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HDIG ONLUS HUMANITARIAN DEMINING ITALIAN GROUP Gruppo Italiano di Sminamento Umanitario C.F.97191910583 Sede operat., via degli Avieri, 00143 RM, fiscal code: 97191910583 Per segnalazioni ed informazioni: tel.+39.348.6924401; tel.+39.339.2940560, facebook: hdig.ong website: www.hdig.org ; e-mail: [email protected] , [email protected] ; IBAN Banca Friuladria (ag.Thiene-VI): IT43 M 053 3660 7900 0004 6284703 1 EnErgia annO 2018 nOtiziE dal 08 lugliO al 15 lugliO nOtiziE E infOrmaziOni Sull’africa E, in particOlarE, Sulla SOmalia E Sui paESi dEl cOrnO d’africa, raccOltE da agEnziE, gruppi, iStituziOni, cOn parEri, cOnSidEraziOni Ed OSSErvaziOni SOmmariO Pag. 02 - 08 lug. Europa: Parlamento europeo condanna EAU per rappresaglia contro Somalia Pag. 03 - 08 lug. Somalia, due esplosioni a Mogadiscio: almeno 10 morti Pag. 04 - 08 lug. C’è libertà religiosa nel mondo attuale? Pag. 05 - 09 lug. Medio Oriente: il piano di Erdogan per controllare Gerusalemme. Stop di Israele Pag. 05 - 10 lug. Somalia: attentato a Mogadiscio, arrestati 14 ufficiali della sicurezza Pag. 06 - 10 lug. Eritrea - Etiopia, una giornata particolare Pag. 07 - 11 lug. Etiopia-Eritrea: Addis Abeba presenta richiesta all’Onu per rimozione sanzioni ad Asmara Pag. 08 - 12 lug. Sud Sudan: nessun progresso nel processo di pace, prossima incontro fra Kiir e Machar a Khartum Pag. 09 - 12 lug. Somalia: presidente Farmajo rientra a Mogadiscio dopo tour a Gibuti e in Turchia Pag. 09 - 12 lug. Nuovo caso Strava, un’altra App spia militari e 007 Pag. 10 - 12 lug. Dichiarazione congiunta sulla Libia dei Governi di Francia, Italia, Regno Unito e Stati Uniti Pag. 11 - 13 lug. Stati Uniti-Somalia: Donald Yamamoto nuovo ambasciatore Usa a Mogadiscio Pag. 11 - 13 lug. Nel Corno d’Africa sembrano delinearsi forti aspettative di pace Pag. 12 - 14 lug. Dubai minaccia azioni contro Pechino per zona libero scambio Gibuti Pag. 13 - 14 lug. HDIG continua la propria presenza nel Corno d’Africa Pag. 13 - 14 lug. Le autorità svizzere sbloccano 60 milioni di dollari sequestrati per una indagine sui fondi angolani Pag. 14 - 15 lug. Somalia. Attacco terroristico contro un albergo del centro di Mogadiscio

EnErgia annO 2018 nOtiziE dal 08 lugliO al 15 lugliOhdig.org/Articoli/Articoli Somalia/Notizie Africa dal 08 lug. al 15... · denominata Crisi del Golfo ed è iniziata quando gli

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nOtiziE E infOrmaziOni Sull’africa E, in particOlarE, Sulla SOmalia E Sui paESi dEl cOrnO d’africa, raccOltE da agEnziE, gruppi, iStituziOni,

cOn parEri, cOnSidEraziOni Ed OSSErvaziOni

SOmmariO

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08 lug. Europa: Parlamento europeo condanna EAU per rappresaglia contro Somalia

Il Parlamento europeo ha criticato gli Emirati Arabi Uniti (EAU) in una risoluzione di giovedì 5 luglio, per aver intrapreso azioni di rappresaglia contro la Somalia. Tali rappresaglie sarebbero dovute alla posizione neutrale del Paese riguardo la crisi delle relazioni dei Paesi del Golfo col Qatar. Questa situazione diplomatica è denominata Crisi del Golfo ed è iniziata quando gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto, l’Arabia Saudita e il Bahrein hanno interrotto i rapporti con il Qatar il 5 giugno 2017 e hanno imposto un blocco delle comunicazioni via terra, mare e aria con il Paese. Il blocco, guidato dai sauditi, ha accusato Doha di sostenere il terrorismo, una accusa negata con determinazione dal Qatar. In questo contesto, in termini di più ampio confronto tra Emirati Arabi Uniti (EAU) e Arabia Saudita, da un lato, e Qatar, dall’altro, il governo federale della Somalia ha cercato di rimanere neutrale. Come rappresaglia per questa scelta, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi hanno cessato i regolari pagamenti di sostegno alla Somalia, il che indebolisce ulteriormente la capacità del governo di pagare le forze di sicurezza, ha affermato la risoluzione dell’Unione Europea. La dichiarazione del Parlamento europeo ha inoltre esortato gli Emirati Arabi Uniti “a cessare immediatamente ogni atto di destabilizzazione in Somalia e a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale della Somalia”. Le relazioni tra la Somalia e gli Emirati Arabi Uniti si sono deteriorate da quando il Paese ricco di petrolio del Golfo ha iniziato a gestire un importante porto nel Somaliland, il territorio separatista del Somalia nel 2017. Il Somaliland è uno Stato non riconosciuto dalla comunità internazionale composto dalle province settentrionali della Somalia. È situato nel Corno d’Africa e occupa l’intera area di quella che fino al 1960 era la Somalia Britannica e che dal 26 giugno al 1 luglio 1960 è stata lo Stato del Somaliland. Confina con il Gibuti a ovest, con l’Etiopia a sud e con la Somalia a est. Le province somale con cui confina il Somaliland, che hanno recentemente rivendicato il diritto a costituirsi in stato autonomo (senza separarsi dalla Somalia), sono il Puntland ed il Khatumo, ma in passato sugli stessi territori erano sorti anche il Maakhir e il Northland. Il Somaliland intrattiene relazioni politiche con Regno Unito, Ruanda, Norvegia, Kenya, Etiopia, Irlanda ed Unione Europea. Quest’ultima, il 17 gennaio 2007, ha inviato una delegazione per gli affari africani per discutere di una futura cooperazione tra Unione Europea e Somaliland. Nel 2007, l’europarlamentare, Annemie Neyts-Uyttebroeck, del partito ALDE, uno dei tre principali dell’Unione Europea, ha inviato una lettera a Javier Solana, l’allora Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’Unione Europea, ed al presidente del Somaliland Dahir Rayale Kahin, nella quale si fa richiesta del riconoscimento ufficiale del Somaliland da parte dell’Unione. Anche gli Emirati Arabi Uniti hanno invitato funzionari del Somaliland per visite di Stato e stanno costruendo una base militare nella regione dal 2017, in base ad un accordo con funzionari della regione. Inoltre DP World, il quarto più grande operatore al mondo con sede a Dubai, ha investito 442 milioni di dollari nel 2016 per lo sviluppo del porto di Berbera, in Somaliland. L’accordo suggerisce che il Paese si sta muovendo verso il riconoscimento dell’indipendenza. La Somalia ha annunciato che gli Emirati Arabi hanno interrotto le sovvenzioni per le proprie forze armate, sintomo che le relazioni tra i due Paesi si sono deteriorate. Il rifiuto della Somalia di prendere posizione nel boicottaggio guidato dal saudita del Qatar, di cui fanno parte gli EAU, ha ulteriormente teso le reciproche relazioni. Una notizia del genere apparsa sui quotidiani mostra la artificiosità dell’argomento con astrazione della realtà dei fatti, indipendentemente dalle qualsivoglia motivazioni politico-diplomatiche. E merita una valutazione ed una riflessione. E’ noto che la tensione tra Somaliland e governo somalo era in atto a seguito dell’accordo del Somaliland con gli Emirati arabi per l’ampliamento del porto di Berbera ma è sfociata in una vera e profonda crisi al momento del sequestro dei fondi inviati degli Emirati per il pagamento delle forze amate somale addestrate dagli emirati motivandolo artificiosamente con notizie false e pretestuose. E chissà perché questa azione, che è stata appositamente architettata dal governo somalo per provocare la crisi diplomatica e non poteva non provocare il forte risentimento degli emiratini e l’abbandono della collaborazione verso di loro, in questa maniera abbia voluto dimostrare chiaramente la scelta di appoggiare il Qatar in questa lotta all’interno del mondo islamico. Questa scesa di campo europea non sembra quindi giustificata minimamente sia per le

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motivazioni non corrette e contradditorie sia perché possono mostrare una ricaduta diplomatica con la discesa in campo nella disputa del mondo musulmano. Possibile che nel parlamento europeo non hanno tempo e modo di interessarsi delle tante problematiche europee per perdere tempo ed entrare nel merito di dispute di cui evidentemente non hanno sentore né conoscenza specifica?

08 lug. Somalia, due esplosioni a Mogadiscio: almeno 12 morti

Gli attacchi sono stati rivendicati dal gruppo estremista islamico al-Shabaab, collegato ad al Qaeda. La prima autobomba è esplosa davanti al ministero degli Interni della capitale, mentre la seconda è avvenuta al di fuori di un hotel. Uccisi i tre assalitori Due potenti esplosioni si sono verificate davanti alla sede del ministero degli Interni di Mogadiscio. Secondo le fonti di polizia ci sarebbero almeno dieci morti e decine di feriti, ma i numeri sono ancora provvisori (per l'agenzia Xinhua le persone ad aver perso la vita sarebbero addiritura 12). Il gruppo estremista islamico al-Shabaab, legato ad al-Qaeda, ha rivendicato la responsabilità dell'attacco. Secondo quanto riporta l'Associated Press, l'attacco sarebbe partito alle 11 di questa mattina (ora locale) quando un'autobomba si è fatta saltare in area davanti all'ingresso del palazzo che ospita il ministero dell'Interno e quello della Sicurezza, situato non troppo distante dalla sede del Parlamento e dell'ufficio presidenziale. Una seconda esplosione si sarebbe invece verificata all'esterno del'hotel Sayidka, di fronte al luogo del primo attacco. In seguito diversi uomini armati avrebbero tentato di fare irruzione nelle vicine sedi istituzionali, riuscendo a penetrare nella struttura del Ministero. Come riferito da un ufficiale della polizia, citato dall'agenzia Xinhua, le forze dell'ordine sono riuscite ad avere la meglio del commando, uccidendo i tre assalitori al termine di un'operazione durata diverse ore. Versione poi confermata dalla polizia somala anche ad al Jazeera. Ancora da stabilire il bilancio definitivo delle vittime, tra le quali ci sarebbero anche funzionari del ministero e poliziotti. Abdikadir Abdurrahman, direttore del servizio di pronto intervento Amin Ambulance, ha precisato di aver trasferito in ospedale 17 feriti.

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Il gruppo islamico di al-Shabaab è collegato ad al Qaeda e si è spesso reso protagonista di diversi attentati in zone strategiche della capitale della nazione del Corno d'Africa. Fu ad esempio indicato come responsabile dell'attacco dello scorso ottobre, quando un camion-bomba si fece esplodere davanti al Safari Hotel causando più di 500 morti, in quello che viene ricordato come l'attentato più sanguinoso della storia della nazione. Il gruppo si batte per rovesciare il governo centrale di Mogadiscio e stabilire la sua legge basata su una visione molto integralista della religione islamica. 08 lug. C’è libertà religiosa nel mondo attuale?

Su 196 Paesi, 38 non rispettano la libertà religiosa. È questa la conclusione del rapporto che l’organizzazione “Aiuto alla Chiesa che Soffre” pubblica in modo biennale analizzando globalmente la situazione della libertà confessionale. L’ultimo, pubblicato nel 2017, valuta la situazione globale tra il 2014 e il 2016. Il presidente della Commissione Generale Giustizia e Pace in Spagna, Eduard Ibáñez, presenta le conclusioni principali nel suo libro La libertad religiosa: derecho humano fundamental, motor de progreso social (Comisión General de Justicia y Paz, 2018). Secondo Ibáñez, pur essendo riconosciuta nei trattati internazionali, in realtà “la libertà religiosa è troppo spesso violata insieme ad altri diritti fondamentali”. I dati del rapporto lo dimostrano chiaramente: – Dei 196 Paesi analizzati, in 38 le violazioni della libertà religiosa costituiscono una violazione essenziale dei

diritti umani. – Dal rapporto precedente, le condizioni sono peggiorate chiaramente in 14 Paesi, e in altri 21 esistono segnali

di peggioramento. Solo in Bhutan, Egitto o Qatar ci sono segni di cambiamento. – Discriminazione vs. Persecuzione: si distinguono questi due concetti spiegando che il primo fa riferimento

all’istituzionalizzazione dell’intolleranza, esercitata dallo Stato o dai suoi rappresentanti, in cui le leggi consacrano il maltrattamento delle comunità religiose. La persecuzione, invece, definisce le situazioni in cui le violazioni derivano non solo dallo Stato, ma anche da gruppi terroristici e/o altri attori non statali, e si tratta di campagne attive di violenza e sottomissione.

– In sette Paesi si individua una situazione di persecuzione: Afghanistan, Arabia Saudita, Corea del Nord, Iraq, Nigeria, Siria e Somalia.

– È sorto un islam in forma violenta che è diventato la minaccia principale alla libertà religiosa, soprattutto in nove Paesi: Bangladesh, Indonesia, Kenya, Libia, Niger, Pakistan, Sudan, Tanzania e Yemen. Questo islam estremista è il motivo principale dell’aumento dei movimenti migratori nelle zone menzionate, e comunità che erano multireligiose si stanno trasformando con la forza in monoreligiose.

– La violenza di gruppi come il Daesh in tutto il mondo presuppone la negazione assoluta della libertà religiosa; secondo l’autore, si tratta di uno dei sette “capovolgimenti più difficili” di questa libertà dalla II Guerra Mondiale.

– Vittime o persecutori: il rapporto afferma che anche tra le comunità ebraiche, buddiste e induiste sorgono gruppi che promuovono un nazionalismo religioso intollerante nei confronti delle minoranze di altre religioni.

– In alcuni Stati le minoranze religiose vengono considerate una forza che “mina la lealtà nei confronti dello Stato stesso, e vengono presentate come un rischio sociale. I casi più gravi si riscontrano in Cina e in Corea del Nord. Nella prima, più di tremila persone sono incarcerate per motivi religiosi. La Corea del Nord è il Paese che guida la lista di quanti violano la libertà religiosa.

– In Birmania, i musulmani rohingya subiscono una persecuzione molto grave, venendo concentrati in campi statali, senza aiuti umanitari e trasformati in rifugiati o apolidi.

– Il rapporto segnala situazioni che limitano la libertà religiosa anche nei Paesi occidentali, anche se a un livello molto diverso. Secondo Ibáñez, derivano da un “laicismo che pretende di eliminare la religione dalla vita pubblica”.

Ibáñez ricorda tuttavia che il rapporto termina con un appello alla speranza, visto che ci sono varie iniziative in tutto il mondo nate con l’obiettivo di mostrare il valore delle religioni e promuovere l’incontro tra loro.

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09 lug. Medio Oriente: il piano di Erdogan per controllare Gerusalemme. Stop di Israele Fedele al suo piano che lo vorrebbe capo indiscusso della Fratellanza Musulmana, Erdogan allunga (un po’ troppo) le mani su Gerusalemme preoccupando prima di tutti gli arabi (sauditi, palestinesi e giordani per primi) che chiedono un intervento di Israele

Il Consiglio di Sicurezza Nazionale di Israele sta valutando seriamente la possibilità di limitare le azioni dell’Agenzia di aiuti turca, la TIKA (Turkish Cooperation and Coordination Agency) su Gerusalemme. E’ quanto emerge da un rapporto pubblicato da Hadashot dopo che il mese scorso Arabia Saudita, Giordania e Autorità Palestinese avevano espresso preoccupazione per le attività turche a Gerusalemme est e avevano chiesto a Israele di intervenire. Secondo gli arabi Erdogan starebbe cercando di rivendicare un ruolo guida sulla cruciale questione di Gerusalemme Est.

E sta usando ogni mezzo per appropriarsene e diventare così il “simbolo dell’islam sunnita”. Per farlo non esita a usare l’Agenzia di aiuti turca (TIKA) come copertura per azioni del tutto illegali, esattamente come sta facendo in Europa. Secondo rapporti di intelligence l’Agenzia TIKA ha rapporti diretti con il gruppo terrorista palestinese di Hamas e ospita diversi suoi leader presso i propri uffici di Ankara e Istanbul. Ci sono prove che l’Agenzia TIKA ha trasferito fondi ai terroristi e che scambia costantemente informazioni con Hamas. Tra le misure pensate dal Consiglio di Sicurezza Nazionale ci sono alcune restrizioni nei movimenti per gli operatori dell’Agenzia TIKA, permessi per ogni progetto implementato dall’Agenzia di aiuti turca e infine il controllo accurato delle finanze destinate ad ogni progetto e della loro effettiva destinazione. L’intelligence israeliana afferma che proprio l’Agenzia TIKA ha avuto un ruolo importante nella fomentazione degli scontri sul Monte del Tempio e in altre manifestazioni anti-israeliane, ha per di più finanziato diversi viaggi di membri di Hamas e non è escluso che dietro ai recenti fatti riguardanti gli scontri lungo il confine tra la Striscia di Gaza e Israele ci possa essere proprio la Turchia. Sempre l’intelligence israeliana ha scoperto che TIKA sta acquistando decine e decine di immobili a Gerusalemme Est, un fatto questo che sta preoccupando notevolmente anche l’Autorità Palestinese che non vuole «un altro padrone» su Gerusalemme Est ma soprattutto preoccupa l’Arabia Saudita che teme che Erdogan voglia rivendicare il ruolo di “custode dei luoghi sacri”. Quella di Erdogan è ormai una strategia ampiamente collaudata, usare “agenzie umanitarie” per nascondere piani che di umanitario non hanno nulla. Lo ha fatto in occasione della Mavi Marmara, lo sta facendo nei Balcani per infiltrare l’Europa, lo fa in Africa in Somalia, Sudan ed Eritrea e adesso sta facendo lo stesso a Gerusalemme. Per questo temiamo che le azioni decise dal Consiglio di Sicurezza nazionale israeliano siano insufficienti e che sarebbe molto più logico espellere la TIKA da Giordania e Samaria dove complessivamente amministra e implementa circa 400 progetti, davvero troppi.

10 lug. Somalia: attentato a Mogadiscio, arrestati 14 ufficiali della sicurezza

Le autorità somale hanno arrestato 14 ufficiali della sicurezza in relazione all’attentato con autobomba avvenuto sabato scorso nella sede del ministero dell’Interno somalo a Mogadiscio, provocando la morte di almeno 20 persone. Lo riferisce il sito d’informazione “Garowe Online”, secondo cui gli arresti sono stati disposti nel corso di una riunione avvenuta ieri fra il ministro dell’Interno, Mohamed Abukar Isolow, e i vertici di polizia e intelligence. Gli ufficiali arrestati erano responsabili dei check point che si trovavano nei pressi dell’esplosione e

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resteranno in custodia cautelare in attesa degli sviluppi dell’inchiesta sull’attentato, che è stato rivendicato dal gruppo jihadista al Shabaab.

10 lug. Eritrea - Etiopia, una giornata particolare

È pace fra Etiopia ed Eritrea. Ad Asmara, la capitale eritrea, il primo ministro etiope Abiy Ahmed è arrivato all’aeroporto internazionale dove ha incontrato il dittatore eritreo Isaias Afewerki: i due si sono abbracciati, hanno sorriso e scherzato, prima di tenere un incontro sulla complicata relazione tra i due paesi, ufficialmente in guerra dal 1998. Abiy ha poi annunciato, nella serata di domenica, di avere concordato la riapertura della rotta aerea diretta tra le due capitali, del commercio bilaterale e delle rispettive ambasciate. È stata annunciata anche la ripresa delle linee telefoniche dirette tra i due stati, per la prima volta negli ultimi due decenni. Nonostante le necessarie cautele, diversi osservatori hanno considerato l’esito dell’incontro incoraggiante: da un accordo di pace tra i due governi potrebbe infatti beneficiare l’intera regione del Corno d’Africa, una delle più instabili di tutto il continente. L’Eritrea ha ottenuto l’indipendenza dall’Etiopia nel 1993. Inizialmente i due paesi hanno mantenuto buone relazioni, ma nel 1998 iniziò una guerra per dispute territoriali nella quale furono uccise 80mila persone e migliaia di famiglie furono costrette a separarsi. Da allora le relazioni tra i due paesi sono rimaste ostili. Come se non bastasse l’Etiopia ha occupato alcuni territori, mentre il leader eritreo ha usato il pretesto di una minaccia alla sicurezza nazionale proveniente dall’Etiopia per giustificare una repressione interna. Le cose hanno cominciato a cambiare con l’insediamento a capo del governo etiope di Abiy, all’inizio di aprile, che ha mandato segnali di pace sin da subito rinunciando a rivendicazioni territoriali e affermando di accettare il piano di pace che l'Onu aveva deciso nel lontano 2000. L'Eritrea ha reagito bene ai gesti di Addis Abeba e sono iniziati gli scambi diplomatici ai massimi livelli. Se pace fosse, questo rappresenterebbe un terremoto positivo nella regione. Sia perché diminuirebbe l'ondata di profughi nei paesi vicini, ma anche per le ripercussioni nei conflitti come in Sud Sudan, Somalia e Ciad. Hallelujah Lulie, analista esperto di Corno d’Africa, ha detto al Washington Post che un ruolo importante nel processo di mediazione tra i due paesi è stato svolto da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che negli ultimi mesi si sono avvicinati al governo eritreo e hanno favorito il dialogo. Il presidente eritreo Isaias Afewerki e il premier etiope Abiy Ahmed hanno firmato quindi ad Asmara una “dichiarazione congiunta di pace e amicizia”, l’indomani dello storico annuncio della ripresa delle relazioni diplomatiche. Lo ha reso noto su Twitter il portavoce del governo etiope Yemane Gebremeskel, secondo cui la

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dichiarazione, che prevede cinque “pilastri”, è stata firmata questa mattina presso il palazzo presidenziale di Asmara. Nel frattempo, come riferisce l’emittente televisiva statale eritrea ”EriTv”, l’aereo con a bordo Ahmed è ripartito dall’aeroporto locale per fare ritorno ad Addis Abeba, dove questa sera il primo ministro etiope riceverà il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Al termine del loro incontro di ieri Ahmed e Afewerki hanno annunciato la ripresa delle relazioni diplomatiche fra i due paesi in conflitto da 20 anni. “Ci siamo accordati per la ripresa del traffico aereo e navale, per la circolazione delle persone tra i nostri due paesi e per la riapertura delle ambasciate”, ha dichiarato Ahmed nel corso di una conferenza stampa, aggiungendo di aver concordato con Afewerki l'utilizzo dei porti dell'Eritrea da parte dell'Etiopia, priva di uno sbocco al mare.

Anche la pace con l’Eritrea avrà delle conseguenze economiche. Stando alle parole dei due leader “verranno ripristinati i legami nei trasporti, nel commercio e nelle telecomunicazioni”. L’Etiopia aveva, proprio per ovviare al suo mancato sbocco sul mare, puntato sulla ferrovia e sulla strada per Gibuti costruite dai cinesi. Gibuti era praticamente diventato il porto dell’Etiopia sul Mar Rosso. Ora però la Pace dovrebbe offrire di nuovo ad Addis Abeba i porti di Assab e Massaua. O meglio, si dovrà stare a vedere perchè secondo molti analisti la guerra era proprio scoppiata non tanto per le pietraie di Badme, a 2400 metri di quota che ora l’Etiopia ha riconosciuto all’Eritrea, ma proprio perchè l’Eritrea aveva richiesto i pagamenti dei diritti portuali in dollari e non più in nakfa. La “Pace” poi avrà anche conseguenze regionali e internazionale. Sempre le parole dei due leader affermano che “entrambi i Paesi lavoreranno insieme per assicurare la pace regionale, lo sviluppo e la cooperazione”. Questi venti anni di “non pace” avevano spostato su fronti opposti negli equilibri regionali Eritrea e Etiopia. Per esempio sulla diatriba tra Etiopia e Egitto per l’acqua del Nilo e la Diga della Rinascita, l’Eritrea aveva fatto da sponda ai paesi contrari ad Addis Abeba. Come pure in Somalia l’Eritrea veniva accusata di sostenere i ribelli Jihadisti di al-Shabaab in funzione anti-etiopica. La pace adesso rimette tutto in discussione, anche all’interno dell’Eritrea che, “forte” del conflitto con l’Etiopia, aveva instaurato un regime militare in cui i giovani venivano inquadrati in un servizio militare “eterno” che si sapeva quando cominciava e non quando finiva. Ora per il regime non ci sono più pretesti. Qualcosa dovrà cambiare.

11 lug. Etiopia-Eritrea: Addis Abeba presenta la richiesta all’Onu per la rimozione delle sanzioni ad Asmara

L'Etiopia ha formalmente presentato una richiesta alle Nazioni Unite per revocare le sanzioni decennali imposte all'Eritrea. Secondo quanto riferisce il sito d’informazione “The East African”, la richiesta è stata presentata dal premier Abiy Ahmed al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ricevuto ad Addis Abeba al suo ritorno dalla storica visita ad Asmara che ha sancito la ripresa delle relazioni diplomatiche con l’Eritrea. In quel frangente era stato lo stesso Guterres ad avanzare l’ipotesi di rimuovere le sanzioni ad Asmara, in vigore dal 2009. La normalizzazione delle relazioni tra Etiopia ed Eritrea è "indicativa di un nuovo vento di speranza che soffia in tutta l'Africa" e impone il superamento delle sanzioni al governo di Asmara, ha detto il segretario generale, secondo il quale la dichiarazione di pace firmata fra le due parti fa venire meno le ragioni che sono alla base delle sanzioni Onu contro l'Eritrea. "Le sanzioni erano motivate da una serie di fattori che ora non esistono più.e", ha aggiunto Guterres. Le sanzioni, imposte per il presunto legame del governo di Asmara con il gruppo jihadista somalo al Shabaab, prevedono misure restrittive di tipo economico e il divieto di viaggio per alcuni militari e funzionari di governo. Nel 2016 una squadra investigativa delle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto in cui sostiene che non ci siano le prove per punire l'Eritrea per i presunti legami con al Shabaab, tuttavia Stati Uniti, Regno Unito, Etiopia, Gibuti e Somalia hanno spinto per l'estensione delle sanzioni. L'Eritrea ha sempre contestato le sanzioni definendole come frutto del desiderio degli Stati Uniti di punire Asmara. L'Eritrea e gli Stati Uniti hanno relazioni tese dalla fine degli anni '90, dopo che Washington si schierò con l'Etiopia durante la guerra di confine. Lo scorso aprile l’inviato Usa in Africa, Donald Yamamoto, si è recato in visita ad Asmara nel tentativo di ristabilire relazioni migliori con il paese africano e, secondo fonti diplomatiche citate da “The East African”,

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proprio il governo di Washington, insieme agli Emirati Arabi Uniti e all'Arabia Saudita, avrebbe facilitato i colloqui che hanno portato alla firma della storica dichiarazione di pace tra Asmara e Addis Abeba.

I membri del Consiglio di sicurezza hanno accolto con favore la firma della Dichiarazione congiunta di pace e amicizia fra Etiopia ed Eritrea, accogliendo con favore l'impegno di entrambe le parti a riprendere le relazioni diplomatiche perché la firma della dichiarazione rappresenta uno sviluppo “storico e significativo con conseguenze positive di vasta portata per il Corno d'Africa e non solo”. I membri del Consiglio di sicurezza hanno quindi preso atto della dichiarazione del presidente della Commissione dell'Unione africana, Moussa Faki Mahamat, che accoglie i recenti sviluppi e incoraggia l'Eritrea e l'Etiopia a perseverare su questa strada, aprendo un nuovo capitolo di cooperazione e buon vicinato.

12 lug. Sud Sudan: nessun progresso nel processo di pace, prossima incontro fra Kiir e Machar a Khartum

Si era invece concluso con un nulla di fatto l’atteso incontro ad Addis Abeba fra il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, e il leader dei ribelli Riek Machar, alla presenza del premier etiope Abiy Ahmed, in qualità di presidente di turno dell’Organizzazione intergovernativa per lo sviluppo (Igad). Secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche citate dal quotidiano “Sudan Tribune”, il faccia a faccia tra Kiir e Machar non avrebbe infatti prodotto alcun risultato tangibile dal momento che i due leader non si sono trovati d'accordo su nulla. Secondo le stesse fonti, durante il faccia a faccia fra Kiir e Machar, quest’ultimo avrebbe inoltre criticato le modalità con cui l’Igad ha organizzato i colloqui e ha ribadito di non voler collaborare con Kiir finché questi non lascerà la presidenza favorendo la nomina di un altro nome per la transizione. Il primo ministro etiope Ahmed, che ha ospito l’incontro in qualità di presidente di turno dell’Igad, si sarebbe detto da parte sua molto deluso dall’esito dell’incontro, nel corso del quale i due leader, anziché lavorare ad una mediazione, avrebbero parlato solo delle loro rispettive responsabilità nel conflitto. Il giorno dopo l’incontro i leader dell’Organizzazione intergovernativa per lo sviluppo (Igad), riuniti sempre nella capitale etiope, hanno quindi concordato che i colloqui fra Kiir e Machar andranno avanti la prossima settimana a Khartum dopo il fallimento del loro incontro ad Addis Abeba. Secondo quanto reso noto dal ministero degli Esteri sudanese, inoltre, il leader ribelle sarà trasferito in un paese neutrale al di fuori dalla regione dell’Africa orientale. I capi di stato e di governo dell’Igad “hanno deciso di avviare colloqui diretti tra i leader del Sud Sudan a Khartum il 25 giugno, sotto gli auspici del presidente Omar al Bashir”, si legge nella dichiarazione. Nel corso del vertice, secondo quanto si apprende, i leader dell'Igad hanno inoltre deciso di accogliere la bozza presentata dai ministri degli Esteri dell’organizzazione, che prevede fra le altre cose la creazione di una terza poltrona di vicepresidente e l’espansione del numero di ministri e viceministri; una nuova spartizione delle quote di condivisione di governo a livello nazionale e statale (55 per cento per il governo, 25 per cento per l’'Splm-Io e 20 per cento per le altre formazioni di opposizione. Stando alle stesse fonti, la prossima fase dei colloqui si terrà in Sudan e in Kenya e per la prima volta si concentrerà sull'economia del paese, distrutta dal conflitto che ha provocando l’arresto quasi totale della produzione di petrolio. Quello fra Kiir e Machar è stato il primo incontro dopo la firma degli accordi di pace dell’agosto 2015, naufragati a seguito della ripresa delle violenze nella capitale sud sudanese Giuba nel luglio 2016. Da allora Machar si trova in esilio in Sudafrica. In un comunicato diffuso al termine della 62ma sessione straordinaria del Consiglio dei ministri Igad, i ministri degli Esteri avevano infatti chiesto ai mediatori del processo di pace di lavorare a un testo aggiornato dell'accordo di pace stipulato nell’agosto 2015, da sottoporre poi al Consiglio dei ministri Igad e al vertice dei capi di stato e di governo Ua per l'approvazione finale. La dichiarazione propone inoltre l’adozione di misure punitive contro i trasgressori dell'accordo di cessate il fuoco e chiede all’Assemblea dell'Igad di delegare il Consiglio a decidere sulle azioni da intraprendere contro i trasgressori dell'accordo di cessate il fuoco per conto dell'Assemblea. Sempre il mese scorso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha congelato per un mese la risoluzione che prevede l’embargo sulle armi e l’estensione di sanzioni individuali nei confronti nei confronti di ministri del

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governo e alti ufficiali dell’esercito del Sud Sudan. La risoluzione, che è stata approvata a maggioranza con 9 voti a favore della risoluzione hanno votato Francia Costa d'Avorio, Kuwait, Paesi Bassi, Perù, Polonia, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti, mentre Cina, Russia, Etiopia, Bolivia, Kazakhstan, Guinea Equatoriale si sono astenuti. Nel progetto di risoluzione Washington chiede inoltre di prolungare di un anno le sanzioni già in vigore. All’inizio di maggio era stata la stessa Casa Bianca ad annunciare che il governo degli Stati Uniti avrebbe rivisto i programmi di assistenza al Sud Sudan a causa della mancanza di progressi nel processo di pace nel paese. Ottenuta l’indipendenza nel luglio 2011, il Sud Sudan è sprofondato nel conflitto civile nel dicembre 2013 dopo che il presidente Kiir ha accusato l’allora suo vice Machar di aver pianificato un colpo di stato contro di lui. Da allora le violenze sono sfociate in scontri etnici, in particolare tra le etnie dinka (cui appartiene Kiir) e nuer (di cui fa parte Machar), costringendo centinaia di migliaia di persone a fuggire dal paese: secondo l’ultimo rapporto Global Trends, pubblicato ieri dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), il Sud Sudan è infatti il primo paese africano per provenienza dei rifugiati, passati dagli 1,4 milioni di inizio 2017 ai 2,4 milioni di fine anno

12 lug. Somalia: presidente Farmajo rientra a Mogadiscio dopo tour a Gibuti e in Turchia

Il presidente somalo Mohamed Abdullahi “Farmajo” è tornato oggi a Mogadiscio dopo un tour che lo ha visto negli ultimi giorno a Gibuti e in Turchia. Nel paese del Corno d’Africa, come riferisce il sito d’informazione “Garowe Online”, Farmajo ha partecipato al Forum economico Africa-Cina che si è svolto dal 5 al 7 luglio e ha preso parte all’inaugurazione della Zona di libero scambio internazionale di Gibuti, la più grande zona franca mai realizzata nel continente africano. Ad Ankara Farmajo ha invece partecipato alla cerimonia di giuramento del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, avvenuta lo scorso 9 luglio. A margine della cerimonia Farmajo ha avuto una serie di incontri bilaterali tra cui quello con l’emiro del Qatar, Sheik Tamim bin Hamad al Thani. Turchia e Qatar sono i principali partner della Somalia: Ankara ha di recente aperto a Mogadiscio una base di addestramento delle forze somale che ospita più di 200 militari turchi incaricati di addestrare 1.500 militari dell’esercito nazionale somalo e con l’obiettivo di formarne almeno 10 mila in vista del graduale ritiro dal paese delle truppe della missione dell’Unione africana nel paese, Amisom; con Doha, invece, il governo federale somalo mantiene formalmente una posizione neutrale nella crisi esplosa nel giugno scorso fra Arabia Saudita ed Emirati (insieme a Bahrein ed Egitto), da una parte, e Qatar dall’altra, ma di fatto sostiene più o meno apertamente quest’ultimo.

12 lug. Nuovo caso Strava, un’altra App spia militari e 007 Solo sei mesi fa era esploso il caso Strava, l’App fitness dedicata al monitoraggio dell’attività fisica, ma che forniva informazioni sulle abitazioni e le vite di spie e militari che si allenano in località segrete, in particolare fra Siria e Afghanistan. La società ha negato la fuga di dati ma ha sospeso la mappa Explore. Adesso è scoppiato un caso simile. Questo ultimo episodio riguarda Polar, gruppo finlandese attivo nel settore del tracking di sport e salute, che attraverso l’applicazione Flow potrebbe produrre conseguenze altrettanto gravi. Miliardi di investimenti in sicurezza e cybersicurezza, attività di intelligence, droni invisibili ai radar. Poi basta una corsetta e la copertura salta. L’applicazione non solo monitora le attività degli sportivi (bici, corsa, nuoto e sci) ma le mette in condivisione in una sorta di social network per atleti. Sono state due testate giornalistiche , l’olandese De Correspondent e il sito investigativo Bellingcat, ad aver scoperto questo rischio. L’App Flow rivelerebbe infatti “abitazioni e vite di membri di agenzie d’intelligence, basi militari e aeroporti, siti di stoccaggio nucleare e ambasciate in tutto il mondo”.

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Nel caso in cui non venga volutamente disattivato l’opzione condivisione, l’App rende visibile a tutti gli utenti le attività di un particolare individuo. Con la “heath map” di Strava era per esempio possibile visualizzare il percorso di un militare che faceva jogging nel compound aeroportuale in Iraq così come le sue attività magari una volta a casa, negli Stati Uniti o nei Paesi bassi. Ecco alcune delle geolocalizzazioni che sono state ritrovate: personale militare operativo in basi dove sono custodite armi nucleari, personale di intelligence attivo vicino a basi militari, agenti Fbi e analisti NSA, personale militare specializzato in cyber security e difesa missilistica, personale addetto ai sottomarini, un Ceo di una nota azienda che si allena in tutto il mondo, soldati russi in Crimea, personale militare a Guantanamo, truppe vicino al confine nordcoreano, addirittura personale di aviazione coinvolto in operazioni contro lo Stato islamico. La base per tutti questi dati è proprio la mappa Explore. Sono coinvolte 6460 persone provenienti da 69 nazionalità diverse. Nella lista nera delle nazionalità pubblicata dalle due testate che per prime hanno divulgato l’inchiesta, ci sono anche italiani. Non ci sono i nomi per ragioni di privacy ma 49 militari risultano lavorare nella base di Sigonella, sede dell’aeroporto militare italiano che ospita anche la Naval air station (Nas) della Marina statunitense. Si può risalire a nomi e cognomi, a indirizzi, a abitudini di persone dai quattro lati del pianeta. Perché una App per correre ci svela i segreti della Cia. Del caso Strava se ne era accorto uno studente australiano, Nathan Ruser. Ha zoomato nei punti più scuri della mappa e ha notato che, nel bel mezzo del nulla digitale, spuntavano delle linee: si trovano in Siria, in Somalia, in Iran, in Afghanistan e sono i tragitti dei militari. Accedono all’applicazione, si agganciano al gps, magari lungo il perimetro della propria base. Ed eccole localizzate, disegnate da linee bianche, gialle e rosse senza bisogno di telecamere e infiltrati. La società continua a negare ma, tuttavia, ha sospeso Explore in via precauzionale, proprio per non rischiare. Al momento la stragrande maggioranza degli utenti Polar mantiene i profili privati. Per questo basta in teoria accedere alle impostazioni. Un’opzione che il personale militare non aveva ritenuto necessaria. O, peggio, non sapeva esistesse.

12 lug. Dichiarazione congiunta sulla Libia dei Governi di Francia, Italia, Regno Unito e Stati Uniti I Governi di Francia, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, nel richiamare la loro dichiarazione del 27 giugno, accolgono con favore l’annuncio da parte della National Oil Corporation del riavvio delle proprie vitali attività, per conto di tutta la popolazione libica. Apprezziamo il fatto che la legittima National Oil Corporation ripari le infrastrutture, rispetti i suoi obblighi contrattuali e, avendo revocato le disposizioni sullo stato di emergenza nell’Est della Libia, ripristini le esportazioni e la produzione di petrolio, essenziali per la prosperità della Libia. Apprezziamo, inoltre, il contributo dell’LNA per ristabilire la stabilità nel settore petrolifero libico, che è cruciale per l’interesse nazionale della Libia. Le strutture petrolifere, la produzione e le entrate della Libia appartengono al popolo libico. Ribadiamo che alla National Oil Corporation deve essere consentito di operare per conto di tutti i Libici, e che le risorse petrolifere della Libia devono rimanere sotto l’esclusivo controllo della legittima National Oil Corporation e la sola supervisione del Governo di Accordo Nazionale (GAN), come prescritto dalle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 2259 (2015), 2278 (2016) e 2362 (2017). E’ ora tempo per tutti gli attori libici di fare passi in avanti, avviando una propria discussione riguardo alle modalità attraverso cui migliorare la trasparenza fiscale, rafforzare le istituzioni economiche e garantire una equa distribuzione delle risorse del Paese, nel quadro del Piano d’Azione formulato dal Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite Ghassan Salameh e sulla base dell’Accordo Politico Libico, sostenuto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la Risoluzione 2259 (2015). A tale riguardo, accogliamo la proposta del Presidente del Consiglio Presidenziale di procedere con il rafforzamento della trasparenza delle istituzioni economiche libiche. Più in generale, facciamo appello ai leader libici affinché colgano questa importante opportunità, nel quadro dell’Accordo Politico Libico, per superare le divergenze riguardo alla Banca Centrale Libica, intensificare il dialogo sull’allocazione delle risorse attraverso il bilancio nazionale, e lavorare per

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l’unificazione della Banca Centrale Libica e lo scioglimento di istituzioni parallele, come concordato nella Dichiarazione Politica di Parigi del 29 maggio. Esprimiamo, inoltre, la nostra solidarietà ai leader libici per il loro impegno volto a far progredire un processo politico inclusivo a guida libica per arrivare, il prima possibile, a elezioni nazionali credibili, pacifiche e ben organizzate. I Governi di Francia, Italia, Regno Unito e Stati Uniti si impegnano a sostenere i leader libici nel conseguimento di tali obiettivi e faranno uso di tutti gli strumenti a loro disposizione per perseguire coloro che minano la pace, la sicurezza e la stabilità della Libia.

13 lug. Stati Uniti-Somalia: Donald Yamamoto nuovo ambasciatore Usa a Mogadiscio

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha nominato Donald Yamamoto, già vicesegretario di Stato Usa per gli Affari africani, come nuovo ambasciatore in Somalia. È quanto si apprende da una nota della Casa Bianca. Yamamoto è stato già ambasciatore a Gibuti dal 2000 al 2003 e in Etiopia dal 2006 al 2009 e la sua nomina giunge dopo che l’amministrazione Trump ha deciso di intensificare la sua presenza militare in Somalia per contrastare il gruppo jihadista al Shabaab e nel marzo 2017 ha firmato un decreto che autorizza il dipartimento della Difesa Usa a condurre azioni contro al Shabaab all'interno di una zona geografica definita di “ostilità attiva”. Il mese scorso il gruppo jihadista ha rivendicato la responsabilità di un attacco avvenuto nella regione dell’Oltregiuba, nel sud del paese, che ha portato all’uccisione di un militare statunitense. Nella regione è presente una forza composta da 800 militari somali e kenioti impegnati insieme alle forze speciali Usa in una campagna contro le milizie al Shabaab.

13 lug. Nel Corno d’Africa sembrano delinearsi forti aspettative di pace La firma di un accordo di pace tra il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed, e il presidente dell’Eritrea, Isaias Afwerki, avvenuta ad Asmara lo scorso 8 luglio, ha posto fine al ventennale stato di guerra tra i due Paesi. Il principale oggetto di disaccordo, l’appartenenza dei territori di confine, aveva scatenato nel 1998 un sanguinoso conflitto costato la vita a 80mila persone, con la separazione di migliaia di nuclei familiari. L’accordo prevede la demarcazione condivisa dei confini e ristabilisce le relazioni diplomatiche nonché l’interazione tra i due Paesi: le rispettive compagnie aeree torneranno a collegare le due capitali, l’Etiopia potrà nuovamente utilizzare i porti eritrei, le famiglie potranno ricongiungersi. Un ruolo fondamentale nei negoziati che hanno condotto alla pace è stato svolto da Emirati Arabi

Uniti e Arabia Saudita. In particolare, i due Crown Prince, Mohammed bin Zayed Al Nahyan e Mohammad bin Salman Al Saud, hanno favorito personalmente il riavvicinamento tra il primo ministro dell’Etiopia e il presidente dell’Eritrea, impegnandosi inoltre nella promozione di attività di sviluppo nei due Paesi. Il Corno d’Africa fa così un importante passo avanti verso la stabilizzazione. In prospettiva, il nodo da sciogliere resta la Somalia dove, oltre al terrorismo di Al-Shabaab, si registra un inasprimento della conflittualità interna dovuta a interferenze di attori esterni alla regione, come il Qatar, che attraverso le politiche del governo centrale sta accentuando la frammentazione del Paese, impedendo dialogo e cooperazione tra i vari soggetti del processo politico somalo.

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14 lug. Dubai minaccia azioni contro Pechino per zona libero scambio Gibuti Dubai ha minacciato oggi un’azione legale contro la Cina per la costruzione di una zona di libero scambio a Gibuti in un terminal ancora al centro di una disputa legale tra l’operatore portuale DP World e il paese africano. Il monito arriva a una settimana dall’avvio della prima fase dei lavori della più grande zona di libero scambio del continente africano, sviluppata dalla Cina nell’ambito del suo progetto per una Nuova via della Seta. Tuttavia, Dubai ritiene che tale progetto violi l’accordo di concessione che Gibuti aveva firmato con l’operatore DP World, rescisso diversi mesi fa dal paese africano. “DP World si riserva il diritto di intraprendere tutte le possibili azioni legali, comprese richieste di risarcimento per danni contro parti terze che interferiscono o violano in altro modo i propri diritti contrattuali”, si legge in una nota diffusa oggi dal terzo operatore portuale al mondo. Lo scorso febbraio Gibuti ha messo fine a un accordo di concessione di 50 anni sul terminal per i container di Doraleh con il colosso di Dubai, accusandolo di violazioni alla sovranità nazionale e agli interessi nazionali. Dubai ha già sollecitato l’arbitrato alla Corte di Londra per gli arbitrati internazionali e oggi DP World ha ribadito che il suo accordo di concessione sul terminal “rimane in vigore”, ammonendo sul fatto che “il sequestro illegale della struttura non dà diritto a nessuna parte terza di violare i termini dell’accordo di concessione”. DP World, che gestisce 78 porti in oltre 40 nazioni, ha aumentato il proprio interesse nel Corno d’Africa e nei paesi vicini siglando contratti per la gestione di porti nello Yemen e nel Somaliland, regione della Somalia. Il presidente cinese Xi Jinping sarà in visita ufficiale negli Emirati arabi uniti la prossima settimana. 14 lug. HDIG continua la propria presenza nel Corno d’Africa Pur con i propri limitati mezzi a disposizione HDIG continua ad essere presente nel Corno d’Africa partecipando a progetti di assistenza e di aiuto a quelle popolazioni ed a quegli istituti che ne possano trovare beneficio. Così, nell’ambito di un disegno progettuale avanzato dal Vescovo di Gibuti e Amministratore apostolico di Mogadiscio, Mons. Giorgio Bertin collaboriamo alla realizzazione di un centro di Fisioterapia che sarà gestito dalla Diocesi gibutina a favore delle tante persone, specie bambini, che hanno necessità di terapie idonee alle cure fisioterapiche e riabilitative necessarie . Per quest'opera abbiamo, nel frattempo, acquisito 200 metri quadrati di pavimentazione in gomma costituita da quadranti posizionabili ad incastro, di ultima generazione, che rende inutili i vecchi e voluminosi materassini, e alcune attrezzature per fisioterapia. Stiamo preparando anche altre attrezzature grazie alla disponibilità di alcune aziende artigianali venete che invieremo prossimamente. Per l'invio abbiamo chiesto la collaborazione al Ministero della Difesa che, secondo le norme vigenti, concede l'autorizzazione, per motivi e progetti di cooperazione umanitaria, all'uso degli aerei militari. Alle 10,30 di mercoledì 4 luglio dal Comando Operativo di Vertice Interforze è arrivata l'autorizzazione all'uso di aerei militari ed è stato consegnato il materiale preparato per l’occasione, all'aeroporto di Pratica di Mare. Anche per tale incombenza ed in brevissimo lasso di tempo, si è dovuto provvedere alla documentazione burocratica-amministrativa di carattere doganale per il trasporto del materiale all’aeroporto militare ed alla consegna per l’imbarco. Grazie anche alla disponibilità degli uffici preposti siamo quindi riusciti a rispettare

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data e orari della spedizione e far si che l’aereo da trasporto militare potesse imbarcare in tempo utile il nostro prezioso (si fa per dire) carico, a Pratica Di Mare. Nel pomeriggio del 10 luglio il comando della base italiana di Gibuti ha comunicato che ha preso in consegna il materiale inviato quanto inviato e lo consegnerà al Vescovo Bertin il giorno 12 luglio.

Nella foto: Sede della missione militare italina a Gibuti: Mons. Giorgio Bertin ed il Col.Guani. durante la consegna del materiale inviato

Come per i sacrifici posti nella collaborazione per la realizzazione della scuola tra Hargeisa e Borama e per l'ospedale di Hargeisa, così come anche per l’aiuto e l’assistenza fornita agli ospedali del Somaliland, con la donazione di molte attrezzature ospedaliere, anche la fisioterapia a Gibuti è frutto dell'amicizia che ci lega, ed agli ideali e l’intenzione di cooperare nell’aiuto a chi vive in condizioni di estrema povertà e di disagio, che ci riempie l’animo di gioia e di umana generosità.

14 lug. Le autorità svizzere sbloccano 60 milioni di dollari sequestrati per una indagine sui fondi sovrani angolani Le autorità svizzere hanno rilasciato circa 60 milioni di dollari sequestrati in conseguenza di una indagine sul presunto riciclaggio di denaro deviato dal fondo sovrano dell'Angola e dalla sua banca centrale. L'Ufficio del Procuratore Generale della Svizzera (OAG) ha aperto un procedimento penale in aprile in risposta alle notizie secondo cui erano state sottratte le risorse detenute dalla Banca nazionale dell'Angola e dal Fondo Sovrano de Angola. A maggio i pubblici ministeri avevano dichiarato che le autorità avevano fatto irruzione in diverse località della Svizzera. "In questi procedimenti, che sono ancora in corso, l'OAG inizialmente ha congelato circa 210 milioni di dollari. L'OAG ha ora sbloccato 60 milioni di dollari di proprietà del fondo sovrano angolano. I fondi sono stati scongelati perché il loro uso da parte di terzi non autorizzati può essere escluso", ha detto l'agenzia dopo che gli avvocati generali di entrambi i paesi si sono incontrati a Berna giovedì per discutere della cooperazione. Il fondo sovrano dell'Angola, di cinque miliardi di dollari, è stato coinvolto in una disputa con il suo ex capo, il figlio dell'ex presidente Jose Filomeno dos Santos, e il gestore patrimoniale Quantum Global con sede in Svizzera si è impegnato a restituire il denaro del fondo.

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Il fondo, che ha ingaggiato la sua battaglia contro i tribunali britannici, ha accusato Quantum Global di cattiva gestione e ha cercato un congelamento globale delle sue attività, nonché un ordine per le banche di rivelare informazioni su qualsiasi conto intestato a suo nome o per suo conto. Quantum Global, che è guidata da un uomo d'affari angolano-svizzero, Jean-Claude Bastos de Morais, un socio in affari di lungo periodo di Jose dos Santos, nega la questione. La compagnia ha denunciato quelle che chiamano "tattiche intimidatorie", affermando che i soldi che ha in gestione sono adeguatamente contabilizzati e che il fondo ha violato i suoi obblighi contrattuali per lungo tempo.

15 lug. Somalia. Attacco terroristico contro un albergo del centro di Mogadiscio Tre jihadisti Shebab sono stati uccisi dalle forze di sicurezza somale in un attacco lanciato oggi a Mogadiscio con due autobomba. Lo ha detto un funzionario della sicurezza, Abdulahi Ahmed, riferendo anche di diversi civili rimasti feriti.

L’attacco è stato rivendicato dagli Shebab, che già sabato scorso avevano messo a segno un attentato contro il ministero dell’Interno, a Mogadiscio, facendo 12 morti. Un funzionario di polizia ha detto che un’autobomba ha cercato di superare il posto di controllo dell’albergo Syl, situato a pochi metri di distanza dal palazzo presidenziale, dove alloggiano funzionari di governo e stranieri, ma le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro la vettura. La seconda autovettura è esplosa nella stessa zona andando contro una barriera di sicurezza. “Le forze di sicurezza hanno sventato l’attacco e il gruppo terroristico non è riuscito a colpire il proprio obiettivo”, ha detto all’agenzia di stampa cinese Xinhua un altro funzionario di polizia, Mohamed Abdulle, indicando l’albergo come il vero obiettivo dell’attacco.