sono glieredi dei danzatoridionisiaci che annunciano ilcaos del presente, degli idolireligiosi che si trasformanoin immagini e delle figuretragiche che si dibattonosotto le maschere di unafarsa della quale si conoscegià il copione, anche se ci sisforza d’ignorarlo. Così neitempi bui della dittatura, isimboli filosofici emitologici, annunciavano lastoria di un villaggiominerario convertito incampo di concentramento epresieduto da un militarefrustrato dall’assenza digloria – un povero diavolodegli eserciti. Il racconto sidipana grazie allastraordinaria umanità deipersonaggi lirici,intimamente figli di quegliscenari e di un contestoletterario che ha il compitoingrato di guardare da vicinola ferita storica originaria,senza poterla spiegare.Ognuno ha la sua piccolaparte di colpa nella totalitàinevitabile dell’orrorenazionale perché tutti hannovisto senza voler sentire: ilgiornalista silenziato, ilprete spaventato dall’assaltodei fedeli, la levatrice cheimpasta il pane con le stessemani che impediscono lenascite sono attori con unaparte precisa, mai marginale.

INGREDIENTI PER UNA VITA DIFORMIDABILI PASSIONI Luis SepúlvedaGuanda, 194 pp., 14,90 euroIndubbiamente LuisSepúlveda è un ottimo

IL DESERTOCarlos FranzEdizioni E /O, 490 pp., 14,50€

Il Deserto è un libro daipaesaggi estremi, riarsi; laprosa di Carlos Franz ègiocata sulle metafore delfuoco e sulle assonanzelinguistiche che richiamanouna parola dentro l’altracreando catene poetiche epressanti, con uno stileacuto (aguzzo?) che quasiferisce per la sua bellezza oper la luminosità che confinacon il lato oscuro,nell’ottima traduzione diPino Cacucci che riesce arendere il clima torrido eossessivo. Nella sua lungalettera-confessione, lagiudice Laura Larco prendein mano la copertasfilacciata della memoria edà volti, nomi e causeall’orrore di un’epoca di cuiforse la nuova generazionecilena sta adesso misurandogli effetti. Cercando lerisposte alle domandeimplacabili della figlia,vent’anni dopo la donnatorna dall’esilio berlinese –in cui aveva tentato dicostruirsi un senso teoricodella giustizia. Arrivatanell’oasi sprofondata nel

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scrittore, uno dei pochi cheriesce ancora a usare laletteratura per riassumere “ilconflitto tra l’uomo e ciò chegli impedisce di esserefelice”, trovando la giustamediazione tra l’etica dellaparola e la sua estetica,cogliendo sempre la“bellezza delle piccole cose”.In questo libro si sente laforza evocatrice delle parolee la lettura scorrepiacevolmente, planandosulla memoria delle feritedolorose e sulle riflessionid’attualità: l’arte della

narrazione si mescolaall’urgenza dellatestimonianza sociale distampo giornalistico, conuna tecnica simile a quella diGarcía Márquez (ricordato inuno dei frammenti), o comein un Ikonomou meno lirico.Tuttavia, non basta unaricetta ricca per fare unabuona torta e i singoli braninon decollano e i personaggirestano imprigionati nellimite della pagina scritta,senza arrivare allo sboccoche concede l’immortalità alracconto. È davvero unpeccato, perché ci sarebbemateriale per una decina displendidi romanzi, nati dalla

confrontarsi con qualcosad’incomprensibile e saràproprio quella spaccatura,quella ferita nella memoria afarlo crescere tropporapidamente,trasformandolo in testimonemuto delle contraddizionidella nazione: da un lato ilbenessere e l’egemonia delpotere dall’altro la dignità ela poesia della resistenza.Suo malgrado, il bambinodiventa un attore /spettatore delle scenemarziali che invadono lestrade; un eroe della suapiccola storia quotidiana,costretto a scappare e avivere personalmente ildramma concreto delladifferenza di classe edell’esilio. Il testo battuto amacchina è un resocontooggettivo della situazione ditensione; ma è attento comese si trattasse di un compitoper la scuola, ma è anche undocumento lasciato allegenerazioni successive,perché il ricordo non siacancellato. La scritturaprecisa di Sofia Gallo rendeperfettamente gli statid’animo del ragazzinoborghese cheimprovvisamente si trovaseparato dai suoi amici(quelli ricchi dei quartieri

vita avventurosa, nostalgica eallegra di una persona che hasperimentato il perpetuo“desexilio” di Mario Benedetti.Negli ultimi quarant’anni, gliautori latinoamericani hannodovuto confrontarsi con glistilemi ereditati dal boom delrealismo mágico; e i cileni inparticolare hanno raccolto ilmito della poesia come donogenetico delle generazionipost-Neruda. Ingredienti peruna vita di formidabilipassioni è un manuale chesvela i meccanismi dellacreazione di storie, untaccuino dal quale pescareappunti che rivendicano unproprio linguaggio,rispondendo agli stereotipiche i critici cuciono addosso aogni romanziere provenienteda un generico “Sud”. Il tagliocinematografico mostra legeografie che erano già statepercorse dalla penna delloscrittore, i paesaggi delricordo, il cosmopolitismo dichi ha da tempo smarritol’idea statica di cittadinanza ela costruzione di un’identitàplurale, che si ridefinisce inbase alla lingua e allalatitudine. La sequenzasuggerisce la dinamica di unlaboratorio cinematograficotenuto dal Nobel colombiano,Rivera Letelier e Littín,spruzzato di politica edall’immaginazione dell’anti-poesia.

LA LUNGA NOTTESofia Gallo / Lorenzo Terranera Lapis Edizioni, 71 p. ill., 10 €L’11 settembre del Cile è ilgiorno del 1973 in cui ilPaese precipita nel baratrodella dittatura, il giorno incui la vita di tanti cittadinicomuni viene sconvolta ecacciata in una parentesibuia lunga 17 anni. Pedro haundici anni quando deve

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alti e quelli più umili dellepoblaciones) e devefronteggiare un mondocompletamente sconosciuto.È lo stesso punto di vista delfilm “Machuca” di AndrésWood, in cui Gonzalo stringeamicizia con un ragazzo chevive nelle zone povere diSantiago. I tratti rossi enervosi del versatileillustratore LorenzoTerranera – noto al anche algrande pubblico per il suostile poliedrico – traduconoun’atmosfera sospesa mapregnante, ridotta al minimocome se fosse incisa su diuna matrice: è esattoopposto dei toni densi“dell’Eternauta” diOesterheld e Solano López,che anticipava, in chiavefantascientifica, la tragediadei desaparecidos argentini.Per inquadrare gliavvenimenti nella lorocornice storico e culturale,sono utilissime le scheded’approfondimentopresentate a fine volume. Lacollana “Storie di Memoria”si rivolge ai più giovani sinmaniera intelligente, senzafalse semplificazioni perpresentare dei frammentiimportanti del nostropassato.

LA MACELLERIA DEGLI AMANTIGaetaño Bolán Edizioni E/O, 117 p., 12,50€ La boucherie des amants diGaetaño Bolán è un libroessenziale in tutti i sensi,perché è breve ma anchefondamentale. Le frasi sisusseguono in una sequenzacesellata che, se abbandonadichiaratamente il lirismodella poesia ufficializzata,incarna un realismo magicoamaro e procede con lagrazia della purezza persvelare il significato di una

caduta del regime grazie alreferendum popolare: duelettere che esprimono lafrattura di una societàdesiderosa di uncambiamento radicale. Maper ottenere questa svolta, ènecessaria la risolutezza diuna donna – madre ederoina comune. Non basta laforza di Juan o le utopiedelle riunioni segrete; non èsufficiente l’innocenza diTom, che con la sua cecitàfisica pare l’unico in gradodi contrastare l’obliogenerale, proprio comeavviene in Sangue negli occhidella cilena Lina Meruane oanche in L’occhio del lupo diDaniel Pennac, dovel’animale decidecoscientemente di nonvedere un mondo privo dilibertà. Il parallelo con ilracconto francese non ècasuale dato che, scegliendola distanza chiarificatrice diuna lingua altra che qui fada filtro prospettico, Bolánha scritto questa sua operaprima in Francia, prima ditrasferirsi di nuovo in Cile.

MAPUCHE, LO SPIRITO DELVULCANO Karin GeltenReverdito Editore, 321 pp., 13,80 €Karin Lisbeth Gelten Lipariha una fantasia sfrenata euna biografia interessante:cilena di origini italo-tedesche, da diversi annivive a Padova collaborandocon l’Università in variprogetti. Alcuni critici hannoparagonato il suo stiledirompente alla scritturafluida della sua conterraneaIsabel Allende e, se l’aura dimistero che circondal’estancia degli Osadón delValle ha qualcosa dellamalinconia soffusa delcelebre “La casa degliSpiriti”, manca qualcosa a

realtà dolorosa. Tom è unragazzino che “guarda lanotte” spiegandosi il mondocon la sensibilità dei suoiocchi bui e vive con il padre,il macellaio Juan. Si trattaquindi di un romanzo moltocarnale e paradossalmentevisivo, in cui il corpo e i gestiassumono la stessaimportanza delle idee. Non èpossibile fare la Rivoluzionesolo con le buone intenzioni,ma l’azione romantica nonpuò vincere contro labrutalità del sistema. Nel1986, la dittatura di AugustoPinochet dava gli ultimi

feroci colpi di coda mentre ilPaese si concentrava sullequalificazioni al campionatodi calcio e sulle mode popstatunitensi. L’orrore deidesaparecidos sembra quasipassare inosservato orimane sottotraccia, ma ungruppo di dissidenti lancia ilsuo messaggio dai muridella città: nel “silenzio diuna notte d’inchiostro”,compaiono dei manifesti incui le foto dei prigionieripolitici sono sormontatedalla scritta NO. È la stessanegazione ferma che, dueanni dopo, porterà alla

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questa saga famigliareintrisa di sovrannaturale peressere davvero convincente.Gli ingredienti ci sono tutti:eventi prodigiosi, nascitemitiche, formulesciamaniche una creaturaelementale che si trasformain uomo per l’amore puro diuna donna-bambina. Lastoria del loro incontro ècondita con qualche facileconcessione allo splatterdemoniaco che ricordavagamente Carlos RuizZafón e scorre scandita dairiferimenti antropologici allatradizione ancestrale delpopolo mapuche, e da sceneche traggono molto dalrealismo mágico – vengonoin mente Remedios la Bella egli altri personaggi di GarcíaMárquez. È una vicendapiena di fatti impossibili, cheperò diventano verosimiliall’interno del meccanismodel patto narrativo,ammettendo l’esistenza diuna dimensione ultraterrena,basata sullacompenetrazione traindividuo e ambienteecologico. Altri richiamipotrebbero orientare lalettura: la scoperta dei poteriextrasensoriali donati alle

le vicende traumatiche delCile reclamano unaresponsabilità che le nuovegenerazioni faticano adassumersi, come se fossepossibile abitare un raccontorestando ai margini,interpretando sempre esoltanto ruoli secondari inun “silenzio bello eriparatore”. La lacerazionecrea un divario tangibile tragenitori e figli, tra chi havissuto un’esperienza e chine è stato toccato di striscio.Spostandosi con leggerezzaessenziale da un’immagineall’altra, l’osservazione diZambra è chiara e nostalgica:“Esistono momenti nei qualinon possiamo, non vogliamoperderci”, momenti nei quali

è necessario ricorrere allaprecisione di tutti i punticardinali per continuare uncammino al di fuori deltempo fermo della parolascritta. Ognuno ha diritto dirinchiudersi nell’isolamentoaperto dell’orizzonteculturale per costruire unpersonale percorso diriferimenti, ma ognimovimento ha comunqueconnotazioni collettive,implicazioni collettive. Ilgolpe fa ormai parte del

donne dalle divinitàabbraccia una realtàsincretica, che va dalpantheon indigeno(araucano) alle credenzecattoliche passando spessoper la gastronomia,analogamente a quantoavveniva in “Dolce come ilcioccolato”, leggeracommedia sentimentale diLaura Esquivel. I tassellisono posti in una brillantesequenza cinematografica,fino a creare una trama chespiega il passato attraversol’invenzione di un nuovocodice descrittivo, sintesi dilinguaggi eterogenei e unprocedimento che potrebbederivare da Littín o dallesuggestioni del film “TheOthers”. Tuttavia, partendoda tali presupposti,l’approccio emotivo e a trattinew age della scrittriceannulla le distanze culturalicon un procedimento similea quello del peruvianoHuarache Mamani, figlio diun curandero.

MODI DI TORNARE A CASAAlejandro Zambra Mondadori, 154 pp., 16.50€“Leggere è coprirsi la faccia.E scrivere è mostrarla”. Iromanzi di AlejandroZambra sono un modo perparlare del processo creativoe per ritrovare laconsapevolezza di se stessi,ripulendo il passato dalletracce di una ferita dolorosa.Gli episodi inventati simescolano a quelli vissuti, ipersonaggi fittizi hanno itratti delle persone reali:attraversoquest’identificazioneciascuno è libero direcuperare un nome vero, uncorpo, una storia. Sospesetra due terremoti – quellodel 1985 e quello del 2010 –,

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mito fondativo di un Paeseemergente, che cerca unlinguaggio innovativo,lontano dagli stilemi impostidal grande boom dellaletteratura latinoamericana. Igiovani autori cesellano unaforma espressiva chetrasforma la poesia in unaprosa fatta di versi dallametrica colloquiale. Lepagine distillano l’eredità deigiganti aggiungendovi unsapore orientale e ricucionolo strappo tra dimensionepubblica e privata: come untesto di Huidobro, la nazioneè il padre che muore eprovoca il ritorno, la casache accoglie e rifiuta gliesiliati. Modellare labiografia di Claudia,guardandola dall’esterno edentrandoci quasi di sfuggita,equivale a fare i conti con lamemoria, riempire un vuotoesplorando lo spaziointorno.

SANGUE NEGLI OCCHILina MeruaneLa Nuova Frontiera, 149 pp., 16€“La scrittura di Lina Meruaneha una grandissima forzaletteraria”, commentaRoberto Bolaño dallacopertina di Sangue negliocchi. Non si comprendeesattamente la portata diquest’affermazione finchénon si legge il romanzo, cioèfinché non si entra nellapotente corrente delle frasiche si diramano nelle paginee poi nei capitoli. Si tratta disperimentare, di calarsi nellasintassi del corpo, disporcarsi con le parole, dicostruire un codice derivatodalla consapevolezza di sé.Spezzando le convenzionilinguistiche, l’autrice siallontana dalla “generazionedi scrittori del boom” pertrovare uno spazio piùcontemporaneo e teatrale. A

agghiacciante della vicendamedica si riassumono i treepisodi del film Dolls diTakeshi Kitano: nel primo iprotagonisti sono dueamanti legati insolubilmentedal filo rosso del lorodestino; nel secondo, unadonna continua per anni adaspettare il suo fidanzato,ormai boss della mafia; nelterzo un ragazzo si cava gliocchi per non vedere il voltodella sua amata devastato daun incidente. Rafforzandotutte queste dinamiche,Lucina – che si può piegare estropicciare fino atrasformarsi in “Lina” –richiama l’arte di Frida Kahloe sintetizza una visioneincentrata sull’Ego, talmenteintensa da lasciare il segno.

TRATTATO DI SORTILEGIÓscar Hahn Rayuela Edizioni, 107 pp., 13€È difficile scrivere oggi inCile. Ed è ancora più difficilescrivere poesie provenendoda una nazione che, nellarealtà o nella leggenda, èstata definita “il Paese deipoeti”. Óscar Hahn raccogliela difficile eredità deigiganti, rilegge NicanorParra, Vicente Huidobro eGonzalo Rojas per trovareun linguaggio nuovo,apparentemente semplice evicino al quotidiano. Sonoversi liberi, chereinterpretano il registro delverso colloquiale tipico dellapoesia statunitensesoffermandosi sui dettagli.Da questa ramificazione dispunti creativi nasce unaforma di scrittura polimorfache si adatta ai temi,incorporando elementi delracconto fantasticomodernista di HoracioQuiroga, FelisbertoHernández o Rubén Darío.Gli oggetti si animano e gli

causa di un versamentoematico, Lucina – un nomeprofetico se si pensa a santaLucia e al suo stretto legameetimologico con la Luce econ il mito astraledell’angelo caduto – perdequasi completamente la vistae deve cominciare aesplorare il mondo con unosguardo diverso guidatodalla memoria, con occhisensibilissimi che nasconosulla punta delle dita.L’ambiente intorno divieneprima sfumato e poi bianco,abbagliante. Come nelbellissimo Cecità di

Saramago, la menomazioneporta l’individuo amostrarsi, liberandosi dellesovrastrutture etiche edestetiche. È un processo diframmentazione checoinvolge anche la forma deiperiodi e l’uso dellapunteggiatura, che qui erigebarriere o apre varchiinsospettati. Analogamente irapporti umani sonoristrutturati seguendoun’urgenza soggettiva in cuila materialità dei bisognirimodella il rapporto dicoppia sulla base delladipendenza e del desiderio.Nella semplicità

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scenari assumonoprospettive diverse,prendendo gli accentilugubri messicani dellaprosa asciutta di Juan Rulfoe svelandosi alla coscienzadel lettore come rivelazioniinattese. Ma non ènecessario essere degliesperti per apprezzare lostile e riconoscersi nellesituazioni: lacontrapposizione tra vita emorte è stata centrale findall’antichità classica emolti autori, a tutte lelatitudini, hanno espresso illoro personale senso diattrazione verso un’oscuritàaffascinante. Qui, però,l’ispirazione arriva inmaniera del tutto naturaledalle esperienze vissuteogni giorno, inserite in uncontesto globale, grazie a

e mediatica. Trattato disortilegi, è una selezione cheabbraccia un lungo periodo,rispecchia le opinioni e leferite di chi ha subìto lapaura e l’orrore delladittatura e quindi si schieraapertamente contro latragedia di qualsiasi guerra,recuperando laconsapevolezza del presentenell’analisi del passato. Parelo stesso processocompositivo che caratterizzai testi del giapponese KikuoTakano che mostravano isentimenti di unagenerazione segnata daltrauma della violenza.Tuttavia, quest’antologia èpervasa da una sottile ironiadolente che manca in altretradizioni letterarie e collocaHahn tra i grandi dellaletteratura latinoamericana.

una visione intertestuale cheregala a tutti un angolo dicelebrità, alla manieraprovocatoriamente pop eparadossale di Andy Warhol:l’autore indagasull’interiorità collegandolacon la dimensione pubblica

S P E C I A L E C I L E

ContemporaneaMENTEIX Giornata del Contemporaneo Palazzo Stella - Genova, 5 - 19 ottobre 2013

Sabato 5 ottobre 2013, per il 9° anno consecutivo, s’inaugura la Giornata del Contemporaneoindetta da AMACI, Associazione dei Musei d'Arte Contemporanea Italiani. L’iniziativa, promossadal Ministero dei Beni Culturali, è un evento di assoluto rilievo per tutte le istituzioni che ope-rano nel settore dell'arte contemporanea. Una giornata importante nell'agenda culturale italianaprincipalmente per il messaggio che intende trasmettere, ossia quello di un contemporaneo vivoe rivolto a un pubblico sempre più vasto e attento. Un contemporaneo per neofiti e non, da co-noscere e apprezzare, nell'eterogeneità delle sue formulazioni, portato alla ribalta per l’occa-sione con l’obiettivo di valorizzarlo consapevolmente e in modo simultaneo su tutto il territorionazionale.SATURA art gallery invitata ad aderire a questa splendida iniziativa, organizza la Rassegnad’Arte ContemporaneaMENTE, presso Palazzo Stella, Genova. L’esposizione presenta una sele-zione critica di Artisti, interpreti della contemporaneità: scena aperta quindi a un'arte più tan-gibile e comprensibile perché più vicina al pubblico, capace di raggiungere anche tutte quellepersone che la considerano una moderna espressione lontana dal proprio universo.

iniziative per gli artisti per consultare

il regolamento completo:www.satura.it

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SATURA rivista trimestrale di arte letteratura spettacolo

IV Premio di Poesia e Narrativa inedita “Satura - Città di Genova” dead line 15 ottobre 2013

La rivista “SATURA arte letteratura spettacolo” è lieta di annunciare la quarta edizione del Premio letterario“Satura – Città di Genova”. Un concorso a tema libero e aperto a tutti, finalizzato a dare visibilità all’attivitàcreativa anche in questi tempi di crisi, che troppo spesso relegano la cultura nell'indifferenza generale. Noiriteniamo invece che, proprio in una congiuntura tanto difficile, la Parola scritta (e letta) sia un mezzo im-portante per trovare nuove strade, crescere e confrontarsi con la realtà. E la nostra Associazione – interdisciplinare nel campo artistico, occupandosi anche di arti figurative e mu-sica – vuole testimoniare il legame tra testo e territorio, sottolineando il ruolo fondamentale della narrazionenella costruzione dell'identità individuale e collettiva.La Liguria è terra di scrittori: molti sono nati nella regione affacciata sul mare; molti se ne sono innamoratigiungendo da lontano.Per la prima volta, il Premio “Satura – Città di Genova” si apre anche alla narrativa, affiancando la consuetasezione dedicata alla poesia.

POESIASi concorre al Premio “Satura – Città di Genova” con tre poesie inedite, composte in lingua italiana, ciascunadi lunghezza non superiore ai quaranta versi: spedite in dieci copie di cui solo una corredata di nome, co-gnome, indirizzo, numero telefonico, recapito e-mail e una breve biografia (massimo 1.000 battute) che verràutilizzata in caso di pubblicazione.

NARRATIVASi concorre al Premio “Satura – Città di Genova” con un racconto inedito in lingua italiana, della lunghezzamassima di 10.000 battute (spazi inclusi) spedito in dieci copie di cui solo una corredata di nome, cognome,indirizzo, numero telefonico, recapito e-mail e una breve biografia (massimo 1.000 battute) che verrà utiliz-zata in caso di pubblicazione.

Gli elaborati vanno inviati a Premio “Satura – Città di Genova” c/o Satura Associazione Culturale, PiazzaStella 5/1 - 16123 Genova, entro e non oltre il 15 ottobre 2013. Farà fede il timbro postale. È gradito un inviosollecito per esigenze organizzative.

La Giuria, presieduta da Giorgio Bárberi Squarotti e composta da Milena Buzzoni, Giuseppe Conte, Rosa ElisaGiangoia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Guido Zavanone, designerà a suo in-sindacabile giudizio le composizioni. I testi dei primi 10 classificati di ciascuna sezione saranno pubblicati sulla rivista “SATURA arte letteraturaspettacolo” e divulgati attraverso i canali informativi di SATURA quali il sito www.satura.it la nostra news let-ter, che conta oltre 35000 indirizz,i i profili Facebook www.facebook.com/satura.genova Twitter https://twit-ter.com/SATURApresident che raggiungono oltre 100.000 contatti. Oltre ai 20 vincitori, verranno individuati30 autori segnalati in occasione della cerimonia di premiazione. Sarà facoltà dell’organizzazione valutarela possibilità di una pubblicazione, indipendente alla rivista.

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