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1 Corso di Management A.A. 2010/2011 Dispense Dispensa 2. La Funzione Produzione.

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Corso di Management

A.A. 2010/2011

Dispense

Dispensa 2. La Funzione Produzione.

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DISPENSA PRODUZIONE

INTRODUZIONE

1 IL CONCETTO DI PRODUZIONE COME FUNZIONE DEL SISTEMA

AZIENDALE

2 LE DIVERSE TIPOLOGIE DI PROCESSI PRODUTTIVI

3 L’ IMPIANTO

3.1 - Il Layout delle macchine

3.2 - Il grado di elasticità e flessibilità dell’impianto

3.3 - Il dimensionamento dell’impianto

4 LA PROGRAMMAZIONE E CONTROLLO DELLA PRODUZIONE

4.1 - Le fasi del processo di PCP

4.2 – I sistemi informativi a supporto della programmazione

4.3 – La gestione dei flussi che attraversano il sistema produttivo

5 LA GESTIONE INTEGRATA DEI MATERIALI

5.1 – La logistica nell’approccio sistemico al governo dell’impresa

5.2 – Il processo di approvvigionamento

5.3 – Il processo di gestione delle scorte

5.4 – Il processo di distribuzione fisica

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INTRODUZIONE

Questa dispensa si occupa, con prevalente riferimento al sistema economico italiano,

di numerosi argomenti, che coinvolgono problemi rilevanti nell’impresa sistema

vitale.

L’arco dei temi toccati, anche se certo non compiutamente trattati, è assai ampio: esso

va dall’analisi del concetto di produzione (funzionamento della produzione

aziendale, i diversi processi produttivi, gli impianti, la programmazione ed il

controllo) alla gestione dei materiali (la logistica, la gestione, l’approvvigionamento,

le scorte, il just in time).

Come viene chiarito in quel che segue, questo capitolo è pertanto dedicato

prevalentemente alla illustrazione e discussione di argomenti che possiamo definire

di tecnica industriale. Questi problemi vertono sui modi in cui l’organizzazione dei

processi produttivi sono condizionati dalle, e condizionano le, condotte delle

imprese, influenzandosi reciprocamente; e sui modi in cui certe situazioni

contingenti possono condizionare le scelte dell’organo di governo ed orientare

l’evoluzione dei settori produttivi.

Nella presente sezione si è tentato di collegare tuttavia alcuni di questi temi anche

con altri problemi che coinvolgono sia taluni aspetti concreti dell’ ”economia

d’impresa”, sia talune relazioni con approcci, più o meno tradizionali, della teoria

manageriale. Questi problemi vertono ad esempio sui modi in cui certi schemi

interpretativi e certe ricerche empiriche di previsioni della domanda, possono

contribuire ad illuminare meglio una moderna teoria d’impresa, o possono, in virtù

di nuovi rapporti tra ricerca applicata e analisi teorica, favorire la riduzione del

distacco tra schemi interpretativi e realtà.

La selezione degli argomenti e il diverso peso attribuito ad essi non è tuttavia certo

solo casuale. In questa scelta, inevitabilmente arbitraria (e come tale discutibile), si è

cercato di seguire un piano didattico ordinato secondo criteri che vorrebbero far

prevalere, intorno ad un filone unitario di ragionamento, sulle pure esigenze

nozionistiche, obiettivi e sollecitazioni di interessi più ampi dei discenti.

Perciò questa dispensa non si propone di essere solo nozionistico, cioè puramente

illustrativo di proposizioni teoriche o per converso di tecniche di ricerca empirico -

operativa. Esso vorrebbe soprattutto sollecitare, attraverso un’analisi critica,

discussioni centrate su taluni problemi considerati “nodali”: ad esempio il concetto

di Funzione e quello di Processo.

Il concetto di Funzione non va confuso con quello di Area Funzionale, che secondo la

nostra visione s’identifica con il Processo.

I due concetti vengono, talvolta, sovrapposti in maniera erronea.

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Come risulta dalla figura le funzioni aziendali si riferiscono a determinati ambiti di

gestione.

Le funzioni hanno la capacità di modificare le regole del gioco, non il gioco; il

processo è, invece, il risultato delle attività funzionali collegate in sequenza. Ad

esempio la finanza può modificare, influenzare la strategia aziendale, ma è il

processo organizzativo che modifica la gestione d’impresa. Di conseguenza dalle

funzioni si generano i processi.

Il processo aziendale è, invece, un insieme di attività interrelate, svolte all'interno

dell'azienda, che creano valore trasformando delle risorse (input del processo) in un

prodotto (output del processo) destinato ad un soggetto interno o esterno all'azienda

(cliente).

I processi aziendali si snodano, di solito, tra più funzioni, mentre la medesima

funzione può essere attraversata da più processi. D'altra parte, è spesso proprio nel

punto di passaggio da una funzione aziendale all'altra che si verificano i maggiori

punti di attrito nei processi.

Dopo un lungo periodo di scarsa evoluzione, la funzione di produzione è stata

oggetto, negli ultimi decenni, di una vera e propria rivoluzione metodologica e

tecnica sotto la spinta dei nuovi modelli produttivi.

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L’evoluzione del mercato e delle esigenze di gestione della produzione portano le

imprese ad introdurre nuove metodologie di gestione mirate al raggiungimento di

livelli di servizio sempre più elevati, ed alla riduzione del lead time. Per quasi tutte le

attività lo scopo finale è quello di ottimizzare la produzione ed innalzare i livelli di

qualità totale.

La necessità di fronteggiare una domanda sempre più esigente ha imposto alle

imprese la completa revisione dei modelli di gestione, degli strumenti e delle

tecniche per il decision making in campo logistico, alla ricerca di un indispensabile

recupero di efficienza.

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1 – LA PRODUZIONE

Il processo di produzione riguarda quell’insieme di attività integrate che, in un

qualsiasi sistema produttivo, consentono di ottenere, secondo cicli di lavorazione

prestabiliti, partendo da opportune materie prime, prodotti finiti richiesti dai clienti

in quantità, caratteristiche e tempi prefissati e a costi e livelli qualitativi ben

specificati. Riguarda quindi la risoluzione, tramite opportune tecniche e metodologie,

di tutti i problemi connessi con i processi produttivi e coinvolge trasversalmente la

maggior parte delle funzioni aziendali, come la Produzione, gli Acquisti, le Vendite,

la Logistica, la Gestione dei Materiali, il Personale, la Qualità e i Processi e Metodi.

Per poter produrre dei beni occorre allestire un impianto, organizzare la

manodopera, predisporre le procedure di programmazione dei cicli di produzione e

di controllo dei prodotti semilavorati e finiti, creare i servizi a supporto della

fabbrica: tutto ciò comporta cospicui investimenti finanziari ed organizzativi.

Di conseguenza, a causa dell’ orientamento nel lungo termine delle scelte da

formulare, emerge il carattere strategico della maggior parte delle decisioni afferenti

a questa particolare area della gestione, che gioca un ruolo determinante ai fini della

redditività aziendale.

La strategia di produzione deve essere centrata quindi sugli aspetti prioritari della

strategia competitiva, ovvero deve assicurare il migliore contributo alla creazione del

vantaggio competitivo attraverso la qualità della trasformazione, la flessibilità del

ciclo produttivo, il basso costo di produzione e il servizio reso alla clientela.

Rapporti tra gli obiettivi della strategia di produzione e strategia competitiva –

“Elementi di economia e gestione delle imprese”, Sciarelli, 2008

Obiettivi della Strategia di Produzione

Strategia Competitiva

Abbassamento dei costi di produzione Recupero di efficienza dei processi operativi Innovazione dei prodotti Miglioramento della qualità

del prodotto e del servizio

Leadership di costo o focalizzazione omogenea Leadership di costo Focalizzazione differenziata Differenziazione

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La funzione di produzione, come possiamo notare dalla tabella, è direttamente

coinvolta nella strategia competitiva perché o consente di perseguire l’obiettivo dei

bassi costi necessari per una strategia di leadership di costo o concorre a garantire la

qualità (intesa come innovatività e superiorità dei prodotti) essenziale per una

strategia di differenziazione.

Il rapido cambiamento dei mercati, l'innovazione tecnologica, la mondializzazione

dell’ economia hanno radicalmente cambiato le strategie aziendali nel campo degli

investimenti industriali e della produzione. Per raccogliere le nuove sfide del

mercato occorre innovare radicalmente i criteri sin qui seguiti nel campo produttivo.

Il concetto di gestione della produzione si è profondamente modificato: da attività di

routine volta ad assicurare gli obiettivi giornalieri di produttività ad attività

multidimensione. Sempre più, infatti, è necessario gestire:

• un mix allargato di prodotti con volumi di produzione variabili,

• una sempre maggior flessibilità del processo produttivo,

• un maggior controllo finanziario dei costi,

• una più efficace motivazione dei dipendenti.

2 - I SISTEMI DI PRODUZIONE

Nel vasto ed eterogeneo mondo industriale si possono individuare numerosi tipi di

processi produttivi. Considerare sinteticamente le principali tipologie di processi

produttivi è utile per fornire un contesto concettuale di riferimento, nell’ambito del

quale si possano individuare le implicazioni tecniche ed economiche, i vantaggi e gli

svantaggi di ciascuna tipologia.

Una tipologia ricordata da numerosi studiosi è quella della Woodward, che è stata

costruita in base ai seguenti elementi:

differenziazione e numerosità dei prodotti appartenenti alla gamma;

grado di standardizzazione dei prodotti e dimensioni dei flussi con cui

vengono collocati sul mercato;

modalità con cui si manifesta la domanda (su commessa o per magazzino).

In relazione a questi elementi vengono individuati quattro tipologie di sistemi

produttivi:

1. Su progetto (o job shop): ciascun progetto è finalizzato all’ ottenimento di una

sola unità di prodotto. Ne consegue una struttura produttiva specifica e

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transitoria che si qualifica di volta in volta a seconda del progetto da eseguire.

Esempi: ricerca di base, grandi progetti edilizi, impiantistica, servizi

informatici.

2. Su modello: una molteplicità di prodotti, anche diversi tra di loro, vengono

ripetuti in piccola serie su “modelli” predisposti dal produttore e adattati alle

esigenze dei clienti. La produzione non può che avvenire su commessa,

adottando processi di tipo intermittente. Esempi: laboratori di ricerca

applicata, produzione di macchie, impianti.

3. Processo intermittente per grandi lotti: caratteristica di questa tipologia è il

processo intermittente, con attrezzature dedicate e poco fungibili, svolto su

grandi quantità. I prodotti sono differenziati, ma le varianti derivano dalla

standardizzazione delle parti componenti, delegando così la variabilità delle

strutture alla fase finale dell’assemblaggio e contenendo l’ esigenza di

flessibilità nelle fasi di lavorazione delle componenti. Esempi: settore tessile,

abbigliamento, calzature, componenti per automobili.

4. Processo continuo: tale tipologia è tipica del prodotto unico, con scarse varianti,

ottenuto in volumi elevati per periodi indeterminati di tempo da un insieme

di risorse progettate e destinate stabilmente a quella produzione. Non vi è

quasi flessibilità, non vi sono scorte di semilavorati intermedi e vi sono

numerose opportunità di meccanizzazione e automazione. Esempi: prodotti

elettronici, meccanici, cartiere, industrie metallurgiche.

Sistemi produttivi - "L'impresa industriale. Economia, tecnologia, management" - Rispoli, 1989

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La tipologia proposta dalla Woodward risulta essere però poco significativa, perché

vengono presi in esame contemporaneamente criteri di distinzione diversi in

maniera non adeguata, senza considerare la complementarità esistente tra flessibilità

ed efficienza delle strutture produttive.

Un metodo che consente di analizzare questo aspetto è dato dall’ Approccio

Sistemico.

Un processo produttivo è costituito da un insieme di operazioni che si dispongono

in sequenza e sono collegate tra loro da flussi previsti dal ciclo di lavorazione. Esso

quindi può essere raffigurato da un reticolo in cui nodi rappresentano le attività di

trasformazione fisica nel tempo; mentre invece i segmenti che collegano i nodi

rappresentano i flussi, con le rispettive priorità e dimensioni che legano tra loro le

singole operazioni.

Il processo produttivo secondo una visione sistemica

Di conseguenza dall’approccio sistemico deriva una tipologia di processi che mette

meglio in rilievo il dilemma flessibilità/efficienza e consente di cogliere i punti

strategici del sistema al fine di risolvere in maniera favorevole tale dilemma.

Si possono così distinguere (Tarondeau – 1982):

1. Come sistemi tendenzialmente rigidi (scarsa o nulla flessibilità dei nodi e dei

legami) e adattabili solo nel medio-lungo periodo i processi continui;

2. Come sistemi poco flessibili (i nodi presentano la combinazione delle funzioni

di trasformazione e stoccaggio con le risorse non completamente specializzate;

i legami sono fissi, simultanei ed esclusivi, parzialmente determinati dalla

tecnologia) i processi intermittenti a grandi lotti per magazzino;

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3. Come sistemi ambigui, ma tendenzialmente flessibili, quelli intermittenti a piccoli

lotti su modello per magazzino;

4. Come sistemi flessibili (i nodi hanno funzioni complesse di trasformazione e di

stoccaggio con risorse polivalenti; i legami sono variabili e determinati dalla

natura dei flussi) i processi intermittenti su modello per commessa ed i processi per

progetto.

Infine, una classificazione generale e semplificata, che possa esprimere in modo più

sistematico e coerente le tipologie di processi produttivi, si può basare su tre

variabili:

1. La natura tecnologica dello specifico ciclo di produzione da svolgere;

2. La natura tecnologica merceologica del prodotto da realizzare;

3. Il volume di produzione di un medesimo prodotto da ottenere, a seconda della

domanda.

Principali tipologie di processi produttivi

In base alla diversa natura tecnologica del ciclo di produzione, i processi produttivi si

distinguono in due categorie:

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a) Ciclo tecnicamente obbligato, quando il ciclo di produzione è imposto dalla

tecnologia di trasformazione, come avviene ad esempio per le industrie

petrolchimiche, siderurgiche o le cartiere, dove esiste una stretta

interdipendenza tra prodotto e processo.

b) Ciclo tecnicamente non obbligato, quando l’impresa può scegliere il ciclo di

lavorazione e la sequenza delle operazioni da svolgere, non essendo vincolata

dalla tecnologia di trasformazione.

A seconda della natura tecnologica – merceologica del prodotto possiamo distinguere tra:

a) Produzione a flusso, in cui una volta ottenuto il prodotto finito non è più

possibile risalire ai materiali d’origine, come avviene ad esempio nelle

raffinerie o negli impianti chimici.

b) Produzione per parti, in cui il prodotto è ottenuto dall’assemblaggio di diverse

parti componenti ed è quindi tecnicamente scomponibile, come avviene ad

esempio nell’ industria automobilistica o degli elettrodomestici).

Infine, in base al volume di produzione ottenuto di uno stesso prodotto si possono

avere tre tipologie:

a) La produzione unitaria (job shop), nella quale il processo di produzione è

finalizzato alla fabbricazione di un solo prodotto. Questo è il caso di grandi

opere infrastrutturali (dighe, ponti, centrali elettriche, etc.).

b) La produzione intermittente, la quale si svolge in un sistema produttivo, che è

organizzato per ottenere una varietà di prodotti della stessa “famiglia”.

L’attività di produzione è intermittente, perché il processo produttivo risulta

scomponibile in diverse e autonome fasi di lavorazione, le macchine vengono

fermate e poi riattrezzate per svolgere un differente ciclo di trasformazione

relativo ad un altro elemento, si pensi ad esempio ai beni di largo consumo

(articoli per la persona o per la casa), ai beni di consumo durevole

(elettrodomestici, automobili) oppure ai beni strumentali (macchinari,

impianti, componenti).

c) La produzione continua, nella quale si ottiene una grande quantità dello stesso

tipo di prodotto, per periodi di tempo indeterminati. I livelli di

meccanizzazione e di automazione si presentano elevati e il rapporto

capitale/lavoro risulta in genere elevato. Fanno parte di questa categoria, ad

esempio, le produzioni metallurgiche, petrolifere, chimiche, etc.

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3 - L’ IMPIANTO

L’ impianto costituisce l’elemento emblematico di quell’insieme di beni “materiali”

nei quali investe l’azienda industriale per lo svolgimento della propria attività

economica. Per l’esercizio della propria attività di trasformazione, qualunque

impresa necessita di beni di uso durevole, che vengono impiegati come strumenti di

produzione e che non sono destinati né alla vendita né alla trasformazione in altri

prodotti. Si definiscono di “uso durevole”, poiché il loro impiego si protrae oltre i

limiti di un esercizio amministrativo.

3.1 - Il Layout delle macchine

Definito il sistema produttivo nei suoi elementi principali, è necessario formulare,

all’interno delle aree prescelte per svolgere i processi, una precisa disposizione

planimetrica di tutte le risorse necessarie allo svolgimento delle lavorazioni. La

disposizione fisica delle strutture tecnico – produttive, che compongono lo

stabilimento e, più in particolare, l’impianto, costituisce il cosiddetto layout, termine

che deve intendersi, dunque, come la disposizione delle strutture edilizie, delle

macchine, delle attrezzature e dei posti di lavoro all’interno della fabbrica. La

progettazione del layout è elemento fondamentale nell’allestimento dell’impianto

perché incide sull’ampiezza e sull’ utilizzazione degli spazi coperti dello

stabilimento. L’obiettivo di fondo è, dunque, quello di massimizzare la produttività

del sistema, consentendo la massima utilizzazione degli impianti e delle macchine, la

minima movimentazione dei materiali, il minimo volume di giacenze, di macchine,

di semilavorati e di prodotti finiti, la massima flessibilità ed elasticità di processi, di

cicli di lavorazione e del layout stesso.

Le “strutture” tecnico – organizzative fondamentali, che possono essere adottate

quando il processo di lavorazione non è imposto dalla tecnologia di trasformazione

dei materiali, possono essere di tre tipologie:

1. Disposizione delle macchine “per reparto” (o “funzionale”)

2. Disposizione delle macchine “a catena” (o “in linea”)

3. Disposizione delle macchine “a isole” (Group Technology)

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Disposizione delle macchine “per reparto” (o “funzionale”).

Le macchine del medesimo tipo funzionale vengono raggruppate e disposte in

reparti specializzati, indipendentemente dall’ ordine delle operazioni richieste dai

diversi cicli produttivi che vengono svolti contemporaneamente.

Il fabbisogno di ciascun tipo di macchina dipende dall’insieme dei cicli di lavorazione

che si stima di svolgere nell’ impianto .

Il problema tecnico – organizzativo principale, di natura planimetrica, consiste nella

determinazione della più conveniente posizione relativa dei vari reparti.

In tale disposizione “funzionale” la capacità produttiva di un reparto di macchine

non è vincolata necessariamente a quella degli altri reparti, le cui macchine servono

per eseguire le altre fasi di lavorazione di uno stesso processo produttivo. A

differenza di quanto avviene nelle lavorazioni a catena, i sistemi di movimento dei

materiali, usati quando le macchine sono disposte per reparto, sono contraddistinti

dalla flessibilità di percorso, di dimensione e di forma del carico.

Disposizione delle macchine “a catena” (o “in linea”).

Le macchine sono collocate in base alla sequenza delle operazioni richieste dall’

unico ciclo che viene effettuato. L’adozione di questa disposizione comporta il fatto

che, se per produrre i componenti A e B occorrono macchine simili, queste verranno

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duplicate su entrambe le linee, anche se non sono utilizzate a pieno per ciascuno dei

due particolari.

Il fabbisogno di ciascuna tipologia di macchina dipende direttamente dai tempi delle

lavorazioni richieste a ciascuna di loro dal processo.

Il problema tecnico – organizzativo principale, quando le macchine vengono disposte “a

catena”, è quello del “bilanciamento della linea di produzione”, che consiste nel

determinare l’uguaglianza delle quantità di “pezzi” lavorati in una unità di tempo in

ciascuna delle successive stazioni di lavoro della linea, cercando di ridurre al minimo

i tempi di inutilizzo delle singole macchine. Di conseguenza, il problema da risolvere

consiste nel rendere uguali i tempi delle fasi di lavorazione, anche quando le

macchine presentano diverse velocità operative.

La disposizione delle macchine a catena impone, quindi, una stretta interdipendenza

fra le diverse operazioni che costituiscono un processo produttivo (l’ interruzione di

una linea di produzione interessa l’intera sequenza di operazioni del processo) ed

esige stabili legami di capacità e di rendimento fra le macchine che formano la catena

(ogni macchina risulta legata al rendimento e alla capacità produttiva delle altre).

Uno dei vantaggi della disposizione a catena riguarda la durata del ciclo di

lavorazione: un processo produttivo svolto con macchine disposte in linea ha una

durata minore rispetto a quello svolto con macchine disposte a reparto, in quanto,

collegando ciascuna macchina con quella successiva, si ottiene una maggiore velocità

dei trasporti interni e una riduzione degli spazi da percorrere.

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Disposizione delle macchine “a isole” (Group Technology).

Le due soluzioni esposte precedentemente soddisfano esigenze estreme di

disposizione delle macchine. Numerose, però, risultano le soluzioni “intermedie”.

Una tipologia, che si è diffusa negli anni Ottanta e Novanta, è costituita dalla

disposizione a “isole” (Group Technology), che è in sostanza il risultato della

confluenza del layout per reparto e del layout a catena.

Le macchine vengono disposte in gruppi, ciascuno dei quali viene costituito in base

alla sequenza delle fasi più complesse del ciclo di lavorazione. Nell’ambito di ogni

gruppo, le diverse macchine sono collocate in sequenza. L’intero ciclo di lavorazione

viene eseguito trasferendo i pezzi da un gruppo all’altro.

E’ facilmente constatabile che tale disposizione presenta sia le caratteristiche di

“specializzazione” della disposizione in linea, in quanto in ciascun gruppo ogni unità

può essere specializzata in una determinata operazione e il processo è continuo senza

accumulo di scorte tra le singole macchine , sia alcuni caratteri della disposizione per

reparto, in quanto nello stesso gruppo si alternano cicli di prodotti diversi e si

determina un sistema operativo abbastanza flessibile.

Il Group Technology rappresenta la soluzione verso la quale tendono:

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a) Le rigide linee dei processi continui, non più convenienti di fronte alla

variabilità dei mercati e dell’ambiente;

b) I complessi layout per reparto dei processi intermittenti, la cui flessibilità non

è più in grado di compensare la minore efficienza dovuta ai costi di

riattrezzaggio e ai costi del lavoro.

Risulta, infine, fondamentale specificare che la disposizione “a catena”, la disposizione “per

reparto” e la disposizione “Group Technology” non costituiscono modi alternativi di disporre

lo stesso macchinario, ma diversi tipi di processi produttivi, che si distinguono anche per i

differenti sistemi operativi, tecnologici e informatici che ciascuno di essi richiede.

3.2 I problemi di elasticità e flessibilità dell’impianto

La progettazione del sistema produttivo ha come obiettivo quello di disporre di

strutture efficienti e in grado di minimizzare i costi di produzione e i rischi di mercato.

Nell’organizzazione del sistema di produzione la riduzione dei costi unitari si

accompagna al crescere della specializzazione e dell’automazione dell’impianto;

quella dei rischi, di contro, si collega all’aumento della versatilità e della flessibilità

del sistema nel suo complesso.

Quando la variabilità delle condizioni di mercato e della domanda sono frequenti è

evidente che strutture rigide di impianto possono determinare gravi rischi per le

imprese: in queste condizioni è necessario pervenire a soluzioni flessibili di

produzione che siano economicamente valide.

In relazione alle caratteristiche dell’impianto bisogna distinguere:

1) il grado di elasticità, ovvero la capacità dell’impianto di rimanere competitivo anche

in condizioni di parziale utilizzazione (capacità di assorbire le riduzioni del volume

di produzione);

2) il grado di flessibilità, ossia la capacità dell’impianto di adattarsi a produrre beni

differenti senza incorrere in costi non sopportabili sotto il profilo competitivo

(opportunità di variare il mix produttivo).

È chiaro, quindi, che sia la flessibilità che l’elasticità tendono a contrapporsi alla produttività

dell’impianto e rappresentano un costo che l’impresa decide di sostenere per ridurre i rischi di

produzione.

Per elasticità s’intende la possibilità di una sottoutilizzazione dell’impianto, senza che il

costo unitario del prodotto aumenti in misura tale da non essere più competitivo. Il problema

è strettamente connesso alla struttura economica del processo produttivo , cioè alla

composizione del costo di produzione in termini di costi fissi e costi variabili. In

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sostanza il rapporto tra costi fissi e costi variabili può essere assunto come indice del

grado di elasticità di un impianto industriale.

Nella determinazione della struttura tecnica più conveniente dell’impianto, l’azienda

industriale si può trovare nella situazione di dover scegliere tra impianti, che sono

dotati della stessa capacità produttiva, ma che hanno diverse strutture tecniche. In

altri termini l’impresa si trova di fronte ad un range di alternative, in cui da un lato si

trovano strutture tecniche dotate di alti livelli di produttività, ma non convenienti se

sfruttate inadeguatamente, dall’altro, strutture che consentono minori rendimenti

tecnici, ma più convenienti nei periodi di sottoutilizzazione dell’impianto. È chiaro

che il confronto ha senso se gli impianti alternativi sono caratterizzati da un livello

molto simile di flessibilità. Il grafico mostra l’andamento dei costi totali di

produzione svolti da due ipotetici impianti, con uguale capacità produttiva e simile

livello di flessibilità, ma diversa struttura tecnica.

La convenienza di ciascun impianto è collegata ad un particolare intervallo di volumi

produttivi. Infatti, come appare dal grafico, l’impianto n°1 è più elastico

dell’impianto n°2, in quanto esso, avendo una struttura meno meccanizzata e

automatizzata, è caratterizzato da minori costi fissi (CF1 < CF2) e da un maggiore

costo variabile unitario (CV1 > CV2).

Ciascun impianto, però, ha una propria area di convenienza economica: quando la

capacità produttiva degli impianti (Xmax) viene completamente utilizzata o,

comunque, quando il volume di produzione supera la quantità X0, è più conveniente

l’impianto n°2, perché consente di produrre ad un costo medio inferiore (CM2 <

CM1). Ma quando la recessione della domanda è tale da contrarre il livello della

produzione ad una quantità inferiore ad X0, il costo medio relativo dell’impianto n°2

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(CM2) diventa più elevato e sale più rapidamente del costo medio (CM1) relativo

all’impianto n°1, che risulta così più economico.

Si può dunque osservare che, date le diverse strutture dei costi di produzione,

relative ai vari tipi di impianti adottabili in rapporto ad una data capacità produttiva,

la valutazione del tipo d’impianto più conveniente viene in sostanza compiuta

dall’impresa sulla base della previsione della durata delle fasi di pieno sfruttamento e

di quelle di parziale utilizzazione e del grado di tale inutilizzazione.

Questa scelta viene fatta in relazione all’ ampiezza delle fluttuazioni della domanda.

In via generale, quando il progresso tecnico comporta un maggiore grado di

meccanizzazione e di automazione degli impianti e fa aumentare il peso dei costi fissi

rispetto a quelli variabili, esso tende a far diventare più rigide le strutture economico

– produttive delle imprese rispetto alle variazioni del mercato.

Di conseguenza l’accresciuta rigidità delle strutture tecnico – produttive delle

aziende aggrava sensibilmente i rischi e le incertezze delle attività produttive. Per

evitare l’aumento dei fattori di rischio e di incertezza, i dirigenti delle imprese

tendono di dotare gli impianti di maggiore “elasticità” possibile, che risulti

comunque compatibile in un trade – off con l’efficienza tecnica, richiesta dal processo

concorrenziale.

Per flessibilità dell’ hardware s’intende la facoltà dell’impianto di essere utilizzato per

ottenere prodotti differenti tra loro, senza dover sostenere costi di trasformazione

incompatibili con la situazione economica e concorrenziale dell’impresa.

Considerando il tipo e l’intensità della concorrenza vigente nei mercati di molti

prodotti industriali, che sono caratterizzati da sistematiche politiche d’innovazione, è

facile capire quanto sia importante per la singola impresa riuscire a determinare un

giusto equilibrio tra i benefici della flessibilità produttiva e i vantaggi derivanti dalla

specializzazione tecnico-organizzativa degli impianti.

Risulta utile, quindi, soffermarci a confrontare le alternative prevalenti

nell’organizzazione delle strutture di produzione.

Per quanto concerne l’affermazione delle scelte orientate verso la specializzazione

dell’impianto, i vantaggi sono costituiti dall’opportunità di standardizzare e

automatizzare le operazioni, in modo da abbassare i costi di trasformazione con un

notevole incremento della produttività. Si tratta di impianti specializzati, idonei a

fabbricare un certo tipo di bene e quindi con ridotte o pressoché inesistenti possibilità

di conversione per altre produzioni.

Oltre a queste scelte, vi è stata anche l’affermazione dei processi continui, la quale ha

portato ad una minore flessibilità generale dell’impianto, da valutarsi non solo in

termini di minori alternative di produzione attuabili, ma anche in rapporto alla

maggiore rigidità delle singole fasi del processo produttivo. La catena di montaggio

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esige un assoluto rispetto dei tempi di lavorazione e un controllo assiduo degli

standard di tolleranza previsti per ciascuna operazione.

L’automazione flessibile (o automazione di operazioni) è impiegata per accrescere il

range dei prodotti, sopportando costi minimi di conversione nell’assetto

impiantistico.

Nell’allestimento dell’impianto si vanno sempre più affermando i sistemi

computerizzati per la gestione delle fasi di progettazione dei prodotti, per il controllo

dei cicli di produzione, per la movimentazione di materie, semilavorati e prodotti

finiti. Insieme all’automazione di parti del sistema d’impianto, le imprese tendono a

conferire maggiore flessibilità alle strutture di produzione, per poter disporre di

capacità di adattamento ai mutamenti dell’ambiente e del mercato.

Il concetto di flessibilità nella produzione deve tradursi nella sostituzione di

un’automazione applicata a un solo tipo di prodotto con un’automazione in grado di

adattarsi con limitate operazioni al cambiamento del mix produttivo aziendale.

L’automazione flessibile ha una forte valenza strategica poiché consente di ampliare

l’assortimento o gamma di prodotti mediante la differenziazione e diversificazione

delle produzioni. Essa però richiede elevati investimenti in capitale fisso e in capitale

umani, ma porta anche ad una consistente riduzione del capitale circolante attraverso

la riduzione del monte scorte e la più immediata risposta alle richieste del mercato.

E’ indubbio che una delle forme emblematiche della nuova automazione industriale

è costituita dai sistemi flessibili di produzione.

Gli FMS (Flexible Manufacturing Sistems) costituiscono il risultato tecnologico di un

trade-off tra:

L’esigenza di ottenere elevati livelli di efficienza propri degli impianti

“dedicati” automatizzati;

L’esigenza di operare con impianti “general purpose”, idonei per ottenere

produzioni diversificate.

Durante gli anni ’80 gli FMS si sono caratterizzati nella maggior parte dei casi come il

tentativo d’introdurre un minimo di flessibilità nei sistemi di automazione rigida,

pur salvaguardandone i livelli di efficienza. Essi cono sistemi complessi di

produzione composti da diverse macchine a controllo numerico (CN) e robot, che

sono collegati da mezzi di trasporto automatico di pezzi e utensili e sono controllati

da computer.

È interessante rilevare che, se da un lato l’adozione delle nuove tecnologie riduce la

dimensione ottima – minima del lotto di produzione, rimane l’esigenza di

raggiungere un elevato volume di produzione complessiva, al fine di ammortizzare

sia l’investimento nell’impianto, sia l’investimento nel software.

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Come conseguenza del progresso tecnologico le imprese possono scegliere tra diversi

sistemi tecnologici di produzione, ciascuno dei quali risulta essere conveniente in

una particolare area operativa, delimitata da determinati livelli di capacità

produttiva e di flessibilità produttiva.

Nel grafico il numero dei pezzi da costruire per un determinato prodotto è indicato

sull’asse delle ascisse e il numero dei diversi prodotti su quella delle ordinate.

Tale grafico evidenzia bene che i sistemi flessibili di produzione si collocano come

soluzioni intermedie tra due situazioni tecnologiche estreme:

Le macchine universali tradizionali, che offrono il massimo grado di flessibilità

produttiva ed, essendo indipendenti dal progetto del singolo prodotto,

possono essere impiegate per ottenere molti prodotti diversi;

Le linee transfer rigide, completamente specializzate e convenienti per ottenere

elevati volumi produttivi di uno o due prodotti.

Le altre alternative tecnologiche sono costituite dalle macchine a controllo numerico,

dalle celle di lavorazione, dai sistemi flessibili non in linea e dalle linee transfer

flessibili.

Di conseguenza questa gamma di diverse concezioni tecnologiche offre all’impresa

nuove opportunità strategiche.

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Un importante effetto dell’applicazione dell’ ”automazione flessibile” alla

produzione industriale concerne un nuovo elemento, che va a caratterizzare il

rapporto tra efficienza produttiva (e quindi costo del prodotto) e struttura

dell’impianto: esso è costituito dalle economies of scope (Panzar e Willing, 1981).

3.3 Il dimensionamento dell’impianto

Il problema del dimensionamento dell’impianto e delle singole linee di lavorazione

deve essere riferito a tecnologie parzialmente o totalmente elettroniche. L’obiettivo è

quello d’individuare la dimensione ottimale, definibile teoricamente come quella

idonea a minimizzare il costo unitario di produzione, il quale è legato alla

potenzialità di lavorazione.

La dimensione dipende dalla determinazione della capacità produttiva massima

dell’impresa ,che deriva dalla previsione delle quote di vendita ottenibili nei mercati

in cui opera l’impresa (prevedibili sviluppi futuri delle vendite), e dalla potenzialità

ottimale degli impianti.

L’attività di produzione deve adattarsi al ciclo di vendita, il quale è contraddistinto

da un’accentuata variabilità che tuttavia non influenza il grado di utilizzazione degli

impianti perché l’equilibrio temporale fra produzione e vendita è ottenuto mediante

la creazione di scorte di prodotti (accuratamente programmate e controllate).

La potenzialità di un impianto è definita dalla potenzialità della fase terminale del

processo di produzione. Una macchina è capace di svolgere un numero massimo di

operazioni nell’unità di tempo e il suo costo è pressappoco lo stesso, cioè prescinde

dal numero di operazioni effettivamente svolte. Per tale motivo l’impresa tende allo

sfruttamento integrale degli impianti, in modo da ridurre al minimo il costo unitario

di produzione. Tuttavia non tutte le macchine hanno la stessa capacità produttiva e

una volta superata la potenzialità massima per accrescere la produzione è necessario

acquistare una seconda macchina.

Ogni impresa opera con una struttura di costi e ricavi e, quindi, con una differente

leva operativa. La condizione di leva operativa si traduce nell’opportunità di

diminuzione dei costi globali unitari di produzione all’aumentare del volume

prodotto, in funzione del migliore sfruttamento dei costi fissi. Più è elevata

l’incidenza dei costi fissi sul costo totale, più aumenta il rischio, ma più cresce il

vantaggio generato dall’espansione dell’attività produttiva.

È sempre necessario raggiungere un volume minimo di attività per recuperare

integralmente i costi fissi e variabili. Questo volume, che è caratterizzato dal fatto che

i ricavi uguagliano i costi complessivi, è quello corrispondente al punto di pareggio o

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break-even point (b.e.p.) perché in quella condizione per l’impresa dovrebbe essere

indifferente produrre o rimanere inattiva.

Al concetto di punto di pareggio si lega quello di margine di sicurezza rappresentato

dalla differenza (espressa solitamente in percentuale della capacità massima di

produzione) tra il previsto volume di utilizzo dell’impianto e quello a cui

corrisponde il punto di pareggio.

Break Even Point – Punto di pareggio e margine di sicurezza

Quando il sistema è governato secondo i principi dell’automazione flessibile, la sua

capacità deve essere misurata non in una potenzialità massima, ma in una serie di

potenzialità di produzione delle diverse gamme di beni producibili dal sistema

stesso. La dimensione dell’impianto non è più la sommatoria delle capacità

produttive delle singole linee, ma è la risultante delle combinazioni ottimali (in

funzione dei tempi di risposta disponibili) delle gamme producibili. Il concetto di

dimensione non è più soltanto un concetto di quantità ma diviene anche un concetto

di qualità, intesa come rapidità di risposta alle esigenze del mercato.

I problemi di dimensionamento degli impianti sono risolti considerando le

prospettive di mercato dei prodotti, l’organizzazione del processo di produzione, il

tipo di tecnologia da adottare, il grado di automazione flessibile da realizzare e la

capacità di riserva da creare.

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La soluzione del problema dimensionale dipende dalle condizioni di elasticità e di

rischiosità delle varie alternative da comparare. Secondo le prime dovrebbero essere

preferite le ipotesi tecniche, che – a parità di condizioni – assicurino all’impresa di

ampliare e diversificare maggiormente i volumi di produzione ottenibili (maggiore

capacità di riserva). L’altro elemento è costituito dal margine di sicurezza che è

legato al punto di pareggio presentato nelle varie ipotesi quali - quantitative

d’impianto.

4- LA PROGRAMMAZIONE E CONTROLLO DELLA PRODUZIONE

La complessità dell’ attuale ambiente in cui operano le aziende industriali ha

gradualmente condotto alla ricerca di soluzioni organizzative, gestionali e tecniche

della produzione eterogenee, inducendo il vertice aziendale da un lato a governare

fenomeni pluralistici e via via sempre più complessi, da un’ altro a ricercare soluzioni

tempestive ed affidabili a fronte dell’accresciuta rapidità di cambiamento.

In questo contesto estremamente articolato e complesso, si avverte la necessità di una

gestione quanto mai razionale ed organizzata, secondo una visione sistemica,

dell’intera struttura aziendale, realizzata attraverso un’attenta e strutturata attività di

programmazione.

La programmazione della produzione può essere definita come <<quel processo con

cui si stabilisce ed impegna l’ammontare delle risorse (attività, manodopera,

macchinari, materiali, etc.) di cui l’azienda avrà bisogno per le sue attività produttive

future e l’allocazione di tali risorse per ottenere il prodotto desiderato nelle quantità

stimate, nel tempo giusto, al posto giusto ed al minore costo totale possibile>>

(Sviluppo dell’impresa e analisi strategica - Rispoli, 2002).

Per il funzionamento di un Sistema Produttivo è essenziale, in primis, procurarsi i

materiali che devono essere trasformati e collocare, poi, i prodotti costruiti sul

mercato. Di conseguenza il flusso tipico dei materiali delle aziende manifatturiere

può essere rappresentato nel modo seguente:

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Il flusso fisico ha inizio con l’acquisto delle materie prime da parte dei fornitori

(approvvigionamento). Successivamente tali materie prime vengono trasformate in

prodotti finiti (produzione) dopo essere state prelevate da un apposito magazzino.

Completato il processo di produzione, i prodotti finiti vengono sistemati nel

magazzino prodotti finiti per poi essere successivamente distribuiti sul mercato o ai

clienti (distribuzione fisica).

Parallelamente al flusso fisico dei materiali è possibile individuare anche un flusso

informativo. Questo ha inizio dal mercato dei prodotti finiti o dai clienti dal quale si

reperiscono tutte le informazioni necessarie per la determinazione della domanda.

Tale domanda, che può essere costituita da ordini clienti acquisti (nel caso di

produzioni su commessa), da previsioni di vendita (nel casi di previsioni per il

magazzino) o da entrambi, rappresenta l’input principale per la successiva fase di

programmazione della produzione. Questa a sua volta fornisce li input primari per le

fasi di produzione, distribuzione fisica e programmazione dei rifornimenti, come

illustrato in figura.

4.1 – Le fasi del Processo di PCP

La programmazione della produzione assume una posizione centrale nell’ambito

della logistica integrata e, di conseguenza, nella gestione dei flussi fisici ed

informativi caratteristici delle aziende manifatturiere; l’ obiettivo principale è quello

di assicurare che venga, sempre, prodotto solo ciò che serve nei tempi e quantità

giuste e al minimo costo possibile. In questo senso la programmazione della

produzione costituisce uno dei principali strumenti a disposizione di un’azienda per

massimizzare la propria efficienza produttiva.

In genere quando si devono affrontare problemi molto complessi, risulta più

semplice ed efficace seguire un approccio gerarchico di ottimizzazione. Questa è

stata appunto la proposta sviluppata negli anni ’70 da alcuni studiosi del MIT di

Boston secondo la quale il problema complessivo della programmazione della

produzione di prodotti finiti viene suddiviso in sottoproblemi, ciascuno dei quali

caratterizzato da un numero limitato di variabili operative e, quindi, da specifici

obiettivi, più facilmente conseguibili. Il risultato della risoluzione di ciascun

sottoproblema è utilizzabile come dato di ingresso del sottoproblema successivo in

termini temporali e di livello di dettaglio.

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Perciò il problema complessivo della programmazione della produzione industriale

viene suddiviso nelle seguenti fasi operative, in cui il livello di aggregazione delle

informazioni utilizzate diminuisce progressivamente:

1) pianificazione strategica della produzione

2) programmazione aggregata della produzione

3) programmazione operativa della produzione

4) fase di controllo della produzione

Nella pianificazione strategica della produzione avviene la formulazione del

budget di produzione per ogni unità produttiva, come stabilimento o linea

produttiva (insieme di reparti per la trasformazione delle materie prime in prodotti

finiti) a seguito di obiettivi globali di fatturato. Tali obiettivi vengono espressi, in

questa fase della programmazione, in forma molto aggregata a livello di tipi o

famiglie di prodotto (ad esempio a livello di modello di automobile, come berlina,

utilitaria, ecc.) e non di specifico codice. Quindi le attività che riguardano la

creazione o l’adeguamento della capacità produttiva di uno stabilimento sono di

pertinenza della programmazione di lungo periodo.

In questa fase deve essere fornita una valutazione indicativa a livello mensile, riferita

ad un arco temporale di un anno e più, delle quantità di prodotti da produrre e delle

risorse produttive necessarie a tale scopo, in termini di quantità e tipo (ad esempio,

materie prime, manodopera, impianti).

Lo stabilimento o la linea di produzione vengono analizzate ad un livello di

aggregazione tale che si prescinde dalla loro effettiva composizione. Si usa cioè un

approccio a “black box”. Per ciascun stabilimento o linea, la capacità produttiva

effettivamente disponibile, che viene valutata modificando quella teorica con

coefficienti ricavati da dati storici di funzionamento, non deve essere considerata

come vincolo stringente da rispettare. A valle della programmazione di lungo

periodo, è anche possibile infatti giungere a decisioni strategiche che comportino

l’acquisizione o la cessione di capacità produttiva, in termini di impianti e/o

manodopera (cioè decisioni del tipo make-or-buy) al fine di avere una nuova

produttività dalle risorse aziendali a disposizione. Le informazioni e i dati necessari

per poter prendere le decisioni strategiche di lungo periodo sono, ad esempio, i

volumi di produzione previsti, i costi, i margini di contribuzione di ciascuna

tipologia di prodotto, la disponibilità e la tipologia delle risorse produttive.

La programmazione aggregata della produzione riguarda il medio periodo. L’unità

temporale di riferimento è in genere infatti il mese o la settimana (come valore limite)

e l’orizzonte di programmazione va dai sei ai dodici mesi. L’obiettivo di tale

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programmazione è la formulazione del Piano Principale aziendale di Produzione

(Master Production Schedule (MPS)), in cui devono essere stabilite le quantità da

produrre di ciascuna famiglia (prodotti raggruppabili in base a caratteristiche simili

dal punto di vista del processo produttivo) di prodotto finito, nel rispetto di quanto

stabilito nella programmazione di lungo periodo. In questa fase vengono stabiliti

anche il programma di utilizzo della manodopera, i principali interventi di

manutenzione preventiva e le emissioni di ordini di acquisto di materiali a lungo

tempo di approvvigionamento.

A livello di Piano Principale di Produzione, i vincoli che entrano in gioco sono quelli

che riguardano, appunto, il raggiungimento del fatturato previsto e l‘effettiva

disponibilità delle risorse produttive, prescindendo dalla disponibilità dei

componenti di dettaglio del prodotto finito. Le informazioni e i dati necessari per

poter stilare il Piano Principale di Produzione sono i volumi di prodotti finiti da

ottenere (supposti con previsioni della domanda aggregata a livello di famiglia o noti

grazie ad ordini effettivi), i livelli di servizio e il profilo di distribuzione della

capacità disponibile, i costi della manutenzione, delle operazioni di attrezzaggio tra

le varie famiglie produttive e del mantenimento a scorta dei semilavorati e dei

prodotti finiti.

La programmazione operativa della produzione, o programmazione di breve

periodo, ha come obiettivo l’individuazione delle specifiche risorse produttive su cui

devono essere effettuati i lotti di produzione e della sequenza dei lotti e delle singole

operazioni da effettuare. L’arco temporale di riferimento può variare, a seconda del

contesto produttivo, da quindici giorni, ad una settimana fino al singolo turno

lavorativo. La programmazione operativa avviene quindi a livello dei singoli

prodotti.

Prima di effettuare la programmazione di breve periodo è necessario pianificare, per

ciascun prodotto finito, i fabbisogni dei componenti e delle materie prime. Nel caso

di produzioni di prodotti finiti caratterizzati da una distinta base complessa (quindi

con più livelli come accade nelle produzioni per parti), il fabbisogno dei vari

materiali viene calcolato grazie all’esplosione della distinta base e alla tempificazione

dei singoli tempi di approvvigionamento/produzione con sistemi del tipo Material

Requirements Planning (MRP). Questo avviene naturalmente nel rispetto della

quantità di prodotti finiti come stabilito nel Piano Principale di Produzione.

Quando la distinta base del prodotto finito è semplice, come accade, ad esempio,

nelle industrie di processo dove viene utilizzata una distinta base a pettine (riporta la

“ricetta” per ottenere il prodotto), la programmazione di breve periodo può essere

avviata direttamente dalla disaggregazione dei fabbisogni delle varie famiglie (come

ottenuti dal Piano Principale di Produzione) in quelle dei singoli prodotti finiti.

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Durante la programmazione operativa i vincoli operativi che entrano in gioco sono

molto specifici, come, ad esempio, le date di consegna dei singoli prodotti, l’effettiva

esistenza nei magazzini di materie prime, semilavorati e prodotti finiti, la capacità

produttiva effettivamente disponibile nei vari turni di lavoro, lo stato delle

attrezzature necessarie per le singole lavorazioni.

In conclusione la pianificazione di breve periodo si concretizza principalmente nella

schedulazione giornaliera o per turno delle attività produttive, nella gestione della

manodopera sui vari centri di lavorazione, nella gestione degli interventi preventivi

di manodopera e infine nella gestione della movimentazione interna di stabilimento

dei materiali durante il flusso produttivo.

La fase di controllo della produzione, a differenza delle precedenti fasi, non pone

problemi concettuali, ma unicamente tecnologici. Viene infatti semplicemente

monitorata l’esecuzione operativa della produzione, così come è stata pianificata

nella fase precedente, e il suo avanzamento nel tempo. Le informazioni raccolte sono

successivamente acquisite dal sistema di programmazione in modo da poter

conoscere lo stato dei reparti ed aggiornare la pianificazione operativa di breve

periodo. L’arco temporale di riferimento del controllo della produzione è fortemente

influenzato dal sistema informativo di monitoraggio effettivamente a disposizione

nei reparti produttivi. Il controllo può quindi avvenire o a livello di singolo turno di

lavoro o anche in tempo reale.

Per realizzare il monitoraggio della produzione, è necessario disporre di strumenti di

raccolta dati, di sensori a bordo di ciascuna macchina, pallet, ecc.. Il controllo della

produzione si concretizza nella conoscenza delle rese di produzione, dello stato di

avanzamento dei singoli ordini sulle varie macchine, delle quantità prodotte e

scartate, dei consumi dei materiali, dei tempi spesi in attrezzaggi, interruzioni e

manutenzioni. Tutte queste informazioni consentono, oltre che la programmazione

di breve periodo e il controllo dell’avanzamento della produzione rispetto a quanto

pianificato, anche la pianificazione degli interventi di manutenzione su condizione e

di messa a punto degli impianti.

Il controllo di produzione è tanto più efficace, quanto minore è il tempo che

intercorre tra il momento in cui si rileva lo scostamento e il momento in cui si esegue

l’azione di correzione.

Nella figura seguente è riportato la struttura di un generico sistema di

programmazione e controllo della produzione e le principali attività e strumenti

utilizzati.

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Tale figura è divisa in tre parti e mostra in particolare la struttura gerarchica delle

fasi del processo di programmazione della produzione. La parte superiore della

figura rappresenta la “testa” del sistema e corrisponde alla fase di programmazione

di lungo periodo, costituisce l’insieme delle attività impiegate per la definizione degli

obiettivi e della strategia che l’azienda deve seguire. La parte centrale, che

rappresenta il “corpo” del sistema e corrisponde alla fase di programmazione di

medio periodo, costituisce l’insieme delle attività impiegate per la definizione dei

programmi di dettaglio di produzione. La parte inferiore rappresenta, invece, la

“base” del sistema e corrisponde alla fase di programmazione di breve periodo e

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controllo di produzione. In questa parte, vengono raggruppate quelle attività che

presentano un contenuto prevalentemente operativo e che hanno il compito di

rendere esecutivi i piani precedentemente finiti.

4.2 - I Sistemi Informativi a Supporto della Programmazione

Vista la complessità e la molteplicità delle informazioni e delle procedure necessarie

per sostenere le diverse attività di programmazione della produzione, risulta difficile

non immaginare al giorno d’oggi che vengano impiegati, come supporto per chi si

occupa di queste attività, opportuni sistemi informatici. Questi sistemi sono noti

come Manufacturing Planning and Control Systems (MPCS) o Manufacturing

Resource Planning (MRP II).

Il Manufacturing Resource Planning (MRP II) è un sistema informativo strutturato

in modo gerarchico per il controllo dell’intero flusso di materiali e componenti a tutti

i livelli della programmazione della produzione. Tale sistema, particolarmente adatto

per l’industria manifatturiera per pezzi o assemblati, si rivolge sia alla pianificazione

operativa dei componenti sia alla pianificazione finanziaria. Si avvale di simulazioni

del tipo “cosa accade se?” (what if) per effettuare i controlli di capacità.

L’MRP II è caratterizzato quindi da svariate funzioni, tutte strettamente collegate tra

loro in modo sequenziale: pianificazione di lungo periodo, MPS, MRP, controlli di

capacità (ad esempio il Resource Requirements Planning (RPP)), schedulazione e

controllo avanzamento della produzione. Le peculiarità del sistema MRP II, rispetto

a quelli tradizionali di gestione della produzione, risiedono, in particolare, nel fatto

che sono inseriti, all’interno del processo di pianificazione, anche la fase di

programmazione di lungo periodo (relativa al piano di marketing, a quello

finanziario e a quello di produzione) e i controlli di capacità. Le richieste di

utilizzazione delle risorse produttive sono oggetto, infatti, di controlli di capacità ai

differenti passi del processo di pianificazione della produzione, ciascuno con

differenti livelli di aggregazione dei prodotti, orizzonti temporali e capacità. Il

sistema non passa da un livello al successivo finché il controllo di capacità non ha

dato esito positivo, tramite un processo di pianificazione iterativo.

È necessario osservare che il problema della gestione della produzione risulta

estremamente complesso da informatizzare in quanto non prevede attività formali e

standardizzabili, come invece accade in altri ambiti aziendali come

l’amministrazione e il commerciale. Le attività richiedono infatti problemi logici e

ottimizzativi complessi e specifici per ogni realtà industriale. Queste difficoltà sono

confermate dai tempi “storici” di sviluppo dei sistemi informativi aziendali. È infatti

da circa più di venti anni che si sta tentando di gestire, dal punto di vista

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informativo, la programmazione della produzione con modifiche dei sistemi proposti

che si susseguono a tutt’oggi. Altri sistemi informativi, come quello per il settore

commerciale (anni ‘60) e amministrativo (‘70), sono invece ormai consolidati da

decenni.

Schema logico di funzionamento della programmazione e controllo della produzione secondo

un sistema informativo MRP II.

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Uno degli elementi distintivi dell’MRP II rispetto al tradizionale MRP è la fase di

Business Planning, in cui vengono integrati tra loro i piani di marketing (previsioni

della domanda), i piani finanziari (quantità e costi delle risorse disponibili) e quelli

operativi (stato delle risorse produttive). Il risultato di tale pianificazione è la

redazione di un “Piano di Produzione” (Production Plan (PP)), in cui sono determinate

le risorse di cui deve avvalersi l’azienda per riuscire a produrre quanto previsto su

un orizzonte temporale futuro di lungo periodo (un PP copre in genere un orizzonte

temporale dai 6 ai 24 mesi): manodopera, materiali, capacità produttiva degli

impianti e risorse economiche.

In questa fase di programmazione, il piano delle vendite, stabilito dalla direzione

commerciale in termini di obiettivo di fatturato complessivo atteso, la capacità

produttiva degli impianti ed il piano finanziario (cioè il previsto budget di

produzione, in cui sono messe a disposizione le risorse economiche eventualmente

necessarie per l’incremento della capacità produttiva) devono essere congruenti tra

loro. Questo fatto consente di evitare future carenze nel fabbisogno di risorse

produttive e, conseguentemente, problemi gestionali nella programmazione

giornaliera della produzione.

Per verificare che quanto pianificato nel PP sia coerente con le risorse a disposizione,

si utilizza un primo modulo di controllo di capacità (Resource Requirements Planning

(RPP)). Questo modulo, effettuando una simulazione del sistema produttivo, verifica

la congruenza tra l’obiettivo di fatturato di vendita e le risorse produttive a

disposizione. Così il PP viene approvato solo se le varie risorse, come la manodopera,

i macchinari, i materiali e i fondi necessari per l’acquisto dei materiali, per gli

stipendi degli operatori e per ogni altro tipo di spesa, sono sufficienti a coprire

quanto richiesto dalle previsioni della domanda futura.

In caso contrario, cioè quando il PP proposto non è soddisfacente e/o la richiesta di

risorse non è fattibile, il PP non è accettato e sottoposto alle necessarie modifiche. Il

procedimento di controllo di capacità prosegue con simulazioni di tipo “what if”,

fino a che il PP non risulta fattibile e soddisfacente. L’intero processo decisionale

connesso con un PP è riportato in figura 2.1. Il PP definitivo risulta poi essere il dato

di partenza per il sistema software MRP II e per le operazioni che portano alla

stesura del Piano Principale di Produzione (MPS).

4.3 – La gestione dei flussi che attraversano il sistema produttivo

I sistemi di programmazione della produzione possono essere ricondotti a due

logiche differenti:

Logica della programmazione a spinta (gestione a fabbisogno - “push”)

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Logica della programmazione a trazione (gestione a scorta - “pull”)

Le due logiche si differenziano per il diverso punto di applicazione dell’azione di

programmazione e per il diverso anticipo con cui viene programmata e fatta eseguire

una attività produttiva rispetto al momento in cui se ne verifica realmente il

fabbisogno.

Per capire il meccanismo che sta alla base delle due logiche bisogna definire il

concetto di Lead Time aziendale. Esso rappresenta il periodo di tempo compreso tra

l’inizio della prima attività e la fine dell’ultima attività di un ciclo di produzione; così

il lead time è pari alla somma dei tempi necessari per compiere tutte le attività

sequenziali, incluse quelle operative, i set-up, i controlli, le attese ed i trasporti. Un

buon lead-time consente all’azienda:

di rimanere competitiva nei riguardi della concorrenza, mantenendo le

proprie quote di mercato;

di ridurre i costi di produzione attraverso una maggiore incidenza dei costi di

gestione della produzione.

Importante risulta la distinzione tra Delivery time e Production time.

Delivery time: tempo di consegna, cioè l’intervallo dal momento in cui il cliente

ordina un prodotto ed il momento in cui vuole che questo prodotto gli venga

consegnato.

Production time: tempo di produzione, inteso come tempo di attraversamento

cumulativo di un prodotto dal momento in cui vengono ordinate le materie

prime a quello in cui vengono trasformate in prodotto finito, attraverso le

varie fasi del processo.

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Nella logica a gestione Push, l’ingresso dei materiali in fabbrica e’ anticipato rispetto

agli ordini per garantire il tempo di consegna richiesto dal mercato; l’avanzamento

della produzione e’ regolato sulla base delle previsioni dei fabbisogni e di un

conseguente piano di sincronizzazione dei reparti in cascata; i prodotti usciranno in

base agli ordini effettivi dei clienti.

Il termine “a spinta” indica che il programma prevede (in una precisa sequenza

temporale) il momento di consegna di un dato semilavorato da una fase di

lavorazione a quella successiva, nel rispetto di determinate previsioni di vendita.

Il problema principale del sistema push consiste nel fatto che la domanda effettiva

può essere diversa dalla domanda prevista, in base alla quale si programma la

produzione; si determina quindi un rischio di mercato, tipico delle produzioni per il

magazzino. Il rischio è tanto più elevato quanto più lungo è l’intervallo di tempo che

intercorre tra la previsione della domanda e la vendita del prodotto.

Gli errori nelle previsioni possono essere sia quantitativi (cioè relativi alla quantità

domandata e quindi al volume di produzione) sia qualitativi (cioè relativi alle

caratteristiche che il prodotto deve possedere per soddisfare la domanda). Entrambi

finiscono per aumentare la complessità della gestione; il management è infatti è

costretto a rivedere i piani di produzione elaborati in precedenza, per adeguarli alla

situazione “reale” di mercato e a coordinare le attività in corso di svolgimento con le

attività non programmate. Se la domanda effettiva è inferiore alla domanda prevista,

si accumulano scorte di prodotti finiti, di semilavorati e di parti componenti,

determinandosi una riduzione dell’efficienza produttiva.

Per ridurre tali inconvenienti occorre avvicinare il più possibile il momento della

previsione al momento in cui concretamente si manifesterà la domanda; il che

significa ridurre la durata del processo produttivo. Operare con lunghi tempi di

pianificazione e di risposta al mercato, in contesti caratterizzati da rapide

trasformazioni delle esigenze della domanda e delle azioni dei concorrenti, comporta

il rischio di arrivare sul mercato con prodotti già obsoleti e incapaci di soddisfare le

esigenze dei consumatori del segmento – obiettivo prescelto.

Nei sistemi a logica push il piano principale di produzione si estende per un

orizzonte temporale pari al tempo di produzione. Il p-time è maggiore del d-time,

quindi: P/D > 1.

Rientra tipicamente in questa logica il criterio di emissione degli ordini stock control,

in cui il fabbisogno determinato dalla domanda finale si trasforma immediatamente

in un prelievo di magazzino, ma solo successivamente, raggiunto il segnale di livello

di riordino, in ordini esecutivi alla produzione (come sarà chiarito più avanti).

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In una gestione a logica rigorosamente Pull, l’ingresso dei materiali in fabbrica non è

anticipato rispetto agli ordini, ma i materiali vengono tirati in fabbrica dagli ordini in

portafoglio; la produzione è regolata dai fabbisogni dei processi a valle del processo

produttivo.

Con la logica pull gli ordini effettivi “tirano” la produzione e l’acquisto di tutti i

materiali necessari per la fabbricazione del prodotto, trascinando “in cascate

sequenziale” le varie fasi del processo produttivo. La programmazione della

produzione avviene in base alla domanda “effettiva”, che si manifesta nella vendita e

successivamente nel reparto di assemblaggio finale del prodotto. Con l’adozione

della logica pull, i rischi della programmazione della produzione sono minori, in

quanto non è necessario prevedere la domanda.

Storicamente le imprese sono passate dalla programmazione di tipo push alla

programmazione di tipo pull, adottando la tecnica gestionale del Just in Time. La

motivazione principale di tale scelta consiste nel fatto che l’utilizzo di una logica di

tipo pull consente di aumentare il livello di flessibilità del sistema produttivo (cioè la

capacità di adeguare la produzione all’andamento qualitativo e quantitativo della

domanda) e di migliorare la sua capacità di risposta nei confronti del mercato.

Il tempo di consegna, d-time (delivery time), è maggiore o al limite uguale al p-time

(production time), quindi: P/D < 1

Il criterio flow control risponde a questa logica. Nel flow control i centri vengono

attivati direttamente dal fabbisogno effettivo calcolato in base alla richiesta finale

effettiva od in base a previsioni attendibili della richiesta finale (come sarà chiarito

più avanti).

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Nella realtà esistono sistemi misti Push - Pull. In genere le prime fasi del processo (i

semilavorati) vengono gestite in logica push (tramite le previsioni), mentre vengono

gestite in logica pull le fasi finali del processo (essendo il D-time superiore al P-time).

Il punto di transizione tra le due logiche prende il nome di cerniera ed ha la funzione

di elemento di disaccoppiamento tra le fasi a valle in logica pull e le fasi a monte in

logica push. Nella pratica la cerniera è un magazzino di semilavorati (buffer di

scorte) opportunamente dimensionato. Dal punto di vista temporale, la cerniera

viene collocata nell’istante P-D.

5 - LA GESTIONE INTEGRATA DEI MATERIALI

Nello scenario socio-economico attuale, caratterizzato da forte concorrenza, apertura

dei mercati e proliferazione di prodotti analoghi, la gestione dei processi logistici

assume un'importanza fondamentale. Il livello di servizio che questa attività

garantisce diventa una variabile chiave per il successo dell’azienda. Il processo

logistico, nel cui ambito sono incluse la gestione e la distribuzione dei materiali e dei

prodotti, assume pertanto una grande importanza nella gestione aziendale e influisce

fortemente sui risultati economici d'impresa.

Nei sistemi aziendali, lo scopo della gestione dei materiali è quello di assicurare una

ottimizzazione delle forniture dei reparti produttivi, minimizzando i costi da

sostenere. Il materials management è strettamente connesso alla programmazione

della produzione e rientra nella funzione di approvvigionamento dei fattori

produttivi.

La gestione dei materiali rappresenta uno dei fattori critici di successo dell’impresa,

in quanto una sua gestione efficace ed efficiente permette di perseguire i seguenti

obiettivi:

commerciali (assicurare l’evasione degli ordini nei tempi concordati);

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produttivi (assicurare la non interruzione delle operazione di trasformazione

attraverso la presenza delle materie prime, dei semilavorati e di altri

materiali);

finanziari (ottimizzare il flusso di capitale da investire nelle scorte di

magazzino).

Le imprese, per affrontare la complessità dell’ambiente in cui operano, devono

adottare nuovi modelli gestionali idonei a seguire le dinamiche ambientali

interagendo adeguatamente con principali attori.

L’evoluzione dell’ambiente socio-economico si fonda sull’innovazione, intesa come

capacità di generare nuove conoscenze, nuove tecnologie e di adattare i prodotti ed i

processi aziendali alle nuove esigenze dei clienti.

5.1 - La Logistica nell’approccio sistemico al governo dell’impresa

Secondo il Council of Logistic and Management americano per logistica si intende:

“…quella parte della supply chain che programma, gestisce e controlla in maniera efficiente

ed efficace il flusso di beni e servizi e delle relative informazioni dal punto di origine al punto

di consumo con l’obiettivo di soddisfare le richieste del cliente”. Per citare una definizione

data in Italia dall’ AILOG (Associazione Italiana di LOGistica): “La logistica è

“l’insieme delle attività organizzative,gestionali e strategiche che governano nell’azienda i

flussi dei materiali dall’acquisto delle materie prime presso i fornitori fino alla consegna dei

prodotti finiti ai clienti ed al servizio post-vendita”. Infine per il Comitèe Europèen de

Normalization CEN/TC 273- Logistic- (1997) la logistica è: “La pianificazione, la

realizzazione e il controllo della movimentazione e collocazione di persone e/o beni e delle

relative attività di supporto, all’interno di un sistema organizzato per la realizzazione di

obiettivi specifici”.

Basandoci su queste definizioni possiamo analizzare le caratteristiche fondamentali

del processo logistico che pertanto è una:

1. Attività: volta a programmare, gestire, controllare e coordinare le attività

organizzative, gestionali e strategiche che governano nell’azienda i flussi dei

materiali e la movimentazione e collocazione di persone e/o beni e delle

relative attività di supporto;

2. Integrata: è unica per tutto il sistema d’impresa essendo un’attività sistemica

che collega l’azienda ai propri clienti e fornitori;

3. Di flussi: flusso fisico, flusso informativo, flusso documentale, flusso del

valore, flusso informativo sui fabbisogni;

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4. Sincronizzati e finalizzati: ricerca dell’ efficienza dei flussi in relazione alle

risorse necessarie per obiettivi, piani, operazioni orientate al conseguimento di

efficacia ed efficienza allo scopo di soddisfare le richieste del cliente ad un

costo accettabile ed offrendo il “prodotto giusto”, al “prezzo giusto”, nel

“momento giusto”, nel “luogo giusto” in un trend di miglioramento continuo

(Kaizen).

Dalla nascita ed evoluzione del termine si può intuire come la logistica non sia nata

nell’azienda ma in tutt’altro ambito, nell’ambito militare. Già nel 500 a.C. Lao Tzu

nell’ ”Arte della Guerra” riconosce l’importanza della logistica scrivendo: “… un

esercito senza il suo convoglio è perduto; senza provviste è perduto; senza basi di

approvvigionamento è perduto”. Nel 1838 il generale Antoine Henri Jomini suddivide la

gestione degli eserciti in cinque parti: “L’arte della guerra si divide in cinque parti

puramente militari: la strategia, la grande tattica, la logistica, l’arte ingegneristica e la tattica

del dettaglio”1. Per l’ammiraglio statunitense A.T. Mahan la logistica è : “L’arte pratica

di muovere gli eserciti”2.

La logistica nel diciannovesimo secolo assurge quindi a funzione strategica di primo

piano nell’arte militare, ma non è ancora considerata di rilevanza strategica per

l’impresa.

E’ a partire dal secondo dopoguerra che lo studio e l’analisi della logistica si diffonde

gradualmente anche in altri ambiti diversi da quello militare.

A partire dalla seconda metà degli anni 70, la necessità di assicurare alti livelli di

qualità e di affidabilità dei prodotti e di garantirne una tempestiva consegna al

cliente porta la logistica ad assumere un importante ruolo strategico all’interno

dell’impresa essendo essa deputata a mettere rapidamente in produzione e

consegnare quanto richiesto ed adeguare la produzione alle richieste del mercato.

Soprattutto laddove la qualità del servizio al cliente costituisce un fattore critico di

successo, la logistica fornisce un’indispensabile recupero di efficienza, generando

valore e contribuendo alla sopravvivenza del sistema impresa.

La logistica industriale persegue la massimizzazione del valore dei prodotti e dei

materiali cercando di avere a disposizione i prodotti dove sono richiesti al momento

giusto ed a un costo ragionevole. Di conseguenza, l’ utilità di un prodotto non

dipende solo dalla sua forma, ma anche dal luogo dove si trova e dalla sua

disponibilità al momento in cui è richiesto.

Per Logistica, quindi, s’intende l’attività di organizzazione ed attuazione del flusso di

materiali e di prodotti dai luoghi di origine a quelli di utilizzazione. Il processo

logistico comprende il flusso globale dei materiali, dall’acquisizione delle materie

prime alla consegna dei prodotti finiti agli utilizzatori finali.

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Per fornire una visione unitaria, globale e coerente con la capacità di rappresentazione del

vertice aziendale, l’adozione dell’ Approccio Sistemico Vitale (ASV) allo studio della

logistica si palesa quale risposta adeguata a tale esigenza, in quanto consente di cogliere la

portata ed il significato delle relazioni intercorrenti tra le componenti interne all’impresa,

attraversate e coinvolte dal processo logistico e tra queste e le entità esterne fornitrici e

distributrici.

L’adozione dell’approccio sistemico alla logistica consente d’inquadrare in una

cornice unitaria temi ed argomenti spesso trattati disgiuntamente, quali, ad esempio,

i metodi e le tecniche di gestione, i rapporti di fornitura, i rapporti tra industria e

distribuzione, l’impatto dell’ ICT, le istanze dei sovra sistemi economico, politico e

sociale.

La gestione efficace ed efficiente della logistica e , quindi, la conoscenza degli

strumenti e delle tecniche consolidate negli anni, non basta per l’ottenimento di

duraturi vantaggi competitivi. Questa riflessione scaturisce dal fatto che non solo

l’ambiente è mutevole, ma anche il contesto da esso estratto dal soggetto decisore è

dinamicamente modificato. Serve a ben poco, quindi, disporre di tecniche e

strumenti per la soluzione di un problema se non esiste ancor prima la possibilità di

circostanziare il problema stesso. In sostanza, le decisioni, pur essendo riconducibili

per analogia ed esperienze, a condizioni storicamente già praticate, di fatto si

manifestano con caratteristiche specifiche tali da rappresentare varianti innovative di

problematiche note.

Di conseguenza l’esigenza di governare la logistica, piuttosto che gestirla soltanto,

richiede l’elaborazione di nuovi schemi all’ interno dei quali calare la consolidata

strumentazione predisposta dagli studiosi.

Infatti, la dimensione interorganizzativa del processo logistico, che si manifesta

attraverso la formazione di sempre più complesse ed articolate catene delle forniture

e la competizione tra queste più che tra le imprese che vi appartengono, comporta

che la creazione dei vantaggi sui concorrenti dipende anche dalla capacità di

soddisfare le attese dei sovrasistemi rilevanti ed influenti, in modo da mantenere la

struttura del processo logistico costantemente in condizioni di consonanza e risonanza

con il contesto.

Nell’ approccio tradizionale la logistica è intesa semplicemente come “scienza dei

movimenti e degli approvvigionamenti” e scarsa attenzione è rivolta ai legami

intercorrenti tra il mondo della produzione e quello della distribuzione e al ruolo di

“cerniera” che, in quest’ottica, la logistica riveste.

Già a cominciare dalla fine degli anni ’60, l’approccio tradizionale alla logistica

subisce severe critiche in seguito all’affermarsi dello sviluppo sistemico del processo

manageriale che evidenzia i legami intercorrenti tra le varie funzioni ed attività

aziendali.

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Tali considerazioni seguono il passaggio dall’approccio tradizionale, alla gestione

integrata della logistica, che si pone l’obiettivo di gestire in modo ottimale il flusso

dei prodotti verso i clienti, superando le barriere tipiche dell’approccio funzionale, e

alla sua successiva implementazione oltre i ristretti confini aziendali, denominata

Supply Chain Management.

L’attenzione alla custumer satisfaction avendo posto il cliente al centro

dell’attenzione dell’azienda ha portato al superamento della vecchia concezione

basata sulla gestione meramente operativa per centri di costo (i trasporti, i

magazzini, le scorte) generalmente indipendenti perché attribuiti a diverse

responsabilità funzionali.

L’azienda necessita di una visione globale (integrata) delle attività del sistema

logistico senza cui diventa difficile ottenere la soddisfazione del cliente a costi

sostenibili. La logistica integrata nasce dunque dalle esigenze del marketing che ha

introdotto nell’area dei sistemi operativi una rivoluzione gestionale. La logistica

integrata è dunque integrazione delle attività fisiche, gestionali e organizzative che

governano il flusso fisico dei beni e delle necessarie informazioni per l’acquisizione

delle materie prime e dei materiali ausiliari dall’ingresso in azienda fino alla

consegna dei prodotti finiti ai clienti. Essa integra il processo logistico con le altre

funzioni aziendali, gestendo in maniera completa i materiali che vengono

movimentati sia in entrata che in uscita nell’azienda e sincronizzando i piani di

produzione con gli approvvigionamenti a monte e con la distribuzione a valle.

Tramite questo suo ruolo di coordinazione delle altre funzioni aziendali, il processo

logistico consente di migliorare i flussi e a ridurre gli sprechi.

Il concetto di integrazione indica che la logistica industriale non è la semplice somma

di attività tradizionali (trasporto, stoccaggio, gestione degli ordini, ecc.) ma un

diverso concetto di management, basato sulla gestione integrata delle attività, per

l’ottimizzazione del sistema globale logistico e non dei singoli sottosistemi che lo

compongono. La figura illustra le attività della logistica integrata.

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A partire dagli anni ’80 il successo imprenditoriale e produttivo delle imprese

manifatturiere nipponiche, specie in campo automobilistico, ha portato alla ribalta le

filosofie gestionali e le tecniche produttive che sono state denominate “lean” o

“snelle”.

In questo ambito il concetto di logistica si è espanso ulteriormente col passaggio dalla

logistica integrata al Supply Chain Management (SCM).

Cos’ è la Supply Chain?

Nello studio dei sistemi produttivi si è verificato un crescente interesse ai sistemi

complessi derivanti da una visione estesa dell’impresa che non è più vista come

entità indipendente, ma come sistema operante in modo interconnesso con i trading

partners. La Supply Chain o Value Chain è la rete globale composta da entità

economiche distinte, quali ad esempio: fornitori, aziende manifatturiere, magazzini,

centri di distribuzione.

La Supply Chain si configura proprio come una rete di organizzazioni che sono

coinvolte, attraverso collegamenti a monte e a valle, in differenti processi e attività

che producono valore nella forma di prodotti e servizi destinati al consumatore

finale.

La Figura, riportata di seguito, mostra i diversi flussi dei prodotti e delle

informazioni che si sviluppano all’interno di una Supply Network generica.

Ogni entità (impianto, magazzino, centro di distribuzione, centro di servizio, ecc.)

operante nella Supply Chain rappresenta un nodo, ognuno dei quali ha una propria

domanda ed una certa capacità produttiva; la difficoltà principale in cui incorrono gli

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agenti della catena è quella della gestione asincrona delle informazioni riguardanti

tali parametri. Una delle principali caratteristiche che deve avere un’azienda che

opera in un’ottica di impresa estesa, al fine di poter gestire in modo efficiente la

domanda e la capacità produttiva, è quella di potersi riconfigurare in tempi brevi per

poter rispondere in modo tempestivo alle fluttuazioni ma, soprattutto, per poter

sfruttare le opportunità offerte dal mercato.

Con lo studio della Supply Chain si passa dunque ad una visione di azienda globale

che opera, o meglio collabora, con il sistema in cui è inserita per raggiungere un

livello di efficienza che non potrebbe essere raggiunto operando, anche se in modo

ottimale, soltanto sul sistema interno di gestione; tale aspetto viene spesso messo in

evidenza con l’uso del termine Supply Chain “Integrata” che si riferisce appunto alle

organizzazioni, alle attività e risorse coinvolte nel processo di soddisfazione della

domanda del cliente finale.

Cos’è il Supply Chain Management?

Fin dai primi anni settanta, quando fece la sua comparsa il termine Supply Chain

Management (SCM), questo approccio gestionale ha sempre rappresentato una fonte

di miglioramento dei sistemi di distribuzione, di stoccaggio e di produzione. Nel

passato la gestione era focalizzata sul singolo nodo della catena logistica e l’obiettivo

era quello di migliorarne l’efficienza, ma successivamente ci si è resi conto che

l’ottimizzazione di tutto ciò che riguardava la singola entità non consentiva di

ottenere un ottimo globale nella Supply Chain e che, dunque, era necessario ampliare

l’approccio.

L’SCM nasce dallo sviluppo e dall’integrazione di due diverse aree di attività:

1. gli approvvigionamenti e la gestione dei fornitori

2. la logistica e i trasporti

in quanto riconosce l’importanza della gestione non solo delle attività interne, ma di

tutte le attività svolte dalla catena di produzione e distribuzione.

L’SCM si configura come un processo il cui obiettivo consiste essenzialmente

nell’ottimizzazione della delivery al cliente, basato sull’efficienza della

comunicazione tra i diversi soggetti presenti lungo la catena. In particolare,

l’obiettivo di ottimizzazione è perseguibile attraverso:

la diminuzione delle giacenze, legando la produzione alla domanda;

la riduzione dei costi totali di produzione, velocizzando il flusso di merci

all’interno del processo produttivo e migliorando il flusso informativo tra

l’azienda, i fornitori e i distributori;

il miglioramento della soddisfazione del cliente, offrendo velocità di

consegna.

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Il raggiungimento di tali obiettivi necessita di una forte integrazione tra i vari

elementi della catena; una delle più moderne definizioni di SCM enfatizza proprio

l’aspetto dell’ ”integrazione dei processi aziendali che rendono disponibili i prodotti,

i servizi, e le informazioni che aggiungono valore per i clienti, a partire dai

consumatori finali risalendo fino ai produttori di materie prime” [Cooper, 1997].

Il SCM altro non è che la gestione (management) della catena (chain) di fornitura

(supply). L’orizzonte di riferimento si allarga dall’interno dell’impresa all’esterno

includendo tutti i fornitori e sub-fornitori, passando per il processo produttivo ed

arrivando al consumatore finale. La figura mostra schematicamente l’ambito del

Supply Chain Management:

Il Council of Supply Chain Management Professionals (CSCMP) definisce come

segue il Supply Chain Management:

“Il Supply Chain Management abbraccia la pianificazione e la gestione di tutte le attività

inerenti alle risorse e agli approvvigionamenti, alla conversione di esse e a tutte le attività di

gestione logistica. Essa include anche, in maniera preponderante, la coordinazione e la

collaborazione con i partner di canale, che siano fornitori, intermediari, terzi fornitori di

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servizi o clienti. In sostanza, il supply chain management integra la gestione della fornitura e

della domanda all’interno ed attraverso le imprese. Il Supply Chain Management è una

funzione integratrice con responsabilità primarie nel connettere le principali funzioni e

processi aziendali all’interno ed attraverso le aziende in un modello di business coesivo e

altamente performante. Esso include tutte le attività di gestione logistica di cui sopra cosi

come le operazioni di produzione portando all’integrazione dei processi e delle attività

all’interno ed attraverso le funzioni di marketing, vendite, progettazione del prodotto, finanza

ed IT”.

Come emerge dalla figura, il processo logistico individua le componenti logiche

capaci di svolgere un certo ruolo, osservando regole prefissate e in relazione ai

legami esistenti con altre componenti.

Questi elementi logici rappresentano un primo disegno delle unità organizzative

addette a svolgere il processo logistico con le sottese attività. Tali unità organizzative,

combinazione di elementi umani, tecnici e finanziari, sono specializzate per

l’esecuzione di determinati compiti e attività, in conseguenza delle modalità di

divisione del lavoro operate dall’impresa, nonché dalla specifica configurazione

tecnica dei mezzi utilizzati.

Con riguardo al processo logistico, generalmente le imprese affidano ad un’unità

organizzativa l’ attività di approvvigionamento, ad un’altra quella di gestione delle scorte

ed un’altra ancora quella di distribuzione fisica.

All’ unità organizzativa preposta all’attuazione dell’attività di approvvigionamento è

richiesto di identificare le fonti, impostare il rapporto e acquistare, in modo

economico, le quantità e le qualità di materie occorrenti allo svolgimento del

processo di trasformazione, osservando le condizioni di tempo e luogo stabilite dai

piani di produzione.

Diversamente, all’unità organizzativa addetta alla gestione delle scorte spetta i

compito del ricevimento, stoccaggio e movimentazione interna delle materie

necessarie alla regolare esecuzione del processo produttivo, con l’obiettivo di

garantirne la pronta disponibilità.

Infine, all’unità organizzativa deputata allo svolgimento dell’attività di distribuzione

fisica è affidato il compito del ricevimento e stoccaggio dei prodotti finiti ai vari

livelli della rete di distribuzione, nonché della preparazione delle spedizioni e del

trasferimento materiale dei prodotti dal magazzino prodotti finiti ai depositi, transit

point, centri distribuzione e da qui al cliente e/o ai punti vendita, garantendo la

disponibilità dei prodotti finiti sui loro mercati.

Sovente tali unità organizzative sono dotate di un momento decisionale in parte autonomo

dall’organo di governo dell‘ impresa e limitatamente alle deleghe ad esso rilasciate. Ciò le fa

ergere da sub-sistemi operativi a sub-sistemi vitali, in quanto progressivamente riescono a

maturare proprie capacità di autonoma sopravvivenza rispetto al contesto di appartenenza.

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5.2 – Il processo di Approvvigionamento

L’impresa industriale si approvvigiona dall’esterno di variegate tipologie di beni e

servizi, eterogenee sotto il profilo economico – tecnico, quali, ad esempio, materie

prime, materiali, parti, componenti, moduli, macchinari, ecc.

Il processo di approvvigionamento risulta focalizzato sul cliente interno

rappresentato dal processo di produzione, in quanto si occupa di soddisfare di

soddisfare il fabbisogno di materie, componenti e parti necessarie alla

trasformazione.

Per quanto attiene alla finalità, il processo di approvvigionamento è orientato verso

due direzioni, intimamente connesse l’un l’altra. Infatti, da un lato, è rivolto

all’identificazione delle fonti di approvvigionamento e all’impostazione di rapporti

di fornitura capaci di garantire la disponibilità di materiali, parti e componenti nel

lungo termine; dall’altro, ad acquistare in modo economico, le quantità di beni e

servizi necessari all’attuazione dei processi di produzione dell’impresa, rispettando

le specifiche qualitative, nonché le condizioni di tempo e di luogo richieste dai piani

di trasformazione industriale dell’azienda acquirente.

Ciò genera valore, contribuendo al conseguimento della finalità del sistema impresa,

cioè alla sopravvivenza. Infatti, dato che l’utilità dell’output dipende anche dalla sua

disponibilità, che discende, a sua volta, da quella degli input del processo

produttivo, la gestione dei materiali origina vantaggi competitivi e crea valore

contribuendo a soddisfare in modo adeguato le attese dei sovrasistemi di riferimento,

sia influenti che rilevanti.

Inoltre, va rilevato che il processo di approvvigionamento risulta di tipo funzionale,

in quanto si sviluppa e si esaurisce nell’ambito del solo dipartimento aziendale in cui

è collocato, qualunque sia la struttura organizzativa logistica prescelta.

Infine, il processo di approvvigionamento è interorganizzativo, poiché ad esso è

connaturato l’intrattenimento di rapporti con le imprese fornitrici al fine dello

scambio di materie e informazioni.

Negli ultimi anni, in molti dei settori industriali si è rafforzata la tendenza delle

imprese ad esternalizzare la produzione di componenti e moduli del prodotto finito e

a concentrare le risorse sulle attività ritenute più critiche per il conseguimento del

vantaggio competitivo. Ciò ha contribuito ad accrescere la rilevanza strategica e la

complessità gestionale delle politiche di approvvigionamento.

La politica di approvvigionamento comprende quell’ insieme di decisioni e di

strumenti manageriali, attinenti alla gestione del rapporto con le imprese fornitrici,

nelle sue diverse fasi (dalla contrattazione al controllo della qualità).

In pratica, l’approvvigionamento comprende le seguenti principali attività: analisi

dei mercati d’acquisto, ricerca e valutazione preventiva di nuovi fornitori, selezione

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del fornitore, progettazione degli strumenti di controllo delle prestazioni del

fornitore.

Negli studi di management è ormai consolidata l’idea l’attività di

approvvigionamento non può essere svolta in modo indifferenziato, ma deve essere

pianificata e prevedere politiche articolate in funzione delle diverse caratteristiche

degli apporti esterni. A tale fine un classico strumento utile per la definizione di

appropriate politiche di approvvigionamento è costituito dalla matrice di Kraljic.

Questa individua quattro tipologie di acquisti in funzione delle seguenti due

variabili:

l’importanza economica e/o strategica del materiale acquistato nel processo

produttivo dell’impresa cliente; essa è strettamente collegata all’impatto che

l’acquisto di uno specifico materiale esercita sulla redditività dell’impresa

acquirente;

il rischio di approvvigionamento, che attiene al livello di difficoltà che l’impresa

acquirente incontra nel reperire il componente sul mercato. La rischiosità dell’

acquisto è maggiore, quando il numero dei fornitori di uno specifico materiale

è ridotto (elevata concentrazione del mercato) e quando il grado di

standardizzazione del semilavorato da acquistare è basso.

Come rappresentato dalla figura, possono essere individuate le seguenti tipologie di

materiali:

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1. Materiali “non critici”. Rientrano in questa categoria i materiali e le

componenti che non presentano problemi di reperibilità, essendo prodotti da

un elevato numero di fornitori, e che hanno un impatto limitato sulla

redditività dell’ impresa cliente. In questo caso l’obiettivo principale della

politica di approvvigionamento è la riduzione dei costi del processo

d’acquisto (efficienza funzionale), conseguita mettendo in concorrenza tra loro

i fornitori dello stesso materiale e sfruttando il proprio potere contrattuale.

2. Materiali con “effetto leva”. Si tratta di materiali, che sono prodotti da un

numero elevato di fornitori e che hanno rilevanti effetti sulla redditività dell’

acquirente (effetto leva). Proprio l’importanza economica del prodotto

acquistato rende ancora più critico l’obiettivo della riduzione dei costi, che è

ottenuto anche mediante la ricerca di materiali sostitutivi. Particolare enfasi va

posta sulla riduzione del livello delle scorte, che può essere ottenuta con una

gestione del flusso dei materiali “sincronizzata” rispetto ai tempi di

lavorazione richiesti dal programma di produzione (logica del flow control).

3. Materiali “colli di bottiglia”. Questa tipologia di materiali si caratterizza per

un elevato rischio di approvvigionamento e per una limitata importanza

economica. Data la difficoltà nel reperire tali materiali (a causa delle ridotte

possibilità di sostituire l’attuale fornitore), l’obiettivo principale della politica

di approvvigionamento è quello di assicurare con continuità la disponibilità

del materiale nella quantità e nei tempi richiesti dal programma di

produzione. Il ridotto impatto economico del materiale può rendere

conveniente la creazione di scorte, per fronteggiare eventuali ritardi o

interruzioni nelle forniture.

4. Materiali “strategici”. Sono componenti “chiave” per l’attività produttiva

dell’azienda acquirente (data la loro importanza economica e strategica) e

vengono offerti sul mercato da un numero limitato di imprese. Le

caratteristiche di questi materiali rendono opportune politiche di

approvvigionamento volte non solo all’efficienza, ma anche allo sviluppo di

rapporti di collaborazione con i fornitori, che garantiscano la stabilità e la

disponibilità del materiale nel lungo periodo.

5.3 – Il processo di Gestione delle Scorte

Il processo di gestione delle scorte è focalizzato sul cliente interno rappresentato dal

processo di trasformazione, in quanto si occupa delle materie, componenti, parti e

del conseguente flusso nell’azienda dalle fonti esterne di approvvigionamento sino

alla loro trasformazione in beni finiti tramite il processo produttivo.

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Per quanto attiene la finalità, il processo di gestione delle scorte è orientato a ricevere,

conservare e movimentare in modo economico i materiali indispensabili per la

regolare attuazione del processo produttivo, assicurandone la pronta disponibilità

agli utilizzatori.

Ciò genera valore e contribuisce al conseguimento della sopravvivenza. Infatti, dato

che l’utilità dell’output dipende pure dalla sua disponibilità e questa discende da

quella degli input della trasformazione, il processo di gestione delle scorte crea

vantaggi competitivi e crea valore contribuendo a soddisfare in modo adeguato le

attese dei sovra sistemi di riferimento, sia influenti che rilevanti.

Similmente a quanto osservato con riferimento al processo di approvvigionamento,

anche questo processo è funzionale perché si estrinseca e si esaurisce nell’ambito del

solo dipartimento aziendale in cui è posto, a prescindere dalla struttura

organizzativa adottata.

Infine, non è interorganizzativo, in quanto il suo svolgimento non comporta

l’intrattenimento di rapporti con altre entità sistemiche esterne all’impresa.

In via generale le “scorte” sono costituite da tutti i materiali, di diversa natura, con

differenti motivazioni e con vari obiettivi, che si trovano fisicamente in locali di

produzione o di stoccaggio dell’impresa, la quale ne esercita anche il controllo.

Prescindendo dalle scorte “speculative”, che derivano dal tentativo di trarre un

vantaggio economico collegato ad una variazione eccezionale dei prezzi in un dato

periodo di tempo, secondo una classificazione, fondata sulla funzione svolta dai

materiali nel sistema logistico, si rilevano:

Le scorte di transito, che sono costituite dai materiali che devono essere trasferiti

da un luogo all’altro all’interno o all’esterno dello stabilimento;

Le scorte di ciclo, che derivano dal fatto che l’azienda produce o acquista in lotti

e che sono collegate all’ entità dei lotti stessi, nonché alla diversa durata delle

fasi di lavorazione;

Le scorte di sicurezza, che sono dirette a fronteggiare gli effetti negativi di

variazioni non previste nell’andamento della domanda, nel rapporto con i

fornitori o nello svolgimento dei processi di produzione.

Il problema fondamentale è costituito dal fatto che la scelta dell’impresa nella

gestione dei materiali comprende due esigenze economiche concomitanti:

Da un lato, c’è l’esigenza di avere disponibili i vari materiali, semilavorati,

componenti o prodotti finiti, nel momento in cui questi sono necessari per

poter svolgere convenientemente l’attività successiva (di produzione o di

distribuzione);in altri termini occorre evitare che, quando si rivolge a un

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magazzino di un qualsivoglia materiale, l’operatore umano non trovi la

quantità richiesta di un determinato articolo;

Dall’altro, è opportuno che, per assicurarsene la disponibilità, la scorta di ogni

materiale non risulti “troppo elevata” rispetto alla quantità occorrente, e non

risulti “troppo in anticipo”, rispetto al momento in cui viene richiesta: l’ideale

è avere disponibile la quantità necessaria nell’istante in cui questa viene

richiesta.

Ciò deriva dal fatto che, il mantenimento di scorte costituisce un vero e proprio

investimento in risorse, che non genera un diretto rendimento economico: le scorte

rappresentano infatti contabilmente un elemento del cosiddetto “capitale circolante”

che rimane “immobilizzato” per il periodo di tempo in cui esse esistono. A ciò va poi

aggiunta la destinazione di risorse per il sostenimento dei vari tipi di costi collegati al

mantenimento delle scorte.

Non c’è dubbio che l’impresa ha convenienza a esercitare un attento e costante

monitoraggio delle stesse. Un utile indicatore è costituito dall’ indice di rotazione

delle scorte (inventory turnover). Esso è dato dal rapporto tra la quantità totale di un

dato materiale consumata in un certo periodo di tempo e la sua giacenza media nello

stesso periodo.

Esso indica quante volte la scorta media del materiale si rinnova in un dato periodo

di tempo, in conseguenza degli utilizzi di materie prime e componenti nel processo

produttivo e delle vendite dei prodotti finiti.

L’ aumento dell’indice di rotazione costituisce un fatto positivo per due motivi:

a) Rivela un aumento del consumo del materiale, dovuto ad un incremento del

volume di produzione e di vendita del prodotto finito;

b) Segnala un minore periodo di permanenza delle scorte in magazzino, il quale

si traduce in un minore immobilizzo di capitale.

In genere la gestione dei materiali viene impostata secondo una delle due seguenti

logiche:

a) La logica dello stock control, denominata anche del look back (guardare indietro);

b) La logica del flow control, denominata anche del look ahead (guardare avanti).

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Ognuna presenta specifici vantaggi e svantaggi.

La principale differenza tra le due logiche consiste nel differente momento in cui viene emesso

l’ordine d’acquisto del materiale, rispetto al momento del fabbisogno di tale materiale.

a) Nella logica dello stock control, viene prevista una scorta che viene

reintegrata, mediante il lancio di un ordine di approvvigionamento, quando si

accerta che il livello dello stock è diminuito rispetto al fabbisogno previsto,

oppure secondo una cadenza costante nel tempo. Il fabbisogno non viene

stimato in funzione di quanto potrà manifestarsi in futuro, ma si concreta in

una congettura, formulata sulla base di dati storici.

b) Nella logica del flow control, l’attenzione si sposta dal controllo dello stock al

controllo del flusso dei materiali. Invece di fondarsi sulla predisposizione ex-

ante di una scorta, tale metodo s’incentra nella pianificazione e nel controllo

del flusso che attraversa i vari stadi della supply chain.

In genere gli studiosi attribuiscono una superiorità alla logica flow control, rispetto a

quella dello stock control. I principali vantaggi del flow control posso essere sintetizzati

nei seguenti elementi:

Minore capitale immobilizzato nell’investimento in scorte, poiché queste sono

dirette a soddisfare una precisa domanda, la quale dovrebbe assorbire la

totalità delle giacenze;

Maggiore velocità nel porre in sintonia le variazioni delle attività produttive

con le variazioni della domanda, grazie alla mancanza di ritardi dovuti alla

presenza delle scorte;

Minore rischi di obsolescenza degli articoli, dato che in genere viene fabbricata

soltanto la quantità richiesta.

È tuttavia opportuno rilevare anche i seguenti svantaggi:

Il management aziendale non sempre dispone di dati effettivi sulle richieste di

mercato e inoltre i fabbisogni previsti possono risultare molto incerti,

compromettendo così la valida applicazione della logica flow control;

Occorre predisporre un sistema informativo sofisticato e complesso, i cui costi

di progettazione e gestione potrebbero superare i vantaggi connessi alla

riduzione degli oneri di mantenimento degli stock.

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La scelta della logica da adottare per la gestione di ogni tipologia di materiale si basa,

inoltre, sull’analisi di alcuni fattori:

a) Il rapporto tra lead time e tempo di programmazione. La logica del flow control può

essere adottata soltanto quando il lead time (tempo di riordino) di un dato

materiale è inferiore al periodo di tempo che intercorre tra il momento in cui

viene definito il programma di produzione e il momento in cui inizia la

specifica fase di lavorazione in cui quel materiale è richiesto.

b) Il valore d’impiego dei materiali. Il valore d’impiego di un materiale è dato dal

prodotto tra la quantità consumata (o che si prevede di consumare) nel

periodo consumato e il suo valore unitario (il prezzo d’acquisto). Nella realtà

accade spesso che una quota molto rilevante del valore d’impiego complessivo

di tutti i materiali si concentra su un numero esiguo di essi. Per i pochi

materiali ad alto valore d’impiego sarà conveniente attuare un controllo

rigoroso delle scorte, al fine di contenere il relativo investimento: ciò è

possibile con la logica flow control. Per i numerosi materiali (codici) a basso

valore d’impiego possono essere invece adottati metodi stock control, che

risultano meno costosi, nonché più semplici e convenienti sotto il profilo

gestionale.

c) Natura della domanda. Si suole distinguere i materiali in due tipologie:

Materiali a domanda dipendente (materie prime, componenti, moduli,

ecc.), il cui fabbisogno può essere calcolato con precisione, a partire

dalla domanda del prodotto finito. Per questi codici, l’impresa può

scegliere se adottare la logica flow control o la logica stock control:

verrà privilegiata la prima specialmente per i materiali ad elevato

valore d’impiego;

Materiali a domanda indipendente (prodotti finiti, pezzi di ricambio, ecc.), i

cui fabbisogni derivano direttamente dalle casuali richieste del mercato.

In questo caso, non essendo possibile individuare relazioni

matematiche tra il fabbisogno del materiale e la domanda del prodotto

finito, risulta inevitabile l’impiego della logica stock control.

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d) La frequenza d’uso del materiale. Il fabbisogno dei materiali, che vengono

utilizzati con un’elevata frequenza nello svolgimento delle attività produttive,

può essere previsto con un alto grado di affidabilità, utilizzando tecniche

statistiche (analisi serie storiche). In tal caso per l’impresa è conveniente

adottare la logica dello stock control, in quanto semplice e poco costosa.

Quando la frequenza d’uso è bassa, si riduce la significatività dei dati storici e

quindi l’impresa ha convenienza a lanciare gli ordini di produzione e di

approvvigionamento in base ai fabbisogni effettivi (logica flow control).

Le principali finalità di un buon sistema di gestione delle scorte sono essenzialmente

due:

assicurare l’esistenza a magazzino dei materiali necessari all’attività

industriale nel momento in cui essi necessitano;

contenere al minimo gli oneri di gestione del magazzino ed i costi di

approvvigionamento.

Una corretta gestione delle scorte impone come primo elemento di valutazione

l’individuazione del quantitativo minimo di ogni articolo, che deve permanere

costantemente in magazzino: questo valore è definito “scorta minima” o “scorta di

sicurezza”.

La scorta minima è quindi la quantità limite che deve sempre trovarsi in magazzino

al fine di garantire il regolare svolgimento dei processi produttivi e distributivi.

Per la determinazione della scorta minima è necessario conoscere:

il lead-time, ossia il tempo richiesto per l’approvvigionamento;

la quantità che viene assorbita nel periodo intercorrente tra il momento di

attivazione dell’ordine e il momento di disponibilità dei materiali;

il coefficiente di sicurezza con cui si vuole soddisfare la domanda. Numero

compreso nell’intervallo [0%;100%]

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Ossia:

Dove:

LT = Lead Time;

CMM = Consumo Medio Mensile;

CS = Coefficiente di Sicurezza.

La determinazione del livello di riordino, invece, dipende dai seguenti fattori:

tempo necessario per spiccare l’ordine;

tempo necessario per l’arrivo della merce;

tempo necessario per la messa a disposizione della merce.

Il livello di riordino è dunque calcolato moltiplicando le unità di tempo occorrenti

per l’approvvigionamento (giorni, settimane) per il consumo nell’unità di tempo. Se,

ad esempio, la società Beta utilizza 20 q di lamiera di ferro alla settimana e se per

riapprovvigionarsi dovranno trascorrere due settimane, il livello di riordino sarà pari

a 40 q. Questo, però, nell’ipotesi in cui la società voglia operare senza una scorta

minima di sicurezza, cioè con il rischio, per un aumento di consumi o per un

allungamento del tempo guida, di andare sottoscorta.

La gestione dei rischi e degli oneri relativi alle scorte richiede di considerare,

singolarmente, le diverse voci di costo che compongono il costo complessivo delle

giacenze.

In particolare, i costi associati alle scorte di magazzino sono determinati da:

costi di ordinazione, la cui incidenza decresce all’aumentare delle quantità

ordinate;

costi di stoccaggio delle scorte, che per contro aumentano al crescere delle

quantità ordinate.

Le quantità ottimali sono perciò individuate dal punto di intersezione delle due

funzioni che rappresentano l’andamento dei costi appena descritti.

Graficamente tale situazione può essere rappresentata nel modo che segue:

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Grafico per la determinazione del lotto economico di acquisto

Il punto minimo dei costi si può determinare con una relazione abbastanza diffusa e

sufficientemente attendibile (formula di Wilson):

da cui

Sulla base della diversa logica di reintegro del magazzino (logica stock control), le

tecniche di gestione delle scorte possono essere distinte in modelli “quantità fissa”

e modelli “a periodo fisso”.

a) Tecniche di riordino “a quantità fissa”

Le tecniche “a quantità fissa” si caratterizzano per il controllo continuo del

materiale in stock e, quando le scorte scendono a un determinato livello

minimo, avviene il reintegro, sempre della medesima entità. Com’è illustrato

nella figura, in tale modello, la dimensione del lotto (di acquisto o di

produzione) rimane invariata, mentre cambia l’intervallo tra un ordine e il

successivo, in conseguenza delle variazioni nel volume di assorbimento del

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materiale; i periodi di tempo sono infatti diversi: è minore di , ma è

maggiore di .

Il funzionamento del modello può essere così semplificato: il controllo

continuo del magazzino consente di individuare il momento, in cui il livello

delle scorte raggiunge il “livello di riordino” (LR). In questo momento

l’impresa emette l’ordine di una data quantità, il cosiddetto “lotto economico”

(Q*).

La previsione del livello di riordino è necessaria, perché tra il momento

dell’emissione dell’ordine e il momento in cui è di nuovo disponibile il

materiale intercorre un certo lasso di tempo, denominato “periodo di

approvvigionamento” ( ).

Il livello di riordino può essere calcolato moltiplicando il “periodo di

approvvigionamento” ( ) per la quantità media di uscita del materiale

nell’unità di tempo (Q*), aggiungendo poi la quantità ( ) => = + .

Infatti, occorre osservare che il fabbisogno del materiale durante il periodo di

approvvigionamento potrebbe essere superiore a quello previsto e inoltre

anche i tempi di riapprovvigionamento potrebbero allungarsi; per

fronteggiare tali eventualità l’impresa predispone un livello di “scorta di

sicurezza” ( ), opportunamente determinato.

Con tale modello si deve sostenere il costo relativo al controllo continuo del

magazzino, ma si può attuare un approvvigionamento diretto a soddisfare le

esigenze dell’impresa, senza la costituzione di scorte impreviste.

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b) Tecniche di riordino “a periodo fisso”.

Le tecniche di gestione delle scorte a “periodo fisso” prevedono il controllo

dello stock e l’emissione degli ordini (di acquisto o di produzione) a intervalli

di tempo costanti e per quantità variabili, in funzione degli andamenti della

domanda verificatisi nei vari periodi.

Nel grafico illustrato in figura, la quantità di materiale ordinata all’inizio di

ciascun intervallo di tempo (indicata con ) risulta variabile ed è pari alla

differenza tra un prefissato livello di scorta obiettivo (denominato “livello di

reintegro” e corrispondente al livello ( ) nel grafico) e il livello dello stock

esistente in magazzino al momento del controllo.

Poiché il consumo del materiale in stock continua anche nell’intervallo ( ),

intercorrente tra l’istante di emissione dell’ordine ( ) e l’istante di ricevimento

delle merci ( + ), la scorta in magazzino non raggiunge perfettamente il

livello di reintegro , ma si attesta a un livello inferiore.

In questo sistema di gestione delle scorte “ il livello di reintegro” viene

calcolato sommando i seguenti due elementi:

Il fabbisogno medio complessivo previsto tra due momenti contigui di

controllo e durante il periodo di approvvigionamento: tale fabbisogno,

indicato con nel grafico, può essere stimato sulla base dei passati

consumi del materiale;

La scorta di sicurezza , necessaria per far fronte alla variabilità del

fabbisogno del materiale nel periodo, che comprende l’intervallo tra un

ordine e il successivo e il periodo di approvvigionamento.

Per quanto concerne invece l’intervallo costante di reintegro ( + ), questo può

essere determinato in modo arbitrario.

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I principali metodi che si riconducono, invece, al criterio del flow control sono: il

Material Requirement Planning (MRP), il Just in Time e il Kanban.

Material Requirement Planning (MRP)

Il Material Requirement Planning, oltre ad essere una logica di pianificazione delle

produzione, è un vero e proprio modulo informativo adibito alla pianificazione di

dettaglio. L’MRP è una tecnica di gestione dei materiali ispirata alla logica del flow

control. Il suo obiettivo di fondo è di far coincidere il momento in cui si manifesta il

fabbisogno di un dato materiale con il momento in cui quel materiale è disponibile, al

fine di evitare inutili immobilizzi di scorte.

Tramite l’ MRP, quindi, è possibile controllare lo stato delle scorte all’interno dei

magazzini, schedulare in modo preciso gli ordini di produzione ed effettuare

agevolmente una revisione di quanto pianificato in seguito a qualche cambiamento

nel Piano Principale di Produzione (MPS). Il controllo dello stato dei magazzini

assicura che i materiali siano disponibili al momento in cui servono con i minimi

livelli di scorta nel tempo.

Rispetto ai metodi “a quantità fissa” e “a periodo fisso” relativi alla logica dello stock

control, la gestione secondo la filosofia MRP risulta molto più efficiente, in termini di

livelli medi di scorte, qualora i prodotti finiti siano soggetti ad una domanda molto

variabile.

L’andamento delle scorte all’interno dei magazzini si adatta infatti perfettamente alle

fluttuazioni delle domande. Con il metodo MRP, la gestione dei prodotti finiti viene

trasformata nella gestione del fabbisogno dipendente di prodotto finito.

Di fatto tale logica parte da un’esigenza di produzione o di consegna, definita in

termini sia quantitativi sia temporali, a cui segue il calcolo dei fabbisogni di materiali

necessari per terminare con il lancio degli ordini di acquisto o di produzione, con un

anticipo sufficiente per ottenere il rifornimento in tempo utile. L’MRP presuppone in

altre parole una programmazione della produzione coerente con il sistema di

pianificazione.

Ovviamente tale sistema richiede un sistema di gestione in grado di fornire elementi

informativi completi, tempestivi ed affidabili. Gli input del sistema vengono generati

dai molteplici attori coinvolti nel processo di trasformazione: l'Ufficio Tecnico per lo

sviluppo delle distinte base di prodotto; l'Ufficio Tempi e Metodi per la definizione

dei cicli di lavorazione; la Produzione per le disponibilità di capacità produttiva;

l'Ufficio Approvvigionamenti per i dati relativi a tempi e specifiche d'acquisto, ecc.

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Tali dati confluiscono in un'unica Base Dati che ha lo scopo di creare ed aggiornare

gli archivi degli elementi informativi, tecnici e gestionali, di base e dei legami tra essi

intercorrenti.

Il funzionamento di un sistema MRP comporta la disponibilità di informazioni

desunte da:

1. il programma operativo di produzione dei codici dei prodotti;

2. la distinta base di prodotto, che rappresenta l'esplosione del prodotto in tutte le

sue componenti;

3. le giacenze, che esprimono i livelli di giacenza disponibile per ciascun componente

e materiale;

4. i tempi medi di approvvigionamento e produzione (rispettivamente lead time

esterni ed interni), a tutti i livelli e per tutti i codici di distinta base.

Infine, è opportuno sottolineare che l’obiettivo di fondo della tecnica MRP – “azzerare le

scorte” di qualsiasi tipo – viene raggiunto soltanto in presenza di condizioni ottimali di

funzionamento, quali la correttezza delle previsioni della domanda, il rispetto dei

tempi di consegna e degli “standard di qualità” da parte dei reparti interni e dei

fornitori ecc. Ma è stato riscontrato che tali condizioni si verificano difficilmente nella

realtà operativa delle imprese.

Just in Time e Kanban

Negli anni ’50 l’industria giapponese iniziò a sviluppare delle pratiche produttive a

partire da concetti già presenti nel management scientifico e, per quanto riguarda la

pianificazione e gestione dei materiali, nei metodi di gestione a livello di riordino. Le

industrie Toyota, in particolare, codificarono un sistema coordinato di metodi e

approcci alla produzione che furono denominati Toyota Production System (TPS –

Ohno 1988): tale sistema si affermò, negli anni ’60 e ’70 come alternativa ai sistemi

MRP che si erano diffusi nelle aziende occidentali. La forte competizione delle

industrie giapponesi portò gli esperti occidentali ad analizzare tale sistema che fu

denominato produzione Just in Time (JIT) enfatizzandone le caratteristiche

“temporali” e di “reattività”.

L’insieme degli approcci e dei principi TPS non era limitato al sistema di

pianificazione e controllo della produzione, ma pervadeva l’intera azienda. Alla base

della filosofia JIT vi è l’eliminazione di tutti gli sprechi e il miglioramento continuo

della produzione. È quindi evidente che tale concezione si origina a livello strategico

(business) e cerca delle risposte nel dominio della produzione perché ritenuto

potenzialmente in grado di “liberare” dei fattori competitivi.

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Nel corso degli anni ’80 diversi autori rilevarono la forte competitività delle aziende

giapponesi derivante dall’applicazione dei principi di riduzione degli sprechi. Questi

principi furono riproposti con maggiore forza alle industria occidentali assimilandoli

ad una “filosofia” di produzione che fu denominata produzione snella (lean production

–Womack e altri 1991).

Il principio guida del just-in-time è di realizzare il prodotto giusto, nella quantità

richiesta, nel momento in cui esso è richiesto e nelle condizioni pattuite dal cliente.

La realizzazione di tali obiettivi è conseguibile attraverso due aspetti tra loro

connessi:

la produzione di un qualunque centro di lavoro o processo è attivata dalla

domanda che si manifesta a valle (sistema pull);

il processo di produzione deve essere attraversato dalle unità in fase di

realizzazione senza soluzioni di continuità (flusso continuo e bilanciato).

Il JIT è noto in aziende con produzione di tipo ripetitivo, cioè in cui si hanno flussi

continui di unità discrete che subiscono lavorazioni successive con una cadenza

definita (montaggi). Si è visto che tali sistemi produttivi in genere sono svantaggiosi

nel caso si abbiano ampie varietà di prodotti in quantità limitate.

L’obiettivo del just-in-time è ottenere una elevata flessibilità nella capacità

produttiva, adeguando la produzione alla effettiva domanda del cliente finale, con

un livello di scorte minimo. Per ottenere questo risultato, la produzione deve essere

tirata dalla domanda (logica pull) ed operare su un flusso continuo di materiale.

Idealmente, la condizione ottima per il just-in-time sarebbe la produzione di un lotto

unitario, dunque un flusso di un solo pezzo per volta lungo la catena del valore.

Questo presupporrebbe i medesimi tempi di ciclo per tutte le fasi di un processo,

processi strettamente sincronizzati, processi stabili (varianza nulla nei tempi di ciclo),

tempi di setup nulli. Per ragioni tecnologiche, non è possibile ottenere questa

situazione nella realtà: il justin- time si propone comunque l’obiettivo di minimizzare

i lotti di produzione, attraverso la produzione del mix desiderato effettivamente dal

cliente, in virtù dei ridotti tempi di setup, riducendo il più possibile i valori delle

scorte interoperazionali, poiché il processo produttivo funziona in tempo reale, in

base ad una logica di trazione legata alla domanda.

Il JIT, imponendo una riduzione di LT e un sistema di produzione pull, richiede un

modo per generare un segnale di richiesta di materiale che costituisce altresì

l’autorizzazione a produrre. Secondo gli ideatori del TPS, si dovrebbe evitare una

procedura troppo formale o strutturata che richieda eccessivo tempo per determinare

reazioni nel sistema produttivo. Gli sviluppatori del JIT hanno perciò introdotto un

metodo che utilizza dei semplici cartellini che riportano delle informazioni (numero

delle parti e identificazione; localizzazione dello stoccaggio; dimensione del

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contenitore;ecc.), che prende il nome di Kanban, cioè una scheda applicata a

contenitori speciali, ciascuno capace di un numero prescritto e assai ridotto di

materiali.

Il sistema Kanban ha come presupposto la corretta realizzazione ed il supporto del

livellamento della produzione, del corretto layout dello stabilimento e dei macchinari

(allo scopo di ottimizzare le movimentazioni dei pezzi e ridurre i tempi di

attraversamento), della riduzione dei tempi di attrezzaggio dei macchinari, della

standardizzazione dei cicli di lavoro, del controllo autonomo dei difetti (jidoka).

Il nome “kanban” identifica propriamente il sistema che rende visibile l’attività compiuta

in un centro di lavoro.

In particolare, si devono evidenziare le operazioni che richiedono scambi tra attività,

sia in termini di materiali che di informazioni. L’origine del nome risale a quella di

“insegna” che rende immediatamente chiara l’attività svolta in un locale. Si è

successivamente diffusa l’abitudine di indicare con il termine kanban i cartellini che

costituiscono uno degli elementi più noti del sistema stesso.

Si possono predisporre sistemi a uno o due cartellini. Nel secondo caso, vi sono due

tipi di kanban: il kanban di produzione (production kanban), che può essere assimilato ad

una autorizzazione a realizzare un pezzo o semilavorato, ed il kanban di prelievo

(withdrawal kanban), che può essere identificato con una autorizzazione a prelevare.

Tra due stazioni produttive consecutive, separate da un buffer interoperazionale, la

strategia pull prevede che la stazione a monte attivi la produzione solo su richiesta

della stazione a valle. Il kanban è quindi lo strumento con cui la stazione a valle

comunica i suoi fabbisogni alla stazione a monte.

Il numero di kanban rimane costante per un periodo di tempo stabilito dal

responsabile di processo dopo essere stato calcolato in funzione del fabbisogno

mensile, della criticità del materiale, del lead-time di produzione/consegna.

Tale numero può essere aggiornato con cadenza quindicinale o mensile in funzione

della variazione della domanda. Si è osservato infatti che il controllo della

produzione con il kanban può essere adottato solo per piccole fluttuazioni di

domanda. Secondo Toyota, variazioni di domanda di circa il 10%, possono essere

gestite cambiando semplicemente la frequenza di rotazione dei kanban senza

modificarne il numero totale.

Nel caso di grandi variazioni di domanda rispetto ad un programma già emesso o

rispetto a quello del mese precedente, è necessario riorganizzare tutte le linee di

produzione, attraverso un ricalcolo del tempo di ciclo di ciascun reparto e

verificando nuovamente le risorse necessarie. In alternativa, si dovrà aumentare il

numero totale di kanban.

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Il sistema kanban deve essere supportato da una corretta gestione della

movimentazione dei materiali all’interno dello stabilimento. Questo aspetto si

inserisce all’interno della riduzione delle attività non a valore aggiunto, in quanto il

cliente non ha percezione di queste attività ed esse non determinano alcun aumento

del livello di servizio o delle prestazioni nei confronti del fruitore del prodotto. La

movimentazione dei componenti deve dunque essere condotta con efficienza. Allo

scopo di ridurre le attività non a valore aggiunto, è necessario ridurre le

movimentazioni di materiale e lo spazio complessivamente percorso dai materiali e

dagli operatori di magazzino.

5.4 – Il processo di Distribuzione Fisica

Il processo di distribuzione fisica è un processo focalizzato sul cliente esterno, in

quanto si occupa dei prodotti finiti e del derivante flusso verso il mercato del

consumo, dalla fine del processo di produzione al cliente finale.

Per quanto attiene la finalità, la distribuzione fisica è orientata a conservare e ad

assicurare un tempestivo collocamento dei prodotti finiti sui loro mercati, portando il

prodotto appropriato al posto, nel momento, nella quantità qualità e condizioni

giuste.

Ciò genera valore, altro carattere essenziale del processo in questione, e contribuisce

al conseguimento della finalità dell’impresa, cioè alla sopravvivenza.

Infatti, dato che l’utilità dell’ output dipende anche dalla sua disponibilità, la

distribuzione fisica origina vantaggi competitivi e crea valore contribuendo a

soddisfare in modo adeguato le attese dei sovra sistemi di riferimento, sia influenti

che rilevanti.

Proseguendo nell’analisi delle caratteristiche del processo in esame, va rilevato che

quest’ultimo risulta funzionale, in quanto si sviluppa e si esaurisce nell’ambito del

solo dipartimento aziendale in cui è collocato, qualunque sia la struttura

organizzativa logistica prescelta.

Infine, il processo di distribuzione fisica è interorganizzativo, poiché ad esso è

connaturato l’intrattenimento di rapporti con le imprese distributrici.

Come evidenziato, lo scopo ultimo del processo di distribuzione fisica è di

conservare e garantire un sollecito collocamento dei prodotti finiti sul mercato del

consumo, osservando le specifiche di quantità, qualità, tempo, e luogo richieste dai

clienti.

L’esigenza di conservare i prodotti finiti dipende dal livello di disaccoppiamento tra i

tempi e i ritmi con i quali avviene la produzione e quelli della vendita a causa di

variazioni cicliche, stagionali o congiunturali della domanda e per vari altri motivi,

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più o meno naturali e fisiologici. È indubbio, infatti, che tanto più il flusso di

produzione è slegato da quello di vendita, tanto più vi è bisogno di polmoni, di

volani, che prendono il nome di “giacenze”, allorché invece di svolgere

semplicemente una funzione fisiologica di ammortizzatore, si costituiscono in

eccedenza di produzione sulla vendita e giacciono appunto invendute o per eccesso

di produzione o per carenza di domanda.

Come per le scorte, ciò può dipendere dal modello di produzione adottato e dalla

tipologia organizzativa del processo produttivo, dalla necessità di concentrare la

trasformazione degli input in certi periodi dell’anno, nonché dall’andamento della

domanda.

Per quanto concerne il primo fattore, infatti, l’adozione della lean production,

attraverso la tecnica del just in time, attuando la produzione al tasso di vendita

minimizza il bisogno di giacenze con l’obiettivo tendenziale di eliminarle del tutto,

rappresentando esse uno spreco. Diversamente, l’approccio tradizionale alla

produzione sostiene l’utilità della creazione di giacenze perché garantiscono la

massima efficienza della trasformazione, consentendo, da un lato di ottimizzare i

lotti di produzione e, dall’altro, di evitare che la programmazione della produzione

debba variare drasticamente il livello della qualità prodotta per adeguarsi

prontamente alle irregolarità del mercato del consumo.

Per quanto riguarda la tipologia di processo adottata, è ben chiaro che nella

produzione su commessa le giacenze sono modeste. Negli altri tipi di processo,

invece, possono essere più o meno elevate a seconda delle esigenze distributive.

Su di un altro fronte, allorquando l’impresa attua trasformazioni di beni deperibili e

disponibili soltanto in certi periodi dell’anno, come, ad esempio, l’industria

agroalimentare, è ben evidente che la necessità di concentrare la trasformazione in un

arco temporale ridotto ed assicurare una sufficiente provvista comporta l’accumulo

d’ingenti quantità di giacenze.

Infine, in merito all’andamento della domanda, la sua irregolarità ed imprevedibilità

possono consigliare il mantenimento di volumi di giacenze da utilizzare come

riserva, tanto più alti, quanto più si intende soddisfare prontamente i picchi delle

vendite.

Nell’ambito nel processo di distribuzione fisica, pertanto, in analogia con quanto

riscontrato con riferimento alle scorte, l’attività di controllo delle giacenze consiste

nel tenere sotto osservazione i volumi dei prodotti finiti mantenuti a stock a tutti i

livelli della rete di distribuzione e reintegrarli nella quantità, nei tempi e nei posti

adeguati per riportarli ad un livello massimo prestabilito, assicurando un buon

servizio al cliente.