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1 ATTI DEL III° CONVEGNO NAZIONALE E RETE EUROPEA DELL’INSERIMENTO ETEROFAMILIARE SUPPORTATO DI ADULTI (IESA) Treviso 8 / 9 giugno 2006 A cura di Gabriella Bressaglia

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ATTI DEL III° CONVEGNO NAZIONALE E RETE EUROPEA DELL’INSERIMENTO

ETEROFAMILIARE SUPPORTATO DI ADULTI (IESA)

Treviso 8 / 9 giugno 2006

A cura di Gabriella Bressaglia

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INDICE

Famiglie per una Comunità solidale pag. 7 Dott. Giuseppe Dal Ben Introduzione pag. 9 Dott. Gerardo Favaretto Presentazione del Convegno pag. 12 Dott.ssa Gabriella Bressaglia a cura di La filosofia generale del progetto sull’accoglienza familiare e le esperienze europee pag. 19 L’affido familiare a Treviso: un percorso pag. 20 Dott. Giuseppe Guido Pullia Luoghi e legami: pensare antropologicamente all’esperienza dell’accoglienza pag. 44 Prof. Roberto Beneduce L’accoglienza familiare nell’esperienza tedesca di Ravensburg pag. 55 Dott.ssa Regina Trautmann L’accoglienza familiare e la destigmatizzazione nell’esperienza francese di Lille pag. 61 Dott. Francesco Macrì, Dott. Frederic Wizla L’accoglienza familiare nell’esperienza belga di Geel pag. 65 Dott. Marc Godemont L’accoglienza familiare nell’esperienza slovena di Maribor pag. 75 Dr.ssa Vesna Stanovnik La sezione italiana del groupe de recherche europeen en placement familial principi fondanti ed obiettivi. pag. 81 Dott. Gianfranco Aluffi

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L’esperienza dell’accoglienza familiare di treviso: punti di forza e nodi critici pag. 89 Il percorso realizzato: obiettivi, modalità organizzative, strumenti, prospettive di empowerment pag. 90 Dott.ssa Gabriella Bressaglia La presa in carico: il C.S.M. e lo I.E.S.A. pag. 112 Dott. Tiziano Meneghel Supporto alle dinamiche familiari: l’estensione dei protagonisti pag. 124 Dr.ssa Claudia Zamburlini Il marketing sociale, selezione delle famiglie, formazione alle famiglie accoglienti pag. 134 Dott. Valter Carniello Il punto di vista dell’A.I.T.Sa.M. pag. 150 Signora Tali Corona Il punto di vista della famiglie accoglienti pag. 154 Intervengono le famiglie affidatarie coinvolte nel progetto Le esperienze italiane a confronto: punti di forza e criticità pag. 159 Il progetto I.E.S.A.: l’esperienza di Collegno (TO) pag. 161 Dott. Gianfranco Aluffi Il progetto I.E.F.A.: l’esperienza di di Lucca pag. 176 Dott. Enrico Marchi, Dott. Guido Ambrogini, Dr.ssa Luana Cagnoni Il progetto I.E.F.A.: l’esperienza di Pisa pag. 204 Dott. Roberto Cappuccio Il progetto I.E.S.A.: l’esperienza di Monza pag. 214 Prof. Italo Carta, Dr.ssa A.S Antonella Bregantin, Dr.ssa E.P. Laura Mazzali

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Appendice pag. 223 La storia di Luciana pag. 225 Di Anna Cagnin in Moro Lettera di Luciana alla famiglia affidataria pag. 233 Frammenti di pensieri sull’accoglienza familiare pag. 235 La voce dei protagonisti Elementi di criticità e perplessità pag. 240 Dott. Massimo Semenzin Allegati pag. 247 Delibera di attivazione del progetto IESA pag. 248 Progetto di massima pag. 253 Progetto esecutivo: linee guida per la regolamentazione del servizio IESA pag. 261 Il Contratto: accordo per l’inserimento eterofamiliare supportato per adulti pag. 265 Traccia del colloquio per la selezione delle famiglie ospitanti pag. 269 Corso di formazione rivolto alle famiglie ospitanti pag. 273

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FAMIGLIE PER UNA COMUNITA’ SOLIDALE Dott. Giuseppe Dal Ben Direttore Servizi Sociali Az. Ulss n.9 di Treviso L'esperienza dell’Inserimento Eterofamiliare Supportato per Adulti è importante perchè completa e integra l'offerta dei servizi riabilitativi del territorio a favore della salute mentale con una importante novità : quella della partecipazione diretta della comunità all’erogazione dei servizi. Il territorio si rivela essere una risorsa importante anche per i suoi aspetti informali e per la disponibilità a percorrere in modo congiunto ai servizi un percorso che porta le persone in trattamento riabilitativo ad avere supporti innovativi rispetto alle classiche risposte offerte dai servizi. Alla fine del 2002 quando siamo partiti con questa esperienza, in forma sperimentale, è stata un po’ una scommessa in quanto non era certo come la Comunità potesse rispondere a questa nuova proposta di sostenere persone con problemi psichiatrici attraverso il loro inserimento in famiglie disponibili del territorio. Indubbiamente è stata una scommessa vinta in quanto gli esiti che sono stati presentati in questo convegno testimoniano come nel nostro territorio, oltre ad essere presente storicamente un consistente associazionismo, sia cresciuta anche parte di una comunità con una forte sensibilità rispetto il disagio dell’altro che ha spinto un numero consistente di famiglie a proporsi in modo solidaristico come soggetti attivi nei percorsi riabilitativi proposti dal servizio pubblico. Questa azione, in particolare, va anche a sostegno dei familiari dei pazienti che sperimentano un notevole stato di stress e un

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pesante carico fisico, economico ed emotivo, dove pesanti sono anche le conseguenze sociali, con il risultato di un deterioramento e impoverimento del tessuto relazionale, proporzionale all'importanza dello stigma della malattia mentale e delle energie profuse nel far fronte, non sempre con adeguati supporti, alle esigenze poste dalla convivenza con il paziente. L’esperienza di queste famiglie affidatarie ha sicuramente un effetto alone e divulgativo rispetto i propri contesti di vita e la rete di cui fanno parte contribuendo in tal modo a contrastare pregiudizi e stigma che da sempre accompagnano la malattia mentale. Un sentito ringraziamento a tutte queste famiglie e a quanti hanno contribuito a realizzare questo progetto con l’augurio che possa consolidarsi nell’ambito delle risorse certe del Dipartimento di Salute Mentale.

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INTRODUZIONE Dott. Gerardo Favaretto Direttore Dipartimento Salute Mentale Azienda Ulss n. 9 di Treviso In questi scritti non si troveranno i dettagli di una "tecnica" di intervento sociale o di riabilitazione psicosociale, difficilmente troveranno conferma l’una o l’altra delle teorie che stanno alla base di una certa visione della psichiatria piuttosto che di un'altra , quanto, più semplicemente, possono essere reperiti due elementi importanti per il dibattito che ha caratterizzato la psichiatria del nostro paese nell’ultimo ventennio.

Il primo elemento riguarda il discutere di psichiatria o meglio di salute mentale in modo complessivo, il che significa con una articolazione ed un respiro che non si accontenta di semplificazioni e riduzione a "cosa" semplice, solo perché declinabile con un determinato linguaggio, di tutto ciò che ha a che fare con la salute mentale. In positivo significa riconoscere la complessità della compenetrazione di elementi individuali (biologi o psicologici che siano) e sociali di tutto ciò che concerne il sentirsi bene dal punto di vista psichico.

Sociale inteso nel senso ampio che la rappresentazione e l’atteggiamento che la comunità ha dei problemi ne determina la caratteristica e l’appartenenza nonché la possibilità che questi problemi possano ricevere delle rispose concrete.

Il secondo elemento, corollario probabilmente del primo, riguarda la natura concretamente esperienziale di molte pratiche riabilitative e di inclusione sociale . Molte cose fatte nell’ambito di tutto quanto comprende e include interventi di ispirazione e finalità riabilitativa sono state prima di tutto cose e storie concrete messe in atto dalla coraggiosa volontà degli operatori

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nell’utilizzo della disponibilità e attenzione da parte della comunità.

L’integrazione di questi due elementi , di solito di per sè sempre feconda, va poi rivista, rivalutata e soprattutto compresa nel suo ulteriore produrre complessità.

Rivedere significa disporre i materiali in modo visibile e ispezionare l’esperienza secondo i punti di vista dei diversi soggetti. Significa rinarrarla secondo una consuetudine irrinunciabile nel mondo della psichiatria dove alla fine ogni cosa diventa narrazione destinando al ricordo sia la parte che ne farebbe poesia che quella invece più rigorosamente ancorata alla biografia personale che, infine quella legata alla vicenda della scientificazione del vissuto.

Rivalutare comporta invece cominciare a fare dei calcoli. Imparare il linguaggio degli obbiettivi, dei bisogni, della coerenza nell’uso delle risorse, della efficacia con cui le storie e gli interventi effettuati portano a compimento le cose che facciamo. La rivalutazione non è solo ed esclusivamente una questione di efficienza ma prima di tutto i efficacia, di reale e concreta adesione di ciò che facciamo, a quanto i bisogni nel loro appagamento lasciano intuire che si tratta di una strategia ideale.

Comprendere infine è un verbo di lunga tradizione nel linguaggio della psichiatria e della psicopatologia valorizzato nella monografia Jaspersiana come l'atteggiamento mentale dello psichiatra e o di chi in generale si avvicina al fenomeno della sofferenza come premessa indispensabile per fare di questa sofferenza un eventualità umana toccabile, affrontabile, modificabile.

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A questo dovrebbero servire i convegni, dunque, a comprendere, rivedere e valutare le cose che vengono fatte. A permettere a persone e gruppi di parlarsi , di scambiarsi ricordi, impressioni e punti di vista e, con questo, di incrementare il livello del dibattito e, con esso, la quantità di conoscenza disponibile.

Questo convegno, ci pare, si è occupato in questa prospettiva, dell’inserimento eterofamilaire di persone con problemi mentali. Lo scenario ha dunque previsto diversi interlocutori che, a loro volta venivano da un ruolo di protagonisti della vicenda: le famiglie affidatarie, le famiglie che non c’erano più o non più in grado di tenere determinate situazioni; le persone affidate, l’azienda sanitaria il dipartimento di salute mentale con la sua idea di intervento territoriale per la salute mentale e, infine, tutta la stessa comunità mobilitata a trovare le risorse disponibili. Sullo sfondo i gruppi che si sono formati, gruppi strutturati o spontanei che hanno costituito una rete che si è snodata in modo creativo intorno ad alcuni fulcri naturali; l’esistenza di risorse e motivi naturalmente presenti in alcune persone che hanno fatto e fanno riferimento ideale e concreto per chiunque a questa vicenda si sia avvicinato.

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PRESENTAZIONE DEL CONVEGNO A cura di Dr.ssa Gabriella Bressaglia Coordinatrice Progetto .I.E.S.A. Dipartimento Salute Mentale Az.Ulss n.9 di Treviso

COS’È LO I.E.S.A. Per Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti (I.E.S.A), si intende una modalità abilitativa alternativa al ricovero in istituzioni chiuse o in strutture intermedie quali le Comunità Terapeutiche Residenziali Protette (C.T.R.P.) o le Comunità Alloggio (C.A.) e complementare ad altre soluzioni extra-istituzionali quali i Centri Diurni (C.D.), rivolta ad utenti in carico ai Servizi Psichiatrici Territoriali del D.S.M.. L’inserimento ha lo scopo di offrire alla persona con disabilità psichiatrica un contesto relazionale/affettivo idoneo a promuovere il proprio benessere psico-fisico nel caso la famiglia di origine ed i parenti si trovino nell’impossibilità di provvedervi o nel caso di loro assenza. Le parti attive di questo processo riabilitativo sono in sostanza tre: il Dipartimento di Salute Mentale, l’affidato (fruitore), l’affidataria (la famiglia ospitante). Le esperienze di affido di pazienti psichiatrici presso famiglie private diverse da quella d’origine si sono dimostrate un’alternativa all’istituzionalizzazione con significativi vantaggi quali: buon tasso di riabilitazione in favore di una vita più autonoma; miglioramento dei comportamenti maladattivi del paziente; miglior qualità della vita; risparmio economico rispetto ad altre soluzioni abitative; buon tasso di riduzione della terapia farmacologica; buon livello d’integrazione con la comunità di appartenenza. LE RAGIONI DEL CONVEGNO Il consolidato interesse verso l’inserimento in ambito famigliare delle persone con disturbo psichico, e l’efficacia della pratica

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IESA fin qui sperimentata nel Dipartimento di Salute Mentale dell’Az. Ulss n. 9 di Treviso, e in altre realtà italiane ed europee, ci ha convinti ad organizzare il 3° Convegno Nazionale sullo IESA (1° convegno Torino 2000, 2° convegno Lucca 2001) con un confronto anche con alcune realtà europee. Riteniamo che lo IESA rappresenti un esempio di una possibile pratica di corretta costruzione di servizi. Pratica che esprime, accanto all’intervento professionale, la capacità di aiuto dei non professionisti attraverso il potenziale affettivo della famiglia, e l’allargamento della presa in carico comunitaria dei problemi della salute mentale. L’accoglienza eterofamigliare si inserisce perciò in una logica di salute mentale che intende il processo riabilitativo come sviluppo delle capacità residue, come accesso attivo ai diritti di cittadinanza attraverso l’aumento della responsabilizzazione e del potere contrattuale del soggetto. Processo che si fonda sull’affettività, il riconoscimento, la qualità delle relazioni umane per la sperimentazione della propria vita e l’incremento dello scambio sociale L’Inserimento Eterofamigliare Supportato di Adulti rappresenta, a nostro avviso, un percorso di empowerment comunitario per acquisire potere e competenze necessarie ad un buon sviluppo. COSA SI PREFIGGE ♦ Valorizzare, l’esigenza di una presa in carico alternativa a

quella tradizionale; ♦ porre in evidenza l’accoglienza eterofamigliare come

strumento di sviluppo del welfare comunitario; ♦ evidenziare la storia e lo sviluppo delle esperienze europee

in atto, e lo stato dell’arte italiano; ♦ presentare l’esperienza IESA dell’Az. Ulss n.9 di Treviso,

attraverso una lettura dei punti di forza e delle criticità;

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♦ valorizzare la visione dello IESA dal punto di vista delle parti attive del processo riabilitativo (servizio, famiglia, fruitori)

♦ organizzare lavori di gruppo su specifici nodi critici quali: gli strumenti di analisi e di valutazione dei percorsi, l’aggancio e la separazione dalla famiglia affidataria, la selezione dell’utenza e delle famiglie, il marketing sociale.

Il convegno infine si propone di produrre un documento conclusivo da inserire nel “libro verde”, costituito nel 2005 per la prima volta, della commissione europea con la finalità di raccogliere indicazioni e suggerimenti sull’ esistente e sulle nuove pratiche di salute mentale. Tale documento potrebbe costituire punto di riferimento per includere tale pratica nell’ambito del nuovo progetto obiettivo regionale. A CHI È RIVOLTO Operatori dei Dipartimenti di Salute Mentale, Operatori dei Servizi Socio sanitari delle Aziende U.L.S.S., Operatori dei Servizi Sociali dei Comuni, Operatori del Privato Sociale, Fruitori dei servizi di Salute Mentale, Famiglie, Associazioni di Volontariato e Cittadinanza in generale. ORGANIZZAZIONE DEL CONVEGNO GIOVEDÌ POMERIGGIO Presentazione convegno e saluti delle autorità 15.00 – 17.10 I sessione chairman Dr Lorenzo Torresini La filosofia generale del progetto sull’accoglienza familiare e le esperienze europee Dr. Giuseppe G. Pullia

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Contestualizzazione del progetto secondo la logica del passaggio dal welfare state al welfare comunitario cioè dal manicomio al territorio, dal territorio alla comunità. Dr.ssa Regina Trautman L’accoglienza familiare nell’esperienza tedesca di Ravensburg Dr. Francesco Macrì, dr. Frederic Wizla, dr. Jan Luc Roleand L’accoglienza familiare e la destigmatizzazione nell’esperienza francese di Lille Dr. Marc Godemont L’accoglienza familiare nell’esperienza belga di Geel Dr.ssa Vesna Stanovnik L’accoglienza familiare nell’esperienza slovena di Maribor Dr. Gianfranco Aluffi Il GREPF nazionale e internazionale come associazione dello IESA 17.30 II sessione chairman Dr. Lorenzo Torresini Per un’Europa senza manicomi: tavola rotonda VENERDÌ MATTINA

09.00 – 11.20 I sessione chairman dr. Giuseppe Pullia L’esperienza dell’accoglienza familiare di Treviso: punti critici e punti di forza Dott.ssa Gabriella Bressaglia Il percorso realizzato: obiettivi, modalità organizzative, strumenti, prospettive di empowerment Dr. Tiziano Meneghel La presa in carico: il CSM e lo IESA Dr.ssa Claudia Zamburlini Supporto alle dinamiche familiari: l’estensione dei protagonisti Dr. Valter Carniello Il marketing sociale, selezione delle famiglie, formazione alle famiglie accoglienti

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Signora Tali Corona Il punto di vista dell’A.I.T.Sa.M. Il punto di vista delle famiglie accoglienti Il punto di vista dei fruitori attraverso la proiezione di un video che racconta momenti della loro esperienza 11.40 – 13.00 II sessione chairman Dr. Giuseppe G. Pullia Le esperienze italiane a confronto Dr. Gianfranco Aluffi Il progetto IESA: l’esperienza di Torino Dr. Enrico Marchi Il progetto IefA: l’esperienza di Lucca Dr. Roberto Cappuccio Il progetto IefA: l’esperienza di Lucca Prof. Italo Carta Il progetto IESA: l’esperienza di Monza, strumenti di valutazione 14.30 – 16.30 III sessione I punti nodali del progetto Prof. Roberto Beneduce Luoghi e legami: pensare antropologicamente all’esperienza dell’accoglienza gruppi di lavori guidati sui punti nodali del progetto

• gli strumenti di analisi e di valutazione del progetto • l’aggancio e la separazione • la selezione dell’utenza e delle famiglie • il marketing sociale

16.45 IV sessione chairmen Dr. Giuseppe G. Pullia

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Progetti innovativi in salute mentale come mission dell’Azienda Sanitaria: tavola rotonda Con la partecipazione di: dr. Claudio Beltrame Responsabile Regionale Programmazione Socio Sanitaria Dr. Claudio Dario Direttore Generale dell’Az. Ulss n.9 di Treviso Dr.ssa Giuseppina Gabriele Direttore Generale dell’ASL di Roma D Dr. Gino Redigolo Direttore Generale dell’Az. Ulss n.8 di Asolo Dr. Giuseppe Simini Direttore Generale dell’Az. Ulss n. 3 di Bassano Dr. Angelo Righetti Direttore dell’Innovazione Socio Sanitaria dell’ASL di Caserta 2 e Responsabile Salute Mentale e Welfare Comunitario del CO.P.P.E.M. – Paternariati Euromediterranei

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LA FILOSOFIA GENERALE DEL PROGETTO SULL’ACCOGLIENZA FAMILIARE

E LE ESPERIENZE EUROPEE

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L’AFFIDO FAMILIARE A TREVISO: UN PERCORSO. Dott. Giuseppe Guido Pullia Direttore Dipartimento Salute Mentale Az. Ulss n.9 di Treviso (fino a giugno 2006)

“non c’è medicina che guarisca quel che non guarisce la felicità” Gabriel Garcìa Màrquez “Dell’amore e di altri demoni”

“l’uomo è la medicina dell’uomo”

“scambiare cambia” detti senegalesi

“nessun bisogno può essere soddisfatto se non lo è anche quello dell’altro”

Franklin D. Rooselvet

Il volontariato “compie la sua opera quando i servizi pubblici sono efficienti, non quando deve sostituirsi a questi”

Don Luigi Di Liegro Premessa. Credo sia necessario collocare l’affido eterofamiliare delle persone portatrici di sofferenza mentale all’interno di un percorso, un tragitto, scientifico che, continuando ad interrogarsi sul suo specifico, non può che rimetterlo in discussione. Siamo giunti alla convinta proposizione di questa iniziativa, che sarà illustrata nel corso del convegno, avendo avuto davanti a noi non più tardi di dieci anni fa un compito enorme: superare tre realtà manicomiali e realizzare i nuovi servizi territoriali di salute mentale. Spetta a me inquadrarla all’interno del percorso intrapreso e intravederne le potenzialità e gli esiti possibili. La lenta definizione di un nostro specifico stile di lavoro, mai acquisito in maniera definitiva ed indiscutibile, ha reso la grande maggioranza di noi consapevole della scarsa utilizzabilità dei tradizionali approcci monodisciplinari per dare attuazione a questa pratica trasformativa.

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Si trattava infatti di fornire un servizio alla popolazione disponendo di risorse strutturali e competenze professionali limitate e, quando adeguate, per lo più non abituate al lavoro d’équipe. La cultura psichiatrica appariva molto disomogenea non solamente tra i territori appena unificati di due Unità Sanitarie Locali, quella trevigiana e quella opitergino-mottense, ma anche all’interno dell’ambito territoriale rappresentato dai comuni del trevigiano a destra del Piave. Il 1995 sembra oggi appartenere alla preistoria dei servizi, se si ricorda che allora, con tre manicomi, con una popolazione che oggi ha raggiunto quasi 400.000 abitanti non esisteva un solo Centro di Salute Mentale, né a Treviso né ad Oderzo. Non si può infatti certo considerare un presidio con tale dignità la sola sede poliambulatoriale collocata a Treviso in un’ala di un piano di un fabbricato (la Madonnina) in cui prestavano servizio medici ed infermieri quando erano “liberi” dai turni negli OP e nel SPDC. L’abolizione per legge dei ricoveri manicomiali non aveva certamente abolito la malattia mentale, né quei bisogni “primari” di accudimento, di casa, di cure mediche, di tutela anche nelle 24 ore ai quali l’ospedale psichiatrico dava in qualche modo una risposta. Né la comunità poteva accettare l’abbandono come alternativa al manicomio. E così nel 1995 vi erano ancora più di 350 persone nei manicomi, contando nella cifra complessiva non solo quelle ufficialmente ivi ristrette sulla base della vecchia legge del 1904 e dello stralcio Mariotti del 1968, ma anche quelle entrate nella cosiddetta “area sociale” - realizzata sia con degenze 24 ore che con presenze semiresidenziali in un c.d. “Centro Sociale” a S. Artemio -, e le decine di “deportati”, che definisco tali perché alloggiati in comunità terapeutiche a volte più che dignitose, ma lontane, e dimenticati dai servizi di riferimento, così come erano dimenticati i malati autori di reato collocati negli OPG.

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Tale situazione era contemporaneamente difficile e stimolante. Mi era stato proposto di immaginare di potermene far carico dal direttore sanitario di allora, dott. Simini, e dal direttore generale, dott. Stellini, che sembrava non aspettassero che nuove idee e proposte per dare una svolta alla situazione. Venivo dal veneziano, dove fin dal 1977 si era iniziato un percorso di superamento dei manicomi, con la conseguente chiusura di S. Servolo e di Villanova di Fossalta di Portogruaro fin dal 1978 e di S. Clemente nel 1992. Nella Provincia di Venezia prima del 1980 si erano già aperti i Centri di Salute Mentale di Venezia Centro Storico, di Portogruaro, di S. Donà di Piave, di Dolo, di Mirano, di Cavarzere, di Chioggia e di Mestre e nel 1992 quello del Lido ed Estuario. Venivo da servizi nei quali non si praticava più da anni la contenzione fisica (a Villanova di Fossalta di Portogruaro nel 1977 – mi autodenuncio ma spero che il reato sia ormai prescritto e comunque, per un acquisito senile maggior rispetto per i cimeli storici, ne sono un po’ pentito – organizzammo, medici, infermieri e pazienti, una festa con un falò in cui vennero bruciate in piazza le camicie di forza, le “fascette” e i polsini e uose) e nè l’Elettroshock. Venivo da servizi in cui la cultura della “presa in carico” e della continuità terapeutica poteva dirsi acquisita e tutti i cittadini del territorio, che fossero in ospedale, in comunità, ovunque, sapevano di avere il diritto di essere seguiti dalla stessa équipe di riferimento. Poco o niente di tutto questo era stato acquisito a Treviso. A Treviso c’era soprattutto, quindi, un problema di “cultura”: di cultura degli amministratori, degli specialisti, degli utenti, dei familiari, dell’opinione pubblica. Gli amministratori evidentemente non avevano creduto che si potesse fare per i malati di mente molto di più che custodirli umanamente, per quanto possibile con le risorse disponibili, e ospitarli sottraendoli alle sfortunate famiglie colpite da una simile disgrazia, per impedire loro di combinare gli inevitabili

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danni che il loro comportamento incontrollato li avrebbe portati a realizzare. Gli specialisti facevano fatica ad andare oltre una rivendicazione di maggiori risorse, non mettendo profondamente in discussione la loro operatività quotidiana e le loro convinzioni “scientifiche” di scuola; vecchie diatribe dividevano psichiatri e psicologi ben oltre il loro effettivo saper fare, con reciproche accuse di corporativismo ed una effettiva separatezza delle pratiche terapeutiche e riabilitative e persino dei diversi spazi operativi. Cultura sanitaria e sociale, inoltre, più che integrarsi si contrapponevano, e la cultura del sociale si faceva ancella della prima, che godeva di ben diverso prestigio. Gli interessi degli utenti e dei familiari apparivano talora contrapposti, come nei servizi più avanzati in Italia era accaduto negli anni iniziali della riforma, spesso secondo modalità rivendicative ed espulsive o di delega totale ai servizi. Ricordo sempre, aneddoticamente, il mio invito rivolto a tutti i familiari dei ricoverati di S. Artemio ad una festa in occasione del Natale 1995 (allora i degenti in quella sede erano 250) al quale risposero 25 persone in tutto, di cui 5 erano familiari di un solo ospite! L’associazionismo ed il volontariato erano aggregati in una Consulta Caritas per la Salute mentale guidata con intelligenza da mons. Pavanello, il quale cercava consapevolmente un dialogo ed un confronto, faticoso, con i tecnici, dovendo contemporaneamente farsi interprete anche di alcune posizioni assai più discutibili, presenti all’interno del suo gruppo. La consulta riusciva a far sì che la questione della salute mentale restasse sempre al centro dell’attenzione degli amministratori, contribuendo enormemente allo sviluppo dei servizi, e avrebbe dato impulso altresì alla futura realizzazione di iniziative innovative, come l’apertura, con i fondi del Giubileo, di un esemplare centro di aggregazione. Associazioni come l’Aitsam, l’Arem, il Progetto Ulisse, già aprivano confronti, spazi di

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discussione e formazione, luoghi e momenti di attività e di aggregazione ben visibili sul territorio. Era necessario però andare oltre richieste assistenzialistiche, atteggiamenti rivendicativi e di sospetto nei confronti dei tecnici o di difesa sociale, uno schierarsi più dalla parte dei familiari che degli utenti – come se fosse possibile allearsi più con gli uni che con gli altri -. Era necessario andare oltre un’iniziale enfasi sulla necessità di realizzare strutture “protette”, Centri diurni occupazionali “di intrattenimento” ed inserimenti lavorativi analoghi alle strutture dell’handicap, una preoccupazione eccessivamente sottolineata per un “dopo di noi”, elementi tutti che riproponevano la centralità dell’accudimento di soggetti implicitamente o esplicitamente vissuti come incapaci di gestirsi. Molte lunghe discussioni furono indirizzate a far cogliere, invece, la prioritaria importanza della graduale realizzazione di Centri di Salute Mentale aperti almeno 12 ore, di un’assistenza garantita sul territorio nelle 24 ore, di servizi ospedalieri senza contenzioni fisiche e con le porte aperte: quelle fondamentali scelte tecnico specialistiche finalizzate a realizzare nel malato l’adesione al trattamento, dandogli fiducia, riconoscendogli quei diritti, quelle possibilità di scelta, quegli spazi di autonomia reale che soli consentono la adesione e sottoscrizione di veri, e non formali, “contratti” terapeutici individuali costruendo un consenso informato. Questa enfasi sulla “tutela”, parola che ha in sé anche un significato protettivo/invalidante, non tanto della salute mentale quanto del malato stesso, piuttosto che di necessaria sottolineatura sulla promozione della sua soggettività, era d’altra parte comprensibile. L’ inadeguatezza, se non l’assenza, di una risposta sul territorio al bisogno di salute mentale non poteva che confermare nell’opinione pubblica l’idea della follia come pericolosità, incurabilità, inguaribilità, incomprensibilità e quindi nella maggioranza della popolazione e degli enti locali la convinzione dell’utopismo, quando non dell’assurdità, di una

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legge più subita che condivisa, alla quale poteva sembrare più necessario porre riparo che applicarla nella sua sostanza. E su questa lunghezza d’onda purtroppo si collocavano anche molti specialisti, confermando stigma e pregiudizi presenti anche tra gli altri sanitari, gli amministratori locali, la magistratura e le forze dell’ordine. In più l’esigenza di realizzare nuovi servizi significava anche aprire discussioni sulla loro collocazione, raramente auspicata sotto casa, e sui loro costi futuri, che sarebbero ricaduti probabilmente, almeno in parte, sui Comuni. In tale contesto, nonostante una ampia e a tratti sofferta condivisione da parte delle organizzazioni sindacali del percorso innovativo intrapreso, anche tra alcuni validi operatori di base a volte si potevano cogliere atteggiamenti che, sia per stanchezza che per una qualche nostalgia per delle epiche battaglie, tramutatesi per lo più in sconfitte subite in trascorsi momenti rivendicativi almeno in parte mitizzati, li riportavano all’interno di un orizzonte corporativo ristretto e alla fin fine, conservatore. Si trattava di introdurre concetti e stimoli nuovi, di valorizzare risorse umane e professionali ricche ed inutilizzate, talora addirittura inesplorate, di offrire opportunità del tutto nuove, per scongiurare il rischio di lasciare la leadership dei diversi gruppi professionali in mano a soggetti portati a difendere una operatività tradizionale di stampo custodialistico. Primo passo: la demanicomializzazione. Il primo, imprescindibile passo, per la costruzione di un percorso innovativo di salute mentale consiste nella negazione istituzionale, che si attua criticando attraverso una trasformazione pratica la più “dura” tra le istituzioni nelle quali ci si trova ad esercitare il proprio mandato professionale. E non vi è alcun dubbio che, finchè il vecchio manicomio sopravvive, lì si vive nella maniera più evidente la contraddizione tra un presunto

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“prendersi cura” dell’altro ed un’ effettiva riduzione allo stato di servaggio del malato. Questi ha perduto il suo diritto di parola: qualunque suo comportamento originale e personale, a meno che non sia funzionale al mantenimento dell’istituzione – attività di giardinaggio, di guardaroba, di pulizia dell’ambiente o di aiuto in cucina e nella distribuzione dei pasti - va interdetto, qualunque gesto di ribellione punito disciplinarmente e letto, prescindendo dal contesto, come sintomo da silenziare e caratteristico della malattia; la soggettività scompare. Il dialogo, l’incontro, è compromesso sin da subito per la distanza invalicabile tra chi ha il diritto/dovere di “leggere”, “interpretare”, “valutare” l’altro e chi non può che difendersi da tutto questo. E ciò in un ambiente nel quale ogni privacy è del tutto esclusa, nel quale le competenze e capacità del malato non trovano alcuna modalità di espressione, in cui è interdetto il possesso di oggetti personali, manca ogni possibilità di comunicazione con l’esterno e ci si deve vestire, abbigliare e comportare rispettando i tempi e gli spazi istituzionali e quelli dei co-degenti, estranei sconosciuti, temuti – costretti persino a dormirci vicino o a subirne le attenzioni - con i quali non ci sarebbe stato, in circostanze “normali”, alcun interesse a conoscersi, a stringere un rapporto amichevole o tanto meno affettivo. La demanicomializzazione è consistita, a Treviso, nella realizzazione di un percorso caratterizzato da alcuni precisi momenti:

1. un momento meramente istituzionale: la convenzione con una cooperativa per l’effettuazione delle pulizie. Ciò consentiva di chiedere agli infermieri di riassumere su di sé il proprio ruolo terapeutico-riabilitativo, rinunciando a compiti non propri e sollevando i degenti – per alcuni dei quali si era proposta l’assunzione nella stessa cooperativa come lavoratori - da un non esplicitato servaggio;

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2. un secondo momento burocratico/istituzionale: la trasformazione in “ospiti” dei ricoverati. Ciò derivava dall’esplicito riconoscimento che ormai, nella stragrande maggioranza dei casi, il motivo iniziale dell’internamento era di fatto dimenticato dagli operatori e dagli stessi pazienti e che quindi l’identità di questi ultimi non era più quella di “ricoverati”, rimasti lì troppo spesso in gran parte perché rifiutati in famiglia e nella società di origine, ma piuttosto quella di “ospiti” ai quali dovevano finalmente essere riconosciuti dei diritti, ed ai quali non si poteva “imporre” una disciplina. Se i degenti erano ormai degli “ospiti” era necessario porsi il problema di come il personale potesse mettersi al loro servizio, offrendo anche, tra le altre, le prestazioni sanitarie alle quali avevano diritto e che non potevano più essere finalizzate, come in precedenza, quasi esclusivamente al mantenimento dell’ordine, della quiete interna;

3. la messa a disposizione degli ospiti delle loro risorse economiche, anche attraverso una indagine ed un confronto con gli eventuali tutori e curatori sugli introiti pensionistici, e con i malati stessi sulla loro conoscenza e capacità di consumatori, realizzando un vero e proprio “progetto peculio”, a partire dal quale si rese necessario rafforzare uno strumento amministrativo dipartimentale che condividesse la necessità di promozione delle risorse e delle capacità individuali;

4. un momento “orizzontale” di confronto e di condivisa rilettura e ricostruzione delle regole da mantenere e da modificare nell’istituzione. In incontri periodici (le assemblee degli utenti e del personale e il successivo confronto “critico” su quanto emerso nel corso di tali incontri) il momento “gerarchico”, inutilizzabile, veniva superato dalla definizione consensuale delle “leggi” che

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hanno senso se in grado di migliorare la convivenza di tutti;

5. il graduale auto-esproprio da parte degli operatori di spazi spacciati per “sanitari” e la “restituzione” agli ospiti dei “loro” spazi, quelli della vita comunitaria. Purtroppo il significato di questo “mettersi al servizio” di coloro che vivono in un luogo – si parla di persone che vi risiedono per molto tempo, non per i dieci-quindici giorni di una degenza ospedaliera! - da parte di tecnici che si limitano a prestarvi il proprio tempo di lavoro, appare ancora oggi il più difficile da recepire ed il più contrastato. Questa cultura si scontra ancora troppo spesso con la convinzione che gli spazi comuni appartengano agli operatori, i quali possono metterli a disposizione degli utenti “sui” quali lavorano. Purtroppo anche alcune logiche “di accreditamento strutturale”, rigidamente ispirate all’asepsi e determinate a volte da cautele assicurative di tipo sanitario (attente al soma più che alla psiche), hanno favorito il fatto che anche nelle nuove tipologie di servizi riabilitativi, in spazi ed ambiti più adeguati, le stanze, le cucine, i soggiorni, ecc. potessero essere “abitati” con lo stile artificioso della convivenza ospedaliera. C’è un residuo di “manicomialità” in questo, che va assolutamente affrontato;

6. la realizzazione di un articolato corso di formazione caratterizzato da visite nei servizi più “avanzati” dei dintorni e da giornate di incontro con medici, psicologi, assistenti sociali, sociologi, ecc. già impegnati in altri territori in analoghi percorsi di superamento della realtà manicomiale;

7. il ricorso all’impresa sociale per consentire una più rapida uscita dal sanitario e dalla sua rigidità, per valorizzare l’offerta di spazi abitativi extra istituzionali,

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di attività lavorative meno connotate come “intrattenimento”, di relazioni sociali in ambito comunitario e non più confinate dentro le mura dell’istituto, valorizzando al massimo l’integrazione socio sanitaria. Di tale impresa gli assistiti dovevano diventare co-protagonisti, soci a tutti gli effetti, veri clienti/proprietari a cui le cooperative dovessero rispondere direttamente;

8. un progetto strategico più complessivo sulle aree ex manicomiali. Mi ero illuso per qualche tempo che a Treviso e a Mogliano fosse realizzabile un superamento del manicomio facendo entrare la città negli ospedali: ciò non si dimostrò attuabile per una serie di motivi che sarebbe troppo lungo ricordare qui, e quindi si dovette lasciare, cosa che accadde per prima ad Oderzo, successivamente anche la sede stessa di S. Artemio e gran parte di quella di Mogliano Veneto (auspico che il percorso prosegua anche colà e non ci si lasci sedurre da sirene di rinnovato utilizzo del Pancrazio come struttura socio sanitaria per “cronici”). La ricollocazione degli ospiti sul territorio, in vere case più che dignitose ed a misura d’uomo, acquisiva un significato di riabilitazione reale e di riappropriazione dei diritti di cittadinanza. Il progetto “Restituito” voleva che delle case, che erano il segno concreto di tale ritorno alla comunità, fossero proprietari, con l’intermediazione della cooperazione, gli stessi utenti –. Tutto ciò non fu purtroppo capito da tutti fino in fondo e dette luogo anche a malevole, del tutto infondate polemiche ed a vere e proprie diffamazioni nei confronti di qualcuno di noi e dei suoi familiari (ma i meccanismi patologici di tipo proiettivo ci sono ben noti).

Ho descritto la demanicomializzazione come un preciso percorso “tecnico scientifico”, in quanto tale “riproducibile”

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anche se non realizzabile ovunque alla stessa maniera. Le condizioni per la sua realizzabilità sono state date, a Treviso, anche da una convergenza di idee, di volontà tecniche, amministrative e sanitarie diverse che hanno accettato di “correre dei rischi”. Il rischio professionale è presente in ogni pratica sanitaria, e lo è anche in psichiatria: senza correrlo nulla si trasforma, ma bisogna essere consapevoli che non esiste rischio peggiore della paralisi operativa e gestionale. La direzione generale accettò i rischi anche finanziari della sperimentazione come inevitabili, investendo in realizzazioni che si sarebbero rivelati transitorie - come avvenne scegliendo, ad esempio, di dar luogo ad una serie di interventi architettonici e strutturali; tutto questo rese però possibile “disfare” i vecchi reparti, consentire le cure più individualizzate, riconducendo a dimensioni assai più contenute e vivibili l’abitare in quelle che sarebbero diventate, come prescritto dalla legge, le Comunità Terapeutiche Protette “di mantenimento” e le Residenze Sanitarie Assistenziali. I costi della sperimentazione si sarebbero, alla lunga, dimostrati risparmi, anche considerando la spesa derivante dal successivo abbandono di spazi ristrutturati e riqualificati. Fermandosi a ciò che ha ispirato il percorso e lo ha reso inevitabile, si è trattato della “restituzione” di diritto di parola e di azione a soggetti istituzionalizzati, ammalatisi quindi due volte e di una seconda malattia anche più grave della prima che li aveva condotti in manicomio. Secondo passo: la psichiatria della riforma. Una primissima considerazione: la legge psichiatrica italiana è uno strumento, il più avanzato nel suo specifico e non a caso valorizzato come una delle poche riforme istituzionali e scientifiche valide proposte dall’Italia del XX secolo al mondo: come tale, come un utile arnese, va utilizzato. Esso offre a chi

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vuole operare in psichiatria in maniera scientificamente fondata e rispettosa dei diritti dell’utente delle possibilità, delle garanzie, delle armi per far riconoscere alla società la necessità e l’opportunità di investire sulla salute mentale della popolazione piuttosto che per “liberarsi” del problema. Si richiama ai fondamentali principi costituzionali, troppo spesso dimenticati nel passato, indirizzati in particolare a favore dei soggetti meno capaci di far valere la propria rappresentanza e quindi più deboli. Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Art. 32 La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. La 180 deriva da pratiche innovative e si è rivelata utile per consentirne la diffusione, ma non basta da sola, se non ripensata costantemente nella quotidianità, per modificare la cultura e le opportunità di cui dispone una società per affrontare la sua “follia”. Può addirittura essere usata per “riciclare”, rinnovandole, pratiche ancora di stampo manicomiale. Troppo spesso, infatti, anche a Treviso, si è reso chiaro solo con qualche fatica quanto la realizzazione dei nuovi servizi e quindi di una risposta più adeguata alla nuova utenza, senza esperienza manicomiale, fosse in realtà inevitabilmente embricata con la distruzione della cultura operativa del passato ed il mantenimento della presa in carico della “vecchia” utenza. I pregiudizi e lo stigma operavano diffusamente al punto da far

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sentire talora inaccettabile la convivenza della vecchia e della nuova utenza; il carico di lavoro sempre crescente invitava talora a disinvestire su soggetti ormai divenuti anziani sui quali erano falliti – almeno si riteneva che questo fosse avvenuto – tutti i tentativi terapeutici. L’ideologia medica di una “demenza vesanica” pressocchè universalmente presente e quindi di una dimensione difettuale e di decadimento non determinata tanto dalle esperienze vissute quanto piuttosto “interna” alla dimensione psicopatologica colludeva con tale atteggiamento pessimistico. Ma per molte persone il reintegro in comunità, la restituzione della loro soggettività e contrattualità aveva aperto prospettive impensabili, anche tramite la diffusione del lavoro sul territorio, le visite a domicilio, la conoscenza ed il confronto con le famiglie di origine, l’interlocuzione con i tutori, consentendo la valorizzazione del patrimonio umano “residuo”, le capacità affettive, motivazionali, economiche, lavorative, culturali ancora presenti. Se non fu possibile rinviare o prendere sottogamba tali situazioni – in senso lato ri-abilitative, si doveva comunque contemporaneamente realizzare una credibile ed accettabile presa in carico della “crisi”. La risposta adeguata all’acuzie psicopatologica e all’emergenza/urgenza non poteva trovarsi solamente nell’uso corretto dei farmaci né in un atteggiamento oblativo o, all’opposto, controaggressivo. Questo anche nei confronti di coloro che, per l’assenza per molti anni di una risposta che non fosse pressoché esclusivamente ambulatoriale o di controllo mediante farmaci long-acting - accompagnata da brevi, a volte ripetuti, ricoveri ospedalieri-, erano diventati i “cronici” del territorio. Costoro, lasciati a sé stessi, non potevano nemmeno dirsi lungoassistiti. Si riscontrava piuttosto sul territorio una variante dell’istituzionalizzazione manicomiale, realizzatasi questa volta a domicilio, caratterizzata dalle stesse episodiche esplosioni di aggressività, dalla stessa mancanza di progettualità, speranza e prospettive e tale da indurre una richiesta di una soluzione

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istituzionale protetta, anche quando non manicomiale, in familiari stanchi e sfiduciati. Bisognava ridefinire una cura che non fosse esclusivamente farmacologica e sintomatica, una riabilitazione che non coincidesse con un mero intrattenimento, rimettendo in discussione da un lato l’assistenzialismo e dall’altro una visione soltanto medica dei problemi. Si cercava di far diventare gradualmente cultura del servizio la verifica costante, critica ed autocritica, dell’operato all’interno di una disciplina in cui linee guida e protocolli, pur necessari, mostrano costantemente la loro inadeguatezza, la loro contingenza, precarietà e provvisorietà. Era comunque necessario misurare l’efficacia di un lavoro che, tra soddisfazioni, scacchi ed errori, si forgiava nel confronto costante con il proprio “oggetto”, restituito alla dignità di soggetto protagonista delle proprie scelte. L’ambizione era mettere in piedi una “bottega” di alto artigianato in cui il saper fare pensando ed il saper pensare agendo fossero inestricabilmente intrecciati. Avevo resistito a lungo a pressioni anche dei miei stessi collaboratori che volevano che al più presto si aprisse un SPDC, credendo che i tempi non fossero maturi e temendo che si realizzasse un ospedal-centrismo che avrebbe potuto far dimenticare la priorità dell’uomo malato sulla sua malattia: con le modeste risorse allora disponibili contavo su una possibile collaborazione del servizio ospedaliero già esistente, sul quale intendevo appoggiarmi in casi limitati mantenendo una “presa in carico” a partire dal territorio. Temevo la riduzione del problema della sofferenza mentale ad una dimensione per così dire “internistica”, così come temevo che la disponibilità di una pur valida struttura “riabilitativa” a Musano, allora la sola esistente ed inevitabilmente intasata di situazioni inseritevi più o meno appropriatamente, di fatto la riducesse, almeno in alcuni casi, ad un luogo di scarico assistenziale piuttosto che di progettualità condivisa nella continuità terapeutica.

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A proposito dell’SPDC rimango convinto che i motivi per mantenere la gestione dell’acuzie psichiatrica in ospedale generale siano contingenti e vadano in gran parte superati: la difficoltà di realizzare servizi in cui non sia abituale e frequente la porta chiusa, la contenzione fisica, lo stanzino di isolamento, mi conferma nei forti dubbi che tale struttura organizzativa per la gestione dell’acuzie sia troppo spesso inadeguata ad affrontare i momenti di maggiore angoscia e sofferenza di un malato. Queste violenze si spiegano in tanti modi: vedere girare in un ospedale generale un soggetto “diverso” può apparire indecoroso e disturbante per persone portatrici di altri tipi di sofferenza, le fughe, inevitabili persino da situazioni carcerarie, sono temute per le loro eventuali conseguenze legali, spesso non si trovano medici disposti a rimanere a lungo al letto del malato per coordinare un adeguato accudimento, si risparmia sul personale infermieristico, non c’è il tempo necessario per inserire in gruppi di lavoro strutturatisi negli anni per rendersi capaci di affrontare le emergenze il nuovo personale, non sapendo gestire un’emergenza o facendo un uso sbagliato dei farmaci si ritiene inevitabile il ricorso alla “contenzione chimica”, nessuna formazione ad hoc è data nelle università, dove troppo spesso tali problemi sono ritenuti, se non inessenziali, non degni di particolare approfondimento, l’uso del servizio da parte delle altre divisioni ospedaliere come fosse un qualsiasi altro reparto, e non un’emanazione del DSM, che comporta il rischio di “mettere in pigiama comportamenti” e quindi disturbi funzionali su base organica, ecc. La questione rimane aperta e controversa: ritengo che l’eventuale superamento di tali strutture imponga un percorso lungo ed intelligentemente gestito per parecchi motivi: 1. il DSM deve essere fortemente presente in un presidio ospedaliero: è necessario il confronto costante con i sanitari di altre discipline, un grande ospedale è un luogo di sofferenza

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non solo fisica in cui è necessario intercettare anche precocemente disagio e disturbi psichiatrici, tutt’altro che rara è la necessità di approfondimenti diagnostici in casi in cui sia controversa una causalità organica di una sintomatologia prevalentemente psichiatrica; 2. mantengo forti dubbi sull’opportunità di collocare in altre tipologie di servizi i TSO, per i limiti fortemente garantisti previsti dalla legge quando questi sono effettuati in ospedale; 3. forse oggi, di fronte ad una evidente carenza di risorse disponibili, gli amministratori farebbero fatica a giustificare l’attribuzione necessaria di personale al DSM almeno nella stessa misura di oggi anche al di fuori dei presidi ospedalieri. Comunque infine dovetti cedere alle pressioni dei miei collaboratori: mi dovetti convincere che per tenere in mano le fila di un percorso di cura credibile anche nell’acuzie, in un ambito legislativo quale quello previsto nella nostra Regione, non si poteva delegare ad una sola unità operativa, con la quale per di più i rapporti non sempre erano idilliaci, la gestione di momenti critici particolarmente significativi per i pazienti. Si aprì così il 2° SPDC a Treviso. Per farla breve, partendo dalla realtà locale e dall’utente, piuttosto che da un progetto di mera “ingegneria istituzionale”, si sono poste le premesse per realizzare un decoroso servizio psichiatrico sul territorio. Non mi soffermerò sulle singole tappe della costituzione dei diversi presidi che hanno costituito negli anni il Dipartimento di Salute Mentale di Treviso come lo conosciamo ora, e quindi i Centri di Salute Mentale, i Centri Diurni, le Comunità Terapeutiche, le Comunità Alloggio e i Gruppi Appartamento, ma anche i Centri di Aggregazione, le Associazioni, le Cooperative Sociali a) e b), le reperibilità mediche ed infermieristiche 24 ore su 24 e tutto ciò che consente una possibile risposta territoriale in tutte le ore e 7 giorni su 7.

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I limiti di tale prospettiva, che la rendono, a mio avviso, anch’essa soltanto una tappa di un percorso da proseguire, è il raggiungimento di una provvisoria, inevitabile, neo istituzionalizzazione. Mi è chiaro ciò che non si è ancora potuto realizzare del tutto: una piena capacità di lavorare in équipe, una formazione critica veramente approfondita, una consapevolezza piena del significato sociale del sapere e del potere medico psichiatrico, una solida motivazione al miglioramento continuo, ma soprattutto una centralità ed un protagonismo dell’utente, sul piano della valutazione, della ricerca, della costruzione di un effettivo consenso informato. Purtroppo la psichiatria sul territorio non è ancora in grado di “criticarsi”, di interrogarsi a fondo sulle proprie debolezze epistemologiche, sui suoi limiti e sulla precarietà e provvisorietà delle sue attuali certezze, anch’esse storicamente determinate. La psichiatria è una disciplina “paradossalmente” medica, che si occupa di patologie conoscendo ben poco della fisiologia del benessere, della gioia, della felicità, dell’appagamento, della realizzazione di sé. E senza queste conoscenze non potrà trasformarsi in una vera e propria scienza della salute mentale, che sappia come, a partire dalla propria finitezza e inadeguatezza individuale, si possa contare sull’incontro con l’altro per non agire in conseguenza ad una incomprensibile paura o rabbia o invidia, non essere travolti dalla paura e dall’angoscia, dalla tristezza e dalla disperazione, da sogni ed incubi, nè schiacciati dall’inscalfibile certezza di essere collocati nel mondo con un’identità diversa da quella che ci viene attribuita. Bisogna lavorare perchè sia possibile confrontarsi con la morte e con il dolore, si sappia ribellarsi in maniera efficace e matura, acquisire soddisfazioni, competenze, saperi, attingere a risorse inesplorate, stabilire relazioni mature, sapere stare sia da soli che in compagnia, coltivare attenzioni e curiosità per il mondo umano e quello non umano, indignarsi e prendersi le proprie responsabilità senza essere paralizzati dalla colpa.

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Il mondo umano è un mondo sociale per eccellenza, un mondo di relazioni e di incontri (confronti, scontri). La psichiatria dovrebbe essere “cura” dell’anima (psiche in greco), non rassicurazione e mantenimento dello status quo, non “compliance” al trattamento ma “percorso” consapevole di acquisizione del senso della propria esperienza personale, accettazione di sé, curiosità dell’altro nel mondo umano condiviso e saper stare nel mondo non umano apprezzandolo ed arricchendolo. Ho fatto questo cenno per sottolineare che, in un’ottica riduzionistica e banalmente gestionale il sapere post manicomiale (“territoriale”) - beninteso, aggiornato e reso meno impresentabile - potrebbe non essere, nella sostanza, molto diverso da quello manicomiale. Chi è stato in manicomio potrà senza difficoltà cogliere delle analogie che i più giovani potrebbero far fatica a capire: quella tra un SPDC e un “reparto Osservazione” o “Agitati”, quella tra una CTRP e un “reparto tranquilli”, quella tra una RSA ed una “Infermeria”, quella tra le Comunità Alloggio e i Gruppi Appartamenti e i “reparti liberi”; peggio: quella tra un CSM ed un vecchio CIM. Cosa avviene “dentro” queste strutture e servizi che non avveniva nei vecchi padiglioni dell’Ospedale Psichiatrico? Come si passa da una struttura ad un’altra? E’ indispensabile rilevare e spiegare a fondo le differenze, per cancellare il timore di aver sostituito al manicomio il “terricomio”. Ma è, per lo stesso motivo, necessario analizzare a fondo quanto sia rimasto della cultura del primo anche nelle nuove sedi, in particolare quando, e capita ancora, ad un’affermazione manicomiale per eccellenza (“ho tentato di tutto, non c’è più niente da fare”) segua una domanda manicomiale per eccellenza: “dove lo/la metto”, piuttosto che tante domande non manicomiali: “dove ho sbagliato? che cosa serve fare ora? a chi chiedere aiuto? c’è un altro punto di vista? che cosa non avevo tenuto in considerazione?”. Queste

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domande configgono ancora con il pericolosissimo sentimento di onnipotenza che è presente nel segmento inconscio di personalità dello psichiatra, talora dello psicologo e di alcuni tra i più anziani collaboratori; si riscontra fortunatamente, non a caso, molto meno nei nuovi operatori e nelle figure professionali con minor potere corporativo, che hanno molto meno bisogno di attribuire i successi o gli insuccessi al proprio operato individuale e tengono conto di più delle contingenze dell’esistenza, come fattori protettivi o di rischio. Terzo passo: sperimentare la possibilità di un welfare comunitario. Franco Basaglia, nell’ultimo anno della sua vita, fu più volte interpellato a proposito della legge 180. Si apriva una chance: gli psichiatri, artefici e protagonisti di un movimento di liberazione di sé e dei malati, avevano messo in crisi, attraverso il loro agire pratico, i saperi e poteri nascosti nelle istituzioni, e quindi scoperto il possibile protagonismo degli utenti. Ciò metteva in discussione in profondità il sapere costituitosi a spese della “sragione” (Foucault) e avrebbe potuto portare all’acquisizione di una coscienza critica, potenzialmente capace – se le condizioni politiche e sociali lo avessero consentito - di contaminare e mettere in discussione il potere medico tradizionale. La legge era però anche il frutto di un compromesso – inevitabile – con il mondo sindacale medico ed universitario, di cui si conosceva l’anima intimamente conservatrice. Queste considerazioni non certo per un elogio del dilettantismo e dello spontaneismo, che Basaglia deprecava, quanto per “rifondare” una psichiatria ed una medicina che erano state tutt’altro che “democratiche”, tutt’altro che dalla parte del paziente. Si rendeva conto però che i contenuti della 180 erano ancora minoritari nella corporazione psichiatrica, che, con la sua mediamente scarsa cultura epistemologica, avrebbe

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potuto diventare una facile preda delle lusinghe del sapere tecnico neopositivistico e biologistico, o, in alternativa, del determinismo psicologistico, scimmiottando i colleghi medici delle altre discipline ospedaliere ed aspirando ad omologarsi con loro. E così, invece di proporsi il problema della gestione delle contraddizioni, in primis quella tra la cura ed il controllo, molti medici e psicologi si sarebbero potuti rinchiudere tra gli steccati riduzionistici di ciò che è o non è di competenza, sostituendo di fatto alla reclusione l’abbandono e creando un profondo disagio tra i familiari e complessivamente nella società, utilizzando un linguaggio (una “gergofasia”) impenetrabile e di casta, rinviando al non si sa quando della scoperta di una presunta eziologia somatica riconoscibile, la presa in carico e la terapia. Molti psichiatri avrebbero attribuito alla nuova legge le loro incapacità di gestione della sofferenza; altri, lieti di essere ricollocati nelle nuove strutture sanitarie tra ritrovati colleghi di studi universitari, per dimostrare la propria competenza gestionale, non avrebbero esitato a riproporre strumenti inaccettabili di intervento, quali trattamenti comportamentali, contenzioni fisiche e chimiche, isolamento, elettroshock. Da punto di partenza, la 180 rischiava seriamente di tramutarsi in un punto di arrivo, una passerella per consentire anche a specialisti di serie b), gli psichiatri, di varcare il guado ritornando a pieno titolo nella loro corporazione. Questo a costo di riprendere un atteggiamento neo-positivistico nei confronti di una “malattia” la cui caratteristica è quella di prestarsi assai male, se la si vuole affrontare nella sua specificità, ad una messa tra parentesi dell’uomo sofferente e ad un’enfasi sulla singola prestazione tecnica. La scoperta della possibilità effettiva di un aiuto competente, infatti, in psichiatria, corrisponde ad uno sguardo ampio, capace di abbracciare la complessità, di non enfatizzare la presunta onnipotenza terapeutica del singolo ma di valorizzare l’apporto del familiare, dell’operatore di base, delle opportunità di scambio sociale ed affettivo messe in gioco.

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Credo che purtroppo Basaglia abbia avuto ragione nell’individuare con grande anticipo il rischio di una vittoria delle semplificazioni, del riduzionismo biologistico che avrebbe potuto ripristinare, per i “fallimenti”, nuovi contenitori di tipo assistenziale, nella difficoltà di affrontare la complessità di una sofferenza che ci interroga tutti sul significato della nostra dimensione umana. Eppure un discorso davvero scientificamente fondato non può più prescindere da una analisi seria della “crisi della presenza”, come crisi storicamente determinata, della limitatezza di una visione rigidamente darwiniana del genoma, soggetto a continui cambiamenti nel corso dell’esistenza, tanto che i gemelli omozigoti al termine della loro esistenza non sono più del tutto tali, della povertà di determinismi sociologistici o psicologistici, dell’impossibilità della completa “neutralità” dello psicoterapeuta, dei limiti degli “schemi cognitivi” per spiegare la sofferenza. Freud stesso, giustamente, affermava che la sua psicoanalisi non era indicata “né per i proletari né per i principi”, essendo estremamente determinata da un mito, quello edipico, fondativo di una stabile famiglia borghese nucleare quale oggi si fa fatica a trovare. La scoperta della plasticità, delle potenzialità ricostruttive del sistema nervoso, dei “neuroni specchio”, della comunicazione e della socialità come centrali sin dall’infanzia nella specie umana, le capacità ri-abilitative di un ambiente caratterizzato dall’accettazione, l’accoglienza ed il rispetto, così come la scoperta dei danni terribili della violenza fisica e psicologica sulla persona in stato di cattività e disumanizzata, dovrebbero impedirci di dare per definitivamente acquisite conoscenze tutt’altro che certe sulla natura della sofferenza mentale. Per affrontare tale complessità, sfuggendo ad ogni riduzionismo, è necessario ricorrere a quello che recentemente Kendler, che, purtroppo inconsapevolmente, riprende i contenuti operativi della psichiatria democratica italiana ha chiamato “pluralismo integrativo”.

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Dovremmo proporci, ma non in astratto, quanto piuttosto intervenendo con serietà di impegno e di indagine nella realtà del sofferente, questa domanda: cosa resterebbe di specifico in psichiatria se fosse realizzato completamente il superamento di ogni miseria: affettiva, economica, culturale, relazionale, sociale, nonché di ogni violenza e reclusione? Se davvero ci fosse quella libertà individuale che comporta l’accettazione ed il piacere dell’esplorazione e del rischio, del mettersi in gioco, della scommessa esistenziale che fa della libertà dell’altro non un limite ma una opportunità anche per la propria crescita personale? Sperimentando una presunta impossibilità ed indegnità a essere oggetto e soggetto d’amore, quanto risentimento, quanta rabbia, quanta violenza, quanta fuga dalle responsabilità sono prodotte dall’accettazione pregiudiziale di una propria sconfitta ed ininfluenza nel mondo umano? Quando non rimane che proporsi come un perseguitato dal mondo o come un dio incompreso o di godere il carnevale (che è fuga preventiva dalla consapevolezza del lutto quaresimale) del trionfo maniacale sull’altro da sè, non ci si rende più colpevoli, più piccoli e meschini - in breve: non ci si impoverisce e quindi non ci si cronicizza ? Non ci si allontana persino da se stessi, dal confronto con la propria autenticità umana, in una dispersione disordinata di proiezioni sugli altri di sentimenti dolorosi ed inaccettabili che confermano la propria indegnità e possono portare, se la consapevolezza arriva di colpo, senza mediazioni e senza una elaborazione, magari in seguito ad uno “svuotamento” indotto farmacologicamente delle proprie intuizioni deliranti, alla disperazione ed all’elaborazione di intenzionalità autosoppressive? Non è sufficiente la legge 180, che è conseguenza di un lavoro efficace ed utile per cambiare il “paese legale”. Va cambiato il “paese reale”, la cultura degli specialisti e della comunità, la capacità di quest’ultima di accogliere, di scoprire nell’incontro con l’altro e nella valorizzazione della sua libertà un diretto

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beneficio anche per chi sta “provvisoriamente” bene, che non è invulnerabile e può diventare anch’esso fragile e insufficiente a se stesso, ma desidererebbe anche in circostanze sfavorevoli poter dire la sua, potersi muovere, poter decidere senza “subire” le regole altrui. Le famiglie diverse da quella di origine sono meno invischiate, meno sfiduciate, godono di una rete comunitaria più ampia ed accogliente, tollerano le trasgressioni o le condannano senza immediatamente vedere in quelle sintomi allarmanti di malattia. Possono tenere una distanza affettiva giusta, sono meno gravate da rischi di eccessiva intimità, violenze, risentimenti, rancori, aspettative deluse o insostenibili. Possono considerare la diversità dei comportamenti tollerabile, conseguente ad una diversa storia familiare e personale. Rappresentano un allargamento della cultura che combatte, e non soltanto a chiacchiere, lo stigma ed il pregiudizio. E’ necessario che possano confidare in servizi sempre immediatamente disponibili, in caso di necessità, senza sentirsi messe in discussione se qualcosa non funziona. Vedono il farmaco nella sua giusta dimensione, non lo temono eccessivamente né gli chiedono di fare miracoli o di sostituirsi a loro per realizzare un contenimento, e riscontrano in maniera meno coinvolta gli effetti collaterali riportati dal loro ospite. In un percorso effettuato “altrove” non solamente si evidenzia, ma spesso si dà una prima risposta anche alla componente “capro espiatorio” o di “spia, megafono” che la sofferenza del soggetto designato malato esprime “per conto” di un nucleo familiare di origine problematico, ma non per questo colpevole. Si riduce nei servizi la convinzione della “vulnerabilità”, fragilità, del malato, a cui sarà chiesto con minor timore di mettersi in gioco in un percorso seriamente riabilitativo, correndo quegli utili rischi che ciò comporta. Si amplia, in uno sguardo panoramico, la consapevolezza di quella complessità che è al centro della riflessione scientifica

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contemporanea, che esclude l’asetticità e separatezza dello scienziato/osservatore dal fenomeno (e tanto più dal soggetto) osservato. Consente di chiedersi con maggiore inquietudine epistemologica che cosa davvero faccia bene o faccia male in un intervento psichiatrico, quanto la psichiatria possa aver superato della sua vecchia funzione quasi esclusivamente di detenzione custodialistica e possa davvero cominciare a dirsi “terapeutica” e “ri-abilitativa”.

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LUOGHI E LEGAMI: PENSARE ANTROPOLOGICAMENTE ALL’ESPERIENZA DELL’ACCOGLIENZA Prof. Roberto Beneduce Psichiatra, Professore Associato di Antropologia Culturale presso la Facoltà di Psicologia, Università di Torino Ringrazio gli organizzatori per avermi dato la possibilità di aprire una finestra su una prospettiva disciplinare che si vuole complementare, integrata alla pratica, alle riflessioni che voi avete esplorato in questi due giorni. Dico due parole sul punto di vista teorico che vorrei presentare, in Italia non c’è purtroppo quella tradizione che in altri paesi è già ampiamente radicata, la tradizione medico – antropologica che vede a fianco clinici, ricercatori e antropologi che lavorano nei reparti, nei servizi, nelle comunità psichiatriche accanto ai medici come se facessero tradizionali etnografie. E’ uno sguardo che vuole acuire la strategicità dell’approccio clinico, vuole introdurre punti di vista critici, vuole migliorare. Dunque una antropologia applicata alle esperienze della psichiatria che riesce a farci pensare ai nostri strumenti con un minimo di distanza e di oggettivazione che talvolta non siamo in grado di operare. L’antropologia medica è un contributo, non ha la pretesa di illuminare in modo ultimativo i problemi di cui si parla, vuole semplicemente tradurre e rendere un oggetto anche la medicina, la psichiatria, le categorie di queste scienze, vuole sottoporre a costante critica non tollerando che siano date come oggettive queste idee che circolano. Ogni volta parliamo di farmaci, malattie, di pratiche come se fossero ormai date, l’antropologia medica è il tentativo di sottoporre a vaglio critico. Utilizzo spesso una frase che a molti di noi è assai familiare “farsi perpetuo principio di inquietudine nel campo delle scienze umane” era contenuta nel libro Antropologia dei saperi, questa frase purtroppo la dimentichiamo, dovremmo appropriarcene e inquietare le

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nostre pratiche, interrogarle e portare alla luce le contraddizioni, portare alla luce quelle zone di invisibilità. Veniamo a noi, uno psichiatra antropologo spagnolo ha di recente sottolineato come la psichiatria contemporanea si faccia promotrice di una invisibilizzazione della sofferenza, la sofferenza psichica. Essa è resa invisibile nelle sue matrici, nei sui sviluppi e gli operatori sentono spesso questa esperienza e non riescono a cogliere, necessariamente o sempre, l’effetto, la ricaduta sulle bibliografie dei nostri interlocutori principali cioè i pazienti. Rendere invisibile la sofferenza significa di fatto recidere delle connessioni, recidere rimpicciolire la portata e il significato delle loro esperienze, della loro richiesta d’aiuto. Questo rimpicciolimento noi lo ritroviamo in mille pagine, in mille luoghi della contemporaneità. Per me che faccio il docente universitario ascolto le tesi dei giovani psicologi e mi rendo conto come loro sono portati a tagliare, recidere, comprimere e nella loro splendida tesi, presentata al power point, ne esce un modellino esile della sofferenza psichica…..” il paziente psicotico, schizofrenico è colui che non riesce ad interpretare le intenzioni dell’altro e per tanto il modello cognitivo ci dice che…..” e cosi tutto è già rimpicciolito reso oggetto. Lo sforzo di questo sguardo che condividiamo oggi è quello di allargare, di rendere visibile quelle zone opache, di lasciare che questa opacità, questa non facile visibilità sia proprio lì sul tappeto ad interrogarci. Nell’inserimento eterofamiliare abbiamo una vera e propria rivoluzione, non ce ne accorgiamo ma è un idea di un carattere esplosivo per tutti i piani che incrocia, mette a fuoco quelle zone di invisibilità di cui parlavo prima. Incrociare il luogo della cura e il luogo di una famiglia che non è quella biologica significa in un solo colpo rimettere in discussioni modelli, confini, geografie della sofferenza e dell’appartenenza. Non è soltanto la pur già decisiva dimensione dell’affidare a non – professional la cura e la responsabilità di aiutare persone sofferenti, benchè supportate certo, ma noi sappiamo quanto

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questo compito sia delicatissimo e sia stato rivoluzionario nelle esperienze di questi decenni. Vorrei invitarvi a riflettere sulla dimensione della geografia affettiva che in modo arbitrario, consapevolmente arbitrario, si vuole introdurre con questo sistema. La parte antropologica che è in me mi spinge a fare delle connessioni, che sono comunque pertinenti, anche se geograficamente lontane. Abbiamo familiari come l’esperienza belga che ha qualche secolo ma questa esperienza, non si chiama con termini così eleganti perché altre popolazioni badano meno alle categorie e badano ai fatti, ebbene un'altra situazione che io ho visto, ho sperimentato e la storia dell’antropologia medica, dell’antropologia psichiatrica l’ha documentata. Il sofferente, colui che non riesce più a recuperare un legame, probabilmente molti di voi ricordano questi mitici luoghi che erano i villaggi terapeutici, ritrovano la possibilità di una connessione con la comunità, mediata da guaritori, famiglie, persone che non avevano certo una professionalità psichiatrica ma che riuscivano a recuperare quel legame reciso. Per quel che io ho potuto vedere in Senegal, in Mali o in altri paesi le persone che potevano e possono usufruire di queste opportunità non sono persone affette da disturbi leggeri. Sempre negli anni ’50 si notava quello che anche voi notate nonostante le difficoltà, nonostante le sfide di questa esperienza, il processo di guarigione sembrava e sembra procedere più rapidamente. Il numero di ricadute, questo ce lo dicevano già alla fine degli anni ’50 gli osservatori, gli epidemiologi trasculturali, si riduce drasticamente. Che cos’è che opera in queste situazioni? Che cosa diventa efficace quando un individuo viene a forza arbitrariamente risituato in quel luogo che invece sembrava averlo espulso? C’è una consuetudine a guardare soprattutto a colui che soffre e alle sue incapacità / difficoltà e dobbiamo ammettere che, per quanti sforzi noi si faccia, lo sguardo rimane prevalentemente rivolto alle faglie dell’altro non a quelle del

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contesto. Il fatto di spostare la forza della nostra riflessione, della nostra pratica sui legami con famiglie, con operatori ma anche con persone che non sono operatori, forse è un antidoto a questa deriva dello sguardo verso la sofferenza dell’altro. Che cosa voglio dire? Bisogna avere molta pazienza per ricondurre la deriva psicotica, la sofferenza psicotica ad una quantità di matrici che non sono soltanto individuali. Voglio dire qualcosa di ovvio, banale ma anche difficile da pensare. Quello che pensiamo non appartiene a noi, viene prodotto dalle mode, dalle egemonie culturali e dunque non c’è da sorprendersi se oggi è più difficile pensare a quello che 30 anni fa era facile e ovvio pensare. Oggi è difficile pensare e dire che le matrici sociali della psichiatria e della sofferenza mentale sono determinanti per il destino della sofferenza. Oggi è più difficile perchè altre mode altre egemonie hanno imposto sguardi diversi, ma obbligarci a guardare non soltanto all’altro e guardare a quello che viene meno e che è all’origine, o quanto meno contribuisce allo sviluppo della sofferenza psichica, credo che sia reintrodotto con forza anche da un modello come quello che si discute qui. Stò dicendo che solo spostando o modificando i luoghi della cura e dell’interpretazione della sofferenza che si riescono a cogliere altri legami, altri significati e insieme a ristabilire o proporre possibilità di cura reali. Stò parlando del fatto che tutto o quasi, nelle nostre società è segnato da quello che ci è familiare ma che non vediamo, come la famosa acqua dove nuotano i pesci, ciò la crisi del legame, la crisi del legame sociale. Questo la sappiamo da tempo ma ci siamo ormai adattati, questo ci è così ovvio che non è più fra i motivi o le eziologie della sofferenza psichica. C’è una quantità enorme di illuminati e ricercatori che mettono ormai da parte questa variabile, ma chi lavora anche in altri contesti culturali, sa che è proprio su questa linea che si lavora per curare. Ristabilire il legame sociale prima di ogni altra cosa, prima di interpretare, prima di nominare la causa della malattia è sul legame che si

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fonda una parte consistente del lavoro terapeutico. E’ dovuto dire e accennare che le cose non sono semplici e che i fallimenti sono stati registrati anche nei contesti che io sto evocando. Negli anni ’70 inizio anni ’80 uno psichiatra nigeriano, Lambo, diceva…”purtroppo le nostre strategie poco possono contro il crak, la cocaina e l’eroina, quando arrivano questi ragazzi dalle metropoli non riusciamo a fare più nulla, i nostri guaritori sono impotenti…” questo per dire che non si abbia la pretesa che parlare del legame sociale sia una sorta di panacea o che questa procedura non debba essa stessa reinterrogata in contesti diversi e di qui a 10 anni. Mi pare fondamentale che del legame sociale queste strategie, esplicitamente o implicitamente, ci parlino e questa è la piccola rivoluzione di questo modello che dal punto di vista antropologico è per me estremamente intrigante. C’è una forza che spinge a percepire, a interpretare la sofferenza nel malato. Porre le premesse perché lo stesso paziente pensi e guardi e interroghi la sua sofferenza all’interno di legami altri, che non sono quelli della famiglia naturale, mi sembra essere un messaggio e metamessaggio di portata sconvolgente. Pensate al fatto che la nostra famiglia è di fatto ampiamente trasformata, noi non ce ne accorgiamo, ma il modello di famiglia di cui registriamo le crisi è un modello oramai esploso nella fittizia uniformità. Me ne rendo conto quando parlo con operatori sociali, con giudici o avvocati per pazienti che seguo, in prevalenza da circa 7 anni, cioè immigrati. Quando si deve parlare con loro di rapporti tra genitori e figli o tra mogli e mariti in matrimonio poligamo, loro si disorientano, si confondono, rimangono paralizzati perché per loro sono situazioni incomprensibili. Aggiungo una nota in margine, il ministro all’impiego francese ha evocato la poligamia come la causa delle rivolte delle periferie di Parigi. Perché dico questo da antropologo, perché significa che nella opacità dei problemi noi reagiamo con modalità confuse e ciò che non capiamo lo tiriamo per i capelli a spiegare fatti altrettanto complessi.

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Poligamia e incendi dell’Abanlieu sarebbero stati insieme! Smentita questa affermazione da psicologi, antropologi, criticata duramente poi il ministro ha dovuto rimangiarsi le sue affermazioni. Perché dico questo ? dobbiamo abituarci a concepire una famiglia che non riproduce necessariamente la famiglia di cui si parlava, perciò questo modello è doppiamente legittimo. Ci stiamo assumendo, in qualche modo senza forse averlo pensato, il diritto di fare quello che fanno già molte società, far prevalere il punto di vista culturale sul legame biologico. Per noi è più importante stabilire un legame strategico che non quello di ritrovare unicamente all’interno dei così detti legami di sangue, spiegazioni della sofferenza o risorse per curarla. Questa è una rivoluzione, una rivoluzione che società, popolazioni, culture hanno già utilizzato. I fenomeni di sterilità di infecondità sono sempre stati risolti con questo tipo di dono fra famiglie; i figli possono essere donati a un'altra famiglia senza scambi economici, senza commercializzazione. E’ una concezione che forse ci genera raccapriccio ma mi sempre importante assumerla nel nostro bagaglio di categorie per far capire che le società sempre hanno impostato arbitrarie geografie ai legami ai vincoli affettivi, poi dimenticandosene e naturalizzandole a loro volta, finendo con considerare quelle biologiche o quelle d’altro tipo le sole possibili. Ecco perché mi piace pensare in chiave antropologica una famiglia che diventa tale, cioè capace di produrre legami efficaci sul piano affettivo per chi non ha legami biologici con quella famiglia. Mi piace pensarla come esperimento come strategia, mi piace pensarla anche come provocazione ai nostri timori là dove altri modelli di relazione familiare stanno entrando nel nostro corpo sociale. E poi luoghi…..perché luoghi? Riferisco rapidamente una definizione che mi è sempre piaciuta "il moderno trasforma i luoghi in siti, in semplici passaggi dove diventiamo turisti distratti della nostra memoria e del nostro passato…” (Simon Norà). Credo che anche i nostri servizi, anche i migliori servizi,

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diventano spesso siti per le persone che soffrono. Ecco perché un esperimento come questo diventa o ridiventa luogo, cioè abitato di significati reali, perché reali possono essere gli scambi e le relazioni. Accettate questa mia piccola critica ho conosciuto e conosco, benchè faccia l’antropologo ho lavorato e continuo a lavorare con gli psichiatri con gli operatori migliori, la deriva di tanti spazi di cura verso la neutralità affettiva. Questo mi ha sempre interrogato e fatto soffrire perché ho colto in questa banalizzazione il sintomo preoccupante di una perdita di senso del luogo della cura. Sono talvolta quasi moralista quando mi arrabbio con colleghi per far notare l’abbrutimento con il quale noi ci adattiamo a curare distrattamente in luoghi pessimi le persone. Perché dico questo? Qui siamo in condizioni privilegiate, i vostri servizi sono sicuramente tra i migliori, ma quante volte manca un altro profilo, un'altra attenzione? Questo mi sembra dover costituire un motivo ulteriore per pensare la fecondità di una iniziativa quale quella dell’inserimento eterofamiliare. Credo che chi ha condotto e la sta conducendo sa perfettamente quanto sia rischiosa, quanto sia difficile ed incerta. A me piace che si accetti l’incertezza come la misura di una vera prova di un vero esperimento scientifico, non la certezza dei suoi risultati. Seppure questo esperimento da qui a 10 anni dovesse essere riconsiderato, credo che è l’incertezza che in questo momento noi accogliamo. I dati sono ancora pochi, i numeri piccoli, non abbiamo una massa di dati che solitamente le statistiche mediche fanno cadere sul tavolo a dimostrare le loro verità. E’ l’incertezza che dà peso e valore all’esperienza. Ripartiamo dunque rovesciando i presupposti con i quali il nostro pensiero medico, clinico, scientifico è stato formato e riflettiamo utilizzando anche un ulteriore risorsa. Chi fa queste cose forse non ci racconta tutto dei motivi che spingono le persone a farlo, ma qui abbiamo un altro dei profili più densi, più delicati, più profondi di questa esperienza. Questo è un passaggio rischioso me ne rendo conto, ma le

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nostre materie questo fanno guardano i rischi in faccia, non arretrano di fronte alle parole che inquietano. Ebbene io so per esperienza che nessuno di noi potrebbe fare questo lavoro se non guardasse sistematicamente dentro di se, alle ragioni profonde delle proprie reazioni o delle proprie motivazioni. Credo che questo lavoro debba essere sostenuto anche nelle famiglie che accolgono i pazienti, le loro motivazioni quelle dette, quelle non dette, quelle non note nemmeno alle famiglie stesse devono rappresentare un terreno di riflessione e di lavoro perché diventino vere risorse. Dico questo anche sulla base di una letteratura non di un senso comune, noi sappiamo quanto un volontariato che non è stato consapevole delle motivazioni del suo gesto ha prodotto spesso sofferenze, fallimenti, inquietudini, colpevolizzazioni. L’analogia che per associazione è inevitabile fare è con il campo delle adozioni, se poi aggiungo nella mia esperienza il campo delle adozioni con minori che vengono da famiglie problematiche, ebbene io mi sono reso conto che molte volte un lavoro superficiale proprio sul livello delle motivazioni è stato all’origine di un insuccesso o di un fallimento. Tanto più allora nel caso in qui si lavora con gli adulti, il supporto di cui voi parlavate alle famiglie deve essere certo formazione e consapevole addestramento ai problemi dell’altro, ma immagino che questo sia fatto già, anche costante attenzione alla dinamica delle motivazioni che nel corso del tempo si modificano, evolvono, vengono alla luce, cambiano. Credo che come è già noto a chi faccia questo tipo di sperimentazione c’è un dinamismo complesso nel rapporto con questa prossimità con gli adulti che vengono accolti. Questo dinamismo complesso è una parte altrettanto critica e generosa di suggestioni per operare con maggiore efficacia quella che è già una radicale demedicalizzazione dell’intervento psichiatrico. Noi abbiamo delle ragioni che ci servono, sempre dobbiamo aggiungere….costa anche di meno! Guai se oggi non si pronunciasse questa frase, bisogna per forza dirlo, anzi c’è

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sempre l’amministratore saggio che dice…..non distraetevi perché qui senza soldi ! mi ricordo da bambino un parroco che diceva “….senza soldi non si cantano messe nemmeno per i morti…” . questa modalità di pensare amministrativamente ai nostri interventi ha generato mostri. Quindi aggiungo, come antropologo, che la dimensione economica non diventi una giustificazione o una legittimazione degli interventi. Sarei più contento se non fosse nemmeno più evocata, lasciamo agli amministratori poi verificare che questo costa di meno. Lo dico provocatoriamente…..qualche giorno fa ad un incontro politico dove c’era stato un cambio di direttore generale, qui ci sono anche direttori generali ma come antropologo posso permettermi una certa distratta arroganza, il direttore generale diceva “qui c’è qualcuno che ha fatto finanza creativa, non si faccia sanità creativa, non aspettatevelo da me…” ed io mi sentivo raggelare. Non ci si aspetta qualcuno che guidi le nostre risposte alla sofferenza con la preoccupazione di misurare i centimetri di creatività, ma qualcuno che rischia sulle zone di incertezza delle strategie rivolte a ridurre la sofferenza. Ecco perché il discorso antropologico medico applicato critico vuole non perdere di vista la meta ideologia che spesso noi evochiamo per sostenere queste nostre iniziative. Una iniziativa come questa ha una validità antropologica, ha un valore sperimentale perché sblocca i luoghi ordinari dell’esperienza, della sofferenza e della sua cura, promuove altri protagonisti sociali nella gestione della sofferenza, è una risposta, se siamo abbastanza onesti, capace di operare in un ambito circoscritto in un campo estremamente contraddittorio dove deve misurarsi con altre forze (oggi prima pagina del corriere…..il Prozac sarà legittimamente somministrabile al di sotto degli otto anni…). Questo è lo scenario dove il vostro inserimento eterofamiliare cade, non può essere dimenticato! Il nostro campo è percorso da forze ostili che stanno negoziando il senso della sofferenza psichica. Nessuna battaglia è stata vinta mai a riguardo della

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sofferenza psichica perché la sofferenza psichica è sofferenza sociale, non si può parlare dell’una senza riflettere sulla nostra società, ed è per questo che i conflitti sono sempre così roventi. L’inserimento eterofamiliare è capace, in modo cauto, prudente, silenzioso, di smuovere nuovamente un dibattito addormentato, capace di tollerare certe frasi, certe affermazioni, certe pratiche. Sarebbe importante e decisivo che questo esperimento sia assunto dai responsabili delle ASL come una procedura tecnica innovativa motivata non solo dalle ragioni di ridurre il costo di un ricovero, ma fondamentalmente dalla sua capacità di rispondere al bisogno di legame, cioè una risposta terapeutica che ha il suo fondamento nei presupposti che l’hanno definita. C’è una letteratura sconfinata non solo all’interno di poche esperienze ma all’interno di altri paesi la dimensione della crisi sociale come il luogo nel quale si deve agire per produrre salute mentale. E’ ormai assunto persino da quelli che parlavano prima di cultura, questo lo dico come antidoto ad eventuali diffidenze che talvolta ho sentito intorno alla psichiatria culturale o all’etnopsichiatria, un antidoto preliminare. La psichiatria culturale e l’etnopsichiatria si interrogano sulle matrici ordinarie del disagio che sono la violenza e la crisi del legame sociale ed è anche questa violenza invisibile, questo continum della violenza, come ha detto un medico antropologo, che noi non riusciamo più ad evocare tra le cause della malattia. L’esperienza che io ho con i miei pazienti che mi parlano sempre di più di questo spettro della violenza che è anche la violenza minimale della indifferenza delle istituzioni. Dicevo prima a Guido e a altri colleghi che ieri sera finito un seminario ho acceso il cellulare e nell’arco di sette minuti ho ricevuto tre telefonate di miei pazienti che volevano raccontarmi del modo in cui sono stati trattati dai servizi sociali. Ecco perché ristabilire il centro del nostro intervento sui legami, permette di ridurre l’impatto devastante dell’indifferenza dei servizi motivata da ragioni di razionalità economica che sulla salute psichica è

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catastrofica. Noi non ne parliamo, mai abbastanza, ma se ascoltate i vostri pazienti e raccogliete per intero le loro narrazioni sentirete la frustrazione e il dolore che a loro arriva dal non sentirsi abbastanza accolti, ascoltati da parte dei servizi e delle istituzioni. E’ facile intuire che questo si decuplichi nel caso di immigrarti, transessuali, ex prostitute nere. C’è un facile esercizio mentale da fare qui per capire come l’impatto di questa indifferenza operi catastroficamente sulla salute mentale. Il legame quindi è doppiamente strategico, colloca l’individuo e la solitudine dei sui vissuti d’indifferenza in un minimo di socialità, un minimo di comune memoria dal quale ripartire. Se qualcuno deve invocare una strategia scientifica ebbene c’è l’ha gia! Quella di inventare arbitrariamente legami nuovi non necessariamente ricalcando quelli esistenti, ma che cosa facciamo noi se non arbitrariamente ricodificare sempre relazioni, disturbi, luoghi della cura……dunque continuiamo!

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L’ACCOGLIENZA FAMILIARE NELL’ESPERIENZA TEDESCA DI RAVENSBURG - Dott.ssa Regina Trautmann Infermiera Professionale presso l’Associazione Arcade di Ravensburg Io lavoro al servizio di accoglienza familiare c/o l’associazione ARCADE di Ravensburg. Ravensburg si trova nel sud della Germania e l’ARCADE è una associazione di pubblico interesse competente per la cura psichiatrica territoriale in questa provincia. Pur cooperando con una clinica psichiatrica, per quanto riguarda l’organizzazione, siamo completamente autonomi e indipendenti. Vorrei rappresentarvi ora le offerte dell’ARCADE: un servizio psichiatrico sociale convenzionato, un istituto di riabilitazione, un’assistenza giornaliera e dei laboratori artigianali e meccanici. Profilo generale In Germania l’inserimento di malati psichici in famiglie è stato riattivato nell’anno 1984 contemporaneamente dal prof. Smid a Ravensburg e dal prof. Eld a Bonn. Il nostro progetto è numericamente quello più consistente in quanto assistiamo, in una zona di 450.000 abitanti, 85 pazienti psichici adulti in famiglie (solo una minoranza di questi soffre di malattie psichiatriche-geriatriche con bisogni assistenziali), e altri 100 soggetti tra bambini e giovani con disturbi psichici. Complessivamente oggi in Germania sono assistiti in famiglie circa 1050 pazienti psichici e 350 con handicap mentali. Definizione L’assistenza famigliare è intesa come la cura di malati psichici attraverso l’inserimento in famiglie diverse da quella d’origine nelle quali possono essere inseriti uno o al massimo due

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pazienti. Denominiamo la famiglia Ospitante, mentre i pazienti sono chiamati abitanti, i pazienti assistiti da noi sono stati dimessi dalla clinica e prendono la residenza in famiglia. In Germania solo in uno o due stati federali, i pazienti restano pazienti anche se abitano fuori dalla clinica e sono inseriti in famiglia. Gli abitanti vivono per lunghi periodi in famiglia, attualmente il nostro più lungo percorso dura da quasi 20 anni. Famiglie Le famiglie sono il bene più prezioso, siamo fortunati da avere sempre più famiglie in lista disposte ad accogliere abitanti. In questo momento ci sono 20 famiglie che aspettano un accoglimento. Ad intervalli regolari mettiamo annunci su quotidiani regionali su cui cerchiamo famiglie adatte e disponibili. Nello stesso tempo ci sono anche le famiglie stesse che ci comunicano nuove famiglie disponibili a questo tipo di esperienza. Questa è la nostra migliore pubblicità. Ci sono famiglie complete e coppie o single. Di solito sono le cosi dette famiglie dilettanti. Non ci aspettiamo una formazione professionale da un membro della famiglia anzi abbiamo notato che il dilettantismo è la loro grande forza. Noi professionisti spesso ci orientiamo alle disabilità, abbiamo cioè un occhio su ciò che non funziona, mentre le famiglie guardano in primis quello che sanno fare gli abitanti e questo è una gran cosa per i nostri clienti. Nella quotidianità vediamo progressi incredibili da parte loro. Solo nella cura degli ammalati gerontopsichiatrici è un vantaggio avere famiglie con esperienza professionale. Le famiglie interessate a questo tipo di esperienza vengono invitate da noi ad un primo colloquio, sulla base di un questionario tipo ci informiamo sul loro modo di vita, sui loro desideri, sulla loro immagine in relazione ad un futuro abitante. Molto importate è sapere che cosa non possono tollerare. Spesso sono abitudini come il fumare o il mangiare o altre piccolezze ma significative

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per il futuro di una convivenza. Poi le informiamo del nostro lavoro, di seguito c’è una visita in casa per vedere e conoscere la famiglia nel loro ambiente e per vedere gli spazi abitativi. Clienti I pazienti destinati ad un inserimento familiare di solito provengono da una clinica psichiatrica o istituto ma anche quelli che sono soli in casa. All’inizio del nostro lavoro sono stati assistiti soprattutto anziani con malattie croniche, ora sempre più spesso siamo contattati per pazienti giovani i new cronics. Poi facciamo conoscenza con i pazienti gli informiamo del progetto e chiediamo i loro desideri riguardo ad una nuova famiglia, ci informiamo dei loro problemi e dei loro punti di forza, chiediamo come percepiscono un peggioramento della loro malattia, cosa gli aiuta e che cosa è importante in queste situazioni. Le diagnosi dei clienti inseriti Psicosi, depressioni, disturbi bipolari, dipendenza da alcol e droghe, clienti giovani con disturbi di personalità, secondo noi sono meno adatti per questa forma di inserimento. Inserimenti Discutiamo molto per gli abbinamenti e questo è la base del nostro lavoro e le intuizioni dei colleghi è importantissima. Ora abbiamo una grande esperienza di inserimenti, ma mai sottovalutiamo le situazioni. Presa la decisione dell’inserimento, vengono informati telefonicamente gli interessati e dopo facciamo la visita alle famiglie con i pazienti per un caffè. Possibilmente ci accompagna una persona di riferimento del pazienti. Questo primo incontro serve per conoscersi e per i

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primi contatti, dopo le persone interessate decidono se fare un periodo di prova. La prova dura una settimana e dopo tale periodo si decide se il rapporto di convivenza continuerà e se l’abitante avrà la residenza in famiglia. Accompagnamento del team dell’arcade Siamo una squadra multiprofessionale composta da infermieri e assistenti sociali, tutti hanno esperienze di lavoro con pazienti psichiatrici, non ci sono medici nel team. Ogni collega si occupa al massimo di 10 abitanti e siamo responsabili per tutte le esigenze di assistenza e quindi tutti facciamo lo stesso lavoro. Noi visitiamo le famiglie all’inizio con cadenza settimanale e dopo una fase di ambientamento ogni 4 settimane. Annunciamo sempre il nostro arrivo perché la nostra visita è di sostegno e non di controllo. Tutte le famiglie conoscono i nostri tel. Privati per essere sempre raggiungibili anche di sera o il fine settimana. Ciò da una grande sicurezza alle famiglie anche se la utilizzano solo nelle emergenze. Gli abitanti sono curati da un medico generico e si recano regolarmente presso un ambulatorio psichiatrico. Se hanno anche una propria famiglia se serve regoliamo il contatto tra la famiglia d’origine e la famiglia ospitante. Spesso per la famiglia d’origine è difficile accettare che la famiglia ospitante vada d’accordo con l’abitante, la dove loro stessi hanno fallito. In generale per le due famiglie la cosa più importante è accettarsi vicendevolmente. Struttura giornaliera Tanti abitanti non sono in grado di avere un occupazione regolare, nella famiglia fanno dei lavori semplici di giardinaggio, o aiutano in casa. Noi non procuriamo mai manodopera. Alcuni degli abitanti frequentano un laboratorio artigianale protetto,

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solo in casi eccezionali è possibile un’occupazione regolare sul mercato del lavoro. Finanziamenti Il finanziamento della accoglienza famigliare è attuato tramite l’assistenza sociale. In questo momento le famiglie ricevono € 800,00 al mese per vitto, alloggio e assistenza per l’abitante. Gli ospiti ricevono € 113,00 al mese per le piccole spese e per il vestiario, l’associazione ARCADE riceve per ogni cliente € 563,00 al mese. La dove gli abitanti hanno un reddito o una pensione questa viene utilizzata direttamente. In Germania molte prestazioni sociali si stanno riducendo e noi temiamo una riduzione anche in questo settore. Criticità Non ci sono criteri di esclusione per quanto riguarda le famiglie. Non ci sono famiglie o clienti non adatti, ma solo inserimenti sbagliati. Escludiamo famiglie che non mettono a disposizione una camera singola o famiglie che hanno solo interessi economici. In questi casi non inseriamo pazienti per evitare che vi siano pressioni inappropriate sui clienti dell’ARCADE. Per i pazienti valgono i seguenti criteri di esclusione: pericolo di suicidio acuto, grande propensione alla violenza, delitti precedenti su minori. Cerchiamo sempre di trovare un posto per tutti, ma ci possono essere famiglie o pazienti per i quali non troviamo abbinamenti adatti.

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Impressioni personali Lavoro da più di 15 anni in questo settore e lo trovo molto interessante. Ho un grande rispetto per le famiglie che ospitano i pazienti e ammiro il loro coraggio e la loro disponibilità. È molto interessante lavorare con le costellazioni familiari diverse e seguire gli sviluppi e i cambiamenti delle famiglie e degli abitanti. Questa forma di assistenza non è solo una fortuna per i pazienti ma anche per noi operatori dell’ARCADE. Se volete conoscere in dettaglio il nostro lavoro siete tutti invitati a contattarci in qualsiasi momento.

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L’ACCOGLIENZA FAMILIARE E LA DESTIGMATIZZAZIONE NELL’ESPERIENZA FRANCESE DI LILLE Dott. Frederic Wizla Psichiatra, chef de Service sur le Secteur 59G24, EPSM de l’Agglomératyion Lilloise. Dott. Francesco Macrì, Psichiatra presso le service G21 de l’ EPSM Lille Metropole. Ora vorrei raccontarvi come avviene l’accoglimento in famiglia, e per farlo vi descriverò la procedura concreta tralasciando, visto il poco tempo a disposizione, ulteriori aspetti teorici. Tre sono i casi in cui scatta la procedura:

1. il primo caso - quando in ambulatorio (un luogo equivalente al Centro di Salute Mentale, chiamato CMP, Centro Medico-Psicologico), arriva una persona che per vari motivi o non è più in condizione di restare a casa propria o nel suo luogo di vita abituale oppure si trova in condizione di crisi acuta, scompenso psichico (scompenso psicotico, crisi depressiva acuta, ect.). In questi casi, durante la consultazione, se il mantenimento a domicilio presenta troppi rischi, si propone al soggetto l’alternativa dell’Accoglienza Terapeutica Familiare (AFTH, accueil familial thérapeutique). Una volta accettata la proposta, l’équipe infermieristica “dedicata” prende in carica immediatamente la persona. Il primo tempo consiste nell’incontro dell’infermiere col paziente; è così che si mette in pratica l’inizio dell’accoglienza.

2. Il secondo caso – quando l’obiettivo è ridurre i tempi di ospedalizzazione. l’équipe infermieristica in questo caso si reca direttamente in ospedale per incontrare il paziente, presentargli il progetto e definire i tempi e le modalità dell’inserimento. Alla dimissione, il paziente

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viene accompagnato in ambulatorio dove secondo le procedure classiche avviene l’incontro con la famiglia e l’inizio dell’accoglienza.

3. Il terzo caso – quando una persona in crisi si trova presso un pronto soccorso o un centro crisi di un altro ospedale della metropoli, l’équipe infermieristica si reca sul posto per incontrarla e valutare la possibilità di mettere in atto l’accoglienza familiare come alternativa al ricovero. Se possibile, il paziente viene ricevuto da uno psichiatra in ambulatorio, e si procede con le tappe classiche dell’inserimento.

Abbiamo cioè tre gradi differenti: l’ospedale psichiatrico, l’ambulatorio e il centro urgenze (pronto soccorso, centro crisi). Ma cosa succede poi nella pratica? Nel primo momento d’incontro in ambulatorio tra l’equipe, il pz e la famiglia, la presenza del medico psichiatra non è prevista, l’incontro cioè non viene medicalizzato. Il paziente non viene presentato dagli infermieri, ma ha un tempo e uno spazio proprio per parlare o presentarsi se ne ha voglia. Ciò è conseguenza del rispetto al segreto professionale, e dunque l’impossibilità di comunicare alle famiglie gli elementi clinici della persona accolta, ma anche da una scelta “politico-culturale”: le famiglie non hanno nessun ruolo professionale. Secondariamente viene il tempo medico, sia perché il paziente è ancora in carico (per permettere di pagare le famiglie, lo “statuto” della persona accolta resta quello del ricovero ospedaliero), sia perché al medico spetta di mettere in chiaro le regole dell’accoglienza: il tempo di durata (normalmente 7 gg. rinnovabili), la terapia prescritta (che la famiglia somministra o aiuta l’autosomministrazione), gli incontri con la famiglia d’origine (questo è discusso caso per caso) e le varie attività proposte (atelier, psicoterapia, attività di gruppo, ecc.). Il paziente non può comunicare alla sua famiglia d’origine dove vive e con chi, e una volta finita l’accoglienza non può tornare a

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far visita alla famiglia affidataria. Regola rigida forse, ma data da esperienze negative precedenti. L’obiettivo primario è evidentemente quello di garantire la libertà e l’intimità delle famiglie nei momenti “altri” rispetto all’accoglienza, ma questa regola permette anche di arginare il rischio che la famiglia stessa si senta troppo implicata nel percorso terapeutico del soggetto e possa “desiderare” – visti i risultati positivi dell’accoglienza – occuparsi nuovamente della persona. Una delle regole non scritte nel contratto di inserimento, è che la persona partecipi attivamente alla vita familiare. Questo sistema di accoglienza ha una medicalizzazione bassissima, c’è l’équipe infermieristica a tempo pieno che assicura inoltre una reperibilità telefonica 24 ore su 24, gli educatori e gli altri operatori che intervengono durante le attività terapeutiche esteriori, e un medico psichiatra al 20% del tempo. Gli incontri con la famiglia originaria avvengono su richiesta del paziente e avvengono in luoghi diversi dalla famiglia accogliente, come gli ambulatori o sale ampie (centri sociali, centri di incontro) dove possano stare insieme più persone; la famiglia accogliente non è mai presente. Il momento chiave sono le visite a domicilio degli infermieri, nelle quali c’è un primo tempo dedicato al paziente e ai suoi vari problemi quotidiani, successivamente un tempo esclusivo per la famiglia, e infine un tempo comune, nel quale vengono verbalizzate le difficoltà e gli elementi positivi dell’accoglienza. Le visite sono scandite con questi tre tempi per permettere un dialogo sempre mediato dagli operatori, ma in caso viene chiesto alla famiglia di restituire all’équipe ciò che viene detto dal paziente in famiglia.. Una riunione è organizzata ogni tre mesi delle équipe con i medici e le famiglie, dove l’obiettivo non è di formare le

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famiglie al disagio psichico, ma analizzare insieme le dinamiche di quegli inserimenti che sono stati più difficili, e dove possono emergere alcune rivalità tra l’équipe e le famiglie per chi ha trattato meglio il paziente. Per concludere vorrei evocare alcuni numeri dell’Accueil Familial Thérapeutique di questi anni:

- la prima famiglia ha iniziato nel 1999 e la stessa ha già accolto 100 pz.;

- nell’insieme oggi abbiamo 12 posti e 9 famiglie; - fino al 2006 abbiamo inserito più di 500 persone.

Un’ultimissima cosa da sottolineare, proprio nell’ottica del processo di lotta allo Stigma – priorità oggi dell’OMS per la salute mentale - è l’effetto “pietra nello stagno” creato dalla presenza di pazienti psichiatrici – dei matti – in famiglie che sono logicamente inserite in un tessuto sociale che viene sensibilizzato, stimolato, spaventato da questa azione di cura e accoglienza. L’effetto di accogliere qualcuno portatore dello stigma della malattia mentale è di poterlo vivere nella normalità della vita reale, crea un effetto “onda” che cambia lo sguardo che gli altri portano su queste persone, sulla malattia, la pericolosità. Il risultato è che da un lato in questi anni sta diventando sempre più facile reclutare nuove famiglie, e dall’altro i pazienti stessi dopo una esperienza di accoglienza familiare chiedono spontaneamente di ritornare in famiglia nei momenti difficili.

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L’ACCOGLIENZA FAMILIARE NELL’ESPERIENZA BELGA DI GEEL Dott. Marc Godemont Clinical Psychologist. in the psychiatric family care program in Geel L’attuale sistema di “accoglienza familiare di Geel non è semplicemente un “residuo” della situazione nata nel medioevo, anche se le radici dell’accoglienza sono incontestabilmente presenti nella realtà attuale. Il modello dell’accoglienza di Geel, vecchio di sette secoli ha subito due grandi cambiamenti nel corso della sua esistenza. Questi cambiamenti si sono prodotti durante gli ultimi due secoli. Il primo in pieno diciannovesimo (19) secolo, quando Geel è divenuta una istituzione con una supervisione medica e un riconoscimento internazionale in seguito all’interesse per questa formula sviluppatasi un po’ ovunque nel mondo occidentale. All’inizio del (19) diciannovesimo secolo il numero dei pazienti che fino a quel momento si attestava intorno a 300-400, iniziò ad aumentare negli anni seguenti fino ad arrivare a 3500 pazienti nel 1935. In quel momento era l’unica formula extra-ospedaliera, non assistenziale e per di più era economicamente conveniente. Il secondo cambiamento è stato il ruolo crescente dell’ospedale negli ultimi cinquant’anni. Prima, i malati restavano sotto la supervisione permanente della famiglia d’accoglienza che procurava anche un’occupazione durante la giornata. In seguito c’è stato sempre di più una presa in carico da parte del personale infermieristico durante la giornata negli “laboratori di occupazione” dell’ospedale. Questo assetto riguardava in quel momento la metà dei pazienti.

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Quest’ultima evoluzione, è stata necessaria per la mancanza di occupazioni adatte ai pazienti all’interno delle famiglie e a causa dei pericoli derivanti dall’intensificarsi della circolazione stradale sulla strada che porta a Geel. Per di più in questo periodo il personale paramedico e gli psicologi sono entrati nel sistema. Alcune funzioni della famiglia di accoglienza sono state riprese dall’Ospedale. Paradossalmente, l’integrazione del paziente nella famiglia di accoglienza e nel vicinato è diminuito a favore della presa in carico dell’ambiente ospedaliero. Si è dunque evoluto verso un sistema misto d’accoglienza familiare e accompagnamento professionale al di fuori della famiglia. Questa modalità supera il ruolo puramente medico e amministrativo che ha segnato il secolo precedente e va oltre la formula “di ospitalità” dei secoli precedenti il diciannovesimo. L’aspetto positivo di questa evoluzione è una maggiore apertura del paziente verso l’esterno. Tutti i giorni si dirige verso il suo “lavoro”. La cerchia delle sue conoscenze ed amicizie diventano più vaste. E’ diventato più mobile. I suoi movimenti si svolgono in uno scenario molto più ampio. Inoltre grazie al miglioramento dei farmaci si constata la scomparsa quasi totale dei comportamenti bizzarri. Per la maggiore cura dell’abbigliamento e per le attitudini più sociali seguita all’integrazione crescente nella città e nelle varie attività ricreative, il paziente come individuo diventa sempre meno diverso rispetto al resto della popolazione. Egli diventa sempre meno “Riconoscibile”(visibile). L’aspetto dell’accoglienza familiare di Geel è molto cambiato negli ultimi cinquant’anni. Ma comunque sia l’essenzialità del modello di Geel non è cambiato affatto. Questo è stato constatato dalla ricerca antropologica del Prof. Roosens.

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L’antropologo Eugéne Roosens ha visitato 120 famiglie nell’anno 2000. Egli aveva visitato lo stesso numero di famiglie nel periodo 1965-1975, nel quadro di una ricerca internazionale su Geel. Egli constatò che l’essenza dell’accoglienza familiare di Geel è rimasto invariato. Gli sviluppi non sembrano aver intaccato l’essenza dell’accoglienza familiare. Vale a dire: -Massima integrazione e inserimento familiare, con legami affettivi ed emozionali molto forti. (“Nostro paziente”; il paziente è più di un’/una ospite, è quasi un membro della famiglia) -Un ambiente tollerante e ben disposto della popolazione, anche da parte di chi non partecipa direttamente all’accoglienza stessa -Un’attitudine normativa della famiglia d’accoglienza nei confronti del paziente. (la famiglia insiste con il paziente per farlo adattare nella misura possibile alle regole, abitudini, e valori della famiglia). -L’accettazione di restrizioni (o handicaps) impossibili da far migliorare nel comportamento del paziente (“è la sua malattia”). -La grande lealtà (fedeltà) della famiglia d’accoglienza nei confronti della persona del paziente integrato, talvolta fino alla sua morte o fino alla presa in carico da parte della generazione seguente della famiglia. Ciò che è sempre stata la forza di Geel è anche diventata la sua debolezza, quando si è trattato di seguire l’evoluzione

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dell’accoglienza familiare nei paesi vicini e lo sviluppo delle pratiche di riabilitazione. Un’altra formula di accoglienza, che integri i criteri sopra citati, resta molto difficile per le famiglie tradizionali di Geel. Bisognerà tenerne conto. Si constata tuttavia che molti dei pazienti cronici preferiscono questa formula di appartenenza affettiva di lunga durata a una famiglia, anche se ciò implica una autonomia più ristretta. Essi la preferiscono a pratiche più moderne o sviluppatesi più recentemente in materia di riabilitazione. E’ per questo che ne teniamo conto nello sviluppo strategico degli anni a venire. Constatazioni concernenti l’evoluzione dell’accoglienza familiare di Geel negli ultimi venti anni: -Diminuzione del numero delle famiglie e dei pazienti: 450 pazienti e 400 famiglie in questo momento. -I nuovi pazienti si distinguono sempre meno dalle altre persone nella città. Essi non sono riconoscibili come pazienti. Essi/esse sono vestiti/e meglio, e manifestano comportamenti più sociali e meno bizzarri. -Diversificazione dell’ospedale: fino al 1983, l’accoglienza familiare era quasi la sola forma di cura psichiatrica offerta a Geel. Grazie agli sforzi della direzione, ora esistono: -Primo un Reparto di Psichiatria polivalente per adulti (psicosi, turbe affettive, disturbi della personalità, unità di crisi, Day hospital, centri diurni, comunità psichiatriche, abitazioni protette, policlinici mobili, cure psichiatriche a domicilio.)

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-Poi un reparto di trenta posti per giovani e bambini con una unità di otto posti per giovani delinquenti con turbe psichiche. A questo dipartimento è legata una èquipe di supporto e d’intervento permanente nelle strutture esistendo per giovani criminali. Quindici posti di accoglienza familiare terapeutica per bambini. -Un reparto di psicogeriatria.

- Infine un reparto di riabilitazione di cui l’accoglienza familiare fa parte.

Questo reparto è soprattutto orientato verso tutte le situazioni della vita sociale di persone con turbe psichice gravi e di lunga durata. Ad oggi 450 pazienti sono accolti in 400 famiglie d’accoglienza. Questo per dimostrare che l’accoglienza familiare non ha più in posto unico e preponderante nell’organizzazione. Questa nuova situazione potrebbe anche divenire alla lunga una minaccia per la sopravivenza del sistema. Esempio di evoluzione nefasta per l’accoglienza familiare psichiatrica: Paesi Bassi. Abbiamo visto lo sviluppo nefasto nell’accoglienza familiare nei Paesi Bassi durante gli ultimi trenta anni. E’ soprattutto una questione di politica della salute mentale. Si è rotto lo stretto legame che esisteva fra l’accoglienza familiare psichiatrica e l’ospedale psichiatrico. Il risultato è che da un lato non ci sono quasi più famiglie d’accoglienza per pazienti psichiatrici con disturbi psichici gravi e di lunga durata e che dall’altro lato si trova un gruppo di pazienti che non riesce ad integrarsi nelle nuove formule di vita autonoma elaborate negli ultimi vent’anni. Esempio di evoluzione salutare : I Paesi di lingua tedesca.

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In Germania ed Austria vediamo l’evoluzione in senso opposto. La formula dell’accoglienza è in piena vitalità. In oltre 70 posti in Germania sono emersi dei servizi d’accoglienza familiare in psichiatria, quasi tutti basati e legati ad un ospedale psichiatrico e questo dopo la quasi totale scomparsa dell’ospitalità durante il nazismo. Vent’anni fa, una delegazione di una trentina di psichiatri visitò Geel con l’intenzione di diffondere l’accoglienza familiare che in quel momento era piuttosto modesta. Oggi ci sono più o meno 1500 pazienti che usufruiscono di questa formula. Nello stesso tempo si sperimentano in maniera molto creativa tutte le formule di accoglimento immaginabili. Torniamo a Geel. La diversificazione e la modernizzazione dell’offerta terapeutica hanno integrato l’accoglienza familiare in una panoplia di servizi di salute mentale. La popolazione di Geel resta tuttavia maggiormente legata all’accoglienza familiare tradizionale. Essa è molto meno coinvolta dall’evoluzione che si sviluppa all’interno dell’ospedale e nella rete dei servizi di salute mentale che si sviluppa nella regione, salvo che per la nuova formula di accoglienza familiare per bambini che è seguita con grande interesse dalle famiglie. Questa forma di presa in carico per bambini è esistita a Geel dal 1890 fino al 1956. A partire da questa evoluzione, sono state prese dopo analisi, ricerche e consultazioni, delle decisioni strategiche nei confronti dell’accoglienza familiare. Ed ecco le linee generali.

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- Ingrandimento del territorio dell’accoglienza (x sei) verso i comuni vicini in un primo tempo - Diversificazione e modernizzazione dell’offerta terapeutica dell’accoglienza familiare: accoglienza di bambini accoglienza di madre e neonato accoglienza temporanea - Intensità variabile dell’accompagnamento professionale del paziente nella famiglia di accoglienza - Inserimento nel circuito normale di lavoro. - I nuovi pazienti non sono più accolti in ospedale, ma in una casa, luogo di vita, dove sono preparati ad una vita in famiglia. - Viene tracciato un profilo delle loro capacità, dei loro interessi e desideri. Sono preparati all’accoglienza con diversi incontri con le future famiglie. Durante questo periodo di orientamento, incontrano pazienti che vivono già da diversi anni nelle famiglie d’accoglienza. - Inserimento dell’accoglienza familiare psichiatrica, in una vasta organizzazione di salute mentale integrata. - Nello stesso tempo abbiamo anche il compito di sostenere delle situazioni di accoglienza familiare diventate problematiche a causa dei disturbi psichiatrici degli ospiti nelle famiglie di accoglienza sociali. - Creazione di un forum di famiglie di accoglienza (esperti in materia) in vista di coinvolgerli come interlocutori.

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- Progetto di inserimento dei pazienti nel mondo del lavoro normale allo scopo di diminuire il numero dei partecipanti ad ateliers dove si troverebbero fra di loro, il che non è favorevole all’integrazione.

- Aumento della cifra pagata alle famiglie - Partecipazione dell’accoglienza familiare psichiatrica nella Federazione dei servizi d’accoglienza familiare sociale in Fiandra.

- Campagne di Marketing per influenzare gli abitanti di Geel nel loro atteggiamento verso l’accoglienza familiare (AF): hanno il diritto di esserne fieri! (hanno la tendenza a minimizzare l’importanza del loro compito)

- Progetti d’arte, di teatro, avviati con la collaborazione degli abitanti di Geel, diversi progetti nelle scuole di Geel (elementare, media) al fine di prolungare i contatti con la popolazione (molti hanno dei nonni/famiglie d’accoglienza.)

- Stabilire dei contatti con gli abitanti di Geel che da bambini e da adolescenti hanno vissuto nella famiglia d’accoglienza dei loro genitori e che non hanno ancora mantenuto la tradizione. Un buona parte di essi si mostra interessato all’accoglienza di bambini.

- Indagine sugli elementi essenziali, fattori di riuscita del modello di Geel le cui caratteristiche sono state sopra descritte, con ricerche sulla possibilità di espandere il modello nel resto delle Fiandre.

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- Indagine su nuove formule d’accoglienza familiare psichiatrica al fine di espandere il modello nei comuni vicini e in un ambito più esteso delle Fiandre.

- Famiglie terapeutiche ( per bambini)

- Famiglie d’accoglienza riabilitative (giovani schizofrenici per un tempo limitato)

- Famiglie d’accoglienza di crisi: accoglienza di pazienti in crisi acuta: modello di Dane County, Winsconsin (USA) e Ravensburg (All.),

- Famiglie d’accoglienza di sostegno: vita semi-autonoma con il sostegno di una famiglia vicina (eventualmente per coppie di pazienti).

- Abbiamo anche deciso di non intervenire nel momento in cui le famiglie d’accoglienza prendono in carico i loro “ospiti”. Non vogliamo terapeutizzare le famiglie d’accoglienza. In più vogliamo rendere omaggio alle famiglie di Geel, esperti in accoglienza familiare e comunitaria da secoli, facendo delle ricerche su questo modello. Geel è stata recentemente citata nel rapporto 2001 dell’Organizzazione Mondiale della Salute come un eccellente esempio di cura comunitaria in psichiatria. Sono convinto che la maggior parte degli sviluppi per quanto riguarda la Salute Mentale degli ultimi tempi sono sempre stati presenti nell’approccio quasi millenario degli abitanti di Geeel. Da più mezzo secolo dei professionisti della Salute Mentale annunciano la fine dell’accoglienza familiare di Geel.

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I congressi mondiali del 2000 e 2005 a Geel sull’accoglienza familiare, la reabilitazzione e la psichiatria comunitaria hanno creato una nuova speranza. In ogni caso il messaggio centrale di Geel in questo momento è che sia possibile vivere insieme in società e in famiglia con uomini e donne con gravi disturbi psichiatrici e che non c’è bisogno di essere un professionista per riuscire in questa materia. Una cooperazione tra professionisti e persone che curano in modo naturale mi sembra una formula per il futuro, perché è si una formula attuale ma che ha già provato il suo valore nel passato.

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L’ACCOGLIENZA FAMILIARE NELL’ESPERIENZA SLOVENA DI MARIBOR Dr.ssa Vesna Stanovnik Social Work in a Special Homecare Institution Hrastovec in Slov. Goricah. L'istituto Hrastovec -Trate è uno dei maggiori istituti di tipo protetto in Slovenia. Offre un supporto socio - assistenziale e medico completo alle persone con problemi psichici e a quelle con svantaggio psico-fisico-sociale. L'Istituto nel suo programma segue i dettami del Programma nazionale di assistenza sociale. Nell' Istituto lavorano 340 dipendenti che offrono supporto e si prendono cura di 633 utenti, avendo come sistema di lavoro l'approccio multidisciplinare ed individuale. Metodi di lavoro:

♦ analisi del rischio, ♦ programmi individuali, ♦ lavoro di team multidisciplinare, ♦ servizio di mobilità, ♦ team di trasferimento, ♦ volontariato, ♦ figura dell'intercessore, ♦ empowerment comunitariom e ♦ assertività.

485 utenti dei 633 vivono all'interno dell'Istituto. 148 utenti vivono fuori dall'Istituto in diverse forme extra-istituzionali (gruppi appartamento, fattorie terapeutiche, comunità alloggio, famiglie affidatarie), inserendosi nella comunità locale.

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Vengono elencati qui di seguito le residenze dei nostri utenti:

♦ 110 utenti risiedono in 12 diverse comunità alloggio - Jasmin (9 utenti) - Slovenska Bistrica I (10 utenti) - Slovenska Bistrica II (8 utenti) - Gornja Radgona I (9 utenti) - Gornja Radgona II (13 utenti) - Apače (13 utenti) - Strma gora (7 utenti) - Žiberci (5 utenti) - Zrkovci (10 utenti) - Vrhole (7 utenti) - Radenci (15 utenti) - Drobtinci (4 utenti)

♦ 12 utenti risiedono in 6 appartamenti indipendenti - Trate (2 utenti) - P.zza Dušana Kvedra I (4 utenti) - P.zza Dušana Kvedra II (2 utenti) - Via Kardelj (1 utenti) - Strada della Vittoria (1 utente) - Via XIV. Divisione (2 utenti)

♦ 10 utenti vivono nella fattoria terapeutica - Rožengrunt (10 utenti)

♦ 13 utenti sono in 10 famiglie affidatarie

♦ 3 utenti vivono in 3 comunità alloggio dell' organizzazione non governativa Altra

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Le prime esperienze di affido famigliare vanno al 1976. L'anno scorso (2005) un'utente è stata sistemata in una famiglia affidataria. Vorrei precisare che il nostro sistema di affidamento in famiglia non viene svolto in accordo con la legge sulla famiglia che prevede un'educazione e una formazione formali delle famiglie affidatarie, al termine delle quali il Ministero per la Famiglia e le Politiche sociali rilascia un certificato con il quale si attesta l'idoneità a diventare famiglia affidataria. Queste famiglie possono diventare affidatarie soltanto per bambini al di sotto dei 18 anni, in quanto la legislazione slovena ancora non prevede l'affido per persone adulte. Il nostro Istituto non richiede un'educazione e una formazione particolari per diventare famiglia affidataria. I soggetti interessati all' affido dei nostri utenti, ci contattano telefonicamente o richiedono un colloquio con l'assistente sociale. Successivamente, il servizio di mobilità, su previa decisione del team, effettua una visita alla famiglia, dove si svolge un colloquio informativo sulla necessitaà dell'utente, sul ruolo della famiglia affido e illustra il ruolo supportativo del servizio mobilità (cure mediche, fisioterapia, terapia occupazionale e assistenza sociale).

La vita nella famiglia affidataria (visto da parte degli utenti!):

a) vantaggi ♦ essere membro paritario della società ♦ inserimento nella rete sociale dei rappresentanti

delle famiglie affidatarie ♦ integrazione nella comunità ♦ educazione all'indipendenza ♦ individualità ♦ intimità

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♦ possibilità di usufruire del tempo libero a proprio piacere

♦ partecipazione attiva alle attività quotidiane ♦ maggiore controllo sulla propria vita ♦ possibilità di influenzare, di criticare e di dare

opinioni ♦ libertà decisionale su questioni personali ♦ possibilità di trovare lavoro pagato all'interno

dell'istituto o altrove

b) svantaggi ♦ in determinati casi mancanza di mezzi economici ♦ condizioni abitative inadeguate ♦ dinamiche negative all'interno delle famiglie

affidatarie

c) ostacoli ♦ sconvolgimento dei ritmi quotidiani di vita della

famiglia affidataria e difficoltà di adattamento (ostacoli evidenti nei tentativi di raggiungere compromessi e adattamenti reciproci)

♦ assenza di assertività degli utenti nelle famiglie affidatarie

d) opportunità ♦ condizione principale per l'inserimento degli

utenti nelle famiglie affidatarie è il miglioramento della loro qualità e delle condizioni di vita

♦ stimolo ad una maggiore assertività degli utenti

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♦ famiglie affidatarie più qualificate per un lavoro sempre migliore con gli utenti

♦ scambio di esperienze tra i professionisti dei team e i rappresentanti delle famiglie

♦ inserimento del servizio di mobilità Il mio suggerimento e' riuscire a regolarizzare il nostro sistema di lavoro (anche a livello legislativo), per dare una formazione formale a coloro che vogliono diventare famiglia affidataria. La nostra esperienza delle famiglie affido ha dimostrato di essere adeguata per un determinato gruppo di utenti. Vorrei ora presentare il caso di un'utente, arrivata a Istituto Hrastovec - Trate in ottobre dell'anno scorso. Il suo nome è Anna (nome fittizio). Il caso:

♦ storia di abusi fisici e di alcolismo in famiglia ♦ prima del suo arrivo all'Istituto era inserita in un

Centro diurno ♦ quando era inserita al Centro diurno ed era sotto

l'assistenza del Centro sociale non le e' stato dato un supporto adeguato

♦ successivamente è stata mandata a Istituto Hrastovec - Trate

♦ all'inizio Anna era molto chiusa, non comunicava, era molto passiva, le riusciva difficile fare nuove amicizie e avere fiducia negli altri

♦ le ho fatto presente la possibilità di andare in una famiglia; sembrava contenta di questa possibilità ed ha accettato di provare

♦ oggi Anna è cambiata – è molto più aperta, è comunicativa, attiva, ha acquisito fiducia negli altri

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♦ Anna aiuta nelle faccende di casa e si prende cura degli animali

♦ all'inizio Anna aveva molta paura di aprirsi alla famiglia affidataria, aveva paura che questa volesse prendere il posto della sua famiglia originaria, ma le abbiamo spiegato che non è così

Anna sente regolarmente i suoi famigliari, assieme alla rappresentante della famiglia affido siamo anche andati a visitarla

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LA SEZIONE ITALIANA DEL GROUPE DE RECHERCHE EUROPEEN EN PLACEMENT FAMILIAL (G.R.E.P.FA. ITALIA). PRINCIPI FONDANTI ED OBIETTIVI. Dott. Gianfranco Aluffi Psicologo Coordinatore Servizio IESA presso Dipartimento di Salute Mentale B ASL 5 Regione Piemonte Il G.R.E.P.Fa. in Europa La storia del Groupe de Recherche Européen en Placement Familial (G.R.E.P.Fa.) inizia nel 1986 a Maastricht in Belgio, all’interno di un congresso internazionale, per iniziativa di alcuni professionisti dello IESA europei tra cui si annoverano il belga Marc Godemont ed il francese Jean Claude Cébula. L’intento iniziale era quello di realizzare una società scientifica internazionale sul tema dello IESA al fine di poter scambiare agevolmente dati e risultati correlati a questa pratica. A questa società seguì presto l’apertura di una sezione belga e nel 1992 a Parigi fu la volta di quella francese (G.R.E.P.Fa. France) la quale è al momento la sezione più attiva avendo ormai totalizzato 7 congressi nazionali e vari volumi scientifici. Nel 2004, su invito dei vertici europei, è stata fondata la sezione italiana che vede tra le sue fila rappresentanti di alcune delle più note esperienze IESA nazionali ed internazionali. Dallo Statuto di fondazione del G.R.E.P.Fa – Italia “La Sezione Italiana del Groupe de Recherche Européen en Placement Familial (G.R.E.P.Fa - Italia) è un’associazione scientifica con lo scopo di incentivare e sostenere tutte le iniziative di ricerca, formazione, aggiornamento e scambio culturale fra medici, psichiatri, psicologi, psicologi clinici, infermieri, educatori professionali, assistenti sociali, terapisti

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della riabilitazione psichiatrica, operatori socio-sanitari e tutte le altre figure che più o meno direttamente svolgono le proprie attività in contesti attinenti alla pratica dell’Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici (I.E.S.A.), in contesti pubblici, privati e volontaristici. Il G.R.E.P.Fa - Italia può svolgere attività di sostegno e promozione di iniziative legislative locali o nazionali in favore dei disabili psichici con particolare attenzione agli aspetti legati alla residenzialità, al percorso riabilitativo, all’integrazione sociale ed alla qualità di vita. Verrà data la massima priorità alla realizzazione di un sito web dedicato alla presentazione dell’associazione scientifica, alle iniziative promosse ed alle pubblicazioni significative riguardanti lo I.E.S.A. di provenienza nazionale e internazionale.” Principi fondanti La Sezione Italiana del Groupe de Recherche Européen en Placement Familial si fonda sulle seguenti premesse: Avviamento di programmi ad “intenzione terapeutica”

solo dietro richiesta o eventuale consenso dell’interessato. Solitamente nelle altre specialità della medicina il paziente richiede l’intervento del medico/terapeuta per far fronte a questo o quel sintomo causa di dolore e sofferenza. Non si può dire che la psichiatria funzioni allo stesso modo. Qui infatti la prescrizione terapeutica viene spesso proposta da operatori inizialmente non sempre cercati dal paziente sino ad essere, in casi estremi ma non meno ricorrenti, addirittura imposta. Chiunque abbia delle nozioni di psicoterapia e dei predittori dell’efficacia di questa sa quanto sia inutile impostare un percorso terapeutico senza che questo sia l’eventuale risposta alla domanda del candidato paziente, la quale deve essere sostenuta da una solida

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motivazione alla cura. Da questa semplice riflessione si potrebbe partire per cercare di svelare le ragioni dell’elevato tasso di cronicizzazione che caratterizza gli utenti della psichiatria, causato dall’inefficacia degli interventi messi in atto. Al di la della domanda del paziente che non sempre può essere presente (talvolta per ragioni correlate alla stessa sintomatologia), occorre comunque orientare l’intervento verso una valorizzazione del consenso che il soggetto può dare in favore del percorso di cura proposto.

Intervento supportivo mirato all’empowerment dell’utente e al favorire un percorso di recovery.1

Superamento di soluzioni di ricovero inefficaci e sgradevoli le quali rimandano a espressioni neomanicomiali sia in senso di struttura sia di processo (vedi comunità protette, cliniche e case di cura). Tali strutture, peraltro molto diffuse, hanno lo svantaggio ulteriore di presentare alti costi di gestione e scarsi risultati terapeutici. Nella storia della psichiatria italiana, le comunità hanno rivestito il ruolo di facilitatori nel processo di superamento degli ospedali psichiatrici. Si trattava però di gruppi di persone ex degenti del manicomio che si organizzavano in accordo con gli stessi operatori ex-asilari o del privato sociale, al fine di creare nuove forme di aggregazione in un ottica dell’auto mutuo aiuto per ottimizzare al massimo le risorse a disposizione, rendendole più tollerabili ed umane. Spesso i reparti del manicomio, con una abile azione di restauro prestavano le loro stanche mura alle nascenti comunità. Tali comunità, per lo stesso Basaglia, dovevano rappresentare una soluzione transitoria in prospettiva di ulteriori sviluppi verso l’integrazione sociale attiva del disagio psichico. Così evidentemente non è stato ed oggi ci ritroviamo a

1 Vedere il contributo dal titolo: “Il progetto I.E.S.A.: l’esperienza di Collegno (To)” pubblicato sul presente volume.

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constatare che le comunità protette hanno assunto il ruolo di soluzione privilegiata nella risposta residenziale e terapeutica in psichiatria2. Inoltre, del concetto di partecipazione democratica alla costituzione di queste ed alla relativa gestione, sono rimaste rarissime testimonianze spesso appartenenti al solo “mondo” della teoria.

Promozione di programmi di prevenzione del disagio psichico ad ampio raggio.

Obiettivi Gli obiettivi che il G.R.E.P.Fa – Italia si pone a medio termine sono riassunti dai seguenti punti: Promuovere la cultura specifica degli inserimenti

eterofamiliari supportati in psichiatria sul territorio nazionale attraverso iniziative divulgative e scientifiche di vario genere;

Diffondere una corretta applicazione del modello IESA sul territorio nazionale attraverso l’organizzazione di momenti formativi, di confronti costruttivi tra diversi servizi e di supervisione delle équipes nascenti. Incentivare la pubblicazione di testimonianze ed esperienze affini allo IESA su riviste e testi;

Realizzare nuovi programmi di ricerca tesi a misurare l’efficacia dello IESA, comparandolo ad altre soluzioni residenziali – terapeutiche;

Elaborare documenti normativi condivisibili tra i servizi al fine di uniformare procedure validate ed efficaci;

Creare sito web dedicato allo IESA;

2 Il numero di strutture protette sul territorio nazionale nel 1998 era di 1057 mentre nel 2003 era salito a 1370 unità (fonte: Istituto Superiore di Sanità, progetto PROGRES 2003).

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Creare opportunità di formazione al modello degli inserimenti eterofamiliari supportati attraverso l’istituzione di seminari e corsi all’Università e/o scuole di Counselling;

Incentivare progetti di scambio di esperienze tra servizi nazionali ed internazionali, in particolare rivolti ai giovani operatori, ai tirocinanti o agli studenti in formazione, favorendone la partecipazione a corsi universitari e/o convegni all’estero;

Creare gruppi di lavoro sullo IESA all’interno delle commissioni regionali per la psichiatria al fine di individuare linee guida comuni per le diverse ASL;

Creare un gruppo di lavoro composto dai rappresentanti delle diverse esperienze al fine di elaborare una proposta di disegno di legge nazionale sullo IESA in revisione degli artt. 2,13,14,15,16 del R. D. n. 615 del 1909.

I perché della diffusione Ogni buona pratica che si rispetti, per essere effettivamente considerata tale e quindi promossa a livello di comunità scientifica, deve essere accompagnata da risultati che ne testimonino l’efficacia3. Per quel che riguarda lo IESA, i seguenti punti rappresentano solo una parte delle ragioni che sostengono l’importanza di una sua diffusione e saranno oggetto di prossimi programmi di ricerca anche in Italia. Buone performances a livello di risultati riabilitativi

conseguiti; Gradevolezza ambientale per l’utente; Buon livello di gratificazione per l’operatore derivante

dai frequenti successi terapeutici;

3 I risultati di alcune ricerche internazionali sono pubblicati su Aluffi G., Dal manicomio alla famiglia. Franco Angeli editore. Milano 2001

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Costi di esercizio contenuti, ovvero dai 20,00 € ai 60,00 – 80,00 € al giorno per progetti a tempo pieno;

Riduzione dello stigma; Umanizzazione dell’approccio di cura in psichiatria; Continuità residenziale nel percorso di recovery.

Sull’importanza di riferimenti strutturali Come gia accennato in un paragrafo precedente, ad oggi le comunità protette e le cliniche private rappresentano la soluzione di ricovero più diffusa sul territorio nazionale. Tale fenomeno esprime i contenuti culturali prevalenti nella formazione degli operatori psichiatrici italiani (psichiatri e psicologi clinici compresi) i quali privilegiano soluzioni residenziali “protette” ove l’accento si pone sulla funzione di controllo sociale e sull’intervento farmacologico come terapia di elezione. Il tema dello sbilanciamento della formazione degli operatori psichiatrici è delicato ma importante4. Quello che mi sembra opportuno sottolineare è che non si può pretendere, da chi fonda il suo pensiero professionale su delle reti cognitive che associano automaticamente la necessità di un intervento residenziale al ricovero in strutture protette, che improvvisamente si metta a considerare soluzioni più flessibili, individualizzate ed efficaci quali lo IESA o le convivenze supportate in genere. Per assistere a questo fenomeno di ragionevole - se non addirittura buona - pratica, occorre prima lavorare sul retroterra culturale dei professionisti della psichiatria. L’inserimento di elementi strutturali riguardanti lo IESA nei già citati riferimenti normativi regionali o addirittura nazionali, favorirebbe l’operatore psichiatrico nel prendere quantomeno in considerazione l’esistenza di altre pratiche,

4 Vedere Aluffi G.: Quando una famiglia accoglie. In: Animazione Sociale n°11 Edizioni Gruppo Abele Torino 2001

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favorendone l’utilizzo e la diffusione. Occorre però non farsi intrappolare dall’entusiasmo di produrre linee guida troppo rigide le quali riproporrebbero, in beffa a contenuti potenzialmente validi, efficaci ed efficienti, le tristi sfumature di possibili processi di neo-istituzionalizzazione se non di trans-istituzionalizzazione. Consapevoli dell’importanza delle positive ricadute culturali occorrerebbe quindi affrontare, con serietà e consapevolezza dei rischi correlati, la stesura di linee guida regionali comprendenti, oltre alle classiche soluzioni residenziali, anche lo IESA e le abitazioni supportate in genere. La diffusione della cultura anche attraverso elementi strutturali propri dello IESA può avvenire, ed in alcune realtà gia accade, anche in contesti formativi legati a percorsi di studio specialistici. Le ricadute sui risultati di recovery ottenuti attraverso un corretto utilizzo dello IESA svolgono poi una azione di rinforzo naturale al suo sempre più diffuso utilizzo. La presenza di riferimenti strutturali sullo IESA nelle linee guida regionali per la psichiatria porterebbero anche le amministrazioni locali a realizzare un notevole risparmio alla voce di bilancio relativa alla residenzialità psichiatrica. L’entità del risparmio sarebbe in grado di far ipotizzare una estensione di tale modello anche ad altri ambiti (dipendenze, geriatria, handicap, servizi sociali ecc.). Sull’importanza di un chiaro indirizzo di processo Oltre agli importantissimi riferimenti di tipo strutturale non occorre perdere di vista gli aspetti processuali dello IESA. In qualsiasi documento normativo od azione formativa è bene dedicare molto spazio alla componenti processuali del progetto che sono poi quelle che delineano uno stile di conduzione e influiscono fortemente sulle componenti ambientali. Gli effetti di un orientamento verso un chiaro indirizzo di processo potrebbero favorire:

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L’evitamento di possibili situazioni di transistituzionalizzazione quali: l’evoluzione dell’esperienza di Iwakura in Giappone, gli aspetti critici evidenziati in merito all’esperienza di Ainay le Chateau in Francia, l’antica esperienza italiana del Patronato omofamiliare e tutte le realtà ove lo IESA ha una funzione di appendice della clinica e dove quest’ultima riveste una funzione di ricovero con valenza punitiva;5

La diffusione di una cultura basata sul rispetto dei diritti del disabile;

La realizzazione di una formazione omogenea tra le diverse realtà territoriali;

L’effettiva rappresentatività dei dati raccolti in vari servizi sparsi sul territorio.

5 Per un approfondimento Aluffi G.: Dal manicomio alla famiglia. Relazione introduttiva al II° Convegno Nazionale su l’inserimento eterofamiliare assistito di persone con disturbi psichici. Lucca 15, 16/11/2001 Edizioni ANS. Torino 2004

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L’ESPERIENZA DELL’ACCOGLIENZA FAMILIARE DI TREVISO:

PUNTI DI FORZA E NODI CRITICI

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IL PERCORSO REALIZZATO: OBIETTIVI, MODALITÀ ORGANIZZATIVE, STRUMENTI, PROSPETTIVE DI EMPOWERMENT Dott.ssa Gabriella Bressaglia Assistente Sociale Coordinatrice progetto IESA del Dipartimento di Salute Mentale dell’Az. Ulss n. 9 di Treviso Premessa Con disposizione di servizio del novembre 1998 è stata attribuita, alla sottoscritta, la funzione di Coordinamento del Servizio Sociale del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) dell’Azienda ULSS n. 9 di Treviso, alla quale è stata successivamente attribuita la posizione organizzativa del Coordinamento di Servizio Sociale. Nell’ambito di tali funzioni nasce la progettazione, l’implementazione e il coordinamento del progetto Inserimento Eterofamiliare Supportato per Adulti (I.E.S.A)., collocandosi nell’area dei progetti per il conseguimento di obiettivi di carattere prioritario e di rilievo nazionale posti dal Ministero della Salute e dalla Regione Veneto, individuati nei tre livelli della prevenzione primaria, secondaria e terziaria della Salute Mentale. Sulle indicazioni offerte dagli indirizzi regionali di cui alle Delibere della Giunta Regionale Veneto (DGRV) n. 1488/99 e n. 3407/99, dove venivano distinti, nell’area della salute mentale, progetti riferiti alla prevenzione primaria (progetto 4A), secondaria (progetto 4B) e terziaria (progetto 4C), il Direttore del Dipartimento ha incaricato la sottoscritta di predisporre uno studio di fattibilità per la realizzazione di un progetto sperimentale di inserimento eterofamiliare supportato di adulti nell’ambito della prevenzione secondaria (progetto 4B); in particolare come azione volta alla salvaguardia della salute

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della famiglia, ritenuta contesto necessario a qualsiasi forma di trattamento. L’obiettivo diretto era quello di costituire delle possibilità di supporto sia ai pazienti che alle loro famiglie che sperimentano reciprocamente un notevole stato di stress e un pesante carico fisico, economico ed emotivo, ed esprimono una domanda di aiuto continua e pressante. Con questo progetto il supporto viene offerto da altre famiglie della comunità che si rendono disponibili ad accogliere nel proprio nucleo un soggetto con malattia mentale per un periodo di tempo definito, in collaborazione con il servizio pubblico, in cambio di un rimborso spese. Utilizzare una famiglia diversa da quella d’origine e non una struttura, ha il significato fondamentale di poter inserire, a scopo terapeutico riabilitativo, un soggetto con problemi psichiatrici in un contesto di normalità e non di patologia diffusa, permettendo, attraverso la famiglia affidataria stessa, l’attivazione di una rete sociale di solidarietà, dove la dimensione sanitaria passa in secondo luogo. Si può dire che si tratta di una sorta di aiuto tra famiglie di una comunità, guidate e supportate da operatori del servizio pubblico, finalizzato a restituire alla persona dignità e soggettività L’obiettivo indiretto era dato invece dalla prevenzione dello stigma, in quanto, per il reperimento delle famiglie disponibili, il progetto doveva attivare programmi finalizzati alla sensibilizzazione e alla formazione della società civile sulle problematiche del disagio e della salute mentale e sulla possibilità di poter convivere anche con la sofferenza mentale. La mia unica esperienza e conoscenza in proposito era data dall’aver partecipato nell’97 a un convegno organizzato dal DSM di Portogruaro in cui veniva analizzata un’esperienza statunitense, ormai consolidata, di affido familiare per adulti con problemi psichiatrici, che mi aveva colpito moltissimo, in

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quanto, utilizzare una famiglia diversa da quella d’origine per supportare percorsi riabilitativi di soggetti psichiatrici anche nella fase dell’acuzie mi sembrava, da una parte, un compito arduo, dall’altra mi suscitava una forte curiosità. Di seguito vengono rappresentate le fasi temporalizzate dell’avvio e dell’implementazione del progetto

Prima Fase (febbraio-marzo 2000) reperimento documentazione. La prima azione quindi è stata quella di reperire il materiale bibliografico sull’argomento e individuare le realtà che già operavano in questo senso. In questa fase è emerso che le esperienze di affido familiare per adulti sono ben rappresentate, oltre che negli Stati Uniti, anche nei paesi del Nord Europa, in particolare in Belgio, Germania e in Francia Per quanto riguarda la situazione italiana invece ciò che scoprii è che lo strumento dell’affido familiare era già previsto nel Regolamento sul Manicomio e gli Alienati della vecchia legge del 1904, definito come “Patronato Eterofamiliare”, dove l’obiettivo principale era quello di contrastare l’affollamento del manicomio e la riduzione dei relativi costi. Queste esperienze erano presenti un po’ in tutta l’Italia, superate negli anni ’60/70. Le recenti esperienze italiane di affido, come percorsi innovativi che si stanno consolidando in questi ultimi sei anni, sono quelle nate in Toscana a Lucca e a Pisa, in Piemonte a Collegno; un’ulteriore esperienza era presente anche a Udine ma solo relativamente a persone anziane dimesse dall’ex O.P. Il materiale bibliografico esistente, preso in visione è stato quello relativo all’esperienza piemontese. Per quanto riguarda il Veneto non esisteva nessuna esperienza analoga già avvita, anche se alcuni Dipartimenti interessati stavano studiando l’argomento (Portogruaro, Vicenza e Verona).

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Seconda Fase (marzo-aprile 2000) costituzione gruppo di lavoro Dopo essermi documentata con il poco materiale a disposizione (alcuni articoli e due testi) è stato chiesto al Direttore del Dipartimento di costituire da subito un gruppo di lavoro pluriprofessionale con il compito di andare a conoscere e approfondire le esperienze di Lucca, Collegno e Udine per predisporre uno studio di fattibilità finalizzato a sperimentare un progetto analogo nel nostro DSM. Il gruppo fu costituito su accordi tra operatori, motivati al progetto, e il Direttore del DSM, nell’ambito delle mansioni di lavoro che ognuno già svolgeva (fu successivamente formalizzato con la delibera di attivazione del progetto) ed era così composto: - la sottoscritta con funzioni di coordinamento - uno psichiatra responsabile di una Unità Operativa

Territoriale - due psicologi del privato sociale a tempo parziale che già

collaboravano con il Dipartimento nell’ambito della gestione in mix di contratti riabilitativi individuali per il superamento degli ex Ospedali Psichiatrici e per la prevenzione della nuova istituzionalizzazione.

- la dirigente amministrativa del DSM. Per tutti i componenti il gruppo, l’affido familiare per adulti, era un’esperienza nuova. Terza Fase (maggio-dicembre 2000) conoscenza e riflessione delle esperienze in atto in Italia Questa fase ha visto lo studio della documentazione esistente da parte di tutto il gruppo, la conoscenza diretta e la riflessione delle esperienze già in atto, la partecipazione al secondo

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convegno nazionale sull’argomento tenutosi a Lucca, il contatto con gli operatori di altri CSM del Veneto che stavano programmando analogo progetto. Il gruppo ha elaborato tutto il materiale in suo possesso individuando alcuni punti di forza a sostegno dell’iniziativa. Considerazioni generali come premessa a supporto della fattibilità del progetto Il progetto IESA, ossia l'utilizzo di una famiglia diversa da quella d'origine per sostenere un percorso ri-abilitativo a favore di soggetti con problemi psichiatrici, in accordo con il servizio pubblico e il soggetto stesso, può considerarsi oggi, un percorso innovativo rispetto al come e dove viene collocato e soprattutto rispetto il senso che gli viene attribuito. Il progetto va quindi inquadrato nel contesto attuale rispetto la sua portata complessiva nella quale si possono sintetizzare tre aspetti essenziali:

1) il piano della politica sociale, come passaggio dal

sistema di welfare state al sistema di welfare comunitario,

2) il piano terapeutico ri-abilitativo nello specifico della salute mentale;

3) il piano degli esiti riguardanti il soggetto e la comunità

1) Il piano della Politica Sociale La crisi del welfare state è comunemente intesa a connotazione negativa in quanto riferita a costi insostenibili a favore dell’insieme degli interventi rivolti alle fasce deboli. Ma welfare state significa letteralmente "benessere sociale" dell'intera popolazione (non solo garanzia di diritti per

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condizioni minime di vita) misurabile in termini di qualità della vita e della convivenza sociale di tutte le componenti di una comunità, intesa quest’ultima come insieme di persone unite tra loro da legami di solidarietà e di coesione sociale. Sotto questo profilo la crisi sembra essere imputabile anche all’incapacità di rispondere con la rete di servizi e prestazioni ai cosiddetti nuovi bisogni relazionali, che si sovrappongono ai vecchi bisogni materiali, espressi dalla popolazione sotto forma di degrado della qualità dei rapporti umani, all'aumento dei processi di esclusione e alla disgregazione dei processi di solidarietà e di coesione sociale. Allarme lanciato da più parti sul processo di lacerazione della qualità dei rapporti che rischia sempre più di compromettere il futuro della comunità. Ci si è resi conto, nel tempo, che l'ossatura del sistema non può essere dato solo dalla spesa pubblica ma anche dalle risorse umane dei singoli, delle famiglie, dei gruppi sociali, espresse in attività di cura, educazione, accoglienza. Passaggio quindi a un Welfare Comunitario o comunità solidale inteso come modello di politica sociale che, modificando i rapporti tra istituzioni e società civile, garantisce maggior soggettività e protagonismo alla società civile stessa, aiutandola nella realizzazione di un percorso di auto-organizzazione e autodeterminazione fondato sulla ricomposizione della frattura del legame di solidarietà e partecipazione sociale tra società e fasce deboli. Tale ricomposizione deve passare attraverso programmi di relazionalità, condivisione e accoglienza centrati sulla qualità della vita, sulle risorse umane e sullo sviluppo locale. 2) Il piano Terapeutico – Riabilitativo Al di là delle diverse posizioni sul piano epistemologico che coesistono nell’ambito della psichiatria, oggi tutti comunque concordano su tre punti cardine certi: a) la malattia mentale è legata ad una multifattorialità di cause;

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b) i cosiddetti “eventi stressanti della vita” possono essere fattori scatenanti;

c) la malattia mentale rappresenta comunque, in ogni caso, un disturbo della comunicazione legato alla relazionalità e all’affettività. Nello specifico della salute mentale, quindi, il percorso ri-

abilitativo deve essere inteso sia come sviluppo e/o mantenimento delle capacità residue, sia come accesso attivo ai diritti di cittadinanza dove alcune determinanti sono la responsabilità e l’aumento dei poteri del soggetto. In sintesi, ri-abilitazione come restituzione al soggetto della capacità di vivere, lavorare, abitare, in luoghi possibilmente da lui scelti, in quanto il vero problema della disabilità psichiatrica sta esattamente nel fatto che, la stessa, colpisce quelle capacità necessarie per costruire il proprio destino evolutivo determinato dai gesti della quotidianità. Processo che si fonda sull'affettività, il riconoscimento, la qualità delle relazioni umane come elementi essenziali per la costruzione dell'identità di ogni persona, per la sperimentazione della propria vita e per l'incremento dello scambio sociale E' evidente che sotto questo profilo il solo intervento specialistico non può essere sufficiente, così come diventa fondamentale la lotta allo stigma come cultura di pensare la follia come evento totalmente slegato dalla normalità 3) Il piano degli esiti In considerazione dei due punti sopra descritti, gli esiti possono essere considerati solo nella loro interazione tra soggetto e comunità. Sostenendo che la malattia mentale, al di là delle considerazioni strettamente cliniche, può essere anche espressa come una incapacità della persona di funzionare nella società, ossia nel

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contesto comunitario di cui fa parte, la via per la guarigione quindi diventa anche corresponsabilità tra soggetto e comunità. Ron Coleman in “Guarire dal Male Mentale”, a partire dalla sua esperienza personale, individua “4 pietre miliari sulla via della guarigione”, esemplificative in questo contesto: 1) le persone/le relazioni : - la via della guarigione non può avvenire nell'isolamento, ma non può nemmeno avvenire se tutte le relazioni sono con i professionisti 2) 4 aspetti del sé: - essere sé stessi,

- fiducia in sé, - autostima, - consapevolezza/autoaccettazione

La costruzione di questi aspetti fondamentali del sé avviene solo se l'individuo è in interazione con gli altri. 3) le scelte: come capacità di operare scelte assumendosene la responsabilità nel bene e nel male 4) l'appartenersi: come appropriazione delle proprie esperienze, quali esse siano, compresa l'esperienza della follia, esplorando la propria vita con il semplice meccanismo della soggettività personale Tutti questi elementi possono svilupparsi ed evolvere solo se il soggetto è all’interno di sistemi affettivi primari. Gli elementi sopra descritti hanno costituito la premessa per orientare il gruppo di lavoro a procedere nella sperimentazione del progetto. Quarta fase (gennaio-dicembre 2001) progettazione Tutto il 2001 è stato dedicato alla progettazione comprensiva del progetto di massima, delle linee guida del servizio, del contratto o accordo tra i soggetti (utente, famiglia DSM)

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La progettazione è stata il frutto di incontri, discussioni e accordi, su una prima bozza stesa dal gruppo di lavoro, con i diversi interlocutori quali: il Comitato Tecnico del DSM l’équipe delle UOT del DSM il Direttore dei Servizi Sociali il Coordinamento dei Direttori dei Distretti Socio-Sanitari le Associazioni dei familiari Ultimo interlocutore è stato il direttore Socio-Sanitario della Regione per ottenere il consenso all’attivazione del progetto in quanto sperimentale e inteso come prima esperienza che veniva attivata nel Veneto, in assenza di normativa specifica. E’ stata una fase molto complessa per la difficoltà da parte dei diversi interlocutori di comprendere a fondo il progetto e le sue modalità innovative di azione. In sintesi la proposta progettuale si proponeva di lavorare sui seguenti obiettivi ed azioni prioritarie: Obiettivi: supportare percorsi riabilitativi di soggetti in carico al DSM;

stemperare il carico familiare; prevenire lo stigma della malattia mentale; implementare le competenze della comunità locale; costruire un welfare comunitario dove la comunità diventi consapevole risorsa per il proprio benessere. Azioni: sensibilizzazione e pubblicizzazione del progetto per il reperimento delle famiglie Selezione delle famiglie, degli utenti e loro abbinamento presa in carico dei percorsi formazione delle famiglie

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formazione degli operatori Quinta fase (gennaio giugno 2002) deliberazione Concordata la progettazione con i diversi interlocutori è stata costruita la proposta di delibera discussa con la direzione strategica dell’Azienda ULSS e approvata con delibera n. 633 del 11 luglio 2002. La delibera oltre ad assumere la progettualità proposta, formalizzava il gruppo di lavoro attivando una convenzione con i due psicologi per complessive 36 ore settimanali e un amministrativo per altre 34 ore settimanali (quest’ultime, saranno poi utilizzate anche per altre attività del Dipartimento), prevedendo una sperimentabilità del progetto di due anni, finanziando un rimborso spese a favore delle famiglie per un massimo di 1.250 euro per complessivi otto percorsi di inserimento etrofamiliare (due percorsi per UOT) Sesta fase (luglio-dicembre 2002) attivazione e pubblicizzazione del progetto Questa fase è stata rappresentata dalle seguenti azioni:

1. l’organizzazione del gruppo di lavoro IESA; 2. il coinvolgimento organizzativo ed operativo delle UOT 3. la realizzazione dello slogan, dei depliants e delle

locandine per la pubblicizzazione dell’iniziativa; 4. l’organizzazione della conferenza stampa; 5. l’inserimento del progetto nel Piano di Zona per gli anni

2003-2005 1. L’organizzazione del gruppo di lavoro. Nei primi quattro mesi il gruppo ha lavorato per definire una propria identità, delineando le funzioni al suo interno e definendo il tipo di rapporto da instaurare con le UOT.

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Per quanto concerne il primo aspetto si sono definite attività comuni che coinvolgono tutto il gruppo riguardanti: la programmazione delle attività, la pubblicizzazione e la sensibilizzazione dell’iniziativa, la discussione sui casi, le azioni formative, la verifica degli interventi; e le attività specifiche dei diversi componenti il gruppo. Ciò ha permesso di definire che, in linea di massima, spetta agli psicologi:

- lo stimolo ad un’operatività quotidiana da svolgersi a favore della rete;

- la costruzione di un data base per la raccolta delle caratteristiche delle famiglie;

- la conduzione dei colloqui con le stesse; - la gestione dei rapporti con le famiglie affidatarie; - il rapporto con le équipe delle UOT per la condivisione

della presa in carico Spetta allo psichiatra la consulenza su situazioni particolarmente complesse. Spetta alla coadiutrice amministrativa la parte burocratica amministrativa di avvio dei percorsi. Spetta infine alla coordinatrice del progetto:

- coordinare le diverse azioni all’interno del gruppo; - coordinare le azioni del gruppo con quelle delle 4 UOT, - coordinare tutte le attività di pubblicizzazione e

sensibilizzazione nelle diverse aree territoriali. - tenere i rapporti con i diversi interlocutori istituzionali - indirizzare la azioni verso il raggiungimento degli

obiettivi definiti; - relazionare al Direttore del DSM

Per quanto concerne la definizione del tipo di rapporto da instaurare con le UOT si è pensato di collegare in modo forte il progetto IESA alle stesse UOT, tracciando così un modello intermedio tra quello di Collegno e di Lucca. Tale modello è stato ritenuto più idoneo a sfruttare la conoscenza del territorio

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propria delle UOT e a permettere che il progetto e la sua realizzazione diventino patrimonio di esperienze comuni. Ci si è quindi indirizzati da una parte nel proporre ad ogni UOT di individuare alcune figure di riferimento per questo progetto, identificate nella figura dell’Assistente Sociale e/o dell’Educatore, con il compito di dedicare parte del proprio tempo sia al lavoro di rete necessario al marketing sociale, sia al supporto in loco dei soggetti inseriti nelle famiglie affidatarie. Dall’altra nell’assegnare ai due psicologi, in convenzione per il progetto IESA, due ambiti territoriali di competenza corrispondenti con le 4 UOT. Ciò avrebbe permesso di costituire dei sottogruppi di lavoro stabili per ciascuna UOT che con lo psicologo di riferimento territoriale realizzavano l’operatività del progetto. In questa fase, inoltre, è stato predisposto uno schema di questionario da utilizzare nei colloquio con le famiglie finalizzato alla loro selezione con relativa cartella dati e parametri indicativi per orientare la selezione. 2. Il coinvolgimento delle UOT Successivamente sono state coinvolte le quattro UOT attraverso incontri con le relative équipe presentando nei dettagli il progetto e le modalità organizzative, individuando per ogni UOT gli operatori di riferimento per il progetto. Pur con la disponibilità dichiarata, si sono evidenziati da subito dei problemi. Il carico di lavoro e la mancanza di personale nelle UOT sono stati elementi da considerare e che di fatto hanno successivamente costretto le UOT ad aderire operativamente solo da febbraio - marzo 2003 e, a tutt’oggi, con dei tempi limitati. 3. La realizzazione dello slogan, i depliants e le locandine Le azioni fondamentali individuate per reperire le famiglie affidatarie sono state la pubblicizzazione dell’iniziativa e la

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sensibilizzazione della popolazione alle problematiche legate al disagio psichiatrico. In questa prima fase di avvio del progetto il gruppo ha quindi dovuto lavorare prioritariamente sulla progettazione pubblicitaria. Essendo tale aspetto molto importante, il gruppo si è avvalso anche di un’associazione esperta in grafica realizzando così depliant e locandina con slogan, relativo simbolo e descrizione degli aspetti essenziali del progetto. 4. La conferenza stampa In considerazione degli elementi innovativi e sperimentali del progetto, in accordo con la direzione strategica dell’Azienda ULSS, ci sembrava importante come prima azione pubblicitaria organizzare una conferenza stampa. Con la conferenza stampa organizzata nel mese di dicembre si è dato ufficialmente avvio al progetto. In quella occasione sono anche intervenuti l’Assessore Regionale alla Sanità, il Direttore Generale, il Direttore dei Servizi Sociali, il Presidente della Conferenza dei Sindaci che hanno evidenziato gli aspetti innovativi e la sperimentabilità del progetto. 5. L’inserimento del progetto nei Piani di Zona dei Servizi alla Persona

per gli anni 2003-2005 In questo periodo era già stato costituito il gruppo centrale dell’area della Salute Mentale con il compito di elaborare la progettazione relativa ai Piani di Zona 2003-2005 Nell’ambito di quel gruppo è stato concordato di inserire il progetto nello stesso piano, anche se finanziato con fondo sanitario, per la sua ricaduta sociale e territoriale, inquadrandolo nell’ambito delle azioni dell’asse sulla residenzialità.

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Settima fase (gennaio 2003-giugno 2004) implementazione e primo monitoraggio del progetto Questa fase si è sviluppata attraverso le seguenti azioni caratterizzanti: a) Attività nelle UOT b) Marketing sociale c) Attività Formativa d) Azione con le Famiglie Ospitanti e) Verifica delle fasi di sviluppo, degli indicatori e standard

inseriti nel piano di zona 2003-2005

a) attività nelle U.O.T. Nel coinvolgimento organizzativo delle UOT, il gruppo IESA si

è di fatto strutturato in quattro sottogruppi, uno per ogni CSM, dove vi hanno partecipato, otre allo psicologo IESA di riferimento e alla coordinatrice, un’assistente sociale, un’educatrice, e altri operatori motivati dei CSM, in alcuni casi anche del Privato Sociale.

Il sottogruppo, così formato, ha lavorato: - per sensibilizzare tutti gli operatori del CSM sul

progetto IESA e la sua filosofia; - per costruire una strategia di marketing sociale che

coinvolgesse gruppi formali o informali del territorio; - per inserirsi o progettare azioni di informazione e

sensibilizzazione con enti o gruppi già esistenti nel territorio;

- per organizzare momenti informativi utili al reperimento delle famiglie;

- per verificare l’efficacia e lo sviluppo delle azioni svolte nel territorio;

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- per individuare l’utenza a cui proporre il coinvolgimento nel progetto.

b) marketing sociale

Per marketing sociale intendiamo azioni di pubblicizzazione, informazione e formazione rivolte alle diverse componenti della comunità locale in merito all’attivazione del Progetto IESA, ai suoi aspetti organizzativi e legislativi, ai riferimenti storici, filosofici e culturali. L’obiettivo diretto è quello di acquisire famiglie affidatarie disponibili a collaborare nel progetto. Obiettivi indiretti sono la riduzione dello stigma, la sensibilizzare della comunità ai temi della salute mentale, l’informazione sulla rete dei servizi del DSM. Tale pratica per essere efficace nel risultato e rapida nel raggiungimento dello stesso, necessita di una rete consolidata tra servizi e tra servizi e territorio. Il lavoro che è stato svolto ha avuto come valore aggiunto l’implementazione di tale rete. Le azioni che si sono susseguite in questo contesto verranno approfondite nella successiva relazione

c) attività formativa

Azione fondamentale a supporto del progetto è stata l’attività formativa rivolta sia agli operatori che alle famiglie Sono stati realizzati due importanti progetti formativi, uno rivolto agli operatori socio-sanitari del DSM aperto anche ad operatori del Privato Sociale e alle Assistenti Sociali dei Comuni, l’altro alle famiglie ospitanti selezionate. Tale lavoro che ha comportato la progettazione, l’organizzazione, la realizzazione, la verifica e la rielaborazione degli eventi formativi, sarà presentato nella relazione successiva

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d) azione con le famiglie ospitanti Gli interventi rivolti alle famiglie affidatarie, considerati come azioni portanti del progetto stesso, vanno dall’attività di selezione, alla formazione per gruppi di 5/6 famiglie selezionate, all’attività quotidiana di supporto e monitoraggio dei singoli inserimenti, a incontri mensili di confronto e condivisione dell’esperienza con tutte le famiglie selezionate e formate, così come da specifica relazione successiva.

e) verifica delle fasi di sviluppo, degli indicatori e standard

inseriti nel piano di zona 2003-2005 Rispetto le attività previste nelle fasi di sviluppo del progetto per l’anno 2003 nel Piano di Zona va evidenziata una loro piena realizzazione secondo i tempi definiti; va rilevato un lieve ritardo rispetto la formazione alle famiglie disponibili inteso come corso strutturato, previsto per gli ultimi mesi del 2003 e realizzato invece in aprile – maggio 2004. Ciò è imputabile ai tempi richiesti per il reperimento e la selezione delle famiglie. Con riferimento agli indicatori si evince, nell’indicatore di struttura, il rispetto dello standard del 20% nel rapporto tra le famiglie selezionate (45) e le famiglie disponibili (7); nell’indicatore di processo, il rispetto dello standard del 30% tra il numero di soggetti inseriti (2) e il numero di soggetti proposti (4); infine nell’indicatore di esito, il rispetto dello standard del 90% nell’individuazione delle famiglie disponibili (7) Gli indicatori e standard di riferimento individuati per l’anno 2003 sono: Di struttura: famiglie selezionate n.7

famiglie disponibili n. 45 Standard: 20% prev. 18% realizato

Di processo: soggetti inseriti n. 2 soggetti proposti n.4

Standard: 30% prev. 50% realizzato

Di esito: individuazione da 4 a 6 famiglie disponibili

Standard: 90% prev. 100% realizzato

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La valutazione percentuale complessiva sul grado di attuazione del progetto, nel corso del 2003, ha corrisposto pertanto al 95%. Ottava fase (luglio 2004 – giugno 2006) strutturazione del progetto Questo periodo ha visto la strutturazione del progetto secondo le linee suesposte, producendo l’odierna situazione che viene di seguito rappresentata attraverso alcune tabelle di sintesi riguardanti il movimento sulla selezione delle famiglie affidatarie e sui relativi utenti, individuando per questi ultimi alcune caratteristiche anagrafiche e diagnostiche. Viene inoltre inserita la tabella relativa ai costi giornalieri di un percorso IESA raffrontati con i costi di un percorso in Comunità Alloggio a gestione mix pubblico – privato sociale per evidenziare un costo quasi dimezzato. Tabella selezione famiglie ospitanti

periodo Famiglie contattate

Famiglieun

colloquio

Famigliepiù

colloqui

Famiglie con visita domiciliar

e

Famiglie selezionate disponibili

gennaio’03 giugno’04

81 45 36 10 7

luglio’04 dicembre’04

19 17 10 10 9

gennaio’05 dicembre’05

61 41 18 18 8

totale

161

103

64

38

24*

*N.B.: ad oggi sono disponibili come risorse effettive 16 famiglie in quanto 8 hanno sospeso temporaneamente la disponibilità per problemi familiari sopraggiunti

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Tabella selezione utenti

2003

2004

2005

2006

totale

segnalazioni 4 5 8 4 21

percorsi attivati

2 3 4 1 10

percorsi conclusi

0 0 2 2 6

Tabella scheda utenti Sesso M 5 F 5 Fascia d’età Dai 26 ai 47 anni Famiglia d’origine

Si 8 No 2

Stato civile Non Coniug. 8 Coniug 1 Separato 1 Istruzione Elem. 1 Media Inf. 5 Media Sup. 4 Condizione professionale

Occupato 2 Disoccupato 6 Borsa lavoro 2

Tempo in carico ai servizi

Dai 7 ai 25 anni

Tabella diagnosi utenti Psicosi da innesto in lieve insufficiente mentale 3 Pregressa tossicodipendenza in psicosi psicoaffettive con significative disabilità relazionali

1

Ritardo mentale di grado medio con disturbo di personalità 1 Schizofrenia disorganizzata 1 Disturbo schizoaffettivo 1 Episodi dissociativi 2 Disturbo bordeline di personalità con episodi psicotici 1 Totale 10

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Tabella dei costi che raffrontano un percorso IESA con un percorso in Comunità Alloggio Affido familiare sulle 24 Con 7 utenti in carico 36 ore di psicologo a € 25,00 =156 ore mensili per totale € 3.900,00 Rimborso spese mensile alla famiglia € 1.291,14 Costo mensile per utente € 1.724,47 Costo giornaliero € 57,48 Comunità Alloggio gestita in mix pubblico privato sociale Costo giornaliero alta intensità (sulle 24 ore) € 100,95 N.B.: in entrambi i percorsi non vengono conteggiati i costi relativi agli operatori dei CSM in quanto analoghi Infine in questo ultimo anno, per favorire maggiormente processi di empowerment, sono partiti sperimentalmente due gruppi di lavoro che si ritrovano con cadenza mensile: un gruppo è costituito dalle famiglie affidatarie coordinato dai due psicologi e l’altro è costituito dagli utenti che hanno o stanno per sperimentare l’esperienza dell’affido, coordinato dalla sottoscritta e da una psicologa tirocinante. L’obiettivo comune per entrambi i gruppi è quello di confrontare e condividere l’esperienza, individuare delle possibilità di presa in carico dei problemi e delle difficoltà, con la prospettiva di evolvere in gruppi di auto mutuo aiuto. NODI CRITICI E PUNTI DI FORZA Un’attenta riflessione comparata sugli obiettivi posti ad avvio del progetto, sulla quantità e qualità del lavoro svolto ed i risultati ottenuti, pone la condizione di affermare che inizialmente sono stati sottostimati i tempi della sperimentazione fissati in due anni.

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E’ opportuno altresì sottolineare che le fasi di sviluppo del progetto per l’anno 2003, previste nel diagramma inserito nei piani di zona, evidenzia un lieve ritardo solo rispetto la formazione alle famiglie disponibili, inteso come corso strutturato e gli standard stabiliti negli indicatori sono stati raggiunti. Con riferimento alla programmazione del numero dei percorsi da avviare nei primi due anni di sperimentazione, definita per n. 8 soggetti, va rilevata una sopravvalutazione innanzitutto rispetto la disponibilità della risorsa famiglia, ma anche rispetto la cultura degli operatori nel sostenere con forza modalità operative alternative ed infine rispetto ai tempi necessari per realizzare una efficace pubblicizzazione e sensibilizzazione nel territorio. Questa progettualità pone in evidenza la necessità di creare nel territorio una cultura dell’accoglienza finalizzata a mettere in atto dei processi reali di welfare comunitario. Il progetto IESA è un progetto innovativo, una scommessa che comporta un cambiamento culturale forte. Tale cambiamento coinvolge sia gli operatori della salute mentale che la collettività di cui comunque i tecnici sono parte integrante.

Per i tecnici il cambiamento è dato dalla capacità non solo di operare nei territori istituiti della cura in modo più aperto e vicino ai bisogni reali delle persone, ma anche di promuovere pratiche di inclusione sociale coinvolgendo la collettività, di lavorare sui diritti di cittadinanza e sulla riduzione dello stigma.

Per la collettività il cambiamento è data dalla protagonizzazione di quest’ultima rispetto al problema della salute mentale, dalla consapevolezza che delegare in toto la propria salute è un processo passivo che favorisce la cronicizzazione del disagio. Questi aspetti implicano un’apertura da parte delle istituzioni preposte e della cittadinanza, il desiderio e la capacità di tessere

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relazioni, di focalizzare i problemi e proporre soluzioni condivise.

La cultura della rete non è una pratica diffusa. I servizi in genere sembrano molto occupati a svolgere il loro lavoro istituzionale. Sono molto attenti ai bisogni primari dei singoli ma faticano a rispondere a questi immaginando e costruendo un’ operatività che metta in gioco la rete sociale della persona in carico. La costruzione di opportunità associate alla tessitura di una rete sono limitate per questa mancanza di tempo, oppure frutto dell’iniziativa di operatori particolarmente motivati a praticare azioni comunitarie (psichiatria di comunità).

Fatte queste considerazioni è evidente che il Progetto IESA per raggiungere i propri obiettivi diretti e indiretti, necessita della presenza di una rete frutto di una cultura su cui poter veicolare il proprio messaggio e la propria operatività. Lavorare con i nodi e le reti territoriali non è un compito facile in quanto esso mette in gioco ancor prima che la professionalità la riscoperta dell’appartenenza dell’operatore e dell’utente alla comunità locale. L’insieme di questi tre soggetti costituiscono inoltre un Noi, strutturato da una cultura, da un linguaggio particolari che si traduce in reti di comunicazione definite nell’appartenenza reciproca ad un immaginario collettivo inerente i temi della diversità. Tale collettività è un soggetto oltre che una pluralità, con opinioni, vissuti, credenze. E’ questo Noi anche l’interlocutore del lavoro di comunità. Quindi lavorare con l’altro portatore di una sofferenza implica contemporaneamente lavorare sul proprio Io e sul Noi. Il lavoro sulla realtà sociale cambia le persone che l’abitano ed esso non è riducibile ad un’opzione tecnico-specialistica, ma implica una scelta che investe la responsabilità della comunità locale tutta, tra cui in primo luogo quella dei soggetti destinatari dell’intervento.

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Vi è quindi la necessità di continuare a indirizzare il lavoro verso una sensibilizzazione ad una cultura della rete e della cittadinanza. Le chiusure però rischiano di essere reciproche; se da un lato è vero che il cittadino non ha conoscenza dei temi della salute mentale e del lavoro che svolgono i servizi, dall’altro ciò non è necessariamente imputabile ad una chiusura effettiva, quanto al timore di ciò che non si conosce. Di fatto il loro immaginario collettivo va corretto ma ciò è possibile solo se gli operatori dei servizi pensano alle famiglie ed ai cittadini in genere come risorse e non come soggetti chiusi e disinteressati. Si tratta a volte quindi di superare reciproche diffidenze. Nel lavoro svolto qualche segnale interessante si è evidenziato in tale direzione, soprattutto quando nel progettare e nel realizzare alcuni eventi, sono state coinvolte direttamente le persone.

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LA PRESA IN CARICO: IL C.S.M. E LO I.E.S.A. Dott. Tiziano Meneghel Psichiatra referente per il progettp IESA del Dipartimento Salute Mentale dell’Az. Ulss n. 9 di Treviso Per definire il termine “presa in carico” ci si deve collegare ai diversi significati del termine “cura” e del termine”guarigione”. Cura è un sostantivo femminile che deriva dal latino curare (“stare attenti a…prendersi cura di..) e che ai tempi di Dante significava “interessamento sollecito e costante per qualche cosa o per qualcuno”, “diligenza, impegno, sollecitudine, zelo” o anche “attività, occupazione in cui si è impegnati a fondo”. Nelle condizioni definibili come “lungoassistenziali” l’intervento di aiuto non può essere pensato come cura nel senso di guarigione , perché si ha a che fare con ostacoli (malattie, menomazioni, handicap) che non sempre possono essere eliminati. Si tratta piuttosto di sostenere delle possibilità, opportunità per le persone di ri-considerarsi, di ri-posizionarsi rispetto alla propria esistenza per aggiustare forme proprie o improprie di adattamento, per realizzare quell’integrazione di contenuti (consci ed inconsci) e di significati della malattia che la rendono esperienza vitale. La lingua inglese associa ai termini di cura e guarigione due differenti significati, due differenti traduzioni che corrispondono rispettivamente al termine CARE e CURE. Se la pratica medica rivela, nella sua originaria espressione, una forte valenza di presa in carico nei processi di cura, ciò è ancora più evidente nell’assistenza il nursing infatti affonda le sue radici nell’attività dell’ad-sistere, cioè “stare vicino” alla persona, che si trova in una situazione di bisogno, nelle diverse età e momenti della vita. Curare quindi significa “occuparsi dell’altro, prendersene cura”.

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Nell’ottica di “una presa in carico”, la cura, pur caratterizzata da sapere di tipo scientifico e disciplinare, passa anche attraverso un processo, che per molti versi è di tipo educativo e che come tale richiede capacità comunicative e relazionali in un processo che risponde ai bisogni fondamentali non solo fisici, ma anche relazionali, spirituali e sociali. Nei diversi ambiti in cui si esprime, la cura non si configura soltanto come guarigione, ma anche e soprattutto come “PRESA IN CARICO” del paziente finalizzata ad un cambiamento che si realizza attraverso il processo di costruzione di un nuovo progetto. La presa in carico è quindi espressione di un’intensità relazionale, di comprensione dell’altro, di condivisione di un percorso, di impegno nel gestire un problema. “Curare significa dunque favorire la trasformazione in senso evolutivo e non più ricomporre, riequilibrare una struttura originaria già data” (Donghi, Preta) Alcuni pazienti più di altri richiedono una presa in carico, ma non tutti. In particolare lo richiedono: coloro che hanno bisogno di essere accompagnati lungo un percorso, coloro che sono affetti da patologie con difficoltà a gestire e a riappropriarsi del proprio progetto di vita, coloro che hanno difficoltà a gestire uno o più problemi di salute. La presa in carico si differenzia da un caso all’altro ma soprattutto si viene a diversificare il livello di intensità assistenziale. La valutazione del livello di instabilità clinica ovvero della sua complessità, permette di poter immaginare e favorire un ambiente terapeutico idoneo alle esigenze del soggetto. Questo implica per le professioni coinvolte riuscire ad adottare un modello professionale non più basato sull’uguaglianza, ma sull’equità, cioè non tutto a tutti, ma ciò che serve al paziente, personalizzazione delle cure.

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Il modello di presa in carico nel nostro caso prevede : • una valutazione iniziale accurata • una formulazione di obiettivi condivisi con i

professionisti e con tutti gli altri attori coinvolti (paziente, famiglia, comunità locale)

• integrazione e coordinamento degli interventi • percorsi terapeutici standard per profilo e

personalizzazione delle cure, • opportuna pianificazione della fine della presa in carico, • follow up.

Il prendersi cura a differenza del curare è forse il migliore degli interventi possibili su un soggetto affetto da una patologia mentale poiché questa è spesso il risultato di un insieme di bisogni non soddisfatti e della mancanza di relazioni significative attraverso le quali ogni persona costruisce la propria crescita materiale e psicologica. Rispondere ai bisogni del paziente psichiatrico è una operazione di decodificazione (tradurre i bisogni reali dai sintomi) e di profonda accoglienza (rispettare la persona per quello che è e nutrire nei suoi confronti aspettative positive). Nello IESA abbiamo un presa in carico che non è di tipo strettamente individuale; abbiamo una presa in carico di:

• un soggetto, un utente, un paziente, • un gruppo famigliare, • una comunità locale.

Le azioni della presa in carico sono rivolte a tutti e tre questi soggetti contemporaneamente e in modo unitario. Lo IESA nell’esperienza della Az. Ulss n. 9 di Treviso rappresenta un servizio, uno strumento del Dipartimento di Salute Mentale a supporto della presa in carico dei di Centri di salute Mentale, è un intervento che rispetta il principio di

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estensività, ovvero va ad incidere direttamente sulla comunità locale, su uno specifico territorio e non solo ed unicamente sul progetto di vita di un singolo paziente. In questo modo risulta evidente che ciò che entra in contatto sono due mondi e due sistemi di riferimento, quello del paziente e quello del sistema di cura in uno specifico e caratteristico territorio e tutto ciò genera una situazione altamente complessa. Da una parte abbiamo una situazione psicotica e con questo intendiamo un insieme ecologico, al cui centro troviamo il paziente psicotico: cioè una persona che vive una sofferenza particolarmente intensa, che si manifesta fenomenicamente con le modalità che usiamo denominare delirio, allucinazione, catatonia, autismo, ecc. oppure eccitamento, fuga delle idee. Attorno al paziente troviamo le persone con cui egli intrattiene rapporti emotivi significativi e particolari, perché si tratta dei suoi familiari, del suo “sistema di sopravvivenza”. In una sfera periferica troviamo le persone con cui il paziente può intrattenere rapporti sociali più o meno problematici. Questo insieme ecologico è il mondo del paziente talora ristretto alle persone più prossime quasi sempre problematico nei rapporti interpersonali. Ma la situazione psicotica non si limita al mondo del paziente: la situazione psicotica comprende anche il mondo del sistema di cura, cioè di chi è chiamato a prendersi cura della sofferenza del paziente. Dover quindi gestire la sofferenza psichica in un contesto complesso quale si mostra il territorio, ha portato a evidenziare come i molteplici aspetti (biologici, psicologici, psicodinamici, sociali) si intrecciano in vario modo, dando luogo a diverse tipologie di sofferenza mentale. Da qui il ricorso a teorie che fanno propria questa ottica multicontestuale.

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In questa ottica multicontestuale devono necessariamente trovare spazio interventi multilivellari in grado di affrontare complessivamente le contingenze specifiche del fenomeno psicopatologico. L’operare psichiatrico, da semplice atto medico si trasforma gradualmente in un ottica strategica e progettuale rimandando la cura ad un insieme articolato di tecniche , tattiche e teorie anch’esse interagenti. In questo modo di fare psichiatria, in particolare si fa riferimento a :

• un lavoro di equipe altamente strutturato e organizzato al cui interno siano condivisi gli obiettivi terapeutici,

• un’integrazione concettuale e operativa di tutti i contesti della situazione psicopatologica (paziente, famiglia, rete sociale, risorse e disponibilità del servizio e del territorio),

• un’integrazione tra più approcci curativi e preventivi, in grado di rispondere efficacemente ed adeguatamente ai diversi contesti patogeni.

Da questi elementi si evince l’aumento di complessità del fare psichiatrico: da una operatività lineare e unicontestuale come la psicofarmacologia, un certo tipo di diagnostica e l’ospedalizzazione , si passa ad una modalità multilivellare dove il lavoro di èquipe e sul territorio e l’interprofessionalità costituiscono l’asse portante. Tutte queste condizioni di lavoro e applicazione metodologica non sono certamente impossibili da riscontrare. Ci sembra di poter escludere tuttavia che si possano vedere riprodotte e generalizzate con facilità. Anzi al contrario sono ormai ben conosciute alcune tipiche caratteristiche dei servizi pubblici che sembrano direttamente ostacolare le attitudini terapeutiche degli attori coinvolti nel rapporto terapeutico.

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In primo luogo il servizio psichiatrico, così come tradizionalmente impostato, tende a funzionare secondo modalità di rigida burocratizzazione , anche per il sempre sbilanciato rapporto numerico fra gli operatori e i molti destinatari delle prestazioni. Vi sono poi possibili fenomeni di stigmatizzazione e autostigmatizzazione, laddove cioè la stessa fruizione di prestazioni psichiatriche arrivi a determinare percezioni e giudizi (da parte delle altre persone e, conseguentemente o meno, di se stessi) di malattia o anormalità dando luogo così a forme più o meno manifeste di rassegnazione e, quindi ad ulteriori possibilità di malattia. Inoltre vi sono possibilità che l’intervento psichiatrico assorba al suo interno, in forme ingigantite, la contraddizione radicale che grava, in generale, su ogni tipo di processo specialistico di aiuto, il rischio cioè di produrre manifestazioni di dipendenza e attaccamento, le quali andrebbero evidentemente contro la finalità ultima dell’azione psichiatrica che resta pur sempre quella di restituire ed incoraggiare autonomia, indipendenza e differenziazione del paziente. Si devono anche considerare degli effetti strutturalmente connessi con l’azione dei servizi psichiatrici sul versante dell’utente, nel senso di indebolirne disponibilità, motivazione e cittadinanza attiva nel corso del trattamento e quindi ad ostacolare direttamente il lavoro terapeutico. Queste disfunzioni si possono imputare ad alcune caratteristiche particolari dei servizi psichiatrici dove la prevalente connotazione medica del servizio che induce il paziente nel tipico atteggiamento passivo dell’intervento medico tradizionale. La presa in carico del Centro di Salute Mentale ha luogo con una valutazione iniziale accurata in collaborazione con l’ufficio IESA di alcuni aspetti del paziente quali:

• Difficoltà abitative,

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• Difficoltà familiari, • Gradiente del disagio psicopatologico, • motivazione e consenso a partecipare al progetto

a questo fa seguito una condivisione chiara e concreta del progetto con il paziente, la famiglia, l’equipe ponendo l’accento sulla parte sana dell’individuo e definendo: :

• tempi, • risultati attesi, • formazione per la famiglia, • assicurazione di presenza e sostegno al paziente e alla

famiglia affidataria, • integrazione della rete dei servizi.

Ci soffermiamo su un aspetto che non può essere sottovalutato e cioè che l'ambito dei problemi legati al disagio mentale si caratterizza per trovarsi al confine tra intervento sanitario e intervento sociale, al centro tra le istanze prepotenti della specializzazione e quelle più blande, ma più diffuse e quindi potenzialmente più efficaci, dell'attivazione comunitaria. In psichiatria diversamente che in medicina generale, le due dimensioni sanitaria e sociale, diventano entità fortemente polarizzate e difficili da integrare. La ricerca di un nuovo e razionale equilibrio tra le due funzioni essenziali dell'intervento sul disagio psichico indica la necessità di un pieno riconoscimento delle risorse della società civile, di una piena inclusione nel lavoro sociale di entità non formalmente deputate alla cura (ossia l'inclusione delle responsabilità degli utenti e delle famiglie, di gruppi, associazioni, aziende, ecc.), in un'ottica che valorizzi la cura naturale, integrata nelle reti di appartenenza. In quest'ottica appare opportuno analizzare la filosofia d'azione denominata community care, la cui politica si basa sul sostegno fornito da chi assiste informalmente e formalmente i pazienti psichiatrici che risiedono nella comunità.

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Si definisce community care quel principio-guida secondo cui le persone bisognose di cure e aiuti nella quotidianità dovrebbero ricevere questi aiuti rimanendo dentro il perimetro "normale" della loro vita e non in istituzioni ad hoc. Per comunity care si intende un'azione minimale che non mira a ridurre o eliminare le patologie, o gli handicap, quali che siano, ma piuttosto a stemperarli dentro un ambiente umano e istituzionale trasformato per garantire alla persona una qualche libertà dalla disabilità. In questo modo nel concetto di assistenza emerge la dimensione del supporto, come il prendersi cura, cioè una predisposizione di appoggi materiali ed affettivi per l'espletamento delle funzioni essenziali della vita quotidiana, nonostante eventuali patologie o limitazioni dell'efficienza personale. Attualmente nei servizi pubblici esiste una differente dimensione del "prendersi cura": quella che si potrebbe definire dell'aiuto specialistico (helping). Mentre la care è ben definita da concetti come sollecitudine e compensazione, helping si configura come un intervento intensivo, focalizzato ad eliminare gli aspetti che per così dire non funzionano. L'una è connessa principalmente con il mantenimento di standard minimi di benessere, l'altro con il conseguimento o il ripristino di standard ottimali o risolutivi di funzionamento personale. La constatazione di partenza nella community care è che l'assistenza ai membri più deboli di una comunità, come le persone con un disagio psichico, è attivata e viene in larga misura portata avanti da reti informali (parenti, amici, vicinato, gruppi di volontariato, di autoaiuto, di cooperazione, tutti più o meno strutturati e organizzati) che i servizi formali, quelli pubblici, hanno largamente e sistematicamente trascurato. Per contro, l'enfasi sulla comunità è importante, perchè sottolinea un fatto che rischia di non essere tenuto debitamente in conto e cioè che "l'informale" assicura una gran quantità delle cure sociali.

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Il rischio è che servizi come lo IESA siano collocati nella comunità, ma non ben innestati in essa. La community care può essere intesa anche come un miglioramento per via formale delle cure naturali e questo significa intervento diretto da parte dei servizi sulla famiglia e sulla comunità. Si parte dalla constatazione evidente che le relazioni di cura non possono darsi se non vi sono relazioni e che viceversa vi sono relazioni senza cura, cioè senza scambi umanamente e concretamente accettabili per le persone coinvolte. E' bene che un paziente psichiatrico possa rimanere in famiglia, ma se livelli troppo alti di stress distruggono la vita familiare, i processi naturali di aiuto si bloccano; vi è solo una cura negativa. Sulla base di queste considerazioni si assiste ad un movimento dei servizi socio-sanitari formali verso la comunità, che li porta a considerare come loro oggetto la qualità delle cure informali, puntando verso una modificazione della comunità stessa. Tutto il movimento della care, in questo modo, è però immaginato dall'alto verso il basso, su una strada che scorre ad un unico senso, dalle istituzioni formali alla comunità; possiamo parlare di community care passiva, in cui gli utenti, le famiglie, ecc. non hanno voce, con effetti di passivizzazione. La possibile soluzione a tale problema è orientare più decisamente verso un lavoro di respiro ecologico, invece di prendere di mira le patologie dei singoli. L'idea essenziale della community care, come base sociale che a livello locale si responsabilizza, si prende cura di sé compartecipando all'organizzazione delle iniziative necessarie, si mantiene su di un equilibrio delicato. Tale equilibrio non può essere semplicemente atteso, ma neppure fabbricato. Serve una visione che contemporaneamente allarghi e focalizzi la base delle responsabilità, che permetta un'estesa catalizzazione di "apporti" differenziati e interagenti attorno a una necessità

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specificata, individuale o collettiva. Una visione "attiva", in cui tutte le persone direttamente o indirettamente coinvolte nei problemi possano avere voce. Un punto fermo è che non si può prescindere da un intrecciamento tra i due sistemi del formale e dell'informale, in un preciso lavoro di rete. Con il termine "intervento di rete" è possibile identificare "l'insieme delle prestazioni, di varia natura (istituzionali e non) che hanno l'obiettivo di ricostruire, attorno al portatore del bisogno, un circuito relazionale significativo". I caratteri salienti di queste prestazioni sono rappresentati dall'elevato coinvolgimento emotivo ma anche temporale ed in alcuni casi anche spaziale che richiede agli operatori. Dal punto di vista teorico, il lavoro di rete tende a fare propri i seguenti principi:

a) - privilegia un approccio operativo di tipo sistemico, allargato. Esso supera o integra i tradizionali approcci terapeutico-educativi rivolti esclusivamente al singolo utente, così come le ottiche strettamente specialistiche.

b) - si basa sull'assunto della piena corresponsabilizzazione e partecipazione dell'utente (e delle sue reti personali) alla cura.

c) - auspica, in generale, il collegamento e l'integrazione tra gli interventi pubblici e gli interventi privati (collegamento o integrazione tra servizi) e tra interventi formali e informali (integrazione tra enti od operatori professionali e realtà familiari o comunitarie). La community care, quindi, come politica, si propone di organizzare l'assistenza "nella" e "dalla" comunità; la parola comunità però è diventato un termine vuoto, che significa tutto per tutti. Ci si può chiedere inoltre se le comunità locali (o vicinato) attraverso le quali deve essere assicurata la "care", non appartengano più che altro al passato; il problema teorico, in questo caso, può essere quello di capire quanto attualmente le

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reti di relazioni sociali della gente vengano mantenute all'interno della comunità. E' chiaro che nelle comunità moderne, in parte debilitate da processi disgregativi di vaste proporzioni, il loro potere di iniziativa necessita di essere catalizzato e sostenuto attraverso precise formule organizzative. Forse molto realisticamente, più che l'intera comunità, ci si può aspettare che un gruppo significativo di persone nell'ambito di una determinata località prenda consapevolezza che disagi e difficoltà che colpiscono una pluralità di suoi membri sono "problemi" non solo privati di ciascuno di loro, ma di tutti e che la comunità può esprimere le capacità, sia sul piano ideativo che operativo, di fronteggiarli in modo unitario. La strada indicata da questo approccio segnala la possibilità per i servizi e gli operatori istituzionali, di rivivificare la loro operatività ponendosi come supporto o stimolo a dinamismi comunitari di cura e sviluppo, contribuendo all'organizzazione di servizi flessibili perchè articolati a rete, integrati nei loro aspetti formali e informali, capaci nel contempo di garanzie universalistiche e di attenzioni individuali alla persona. Nell’inserimento eterofamiliare il paziente ha la possibilità di costituirsi una base sicura, essenziale per soddisfare il bisogno biologico di buon attaccamento: un bisogno fondamentale per l’essere umano. Un buon attaccamento al proprio gruppo naturale e nel corso dello sviluppo e della vita della persona con i diversi piccoli gruppi corregge e modifica i “modelli operativi interni” elaborati nell’incessante lavorio di internalizzazione delle relazioni sociali in cui ogni essere umano è costantemente impegnato. Ogni piccolo gruppo si può porre come base sicura per l’individuo che vi si attacca e una fiducia di base via via più solida fonda ogni possibile discorso o progetto di vita.

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La teoria dell’attaccamento parla infatti di traiettoria di sviluppo personale e di modelli operativi interni attivi e continuamente rifatti sulla base dell’esperienza. Con altre parole si può dire che il paradigma dell’attaccamento non si può identificare con qualsiasi concezione neurologica che prevede un danno fondamentale ed irreversibile per quanto difficile da riconoscere scientificamente; la base sicura è operativamente un luogo da cui si parte per ripartire verso i propri obiettivi. Concludendo con una citazione di Franco.Fasolo…..”la presa in carico può finire tanto prima e meglio quanto autentico e saldo profondo e disinteressato è il legame di attaccamento che si è sviluppato col gruppo curante; insomma la presa in carico può finire solo ed esattamente quando il gruppo curante è stato sufficientemente coeso ed abbastanza a lungo coerente nella relazione terapeutica con il paziente, con la famiglia e con la comunità locale. La fine della presa in carico sembra potersi realizzare tanto meglio quanto più somigliante con l’adeguata esperienza di separazione dei membri di una famiglia sufficientemente sana. I membri delle famiglie sane sono capaci di farsi i fatti loro, vivendo a lungo vite separate, facendo decisamente a meno l’uno dell’altro, ma trovandosi però in altri momenti insolitamente vicini ed intimi. I pazienti più gravi vanno curati, ma con i pazienti, divenuti, meno gravi ciò che si deve curare gradualmente sempre meglio è la qualità della nostra relazione, cioè della relazione fra noi, come fratelli maggiori che ci sono già passati.”

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SUPPORTO ALLE DINAMICHE FAMILIARI : L’ESTENSIONE DEI PROTAGONISTI Dr.ssa Claudia Zamburlini Psicologa progetto IESA del Dipartimento di Salute Mentale dell’Az. Ulss n. 9 di Treviso “….in comunità ti insegnano a fare altre cose come il presepe o la

ceramica. Si lavano i piatti, si fa tutto, ci sono le regole. Dalla Paola è diverso, in comunità vai per guarire, in cerca di un aiuto. In famiglia è meglio, è un’altra cosa. Vai fuori, al cinema. A me poi piace molto

ballare. . .” Marcella

L’èquipe dello IESA ha strutturato la propria organizzazione considerando che la presa in carico del paziente è degli operatori del centro di salute mentale di riferimento, e resta tale anche quando vi è in essere un percorso di affido eterofamiliare. La segnalazione delle persone da poter inserire in un percorso di affido viene effettuata dall’équipe del CSM, il lavoro quindi di connessione tra l’équipe dello IESA e le équipe dei diversi CSM è fondamentale per attivare, monitorare un percorso di accoglienza familiare. Il ruolo dell’équipe dello IESA ha funzione di conduzione, cura, messa in rete e accompagnamento di tutti quegli aspetti che caratterizzano un percorso di affido familiare:

cura l’abbinamento tra famiglia affidataria e persona segnalata in collaborazione con gli operatori del CSM ;

cura le dinamiche familiari che si presentano nella famiglia che accoglie

cura le dinamiche familiari della famiglia d’origine (dove è presente la famiglia), in collaborazione con l’équipe del CSM

collabora nella definizione del lavoro di rete per il reinserimento nel territorio.

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Il lavoro dell’équipe dello IESA si declina attraverso tre fasi essenziali dell’accoglienza familiare con le seguenti azioni: 1° FASE: abbinamento tra famiglia affidataria e persona segnalata

l’abbinamento tra persona segnalata e famiglia affidataria è svolto in équipe del CSM

organizza e gestisce l’incontro tra i vari soggetti, la persona segnalata, la famiglia d’origine, la famiglia affidataria, l’équipe del CSM

pone attenzione alle modalità d’incontro tra la persona segnalata e la famiglia disponibile all’accoglienza

pone attenzione ai tempi e agli spazi di attesa adeguati per l’inserimento in famiglia

lavora per far crescere la motivazione al percorso d’inserimento stimolando la crescita e la maturazione soggettiva degli obiettivi e scopi personali

si propone come mediatore delle difficoltà di separazione e resistenze all’avvio tra la famiglia d’origine e il soggetto

legge e gestisce le dinamiche istituzionali e le dinamiche tra i vari soggetti coinvolti

2° FASE: inserimento eterofamiliare

formalizza il contratto tra le parti, con definizione del progetto terapeutico riabilitativo del percorso di accoglienza

supporta le dinamiche familiari che emergono dall’inserimento della persona presso la famiglia che accoglie attraverso visite a domicilio e disponibilità telefonica sulle 24 ore

svolge il monitoraggio del percorso con incontri periodici con gli operatori di riferimento dell’èquipe che

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ha la presa in carico della persona valutando il rispetto degli obiettivi e ridefinendoli nel tempo se necessario

conduce incontri mensili con le famiglie accoglienti finalizzati alla condivisione delle esperienze in atto e supporto alle difficoltà emergenti

incoraggia occasioni di incontro conviviali tra e con le famiglie affidatarie con la finalità di creare maggiore appartenenza al progetto di accoglienza

3° FASE: conclusione del percorso d’accoglienza

lavora per il sostegno e l’elaborazione della separazione tra famiglia affidataria e soggetto, come cambiamento terapeutico, come possibilità di vivere diversamente la relazione con la famiglia affidataria che rimane un punto di riferimento importante per la persona stessa

focalizza, in collaborazione con l’èquipe di riferimento, le azioni orientate alla costruzione o scoperta di reti di supporto nel contesto territoriale per la ricontestualizzazione della persona.

E’ importante rilevare che un percorso di affido in famiglia va a modificare tutto ciò che sta attorno alla persona inserita in famiglia, c’è quindi la necessità di riposizionare le risorse che emergono dal cambiamento, al fine di consolidare e mantenere i risultati ottenuti. Il proporre un percorso di accoglienza ad una persona in carico al servizio è sempre un grande stimolo di movimento delle risorse presenti nel soggetto e nella famiglia d’origine, tali risorse possono essere utilizzate dagli operatori del CSM per stimolare nuovi cambiamenti terapeutici nel paziente e nel suo contesto familiare, anche quando il percorso non si concretizza. L’elemento centrale dell’articolata costellazione dello IESA è rappresentato dalla famiglia, vero e proprio spazio di vita concreto. Attraverso l’accoglienza in famiglia, con le sue dinamiche relazionali e le possibili figure d’identificazione e

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attaccamento, hanno luogo quell’integrazione e quella possibilità di sviluppo e di riscatto che rendono possibile al paziente il recupero di un ruolo e una identità nuova (Giancarlo Aluffi - “quando una famiglia accoglie”). La relazione interpersonale La relazione interpersonale è il fondamento dell’identità di ogni persona. Da essa trae origine la struttura della mente, la capacità di dare senso agli accadimenti affettivi ed emotivi, la costruzione del mondo e degli oggetti che condividiamo pienamente; essa è l’ambiente in cui sperimentare la propria vita emotiva, esprimere costruttivamente sé stessi. Ogni persona, ogni soggetto sociale, appartiene a pieno titolo, secondo le sue caratteristiche individuali, alla comunità di cui è parte integrante. Pensare a nuove pratiche riabilitative di salute mentale vuol dire favorire e valorizzare azioni e interventi de-centrate che si fondano sul rispetto tenace della globalità della persona, dei suoi legami affettivi - relazionali con la comunità d’appartenenza come strumenti di benessere. La relazione come possibilità di cura La cura ha a che fare più con i processi della vita quotidiana che non con la medicina, e la salute mentale non è tanto un prodotto elargito da un servizio, ma rimanda all’esistenza complessiva di ognuno. In questo senso vivere in una famiglia d’accoglienza può essere una chance terapeutica e riabilitativa da non sottovalutare. L’affidamento eterofamiliare come la capacità di aiuto dei non professional, l’esistenza di luoghi antropologici di cura (trascurati dall’istituzionalizzazione) la casa , la famiglia, l’importanza della vita quotidiana per la salute, la necessità da parte dei servizi di ripensare al mandato di cura (Giancarlo Aluffi - “ un matto in famiglia”).

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Quindi la centralità della relazione: non solo “è impossibile trascendere il punto di riferimento umano” ma la cura si gioca nella relazione umana. Risulta evidente che quest’ultima è inevitabilmente influenzata dalla preconoscenza che sia ha l’uno dell’altra e da quanto essa sia rigida. Il modo attraverso il quale noi pensiamo all’altro influenza notevolmente il modo in cui interagiamo con lui. Se la preconoscenza è troppo rigida ciò che viene meno è la possibilità dell’incontro, della comprensione, dell’offrire aiuto e cura. La relazione con l’altro costituisce un’area esperienziale in cui rischiamo di non entrare a causa della “costruzione di noi stessi” e della “precostruzione” dell’altro. La preconoscenza è inevitabile ma ciò che va evitato è di guardare alla persona come ad un malato, come ad un soggetto da contenere in una diagnosi. Quale relazione ? Queste brevi considerazioni sono il tentativo di evidenziare le diverse caratteristiche relazionali e di significato che avvengono tra una persona che vive un problema psichico e degli interlocutori specialistici, e tra la stessa persona che vive il problema di cui sopra e degli interlocutori non professionali quali sono le famiglie affidatarie/accoglienti. Interlocutori specialistici/paziente I tecnici incontrano il malato, hanno già immagazzinato una preconoscenza della persona, hanno una sorta di categorie guida che mediano l’incontro ma che lo influenzano molto. Si tratta di un incontro tecnico: una persona/paziente si inserisce nel già noto presente della mente di un professionista (diagnosi, slang psichiatrico). Tale incontro è viziato dalla idea di malattia che l’operatore ha e ciò è comunque inevitabile. Questo problema è noto da tempo ai professionisti della salute mentale. Forse non a caso le persone inizialmente segnalate per un percorso di affido familiare sono quei pazienti difficili, con una lunga storia istituzionale (numerosi ricoveri, la comunità, il centro diurno, diversi tentativi di inserimento lavorativo)

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insomma il paziente sul quale l’operatore ha perso ogni speranza. Famiglia accogliente /ospite La famiglia che accoglie incontra uno sconosciuto, incontra l’altro: non ha pregiudizi su di lui, perché non ne conosce la malattia, ma dispone di modalità relazionali ed affettive per incontrare in genere le persone - “l’altro”. Il desiderio di conoscere l’altro, mobilita curiosità assieme a disponibilità. Queste famiglie desiderano conoscere colui che arriva per la persona che è, per come lei si propone nella quotidianità. Una cosa che in un servizio ci si chiede raramente e certo non fa parte abitualmente della “presentazione del caso” (pensate, “presentazione del caso”, terminologia più da investigatori che da esperti dell’incontro), sono le preferenze alimentari della persona. Questa è tra le prime preoccupazioni dalla famiglia che accoglie. Quel “cosa gli piace mangiare?” oppure quel tentare l’avvio di un buon incontro chiedendo: “ gli piace il pesce?” , sono domande alla quale il “l’esperto” rischia di trovarsi impreparato a rispondere. La famiglia insomma fa quello che è solita fare con le persone, gli amici che invita a casa sua: insomma l’ospite è sacro! In questo modo si incontra l’altro attraverso i suoi gusti, i suoi stili, le modalità di rapportarsi e non attraverso una diagnosi, una sintomatologia, una preoccupazione. Questo metodo diverso di conoscenza (questa dotta sapienza quotidiana o dotta ignoranza al posto della dotta sapienza tecnica) favorisce l’instaurarsi di una relazione vera senza intermediari artificiali, foriera di trasformazioni positive. Fortunatamente non è nuova nemmeno tra i tecnici l’idea che sia la relazione ad essere curativa. Nella famiglia però vi è la capacità di sorprendersi e di conoscere il nuovo. Anche nell’esperienza tecnica tale aspetto del sorprendersi si evidenzia qualora in una équipe arriva un operatore nuovo il quale

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instaura una relazione positiva con un paziente/persona definito dal gruppo difficile, cominciando a comunicare dello stesso aspetti non visti, modalità di rapporti nuovi. Ciò che avvantaggia la famiglia nel ridare benessere e salute è che essa non è soggetta a profezie patologiche. Le dinamiche nella famiglia accogliente Si possono individuare alcune principali dinamiche e funzioni che si attivano nel nuovo contesto familiare:

funzione genitoriale comprensione empatica condivisione delle difficoltà capacità di non scoraggiarsi / fronteggiare le difficoltà il coinvolgimento dell’intero nucleo familiare

nell’esperienza di accoglienza che permette: lo sviluppo del senso d’appartenenza familiare,

stempera il carico soggettivo di una relazione duale, dà la possibilità di sperimentare la diversità dei ruoli e

quindi delle modalità relazionali con i vari componenti della famiglia,

aiuta a ricostruire aspetti del sé e tappe evolutive bloccate.

I luoghi degli incontri Altra differenza nell’incontro è il luogo: nelle situazioni istituzionali (anche ovviamente nei Centri di Salute Mentale) abbiamo un luogo costruito ad hoc per l’incontro, un laboratorio-comunità, nella famiglia uno spazio della quotidianità. Un luogo fortemente vissuto ed investito da un gruppo di persone diverse per età e sesso, un gruppo familiare. Tutto parla della famiglia e della sua storia, di quella storia che rischia di essere brutalmente interrotta, sia quando una novità

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“incomprensibile” conduce al ricovero in ospedale, sia quando avviene la “presa in carico” da parte dei tecnici che formulano un progetto terapeutico - riabilitativo. In ogni casa la storia è viva e presente: ci sono per esempio le fotografie dei figli quand’erano piccoli, c’è quel quadro comprato quel giorno in cui…. La persona che arriva ritrova inevitabilmente il senso di una storia, l’umanità di una storia; ecco che non è più fuori dal tempo, il tempo non è più un punto, lo spazio non è più un luogo chiuso. Si ritrova così spontaneità: qualcuno che ride, degli amici che passano a salutare, qualcuno che alza la voce (si può fare così: è la vita, non c’è di che preoccuparsi). Così la paura di perdere il controllo, ecco che trova nuove possibilità di espressione e nascono modelli identificatori “flessibili”, che portano alla riflessione, alla critica e diventano forieri di trasformazioni. Insomma nella nuova famiglia si litiga pure, si può e si deve farlo, e – sorpresa - non è la fine del mondo, litigare può servire, non si tratta di acting out, piuttosto si deve riconoscere la necessità di sfogarsi e si può imparare a parlare alla pari e senza il bisogno di fissare un appuntamento con qualcuno che può “educatamente” ascoltarci. Tutto questo in un servizio non avviene mai in modo del tutto naturale, perché la distanza professionale implica una certa anaffettività. Inoltre, la casa non ha uffici, non ha porte che vengono chiuse, non ha chiavi che chiudono cassetti. Quanto invece sono ancora presenti questi elementi nelle nostre strutture, quanto essi continuano a suggerire che il dolore deve essere chiuso dentro. Il modus vivendi di una famiglia ha regole, abitudini che sono sicuramente molto più a misura della persona; le nostre strutture hanno regole che sono molto più a misura del servizio, della sua organizzazione, del suo staff piuttosto che della persona che sta male. Si pensi al semplice fatto che in genere le strutture si svuotano alla sera e durante i fine settimana della presenza dell’operatore, mentre nelle famiglie è normale e sano che avvenga proprio il contrario. La presenza ed il calore

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familiare aumenta, proprio prima del buio della notte, proprio nei giorni liberi dal lavoro in cui i legami affettivi consentono di ritrovare o ricostituire le identità personali. Anche l’approccio tecnico, in questo caso l’ottica sistemico relazionale, suggerisce che il soggetto designato esprime in realtà, con la sua sintomatologia, una sofferenza familiare nascosta. Occuparsi, da parte della famiglia affidataria, non della patologia ma della vita del soggetto designato, sta producendo nella nostra esperienza una emersione della sofferenza della famiglia d’origine che trova finalmente interlocutori in grado di occuparsene. La famiglia affidataria, interessandosi al proprio “affidato” si accorge di questo e propone ai nostri sevizi, e ai servizi Socio – Sanitari in genere, proprio queste situazioni e si offre talora per dare una mano ad affrontarli. Cosa avviene in famiglia La famiglia assume la valenza di “ambiente terapeutico” attraverso un’opera di supporto e di strutturazione determinando;

la creazione di rapporti interpersonali con riduzione della distanza affettiva;

Il miglioramento delle competenze sociali con conseguente crescita dell’autonomia e delle relazioni sociali;

La sperimentazione, attraverso il nuovo ambiente familiare, di un nuovo tempo e luogo per maturare e rimettere in gioco la propria esperienza di vita;

La riattivazione e l’implementazione delle capacità di iniziativa e di realizzazione;

L’aumento della capacità di pianificazione della giornata; L’apertura alle attività di gruppo nel tempo libero; L’inserimento e/o la creazione di una rete sociale nel

contesto d’appartenenza;

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La scoperta di una progettualità di vita futura (scoperta dei desideri)

Conclusioni Ridare potere contrattuale, ridare condizioni di vita nuove sul piano concreto non basta a modificare la percezione soggettiva del cambiamento. Molte esperienze di deistituzionalizzazione hanno infatti dimostrato che non basta ridare diritti, che non basta cambiare dell’esterno le condizioni oggettive affinché una persona percepisca di stare meglio. Ciò che conta, perché la persona si senta meglio, è che viva un senso di autonomia e un senso di sé, che si riappropri direttamente della sua vita: si tratta di una conquista quotidiana, mai definitiva. Tali aspetti sono ovviamente connessi alla possibilità di fare esperienze in ambito lavorativo, del tempo libero, e alla possibilità di fare esperienze sociali e in special modo affettive. Per affrontare queste difficoltà riteniamo che l’accoglienza familiare sia uno strumento con una possibilità in più, che costringe i servizi, anche quelli più “nuovi” ad aprirsi ad ulteriori riflessioni e a confrontarsi con diverse contraddizioni pratiche e teoriche. Rispetto alla possibilità di rendere il soggetto protagonista della propria vita, la famiglia affidataria ha una marcia in più? Noi pensiamo di poter rispondere affermativamente (anche se si tratta di uno strumento per noi nuovo e sul quale riflettere più a lungo) perché è in grado di proporre un clima di normalità e di offrirsi ad un costante confronto, anche “normalmente” conflittuale.

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IL MARKETING SOCIALE, SELEZIONE DELLE FAMIGLIE, FORMAZIONE DELLE FAMIGLIE ACCOGLIENTI Dott. Valter Carniello Psicologo progetto IESA del Dipartimento di Salute Mentale dell’Az. Ulss n. 9 di Treviso Per marketing sociale intendiamo azioni di pubblicizzazione, informazione e formazione rivolte alle diverse componenti della comunità locale in merito all’attivazione del Progetto IESA, ai suoi aspetti organizzativi e legislativi, ai riferimenti storici, filosofici e culturali. L’obiettivo diretto è quello di:

♦ acquisire famiglie affidatarie disponibili a collaborare nel progetto.

Gli obiettivi indiretti sono: ♦ la riduzione dello stigma, ♦ la sensibilizzare della comunità ai temi della salute

mentale, ♦ l’informazione sulla rete dei servizi. ♦ Tale pratica per essere efficace nel risultato e rapida nel

raggiungimento dello stesso, necessita di una rete consolidata tra servizi e tra servizi e territorio.

Il lavoro che è stato svolto ha avuto come valore aggiunto l’implementazione di tale rete. Sul piano metodologico l’intervento è stato concepito e realizzato nel seguente modo:

♦ incontri singoli o di gruppo di tipo istituzionale con Amministratori e Servizi Sociali dei Comuni, Medici di Medicina Generale, Parrocchie, rappresentanti delle Associazioni, servizi specialistici vari;

♦ riunioni di presentazione rivolte alla cittadinanza in contesto più o meno ampio, organizzati, a seconda delle

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richieste, con i Comuni, con le Parrocchie, con le Associazioni, con le Cooperative;

♦ partecipazione a conferenze e dibattiti pubblici; ♦ lezioni informative e didattiche; ♦ progettazione e organizzazione di eventi rivolti alla

cittadinanza in sinergia con le UOT Unità Operative Territoriali ed in collaborazione con Associazioni e Comuni;

♦ costruzione e distribuzione di depliants; ♦ articoli stampa su quotidiani locali, riviste comunali,

giornali parrocchiali; ♦ programmi radiofonici e televisivi; ♦ annunci su periodici pubblicitari.

Il coinvolgimento dei soggetti rappresentativi del territorio: Questo lavoro è stato pianificato e condiviso con il supporto elle UOT. d

Assistenti Sociali dei Comuni Sono stati effettuati incontri sia di gruppo che individuali con tutti gli Assistenti Sociali dei Comuni, sia per presentare il progetto, sia per coinvolgerle operativamente nel raccogliere ulteriori stimoli che potenziassero l’operatività. Successivamente sono state più volte contattate per approfondire la progettualità e cogliere ulteriori disponibilità. Le difficoltà incontrate sono state le seguenti: ♦ la mancanza di personale; ♦ l’eccessiva burocratizzazione del lavoro e la difficoltà

nell’inserirsi nella rete territoriale in termini costanti nel tempo;

♦ l’impossibilità di coniugare, se non in minima parte, lavoro di rete con lavoro d’ufficio;

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♦ esperienze negative precedenti di lavoro con il territorio. Circoscrizioni Comune di Treviso Successivamente, nel comune di Treviso, sono stati coinvolti i Presidenti delle circoscrizioni di quartiere, ritenuti soggetti maggiormente vicini alle comunità locali, per favorire incontri con i responsabili delle associazioni territoriali e far nascere occasioni d’incontro aperte alla cittadinanza a più livelli. Nelle circoscrizioni contattate l’interesse è stato elevato ponendo le basi per un proseguo delle iniziative. Medici di Medicina Generale Sono stati coinvolti i Medici di Medicina Generale incontrando inizialmente i responsabili dei gruppi AUDIT, successivamente organizzando incontri con piccoli gruppi (5-6 persone). Gli incontri sono stati di tipo informativo sul progetto IESA e, in alcuni casi, sull’organizzazione del DSM. Da questi incontri è emerso un ampio consenso per il progetto ma pochissimi stimoli per individuare famiglie disponibili o modalità operative coinvolgenti. A tutti è stato consegnato il materiale pubblicitario da diffondere. Parrocchie Numerosi parroci sono stati coinvolti nella conoscenza del progetto e nello sviluppo del marketing sociale, sia in gruppo attraverso “la pastorale” sia singolarmente. Sono stati coinvolti in quanto rappresentativi per il peso che la cultura cattolica ha nella nostra realtà. Di fatto è stato rilevato che elementi stigmatizzanti sussistono anche a questo livello, e solo alcuni si fanno carico di stimolare la comunità sulle problematiche inerenti la salute mentale. L’eterogeneità del clero ha permesso di organizzare successivamente incontri con gruppi di azione parrocchiale solo nel 40% delle parrocchie e di usufruire del 60% delle

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pubblicazioni parrocchiali per proporre la nostra progettualità. Si stima che le pubblicazioni abbiano raggiunto la maggioranza delle famiglie che frequentano la parrocchia. Alcuni incontri hanno coinvolto la struttura organizzativa della parrocchia, altri incontri hanno coinvolto i gruppi religiosi di preghiera. Anche in questo caso, negli incontri formali, la pubblicizzazione si è integrata con l’attività di sensibilizzazione, creando occasioni per eventi successivi. Associazioni Abbiamo considerato rilevante innanzitutto rivolgerci alle associazioni dei familiari delle persone con problemi di salute mentale (AITSAM, ULISSE, AREM), condividendo con loro il progetto e partecipando ad alcune loro iniziative quali il cineforum. In seguito ci siamo rivolti al Centro Provinciale del Volontariato ottenendo l’elenco di tutte le associazioni del territorio. Abbiamo quindi provveduto a selezionare le associazioni, combinando criteri che abbiamo ritenuti utili per il raggiungimento dell’obiettivo diretto: associazioni impegnate in ambito sociale, associazioni che avessero una rilevanza nel territorio di appartenenza, associazioni suggeriteci da operatori dei diversi servizi. Non sono state contattate quindi le associazioni di tipo: sportivo, culturale (con qualche eccezione), ambientaliste, che sostengono problematiche sanitarie, militari. Con un numero limitato di associazioni, ed in sinergia con le UOT, abbiamo interagito nella realizzazione di eventi (Agesci, Auser, Labirinto ed Associazioni ad esso collegate, CEIS), che sono andati oltre gli incontri di tipo informativo, realizzando avvenimenti complessi, con una loro organizzazione e durata temporale (Università della Terza Età, Progetto Labirinto, Officine Creative). Si è tentato di operare in questa direzione anche contattando la “Consulta Caritas” per la salute mentale,

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l’Associazione “Il Nostro Domani”, e la “Caritas” di Treviso. Con tali soggetti il tentativo di costruire un possibile coordinamento delle iniziative rivolte a superare la sofferenza mentale e lo stigma, pur raccogliendo interesse, è ancora rimasto in una fase interlocutoria. Lo stesso dicasi per le associazioni “del Sant’Artemio”, che per la situazione precaria, che si è andata a creare negli ultimi anni, non hanno potuto dare il loro contributo. Con alcune associazioni quindi ma recentemente anche con altre (Centro Provinciale di Volontariato, Associazione Famigliari di Zero Branco, Amici Miei di Spresiano), si stanno ponendo le basi per svolgere in futuro un lavoro continuativo, di interesse collettivo. In alcuni casi abbiamo collaborato strettamente con le Amministrazioni Comunali (Mogliano, Preganziol, Casier, Meduna di Livenza, Treviso, Motta di Livenza) per realizzare delle serate rivolte oltre che alle associazioni locali, ai comitati di quartiere ed alla cittadinanza più in generale. In definitiva le associazioni contattate hanno espresso il loro apprezzamento sul progetto ma anche le perplessità per un lavoro così complesso e difficile per il territorio trevigiano. Inoltre si sono dimostrate piuttosto autocentrate e ancora non molto sensibili a tessere intense relazioni con altre realtà. Cooperative Sociali Anche con le cooperative sociali è stata attivata una collaborazione attraverso momenti di presentazione ai soci della progettualità, e occasioni più formative e di sensibilizzazione tali da poter far emergere le disponibilità personali a collaborare nel mettere in rete il progetto e/o ad aderirvi. Sono state coinvolte sia cooperative che già collaborano con il DSM che altre presenti nel territorio

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Gli operatori raggiunti nella sensibilizzazione sono stati complessivamente circa 500, mentre per la formazione specifica sono stati circa 50 La formazione è stata indirizzata prevalentemente ai soci delle cooperative dell’ex progetto Restituito dell’Opitergino-Mottense con l’obiettivo di dare continuità alla stessa logica che sottendeva sia il Progetto Restituito che il Progetto di Accoglienza familiare, ponendo particolare attenzione ad alcuni aspetti essenziali dell’operatività quotidiana volti a modificare stereotipie e rigidità che spesso si pongono come automatismi nel lavoro in struttura, in favore di una maggior apertura verso un lavoro di comunità mettendo in rete le diverse opportunità offerte dal territorio Ciò ha permesso, successivamente, l’individuazione di un socio come referente nel gruppo IESA dell’Opitergino Mottense, al fine di creare una maggior sinergia delle diverse iniziative poste in essere. Viene riportata di seguito la tabella di quantificazione dei diversi incontri realizzati per sottolineare la mole di lavoro che complessivamente richiede l’attività di Marketing Sociale Tabella sintesi incontri di Marketing sociale Servizi

Sociali Comuni

Medici Medicina Generale

Parrocchie

Associazioni

Cooperative Sociali

Totale

Inc. istituzionali*

83 79 75 70 11 318

Inc. informali*

123 78 118 85 35 439

Totale 206 157 193 155 46 757 N.B.: *incontri istituzionali: si intendono quelli programmati, a carattere ufficiale.

*incontri informali: si intendono tutti gli incontri legati all’operatività diretta e al mantenimento dell’attenzione sul progetto complessivo.

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Eventi significativi Per eventi significativi intendiamo azioni rivolte alla collettività, che coinvolgono in maniera formale e strutturata, un gruppo di lavoro composto da più soggetti istituzionali. Sono azioni di marketing sociale che hanno il vantaggio di costruire e consolidare la rete attraverso una operatività comune; per tale motivo e perché realizzano azioni complesse, propongono alla cittadinanza un messaggio di maggior impatto affettivo e comunicativo. In questi eventi lo IESA si è inserito sia nella fase programmatoria che in quella realizzativa. I più interessanti sono stati:

♦ Motta di Livenza: serata teatrale con Paolini; ♦ Meduna di Livenza: serata musicale con “Caramel”; ♦ Fontanelle: festa etnica; ♦ Oderzo: fiera dell’artigianato locale; ♦ Treviso, Oderzo, Breda di Piave: Cineforum;

Università della terza età L’Università della terza età è un gruppo associativo importante e numeroso nel territorio del trevigiano, suddiviso in più organizzazioni: Università della terza età, Università per il tempo libero e l’educazione permanente, Università popolare. Considerata la sua larga diffusione nel territorio si è pensato di coinvolgere i responsabili organizzativi e della formazione per costruire insieme un percorso didattico che potesse, non solo essere veicolo per il messaggio IESA ma anche momento di informazione e riflessione culturale inerente i temi della salute, della lotta allo stigma, del diritto di cittadinanza fino alle pratiche psichiatriche. Il percorso si è caratterizzato partendo dalla storia in chiave sociologica della medicina affrontando l’evoluzione dal modello biomedico, al modello sociale e al modello olistico, fino a valorizzare le diversità di genere, di età o

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di provenienza culturale della persona e della rappresentazione sociale che il benessere o il disagio hanno nei vari contesti ambientali. Interventi didattici che hanno voluto anche affrontare, con un linguaggio comprensibile rispetto l’eterogeneità della platea, la complessità del fenomeno legato anche alla persona con disturbi mentali che si trova continuamente a fare i conti con l’incessante relazione tra il proprio mondo interiore, e il mondo esterno, evidenziando gli spazi dell’integrità dell’io, parti sane dalle quali partire per poter relazionarsi in modo sano con la sofferenza mentale. Sono stati realizzati più incontri di un’ora e mezza nei seguenti Comuni: Oderzo, Motta di Livenza, S. Polo di Piave, Salgareda, Fontanelle e Treviso. In alcuni di questi, dopo il primo anno di partecipazione, alcune famiglie che partecipavano al progetto IESA hanno portato la loro esperienza, modificando gli interventi da “lezioni didattiche” a veri e propri scambi esperenziali mostrando, nel vivo, come le “buone pratiche” siano possibili nella salute mentale. Progetto officine creative Questo progetto si è realizzato grazie ad una collaborazione tra Progetto IESA , ideatore e promotore dell’iniziativa, il Progetto Giovani del Comune di Zero Branco e la UOT 2. Esso ha utilizzato come contenitore un’esperienza del progetto giovani. Il progetto ha previsto la costituzione di due laboratori, uno di teatro e l’altro di cinema, condotti da due esperti di teatro e di regia (Gerard Guillemot e Mirko Artuso), coinvolgendo giovani del territorio (circa 40), con il compito di realizzare in ciascun laboratorio un prodotto finale a cui è stata data visibilità attraverso uno spettacolo rivolto alla cittadinanza. Il tema che i gruppi di lavoro hanno affrontato era inerente al disagio psichico e al rapporto tra il soggetto che lo vive e la

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collettività. Il video prodotto è stato utilizzato per serate di promozione alla salute. Gli obiettivi del progetto sono stati: sensibilizzare e informare sul Progetto IESA e sui temi della salute mentale la cittadinanza contribuendo alla riduzione dello stigma; consentire ai giovani afferenti al Progetto Giovani del Comune un percorso altamente maturativo sul piano personale; creare alcune opportunità di interazione tra giovani del territorio e persone seguite dal CSM; implementare pratiche di lavoro di rete tra operatori di servizi diversi sviluppando nuove opportunità. Per costruire la trama delle rappresentazioni sono state organizzate con il gruppo giovani una serie di incontri di discussione sul tema del disagio coinvolgendo, oltre agli operatori dello IESA e a uno psichiatra esplicitamente richiesto, alcune realtà significative come il CEIS nell’esperienza del centro di aggregazione Liberamente, la Compagnia Teatrale Pantaleon nell’esperienza di teatro prodotto da operatori e utenti del centro diurno di Musano e la famiglia Moro nella sua esperienza di affido familiare. Ciò ha creato maggior interesse, curiosità ed entusiasmo tra i giovani, ponendo le basi per un ulteriore sviluppo del progetto nel tempo che preveda l’inserimento nei laboratori anche di soggetti con disagio che fossero interessati all’iniziativa La tipologia di lavoro e sua quantificazione:

♦ Il lavoro svolto dallo IESA è stato molto articolato e complesso ed ha comportato le seguenti azioni:

♦ l’ideazione del progetto; ♦ la definizione e stesura dello stesso in sinergia con la

UOT 2 e l’Amministrazione Comunale attraverso vari passaggi;

♦ l’individuazione e il coinvolgimento dei diversi soggetti; ♦ la divulgazione del progetto IESA e della rete del DSM;

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♦ il coordinamento e la verifica del progetto in itinere; Tale operatività aveva l’obiettivo di entrare nel merito del disagio che diventa sofferenza psichiatrica, e si è realizzata attraverso una serie di circa 90 incontri nel periodo da ottobre 2003 a luglio 2004. Per quanto riguarda le prospettive future è stata avanzata la proposta di dare continuità a questa iniziativa allargandola a soggetti in carico ai CSM in sinergia con i centri quali Liberamente e Musano e altri contesti territoriali. Progetto labirinto e gruppo pensante Il progetto Labirinto ha coinvolto il progetto giovani di Breda di Piave e associazioni sociali e culturali dei Comuni di Breda, Maserada e Carbonera. All’interno di tale progetto sono stati coinvolti operatori della salute mentale della UOT 2, costituendo un gruppo di lavoro definito “Gruppo Pensante”. Esso si è dato il compito di discutere al proprio interno di problemi di salute mentale, sensibilizzando la popolazione al riguardo ed includendo nel gruppo stesso persone seguite dalla UOT2. Come Progetto IESA abbiamo ottenuto ampia disponibilità ad inserirci in tale operazione. Abbiamo infatti collaborato alla progettazione di una serie di serate dedicate alla salute mentale. Ciò è avvenuto sia partecipando direttamente alle riunioni c/o Il Labirinto, sia incontrando l’educatrice di riferimento della UOT2. In questa programmazione di eventi ampio spazio è stato dato allo IESA con tre incontri di presentazione e discussione del progetto alla cittadinanza.

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Alcune considerazioni L’attività complessiva di marketing sociale in questi tre anni ha impegnato per un tempo considerevole sia il gruppo di lavoro dello IESA che alcuni operatori dei relativi CSM. Essa pur non avendo raggiunto l’obiettivo diretto, ossia quello di acquisire famiglie disponibili all’affido, è risultata alquanto significativa come azione rivolta alla sensibilizzazione dei servizi e più in generale della comunità sui temi della salute mentale e all’informazione sulla rete dei servizi del dipartimento di salute mentale. Contemporaneamente ha messo in luce alcune criticità riguardanti l’accoglienza e l’inclusione sociale. Infatti il territorio esprime in generale una scarsa esperienza di lavoro di rete e di inclusione sociale in relazione alla salute mentale; inoltre i Comuni intercettano solo una piccola fascia della collettività (quella che pone richieste). I Comuni e le U.O.T. hanno stretto collaborazioni per progetti di inclusione e di sensibilizzazione solo sporadicamente e la loro conoscenza e azione sul territorio è insufficiente; queste azioni sono limitate sia per il carico di lavoro sia perché ancora troppo associate alle iniziative personali dei singoli operatori. Il rapporto tra i gestori del progetto I.E.S.A. e le U.O.T. si è maggiormente consolidato, in particolare con gli operatori concretamente impegnati nell’operatività; anche il corso di formazione I.E.S.A. per operatori ha aumentato tale vicinanza e familiarità. La partecipazione degli operatori delle U.O.T. al progetto I.E.S.A. va comunque affinata e potenziata e ciò per garantire anche una progettazione comune sulle azioni da compiere nella costruzione di significativi progetti di prevenzione e di lotta allo stigma. La disponibilità da parte dei responsabili e degli operatori delle UOT , anche se inizialmente scarsa, è stata successivamente ampia, condividendo l’importanza del progetto. Le difficoltà subentrate sono state di tipo operativo in quel lavoro di rete

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sopra citato, mentre nell’individuare i pazienti, nel progettare e nel seguire l’inserimento la presenza è stata più marcata. L’approfondimento delle esperienze italiane conferma la difficoltà nella ricerca delle famiglie, la necessità di coniugare strategie eterogenee di reperimento, nel mentre si arricchisce la costruzione della rete, attraverso anche la sviluppo di progetti di prevenzione e di inclusione sociale. Per quanto riguarda le famiglie, va inoltre sottolineato che la maggioranza delle stesse hanno contattato il servizio, non tanto attraverso le diverse azioni di marketing sociale, ma tramite gli annunci economici sulle pubblicazioni “Città Nostra”, “Qui C’è”, “La Pulce”; annunci che sono stati pubblicati per un tempo complessivo di 90 giorni (soltanto una famiglia è pervenuta tramite un altro canale, quello del “passa parola” tra famiglie). Ciò come se il messaggio economico desse risalto a un progetto socialmente importante. I medici di medicina generale pur essendo numerosi e avendo la possibilità di conoscere la reti familiari, dimostrano apprezzamento per il senso del progetto ma manifestano perplessità per la sua realizzazione e sono orientati in un lavoro prettamente sanitario occupandosi più del corpo biologico che di quello sociale. Anche i parroci manifestano propensione per un lavoro che valorizza la famiglia come possibilità di accoglimento ed elaborazione della sofferenza, ma la loro capacità di aggregare famiglie è in crisi e comunque gli sforzi nel farlo sono orientati da intenti religiosi e poco spazio danno ad un progetto che forse vivono come disturbatore della quiete familiare. Le associazioni in genere sono autocentrate, rivolte ai loro obiettivi statutari, poco abituate a coinvolgersi in progetti di più ampio respiro. E’ stata riscontrata una difficoltà sia nel metterle insieme e sia nel poterle incontrare con tutti i loro associati. Difficoltà presenti non solo nei gruppi che abitualmente non dialogano con gli addetti ai lavori.

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Per superare tali difficoltà è stato coinvolto il Centro Provinciale del Volontariato con il quale si attueranno iniziative tali da coinvolgere la maggioranza delle associazioni trevigiane. Tutto ciò conferma il fatto che il progetto I.E.S.A. necessita di un lungo percorso di fertilizzazione territoriale, essendo un progetto di inclusione sociale e cittadinanza che implica una trasformazione Attività di selezione di nuove famiglie Per quanto riguarda le famiglie va inoltre sottolineato che la maggioranza delle stesse hanno contattato il servizio, non tanto attraverso le diverse azioni di marketing sociale, ma tramite gli annunci di domanda e offerta di lavoro sulle pubblicazioni “Città Nostra”, “Qui C’è”, “La Pulce”. La divulgazione del progetto solo nell’ambito del volontariato sociale o tramite i canali istituzionali non trova stimoli tali da generare una adeguata motivazione. Con il canale informativo degli annunci di domanda e offerta di lavoro invece, le persone che sono disponibili a spendersi in ambito lavorativo e che sono sensibili all’aiuto e all’accoglienza dell’altro trovano quel mix motivazionale che gli spinge a contattare il servizio IESA e a partecipare alle selezioni. Sembra perciò che questo messaggio dia risalto a un progetto socialmente importante. Risultati ottenuti sono: n. 161 famiglie che hanno avuto contatti informativi, di cui n. 103 con un primo colloquio, n. 64 con intervista strutturata, delle quali a n. 38 famiglie sono state fatte alcune visite a domicilio per conoscere la situazione abitativa; quindi di queste, sono state selezionate e ritenute idonee n. 24 famiglie, e attualmente sono inserite nel progetto n. 16 famiglie per le quali attivare un nuovo percorso formativo.

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Tabella riassuntiva selezione famiglie ospitanti: Famiglie contattate

Famiglie che hanno

partecipato al 1° colloquio

Famiglie che hanno

partecipato a più colloqui

Famiglie con visite a

domicilio

Famiglie disponibili

161

103

64

38

16

Azione con le famiglie ospitanti Attualmente sono disponibili per il progetto n. 16 famiglie ospitanti. Tale numero è il risultato di una selezione operata con colloqui, visite a domicilio, percorso formativo/informativo, e partecipazione al gruppo di famiglie. Al telefono, dopo una prima esauriente informazione sullo IESA, c’è stata una prima selezione per l’inadeguatezza degli spazi abitativi, per una forte motivazione economica, per una palese difficoltà a relazionarsi e una distanza elevata della propria abitazione dal territorio dell’Azienda ULSS. Successivamente le famiglie rimaste hanno partecipato ad un primo colloquio informativo, dal quale sono state ulteriormente selezionate. Questo per evidenti bisogni esclusivamente economici, per una scarsa disponibilità all’accoglienza, per un’auto esclusione, o perché è stato rilevato principalmente un contesto familiare confuso e inadatto ad un accoglimento di persone in carico al CSM, fino a una indisponibilità data dalla consapevolezza, acquisita nel tempo, del significato del progetto IESA. Le famiglie rimaste sono state conosciute anche attraverso alcune visite a domicilio e con tali famiglie si è approfondita la comprensione delle motivazioni e delle caratteristiche organizzative e relazionali. Delle famiglie affidatarie selezionate alcune appartengono a territori limitrofi alla nostra Azienda Sanitaria, pur tuttavia i responsabili delle UOT hanno accettato e condiviso la

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possibilità di considerarle nuclei familiari utili per gli inserimenti eterofamiliari per alcuni pazienti seguiti dal CSM. Attività formativa alle famiglie L’attività formativa si svolge su tre livelli ugualmente importanti:

- il primo livello è il corso formativo/informativo. Nel mese di febbraio 2006 si è concluso il terzo percorso di formazione/informazione alle famiglie selezionate. Nella definizione dei contenuti e delle modalità operative della formazione si è ritenuto importante coinvolgere i responsabili delle UOT per concordare un programma che prevedesse uno stile di lavoro tale da garantire un clima interattivo, successivamente anche le famiglie accoglienti sono state coinvolte per focalizzare in maniera più efficace i bisogni formativi e dare continuità all’esperienza precedente. Il percorso formativo si è sviluppato attraverso cinque/sei incontri della durata di un’ora e mezza ciascuno. La partecipazione è stata molto buona e le famiglie hanno potuto consolidare il proprio desiderio di partecipare al progetto.

- Il secondo livello si sviluppa nella quotidianità

dell’accoglienza familiare, attraverso l’esperienza con la persona inserita. Durante tale periodo c’è un continuo rapporto tra l’equipe dello IESA e la famiglia con riflessioni ed elaborazioni dei vissuti esperenziali delle persone coinvolte, individuando azioni o modalità relazionali più idonee.

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- Il terzo livello si esplica nella partecipazione al gruppo mensile delle famiglie accoglienti.

Attività di gruppo con le famiglie affidatarie Attualmente sono disponibili per il progetto n. 16 famiglie ospitanti. Tale numero è il risultato della selezione e dei percorsi formativi sino ad ora svolti. Si è data continuità agli incontri di gruppo con tutte le famiglie affidatarie, quelle con percorsi di affido attivi e quelle in attesa, che si tengono mensilmente presso la sede del DSM ( 2° mercoledì del mese). Tali incontri hanno la finalità di condividere le esperienze in atto, aumentare il senso di appartenenza al progetto stesso e costruire la banca dati di famiglie accoglienti utile per poter rendere più ampia la scelta degli abbinamenti con gli utenti segnalati. Il lavoro di gruppo permette di progettare momenti informativi rivolti al territorio del progetto IESA a partenza dalle esperienze concrete di inserimento familiare. In alcune occasioni è stato appropriato avvalersi di uno spazio non istituzionale, con momenti di convivialità, per stimolare con maggiore forza l’appartenenza al gruppo. Ulteriore obiettivo è quello di strutturare un gruppo associativo autonomo e specifico delle famiglie accoglienti, per un loro spendersi sia nell’aiuto di persone con sofferenza psichiatrica sia ampliando la rete delle famiglie accoglienti nel territorio. .

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IL PUNTO DI VISTA DELL’A.I.T.Sa.M. Signora Tali Corona Presidente regionale A.I.T.Sa.M. Buon giorno, ringrazio gli organizzatori per l’invito e dichiaro fin da subito l’interesse che l’AITSaM ha per questa e per tutte le iniziative rivolte a persone con disagio e per il sollievo delle nostre famiglie. Un ringraziamento particolare alle famiglie IESA che sono oggi i protagonisti principali di questo incontro e per l’impegno, il coraggio, la capacità e il senso civico di vera cittadinanza attiva, una scelta generosa di ospitare nella loro famiglia altre persone estranee al loro gruppo familiare, ma non per questo estranee perché accolte a braccia aperte, e sperando che possa dare risultati efficaci. Vorrei toccare rapidissimamente l’aspetto del reclutamento e della formazione di queste famiglie. La formazione è molto importante e alle famiglie naturali non è stata offerta dal servizio pubblico questa opportunità, queste ultime infatti sono state formate in modo artigianale dalla stessa associazione. Riteniamo quindi importante la formazione per poter orientare al meglio le capacità educative a favore di queste persone che vivono in condizioni di disagio particolare. Voglio sottolineare l’importanza di una formazione agli stessi operatori, affinché possano imparare sempre meglio a valutare, capire e selezionare le persone che si sono offerte all’accoglienza per poter costruire dei corretti abbinamenti. Ieri è stato detto non ci sono inserimenti falliti ma scelte sbagliate e perciò è molto importante come viene scelta la famiglia e come vengono affidate le persone. Ieri sono state dette moltissime cose, alcune le condividiamo altre ci hanno un po’ sconcertato. Inevitabilmente torna il pensiero che se alle nostre famiglie fosse stato offerto l’aiuto, il sostegno anche economico, che viene dato alle famiglie

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accoglienti, noi crediamo che l’evoluzione delle situazioni in famiglia sarebbe stato diverso. Quindi vorremmo che alle famiglie naturali fosse riconosciuto il diritto di presa in carico. Il dr. Pullia ieri ha sottolineato come la tutela delle persone sia invalidante, ma noi non vogliamo tutelare le persone ma i loro diritti e quindi anche il diritto di cura. Il dr. Meneghel oggi ha esordito con l’importante osservazione che voglio riprendere anch’io su quello che è la cura e la presa in carico. Come Associazione siamo stati accusati molte volte prima che questa voce “presa in carico” fosse stata inserita nel progetto regionale e nazionale, criticati perché pareva che volessimo i manicomi e abbiamo chiesto la presa in carico proprio con l’eccezione precisa di cui ha parlato il dr. Meneghel. Il prendersi cura, il farsi carico di, l’essere solleciti, l’aver attenzione verso le persone ed è quello che noi continuiamo a chiedere al servizio. Quindi non c’è un enfasi sulla tutela, ma sulla presa in carico si! Ne reclamiamo il diritto. Diritto di prognosi favorevole, diritto alla guarigione. Io chiedo che tutti gli operatori osino parlare di guarigione, parola che è stata interdetta nei servizi per tanto tempo, ora ci si deve porre l’obiettivo della guarigione, perché guarire è l’attitudine etica dell’operatore. È quello che la famiglia chiede, la guarigione, compatibilmente con la situazione della persona. Non si potranno recuperare molti aspetti perduti, ma nessuno ci dice che non si possano recuperare molti altri aspetti della persona, molte parti sane che sono state trascurate, e quindi il prendersi cura non è occuparsi del sintomo ma occuparsi della persona nella sua interezza, nel suo essere persona con sensibilità, con cuore, con aspettative, con desideri, con sogni e bisogni, con i suoi aspetti spirituali che vanno coltivati e curati. Perché le fratture sono quelle che generano malattia, mentre l’interezza della persona è salute. Questo è quello che chiediamo al servizio!

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Altre osservazioni ieri mi hanno stupito, per es. è stato detto che questo intervento forse è l’unico riabilitativo. Noi non pensiamo che sia così, e mi è piaciuto il dr. Meneghel che ha rivalutato molti aspetti clinici, la ricerca al pari dell’inserimento sociale o nelle attività lavorative, del diritto di cittadinanza e nell’essere accolto e accettato ovunque. I servizi non devono rinunciare al loro mandato curativo e terapeutico e noi ci battiamo perché gli organici all’interno dei CSM siano completi con tutte le loro professionalità, perché noi crediamo molto sulle capacità degli operatori e contiamo sulle capacità del loro intervento. Noi pensiamo che ogni intervento sia importatane per ridare alla persona quell’unitarietà perduta. Sottolineo che questo intervento di accoglienza è molto importante. È stato considerato un intervento pazzesco, straordinario e incredibile, noi invece siamo normali, quotidiani, visibili e qualche volta anche invisibili perchè ci si dimentica a volte di noi e di chi aspetta per mesi anche una visita privata. A queste famiglie viene data una visita infermieristica giornaliera e psichiatrica settimanale, non sarà questa cosa la più importante ma da sicurezza, sostegno alla famiglia e alla persona la certezza di essere presa in cura, che qualcuno si fa carico della sua sofferenza. In queste condizioni le famiglie sono meno conflittuali, la conflittualità nasce là dove non ci si sente accolti, presi in cura e sostenuti. Quindi è necessario che i servizi siano più presenti nelle famiglie e offrano quello che attualmente l’associazione offre e cioè la formazione e la socialità. Verso le famiglie IESA noi siamo disponibili ad offrire quello che offriamo alle nostre normali famiglie. Voi siete famiglie speciali e in quanto speciali avete il diritto a tutte le attenzioni da parte dell’AITSaM. Siamo a vostra disposizione e abbiamo il piacere di lavorare con voi. La nostra esperienza che non è temporanea ma dura per decenni, può essere utile anche a voi. Ora vorrei sottolineare alcuni aspetti più concreti e pratici come i soldi, e volevo sottolineare che la somma di 1724 € oggi

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descritta come costo di una comunità terapeutica, comprende il costo di tutti i servizi del CSM con gli operatori, mentre la somma destinata alle famiglie IESA è solo la cifra inerente il rimborso spesa alle famiglie, quindi sono due costi diversi uno dall’altro. Ma al di là di questo, l’altro aspetto che ritengo importante sottolineare soprattutto per gli operatori che si occupano di questo progetto è il dopo. Perché in ciascun progetto serio è importante verificarne l’efficacia che si valuta alla conclusività di un percorso terapeutico riabilitativo. Quello che chiediamo è che il dopo sia monitorato, quando le persone avranno maturato un modo diverso di vivere socialmente, una capacità diversa di relazionarsi, avranno rimarginato questa ferita per la quale sono usciti anche dalla famiglia d’origine. Quel momento di verifica ci permetterà di valutare l’efficacia di quel momento importante per la persona, per la famiglia d’origine, per la famiglia affidataria e anche per il servizio. Chiudo ringraziando le famiglie IESA e ricordo ai servizi che anche le famiglie naturali hanno dei bisogni e dei diritti e che se anche alle famiglie biologiche verranno offerte risorse e opportunità, ciò sarà di molto aiuto per migliorare le condizioni al loro interno e la loro qualità di vita delle persone.

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IL PUNTO DI VISTA DELLA FAMIGLIE ACCOGLIENTI Intervento delle famiglie affidatarie coinvolte nel progetto Dall’avvio del progetto ad oggi il numero delle famiglie disponibili all’accoglienza è aumentato attraverso momenti di selezione e formazione attivati annualmente dall’équipe. Attualmente sono 12 le famiglie inserite nel progetto d’accoglienza, esse costituiscono un gruppo che si incontra, assieme agli operatori, una volta al mese per condividere le esperienze, riflettere su tematiche legate alle difficoltà/positività che emergono dai percorsi di affido in atto e organizza momenti di maggiore visibilità del progetto stesso. Al gruppo partecipano sia le famiglie che hanno in essere un percorso d’affido che quelle in attesa di un inserimento. L’intervento che segue, frutto anche di questo lavoro di gruppo svolto nei mesi precedenti al convegno, vuole mettere in risalto le criticità e i punti di forza emersi e, in particolare, l’impatto emotivo che la famiglia vive attraversando le varie fasi di un percorso d’accoglienza. L’apporto progettuale e propositivo, assieme alla disponibilità affettiva delle famiglie dello IESA è per noi operatori uno stimolo costante per investire strumenti e risorse che possano dare sempre maggiore visibilità e fattibilità al progetto. Bruno Moro Buon giorno, parlando a nome del gruppo delle famiglie IESA voglio dire che la nostra testimonianza è di estrema positività e un ringraziamento va al servizio pubblico che attraverso il progetto IESA apre prospettive non contemplate solitamente dal DSM per i pazienti e le famiglie che esprimono il disagio psichico. Ogni famiglia porterà la propria testimonianza con dei piccoli flash legati alle diverse fasi di un percorso d’accoglienza. La mia famiglia ha accolto diverse persone che attraverso questa esperienza sono cambiate e certamente siamo cambiati anche

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noi e questo cambiamento è inspiegabile. Questa esperienza per noi ha avuto inizio accogliendo una persona inviataci da un nostro amico psichiatra, prima per qualche settimana poi per qualche mese. Pian piano osservi che qualcosa cambia, che la sofferenza sparisce, che le persone diventano autonome, iniziano a progettare il loro futuro. Quando vedi questa evoluzione capisci che l’accoglienza familiare funziona e allora prosegui . La nostra è stata una sfida. Una delle nostre ultime esperienze ha visto una ragazza che in seguito al percorso realizzato a casa nostra, ha sviluppato una sua autonomia attraverso l’acquisizione di una professionalità e poi di un lavoro di assistenza agli altri, assumendo un comportamento esemplare, con un “rimettere a posto” le cose che nella sua famiglia non avevano funzionato. Per noi, tutto questo, significa aver speso qualcosa della nostra vita e aver ricevuto molto di più in cambio. Paola Antonini Questa è la mia prima esperienza di accoglienza. All’inizio quando la persona arriva in famiglia c’è una certa preoccupazione per ciò che potrebbe accadere e ci si domanda come è meglio comportarsi, cosa è meglio dire o fare; invece ci si accorge che in un tempo molto breve la persona si ambienta senza tante difficoltà. L’importante è che la persona diventi membro vero della famiglia, che sia accettato da tutti i componenti perché, a mio parere, c’è un estremo bisogno di famiglia, di affetto e di una presenza continua. Certo, non è sempre facile, la pazienza, l’ascolto, il farli sentire a loro agio sono ingredienti essenziali. Per la famiglia, nei momenti difficili, c’è sempre la presenza e la disponibilità dell’operatore che ci ascolta e ci consiglia. Il partecipare al gruppo delle famiglie ci fa sentire unite in una più grande famiglia, lo IESA.. Maria Pia Carrer

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Da 8 mesi ho un’affidata, un po’ di tempo fa c’è stata la mia prima incomprensione con questa ragazza, lei non voleva uscire con me di sera quando venivo invitata dai mie amici. La prima cosa che mi diceva era “no”. Ma un giorno mi sono arrabbiata con lei e le ho detto “ tu devi venire se ci invitano!”. Sono rimasta sorpresa dalla mia reazione e per niente orgogliosa, anzi delusa dal mio scatto emotivo. Poi con gli operatori abbiamo trovato un compromesso. Ora tutto procede bene, ci sentiamo legate, più affezionate. Al sabato lei va a casa e allora ci telefoniamo, e poi quando al lunedì ritorna, sento che ci sentiamo legate. Voglio ringraziare il progetto IESA di avermi fatto incontrare Lorella. Questi mesi sono un primo passo nel nostro cammino assieme, ci saranno altre incomprensioni ma con l’aiuto degli operatori le supereremo. Paola Vigiak Sto concludendo il mio primo percorso d’accoglienza che dura già da un anno, percorso a mio avviso molto positivo. La cosa che più mi ha colpito è stata come Marcella si è inserita nella nostra famiglia composta da me, due figlie di 20 e 23 anni e la nonna di 92; ognuna con hobby, amicizie e interessi diversi. Marcella si è coinvolta in tutte le nostre attività. Anche con la nonna lei ha trovato un grande accordo, la nonna che non sempre capisce i problemi di Marcella, ma lei sa essere solidale e l’aiuta nelle sue difficoltà di 90enne. Si è inserita nella famiglia dei mie genitori e le piace partecipare ai nostri pranzi insieme. Io mi occupo di animali abbandonati e ne ho una decina a casa. La prima volta che Marcella è venuta a casa mia ha detto “roba da matti tutti questi animali” e non li voleva, non si sedeva neanche sul divano. Ora li coccola, li nutre si preoccupa di loro, partecipa ai tavoli informati dell’Associazione animalista della quale è diventata fattiva partecipante, convince la gente ad adottare un animale. Marcella ci ha dato tantissimo e lei esprime la sua riconoscenza partecipando e collaborando alla vita

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familiare. Ora lavora part-time in una cooperativa. Avere con noi Marcella è stata una crescita enorme. Anna Moro La mia testimonianza vuole mettere in evidenza le difficoltà che la famiglia accogliente incontra quando arrivano in casa altre persone. Sicuramente non è più come prima non è più tutto ordinato , non si rispettano più gli orari e anche la coppia viene messa alla prova….pazienza! Certe cose, con il tempo, diventano meno importanti. Le esperienze d’inserimento familiare per noi sono state significative e le soddisfazioni sono un momento di crescita, come per le mamme che quando vedono il bimbo si dimenticano del dolore del parto. Come ha detto il dr. Meneghel nell’accoglienza familiare c’è “il prendersi cura in tutti i sensi”. (lettura della lettera di Luciana riportata in appendice). Anna Cervellione La nostra famiglia ha avuto due percorsi d’accoglienza; il primo è stato un buon percorso durato un anno e mezzo, per noi è diventato una persona di famiglia e ci siamo affezionati molto. La difficoltà infatti è stata proprio nel distacco, la casa sembrava più vuota e ognuno di noi ha un po’ sofferto di questa separazione. Ora c’è Alessandro con noi, percorso iniziato qualche mese fa, a volte mi fa disperare ma c’è affetto e lui ricambia. Io ci metto il cuore nei progetti di accoglienza e spero che lo IESA continui perché dà soddisfazioni, è un’esperienza che consiglio a tutti. E’ un’esperienza molto affettiva. Antonello Cervellione Voglio solo dire a tutte le famiglie che vogliono partecipare allo IESA che queste persone hanno bisogno di affetto, sicurezza e fiducia. Bruno Moro Noi chiediamo scusa dell’emotività dei nostri racconti, l’affettività rappresenta uno dei fattori dello IESA, al di là di ciò

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che tecnicamente si può pensare, fattore che serve per stare meglio. Quando una persona si sente accolta con affetto si sente supportata nel superare le difficoltà che si presentano. Penso che queste relazioni spaziano dentro ambiti che oggi noi non riusciamo a catalogare e che generano salute, benessere, autonomia.

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LE ESPERIENZE ITALIANE A CONFRONTO: PUNTI DI FORZA E CRITICITÀ

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IL PROGETTO I.E.S.A.: L’ESPERIENZA DI COLLEGNO (TO) Dott. Gianfranco Aluffi Psicologo Coordinatore Servizio IESA presso Dipartimento di Salute Mentale B ASL 5 Regione Piemonte Tappe di un percorso Nell’accingermi a parlare dell’esperienza IESA di Collegno non posso esimermi dal cercare di ricondurla ad una sequenza di tappe storiche, progressive e determinanti. Una sorta di susseguirsi di fasi, di espressioni, di generazioni dello IESA. Del resto anche le famiglie hanno i loro alberi genealogici e il riconoscimento dei “padri” e delle “madri” può essere isolato come indicatore di buona identificazione col nucleo stesso e come garanzia di regolari relazioni, attaccamenti, sviluppi e separazioni, con tutto ciò che questo rappresenta per una buona crescita dei figli, delle loro esperienze e delle generazioni a seguire. Detto ciò, senza negare a St. Dymphna6 l’ “immacolata maternità” di tutte le espressioni riconducibili allo IESA, il primo accenno all’ utilizzo di famiglie volontarie per l’accoglienza di disabili psichici nell’area del territorio oggi servito dal Dipartimento di Salute Mentale di Collegno va ricondotto al 1898, anno in cui la Deputazione provinciale di Torino emise una nota rivolta a tutti i regi manicomi, in cui suggeriva la sistemazione di malati innocui presso privati dietro compenso. Tale documento aveva la funzione di fare fronte alla sovrappopolazione manicomiale di quegli anni e l’accenno allo IESA, peraltro chiamato “collocamento di maniaci innocui presso privati”, assumeva una valenza di solo tipo economico-

6 Alla leggenda di St. Dymphna, ambientata a Geel nel 700 d.C., viene ricondotta ufficialmente la nascita della pratica dello IESA.

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amministrativo visto che il suo costo, allora come oggi, era decisamente inferiore a quello per il ricovero in strutture asilari. In sintonia con questa tendenza a sfollare i “saturi” manicomi, si trovano anche gli accenni al Patronato eterofamiliare nelle leggi nazionali n°36 / 1904 art. 1 e n° 615 / 1909 artt. 2,13,14,15,16, oggi prive di valore giuridico e distanti anni luce dagli attuali riferimenti legislativi e ancor prima culturali. Dopo questa breve stagione dello IESA italiano, collocata a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, la quale peraltro non ha visto il territorio piemontese rispondere con particolare entusiasmo, occorre attendere sino al 1990, anno in cui, grazie alla coraggiosa iniziativa del Dott. Paolo Henry e di alcuni operatori della cooperativa “La Valle”, si ripresenta sul territorio dell’attuale ASL 5 piemontese, una nuova esperienza di inserimenti eterofamiliari supportati7. Tale progetto era ispirato al modello del servizio di Accueil Familial Thérapeutique portato avanti nella zona di Nantes e della Loira atlantica dai dottori Jean Claude Cébula e Pierre Sans. Nonostante la forte motivazione dei promotori, l’esperienza durerà solo alcuni anni rendendo però possibili, a diversi ex–degenti dell’ ex–ospedale psichiatrico di Collegno, piacevoli periodi di soggiorno presso famiglie residenti soprattutto nell’area delle valli montane. Nel 1997, anno del mio arrivo all’ASL di Collegno, i responsabili di quella nobile iniziativa non lavoravano più qui ma, a testimonianza della loro esperienza, vi era una convivenza la quale venne presa in carico dal nascente servizio IESA e durò ancora alcuni anni, sino alla morte dell’anziana ospite, coccolata ed assistita da una coppia di affettuosi ed arzilli settantenni sino all’ultimo dei suoi giorni di vita terrena.

7 Per i più curiosi consiglio la lettura del libro di Chiara Sasso intitolato “Un viaggio folle” il quale rende molto bene al lettore l’atmosfera particolare che caratterizzò la quotidianità di questa importante esperienza.

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Oltre alle gia citate esperienze ed ai preziosi ed amichevoli contributi dei dottori Jean Claude Cébula di Nantes e Marc Godemont di Geel, il DNA dell’attuale servizio IESA dell’ASL 5 di Collegno si compone in gran parte di tratti “replicati” dal servizio di Psychiatrische Familienpflege di Ravensburg del quale questo convegno si onora di ospitare tra i relatori uno degli operatori di maggiore esperienza, la dottoressa Regina Trautmann. E’ infatti presso il servizio IESA di Ravensburg che, nel biennio 1995-96, ho osservato e raccolto dati nella quotidiana operatività di un programma che allora mi pareva, e tutt’oggi la penso ancora così, effettivamente rivoluzionario e decisamente più efficace rispetto ai modelli di interazione col disagio psichico messi in atto dalla cosiddetta psichiatria ordinaria. Quel lavoro di ricerca, svolto con la supervisione del professor Agostino Pirella mi portò ben presto ad immaginare, fantasticare, progettare quella che sarebbe potuta essere una applicazione in territorio italiano del modello IESA osservato. Il nome Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici che in seguito è stato riassunto nel più noto e leggero acronimo IESA, fu coniato inizialmente per dare un titolo sufficientemente rappresentativo all’oggetto della ricerca. Si trattava infatti di una pratica allora sconosciuta alla maggior parte degli operatori della psichiatria italiana e, laddove sfumatamene nota, indicata talvolta col nome confusivo di Affido familiare che, in Italia, rimanda a pratiche di affidamento rivolte a minori. La scelta di usare il termine inserimento non fa i conti con un processo di collocazione artificiosa innescato e pilotato dall’esterno nei confronti di un soggetto temporaneamente disabile o disagiato in un nucleo familiare disposto ad accoglierlo. In tal modo si tradirebbero i principi ispiratori del servizio che vedono il soggetto assumere un ruolo attivo nella decisione di avviare una eventuale convivenza e nel realizzare quel fondamentale processo di inserimento sociale e di recovery attraverso la “porta” del nucleo eterofamiliare. In questo

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caso quindi inserimento significa integrazione, conquista o recupero di un ruolo socialmente riconosciuto. Occorre inoltre spendere alcune righe per sottolineare la parola più importante nella struttura del nome dello IESA ovvero il termine supportato. L’intervento di tipo supportivo ha la caratteristica di modularsi a seconda dell’effettivo bisogno del soggetto, mai assumendo quindi caratteristiche legate ad approcci assistenziali o di tipo tutorio, molto invasivi e poco terapeutici. Spesso l’operatore, nell’intenzione di fare “il bene” per il paziente, non fa altro che rispondere ad un proprio bisogno o a ciò che immagina essere il bisogno dell’utente. In questo modo egli alimenta un meccanismo di progressiva esclusione del paziente dai processi decisionali che lo riguardano e di sottrazione di identità, attraverso il mancato riconoscimento dell’interlocutore, delle sue esigenze e dei suoi desideri. L’operatore arriva a sostituirsi al paziente in gran parte degli aspetti che producono o rinforzano l’identità percepita del Sé di un soggetto peraltro gia in difficoltà. Esattamente il contrario di quanto ci si possa aspettare da un efficace percorso di riabilitazione, di recovery quale vuole essere lo IESA. Terminata la ricerca di Ravensburg, tornai in Italia con l’intenzione di provare a realizzare anche qui un servizio IESA, certamente riveduto ed adattato al diverso contesto ambientale e socioculturale ma fortemente ispirato da ciò che avevo attentamente osservato, imparato ed apprezzato nell’esperienza del Baden Württemberg. I primi tentativi di proporre un servizio di questo tipo incontrarono diffidenza, timori e scetticismo da parte di alcuni dei responsabili dei dipartimenti di salute mentale piemontesi a cui mi rivolsi. Poi, grazie all’incontro col dottor Ezio Cristina e col professor Pier Maria Furlan, rispettivamente primario e direttore del dipartimento universitario di salute mentale b dell’ ASL 5 di Collegno, alla partecipazione sinergica della cooperativa Alice nello specchio e, in seguito, della cooperativa

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Progest, trovai uno spazio dal quale cominciare a lavorare nella direzione che mi ero preposto. Nei primi mesi di lavoro elaborai gli strumenti normativi (linee guida e contratto) e operativi (strumenti per la selezione, protocolli di procedura ecc.) del progetto, avviando parallelamente una azione di informazione e sensibilizzazione del personale interno. Con il successivo arrivo dell’infermiera Irene Olanda (il primo operatore) e la deliberazione del Servizio IESA da parte della direzione generale dell’ ASL, proseguì l’attività di selezione delle famiglie e di avvio delle prime convivenze supportate. I risultati conseguiti nei primi 2 anni di lavoro e il grande entusiasmo per l’apporto innovativo del progetto, ci hanno portato ad organizzare nel maggio 2000 il primo congresso nazionale sullo IESA presso l’Università degli Studi di Torino al quale presero parte alcune esperienze nascenti sul territorio nazionale ed esperti internazionali del settore specifico. L’iniziativa ebbe un buon successo e confluì nella stampa degli atti del convegno8. Parallelamente al curare la crescita del servizio abbiamo, in questi anni, dato molta importanza alla diffusione della cultura dello IESA sul territorio nazionale, realizzando più di 45 relazioni presentate a congressi di psichiatria nazionali ed internazionali, pubblicando 35 articoli su libri e riviste italiane ed estere e 3 volumi specifici sull’argomento. Da tale impegno scientifico e divulgativo e da una intensa attività di informazione e supervisione delle varie équipes che ci hanno contattato e richiesto formazione al fine di avviare servizi analoghi, possiamo guardare con un certo orgoglio alla graduale diffusione del fenomeno sul territorio nazionale. Oggi, almeno

8 Furlan P.M., Cristina E., Aluffi G., Olanda I. (a cura di), Atti del I° Convegno Nazionale su l’Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici – Torino 27/5/2000. Edizioni ANS. Torino 2000

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una cinquantina di dipartimenti di salute mentale, sul totale di 211, adottano lo strumento IESA o sono impegnati nel tentativo di avviare un tale servizio al loro interno. Nel 2001 in collaborazione con i colleghi della USL 2 di Lucca abbiamo organizzato il 2° congresso nazionale sullo IESA, curando in seguito la stampa dei relativi atti9. Nel 2004, su invito dei dirigenti europei della società scientifica GREPFa, abbiamo fondato la sezione italiana di questa prestigiosa organizzazione10. Numeri A quasi 9 anni dall’avvio dell’esperienza IESA di Collegno, possiamo riassumere il lavoro svolto con le seguenti cifre:

2500 famiglie contattate circa 72 famiglie o singoli abilitati 41 progetti gestiti per più di 18.000 giorni di convivenza 1100 visite domiciliari effettuate circa 0 giorni di ricovero in SPDC per cause psichiatriche 5 progetti di inserimento lavorativo 20 progetti in corso di cui 12 a tempo pieno ed 8 part

time 24 ore su 24 , 7 giorni su 7 di reperibilità dipartimentale

Gli 0 giorni totali di ricovero in reparto psichiatrico ospedaliero per ragioni di acuzie della sintomatologia psichiatrica sono un

9 Aluffi G., Cagnoni L., (a cura di) Atti del II° Convegno Nazionale su l’inserimento eterofamiliare assistito di persone con disturbi psichici – Lucca 15, 16/11/2001. Edizioni ANS. Torino 2004 10 Tale argomento è approfondito all’interno del contributo dal titolo: “La sezione italiana del Groupe de Recherche Européen en Placement Familial (G.R.E.P.Fa. Italia). Principi fondanti ed obiettivi”, pubblicato in questo stesso volume.

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dato molto significativo se lo confrontiamo anche solo alla “performance” in tal senso realizzata da uno degli utenti IESA il quale, nei 5 anni precedenti all’avvio della convivenza tutt’oggi in corso, ha totalizzato ben 582 giorni di ricovero in struttura ospedaliera per crisi di tipo maniacale. Nel caso specifico, trattandosi di persona con diagnosi di disturbo bipolare I e non essendoci state sostanziali variazioni della terapia farmacologica (trattato con stabilizzatore dell’umore, antipsicotico ed ansiolitici a livelli posologici abbastanza costanti se si esclude la riduzione dell’antipsicotico e la sospensione degli ansiolitici dopo un anno di stabilità sintomatologica gia nell’ambito della convivenza supportata), emerge con maggiore forza l’impatto terapeutico scaturito dal, facilmente isolabile, fattore ambientale. Questa persona è passata dal ruolo di paziente psichiatrico ricoverato in comunità protette con frequenti ricorsi al S.P.D.C.11durante le importanti crisi maniacali a quello di persona con capacità residue valorizzate dal nuovo ambiente familiare al punto che il suo apporto nella gestione del bar e del circolo ricreativo degli ospitanti è diventato fondamentale. Questo recupero di identità “sana”, nella quale potersi specchiare attraverso il ruolo socialmente riconosciuto di aiutante barista, ha consentito al soggetto un progressivo cammino verso una maggiore serenità e soprattutto verso un umore più stabile al punto di non esser stato mai più ricoverato in reparto psichiatrico in questi 6 anni di convivenza supportata. I suoi familiari inoltre, un tempo espulsivi per le difficoltà relazionali e le bizzarrie comportamentali del congiunto, hanno da qualche anno rinsaldato la relazione, riaprendo a lui le porte delle loro case ed esprimendo più volte la volontà di offrirgli un nuovo spazio di vita all’interno di queste, incontrando sempre un gentile “grazie ma ora sto bene qui”.

11 Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura.

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Specificità di un modello I progetti vengono strutturati in base al tempo di convivenza attraverso quattro tipologie: part time; breve termine; medio termine; lungo termine. Nei progetti part time il volontario o la famiglia passa con il paziente alcune ore della giornata oppure l’intero week end, a seconda degli obiettivi da perseguire. Questa modalità può avere una funzione propedeutica a progetti IESA a tempo pieno oppure può fornire un sostegno a persone che vivono sole in alloggi o presso strutture e che ne abbiano necessità. Per quel che riguarda i progetti a tempo pieno (breve termine; medio termine; lungo termine), si differenziano per la durata e per le tipologie diverse di utenza. Il breve termine si rivolge a momenti di crisi di vario tipo, quello a medio termine mira alla riabilitazione del soggetto ed al passaggio di questi a vita più autonoma, mentre il lungo termine è rivolto ad anziani o a persone con una prevalenza di bisogni assistenziali. L’utente, anche laddove si trovi sotto provvedimento di interdizione, è totalmente coinvolto in tutte le fasi del progetto, a partire dalla decisione di avviare o meno una convivenza sino ad arrivare ai dettagli di questa. Ultimamente abbiamo registrato un episodio curioso che ci ha visti rispondere ad una richiesta diretta e specifica di convivenza supportata. Due utenti del nostro dipartimento, che vivevano presso una pensione assistita in centro a Torino, dopo aver letto su un quotidiano dell’esistenza del servizio IESA di Collegno, ci hanno contattato ed hanno preso appuntamento per un colloquio di approfondimento. Abbiamo subito osservato come la nostra possibile offerta ed il loro obiettivo coincidessero pienamente. I due lamentavano che da qualche settimana, con il cambio di gestore, l’utenza della pensione era mutata in peggio e stessa sorte aveva colpito la qualità dei pasti e dei servizi

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alberghieri in genere. Suggerivano inoltre scenari che lasciavano ipotizzare atmosfere abbastanza lontane dall’immagine della piccola pensione a gestione familiare quale il posto in questione era sino alla gestione precedente. Il loro desiderio era di continuare a vivere insieme in una casa con la cuoca della pensione la quale nel frattempo si era licenziata e le figlie di questa. Tra i cinque, da parecchi anni si era creato un buon rapporto fondato sul rispetto reciproco e sui piccoli mutui aiuti quotidiani. Dopo aver contattato la cuoca e le due figlie ormai maggiorenni ed aver registrato una unanime convergenza di intenti con i due pazienti, abbiamo avviato le procedure di abilitazione al progetto di convivenza12 e, in seguito al risultato positivo di queste abbiamo espresso il consenso istituzionale offrendo il supporto e l’ integrazione economica necessari. A sei mesi dall’avvio del progetto, i cinque vivono felicemente in un ampio appartamento scelto, decorato ed arredato insieme. I due ragazzi, molto soddisfatti della scelta effettuata, hanno iniziato a cercare lavoro con il supporto dell’équipe che segue gli inserimenti lavorativi protetti. Un paio di settimane dopo l’avviamento del progetto IESA, la pensione che li ospitava è stata chiusa in seguito ad un sopralluogo delle forze dell’ordine. Sui quotidiani che i ragazzi alcuni giorni dopo il blitz ci mostrarono con l’aria fiera di chi aveva intuito tutto, si accennava a reati legati allo sfruttamento della prostituzione e al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il servizio IESA è organizzato come struttura dipartimentale centralizzata, con appendici nei centri di salute mentale territoriali e collabora sinergicamente con tutte le agenzie del

12 Per approfondire gli aspetti correlati alla operatività del Servizio IESA si consiglia la lettura di: Aluffi G.: Problematiche legate all’avvio del servizio di inserimenti eterofamliiari supportati. In: Atti del II° Convegno Nazionale su l’inserimento eterofamiliare assistito di persone con disturbi psichici. Lucca 15, 16/11/2001. Edizioni ANS. Torino 2004

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dipartimento di salute mentale. Il modello sperimentato in questi anni prevede una organizzazione che si avvale di 1 referente e di un numero di operatori proporzionato ai progetti in corso (1 operatore ogni 10 convivenze). Il referente si occupa fra l’altro del coordinamento, della formazione e supervisione degli operatori che, di fatto, svolgono la funzione di case manager nei confronti di ogni singolo progetto di convivenza supportata. Alla luce di questo, il servizio IESA si rende promotore di supervisioni cliniche allargate relative ai progetti avviati, alle quali partecipano anche gli operatori delle altre agenzie dipartimentali coinvolte. La conduzione di queste supervisioni è affidata a psicoterapeuti esterni al servizio. L’orientamento teorico di questo specifico servizio si rifà agli insegnamenti basagliani ed al recente modello di recovery. Il servizio è inoltre sede di tirocinio post lauream per psicologi e per specializzandi in psicologia clinica e psichiatria, per infermieri e tecnici della riabilitazione psichiatrica. Elementi favorenti Così come ho gia sostenuto in altre sedi, al fine di realizzare un solido servizio che si occupi di avviare programmi di convivenza supportata secondo le modalità dello IESA, occorre avere l’esplicito avallo da parte dei vertici dirigenziali dell’azienda presso la quale si opera. Si tratta di una operazione sempre meno difficoltosa, anche grazie alle diffuse esperienze in tale ambito su territorio nazionale ed alle interessanti performances garantite dallo strumento in questione in termini di costi – benefici. La sensibilizzazione delle risorse territoriali e del volontariato al tema dell’intervento domiciliare presso convivenze supportate e la diffusione di una relativa cultura sociale di questo, si rivela determinante al fine di reperire risorse preziose quali le famiglie ed i singoli candidati ad ospitare. Sono inoltre importanti l’esistenza di una buona cooperazione

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sinergica tra le varie agenzie dipartimentali e la diffusione di una corretta cultura dello IESA tra i colleghi i quali, specie inizialmente e per le più svariate ragioni, possono guardare con sospetto all’applicazione di questo modello. Tali resistenze spesso possono essere superate attraverso il diretto coinvolgimento dei colleghi nella stesura e nella gestione dei progetti IESA. Sicuramente utile alla nascita e alla buona crescita di un programma IESA è l’effettivo orientamento dipartimentale e aziendale alla razionalizzazione, all’ottimizzazione ed all’efficacia dei servizi resi. Detto tutto ciò è di fondamentale importanza l’entusiasmo che i sostenitori di questo modello di lavoro mettono nella loro quotidianità professionale. La motivazione deve essere grande al fine di superare tutti gli immancabili intoppi che, specie all’avviamento di tali iniziative, minano puntualmente il percorso. Elementi ostacolanti Veniamo ora ad esaminare quali fattori possono ostacolare lo sviluppo di un servizio IESA. Contrariamente a quanto di solito si è indotti a pensare, i problemi in questione non nascono dalla scarsa risposta sociale a questo tipo di proposta: di solito, attraverso opportune campagne di “marketing sociale”, e di conseguente selezione, è possibile costruire ricche banche dati relative a volontari o famiglie disposti ad accogliere presso la loro abitazione. Questo è un dato che possiamo ritenere abbastanza omogeneo su tutto il territorio nazionale, al di la di minime differenze determinate da svariati fattori. Nell’area di influenza del nostro servizio, abbiamo una risposta media abbastanza buona con prevalenza maggiore di candidature dalle aree residenziali e rurali dell’hinterland torinese e di alcune zone del capoluogo. Curiosamente la città di Collegno, ove hanno sede i nostri uffici, nonostante sia stata luogo di iniziative divulgative aperte alla cittadinanza ed alle associazioni, non ha

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sino ad oggi offerto candidature di volontari per quel che riguarda progetti a tempo pieno ovvero di effettiva convivenza. Qualcuno sostiene che l’aver ospitato per più di un secolo13 quello che divenne il più grande manicomio italiano possa giustificare questa distanza che oggi i cittadini collegnesi tengono dal disagio psichico. La questione rimane comunque aperta. Come si può quindi evincere da quanto sopra evidenziato, il reperimento di famiglie o singoli volontari non rappresenta un ostacolo all’applicazione di un programma IESA. Ad oggi non si può nemmeno più sostenere che manchi una cultura specifica ed adeguata tra gli operatori intenzionati ad avviare tali progetti in quanto vi sono diverse pubblicazioni in lingua italiana ed agenzie formative in grado di trasmettere l’ ”arte” e la “scienza” dello IESA. Per quel che riguarda i pazienti, è cosa assai rara che si verifichino episodi spiacevoli nell’ambito delle convivenze supportate ed il livello di gradimento medio riferito alla situazione abitativa, sociale e di cura è solitamente alto. Solitamente lo IESA non viene precluso a nessuno in quanto si ritiene che ogni paziente possa beneficiare del fatto di poter vivere in una normale abitazione, circondato da attenzioni ed affetto. Vengono escluse soltanto le persone che hanno la tendenza a commettere furti o ad agire violenza, a tutela dei volontari. Detto ciò si può osservare che nemmeno i candidati ospiti, qualora opportunamente selezionati, possono essere considerati come fattore critico ed ostacolante. Al termine di questa breve e superficiale analisi emerge quanto di solito l’elemento ostacolante sia da cercare tra i professionisti della psichiatria, prevalentemente mossi da una cultura specialistica che poco considera gli aspetti ambientali del

13 I primi pazienti psichiatrici vennero trasferiti nel 1853 nei locali dell’attuale Certosa.

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procedere terapeutico, privilegiando il correlato biologico del sintomo. Specie nel primo periodo del percorso di un servizio IESA, sono carenti le segnalazioni di potenziali candidati ospiti da parte delle équipes ambulatoriali e degli psichiatri. Il rischio è quello di avere ricche banche dati di famiglie selezionate, disposte ad accogliere e pochissimi pazienti informati dell’opportunità di partecipare a progetti di convivenza supportata. Alcune delle ragioni ipotizzabili dietro a questa “resistenza istituzionale” allo IESA possono essere così sintetizzate:

permanenza di pregiudizio e mantenimento dello stigma negli stessi operatori psichiatrici

eccessiva ansia da parte degli operatori psichiatrici nei confronti delle soluzioni innovative e apparentemente poco rassicuranti sul piano del controllo del paziente

insufficiente o inadeguata formazione – informazione dei potenziali invianti all’utilizzo dello strumento IESA

carente diffusione della cultura della recovery e dell’approccio sociopsichiatrico

dominio di una cultura centrata sull’onnipotenza della molecola

possibili dinamiche antagoniste tra colleghi, causate dall’invidia per chi porta avanti qualcosa di nuovo ed efficace

processi di identificazione con le potenziali famiglie ospitanti e quindi di evitamento

Risultati I dati che emergono da ricerche ancora in corso presso il nostro servizio suggeriscono che l’intervento di presa in carico attraverso un programma IESA consente:

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una drastica riduzione del tasso dei ricoveri in SPDC

per anno rispetto ad altre soluzioni residenziali; un netto miglioramento della qualità di vita riferita in

confronto con altre situazioni residenziali; una lieve ma significativa riduzione delle dosi di

psicofarmaco (in particolare ansiolitici e neurolettici) già nei primi 12 mesi di convivenza;

una importante riduzione della sintomatologia psicosomatica eventualmente correlata, gia nei primi 3 mesi di convivenza;

un positivo effetto sull’economia delle famiglie e dei singoli che collaborano al progetto, con positivo impatto sul benessere sociale;

l’effettiva realizzazione di percorsi di recovery e reintegrazione sociale anche attraverso inserimenti lavorativi;

l’effettiva riduzione dei costi sanitari ed assistenziali per il servizio pubblico.

Bibliografia

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• Aluffi G.: Quando una famiglia accoglie. In: Animazione Sociale n°11 Edizioni Gruppo Abele Torino 2001

• Aluffi G.: Réponses familiales à des sujets souffrant de troubles psychiques. In: L’accueil familial en revue. n°15 Edition I.P.I. Paris 2003

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• Aluffi G., Ceccarini L., Ientile S., Mennoia D., Olanda I., Pirrotta C., Cristina E., Furlan P.M.: La tua famiglia può crescere In: Torino Medica n°6 Bollettino dei Medici Torino Giugno 2003

• Aluffi G., Psychiatrische Familienpflege in Italien. Geschichte und

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• Aluffi G.: Placement familial et soins en Italie. In : “Effets therpeutiques en AFT: processus insaissable?”. Ed. Grepfa F Paris 2004

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• Aluffi G., Dal manicomio alla famiglia. Franco Angeli editore. Milano 2001

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IL PROGETTO I.E.F.A.: L’ESPERIENZA DI DI LUCCA Dott. Enrico Marchi Psichiatra Responsabile della Unità Funzionale Salute Mentale Adulti Asl n.2 di Lucca; Dott. Guido Ambrogini Psichiatri presso Unità Funzionale di Salute Mentale Asl n.2 di Lucca Dr.ssa Luana Cagnoni Assistente Sociale presso Unità Funzionale di Salute Mentale Asl n.2 di Lucca 1. Introduzione Quanto qui di seguito riferito costituisce un aggiornamento (alla data dell’8 giugno 2006) dei dati relativi ad alcune delle dimensioni utilizzate per descrivere (in modo assai più ampio di quanto qui fatto) l’esperienza dell’affidamento eterofamiliare assistito fatta nella Unità Sanitaria Locale di Lucca e già riferita in una precedente pubblicazione14, con un ulteriore approfondimento relativo agli indicatori di verifica. 2. Tempi e modalità 2.1. Il primo affidamento eterofamiliare assistito di un paziente psichiatrico è stato effettuato, a titolo sperimentale, nel 1995. Il suo andamento positivo ha indotto a proseguire nella medesima direzione. Così, tra il 1997 e il 2006 sono stati affidati

14 Cfr. L. Cagnoni, G. Ferroni, L’affidamento etorofamiliare di pazienti psichiatrici: tipologia, esiti, connotazioni delle persone affidate, delle persone affidatarie e delle loro famiglie, in G. Aluffi e L. Cagnoni (a cura di), Atti del II° convegno nazionale sull’inserimento eterofamiliare assistito di persone con disturbi psichici, Alice nello Specchio Edizioni, Torino, 2003, pp. 117-182.

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altri 57 pazienti psichiatrici. Il totale dei pazienti affidati, dunque, è di 58. Poiché 4 pazienti sono stati affidati più volte, gli affidamenti effettuati tra il 1995 e il 2006 sono 64. Di questi 64 affidamenti: - 37 (il 58%) sono avvenuti nella forma dell’affidamento a

tempo pieno; - 27 (il 42%) sono avvenuti nella forma dell’affidamento a

tempo parziale. 2.2. Nella fase iniziale l’affidamento ha avuto prevalentemente la modalità del tempo totale in quanto era rivolto ai pazienti in dimissione dall’Ospedale Psichiatrico, successivamente è stata sperimentata la formula dell’affidamento a tempo parziale per i pazienti provenienti dai servizi territoriali. L’affidamento a tempo parziale è stato mutuato dalla forma di affidamento a tempo parziale per i minori. Questa forma di affidamento costituisce una modalità molto flessibile, capace di assumere in ogni specifico caso la configurazione più adeguata. Nella maggior parte dei casi la persona affidata si incontra con l'affidatario 3 volte alla settimana (in alcuni casi anche 4 o 5). Il modo in cui il tempo viene utilizzato dipende dalle esigenze della persona affidata (parlare, svolgere un'attività gradita al paziente, fare commissioni, …) e dalla disponibilità e creatività della famiglia affidataria. Questa modalità è stata utilizzata nei casi in cui non è stato necessario o non è stato possibile allontanare il paziente dal suo contesto di origine e nei casi in cui non sono state accettate altre forme di intervento (quali, ad esempio, un educatore a domicilio, l’inserimento in un centro diurno, …). L’affidamento a tempo parziale ha consentito di mantenere il paziente nel suo abituale contesto di vita e di migliorare i rapporti che egli intrattiene nel suo mondo quotidiano.

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2.3. Gli affidamenti in corso il giorno 8 giugno 2006 sono 37, di cui: - 18 a tempo pieno; - 19 a tempo parziale. 3. Alcune delle dimensioni considerate per valutare gli esiti indotti sul paziente dall’affidamento in corso La valutazione periodica degli esiti indotti sul paziente dall’affidamento in corso (monitoraggio dell’affidamento) è stata effettuata sulla base di indicatori afferenti a dimensioni quali quelle sotto enumerate. Gli indicatori afferenti a ciascuna dimensione consentono di valutare in qualche misura se e quanto la modalità assunta da ciascuna dimensione, in occasione di ogni valutazione periodica, sia rimasta uguale a quella presente al momento dell’affidamento oppure abbia subito un incremento o una diminuzione. Così, gli indicatori utilizzati consentono di valutare (in occasione di ogni valutazione periodica), ad esempio, se la capacità del paziente affidato di aver cura della propria persona sia cresciuta, sia rimasta uguale o sia diminuita, rispetto a quella rilevata nel momento del suo affidamento. La valutazione periodica degli esiti indotti sul paziente dall’affidamento in corso, dunque, è stata effettuata sulla base di indicatori afferenti a dimensioni quali (alcune delle dimensioni sotto enumerate riguardano soltanto gli affidamenti a tempo parziale): - l'autonomia complessiva manifestata nella gestione della vita

quotidiana (questa dimensione costituisce la sintesi di alcune delle dimensioni sotto enumerate);

- la capacità di aver cura di sé: ossia la capacità di aver cura del proprio igiene personale, del proprio stato di salute fisica e psichica (chiedere ed effettuare controlli periodici), dell’acquisto e della cura dei propri abiti in

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relazione alle variazioni stagionali, del proprio modo di vestire, di fare la spesa, di cucinare, di alimentarsi correttamente (orari, qualità e quantità di cibo, …) …;

- la capacità di gestire le proprie risorse economiche: le spese sono gestite in modo da disporre del necessario e in modo da arrivare a fine mese o a fine settimana, …;

- la capacità di aver cura del proprio ambiente di vita: pulire e tenere in ordine la propria stanza o la propria casa, abbellirla con nuovi arredi, ricordarsi di pagare l’affitto e le utenze …;

- le abilità o competenze sociali: uscire da solo; servirsi di mezzi di trasporto pubblici, recarsi da solo all’ufficio postale per fare pagamenti e prelievi, sapersi relazionare in modo sufficiente con i vicini, fare piccoli lavori ai vicini (ad esempio, per la raccolta delle olive), …;

- la ripresa dei rapporti sociali: riprendere a frequentare bar, negozi e persone di riferimento significative, accedere alle relazioni parentali e amicali presenti nella famiglia affidataria, partecipazione a momenti di convivialità quali compleanni, festività, gite, vacanze con la famiglia affidataria, ecc., frequentare l’associazione degli anziani del luogo di nuova residenza, richiedere una borsa lavoro, …, insomma iniziare il superamento dell’isolamento affettivo causato dal disagio interiore e dalle risposte ostili delle persone con le quali, precedentemente, il paziente è stato in relazione e apprendimento a chiedere attenzione sapendo di ricevere ascolto, risposta, accoglienza, …;

- la gestione dei rapporti con la famiglia di origine: visite periodiche e telefonate ai genitori, fratelli, figli, …;

- la capacità di fare nuovi progetti: acquisto di mobili, tingere la facciata della casa, acquistare la bicicletta elettrica, riprendere a dipingere per fare una mostra dei propri quadri, iscriversi la corso di ginnastica, fare le vacanze

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estive con il gruppo anziani della circoscrizione comunale, decidere di iniziare a curarsi i denti …;

- la gestione dei diritti di cittadinanza: attivazione o ripristino di pensioni di reversibilità, dell’indennità di accompagnamento, della partecipazione al voto elettorale, di un rapporto costruttivo con il curatore o il tutore, …;

- lo stato emotivo abituale: l’umore abituale sereno-alterato, frequenza dei momenti di crisi, …;

- la capacità di acquisire alcune consapevolezze relative alle cause del proprio disagio affettivo: riflessioni sulle problematiche presenti nella propria famiglia di origine, sulla propria storia personale, sulla famiglia affidataria come apprezzabile nuovo modello di famiglia, …;

- il grado di capacità di riconoscere e di esprimere i propri bisogni affettivi;

- il numero dei ricoveri in reparto psichiatrico: hanno la medesima frequenza, sono diminuiti, sono divenuti un fatto eccezionale, non si sono più verificati;

- la gravità della sofferenza manifestata nel corso dei ricoveri: permane identica, è diminuita, si tratta di “pause di riflessione” o di capricci superati in breve tempo, …;

- il grado in cui il paziente è uscito dai “circuiti psichiatrici”: ossia non frequenta più un centro diurno, un laboratorio riabilitativo, ecc., ma si è inserito, invece, in associazioni e in punti di ritrovo per tutti i cittadini;

- lo stato abituale di salute psichica e fisica; - la frequenza delle visite di controllo; - i farmaci assunti; - il grado di empatia dei membri della famiglia affidataria nei

riguardi del paziente loro affidato; - il grado di sintonia-dissonanza affettiva tra i membri della

famiglia affidataria e il paziente loro affidato;

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- il clima affettivo presente all’interno della famiglia affidataria: “calore” affettivo, simpatia, accoglienza … espressi in ogni gesto, sguardo, …;

- i rapporti personalizzati del paziente con i singoli membri della famiglia affidataria e con la “rete” di cui la famiglia affidataria dispone: i rapporti con i figli presenti in famiglia, con parenti che non risiedono nella famiglia, con pazienti affidati ad altre famiglie con la quale la famiglia affidataria è in contatto, …;

- il grado di soddisfazione o di insoddisfazione della persona affidata nei confronti della famiglia affidiataria;

- il grado di soddisfazione o di insoddisfazione dei membri della famiglia affidatria nei confronti della persona affidata;

- il grado in cui la famiglia affidataria percepisce la persona affidata come membro della propria famiglia (sotto il profilo affettivo)

4. Gli esiti 4.1. Sulla scorta dei criteri di valutazione segnalati nel paragrafo precedente, gli esiti dei 64 affidamenti effettuati appaiono i seguenti: - 50 affidamenti (il 78%) hanno avuto esito positivo [sulla

scorta di una scala di valutazione costruita mediante le dimensioni dianzi segnalate, si può ulteriormente precisare che, di questi 50 affidamenti, 21 hanno avuto un esito molto positivo; 25 un esito positivo e 4 un esito appena sufficiente.];

- 14 affidamenti (il 22%) hanno avuto un esito del tutto insoddisfacente.

4.2. L’interruzione dell’affidamento si è verificata in 27 casi. I motivi per i quali si è verificata la cessazione dell’affidamento sono i seguenti:

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- la conclusione del programma di affidamento: 2 casi; - il decesso del paziente: 7 casi; - il volere dei familiari del paziente: 2 casi; - il trasferimento della residenza della famiglia affidataria:

2 casi, uno dei quali è proseguito con la ASL competente della nuova residenza

- l’insuccesso dell’affidamento: 14 casi 5. La provenienza dei pazienti La suddivisone dei pazienti affidati in relazione al loro ambiente di provenienza è la seguente: - 26 pazienti provengono da strutture sanitarie; di questi

26 pazienti: 9 provengono dall’Ospedale Psichiatrico; 9 provengono da residenze protette (sanitarie o sociali); 8 provengono da residenze assistite (casa-famiglia, gruppo appartamento);

- 32 pazienti provengono dal “territorio”. Osservazioni Per i 26 pazienti che provengono dalle strutture sanitarie, l’affidamento ha costituito il modo e il momento della loro deistituzionalizzazione. Per i pazienti che provengono dal “territorio”, l’affidamento familiare è stata l’alternativa o al ricovero in una struttura sanitaria o alla difficile permanenza nel loro ambiente abituale di vita, sia a motivo del permanere di livelli molto alti di disagio affettivo sia per le difficoltà che il disagio del paziente genera nel contesto in cui egli vive; per tali pazienti, pertanto, l’affidamento è stato anche il modo migliore di conseguire la meta del loro mantenimento all’interno di un contesto sociale ordinario.

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6. Il differenziale dei costi tra la collocazione in una struttura sanitaria e l’affidamento familiare Il costo sostenuto dalla Unità Sanitaria Locale per la retta mensile di un paziente psichiatrico in affidamento eterofamilare può arrivare fino a un terzo rispetto alla retta che l’Unità Sanitaria Locale sosterrebbe se lo stesso paziente fosse ricoverato in una residenza protetta. Al costo della retta mensile per le famiglie si deve ancora: - sottrarre il contributo a carico dell’affidato stesso

(assegno di accompagnamento; una quota della pensione, …).

- aggiungere la quota di stipendio degli operatori che, a vario titolo, partecipano alla attività di affidamento (equipe che effettua gli affidamenti e il loro moni-toraggio, operatori di distretto, operatori amministrativi), per il tempo da ciascuno dedicato a tale attività;

7. Le famiglie affidatarie: modalità di reperimento ed esito della indagine relativa alla loro idoneità ad assumere il ruolo di famiglie affidatarie 7.1. I “canali” attraverso i quali le famiglie sono state reperite sono i seguenti: - le prime nove famiglie sono state reperite attraverso

l’informazione diffusa mediante la stampa locale, relativa all’intenzione della Unità sanitaria Locale di procedere all’affidamento eterofamiliare assistito di pazienti psichiatrici;

- n° 45 famiglie sono state reperite attraverso l’informazione diffusa dagli stessi operatori socio-sanitari, ossia attraverso il cosiddetto “passaparola” [Gli operatori, dopo aver sperimentato la bontà di questo tipo di intervento, se ne sono fatti promotori. Essi

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hanno ricercato e individuato queste preziose risorse presenti nella comunità ed hanno svolto nei loro confronti una funzione di sostegno e di valorizzazione in un’ottica di lavoro tesa a favorire un processo di empowerment, cioè un processo mediante il quale la comunità, attraverso gli individui che la compongono << … acquisisce il potere e le competenze necessarie al proprio sviluppo…e la consapevolezza di poter fare e agire con gli altri per migliorare la qualità della propria vita >>15.

- n° 32 famiglie sono stare reperite attraverso l’informazione diffusa dalle famiglie che avevano già in affidamento un paziente psichiatrico [queste famiglie hanno reso visibile nella comunità la possibilità di realizzare una tale impresa con le competenze già da loro possedute, ovvero senza la necessità di una particolare specifica preparazione];

- n° 4 famiglie sono state reperite attraverso l’informazione diffusa dalle famiglie di pazienti psichiatrici [queste famiglie hanno ravvisato in questa modalità d’intervento una forma di sostegno efficace per superare alcune difficoltà connesse alla presenza di un familiare portatore di un forte disagio psichico].

7.2. Le famiglie contattate sono 90. Di queste 90 famiglie: - 59 sono risultate idonee; - 19 hanno ritirato la disponibilità prima dell’inizio o nel

corso dell’indagine; - 6 sono risultate non idonee già nel corso dell'indagine; - 3 sono risultate non idonee al termine dell'indagine; - per 3 famiglie l'indagine è in corso.

15 N. Paulesu, Un percorso di empowerment, in R. Sequi e altri, La comunità solidale,Carrocci, Roma, 1999, p. 97.

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8. Le connotazioni delle persone affidatarie e delle loro famiglie che appaiono correlate con gli esiti dell’affidamento In ordine alle connotazioni o qualità delle persone affidatarie e delle loro famiglie che sembrano influenzare in modo positivo o negativo gli esiti dell’affidamento ci sembra di poter ripetere quanto già riferito in una precedente indagine16. Le dimensioni che sembrano influenzare di più l’esito dell’affidamento sono: - la capacità dei membri della famiglia affidataria di

esercitare i ruoli genitoriali, ovvero di manifestare, in relazione ad ogni specifica circostanza della vita quotidiana, gli atteggiamenti e i comportamenti della tenerezza (gli atteggiamenti e i comportamenti che esprimono affetto, accettazione, comprensione, sostegno, stima, valorizzazione, …; ossia modalità di comunicazione verbali e non verbali che generano salute psichica) della fermezza e della proposta (i suggerimenti, le proposte funzionali al processo di crescita, a conseguire gradi maggiori di salute psichica);

- il complesso o il mix delle motivazioni che induce la famiglia affidataria a proporsi per assumere tale ruolo; di questo mix possono far parte: a) la motivazione affettiva (la propensione spontanea ad essere e a far percepire all’altro la propria vicinanza affettiva e la capacità di fornirgli sostegno affettivo e materiale); b) la motivazione economica (conseguire un obiettivo di carattere monetario); c) la motivazione occupazionale (ad esempio, la preferenza per un lavoro a domicilio e non

16 Cfr. L. Cagnoni, G. Ferroni, L’affidamento etorofamiliare di pazienti psichiatrici: tipologia, esiti, connotazioni delle persone affidate, delle persone affidatarie e delle loro famiglie, op. cit., pp. 150-182.

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subordinato); d) la motivazione ideale (la rilevanza che assume il ruolo di affidatario nel sistema ideologico dell’affidatario); …

Sono apparse correlate con gli esiti dell’affidamento anche le seguenti dimensioni: - la comprensione empatica della persona affidata da parte dei

membri della famiglia affidataria; - la capacità di condividere le difficoltà vissute

quotidianamente dalla persona affidata; - il grado di vicinanza-distana culturale affettiva tra ala cultura

della persona affidata e la cultura della famiglia affidataria;

- la capacità di non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà e di individuare v alide soluzioni;

- la presenza di ‘eventi di vita’ affettivamente traumatici nella ‘storia di vita’ delle persone affidatarie e dei loro familiari.

Le modalità assunte da queste dimensioni, di tanto quanto sono correlate con gli esiti dell’affidamento, costituiscono indicatori predittivi. 9. Le modalità organizzative 9.1. Il processo dell’affidamento prevede che le varie funzioni siano svolte da: un gruppo multidisciplinare di zona, l’èquipe territoriale, l’Ufficio Centrale Amministrativo del Servizio di AssistenzaSociale, il gruppo delle famiglie affidatarie, il referente territoriale. Il gruppo multidisciplinare,costituito con delibera istituzionale, è composto da una psichiatra, una psicologa, un’assistente sociale. Esso ha che ha il compito di reperire le famiglie affidatarie e svolgere l'indagine al fine di valutarne l'idoneità. La valutazione delle famiglie avviene tramite un colloquio iniziale con

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l’assistente sociale e la psichiatra, un successivo colloquio con la coppia ospitante a cura della psicologa, una visita domiciliare effettuata dall’assistente sociale in cui vengono approfonditi anche eventuali temi apparsi nel precedente colloquio con la psicologa. La valutazione di sintesi avviene nella riunione del gruppo multidisciplinare. Il gruppo multidisciplinare (chiamato anche gruppo affidi) ha il compito di raccogliere le proposte di affido inviate dall’èquipes territoriali o delle strutture al fine di trovare e definire l’abbinamento ritenuto più adatto al caso che viene valutato con successiva riunione con l’èquipe proponente, verificare l'andamento del periodo di prova e monitorizzare l’andamento del progetto. L'èquipe territoriale, a cui resta in carico il paziente affidato, ha il compito di proporre l'affido per il paziente e seguirne poi la realizzazione. Il gruppo per le famiglie affidatarie ha la funzione di sostegno ed aiuto reciproco per le stesse famiglie oltre che di sensibilizzazione per le nuove famiglie disponibili all’affido, esso si riunisce una volta al mese ed è condotto da uno psichiatra. E’ previsto inoltre che un operatore territoriale svolga la funzione di referente per ogni affidato: questa figura, di recente istituzione, avrà il compito di seguire l’affido e partecipare alle riunioni di verifica con il gruppo multidisciplinare. L’Ufficio Centrale Amministrativo del Servizio di Assistenza Sociale si occupa delle delibere che attivano gli affidamenti e dei pagamenti mensili: la puntualità e la regolarità di essi è una variabile che contribuisce al buon andamento degli interventi. 9.2. Le modalità operative ed organizzative attualmente in vigore sono state ridefinite e aggiornate nel dicembre 2005 in seguito al dibattito tenuto con gli operatori operanti nelle èquipe territoriali.

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Pertanto le procedure in atto nelle varie fasi del progetto sono le seguenti: - fase progettuale specifica individuale L’ équipe territoriale valuta la possibilità di utilizzare questa risorsa e formula il progetto individuale di affido. Il gruppo affidi propone la famiglia che ritiene più idonea per il caso specifico tramite due incontri con uno con l’équipe distrettuale e uno successivo con famiglia affidataria e distretto. - fase preliminare di conoscenza fra utente e famiglia affidataria Questo periodo ha la funzione di avvicinamento tra i soggetti, con lo scopo di una reciproca conoscenza e per stabilire con maggiore precisione le modalità dell’intervento. L’organizzazione e la valutazione delle modalità e dei tempi idonei a realizzarlo è a cura dell’équipe territoriale. Il gruppo affidi ha la funzione di consulenza agli operatori e di sostegno alla famiglia affidataria. Inoltre invia la documentazione relativa al progetto,necessaria per l’atto deliberativo agli uffici del Dipartimento Assistenza Sociale: solo ad avvenuta approvazione della delibera può iniziare la convivenza. - periodo di prova Durante questo periodo, che di solito ha la durata di 3 mesi, ma che può essere ampliata al bisogno, il soggetto affidato resta in carica all’équipe proponente anche se esso proviene da una struttura. Conclusa tale fase ci sarà un passaggio graduale all’équipe competente per territorio. E’ a cura dell’equipe proponente l’attuazione dell’affido ed il sostegno all’utente. Il gruppo affidi si occuperà del sostegno alla famiglia anche attraverso il gruppo famiglie affidatarie che si riunisce una volta al mese.

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- verifica del periodo di prova La verifica verrà fatta in modo congiunto dal gruppo affidi e dall’équipe proponente in quanto si è ritenuto necessario che ci sia un riscontro condiviso e lo scambio diretto delle valutazioni tra i due gruppi operativi data la rilevanza di questa fase. - attuazione affido E’ a cura dell’équipe proponente la ridefinizione del progetto individuale, l’invio della relazione di verifica e la proposta per il successivo atto deliberativo. Da questo momento inizia per le équipes territoriali la presa in carico dei nuovi casi provenienti dalle strutture e dai distretti e la relativa gestione di ogni problematica che si presenti in itinere: si può prevedere che tale passaggio avvenga in tempi successivi se si ritiene che per il soggetto sia particolarmente rilevante la continuità terapeutica. Questa procedura non viene attuata per gli affidi part-time che restano pertanto in carico all’équipe distrettuale proponente. - verifica Le verifiche sono previste ogni 3 mesi durante il primo anno, successivamente ogni 6 mesi e comunque ogni qualvolta se ne verifichi la necessità. Tali verifiche saranno effettuate in modo separato dal gruppo affidi e dall’équipe territoriale : questa modalità è stata introdotta su richiesta di alcuni operatori distrettuali che ritenevano eccessiva la presenza contemporanea di diversi operatori nelle visite domiciliari. In questa fase il ruolo dell’équipe territoriale sarà quello di seguire l’andamento del progetto riabilitativo del paziente. Il ruolo del gruppo affidi sarà quello di sostegno alla famiglia affidataria sia individualmente che col gruppo specifico delle famiglie affidatarie.

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Per lo scambio tra i due gruppi operativi è previsto un incontro annuale tra gruppo affidi ed ogni singola équipe, con disponibilità in ogni caso a ulteriori incontri se necessario. - termine dell’affido La durata dell’affido è prevista dal progetto riabilitativo individuale. Sia in caso di termine dell’affido che di interruzione prematura sarà cura dell’équipe distrettuale darne comunicazione al gruppo affidi ai fini della valutazione dell’esperienza e della conoscenza delle famiglie affidatarie disponibili. - monitoraggio affidi E’ a cura del gruppo affidi il monitoraggio, tramite le verifiche periodiche (ogni 6 mesi ), di tutti gli affidi per la valutazione globale dell’esperienza e dei possibili cambiamenti da introdurre. Il gruppo affidi inoltre si occupa della progettualità generale dell’affido: organizzazione processo, ricerca e promozione risorse nella comunità,programmazione annuale dell’attività, indagine famiglie disponibili all’affido, banca dati delle famiglie affidatarie, protocollo operativo con équipes distrettuali, elaborazione di dati per procedure amministrative, gestione gruppo famiglie affidatarie e introduzione delle nuove famiglie in tale gruppo.

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L’ESPERIENZA DI GRUPPO CON I FAMILIARI AFFIDATARI. Presentazione del progetto: risultati e dati Dal 1997 ad oggi, nella zona della intera ASL 2 di Lucca, sono stati effettuati 59 IEFA, con un totale di 68 famiglie contattate e selezionate. Ad oggi la maggior parte degli IEFA proviene dal territorio (più della metà) .Attualmente sono in atto 42 IEFA, di cui 18 a Tempo pieno e 24 IEFA a Tempo parziale. GLI IEFA interrotti sono stati 18 : in quanto 4 pazienti sono deceduti per motivi di età, 11 (8 nella zona di Lucca e 3 nella zona montana) per difficoltà intercorse, vista la complessità del caso, per 1 sono state scelte altre soluzioni, infine per 2 l’intervento è terminato a causa del boicottaggio della famiglia di origine.

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Alcuni dati che riguardano le famiglie affidatarie nello specifico vedono l’età media dei membri responsabili dell’inserimento piuttosto vicina a quella dei pazienti inseriti,53 anni rispetto ai 48,mentre la composizione del nucleo è per la maggior parte formata da coppie senza figli(più di un terzo),da famiglie”allargate” e da coppie con figli in misura minore ;solo in minima parte da singoli o da singoli con figli. Prevale quindi il modello familiare tradizionale anche se sono rappresentate modalità di convivenza ,abbastanza frequenti al giorno d’oggi ,con cognati,figli di altro matrimonio o parenti anziani(nonni,zii );quasi tutti i nuclei affidatari appartengono a ceti sociali non particolarmente benestanti,ma comunque più che autosufficienti economicamente,anche a fronte di occupazioni nel campo dell’assistenza privata ad anziani o a soggetti 192

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ricoverati in Ospedale. Il tipo di cultura prevalente è quella di tipo”rurale”con livelli di istruzione modesto e con grande disponibilità ad affrontare un’esperienza così nuova senza troppi pregiudizi e con grande spontaneità e slancio;questo livello”naturale”di approccio al paziente ed alla sua storia si è rivelato utilissimo in quanto i familiari affidatari non ”psicologizzano” più di tanto le azioni comportamentali dei soggetti accolti,senza voler ad ogni costo dare un significato a tutto e quindi,citando Tramer ed Aluffi, riducendo la “distanza affettiva”presente anche nella migliore delle strutture residenziali,mobilizzando la sua affettività e ,di fatto,annullando pressochè del tutto lo”stigma”psichiatrico. I requisiti I requisiti richiesti dagli operatori del “Gruppo Affidi”alle famiglie accoglienti sono principalmente legati ad una disponibilità e stabilità affettiva,al coinvolgimento del paziente nelle attività quotidiane sia legate alla persona che all’ambiente domestico ed al tempo libero;è richiesta altresì costante collaborazione con i servizi,specialmente per prevenire o circoscrivere eventuali momenti critici.Altro importante compito è quello di mantenere un costante impegno nello spingere il paziente verso la massima autonomia psicosociale, tenuto conto delle sue possibili tendenze alla dipendenza;si cerca sempre di educare le famiglie a mediare tra i bisogni del soggetto inserito e le aspettative della famiglia di origine,mediazione peraltro svolta anche dagli operatori non sempre con facilità. Indicatori di risultato. Per il paziente ovviamente i maggiori indicatori sono quelli clinici che vanno da un minor uso delle strutture di ricovero

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ospedaliero o residenziale ad un decrescente utilizzo di psicofarmaci. La diminuzione della frequenza di episodi critici va di pari passo,secondo la nostra esperienza,con l’aumento delle capacità di interazione sia con la famiglia di origine che con gli operatori e con l’esterno,col maggiore interesse e desiderio nel formulare i propri progetti esistenziali e con il miglioramento delle capacità espressive rispetto anche ai propri vissuti. Nelle famiglie di origine si sono avuti indicatori positivi nella percezione del sostegno e dell’aiuto tecnico forniti dall’intervento,nonché nella quantità e qualità dei contatti avuti con gli operatori che hanno in carico il paziente e con le famiglie affidatarie, cosa di notevole valore,considerato il tenore espulsivo dei rapporti col paziente o comunque,ben che vada, lo scarso interesse e sfiducia dimostrati verso soluzioni autonomizzanti. Nelle famiglie affidatarie abbiamo riscontrato un aumento delle capacità di relazione da parte di tutti i componenti,un crescente grado di sensibilità nel capire i segni di disagio del soggetto inserito e le possibili cause, ed inoltre una maggiore possibilità di condivisione,immedesimazione e presa in carico dei problemi dell’altro;si è pure rilevata sollecitudine e consapevole premura nella valutazione del compito di assistenza con un aumento della responsabilità e delle capacità di svolgere un compito genitoriale e di contenimento.

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Il gruppo multifamiliare degli affidatari Nel 1998, all’interno della équipe multidisciplinare della Asl 2 di Lucca che aveva il compito di seguire il progetto degli affidi eterofamiliari assistiti per pazienti psichiatrici, nasceva l’idea di organizzare un incontro periodico di gruppo costituito da uno o più membri delle famiglie affidatarie alla presenza di un conduttore. L’equipe di operatori si prefiggeva lo scopo di:

1) favorire una conoscenza reciproca tra le famiglie che facilitasse i rapporti di conoscenza e collaborazione e anche lo scambio di aiuto concreto: ad es. una famiglia può aiutare un’altra nel caso che questa abbia impossibilità ad accompagnare un ospite in attività sociali e di animazione.

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2) attivare un confronto tra le varie famiglie sui problemi incontrati nella gestione dei rapporti con l’ospite.

3) la possibilità nel tempo di costituire un gruppo di auto-aiuto.

La richiesta di condurre il gruppo veniva fatta al sottoscritto, non facente parte della equipe multidisciplinare che segue gli affidi, sulla base della esperienza fatta per alcuni anni con un gruppo multifamiliare composto da membri di famiglie di pazienti affetti da disturbo mentale cronico. Si riteneva opportuno che il conduttore non venisse scelto tra i componenti della equipe multidisciplinare in quanto impegnati nella valutazione della famiglia affidataria e nelle verifiche periodiche; si pensava che la presenza di uno di questi operatori potesse condizionare maggiormente non solo la spontaneità dei partecipanti con particolare riguardo alla insorgenza di problematiche di gestione da discutere poi in sede di verifica, ma anche lo “sguardo” dell’operatore sui fenomeni emergenti nel gruppo. E’ ovvio per inciso che i condizionamenti sopra accennati non sono eliminati ma solo presumibilmente diminuiti dato che il conduttore fa parte dei servizi psichiatrici e ha contatti con l’equipe che segue gli affidi. Il gruppo si riunisce una volta al mese alla presenza del conduttore, di un operatore che verbalizza e sono presenti da 8 a 15 familiari. L’incontro ha la durata di circa 80 min. E’ utile inviare ogni volta una convocazione scritta. Il mandato: “uno spazio per confrontarsi sugli eventi, sui vissuti e sulle problematiche incontrate nel rapporto quotidiano con l’ospite”. L’ impronta che il conduttore ha dato al lavoro ha le basi nella esperienza fatta con il gruppo multifamiliare dei familiari di origine (GFO). E’ ovvio che le dinamiche dei rapporti intrafamiliari all’interno dei nuclei familiari originari si differenziano notevolmente da quelle insite nei rapporti tra il

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nucleo familiare affidatario e l’ospite e ciò rende l’esperienza del gruppo multifamiliare una esperienza peculiare e difficile da esaminare. Una strada per riflettere sulle complesse caratteristiche del gruppo multifamiliare affidatari (GFA) può essere proprio quella di pensarle a confronto con alcuni concetti riguardanti i gruppi multifamiliari e in generale con i fattori terapeutici presenti nei gruppi condotti nella pratica istituzionale. I filoni principali cui possono essere ricondotte le esperienze di gruppi multifamiliari sono sostanzialmente tre (Scala V., Fagiani S: 1995): a) gruppi ad impronta psicoeducazionale facenti capo principalmente al modello proposto da Faloon; b) iniziative associative tendenti ad esercitare pressione sulle istituzioni su obiettivi concreti concernenti l’assistenza psichiatrica; c) esperienze volte alla elaborazione di gruppo del rapporto familiare_paziente. L’esperienza fatta con il gruppo dei familiari di origine dei pazienti, pur contenendo più o meno manifestamente aspetti psicoeducazionali e rivendicativi verso le istituzioni, era tesa a sviluppare maggiormente l’elemento di elaborazione del rapporto familiari-paziente attraverso la discussione sui problemi incontrati nella gestione della vita quotidiana. I gruppi istituzionali possono essere pensati come oscillanti sinteticamente tra i seguenti assetti di funzionamento (Scala V. e Fagiani S. 1995):

1) “gruppo in assunto di attacco” in cui al conduttore appartenente al servizio viene assegnato il ruolo di controparte;

2) “gruppo di sostegno” dove il conduttore ha la funzione di garantire la continuità degli incontri e la circolazione della comunicazione degli stati affettivi;

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3) “gruppo di lavoro” in cui la interazione è orientata a sviluppare nuovi elementi conoscitivi.

Nel G.F.O. la base affettiva comune è in genere costituita da una quota di insoddisfazione comune verso le istituzioni con attacchi alle inefficienze di queste e degli operatori. Il lavoro del conduttore di orientare il gruppo nella direzione del sostegno e del lavoro è sicuramente più arduo qui che nel G.F.A. dove le caratteristiche dell’affido predispongono maggiormente alla collaborazione e dove la “colpa” almeno all’inizio è assente e facilmente attribuibile alle origini del p. o alla istituzione di provenienza. Nel nostro gruppo è stato così possibile il delinearsi dei fattori facilitanti il lavoro di gruppo come la risonanza, la amplificazione, la appartenenza… Ad un riesame degli incontri di gruppo di questi anni si possono individuare alcuni temi che sono emersi in modo frequente: Il rapporto con il mondo esterno vissuto a volte come pericoloso per il paziente o come guastatore di un delicato processo educativo- affettivo che la famiglia affidatarie mette in atto quotidianamente;

- comportamenti dell’ospite che richiamano una dipendenza con la istituzione di provenienza;

- i contatti con gli operatori della equipe istituzionalmente preposta a seguire il paziente. Il necessario rapporto tra la famiglia affidataria e la equipe curante può dirigersi verso la collaborazione fattiva e la condivisione di intenti oppure verso il disaccordo e la ostilità reciproca rispetto al progetto terapeutico-riabilitativo;

- contatti con i familiari di provenienza vissuti come disturbanti e perpetuanti influenze patogene del passato.

Il rapporto con la famiglia di origine è una delle aree maggiormente oggetto di discussione e di dibattito che accende gli animi dei partecipanti al gruppo. Inizialmente la

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questione sembrava di appannaggio prevalentemente degli affidi parziali dove il rapporto è concretamente quotidiano dato che alcuni affidatari possono incontrare direttamente i familiari del p. oppure ascoltarli attraverso i racconti e spesso le lamentele e i vissuti sulla famiglia da parte dello stesso. Ma anche negli Affidi totali il confronto, anche se prevalentemente “interno” con la famiglia di origine, è presente quotidianamente. Come ben sappiamo i pazienti giungono se non dalle istituzioni,da situazioni abitative inadeguate e a volte non hanno avuto una esperienza vera e propria di casa e soprattutto vengono da famiglie difficili segnate da esperienze traumatiche o da situazioni multipatologiche. Ciò determina negli affidatari la convinzione che il loro compito sia quello di allontanare il più possibile l’ospite dall’ambiente familiare di origine che altrimenti continua ad esercitare influenze patogene e di intralcio al lavoro educativo sul p. Si profila così una chiara divisione tra l’ambiente di provenienza (ancora di più quando è istituzionale) pensato come cattivo e l’ambiente attuale buono e sanificatore per cui anche i ricordi del passato vengono spesso vissuti come disturbanti per il p. Soprattutto nei primi incontri gli affidatari lamentavano: “non vogliamo e non è giusto che vada al bar di Maggiano (situato appunto nella zona dell’ex Ospedale Psichiatrico dove alcuni dei p. anche se dimessi da molti anni, amavano ancora recarsi) perché si deve staccare da quei posti, gli fa male!” . Successivamente i partecipanti portavano sempre più nel gruppo il fatto che gli ospiti mostrano di tenere tantissimo a mantenere quei rari contatti con i familiari di origine (stigmatizzabili ovviamente come indice di estrema trascuratezza) o anche la fantasia di tali contatti. Proprio nell’ultimo incontro emergeva come un p. in affido totale chiede ogni giorno del fratello che vede circa due volte

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all’anno: “oggi viene mio fratello vero?!” Il confronto e la discussione sulle esperienze permetteva di concordare la necessità per il paziente di mantenere il legame con la propria storia e del suo bisogno di ricordarne gli aspetti buoni vivendoli spesso come momenti ristoratori. E soprattutto che non sentirsi attaccati in questi legami può aiutare a costruirne di nuovi . In generale possiamo dire che alcuni interventi nel gruppo mostrano una tendenza della famiglia affidataria a sentire il mondo esterno pericoloso sia che si tratti di contatti con gruppi, bar, altri pazienti e anche operatori dei servizi. Ciò ci introduce ad uno degli elementi principali che emergono dalla osservazione dei contenuti della discussione nel gruppo e che a mio parere sono inerenti le caratteristiche intrinseche del fenomeno affido eterofamiliare assistito di persone con disturbi psichiatrici: il complesso intersecarsi nei familiari affidatari da un lato della funzione familiare-genitoriale più evidente e dall’altro quella di operatore terapeutico-assistenziale. L’affidatario non è in effetti né un familiare di origine né un operatore ma può essere pensato come oscillante tra le due funzioni in modo più o meno consapevole. Questa chiave di lettura ci può ad es. far leggere come una oscillazione verso uno dei poli il ripetersi di un fenomeno descritto nelle famiglie di origine come quello di ridurre o difficoltare i canali di comunicazione tra mondo interno (familiare) e mondo esterno. La oscillazione verso la assunzione di un ruolo di operatore assistenziale può essere utilizzata dalla famiglia affidataria come difesa (intesa anche nella accezione positiva del termine) dal timore dei fenomeni di cambiamento o di vera e propria trasformazione che l’ingresso di un nuovo soggetto può determinare nel nucleo familiare. Ciò ci porta a considerare brevemente invece alcuni dei temi pressoché assenti nelle discussioni come la influenza

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dell’ospite sui membri del nucleo familiare e in generale di accenni alle dinamiche familiari. La nozione di ospite non può non far venire alla mente il tema del trapianto di organo, una metafora che può essere utilizzata per osservare i fenomeni di cambiamento cui vanno incontro nella loro interazione il “corpo familiare” e l’ospite appunto. Secondo questo vertice di osservazione i temi emergenti nel gruppo (timori, aggressività, resistenza ) possono essere letti come tentativi fatti dal gruppo di rappresentarsi una FORMA intermedia tra la famiglia affidataria come era prima dell’affido e quella attuale. Il gruppo può costituire anche un osservatorio privilegiato dell’andamento nel tempo del cammino dell’affido eterofamiliare. Alcuni temi critici come quello del rapporto con i familiari di origine, le istituzioni di provenienza, gli operatori dei servizi incontrano nei familiari sempre migliori capacità di elaborazione. A distanza di anni possono insorgere altre problematiche meno emergenti, più attenuate legate proprio al trascorrere del tempo e al venir meno delle situazioni critiche che maggiormente stimolavano al confronto e alla riflessione. Ho pensato di esemplificare ciò con una breve vignetta di un incontro di alcuni mesi fa. -In uno degli incontri si rifletteva sul destino del gruppo dove si evidenziava una assidua frequentazione del nucleo storico iniziale con difficoltà a partecipare dei familiari affidatari più “giovani”. Mariella proponeva che i familiari come lei più esperti potessero assumere una funzione di aiuto per i nuovi non solo per le proprie raggiunte capacità di trasmettere la propria esperienza ma anche perché ormai il periodo difficile dell’inserimento faceva parte del passato e le situazioni critiche erano divenute ormai rare. Nella discussione con gli altri la signora descriveva come Laura ( una p. di difficilissima gestione nelle strutture residenziali che aveva cambiato frequentemente a seguito di ripetute crisi pantoclastiche)

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mentre nei primi anni minacciava ripetutamente di andarsene da casa di Mariella, da molti mesi non riusciva a trovare motivazioni vitali che andassero al di là della abitazione tanto che era spesso difficile convincerla ad uscire e a frequentare persone o ambienti diversi da casa. Ciò attivava nel gruppo una serie di interventi che avevano in comune la notazione che mentre all’inizio le difficoltà erano quelle di affrontare le spinte centrifughe ora la sensazione era che la propria casa era divenuta il posto buono e ideale difficilmente confrontabile con un esterno vissuto dall’ospite come faticoso e a volte minaccioso. Questo tema consentiva poi di parlare dei propri vissuti e dell’ eventuale cambiamento della funzione dell’affido con il trascorrere del tempo.-

In conclusione questo spazio di gruppo pur limitato nella frequenza si è affermato nel tempo come area di appartenenza, come luogo di ristoro, attraverso la condivisione e il confronto tra i familiari affidatari in grado talvolta anche di metabolizzare e trasformare emozioni difficili da digerire. Per il conduttore costituisce un luogo di discussione dove l’ascolto delle risonanze emotive dei partecipanti rimanda continuamente a quelle proprie come operatore in rapporto con le questioni della presa in carico dei pazienti. Per il progetto IEFA rappresenta un laboratorio di osservazione e di riflessione sul fenomeno dell’affido e sulla sua funzione rispetto alla vita del soggetto e al rapporto con le istituzioni e la comunità.

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IL PROGETTO I.E.F.A.: L’ESPERIENZA DI PISA Dott. Roberto Cappuccio Responsabile operativo del programma inserimenti eterofamiliari della ULS di Pisa. Premessa storica. L’accoglienza nel contesto familiare (più o meno allargato alla comunità) di persone estranee e in stato di bisogno è probabilmente vecchia quanto l’uomo: essa rinvia a una dinamica di fondo della condizione umana, che percorre trasversalmente culture, etnie ed epoche, ed è quella della condivisione, della compagnia, del soccorso reciproco, forse, ancora più profondamente, dell’istinto di conservazione della specie. Certo, con mille modulazioni e varianti: dalla completa assenza di specifica sensibilità (o addirittura dall’aggressività espulsiva), fino all’oblazione totalizzante. Se ne ritrovano tracce antichissime: il primo riferimento storico-giuridico sembra rintracciabile nel Codice di Hammurabi (Babilonia 2000 a.C. circa). Anche nell’Antico Testamento è possibile rintracciare diversi esempi (Abramo, Manasse ed Efraim accolti da Giacobbe, Ester da Mardocheo, Mosè ecc.). L’accoglienza assume dignità giuridica nell’ambito del Diritto Romano, anche come Diritto di Successione, mentre con l’avvento del Cristianesimo diventa atto d’amore verso il prossimo e quindi verso Dio, azione di cambiamento personale e salvifica per chi la pratica prima ancora che per chi la riceve. Ogni volta che si parla specificamente di ospitalità di persone sofferenti di disturbo psichico è obbligo ricordare la grande esperienza di Geel, un fatto storico che dura fino ai nostri tempi, fondato su una leggenda scritta attorno al 1250. Dymphna, figlia del re di Irlanda, fugge alle attenzioni incestuose del padre nascondendosi a Geel, piccolo villaggio delle Fiandre. Scoperta e raggiunta, resiste ancora alle richieste del padre e questi, in un impeto di follia, la uccide. Assurta agli

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onori degli altari, Santa Dymphna diventa oggetto di venerazione da parte dei “folli” che si recano alla chiesa a lei dedicata per intercederne la grazia. Nascono così storie di miracolose guarigioni e molti malati accorrono da ogni dove per pregare sulla tomba della Santa, magari accompagnati da parenti, mentre altri vengono lasciati nel villaggio: gli abitanti di Geel cominciano dunque a soccorrere e ospitare i pellegrini e i malati, avviando una tradizione secolare di accoglienza che arriva fino ai nostri giorni, quando centinaia (ma sono state anche migliaia) di persone con disturbo psichico vengono ospitate dalle famiglie della cittadina e dei dintorni. Attualmente questa ospitalità rientra nell’ambito di un moderno sistema di welfare, peraltro collegato a un Ospedale Psichiatrico. In epoca moderna, nel contesto della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino durante la Rivoluzione Francese, mentre Pinel “liberava i folli” alla Salpetriere e alla Bicetre, un decreto del 18 gennaio 1792 sanciva giuridicamente l’accoglienza come “espressione di solidarietà verso i più deboli”. L’inserimento omo ed etero familiare diventa pratica parallela e integrata nell’organizzazione manicomiale della moderna psichiatria in molti stati europei e americani, raggiungendo in Italia la massima espansione a cavallo tra 1800 e 1900, al punto da essere recepito come specifico istituto nella legge n. 36 del 1904, la prima legge organica sull’assistenza psichiatrica dell’Italia unitaria, promulgata da Giolitti dopo anni di dibattiti. Diverse le sue denominazioni, quella più diffusa e in certo modo ufficiale è “Patronato Eterofamiliare” per l’accoglienza in una famiglia diversa da quella di origine, ma era più diffusa ancora la “Custodia Domestica Omofamiliare”, vale a dire l’affidamento alla famiglia propria del paziente: entrambe le forme, molto discusse a livello scientifico in quei tempi, erano certamente ispirate a criteri di assistenza umanitaria, ma determinate soprattutto dal sovraffollamento dei manicomi e

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dai costi insostenibili che per tale motivo gravavano sui magri bilanci delle Province. Il modello più praticato di Patronato Eterofamiliare è stato quello affermatosi a Reggio Emilia, che si potrebbe definire di tipo Semiprofessionale, in quanto le famiglie affidatarie dovevano avere al loro interno almeno un addetto manicomiale ed essere domiciliate nei pressi del manicomio stesso. Questa pratica, largamente affermatasi nel tempo, ha conosciuto varianti attorno a tutti gli ospedali psichiatrici, compresi quelli di Maggiano (Lucca) e di Volterra (Pisa); essa prevedeva a favore delle famiglie ospitanti, una retta giornaliera che in genere era superiore (anche doppia) rispetto a quella riconosciuta per la Custodia Domestica Omofamiliare. Forme di inserimento eterofamiliare come momento del percorso clinico e prima forma di dimissione dall’Ospedale Psichiatrico, si sono diffuse in diversi Paesi, come Germania, Svizzera, Olanda, Francia, USA e Canada. Questa modalità, attualmente la più diffusa, è descritta da Hester B. Crutcher nel 97° capitolo del Manuale di Psichiatria di Silvano Arieti (testo degli anni 60): il paziente dunque è affidato a famiglie che vivono nel territorio circostante l’Ospedale e il personale dell’istituzione continua a seguire le persone dimesse. In Italia la pratica dell’inserimento eterofamiliare è andata esaurendosi nel tempo, per scomparire del tutto dal 1978, a seguito dell’emanazione delle leggi n. 180 e 833 e della chiusura degli Ospedali Psichiatrici. Tuttavia alla fine degli anni 90 si torna a parlare degli inserimenti e a praticarli in alcune realtà come Collegno e Chieri (Piemonte), Brunico (BZ), Lucca, Jesi, Lanusei, Cagliari, Nuoro e Trapani. In tutte queste realtà nel 1999 se ne contano 62, mentre successivamente le iniziative si sono ulteriormente diffuse, per cui si può stimare attualmente aumentato, ma non in modo esponenziale, il numero dei casi attualmente attivi.

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Nel 2003 la Regione Toscana ha adottato un provvedimento per la sperimentazione e la diffusione degli inserimenti eterofamiliari. L’Inserimento Eterofamiliare Assistito (I.E.F.A.). L’Inserimento Eterofamiliare Assistito (IEFA o anche IESA) di cui parliamo è una forma di integrazione presso una famiglia selezionata e abilitata (e quindi diversa da quella di origine), di una persona seguita dai servizi psichiatrici. A questa situazione di convivenza i servizi garantiscono un supporto adeguato, mentre alla famiglia ospitante è riconosciuto un rimborso spese. Sulla base della durata gli inserimenti in famiglia possono essere distinti in; brevi, da pochi giorni a poche settimane, generalmente in situazione di crisi acuta: le esperienze sono molto poche (Crisis Home in Dane County in USA, Crisis Farm in Piemonte); a medio termine, della durata fino a 2 o 3 anni, per soggetti per cui si ritiene possibile un percorso di riabilitazione in funzione di una situazione successiva di maggiore autonomia; a lungo termine per soggetti anziani o con una disabilità che non permette di prefigurare un percorso di autonomizzazione, essendo caratterizzati da una stabile necessità di assistenza e protezione. Presupposti strutturali per l’inserimento in una famiglia “altra” del portatore di disturbo psichico sono: -il bisogno di protezione – accudimento di una persona con problematiche psichiche incapace di una vita autonoma, ma in grado di vivere in un nucleo familiare; -l’assenza della famiglia di origine o la sua impossibilità complessiva (assistenziale, relazionale, emotiva ecc.) ad accogliere e accudire il congiunto. Ma perché inserire proprio in una famiglia e non in una istituzione, magari una piccola casa-famiglia? Il tema è ovviamente molto vasto e complesso. Senza arrivare ad affermare con Bowlby che “…case cattive sono migliori di buone istituzioni”, né abbandonarsi al nuovo trend di

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esaltazione della famiglia, dopo una fase di tendenziale demonizzazione, si può, in estrema sintesi, affermare che: - famiglie adeguatamente selezionate in base a criteri strutturali ed i buona integrazione emotiva, relazionale e sociale, disponibili all’accoglienza e a offrire tutte le valenze assistenziali, affettive e di privacyn rappresentati da una casa e dalle sue relazioni, possono costituire una valida alternativa, in senso migliorativo, a una residenzialità istituzionale e garantire al soggetto portatore di disturbo psichico una migliore qualità di vita; - l’accoglienza può far sperimentare all’ospite la dimensione dell’accettazione, con tutte le implicazioni psicodinamiche e relazionali che tale situazione può comportare; - un ambito familiare può costituire un contesto ambientale, emotivo e relazionale più fisiologico e favorevole, in grado di rinnovare o rimodulare “l’esperienza primaria di casa…senza la quale per dirla con Winnicott non possono essere poste le fondamenta della salute mentale…: senza un ambiente umano e fisico delimitato (e adeguato) una persona non può scoprire fino a che punto le sue idee aggressive non riescano a distruggere nella realtà, e in tal modo non può discernere tra fatti ed emozioni”; di riprodurre esperienze primarie di accudimento edi attaccamento con conseguenti effetti sui sistemi comportamentali,motivazionali e relazionali (Bowlby). L’esperienza di Pisa. L’Azienda Sanitaria Locale di Pisa serve una popolazione di circa 330.000 abitanti ed è divisa in 3 Zone Socio-Sanitarie: Pisana, Valdera e Alta Val di Cecina. Nell’anno 2005 il Dipartimento di Salute Mentale ha assistito 8.016 utenti adulti e 2.650 minori. L’Inserimento Eterofamiliare Assistito inizia come Progetto Aziendale I.E.F.A. nel 2001, previsto tra gli obiettivi di budget di quell’anno, su forte sollecitazione al DSM da parte del Direttore Generale dott. Raffaele Fallace, alla direzione

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dell’ASL di Pisa dall’anno 2000. In precedenza lo stesso dott. Faillace era stato Direttore Generale della ASL di Lucca, dove era in atto un analogo progetto I.E.F.A. La Delibera n. 1.046/2001 fissa dunque le regole e definisce il Gruppo di lavoro Multidisciplinare Integrato, articolato in sottogruppi zonali, costituito da 3 psichiatri (di cui 1 coordinatore), 1 psicologo, 3 assistenti sociali, tutti impegnati a tempo parziale nel progetto. La stessa delibera stabilisce l’ammontare del contributo alle famiglie affidatarie (come integrazione del reddito personale dell’utente inserito), fino a un massimo di € 1.300 per l’inserimento a tempo pieno e fino a un massimo di € 520 per l’inserimento a tempo parziale. Il Progetto diviene di interesse regionale ed è cofinanziato dalla Regione Toscana. Nell’ASL di Pisa il Progetto IEFA interviene in una fase diversa della storia dei servizi per la salute mentale rispetto alla ASL di Lucca: l’Ospedale Psichiatrico, sito a Volterra nella Zona dell’Alta Val di Cecina, è superato e chiuso dal 1998, mentre si è sviluppata, per cause diverse, una residenzialità diffusa per problematiche psichiche, anche fuori ASL e fuori Regione Toscana, particolarmente dalla Zona Pisana, con oltre 200 utenti ospitati in strutture residenziali. Il metodo di lavoro della esperienza pisana è assimilabile a quello in vigore a Lucca, con cui si opera in stretta collaborazione. Esso si fonda sull’attività del Gruppo Multidisciplinare Integrato, che promuove una campagna di sensibilizzazione verso la Comunità e verso i servizi, reperisce le famiglie affidatarie dopo un processo di valutazione esteso ai singoli membri, all’alloggio e al contesto sociale, costruisce la banca dati degli utenti da inserire, procede all’”abbinamento” tra famiglia ed utente e all’avvio dell’inserimento, fornisce supporto e consulenza all’equipe territoriale (che rimane titolare del caso), opera un’azione di monitoraggio e di verifica periodica sull’andamento. Lo stesso Gruppo Multidisciplinare ha elaborato gli elementi della modulistica cartacea che si

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propongono come strumenti di lavoro per la raccolta delle informazioni necessarie alla costruzione della banca dati. Fino a oggi gli inserimenti effettuati sono stati 28. Si è proceduto a una valutazione periodica semestrale della situazione degli utenti inseriti per il tramite della Scala di Valutazione Globale (VGF), alla valutazione iniziale, il valore medio del punteggio è di 43,47 (area del sintomo grave e della grave alterazione del funzionamento, dell’alterazione del test di realtà e della comunicazione); a sei mesi il valore medio è di poco progredito a 47,75, mentre a 12 mesi sale a 60,34 (area del sintomo moderato-lieve e delle moderate difficoltà di funzionamento sociale); da 18 a 30 mesi il valore medio si stabilizza e progredisce di poco: tali dati confermano il giudizio clinico sopra riportato, e in certo modo lo quantificano, pur nella semplicità e indicatività dello strumento di valutazione. Anche al di là del valore medio numerico è importante il trend rilevato, in base al quale si può affermare che intervengono problematiche di adattamento nei primi mesi dell’inserimento, ambito nel quale i hanno il maggior numero di “fallimenti”, si verifica un netto miglioramento degli indici di “stato globale” entro un anno, successivamente interviene una lenta progressione e quindi una relativa stabilizzazione. Riguardo alle famiglie, è rilevabile una diffusa soddisfazione per l’esperienza, che ha portato a cinque richieste per un secondo inserimento; una nuova motivazione e obiettivazione del nucleo familiare, anche per il sentirsi partecipi di un progetto di rilevanza sociale; una tendenziale migliore socializzazione che si impone per le esigenze di gestione sociale del soggetto inserito; una maggiore soddisfazione economica. Problematiche emerse concernono qualche caso di “stanchezza”, soprattutto nelle situazioni di crisi psicopatologica dell’inserito; si è verificato un caso di “conflitto transferale”, con dinamiche di innamoramento di una donna inserita nei confronti del marito

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della coppia ospitante, peraltro in via di superamento dopo una breve sospensione dell’inserimento. Le cessazioni sono state 13 e le motivazioni sono state le più varie, tenendo presente che in un caso l’inserimento a termine era stato previsto come fase necessaria in un percorso di autonomia. Abbiamo dunque registrato un ritiro incongruo dell’utente da parte di un familiare, due cessazioni per sintomatologia attiva (interrotti dopo uno e cinque mesi), un caso di conflitto-confusione con un precedente affidatario presso cui era stato inserito in età minorile, uno per problemi burocratici (ritardo nell’erogazione del contributo da parte dell’ASL). Alcune questioni emergono dalla nostra esperienza: non è importante la diagnosi per il buon esito dell’inserimento: sono più importanti le caratteristiche personali dell’utente, la sua motivazione a vivere in famiglia, ed un buon abbinamento con la famiglia affidataria; -maggiori problematiche si verificano in presenza di una famiglia di origine attiva, per conflittualità psicologica del soggetto inserito e tra le famiglie; -migliori esiti si hanno con la famiglia affidataria ”semplice”, di ceto e livello di istruzione medio-bassi. Gli Inserimenti Eterofamiliari Assistiti nell’ASL di Pisa numericamente ammontano quasi al 10% delle persone ospitate in residenze e assistite dal Dipartimento di Salute Mentale: l’obiettivo è di arrivare al 15, possibilmente al 20%, risultato che si può ottenere migliorando la professionalità del Gruppo Multidisciplinare e più in generale dei Servizi. Tale miglioramento può scaturire da un ampliamento dell’esperienza, dalla riflessione e dall’approfondimento delle tematiche inerenti gli affidi. Infatti è auspicabile che con il tempo si giunga ad affinare la valutazione predittiva circa le famiglie, i soggetti da inserire e gli abbinamenti, migliorando nel contempo la capacità di supporto degli inserimenti.

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Conclusioni. Secondo le esperienze condotte nell’Azienda Sanitaria Locale di Pisa, l’Inserimento Eterofamiliare Assistito costituisce una pratica con risultati positivi in termini di salute e di qualità della vita per i soggetti inseriti, relativamente semplice e poco costosa: un buon ambito di riabilitazione psicosociale, ma anche un buona “palestra” per la solidarietà sociale e un vessillo contro lo stigma per il messaggio inclusivo intrinseco che propone. E’ tuttavia poco praticato in Italia: si rinvengono un diffuso scetticismo e resistenze soprattutto negli operatori della salute mentale. Anche nella realtà di Pisa, senza la spinta decisa della Direzione Generale della ASL forse non si sarebbe sviluppata. La comprensione circa le cause di tale situazione e la loro rimozione costituisce forse uno dei presupposti fondamentali per un suo sviluppo.

Bibliografia -Aluffi G. “Dal manicomio alla famiglia” - Franco Angeli, Milano 2001 - Arieti S. (a cura di) “Manuale di Psichiatria“ – Ed. Boringhieri, Torino 1960 - Atti II° Convegno Nazionale sull’inserimento eterofamiliare assistito di persone con disturbi psichici – Lucca 15/16 Novembre 2001 – anS Edizioni Torino 2004 - Becker J., “Familienpflege in Europa. Betriebsleitung der Rheinischen Kliniken” - Bedburg - Hau 1997 - Bowlby, J., “Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attacamento” - Raffaello Cortina Editore Milano 1989 - Correale A. (1991) “Il campo istituzionale”, Roma, Ed. Borla - Correale A. (1995) “Fattori terapeutici nei gruppi e nelle istituzioni” -Roma- Ed. Borla - Furlan P.M. , Cristina E., Aluffi G., Olanda I., (a cura di), Atti del 1° Convegno Nazionale sull’Inserimento Eterofamiliare

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Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici (I.E.S.A.) Ans Edizioni - Torino 2000 - Gasca G. “Psicodramma analitico“, Edizioni Franco Angeli Milano 2003 - Gunderson John G. “La personalità borderline“ Raffaello Cortina Editore - Milano- 2003 -Minuchin S. “Famiglie e terapia con la famiglia“ (Trad. it.) Edizioni Astrolabio -Roma-1976 -Scala F., Fabiani S. (1995): “I gruppi per genitori nei contesti di assistenza psichiatrica” Fattori terapeutici nei gruppi e nelle istituzioni -Roma- Ed. Borla - Winnicott DW (1958) “Dalla pediatria alla psicanalisi “ Firenze - Martinelli -1975 - - Winnicott DW (1965) “Sviluppo affettivo ed ambiente” - Roma- Armando -1974 -

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IL PROGETTO I.E.S.A.: L’ESPERIENZA DI MONZA Prof. Italo Carta Direttore della Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Direttore ff del Dipartimento di Salute Mentale dell’A.O. San Gerardo di Monza Dr.ssa A.S. Antonella Bregantin, Dr.ssa E.P. Laura Mazzali equipe IESA Dipartimento Salute Mentale di Monza

“So-stare con voi” Il progetto “SO-STARE CON VOI” Inserimento Eterofamiliare Supportato per Adulti Psichiatrici rientra nel Programma di Azioni Innovative per la Salute Mentale presentato dalla “Novo Millennio Cooperativa Sociale a.r.l. – ONLUS”. Le unità funzionali che partecipano al programma sono A.O. San Gerardo - DSM e Associazione Familiari Monza ASVAP. “So-stare con voi” introduce un percorso innovativo sul territorio lombardo attraverso “specifiche iniziative volte all’attivazione delle reti sociali naturali ed al coinvolgimento di cittadini in grado di lavorare con i servizi nel ruolo di facilitatori naturali anche attraverso l’utilizzo di un contributo economico identificato ad hoc” (PRSM). Si intende realizzare, congiuntamente al CPS titolare del Piano di Trattamento Individuale (PTI), un supporto complessivo per soggetti affetti da disturbi psichici cronici nell’ambito dell’intervento di comunità, valorizzando le risorse già esistenti dell’associazionismo e del privato no-profit, collegandole in rete. Il progetto “SO-STARE CON VOI” rappresenta una risposta nuova in riferimento alla tematica

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dell’abitare spostando l’intervento dalle strutture residenziali al territorio attraverso la ricerca, formazione e selezione di facilitatori naturali: le famiglie affidatarie. Il progetto “SO-STARE CON VOI” promuove l’accoglienza di persone con disagio psichico all’interno di “normali” nuclei familiari, che, adeguatamente formati e supportati dai servizi e con un contributo mensile, offrono uno spazio di vita connotato in senso affettivo per periodi definiti, variabili di caso in caso. Il progetto può essere realizzato solo attraverso un’attenta preparazione di operatori, volontari, famiglie ospitanti e una gestione integrata fra le risorse formali (Servizi Sociali Comunali, ASL, Centri Psico Sociali) e informali (associazioni di volontariato e di familiari, gruppi di auto-aiuto) presenti sul territorio. Nella sua complessa articolazione, il progetto prevede momenti di sensibilizzazione rivolti alla cittadinanza sulle tematiche della salute mentale per creare una rete capace di sostenere persone e famiglie che decidono di sbilanciarsi in questa nuova esperienza; prevede inoltre un percorso di formazione per queste stesse famiglie o singoli interessati, per arrivare più consapevoli al momento dell’inserimento. Il corso di formazione si rivolge a tutti coloro che possono offrire uno spazio e un tempo all’interno della propria casa: lo spazio è da intendersi come una stanza che possa essere destinata all’ospite, questo requisito è indispensabile per tutelare la privacy della famiglia e della persona; il tempo è riferito ai normali momenti quotidiani di condivisione e incontro che esistono in ogni famiglia, intesa anche come single o gruppi di persone che vivono insieme all’interno di consolidati legami di reciprocità. La persona ospitata potrà essere a sua volta una risorsa per la famiglia nello svolgimento di alcune mansioni e nella rete di relazioni che si verrà costituendo.

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Obiettivi principali

Realizzare programmi individualizzati per aumentare le capacità di autonomia abitativa di soggetti con disturbi psichici cronici attraverso l’attivazione delle risorse della rete sociale naturale. Favorire il rientro o il mantenimento di soggetti con disturbi psichici cronici all’interno del proprio contesto di vita attraverso l’utilizzo delle risorse territoriali, semiresidenziali, e della rete sociale. Sostenere la famiglia di origine nelle fasi d’inserimento del congiunto nella famiglia ospitante attraverso il coinvolgimento tramite attività di sensibilizzazione, formazione, auto-aiuto. Formare la famiglia affidataria (scelta dopo attenta selezione) e valorizzare il contributo di solidarietà in collegamento con la rete e l’associazionismo Implementare l’integrazione fra soggetti istituzionali e la rete informale attraverso una progettazione condivisa che sia efficace per l’operatività dei servizi e per la comunità. Sperimentare nuovi modelli organizzativi e gestionali nell’area dell’abitare orientati a valorizzare la risorsa dei facilitatori naturali (famiglie ospitanti) supportati dal privato sociale, dall’associazionismo e dai servizi specialistici. Promuovere occasioni di sensibilizzazione e di formazione sui temi della lotta allo stigma, il lavoro di rete, l’auto-aiuto rivolti a: operatori dei servizi, privato sociale, volontari, familiari, cittadinanza.

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Metodologie e modelli gestionali Il Progetto “SO-STARE CON VOI” è attuato da un’équipe composta dal coordinatore assistente sociale ed un educatore professionale che segue le diverse fasi dell’intervento. L’aggiornamento ed il raccordo tra le diverse unità funzionali e le fasi operative del progetto (ASVAP, Coop. Novo Millennio, A.O. San Gerardo) avviene in una riunione mensile presso la sede stessa di ASVAP. L’équipe di “So-stare con voi” si avvale della collaborazione di un’équipe di valutazione dei casi composta dal Responsabile UOCT Monza 1, Coordinatore Infermieri CPS Monza, Educatore Professionale CPS Monza e Psicologa Cooperativa Novo Millennio. L’equipe di valutazione dei casi, attiva dal 2005, ha vagliato 10 segnalazioni di pazienti identificando i criteri di selezione sulla base di caratteristiche di idoneità stabilite in precedenza. A supporto del progetto è già in atto la collaborazione con l’Università Milano Bicocca, (cattedra di psichiatria Coordinatore scientifico del programma Direttore DSM – A.O. S.Gerardo Monza), per la ricerca di strumenti di valutazione del progetto nella sua complessità Questa équipe vede impiegate tutte le risorse professionali finora citate con la collaborazione del coordinatore scientifico del progetto, la referente Coop. Novo Millennio, una volontaria ASVAP e una specializzanda della scuola di psichiatria. L’équipe di valutazione del progetto ha lavorato alla definizione di strumenti di monitoraggio del percorso del paziente, uno strumento di valutazione clinico e una scala di valutazione degli stili relazionali che guida la selezione delle famiglie affidatarie. Il

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monitoraggio complessivo del percorso d’inserimento verrà effettuato attraverso la raccolta delle registrazioni dell’esperienza nella sua complessità. L’équipe di valutazione deve ancora approntare uno strumento di valutazione dell’efficacia dei momenti informativi/formativi aperti alla cittadinanza. Per la realizzazione del progetto sono previsti più livelli fra loro collegati e costantemente presenti in ogni anno del progetto: il livello inter-istituzionale; il livello formativo per gli operatori pubblici e privati coinvolti; il livello informativo alla cittadinanza e di pubblicizzazione/sensibilizzazione per coloro che intendono aderire all’iniziativa; la selezione, formazione e supervisione delle famiglie ospitanti e l’accompagnamento delle famiglie d’origine; l’individuazione e accompagnamento degli utenti ospiti; il monitoraggio dell’intervento. La metodologia dell’intervento prevede di attivare, ad opera dell’équipe del progetto, le seguenti azioni: • predisposizione di materiale divulgativo e di

documentazione riferito al progetto; • definizione con la ASL MI3 del monitoraggio del progetto; • pubblicizzazione dell’iniziativa alla cittadinanza e raccolta

adesioni di famiglie affidatarie; • realizzazione del corso informativo (I livello) per le famiglie

ospitanti candidate; • realizzazione di momenti formativi rivolti a volontari

ASVAP e operatori dei servizi (Comuni, CPS); • selezione delle famiglie affidatarie che hanno concluso il

corso di I livello; progettazione e realizzazione del corso di II livello (di approfondimento) per le famiglie selezionate;

• avvio della selezione degli utenti beneficiari dell’intervento e in parallelo incontri con la famiglia d’origine in collegamento con l’équipe curante del CPS, che formula il Piano di Trattamento Individuale;

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• abbinamento dei beneficiari con le famiglie affidatarie e avvio della “fase di prova” con firma del “contratto di convivenza” fra i soggetti coinvolti (beneficiari, famiglia affidataria, referente CPS);

• verifica della “fase di prova” e in caso positivo, avvio del periodo d’inserimento (di durata variabile a secondo del Piano di Trattamento Individuale);

• Attività durante il periodo di ospitalità attraverso: visite domiciliari, colloqui individuali, gruppi famiglie d’origine e affidatarie, attività di socializzazione e di tempo libero, programmi d’inserimento lavorativo e/o di riabilitazione in Centro Diurno.

• Valutazione di esito al termine del singolo percorso d’inserimento per il beneficiario e nuova formulazione del Piano di Trattamento Individuale; verifica conclusiva del progetto con la famiglia affidataria e ridefinizione degli accordi per nuovi programmi di affidamento;

• Richiesta di ampliamento dell’accreditamento da 10 a 14 posti del CD Stellapolare allo scopo di destinare 4 posti aggiuntivi agli utenti del progetto “SO-STARE CON VOI” che ne fruiranno a rotazione in relazione al proprio PTI.

Durante il primo anno è stata realizzata la fase propedeutica (sensibilizzazione, formazione, pubblicizzazione…) e l’avvio del primi due percorsi di affido, di cui uno interrotto nella fase di inserimento; nel secondo e terzo dovranno essere attivati gli altri percorsi di affido. Ogni famiglia affidataria percepirà un compenso di € 713 mensili, derivante dalla valorizzazione delle attività erogate, come intervento sulle abilità base, interpersonali e sociali e dagli interventi formativi che i familiari stessi attueranno nei confronti di altri familiari da formare. Allo scopo di poter versare tale somma come rimborso spese alle famiglie, la Coop. Novo Millennio stipula dei protocolli d’intesa con le famiglie affidatarie che cominciano il percorso.

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Al termine del terzo anno verrà realizzata una giornata di studio, in collaborazione con l’Università, aperta alla cittadinanza, per la diffusione dei dati (anche tramite produzione di materiale documentativo) e nel periodo successivo si prevede di realizzare il follow-up dei beneficiari e delle famiglie affidatarie. Attività e incontri 2004-2006 Alcuni dati n. 10 Pazienti segnalati ad oggi n. 5 Pazienti valutati attraverso la scheda di presentazione in équipe valutazione casi n. 15 Incontri con équipe valutazione casi n. 2 Beneficiari selezionati n. 1 Percorso attivato Incontri sul territorio con cittadinanza: (incontri informativi con gruppi di volontariato, gruppi parrocchiali, cooperative private, Caritas, enti formativi, concerto)

- 2004 5 incontri: circa 330 persone - 2005 21 incontri: circa 360 persone - 2006 2 incontri: circa 10 persone

Incontri con operatori (del DSM e del territorio -Servizi Sociali – corso di formazione ECM)

- 2004 6 incontri: circa 11 operatori - 2005 15 incontri circa 200 operatori - 2006 30 incontri di raccordo con operatori dei servizi

territoriali/residenziali dei beneficiari in fase di valutazione/inserimento

Incontri con famiglie affidatarie

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Corsi di sensibilizzazione su due livelli (5 incontri il primo livello, 3 incontri il secondo livello)

- Svolti 2 corsi con cicli di I e II livello - n. 16 famiglie che hanno partecipato ai due corsi di

sensibilizzazione - n. 33 colloqui individuali con famiglie affidatarie (prima,

durante, dopo corso) Incontri con beneficiari: (incontri presso l’istituzione e presso la famiglia affidataria) n. 3 con beneficiario prima dell’inserimento n.11 presso la famiglia affidataria durante la fase d’inserimento e durante il periodo di prova Incontri con famiglie d’origine

- 2006 1 famiglia incontrata Inserimenti effettuati

- 2006 2 inserimenti di cui: 1 in atto dal 3 maggio ‘06; 1 interrotto dopo il mese di inserimento e prima della firma del contratto

Legenda: DSM = Dipartimento di Salute Mentale CPS = Centro Psico Sociale PRSM = Piano Regionale Salute Mentale Equipe di valutazione del progetto Prof. Italo Carta Dott.a Anna Gardiner Dott.a A.S. Antonella Bregantin Dott.a E.P. Laura Mazzali Dott.a Maria Coronelli

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Coord. Infermieristico Giovanni Spaccapeli Dott.a E.P. Antonella De Bari Sig.a Rita Crespi Dott.a Milena Provenzi Ref. Coop. Novo Millennio Cristina Seveso

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APPENDICE

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LA STORIA DI LUCIANA Di Anna Cagnin in Moro Era una bella mattina di primavera quel sabato di marzo del 2001 quando Luciana ci incontrò per la prima volta. Un sabato tranquillo, il verde del giardino si rifletteva nella sala da pranzo e quasi la illuminava. Io e Bruno eravamo un po’ emozionati per questo incontro. D’accordo con la D.ssa Franceschini, con Luciana sarebbero venute a pranzo per conoscere noi, la casa, e parlare di un eventuale soggiorno di Luciana presso di noi. Racconterò brevemente come noi siamo capitati nella vita di Luciana. Sicuramente qualcuno che muove i fili della nostra storia aveva già programmato. Difatti ad un convegno sul “Mondo Equo e Solidale” conoscemmo la D.ssa Franceschini, che aveva in cura Luciana, subito ci fece la proposta di ospitarla per un po’ di tempo. Erano e sono tuttora tentativi per aiutare in modo concreto persone che avrebbero avuto bisogno di vivere un’esperienza di famiglia mai avuta e che rifiutano le comunità gestite dai servizi locali. Ritorno a quella mattina di primavera, ci sentivamo molto disponibili verso questa ragazza, timida e insicura che entrando in casa con una piantina di fiori in mano ci disse un buongiorno sommesso. Luciana durante il pranzo parlò poco, però i suoi occhi ci osservavano attenti e con la sua grande sensibilità capì subito che noi potevamo aiutarla. Dopo due giorni arrivò con la valigia e si sistemò nella camera al secondo piano. Luciana aveva la sua macchina ed era, ed é tuttora, autonoma per gli spostamenti dalla casa al paese e città o qualsiasi volta volesse andare a casa a trovare suo padre.

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In poco tempo Luciana vinse la forte timidezza e ci raccontò un po’ al giorno la sua situazione familiare. Era arrivata a “ Casa Calamai”, una comunità famiglia, dopo delle piccole crisi, superate con farmaci leggeri, da Morgano un paese in Provincia di Treviso. Viveva allora con il padre e il fratello di 21 anni, la madre invece era ricoverata in un Istituto per malattie croniche e senza speranza di uscita, causa diabete . . . Questa specie di famiglia era gestita da un padre “ severo”, molto critico e con molte aspettative verso i figli. Luciana non lo accettava e l’unico modo che aveva di ribellarsi era quello di stare male. La mancanza della madre era il problema più grave. Mi confessò che non si ricordava di un bacio o un abbraccio materno per tutti i suoi quasi trent’anni. Luciana aveva in quel tempo un lavoretto di stiratrice in un laboratorio, con contratto di tre mesi, rinnovabile, però alla scadenza il contratto non fu rinnovato e lei si trovò a casa. I primi giorni cercammo di sdrammatizzare il licenziamento, mi ricordo facevamo tante cose insieme, le pulizie, cucinare per tutti. Lei era molto desiderosa di imparare, sapeva fare poche cose perchè a casa il padre era lui il cuoco della famiglia e negli ultimi tempi si dedicava anche alla pulizia della casa, volendo proteggere Luciana per paura che si ammalasse. Per Luciana non avere un lavoro era come un sogno infranto, era triste e silenziosa, andava in visita al padre e ritornava a casa più triste di prima perché lui premeva sull’urgenza di trovare un lavoro. Scoprimmo, parlando e valutando con Luciana, cosa avrebbe desiderato fare. Era importante per lei che questo nuovo lavoro fosse nelle sue possibilità un po’ leggero e gratificante. Decisione unanime! Operatrice socio–sanitaria. Noi eravamo felicissimi della decisione, ma per Luciana fu molto difficile l’iscrizione al corso, l’acquisto di cancelleria varia, perchè non aveva nessuna fiducia in se stessa per poter dire di fare la scuola e superare l’esame. La causa di questo era che

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aveva già provato un anno prima e dalla paura aveva interrotto all’inizio e per lei era da considerare una specie di fallimento. Non ci spaventammo per niente, per convincerla mettemmo una così grande carica di energia che Luciana si convinse, come del resto eravamo sicuri noi stessi, che avrebbe superato bene la scuola e l’esame. Per Luciana era importante diventare ancora una studentessa e la vedevamo serena, aveva una bella prospettiva! Intanto volevo ricordare il primo Natale passato in famiglia con le mie figlie e miei nipotini, due maschi e una bambina, quel tempo piccolini da scuola materna. La preparazione della festa con gli addobbi, l’albero, il presepe, la cena della vigilia, per Luciana erano , si capiva, cose che non aveva mai avuto l’occasione di fare in famiglia, a momenti si isolava, a volte riuscivo a contagiarla nella preparazione di regalini o programmi per il menù della cena e pranzo di Natale, in questi momenti la sentivo più viva. Ricordo la serata, un po’ caotica, i bambini aspettavano Babbo Natale, noi adulti pensavamo alle pietanze speciali della serata. Finalmente arrivò il cestone dei regali nel salotto dove eravamo tutti riuniti. Naturalmente avevamo detto ai bambini che Babbo Natale aveva appoggiato i doni a terra dalla porta. Per tutti c’era un regalo, anche Luciana timidamente cercò e trovò più pacchettini per sé, ma la vera sorpresa fu che lei aveva messo per noi della famiglia un suo regalo per tutti infiocchettato con buon gusto e biglietto di auguri. Ci ricorderemo per il resto dei nostri giorni questo corso durato un anno. Bruno soprattutto, devo riconoscere, si dedicò totalmente, io facevo solo l’assistente, preparavo da mangiare, li sostenevo nei momenti di crisi. Luciana si sforzava molto, ma dovevamo combattere con dei veri nemici : il sonno, la stanchezza ( perché già lavorava ) , la paura delle verifiche! Eravamo decisi che la nostra doveva essere una vittoria, e così fu. Luciana durante la scuola riuscì anche a fare il tirocinio nelle

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varie strutture, nel frattempo smise una pastiglia che prendeva quando era venuta da noi, cioè un anno prima, sempre con il permesso della D.ssa Franceschini, la sostituì con l’iperico e delle tisane miste di erbe rilassanti. La scuola maturò molto Luciana, per lei fu una vera crescita, voglio scrivere una lettera tale e quale come la trovammo una sera sopra il letto.

Cari Anna e Bruno, penso che state arrivando a Venezia dall’Antonella, io sono in giardino, sono quasi le 19,30, da mezzora circa sto tentando di studiare igiene, ma arrivata al significato di salute e malattia, sopratutto di salute, che significa completo benessere fisico mentale e sociale mi è arrivato come un “ lampo”. Non so come l’ho associato a me, e che in fondo la difficoltà che ho di stare con gli altri non è segno di salute, vedendo che il tempo passa mi é venuta l’idea di scrivervi per vedere se riesco ad “ alleggerirmi” andare avanti e uscire da questo ristagno. Qualcosa vi ho già detto ma sto riflettendo sul fatto che a differenza dell’altre volte questo corso lo sto vivendo coinvolgendomi troppo di persona, su quello che di negativo ho vissuto e che é questo che mi “ blocca” una ventina di giorni fa era un po’ diverso pensavo anch’io dopo tutto posso farcela avendo buone motivazioni e anche per aver intuito che qualcosa che va più lontano, però mi ritrovo sempre nell’ombra, mi chiedo come posso continuare e in che modo uscire da ciò se ogni volta che mi metto a studiare sia in classe che al tirocinio mi perdo con me. Riuscirò a liberarmi? Spero passerete una buona serata. Ciao Luciana.

Nell’aprile del 2003 finì il corso, superando l’esame con un bel voto, 83. Facemmo festa, un bel pranzetto anche con gli amici psicologi con tanta allegria.

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Luciana cominciò subito a lavorare in una casa di riposo non lontano dal nostro paese, affrontò anche i turni di notte, di mattina presto e la sera tardi. Erano tutte tappe importanti per lei, anche se un po’ faticose, ma la tempra forte, soprattutto nel dover mantenere un lavoro sicuro ( come le aveva insegnato il padre ), faceva sì che non le pesava il sacrificio. All’inizio del 2003, cioé dopo due anni di permanenza di Luciana a casa nostra, sorse presso le strutture un’associazione di famiglie che desideravano ospitare delle persone adulte presso di loro, cioè lo IESA, naturalmente dopo un grosso e lungo lavoro di sensibilizzazione fatto da psicologi ed equipe presso i centri sociali, le parrocchie o le sale comunali del territorio. Subito noi partecipammo alle riunioni perché ci sentivamo molto IESA, visto che era già del tempo ( 2 anni ) che noi avevamo Luciana a casa. La cosa che ci gratificò concretamente era che veniva assegnato alle famiglie che iniziavano allora questo percorso, poche lire, allora un assegno mensile di rimborso spese. Questa cosa, mi ricordo, la considerai un premio inaspettato perché erano 20 anni che io e Bruno ospitavamo in casa nostra persone con problemi e mai avevamo pensato ad un compenso da nessuno. Sono sicura che la provvidenza esiste, ora che viviamo della pensione ci siamo sentiti economicamente sereni. Da parte di Luciana, però, devo dire che all’inizio del contratto qualche cosa cambiò. Perchè veniva e viene tuttora fatto uno scritto dove si spiegano le motivazioni e il tempo previsto perché l’ospite sia anche lui a conoscenza di quanto tempo sia il soggiorno nella casa, con una data di scadenza ben precisa. Per Luciana il fatto che questo suo soggiorno venisse fissato con una cifra e con una scadenza non piacque e ce lo disse. Ci disse una sera che a lei non piaceva che lo stare con noi fosse

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una questione di soldi e la data per lei non sarebbe contata niente, sarebbe rimasta finché sentiva che noi le volevamo bene. Parlammo a lungo, anche noi eravamo in parte d’accordo, certo che i soldi non sarebbero stati la cosa importante come sembrava dal contratto, ma la serenità e la voglia di stare insieme. Anche questo periodo fu importante per Luciana, la sentivamo sempre più inserita nella nostra famiglia, però con un atteggiamento qualche volta critico nei nostri confronti, sembrava (da parte sua) che stare con noi fosse quasi un obbligo, visto che in fondo ci pagavano e noi dovevamo accettarla come si comportava, qualche volta con provocazioni e dicendoci dei bei no. Ogni problematica che si presentava era consuetudine per noi, io e Bruno, affrontarla subito con chiarimenti e discussioni che duravano anche più giorni. Devo dire che sempre abbiamo avuto aiuti preziosi con telefonate e colloqui con uno psicologo e psichiatra, divenuti poi cari amici e frequentatori della nostra casa. Luciana a poco a poco si trasformava anche fisicamente, con la nostra cucina a base soprattutto di verdure e cereali integrali, aveva cambiato anche il colore della pelle e gli occhi erano più vivaci. Andavamo al cinema, in sala non dormiva più come una volta, alla sagra, a pranzo da amici e quasi sempre dove andavamo c’era anche lei. Passammo anche qualche giorno di vacanza in montagna con le figlie e i nipotini. Trascorso quasi anche il 2003 si avvicinava la scadenza del contratto, ci sembrava che Luciana fosse pronta per vivere con una sua autonomia nella casa paterna o da sola, ma si presentò per tutti un grosso problema: la malattia e la morte del padre. Ora che era più serena, aveva finito la scuola, si era ben inserita nell’ambiente di lavoro, anche con noi il rapporto cresceva sempre piano piano, nel senso che era sempre più tra persone adulte, la malattia del padre fu veramente un fulmine a

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ciel sereno. Aveva degli svenimenti, dolori alla testa e perdita di equilibrio: diagnosi tumore al cervelletto. Nessuno é mai preparato quando arriva un male improvviso, si rimane fermi a pensare e a voler capire se è proprio a noi che succede. Luciana lo portò a tutte le visite specialistiche, lo seguì anche con la terapia farmacologica, ci diceva che lui era un po’ ribelle e nervoso, forse era il male che stava diventando insopportabile. Noi cercavamo di sostenerla ed aiutarla il più possibile, andavamo spesso a far visita a questo malato difficile che non accettava la sua malattia. Passò tutta l’estate anche del 2004, sembrava che le cure mediche avessero fermato un po’ il male, tanto che dall’ospedale vollero dimetterlo. Al più presto cercammo con Luciana una casa di riposo perché a casa propria anche con lei non sarebbe stato possibile fare l’assistenza che necessitava. In ottobre però la malattia diventò grave e purtroppo dopo poche ore di agonia morì a 74 anni. Bruno si prese l’incarico di tutte le pratiche funerarie, sempre con Luciana vicino perché lei voleva sapere la spesa e come fare per il meglio per quanto riguardava il loculo in cimitero, la cassa, i vestiti da mettere al papà ecc. ecc. Luciana era diventata veramente una persona responsabile, si discuteva e si trovava la soluzione per tanti problemi riguardo alla casa del padre, di cui, ora stava prendendo coscienza, diventava lei responsabile della totale conduzione e che da quattro anni non sentiva più tanto familiare. Il lutto fu un periodo difficile per tutti, Luciana aveva capito che non era il caso di infierire, quando si parlava del papà, con colpe o cose non fatte verso di lui, cercammo nel miglior modo possibile di essere positivi e di trovare delle qualità forse mai scoperte dai figli. La scadenza del contratto si avvicinava per Luciana nel mese di febbraio e anche l’urgenza di andare ad abitare da sola nella casa paterna, chiusa e tutta da sistemare. Fu un grosso lavoro perché

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il papà per più di un anno non aveva potuto tenere bene la casa essendo malato, dunque c’erano cose e vestiti da sistemare in ogni stanza, un lavoro che a tutt’oggi non é ancora finito. Luciana si dà da fare, nonostante la fatica dei turni di lavoro, lentamente ogni giorno fa qualcosa di cambiamento e di ordine. Ha piantato molti fiori nel giardino con bellissimi colori. Bruno l’aiuta molto per quanto riguarda il giardino e io partecipo con tanti consigli, perché Luciana è un po’ gelosa delle sue cose, attendo con pazienza che mi chieda di aiutarla più concretamente. Ci sentiamo per telefono ogni giorno e ci vediamo quasi ogni giorno. Luciana ormai fai parte della nostra famiglia, e sentiamo che l’affetto che abbiamo per te é forte e sicuro, non devi aver paura che finirà. Mi piace una frase che ho letto: “Non vale la pena di vivere se non sei l’amore di nessuno” per ora ci siamo io e Bruno, chissà che un giorno non lontano, te lo auguriamo di cuore, incontri l’amore che tu desideri, cioè un marito che ti renda felice per tutta la vita .

Ancora auguri Luciana!

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Lettera di Luciana alla famiglia affidataria

Per Anna e Bruno In questi giorni essendo indisposta, affido queste poche righe ad anna e bruno, persone che considero speciali. Arrivata da loro mi hanno accolto, con loro mi sono sentita veramente amata e capita, con il loro aiuto sono diventata la persona che sono adesso, di sicuro diversa da quando li ho conosciuti. Per tutto quello che hanno fatto, e ancora stanno facendo, li voglio ringraziare. Questa esperienza è stata importante perché amandoci, credendo, restando insieme si può andare oltre il male. Luciana 08 giugno 2006

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Frammenti di pensieri sull’esperienza dell’accoglienza familiare La voce dei protagonisti L.

“ Sono L. vengo da Mogliano e sono stata ospitata dalla famiglia M.…….”

“Io vengo da un ambiente malato, mia madre era malata e in casa non c’era un ambiente sano. La mia dottoressa mi ha consigliato di andare via, all’inizio è stato molto difficile. Ero lontana da casa e dai miei amici di cui sentivo la mancanza. Io lavoravo in una stireria ma ho cominciato a stare male e quindi inizialmente mi hanno consigliato la comunità, dopo ho incontrato la famiglia M. ci siamo presentati a poco a poco e dopo sono andata da loro anche se pensavo che fosse per poco tempo. Adesso ho concluso e sono guarita. Ho 32 anni. Adesso sono un’operatrice.”

Ora:” Desidero avere un figlio, credo sia la cosa più

bella.”

A.

“Sono contento di fare il passaggio in questa famiglia. Io ascolto gli operatori, fa parte del mio comportamento e della mia divisa. Sento l’affetto del gruppo. Non voglio lasciare il gruppo, se non litigo. Il passaggio implica la parte riflessiva. Sono andato a cena per conoscere questa famiglia. Mi sono sentito in una famiglia con affetto, una cupola. Ti vogliono bene.”

“Non mi va tanto bene. Non so perché. Sono siciliani, io

sono trevigiano e quando parlano non li capisco. Mi fanno una testa così. Parlano in siciliano e non parlano in italiano.

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Insomma la verità l’ho detta. Io non li capisco .Anche i figli parlano in siciliano.”

“ sono trevisano loro sono siciliani adesso riesco a capirli..io la chiamo mamma l’Anna Maria, vado bene, mi faccio il letto, porto fuori il cane, vado in bicicletta, mi sento fortunato…il mio cane che ho in affido va d’accordo con il loro…il cane mi è stato regalato dallo zio …il medico mi ha ridotto le pastiglie…..

L.

”Mi chiamo L. ho partecipato a questo gruppo perché mi sembrava costruttivo e l’ho considerato una terapia, sono un po’ in crisi perché mi sto scontrando con la Maria Pia e mia madre”

“…mia madre mi ha detto che prendo sempre un

sacco di farmaci e butto giù di tutto ma in fin dei conti sto facendo la cura,non è possibile andare d’accordo con quella donna ma più lei mi scaccia più mi avvicino. Le voglio bene, forse mi fa anche bene non diventare una mammona attaccata alle sue gonne però poi se non mi attacco a lei mi attacco alla dottoressa”.

“Sono come una lumaca che spunta fuori dal guscio”

“Io vedo che ci sono delle persone che si scomodano per me ultimamente e mi dispiace deluderli.”

…”Dopo sono andata dalla Maria Pia e spero che

mi tenga ……spero che mi rinnovino il contratto per altri 6 mesi fino a maggio , vado 3 volte a settimana e

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mi fermo anche a dormire. Io ho pensato che andare li un'altra settimana: è meglio andare per un mese o due ….. ho paura di attaccarmi e staccarmi che diventi rognoso…… Magari torno a casa che sono anche più contenta.”

“Penso che deve essere una brava signora che si impegna a tenere me perché non sono tanto facile. Se un giorno avrò bisogno di qualcuno che mi da una mano lei potrebbe farlo. La Maria Pia mi ha detto che vuole insegnarmi a essere indipendente”

“io devo imparare da mia zia a vivere come ha vissuto lei senza uomini infatuata e basta……se si sente male è da sola a casa per conto suo e deve fare il 118 . Ha un fegato a stare per conto suo a 88 anni io mi farei accudire da una badante: l’importante è stare con qualcuno”.

Vi ha fatto del bene quest’esperienza?” “Si, è stata una goccietta, anche più di una

goccietta. Però non è ancora arrivato il momento che sto bene.”

M.

“All’inizio è stata una rottura bisognava conoscerci….. il mio stato d’animo era critico ero sulle mie…e dopo con l’aiuto della signora Anna e del signor Antonio e soprattutto dei ragazzi della famiglia sono stato meglio. Quando ho un problema parlo con lei come se fosse mia zia; sono bravissime persone, Lei come se fosse mia mamma. Ho fatto discorsi su qualsiasi argomento; erano 3 ragazzi e due coniugi e insieme

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giocavamo alla play station -…..se mi vedevano giù mi aiutavano”.

: “Avevo il vizio di bere per la mancanza (???)....adesso lavoro e vivo in un alloggio con un amico della Cooperativa a Motta”.

“ L’affido: è stata una bella esperienza adesso lavoro e non bevo più….” M. "Siamo andati a mangiare in piazza c'era la gente che si divertiva, oggi a pranzo mi hanno coccolato , mi sentivo sola, sentivo vuoto dentro di me."

“ ..oggi mi è venuta in mente mia madre e le ho telefonato

…mi risponde sempre con lo stesso tono…Io non so se mia madre mi vuole bene. Mio fratello è morto in un incidente stradale, i marocchini gli sono andati addosso ,mio fratello mi ha fatto capire che doveva morire in un incidente quando hanno ricoverato mio padre, me lo ha fatto capire prima.”

M.

”Posso parlare un po’ di me? La Paola tempo fa mi abbracciava ed era affettuosa con me, mi dava un bacino prima di andare a letto. Mi sembra che mi voglia meno bene di tempo fa anche se io lavoro tutto il giorno in comunità a Susegana e torno a casa alla sera. Ho bisogno di qualcuno che mi vuole bene.

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“In comunità ti insegnano a fare altre cose come il

presepe o la ceramica. Si lavano i piatti, si fa tutto. Ci sono delle regole. Dalla Paola è diverso, in comunità vai per guarire, in cerca di un aiuto. In famiglia è meglio, è un’altra cosa. Vai fuori, al cinema. Giochiamo. A me poi piace molto ballare.”

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ELEMENTI DI CRITICITÀ E PERPLESSITÀ Dott. Massimo Semenzin Responsabile Struttura Complessa U.O.A. di Oderzo del Dipartimento di Salute Mentale dell’Az. Ulss n. 9 di Treviso, psichiatra referente per lo IESA dal 2007 Il progetto di Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti così come è stato descritto rappresenta senza dubbio un modalità innovativa di presa incarico degli utenti. Emergono, da alcune riflessioni fatte nel gruppo di lavoro nel periodo successivo al convegno, alcune criticità che cercheremo di delineare sia in senso “spaziale” ovvero considerando il punto di vista dei vari attori coinvolti nel progetto, sia in senso “temporale” ovvero considerando il percorso in senso diacronico e suddividendolo in un prima, durante e dopo. Prima di iniziare un percorso di Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti riteniamo sia di fondamentale importanza un accurato lavoro di preparazione e di condivisione. Vi potrebbero essere negli operatori dei dubbi sia sulla filosofia che sulla fattibilità del progetto ritenendolo troppo innovativo o troppo complesso e comunque di difficile realizzazione. A questo si aggiungono delle perplessità riguardo l’impiego delle risorse sia in termini di impegno personale sia in termini economici. Riteniamo che si debba riuscire a rendere appetibile il progetto attraverso un capillare coinvolgimento degli operatori. Questo per vincere lo scetticismo che spesso emerge nei confronti di tutto ciò che viene presentato come innovativo e non facente parte delle consuete pratiche cliniche. Ben conosciamo come non solo tra gli utenti ma anche tra gli operatori vi sia una diffusa resistenza al cambiamento e una difficoltà nel confrontarsi con qualcosa di nuovo che spesso viene percepito semplicemente come un ulteriore impegno rispetto a quello che già si fa e che nulla aggiungerebbe se non una fatica in più. Il confrontarsi con la novità sia essa una

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pratica clinica non comune o semplicemente un nuovo trattamento farmacologico evidenzia molte volte la staticità e la poca flessibilità presente all’interno del gruppo dei curanti. Siamo convinti che lo sforzo maggiore che ci viene richiesto nella terapia del lungo termine, è di inventare qualcosa fra due persone, cogliendo l’irripetibilità delle esperienze che ci vengono proposte. Nonostante questo pensiero sia presente nella maggior parte degli operatori spesso ci accorgiamo che la nostre pratiche cliniche si ripropongono immutate nel tempo generando una ripetitività monocorde impietosamente sottolineata nei diari delle cartelle cliniche da pagine e pagine di: “situazione stazionaria”. Il primo sforzo, pertanto, che un gruppo di lavoro deve intraprendere è quello relativo alla convinzione e alla condivisione di un progetto. In tal senso sembrano essere incoraggianti sia i dati forniti dalla letteratura relativi all’ Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sia le esperienze condotte in altri Dipartimenti di Salute Mentale. Per quel che riguarda gli utenti le difficoltà che riteniamo di dover evidenziare riguardano soprattutto tre aree. Innanzi tutto l’essere accolti in un’altra famiglia potrebbe essere vissuto dal paziente come un forma di tradimento rispetto alla famiglia di origine con conseguente difficoltà di ambientamento e desiderio, almeno nelle fasi iniziali, di ritornare nel nucleo originario. Il secondo punto è relativo alla paura che potrebbe esserci nel confrontarsi con il nuovo e con qualcosa di sconosciuto: nuova casa, nuove abitudini, nuove persone, nuove relazioni. Infine l’ultima perplessità che potrebbe essere presente negli utenti riguarda il fatto di entrare in un percorso non istituzionalizzato. I nostri utenti ben conoscono i percorsi della cura e gli operatori interessati in tali percorsi. Nel corso del tempo hanno sviluppato un sensibilità in tal senso che permette loro di capire e scegliere ciò che maggiormente si attaglia alla loro sofferenza. L’ Inserimento Eterofamiliare Supportato di

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Adulti rappresenta anche da un punto di vista istituzionale qualcosa che non è compreso nelle consuete pratiche che sono familiari agli utenti. A questo punto ci sembra importante indicare quali possano essere le difficoltà che potrebbero esserci nelle famiglie, sia in quelle accoglienti che in quelle di origine. Le difficoltà con le famiglie accoglienti possono essere sintetizzate in quelle che sono le idee e le convinzioni che ci sono nella popolazione generale e riguardano i ben conosciuti temi relativi al pregiudizio, alla pericolosità e alla imprevedibilità del paziente con disagio mentale. Non ci sembra questa la sede opportuna per un approfondimento di tale tematica che comunque non si può pensare non possa essere tenuta in considerazione. Per quel che riguarda le famiglie di origine pensiamo all’idea che queste ultime potrebbero sperimentare un sentimento di inadeguatezza/svalutazione di difficile elaborazione. Abbiamo visto in sintesi quali potrebbero essere le criticità presenti prima di iniziare un percorso di inserimento etero familiare negli operatori, negli utenti e nelle famiglie accoglienti e di origine. Passiamo ora a considerare ciò che potrebbe succedere in itinere. Innanzi tutto la difficoltà tra gli operatori e in primis l’eterno problema della comunicazione. Quando un utente entra in un percorso IESA la comunicazione tra l’equipe referente del caso e il gruppo che si occupa dell’inserimento in famiglia deve essere ancora più stretta del solito vista la particolarità del progetto. Ovviamente il tema della comunicazione tra aree diverse di uno stesso servizio è un problema annoso e diffuso che interessa un po’ tutti. Non è infrequente assistere a comunicazioni distorte, imprecise o addirittura mancanti tra colleghi e operatori. Evidentemente questo trascina con sé tutta una serie di criticità che riguardano la necessità di collaborazione tra operatori e la fiducia reciproca con un

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comunità di intenti e di entusiasmo per un progetto sicuramente innovativo che deve essere condiviso con forza e che richiede, pertanto, una ottima collaborazione tra gli operatori che possono appartenere ad aree e servizi diversi. Si potrebbe assistere, invece, ad una reciproca delega relativa alla presa in carico del paziente che spesso ha come risultato la paralisi e il fallimento del progetto con conseguente rinforzo delle proprie convinzioni e previsioni. Ma durante il percorso di inserimento etero familiare non poche possono essere le difficoltà che si potrebbero presentare con gli utenti. Infatti si tratta di un percorso nuovo, non istituzionalizzato che prevede una nuova modalità di assistenza, sicuramente maggiormente creativa ma per questo anche più indefinita e meno standardizzata che deve essere calibrata e rimaneggiata in continuazione. Frequenti possono essere i cambi di rotta, i momenti critici, gli aspetti nuovi da considerare che sottopongono pazienti e operatori ad un continuo confronto e riassestamento. Si tratta in fin dei conti di un nuovo progetto di vita che può essere destabilizzante, allo stesso tempo desiderato e temuto. Quale deve essere quindi il tipo di supporto e con quale frequenza ed intensità va fornito? Ovviamente non può esservi una risposta valida e univoca per ogni caso ma di volta in volta si dovrà trovare la soluzione migliore e la più percorribile. Ma forse i problemi maggiori possono presentarsi nel periodo di inserimento con le famiglie. Sicuramente la famiglia di origine potrebbe sperimentare tutta una serie di sentimenti ed emozioni che andranno accuratamente presi in considerazione come la rabbia e l’aggressività nei confronti del Servizio ritenuto responsabile del progetto; la competitività rispetto alla famiglia affidataria e la contrapposizione con essa avente come teatro di scontro indiretto il Servizio con possibili movimenti di scissione all’interno dell’equipe; difficoltà di riconoscere i progressi del proprio congiunto attraverso aspetti svalutativi e minimizzanti e

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infine l’invidia per le risorse messe in campo sia di tipo economico sia assistenziali e relazionali da parte del Servizio. Per quel che riguarda le difficoltà con le famiglie affidatarie due ci sembrano da evidenziare. Quale tipo di aiuto, consulenza, supporto si deve fornire? Così come non tutti gli utenti sono uguali così anche le famiglie affidatarie sono profondamente diverse una dall’altra. Vi saranno famiglie che naturalmente possiedono una modalità empatica e una capacità di accoglienza e di accudimento oltre ad una specifica tolleranza e un’idea non pregiudiziale della salute mentale. Vi saranno famiglie invece dotate di una minore “autonomia” in cui sarà necessario costantemente intervenire e che dovranno essere sostenute attraverso un monitoraggio continuo e personalizzato. Infine si pone anche un problema di carattere medico legale relativo al segreto professionale ovvero che cosa può o non può essere rivelato alla famiglia affidataria? Non è un tema quest’ultimo di poco conto! Per ultimo ma non da ultimo il problema forse di più difficile gestione ovvero la fase conclusiva e il dopo un percorso di inserimento etero familiare. Senza volerci addentrare in tematiche complesse relative alla separazione che implicherebbero considerazioni di carattere, a nostro avviso, squisitamente psicodinamico riteniamo che in questa fase l’impegno del gruppo di lavoro debba essere se possibile ancora più attento e collaborativo. Questa, infatti, è probabilmente la fase più delicata in cui tutto il lavoro precedentemente svolto deve trovare il coronamento. Vi può essere il rischio che tutto ciò che è stato fatto e i progressi ottenuti vengano in breve tempo persi se non si prepara adeguatamente la fine del percorso ed il passaggio ad una nuova modalità assistenziale. La gestione della separazione interessa tutti gli attori protagonisti del percorso tracciato: l’utente, le famiglie (affidataria e di origine), gli operatori del Centro di Salute Mentale e gli operatori del gruppo IESA sono sicuramente

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coinvolti in prima persona ma anche i nuovi soggetti e le agenzie impegnati in una adeguata costruzione di una “rete” che garantisca all’utente una nuova possibilità e opportunità di cittadinanza. Ecco quindi che l’ Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti rappresenta un lungo ponte verso una sempre maggiore autonomia degli utenti. Un percorso complesso e articolato che come abbiamo visto può presentare difficoltà ed intoppi ma che sicuramente è una modalità innovativa di presa in carico e una possibilità nuova per gli utenti. In fin dei conti come dice A. Einstein “Follia è fare sempre le stesse cose e aspettarsi risultati diversi”.

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ALLEGATI

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DELIBERA DI ATTIVAZIONE DEL PROGETTO I.E.S.A. Relaziona il Direttore del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) in accordo con il coordinamento dei Distretti e il Direttore dei Servizi Sociali: “Con deliberazione n. 2754 del 04/11/99 è stato disposto di recepire gli indirizzi regionali di cui alle DGRV n. 1488/99 e n. 3407/99, dove vengono distinti, nell’area della salute mentale, progetti riferiti alla prevenzione primaria (progetto 4A), secondaria (progetto 4B), terziaria (progetto 4C); nell’ambito della prevenzione secondaria (progetto 4B) è stato costituito un gruppo di lavoro pluriprofessionale con il compito di predisporre uno studio di fattibilità per realizzare un progetto sperimentale di inserimento eterofamiliare supportato di adulti (c.d. affido); per Inserimento eterofamiliare supportato di adulti (I.E.S.A.), si intende una modalità abilitativa abitativa alternativa al ricovero in istituzioni chiuse o in strutture intermedie quali le Comunità Terapeutiche Residenziali Protette (CTRP) o le Comunità Alloggio (CA) e complementare ad altre soluzioni extra-istituzionali quali i Centri Diurni (CD), rivolta ad utenti in carico ai Servizi Psichiatrici Territoriali del DSM; l’inserimento ha lo scopo di offrire alla persona con disabilità psichiatrica un contesto relazionale/affettivo idoneo a promuovere il suo benessere psico-fisico nel caso la famiglia di origine ed i parenti si trovino nell’impossibilità e/o difficoltà di provvedervi o nel caso di loro assenza. Le parti attive di questo processo riabilitativo sono in sostanza tre: l’Ulss 9 (tramite il DSM), l’affidato (l’utente), l’affidataria (la famiglia ospitante); il gruppo è stato costituito da: • coordinatrice del servizio sociale del DSM dr.ssa G. Bressaglia, • responsabile della UOT n 2 dr. T. Meneghel, • case manager dell’A.T.I. Restituire sezione di Oderzo dr. Mauro

Battiston e dr. Valter Carniello, • dirigente amministrativo del DSM dr.ssa A. Da Re; tale gruppo, che ha iniziato a lavorare a maggio 2000, ha verificato in loco alcune esperienze significative realizzate in Toscana (a Lucca), in Friuli (a Udine) ed in Piemonte (a Collegno): le esperienze di affido di pazienti psichiatrici presso famiglie private diverse da quella d’origine si sono dimostrate un’alternativa all’istituzionalizzazione con significativi vantaggi quali: buon tasso di riabilitazione in favore di vita più autonoma; miglioramento dei comportamenti maladattivi del paziente; miglior qualità della vita; risparmio economico rispetto altre soluzioni abitative; buon tasso di riduzione della terapia farmacologica; buon livello d’integrazione con la società/comunità del territorio;

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Le famiglie ospitanti saranno realtà selezionate e appositamente formate, dove l’ospite potrà instaurare relazioni significative tali da contribuire al miglioramento delle condizioni psichiche, all’integrazione sociale ed a promuovere le potenzialità inespresse. Il ruolo essenziale della famiglia ospitante è innanzitutto di mediatore affettivo, di modello di identificazione maturativo per il paziente, ma anche quello di consentire l’osservazione del soggetto in una dimensione diversa da quella sanitaria, permettendo comprensione e risposte non istituzionali alle difficoltà che il soggetto esprime. La disponibilità delle famiglie sarà verificata attraverso la pubblicizzazione dell’iniziativa mediante la rete dei servizi sociali e sanitari, ma anche utilizzando la rete informale rappresentata da associazioni, volontariato e singoli cittadini. il gruppo di lavoro ha prodotto l’allegata documentazione dalla quale si evince la necessità di costituire un servizio dipartimentale I.E.S.A. a supporto delle Unità Operative Territoriali; tale Servizio, sotto la responsabilità del Direttore del DSM, ha le seguenti funzioni: - sensibilizzazione rivolta alla popolazione, alle famiglie, alle

associazioni interessate, sui bisogni delle persone con disabilità psichiatrica e sulle potenzialità dell’inserimento eterofamiliare;

- reperimento e selezione delle famiglie disponibili all’accoglimento di disabili psichici;

- predisposizione di una banca dati; - formazione delle famiglie coinvolte; - selezione dei soggetti destinatari proposti dalle U.O.T. - abbinamento tra famiglia e soggetto interessato; - consulenza/supporto al lavoro delle UOT cui l'affidato resta

comunque in carico e alle famiglie affidatarie nell’attivazione e nella conduzione dei progetti ri abilitativi individuali;

- verifica e relaziona annualmente al Direttore del DSM sull’andamento e sugli esiti del servizio.

il servizio IESA, coordinato dall’Assistente Sociale coordinatore, responsabile del coordinamento del servizio sociale dipartimentale, dovrà essere composto da: uno Psichiatra, 2 professionisti che abbiano acquisito esperienza in modo particolare nell’ambito dei processi di rete del territorio, del privato sociale, del mix pubblico/privato sociale, con conoscenza del territorio ed esperienza formativa nel settore dell’inserimento eterofamiliare di adulti e nella gestione delle dinamiche familiari degli stati psicologici degli individui, 1 Educatore Professionale, 1 Collaboratore Amministrativo;

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i costi derivanti dall’istituzione del Servizio IESA derivano in gran parte dalla necessità di reclutare a contratto per due anni (tempo stimato per la sperimentazione di tale modalità di assistenza che non rientra nei modelli classici di riabilitazione istituzionale) le seguenti professionalità, non presenti nella dotazione organica del DSM: • due professionisti a 18 ore settimanali ciascuno, aventi l’esperienza di

cui sopra: si individuano i nominativi dei dottori. Mauro Battiston e Valter Carniello, già facenti parte del gruppo di lavoro del progetto di cui trattasi;

• un collaboratore amministrativo in possesso di diploma di laurea in giurisprudenza che si occupi degli aspetti giuridico amministrativi legati alla progettualità innovativa di cui trattasi,

costi che si stimano complessivamente in euro 76.177,39 (£.147.500.000) annue; altri costi derivano dalla necessità di corrispondere alle famiglie affidatarie un rimborso spese per l’ospitalità di max euro 1.291,14 (£. 2.500.000) al mese per utente se l’ospitalità è sulle 24 ore con contratto ad alta intensità; prevedendo n. 8 inserimenti all’anno, 4 sulle 24 ore, 4 sulle 12 ore, il costo annuo per i rimborsi spese si aggira attorno a euro 92.962,24 (£.180.000.000), salvo il caso di compartecipazione dell’utente, secondo le disposizioni normative che potranno nel corso del tempo intervenire; altro costo previsto è quello per la pubblicazione nei giornali degli avvisi di reclutamento delle famiglie che si stima attorno alle euro 7.746,85 (£.15.000.000) e quello relativo alla stampa di depliant illustrativi del progetto che si stima attorno a euro 2.065,82 (£.4.000.000); ipotizzando l’avvio del progetto in questione nel mese di luglio p.v., i costi a carico del bilancio sanitario per il 2002 sono preventivabili in complessivi euro 68.559,65 (£. 132.750.000) di cui euro 38.088,69 (£. 73.750.000) per il personale da reclutare a contratto, euro 9.812,68 (£.19.000.000) per pubblicizzare l’iniziativa, euro 20.658,27 (£.40.000.000) per il rimborso spese alle famiglie, ipotizzando che a partire dal mese di settembre p.v. possano realizzarsi n.4 inserimenti sulle 24 ore o 3 sulle 24 e 2 sulle 12 ore; con nota n.12473 del 6 marzo 2002, la Direzione Regionale Programmazione Socio Sanitaria ha comunicato che con deliberazione di Giunta n.3568 del 21.12.2001, la Regione ha disposto l’approvazione della liquidazione a questa Azienda dell’importo di euro 682.604,10 (£.1.321.705.838), per l’attuazione degli obiettivi prioritari del Progetto Obiettivo Tutela Salute Mentale (DGRV n. 4080/2000); nella citata nota si esplicita che il finanziamento di cui sopra, la cui liquidazione avverrà tramite le ordinarie procedure per le assegnazioni di F.S.R., può essere utilizzato anche per forme innovative e modalità

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sperimentali di assistenza valutate percorribili a livello locale “(ad es., progetti di inserimento eterofamiliare supportato di adulti, inteso come una modalità abilitativa/abitativa alternativa al ricovero in istituzioni chiuse o in strutture intermedie quali Comunità Terapeutiche Residenziali Protette (CTRP), o Comunità Alloggio e Appartamenti Protetti (C.A./A.P) o complementare ad altre soluzioni extra istituzionali quali i Centri Diurni (C.D) rivolte ad utenti in carico a equipe psichiatriche territoriali del DSM)”; in sede di predisposizione dell’impegno di spesa per il progetto di cui trattasi, deve essere tenuto presente, oltre al finanziamento da ultimo citato, anche che con il rinnovo del “Progetto Restitutio” area RSA e DSM, disposto con deliberazione n.35 del 17.01.’02, si è ricavato un risparmio di spesa complessivo (per un biennio), di euro 168.351,97 (£. 325.974.886); si propone pertanto, con il presente atto, di approvare il progetto di inserimento eterofamiliare e gli atti conseguenti, conferendo al provvedimento da adottare l’immediata eseguibilità, stante l’urgenza di attuare il progetto di cui trattasi per gli utenti del territorio del DSM”;

IL DIRETTORE GENERALE letta la sovrillustrata relazione; ritenuto di condividere quanto ivi esposto; visto il decreto leg.vo 30.12.1992 n. 502 e successive modificazioni ed integrazioni; visto il D.P.R. 10.11.1999 riguardante l'approvazione del progetto obiettivo "Tutela della Salute Mentale 1998-2000"; vista la nota n.12473 del 6 marzo 2002, della Direzione Regionale Programmazione Socio Sanitaria; vista l'attestazione con cui il direttore e il dirigente amministrativo del Dipartimento di Salute Mentale attestano la regolarità procedimentale dell'istruttoria svolta sulla base della vigente legislazione statale e regionale; acquisito il parere favorevole dei Direttori Amministrativo, Sanitario e dei Servizi Sociali, ciascuno per la parte di rispettiva competenza,

DELIBERA

per quanto espresso in premessa e qui puntualmente richiamato, 1. di approvare il progetto “Inserimento Eterofamiliare Supportato di

Adulti (I.E.S.A.) e gli atti conseguenti, facenti parte integrante della

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presente deliberazione, autorizzando pertanto la costituzione, nei modi e con le professionalità indicati in premessa, del relativo servizio I.E.S.A. nell’ambito del DSM;

2. di autorizzare la spesa per il finanziamento del progetto che per un biennio si stima di complessive euro 348.091,94 (£.674.000.000 di cui euro 99.159,72 £.192.000.000 per il reclutamento con contratto a tempo determinato delle professionalità tecniche in premessa specificate, n.18 ore settimanali ciascuno, euro 53.195,06, £.103.000.000 per un collaboratore amm.vo a tempo pieno, euro 185.924,48, £.360.000.000 per rimborso spese alle famiglie affidatarie ed euro 7.746,85, £.15.000.000 per la pubblicazione nei quotidiani di avvisi di ricerca di famiglie affidatarie ed euro 2.065,82, £. 4.000.000 per la stampa di depliant illustrativi del progetto);

3. di impegnare, a carico del conto 690705 del budget sanitario 2002, la spesa complessiva di euro 68.559,65 (£. 132.750.000) di cui euro 38.088,69 (£. 73.750.000) per il personale da reclutare a contratto, euro 9.812,68 (£.19.000.000) per pubblicizzare l’iniziativa, euro 20.658,27 (£.40.000.000) per il rimborso spese alle famiglie, ipotizzando che a partire dal mese di settembre p.v. possano realizzarsi n.4 inserimenti sulle 24 ore o 3 sulle 24 e 2 sulle 12 ore;

4. di riservarsi di impegnare, a carico del budget finanziario 2003, la spesa complessiva di euro 169.139,63 (£. 327.500.000), di cui euro 76.177,39 (£.147.500.000) per il personale ed euro 92.962,24 (£. 180.000.000) per rimborsi spese alle famiglie affidatarie);

5. di riservarsi di impegnare, a carico del budget sanitario 2004 la spesa complessiva di £ euro 110.392,66 (£.213.750.000) di cui euro 38.088,69 (£. 73.750.000) per il personale a contratto, euro 72.303.96 (£.140.000.000) per il rimborso spese alle famiglie,

6. di trasmettere il presente provvedimento al Servizio Affari Generali perché provveda ad integrare la polizza assicurativa aziendale RCT a tutela dell’amministrazione per gli eventuali danni che gli utenti del DSM inseriti in famiglie affidatarie potrebbero arrecare alle stesse e a terzi;

7. di trasmettere il presente provvedimento al Servizio Convenzioni per il perfezionamento delle procedure necessarie al reclutamento delle professionalità necessarie per l’attuazione del progetto di cui trattasi, due delle quali in premessa individuate nelle persone dei dottori Mauro Battiston e Valter Carniello;

8. di conferire al presente atto l’immediata eseguibilità ai sensi di quanto disposto dal D. Leg.vo n.267/2000 così come richiamato con deliberazione del Direttore Generale n.19 del 18.01.2001.

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PROGETTO DI MASSIMA

INSERIMENTO ETEROFAMILIARE SUPPORTATO

DI ADULTI

INTRODUZIONE Nel campo della salute mentale, in particolare a partire dalla necessità del superamento dei residui psichiatrici, si sono favoriti nuovi interventi per la prevenzione e la cura del disagio psichico, basati su interventi territoriali sempre più inseriti nel tessuto sociale delle comunità locali. Delle molte strade percorribili, le esperienze di affido di pazienti psichiatrici presso famiglie private diverse da quella d’origine si sono dimostrate un’alternativa all’istituzionalizzazione con significativi vantaggi quali: buon tasso di riabilitazione in favore di vita più autonoma; miglioramento dei comportamenti maladattivi del paziente; miglior qualità della vita; risparmio economico rispetto altre soluzioni abitative; buon tasso di riduzione della terapia farmacologica; buon livello d’integrazione con la società/comunità del territorio. SINTESI STORICA Le prime tracce di inserimento eterofamiliare vengono fatte risalire al XIII secolo d.c. in Belgio a Geel. Nei secoli a seguire questa pratica si è diffusa in diverse altre nazioni tra le quali Francia, USA, Olanda, Svizzera, Norvegia, Svezia, Austria, Russia, Germania, Canada, Scozia, Giappone, Finlandia, Inghilterra. Anche in Italia l’inserimento eterofamiliare ha avuto il suo esordio tra 1896 e il 1920 in Toscana, Umbria, Marche, Emilia Romagna. Nell’ambito del “Congresso Internazionale sull’Assistenza degli Alienati” svoltosi a Milano nel 1906, l’inserimento eterofamiliare veniva descritto come segue: “… per una parte non irrilevante di bisognosi d’assistenza l’inserimento eterofamiliare rappresenta la migliore, più

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naturale, libera ed economica forma di alloggiamento e costituisce, in base a queste caratteristiche, un importante strumento di guarigione …”. Il celebre caso di Geel, paese vicino Bruxelles, un borgo contadino dove fin dal medioevo e poi lungo i secoli successivi gli abitanti erano abituati a fare gli “operatori extraclinici”, rischiò di mandare a gambe all’aria la nascente psichiatria che si affrettò a considerare l’esperienza, secondo le parole di Brierre de Boismont nel 1852 (Edizioni Gruppo Abele, 1995) come inimitabile e irripetibile. “… C’est incroyable …”, ammette il famoso intellettuale illuminista francese Esquirol allievo di Pinel, “… i due terzi della popolazione sono matti ma girano liberamente per la campagna senza che gli altri ne abbiano paura …”. L’esperienza di Geel viene presentata nella storia della psichiatria come primo esperimento di affidamento familiare. In realtà è di tipo ben diverso da come lo pensiamo noi oggi: il modello delle “colonie agricole” è essenzialmente la psichiatrizzazione di un villaggio agricolo per fini economici. Tale esperienza è però interessante perchè dimostra ante litteram come anche i non professional possano ottenere risultati molto positivi tali da innescare meccanismi di difesa da parte del potere istituzionale. Può essere interessante distinguere le caratteristiche di due modelli tipo, quello francese e quello americano. Nell’esperienza statunitense il cosiddetto malato di mente è visto essenzialmente come un consumatore che ha bisogno di alcuni servizi per bisogni a cui non riesce o non può rispondere automamente. 1) Il servizio sociale sanitario costruisce allora una serie di offerte, tra le quali l’utente sceglie, 2) mette a contatto la domanda con l’offerta, 3) eventualmente sussidia l’utente nel caso sia indigente, 4) svolge poi un ruolo di garanzia, preoccupandosi che le offerte corrispondano alle promesse, 5) le due parti stipulano un contratto tra di loro, 6) il

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servizio tende a favorire un associazionismo tra le famiglie, delegando loro, almeno in parte, una funzione di controllo, ed eventualmente ad attivare anche un associazionismo dell’utenza. Nell’esperienza francese è esattamente l’opposto. La famiglia affidataria è vista come una propaggine del servizio, viene selezionata e supportata dall’équipe medico psicologica (il modello teorico di base resta quello psicodinamico), la formazione e il supporto delle famiglie vengono pagati direttamente col prix de journée ospedaliero. ORGANIZZAZIONE Per Inserimento Etero Familiare Supportato di Adulti si intende, nello specifico dell’area della salute mentale, una modalità alternativa al ricovero in istituzioni e complementare ad altre soluzioni extra-istituzionali rivolta ad utenti in carico ai servizi psichiatrici. Le parti chiamate in causa per la realizzazione di questo tipo di servizio sono sostanzialmente tre: a) i soggetti per i quali è previsto l’inserimento; b) le famiglie ospiti (che non coincide con la famiglia biologica); c) il D.S.M. (che può avvalersi eventualmente anche del mix pubblico-privato sociale con il quale intrattiene rapporti contrattuali). a) I soggetti che possono beneficiare di tale progetto sono

persone già in carico alle Unità Operative Territoriali del DSM dell’Azienda Ulss di Treviso che si trovano nelle seguenti situazioni:

-soggetti giovani resistenti ad emanciparsi e rendersi autonomi (relazioni familiari invischiate) -soggetti che non hanno famiglia o parenti in grado di occuparsi di loro; -soggetti che hanno famiglie altamente problematiche o multiproblematiche; -soggetti a lungo istituzionalizzati e che non possono essere dimessi in appartamenti protetti; -soggetti ad alto rischio di istituzionalizzazione;

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-soggetti che richiedono cure ma che non accettano o non è indicata l’ospitalità presso strutture residenziali; b) Le famiglie ospitanti saranno selezionate e appositamente

formate per realizzare con l’ospite relazioni significative tali da contribuire al miglioramento delle condizioni psichiche, all’integrazione sociale ed a promuovere le potenzialità inespresse.

Il ruolo essenziale della famiglia ospitante è innanzitutto di mediatore affettivo, di modello di identificazione maturativo per il paziente ma anche quello di consentire l’osservazione del soggetto in una dimensione diversa da quella sanitaria; permettendo comprensione e risposte non istituzionali alle difficoltà che il soggetto esprime. La disponibilità delle famiglie sarà verificata attraverso la pubblicizzazione dell’iniziativa mediante la rete dei servizi sociali e sanitari, ma anche soprattutto utilizzando la rete informale rappresentata da associazioni, volontariato e singoli cittadini. c) Il D.S.M. (avvalendosi anche del mix pubblico privato

sociale), costituisce e formalizza il gruppo di lavoro multiprofessionale trasversale con le seguenti funzioni: -elaborare e formalizzare linee guida per la regolamentazione del servizio;

-elaborare e formalizzare il contratto/convenzione tra ospite, famigli affidataria e Azienda ulss; -pubblicizzare la nuova opportunità attraverso i media, la rete dei servizi, la rete informale, nonché attraverso incontri dibattiti rivolti alla cittadinanza locale; -accogliere al domanda e selezionare le famiglie aderenti; -formare le famiglie coinvolte; -predisporre una banca dati; -selezionare i soggetti destinatari proposti dalle UOT;

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-fare gli abbinamenti idonei tra famiglie e soggetti interessati ;

-dare consulenza/supporto al lavoro delle UOT di riferimento nell’attivazione e nella conduzione dei progetti riabilitativi individuali;

-dare consulenza/supporto alle famiglie -fare le opportune verifiche relazionando al Direttore di Dipartimento.

IL PROGETTO INDIVIDUALE Ogni inserimento eterofamiliare avverrà all’interno di un progetto terapeutico ri-abilitativo individualizzato redatto dall’équipe della UOT di riferimento che si avvarrà del lavoro sinergico di tutti i soggetti coinvolti, istituzionali e non, in un apposito “tavolo” a livello Distrettuale. Il percorso dell’inserimento eterofamiliare si inserisce quindi all’interno di una progettualità più ampia di presa in carico della quale è responsabile la UOT e che deve sempre articolarsi sugli assi dell’abitare, dello scambio sociale (lavoro), delle relazioni affettive.

CRITERI DI SELEZIONE DEGLI UTENTI L’individuazione dei soggetti con le caratteristiche sopra descritte, per realizzare il miglior abbinamento con le famiglie selezionate, dipenderà da criteri quali le caratteristiche della persona in riferimento alle caratteristiche della famiglia (età, sesso, storia personale); la gravosità dell’impegno richiesto; la maggiore o minore convinzione della persona all’adesione al progetto di inserimento. Tali criteri saranno discussi e valutati di volta in volta, sulle singole situazioni, tra gruppo trasversale del DSM (servizio IESA), per la sua specifica conoscenza dei contesti familiari disponibili, ed équipe della UOT.

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CRITERI DI SELEZIONE DELLE FAMIGLIE ADERENTI Le famiglie idonee vengono individuate tra quelle che si sono dichiarate disponibili e per le quali il gruppo di lavoro ha accertato la presenza di alcuni requisiti quali: la consapevolezza delle motivazioni alla base della scelta; la disponibilità ad accogliere la persona per offrirgli un’esperienza di vita familiare idonea; la composizione del nucleo; la buona integrazione della famiglia nel territorio di appartenenza; la disponibilità a collaborare con l’équipe del CSM; l’idoneità della abitazione; l’impegno a collaborare alla cura e al mantenimento della persona inserita nonché alla sua socializzazione; Va inoltre sottolineato che l’ospitalità costituisce sempre un’occasione di novità, di stimolo e di nuovi coinvolgimenti affettivi-relazionali e quindi di modifica di precedenti equilibri, per cui le caratteristiche iniziali dovranno poi essere seguite nella loro evoluzione durante lo sviluppo dell’esperienza. FORMARE LE FAMIGLIE COINVOLTE

Al fine di esercitare il ruolo di famiglia affidataria è opportuno che la stessa sia formata con modalità strutturate (un corso appositamente creato) e informali (nella realizzazione dell’esperienza). Per ciò che riguarda la formulazione di un corso formativo alle famiglie prescelte si propongono seminari mirati a infondere nei potenziali affidatari un livello di conoscenza della malattia mentale che si allontani decisamente dal diffuso modello classificatorio, in favore di un taglio orientato all’essere in relazione con il “diverso” da sè, per potervi convivere. I seminari potranno essere organizzati su temi quali:

• la sensibilizzazione rispetto al ruolo stigmatizzante di paziente psichiatrico;

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• l’individuazione e la relativa messa in discussione dei pregiudizi sociali;

• l’informazione sulle risorse territoriali istituzionali e non e il loro funzionamento;

• l’importanza della famiglia come ambiente terapeutico ri-abilitativo;

• l’esperienza dell’inserimento supportato in altre realtà italiane;

• il superamento del momento della crisi all’interno di un rapporto di convivenza;

Ulteriore obiettivo dei seminari di formazione sarà quello di supportare le famiglie affinchè si autoorganizzino in gruppi di auto aiuto. CRITERI DI VERIFICA Per verificare l’andamento degli inserimenti si attiveranno le seguenti azioni: • incontri negli ambienti familiari, candidati al progetto, di tipo

informativo, di analisi, di verifica e di supporto; • applicazione di scale di valutazione quali ad esempio la Scala

di Valutazione Globale del Funzionamento Relazionale (VGFR), il Questionario di Valutazione della Soddisfazione (QVS) nelle versioni per i familiari (QVS-F) e per i pazienti (QVS-P), il questionario per i Problemi Familiari (QPF).

ECONOMICITA’ Va sottolineato che nei paesi dove l’ospitalità familiare è in atto da tempo (Belgio, Paesi Scandinavi, Germania, Francia, U.S.A. ecc.,), studi approfonditi dimostrano la buona efficacia dello strumento in termini ri-abilitativi, una riduzione del consumo dei farmaci, il non ricorso al ricovero ospedaliero, un miglior grado di soddisfazione degli utenti, una maggior facilitazione d’inserimento nel contesto sociale.

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Sotto il profilo dei costi esso appare molto competitivo, specie se paragonato alle spese che l’ASL sostiene per il ricovero presso strutture residenziali che sono di circa euro 3.873,42 (£. 7.500.000) mensili per una struttura residenziale, contro le max euro 1.291,14 (£ 2.500.000) al mese previste per l’inserimento in famiglia.

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PROGETTO ESECUTIVO

INSERIMENTO ETEROFAMILIARE SUPPORTATO DI ADULTI (I.E.S.A.)

Linee guida per la regolamentazione del servizio I.E.S.A.

1) Definizione di inserimento eterofamiliare Per inserimento eterofamiliare supportato di adulti (I.E.S.A.) si intende una modalità riabilitativa abitativa alternativa al ricovero in istituzioni chiuse o in strutture intermedie quali le Comunità Terapeutiche Residenziali Protette (C.T.R.P.) o le Comunità Alloggio (C.A.) e complementare ad altre soluzioni extra - istituzionali quali i Centri Diurni (C.D.), rivolta ad utenti in carico ai servizi psichiatrici del Dipartimento di Salute Mentale (DSM). Organizzatore dell’inserimento eterofamiliare è il Dipartimento di Salute Mentale, attraverso un gruppo di lavoro pluriprofessionale trasversale alle UOT, il Servizio I.E.S.A., che potrà avvalersi della collaborazione di altri soggetti operanti nell'ambito della salute mentale (ad es. associazioni di familiari, volontariato ecc.). L’inserimento ha lo scopo di offrire alla persona con disabilità psichiatrica un contesto relazionale/affettivo idoneo a promuovere il suo benessere psico-fisico, qualora la famiglia di origine e i parenti si trovino nell’impossibilità e/o difficoltà di provvedervi o nel caso di loro assenza. Le parti chiamate in causa per la realizzazione di questo servizio sono sostanzialmente tre: il soggetto interessato, la famiglia affidataria, l’Azienda Ulss n.9 (DSM). La famiglia dovrà ricevere un rimborso spese per l’ospitalità e l’assistenza offerte all’utente.

2) Soggetti per i quali può essere previsto l’inserimento eterofamiliare.

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Si tratta di persone con disturbi psichici, seguite dai servizi territoriali, non ancora in grado di vivere in situazioni che prevedano un livello più elevato di autonomia, (ad esempio nei gruppi appartamento protetti). Esse dovranno essere proposte dalle équipes delle Unità Operative Territoriali (U.O.T.) del DSM. 3) Funzioni del servizio per l’inserimento eterofamiliare. Le funzioni del Servizio IESA sono le seguenti: - sensibilizzazione rivolta alla popolazione, alle famiglie,

alle associazioni interessate, sui bisogni delle persone con disabilità psichiatrica e sulle potenzialità dell’inserimento eterofamiliare;

- reperimento e selezione delle famiglie disponibili all’accoglimento di disabili psichici;

- predisposizione di una banca dati; - formazione delle famiglie coinvolte; - selezione dei soggetti destinatari proposti dalle U.O.T.; - abbinamento tra famiglia e soggetto interessato; - consulenza/supporto al lavoro delle UOT cui l'affidato

resta comunque in carico e alle famiglie affidatarie nell’attivazione e nella conduzione dei progetti ri abilitativi individuali;

- verifica e relaziona annualmente al Direttore del DSM sull’andamento e sugli esiti del servizio.

Il gruppo di lavoro multiprofessionale costituente il servizio IESA, di cui è responsabile il Direttore del Dipartimento di Salute Mentale, dovrà essere composto da: uno Psichiatra, 2 Professionisti Esperti in materia, a contratto per n. 18 ore settimanali ciascuno, 1 Assistente Sociale Coordinatore, 1 Educatore Professionale, 1 Collaboratore Amministrativo. La scelta degli operatori viene effettuata dal Direttore del DSM. Il coordinamento del servizio viene affidato al coordinamento del servizio sociale del DSM, fermo restando che il riferimento

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operativo all’interno di ciascuna UOT è rappresentato dall’Assistente Sociale dell’équipe. 4) Modalità operative Tra l’Azienda Ulss, la famiglia affidataria e l’utente viene stipulato un contratto nel quale vengono specificati i doveri ed i diritti dell’ospite, la definizione dei tempi (durata dell'accoglienza e impegno orario giornaliero), la regolamentazione del periodo di prova della convivenza e il rimborso spese mensile a favore della famiglia affidataria. Ogni inserimento eterofamiliare deve essere accompagnato da un progetto terapeutico riabilitativo redatto dall’équipe della UOT (che mantiene la titolarità della presa in carico) e realizzato in collaborazione tra Servizio IESA, operatori della UOT, famiglia affidataria e ospite. Requisiti delle famiglie: - disponibilità ad accogliere il soggetto con disabilità

psichiatrica per offrirgli un’esperienza di vita familiare idonea ai suoi bisogni;

- consapevolezza delle motivazioni alla base della scelta; - buona integrazione della famiglia nell’ambito sociale; - disponibilità a collaborare con l’équipe della UOT

proponente; - disponibilità a mantenere i rapporti con la famiglia di

origine della persona affidata; - idoneità dell’abitazione. È prevista la partecipazione delle famiglie affidatarie, al corso di formazione specifico organizzato dal gruppo multidisciplinare del DSM. 5) Costi a carico dell’Azienda Ulss. Costi per la pubblicizzazione del Servizio IESA Il costo dell’attività di supporto nei confronti degli utenti e delle famiglie affidatarie svolta da personale dipendente o in

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convenzione può essere quantificato per un servizio a regime, con il parametro di un operatore per otto soggetti inseriti. Il rimborso spese (somma per spese personali dell'utente, di alloggiamento, di vitto) mensile a favore della famiglia affidataria è previsto in max euro 1.291,14 (Lire 2.500.000) per un impegno orario giornaliero di 24 ore e in quota inferiore in caso di impegno orario minore. La quota sarà definita di volta in volta dal gruppo pluriprofessionale sia con riferimento al progetto terapeutico individuale del soggetto sia all'impegno orario. Costi per prestazioni supplementari quali vacanze: nel caso in cui la famiglia trascorra le vacanze in compagnia dell’ospite, riceverà un rimborso supplementare giornaliero rapportato alle effettive e documentate maggiori spese, la cui congruità sarà oggetto di verifica da parte del servizio IESA. Se la famiglia non intende trascorrere le vacanze con l’ospite, l’équipe curante della UOT provvederà a trovare una collocazione temporanea . Per tale periodo sarà sospesa l’erogazione del rimborso spese alla famiglia affidataria. Per distacchi brevi e transitori dell’ospite dalla famiglia (es. fine settimana, festività), non è prevista alcuna diminuzione del contributo. Situazioni diverse, quali ad es. ricoveri ospedalieri, verranno valutate di volta in volta dal sevizio IESA I costi per la polizza assicurativa per responsabilità civile a tutela della famiglia affidataria sono a carico dell’azienda. 6) Compartecipazione economica dell’ospite Secondo quanto disposto dalla normativa vigente.

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ACCORDO PER L’INSERIMENTO

ETEROFAMILIARE SUPPORTATO DI ADULTI

PREMESSO • che rientra nei compiti dell’Azienda U.L.S.S. n° 9 la gestione

delle funzioni e delle prestazioni riabilitative sociosanitarie a favore delle persone disabili;

• che il Direttore Generale dell’Azienda U.L.S.S. n° 9 ha approvato con deliberazione n°633 del 11.07.02 esecutiva ai sensi di legge, il progetto sperimentale «INSERIMENTO ETEROFAMILIARE SUPPORTATO DI ADULTI» a favore degli utenti del DSM;

• che esso rappresenta una possibile alternativa ai ricoveri ospedalieri e al ricorso ad altri servizi specialistici territoriali;

TRA il Direttore del Dipartimento di Salute Mentale

E la Sig.ra nato il a nel prosieguo, «ospite»

E il Sig. nato il a e residente , nel prosieguo famiglia «affidataria»

SI CONVIENE QUANTO SEGUE:

Art. 1

L’affidataria si impegna ad accogliere l’ospite presso il proprio domicilio secondo le modalità indicate negli articoli seguenti.

Art. 2 Il rapporto di convivenza ha inizio il e termina il e può essere rinnovato, con il consenso delle parti, secondo

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quanto previsto dal progetto terapeutico - ri - abilitativo individuale. L’inserimento avviene nelle 24/12 ore.

Art. 3 È previsto un periodo di prova della durata di al fine di consentire alla famiglia e all’ospite una reciproca conoscenza in modo tale da poter entrambi decidere se continuare o meno la convivenza.

Art. 4 La cessazione del periodo di convivenza può avvenire anche tramite rinuncia: - l’ospite può in qualsiasi momento concordare tale interruzione con l’operatore di riferimento della UOT territorialmente competente; - l’ affidataria può porre termine all’esperienza con un preavviso di almeno quindici giorni; - il servizio IESA dell’Azienda U.L.S.S. n° 9 può in ogni momento, e con la dovuta discrezione data dal contesto terapeutico cercare altre soluzioni per il prosieguo del progetto terapeutico riabilitativo.

Art. 5 L’ospite partecipa, secondo le proprie possibilità, alla gestione delle attività quotidiane della famiglia. La famiglia lo supporta e lo stimola nella cura della propria persona e nella gestione della propria vita socio - affettiva e lavorativa. L’affidataria assicura la possibilità all’ospite di ricevere visite di familiari o amici, salvo controindicazioni da parte dell’équipe di riferimento. L’affidataria garantisce un’opportuna discrezione nei confronti della vita privata dell’ospite.

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In caso di malattia dell’ospite, provvede al tempestivo ricorso all’intervento delle cure mediche; inoltre, l’affidataria supporta l’ospite nell’attenersi agli appuntamenti nei servizi specialistici e nell’auto - assunzione dell’eventuale terapia farmacologica. Eventuali temporanei distacchi dalla famiglia affidataria andranno concordati con la UOT di riferimento per poter individuare le soluzioni alternative più adeguate a tutela dell’ospit2.

Art. 6 L’affidataria ha l’obbligo di tenere costantemente informato l'operatore di riferimento su eventuali cambiamenti significativi all’interno della famiglia o su eventuali contrasti con l'ospite. L'Azienda U.L.S.S. n° 9 stipula un'assicurazione che copre, con specifiche clausole, danni cagionati all’affidataria e/o a terzi dall’ospite. L’affidataria si impegna ad informare l'operatore dell’équipe di riferimento per ogni danno causato dall’ospite o da questi subito da terzi.

Art. 7 L'équipe curante effettuerà verifiche periodiche circa l’applicazione di quanto qui convenuto e quanto previsto nel progetto terapeutico - ri-abilitativo individuale.

Art. 8 All’affidataria viene corrisposto un rimborso spese mensile di euro con il quale dovrà provvedere a garantire tutto quanto necessario alla dignitosa convivenza dell’ospite all'interno della famiglia.

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NOTA APPLICATIVA DEL DECRETO LEGISLATIVO N. 196/2003 SUL TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI Il Sig. nato a il , autorizzano l’Azienda ULSS n.9 al trattamento dei dati personali del proprio nucleo familiare, con esclusivo riguardo alla realizzazione del progetto denominato Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti a cui prende parte. Il Sig. nata a il , autorizza l’Azienda ULSS n.9 a comunicare alla famiglia affidataria i dati sensibili relativi alla propria salute e ogni altro dato personale la cui comunicazione si renda necessaria al fine dell’inserimento eterofamiliare. Il Direttore del DSM L’Ospite La Famiglia Affidataria per presa visione: Il Responsabile dell’equipe curante della UOT L’operatore di riferimento Il coordinatore del servizio IESA

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TRACCIA DEL COLLOQUIO ALLA FAMIGLIA OSPITANTE Supportati dalle esperienze in atto in altri contesti, (Colegno, Lucca, ecc.) per costruire la traccia dell’intervista semistrutturata per le selezioni delle famiglie si sono considerati elementi quali la tipologia della famiglia, la sua rete di vita amicale, la rete territoriale in cui è inserita l’abitazione, il funzionamento familiare, le aspettative nei confronti della persona accolta e la situazione economica della famiglia. Di seguito viene riportata la traccia del colloquio che viene utilizzata nei primi incontri con le famiglie da selezionare:

- aspetti anagrafici di tutto il nucleo familiare; - la composizione del nucleo familiare; - eventuali convivenze significative;

o Dati anagrafici o Titolo di studio o Occupazioni lavorative passate o Professione attuale ….. e grado di soddisfazione o Orario lavorativo o Eventuale impegno fisso extralavorativo …

relativi orari o Attività scolastica o lavorativa o Attività extra scolastica o lavorativa

- la storia e vita famigliare; - il gruppo amicale e/o parentale;

o Principi seguiti per l’educazione dei figli o Attività nel tempo libero o Presenza di animali domestici … e loro

importanza o Contatti con il vicinato o Cerchia di persone frequentate o Integrazione sociale

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o Confessione religiosa di appartenenza … e pratica

o Attività svolte fine il settimana o Modo di trascorrere le vacanze, gite uscite o Particolari abitudini gastronomiche (colazione,

merenda, pasti, pasti festivi) - il tipo di abitazione;

o Tipo di abitazione o Metratura ed elencazione dei vari vani o Stanze più frequentate di giorno o Stanze più frequentate di sera o Camera ospite, dislocazione e descrizione o Ammobiliata … descrizione o Servizi igienici comuni o separati o Giardino … metratura e tipologia o Tempo di cura richiesto per la casa o Tempo di cura richiesto per il giardino o Animali domestici

- la collocazione dell’abitazione nel contesto territoriale di appartenenza;

o Grandezza o Distanza dell’abitazione dai vari servizi o Associazioni o Vita paesana

- i collegamenti dall’abitazione ai centri significativi o ai servizi;

o Quante e quali auto o Patenti … e di che tipo o Collegamenti attraverso la rete dei trasporti

pubblica o Collegamenti con i servizi sanitari e sociali e

IESA o Mezzo di trasporto abitualmente più usato

- la situazione economica;

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o Entrate mensili (descrizione e quantificazione) o Spese mensili varie o Ragioni economiche per la richiesta d’affido

- desideri e fantasie nei confronti della persona accolta; o Che idea avete del paziente psichiatrico o Quante persone sareste in grado di ospitare. Età

e sesso o Come vi immaginate sia la vita in comune con

un paziente psichiatrico o Lo vedreste coinquilino? o Lo vedreste come affittuario? o Desiderereste averlo nelle 24 ore o 12 ore o… o Potrebbe collaborare allo svolgimento dei lavori

domestici? Quali o Particolari abitudini che non tollerate o Quando sareste in grado di far partire

l’affidamento? o Idee o fantasie sul possibile rapporto

paziente/figli o L’ospite potrebbe aiutare nella cura della casa,

giardino ecc.? o Considerazione su passare le vacanze insieme

all’ospite - il funzionamento familiare;

o Atteggiamento affiliativo verso gli altri, di apertura, fiducia basilare (piuttosto che evitamento, opposività e diffidenza).

o Alto rispetto per la separatezza, l’individualità, l’autonomia, la privacy di tutti i membri (piuttosto che conformismo e diplomazia).

o Comunicazione aperta, chiara, franca (piuttosto che confusa, evasiva o parziale e ristretta).

o Forte coalizione generazionale, egualitaria e con potere condiviso pur tramite ruoli discretamente

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differenziati: i genitori sono alleati fra di loro prima che con i figli o con i nonni; i figli si scoprono sempre, in ciò esplicitamente favoriti dai genitori (piuttosto che scissioni da es. coniugali con alleanze intergenerazionali rigide, ad es. madre-figlio).

o Controllo flessibile con negoziazione, basato su una gerarchia però salda (piuttosto che controllo rigido, inflessibile, basato su regole immodificabili nel corso del tempo).

o Interazione altamente spontanea, anche nell’aggressività e non solo negli affetti positivi, ma sempre fluida, con presenza sia di umorismo che di ironia (piuttosto che tipi blandi e conformisti).

o Alti livelli di iniziativa (piuttosto che passività). o L’unicità e le differenze personali vengono

incoraggiate ed apprezzate, così che è facile incontrare caratteri “forti” (piuttosto che tipi blandi e conformisti).

o Istanze riparative

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PROGETTO FORMAZIONE FAMIGLIE OSPITANTI Corsi progettati: n. 3 Partecipanti: n. 24 famiglie selezionate, operatori IESA, professionisti delle UOT, famiglie accoglienti. Durata incontri: un’ora e mezza. Modalità svolgimento: breve relazione su un tema e discussione-elaborazione di gruppo. Prima giornata: Titolo: “Dal controllo all’integrazione” Conteneuto: nella relazione viene presentato l’evolversi dell’approccio terapeutico-riabiilitativo nel campo della salute mentale: il superamento del manicomio, la psichiatria che si fa territorio e quindi comunità, la tipologia e l’organizzazione dei servizi del Dipartimento di Salute Mentale della nostra Azienda ULSS, che cos’è il progetto IESA e come si colloca in tale evoluzione (con riferimento anche ad altre esperienze). Infine il punto di vista dell’associazione dei familiari A.I.T.Sa.M. Seconda giornata: Titolo: “Dalle categorie alla comprensione dell’altro”. Contenuto: le categorie, siano esse quelle dell’irrigidimento diagnostico o quelle di un certo immaginario collettivo, irrigidiscono la relazione e la comprensione della persona con problemi di salute mentale. In una visione monolitica, la persona viene relegata ed alienata in un’immagine che l’ “abbruttisce”, che non considera le sue qualità e potenzialità. Tale impoverimento non riguarda solo colui che riceve l’etichetta ma anche colui che la utilizza e in conseguenza di ciò la collettività. Nel corso dell’incontro si cercherà inoltre di

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elaborare con i partecipanti il loro personale punto di vista su chi è la persona con problemi di salute mentale. Terza giornata: Titolo: “La forza della relazione nella crescita, nel benessere ed equilibrio dell’individuo”. Contenuto: lo sviluppo dell’individuo ed il raggiungimento del benessere possibile, come accadimento che avviene grazie alla relazione con un gruppo di appartenenza, la famiglia. Quarta giornata: Titolo: “Il superamento del momento della crisi all’interno del rapporto di convivenza”. La famiglia è un sistema relazionale che, nel corso della propria evoluzione, sperimenta dei momenti di crisi da cui può trarre maggiore benessere o al contrario, maggiore malessere. Come avviene questo? In conseguenza di tali aspetti, verranno discusse ed elaborate le dinamiche, il vissuto, le opportunità in merito ad un sistema relazionale IESA. Quinta giornata: Titolo: “Individuo, famiglia, società” Contenuto: l’individuo si sviluppa attraverso una famiglia e questa grazie all’appartenenza ad una società; la sofferenza, il ben-essere, si collocano all’interno di una dimensione collettiva. La famiglia Moro si presenta e parla della propria esperienza di famiglia affidataria inserita nel contesto sociale. Sesta giornata: Titolo: “Rielaborazione e confronto conclusivo” Contenuto: vengono ripresi i temi salienti emersi e sviluppati nei precedenti incontri. Si valuta l’esperienza nel suo insieme e l’eventuale necessità di altri incontri