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In questo numero PAG.2 1982, Varedo vuol far fuori il passaggio a livello Proposta delle Ferrovie Nord: un sottopasso per eliminare le sbarre nel centro del paese. Mentre i commercianti dicono di no, il Comune... PAG.2 Barlassina demolisce il cortile per mantenerlo Alla Fametta, nel febbraio del 1982, al via lavori di ristrutturazione per creare alloggi comunali che preserveranno la vita sociale PAG.2 1943, quando i brianzoli rubavano il rame Il comandante della stazione di Lissone coglie sul fatto un desiano nel cimitero di Muggiò: asportava gli addobbi funerari dalle tombe PAG.3 Sei anni in carcere per colpa di una simulatrice Peppino, operaio di Agrate, accusato di sevizie da parte di una ragazza di Caponago. Ma nel 1955, la storia si ripete e allora i Cc scoprono che... PAG.8 1976, con i Magnan di Cantù in piazza L’obiettivo di Attilio Mina nell’antico Carnevale degli stagnini coi visi tinti di nero. Tre pagine di fotografie PAG. 11 Erba, tornano i carri e i quartieri fanno festa Nel 1982, dopo uno stop quasi ventennale, la città riscopre il Carnevale. Le cronache di una giornata indimenticabile PAG. 14 1982, annuncio shock della Snia: chiudiamo Varedo Il gruppo tessile, dopo aver promesso il rilancio, cessa la produzione. Le testimonianze di chi c’era DISNEYLAND, BRIANZA Il conte Mario Bagno, acquistate tutte le case di un piccolo paese alle pendici del Monte Brianza, le rade al suolo per costruire la capitale del divertimento. Che oggi è un cumulo di rovine. Storia di uno scempio che l’Italia intera ignora Ambiente 1962 Al via, a Consonno, un folle progetto urbanistico L e ruspe arrivarono all’improvviso, dopo che pochi giorni pri- ma avevano ferito la montagna con uno sbancamento che serviva ad allar- gare la strada per Olginate. A Consonno, poche centinaia di abitanti, una dozzina di case seco- lari in uno dei punti più suggesti- vi della Brianza lecchese, mezzo secolo fa, nel gennaio del 1962, si scatenò la lucida follia di grande uf- ficiale, il vercellese Mario Bagno. Acquistate da un’immobiliare tut- te le abitazioni del paese, trasferì i consonnesi in una baraccopoli da cantiere e spianò tutto, a eccezione della chiesa e dalle canonica. Come racconta ancora un bellis- simo documentario della Tv Sviz- zera del regista Cesare Bernasco- ni, in pochi anni realizzò un parco divertimenti ispirato a quello che Walt Disney aveva aperto nel 1955. Sogno che durerà una quindicina d’anni, per poi fallire e lasciare un paese spettrale. Un scempio che fa impallidire Punta Perotti. servizi a pag. 12-13 Nel giorno del suo primo compleanno (siamo nati nel febbraio del 2010) il Giornale della Memoria riesce a torna- re in stampa, grazie alla gene- rosità di alcuni benefattori. Un anno di cui andiamo fieri perché in nove numeri e 132 pagine (da sfogliare ancora su www.giornaledellame- moria.it), abbiamo riportato a galla fatti e protagonisti di una Brianza ormai perduta. Dalle storie tragiche ed eroi- che di chi servì l’Italia nella Grande Guerra alle vicende, belle e terribili, della guerra di Liberazione, alle tante sto- rie di cronaca del passato, dai sequestri alla diossina. E, ancora, i volti dell’immigra- zione veneta, della Chiesa am- brosiana, delle tradizioni più semplici dei nostri paesi. Vite di uomini e di donne spesso non illustri, per pasa- frasare il grande Pontiggia. Un anno in cui abbiamo avu- to la fortuna di incontrare tanti amici: da fotografi come Atti- lio Mina e Pietro Vismara, a sostenitori come Paolo Pi- rola, presidente di Brianze, supporter della primissima ora, così come Angelina Fa- miliari, direttore della Com- pagnia delle Opere di Mon- za e Brianza o come Stefano Blanco, direttore del Collegio di Milano e lissonese doc. A questi ringraziamenti dob- biamo associare quelli per i negozianti che han voluto sin qui accompagnarci, propo- nendoci alla clientela. Un anno di sacrifici ma ricco di soddisfazioni. Un anno memorabile. Speran- do che quello nuovo ci regali il supporto di qualche azienda o qualche amministratore illu- minati. GdM I TANTI GRAZIE DI UN ANNO MEMORABILE U na mattina di febbraio di quasi cinquant’anni fa, l’Italia scoprì un nuovo mostro. I giornali stril- larono il suo nome su cinque colonne: Italo Benito Giarrusso. L’ac- cusa: aver ucciso a col- tellate, in una sera di set- tembre dell’anno prima, una ragazza di 16 anni di Varedo, Ornella Bancora, che se ne stava in un campo alla periferia di De- sio col fidanzato, Ange- lo G. di 19 anni, ferito ma scampato. L’arrestato, 29enne, con qualche problema psi- chico, confessa ma poi ritratta. a pag.12-13 I l trionfatore dell’ultimo San- remo, giovanissimo, con un’intera classe delle scuole medie cesanesi. È quan- to emerge dagli archivi del fotoreporter Pietro Vismara. Sono le foto che ritraggono il profes- sor Vecchioni nella sua classe, nel 1973, anno del suo primo e sfortunato tentativo al Festival. Il cantautore, che tra l’altro è na- to a Carate Brianza da genitori sfollati da Mi- lano durante la guerra, aveva già conosciuto, due anni prima, un po’ di notorietà con Luci a San Siro. pag.16 QUEL MOSTRO PERFETTO È UN COLD CASE BRIANZOLO CHIAMAMI ANCORA PROF E ROBERTO SALÌ IN CATTEDRA 1973 Cesano Maderno 1963 Desio BRIANZA n.09 Gennaio-Febbraio-Marzo 2011 euro 2,00 OMAGGIO con il patrocinio di

GdM n.09 - 2011

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Giornale della Memoria n.09, genn.febb.marzo 2011

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Page 1: GdM n.09 - 2011

In questo numero

PAG.21982, Varedo vuol far fuori il passaggio a livelloProposta delle Ferrovie Nord: un sottopasso per eliminare le sbarre nel centro del paese. Mentre i commercianti dicono di no, il Comune...

PAG.2Barlassina demolisce il cortile per mantenerloAlla Fametta, nel febbraio del 1982, al via lavori di ristrutturazione per creare alloggi comunali che preserveranno la vita sociale

PAG.21943, quando i brianzoli rubavano il rame Il comandante della stazione di Lissone coglie sul fatto un desiano nel cimitero di Muggiò: asportava gli addobbi funerari dalle tombe

PAG.3Sei anni in carcere per colpa di una simulatricePeppino, operaio di Agrate, accusato di sevizie da parte di una ragazza di Caponago. Ma nel 1955, la storia si ripete e allora i Cc scoprono che...

PAG.81976, con i Magnan di Cantù in piazza L’obiettivo di Attilio Mina nell’antico Carnevale degli stagnini coi visi tinti di nero. Tre pagine di fotografi e

PAG. 11Erba, tornano i carri e i quartieri fanno festaNel 1982, dopo uno stop quasi ventennale, la città riscopre il Carnevale. Le cronache di una giornata indimenticabile

PAG. 141982, annuncio shock della Snia: chiudiamo VaredoIl gruppo tessile, dopo aver promesso il rilancio, cessa la produzione. Le testimonianze di chi c’era

DISNEYLAND, BRIANZA Il conte Mario Bagno, acquistate tutte le case di un piccolo paese alle pendici del Monte Brianza, le rade al suolo per costruire la capitale del divertimento. Che oggi è un cumulo di rovine. Storia di uno scempio che l’Italia intera ignora

Ambiente 1962 Al via, a Consonno, un folle progetto urbanistico

L e ruspe arrivarono all’improvviso, dopo che pochi giorni pri-ma avevano ferito la montagna con uno

sbancamento che serviva ad allar-gare la strada per Olginate. A Consonno, poche centinaia di abitanti, una dozzina di case seco-lari in uno dei punti più suggesti-vi della Brianza lecchese, mezzo secolo fa, nel gennaio del 1962, si scatenò la lucida follia di grande uf-ficiale, il vercellese Mario Bagno. Acquistate da un’immobiliare tut-te le abitazioni del paese, trasferì i consonnesi in una baraccopoli da cantiere e spianò tutto, a eccezione della chiesa e dalle canonica. Come racconta ancora un bellis-simo documentario della Tv Sviz-zera del regista Cesare Bernasco-ni, in pochi anni realizzò un parco divertimenti ispirato a quello che Walt Disney aveva aperto nel 1955. Sogno che durerà una quindicina d’anni, per poi fallire e lasciare un paese spettrale. Un scempio che fa impallidire Punta Perotti.

servizi a pag. 12-13

Nel giorno del suo primo compleanno (siamo nati nel febbraio del 2010) il Giornale della Memoria riesce a torna-re in stampa, grazie alla gene-rosità di alcuni benefattori.Un anno di cui andiamo fieri perché in nove numeri e 132 pagine (da sfogliare ancora su www.giornaledellame-moria.it), abbiamo riportato a galla fatti e protagonisti di una Brianza ormai perduta.

Dalle storie tragiche ed eroi-che di chi servì l’Italia nella Grande Guerra alle vicende, belle e terribili, della guerra di Liberazione, alle tante sto-rie di cronaca del passato, dai sequestri alla diossina. E, ancora, i volti dell’immigra-zione veneta, della Chiesa am-brosiana, delle tradizioni più semplici dei nostri paesi.Vite di uomini e di donne spesso non illustri, per pasa-

frasare il grande Pontiggia. Un anno in cui abbiamo avu-to la fortuna di incontrare tanti amici: da fotografi come Atti-lio Mina e Pietro Vismara, a sostenitori come Paolo Pi-rola, presidente di Brianze, supporter della primissima ora, così come Angelina Fa-miliari, direttore della Com-pagnia delle Opere di Mon-za e Brianza o come Stefano Blanco, direttore del Collegio

di Milano e lissonese doc. A questi ringraziamenti dob-biamo associare quelli per i negozianti che han voluto sin qui accompagnarci, propo-nendoci alla clientela. Un anno di sacrifici ma ricco di soddisfazioni. Un anno memorabile. Speran-do che quello nuovo ci regali il supporto di qualche azienda o qualche amministratore illu-minati. GdM

I TANTI GRAZIE DI UN ANNO MEMORABILE

Una mattina di febbraio di quasi cinquant’anni fa, l’Italia scoprì un nuovo

mostro. I giornali stril-larono il suo nome su cinque colonne: Italo Benito Giarrusso. L’ac-cusa: aver ucciso a col-tellate, in una sera di set-tembre dell’anno prima,

una ragazza di 16 anni di Varedo, Ornella Bancora, che se ne stava in un campo alla periferia di De-

sio col fi danzato, Ange-lo G. di 19 anni, ferito ma scampato. L’arrestato, 29enne, con qualche problema psi-chico, confessa ma poi ritratta. a pag.12-13

Il trionfatore dell’ultimo San-remo, giovanissimo, con un’intera classe delle scuole

medie cesanesi. È quan-to emerge dagli archivi del fotoreporter Pietro Vismara. Sono le foto che ritraggono il profes-sor Vecchioni nella sua classe, nel 1973, anno del

suo primo e sfortunato tentativo al Festival. Il cantautore, che tra l’altro è na-

to a Carate Brianza da genitori sfollati da Mi-lano durante la guerra, aveva già conosciuto, due anni prima, un po’ di notorietà con Luci a San Siro. pag.16

QUEL MOSTRO PERFETTO È UN COLD CASE BRIANZOLO

CHIAMAMI ANCORA PROF E ROBERTO SALÌ IN CATTEDRA

1973 Cesano Maderno1963 Desio

BRIANZA

n.09Gennaio-Febbraio-Marzo

2011euro 2,00

OMAGGIO

con il patrocinio di

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2Genn. Febb. Marzo 2011

Che bel numero, lasciateci dire cari lettori, quello con cui torniamo in stampa do-po qualche mese.La storia di apertura, quella di Consonno, lascia basiti an-cora oggi. Uno scempio am-bientale di proporzioni tali da far impallidire il celebra-tissimo ecomostro di Punta Perotti a Bari.Una vicenda surreale quel-la del conte Bagno che Pao-lo Pirola, in un bello quanto provocatorio intervento, de-finisce il Fitzcarraldo della Brianza.Una vicenda di quasi mezzo secolo fa che non può non far riflettere su come non sia sta-ta ancora pienamente (ri)af-frontata in questo territorio la questione dello sviluppo. Il combinato disposto di sin-daci impoveriti dai patti di stabilità, cittadini smaniosi di capitalizzare le proprie-tà, imprese edili disposte a tutto pur di gonfiare i fattu-rati, insomma l’intreccio di interessi, più o meno leciti, che caratterizza la bolla im-mobiliare attuale, rischia di segnare pesantemente il fu-turo della Brianza: un’ipoteca paesaggistica ed ambienta-le che potremmo riscattare chissà quando e quale prez-zo.Come il passato ha spesso insegnato, questa terra ha bisogno di sviluppo buono, che arricchisca tutti e non al-cuni, lasciando ai primi tutti gli oneri (viabilità, inquina-mento) e ai secondi tutti i profitti.La riconversione dell’ex-area Snia a Varedo (della quale ricordiamo una prima chiusura avvenuta nel feb-braio 1982), è per esempio un banco di prova decisivo: se prevalesse una logica spe-culativa su un’area di quelle proporzioni sarebbe un al-tro colpo durissimo a tutta la Brianza. GdM

Fra Consonno e la Snia

EditorialeEVAREDO, DIVISA DAL PASSAGGIO A LIVELLOLe Ferrovie Nord vogliono il sottopasso, i negozianti no, il Comune convoca un tavolo. Con la Snia. Viabilità calda

V ia le sbarre a Vare-do», titola L’Ordine della Brianza di do-menica 21 febbraio. Al centro dell’arti-

colo, firmato da Antonio Capu-to, il passaggio a livello delle Nord all’altezza di Via Umberto che, co-me riporta la didascalia della fo-to, «taglia inesorabilmente in due parti la cittadina». E l’immagine mostra un’Alfetta scura, anziani ciclisti e qualche scooterista, fermi ad aspettare il passaggio del tre-no, probabilmente un diretto della linea Milano-Asso, oppure un lo-cale, uno di quei treni che ferma nella vicina stazione.Secondo quanto riporta il giorna-le, le Nord proprio in quei giorni erano tornate alla carica, prospet-tando l’opera, cosa che era acca-duta già una decina di anni prima ma senza esito. Uno degli scogli, anche in quel caso, era stato il possibile danno economico che poteva derivare agli esercizi com-merciali della zona. E proprio i ne-gozianti vicini alla ferrovia erano stati interpellati dall’Ordine. Enrico Franzini, titolare di una ri-vendita di calzature, negava obie-

Progetti 1982, togliere le sbarre

La parola

C’è stato un periodo in cui erano i brianzoli a rubare rame e bronzo. Le cronache del 2 febbraio 1943, riportano alla luce il caso di Giovanni Dell’Orto, 46 anni, di Desio, colto sul fatto nel cimitero Muggiò. La notiza la riporta la Stampa che racconta dell’arresto dell’uo-mo da parte dell’aiutante di battaglia Giuseppe Tempini, co-mandante la stazione dei Carabinieri di Lissone, «che aveva scorto un individuo dai modi sospetti vagolare nel territorio della sua giurisdizione». Inoltratosi fra i monumenti e le lapidi, Dell’Orto «si mise a scardinare gli oggetti di bronzo che adorna-vano le tombe». Per le cronache, Tempini fu ucciso da un parti-giano piemontese nei convulsi giorni del maggio 1945, perché il carabiniere l’aveva fatto condannare per borsa nera.

RAME

Un’immagine del servizio dedicato a Varedo dal quotidiano

L’Ordine della Brianza nell’82

Ruspe in arrivo al-la Fametta. Secon-do quanto annun-ciava L’Ordine del 12 febbraio 1982, a Barlassina, stava per prendere il via la ristrutturazione del vecchio cortile situato in via Matte-otti (foto). Il progetto comuna-le, firmato dall’ar-chitetto Ezio Ce-rutti, prevedeva «la parziale demolizione dell’ala interna del cortile, risultata la più fatiscente». Prevista inoltre «la sostituzione dei solai di legno tipici delle vecchie costruzioni, una una nuova struttura del tetto ee del manto di copertura». Spendendo 267 milioni di lire, l’amministrazione comuna-le puntava infatti a realizzare sei appartementi più relativi garage. La ristrutturazione, avvertivano dagli uffici comunali, avreb-be comunque preservato la struttura del cortile «una forma di vita associata ancora molto sentita dagli abitanti del pae-se, particolarmente dagli anziani che ne usufruiranno». Alla Fametta, infatti, era prevista la realizzazione di alloggi per soggetti svantaggiati e anziani. Come dire: case nuove ma vita vecchio stile.

Un nuovo presidente per l’Ordine degli avvocati di Monza: è Sergio Carpinelli. Ne dà notizia L’Ordine del 24 febbraio 1982. Carpinelli, milanese, classe 1929, avvocato molto noto con stu-

dio a Desio, era stato scelto per guidare quanti praticano la professione forense nell’area monzese. Con lui, il nuovo consiglio formato da Gio-vanni Ciriello, segretario, Antonio Lombobarda, tesoriere e i consi-glieri Mario Di Pisa, Filomena Fiorilli, Angelo Morrone, Giuseppe Pantò, Vincenzo Scioscia e Franco Stornelli.Il legale desiano in quegli anni era diventato una fi gura di livello na-zionale, assistento alcune famiglia di industriali brianzoli colpite da sequestri di persona. Agli inizi della carriera, aveva patrocinato alcune cause di rilevanza nazionale, come quella contro Aci, Autodromo e il pilota Von Trips, per il tragico incidente del settembre 1962 che era costato la vita ad alcuni spettatori del Gran Premio, o come quella sul cosiddetto «Mostro di Desio», del febbraio 1963 e che raccontiamo alle pagine successive.

L’ accelerato che arriva a sera da Milano ed è diretto a Chiasso è, nel febbraio del 1950, sempre carico di lavoratori seregnesi che tornano a casa. La sera del 6 febbraio, come racconta il Corriere

Lombardo dello stesso giorno, il treno 128029 deraglia. Scrive il giornale: «Poco dopo il semaforo di Seregno e, ottenuto il via libera, riprendevala sua corsa ad andatura moderata per superare gli scambi», giunto però al primo incrocio di rotaie «aveva un sussulto e quindi usciva dai binari». Il locomotore rimaneva leggermente inclinato sulla sua destra «senza ro-vesciarsi». Fra i passeggeri «molta paura ma nessun ferito». Esattamente 10 anni dopo, nella vicina Monza (cfr. Giornale della Memoria n.1), un espresso proveniente dalla Valtellina deraglierà provocando una strage: 18 morti e decine di feriti.

Le cronache

1982 Carpinelli guida gli avvocati

1950 L’accelerato deraglia a Seregno

zioni di questo tipo - «il mio com-mercio è basato più sui residenti che non sul cliente in transito», spiegava, «però è altrettanto vero che quando espongo i saldi, anche la persona non residente che è ma-gari in coda, nota la mia vetrina». Gli faceva eco Giuseppe Mauri, cartolaio sulla stessa via, soste-nendo la necessità di «abbassare i binari, come è accaduto alla Bul-lona, lasciando la stazione dov’è e formando con via Umberto, un ponte sulla ferrovia». Possibilista, invece, Alfredo Mon-ti, panettiere e pasticcere, a condi-zione che l’opera venisse accom-pagnata «da un grande parcheggio per un centro commerciale», rea-lizzabile, secondo il fornaio, «ab-battendo i muri della Snia ormai inutilizzati e trasformandone l’area che si ricava».Sulla richiesta delle Ferrovie Nord Milano, spiegava l’articolo, era stato convocato un tavolo fra l’as-sessore all’Urbanistica, Giovanni Marzorati, le stesse Ferrovie Nord e il Consorzio del depuratore di Varedo, interessanto dai possibili lavori e appunto la Snia-Viscosa la quale, proprio in quei giorni, il 12

Il casoBARLASSINA, GIÙ IL CORTILE PER FARE ALLOGGI SOCIALI

febbraio per l’esattezza, annun-ciava la chiusura degli ultimi due reparti che producevano il fiocco (vedi anche servizio alle pagine 14 e 15). Era proprio Monti, il prestiné, a in-trodurre l’argomento: «Del resto la stessa Snia pare voglia utilizza-re proprio le aree per realizzare capannoni artigianali ed abitazio-ni», osservava, aggiungendo che

«stando ai si dice sarebbe già sta-ta costituita a questo proposito un’immobiliare con un capitale di 50 miliardi». Quasi 30 anni dopo, sottopassi-so-vrappassi, parcheggi, centri com-merciali, capannoni della Snia: tutto è rimasto in fase progettua-le. E, stando a quanto è avvenuto in altre zone della Brianza, non è detto che sia stato un male.

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CGennaio-Febbraio 2011

Colophone

PEPPINO È INNOCENTE MA SI È FATTO SEI ANNIUna giovanel’aveva fattocondannare ma sei anni dopo, in un caso simile,i Cc scopronoche si erainventata tutto

Pare che, fino agli anni ‘80, ci abbia vissuto un’anziana signora veneta di cui si ricorda solo il cognome, Nardin. È una delle ultime baracche di Perticato rima-ste. Chi da Paina di Giussano proceda in mac-china verso Seregno o Cabiate la scorge sulla destra, circondata da erba altissima.Il legno delle pareti esterne pare aver retto ad anni e anni di freddo e intemperie e alla calura asfissiante delle estati. Le finestre so-no semisocchiuse, la porta lascia intravedere uno spiraglio. Regge ancora la baracca della Nardin, salvo un avvallamento che si intravede sui coppi del tetto.Chissà se le tante persone che passano di lì ogni giorno in auto sanno che quella è stata

una casa abitata da gente coraggiosa, arrivata sin qui mezzo secolo, carica di dolori e di vo-glia di riscatto. Chissà se qualcuno si sofferma a pensare, anche per un solo istante, a quanta vita sia passata fra quelle assi di legno.Pare che i comuni di Mariano, Giussano e Se-regno stiano per realizzare una rotonda, ab-battendo quella baracca. Ma cari amministratori, perché non restaurar-la? Perché non fare, nell’area circostante, un museo dell’immigrazione veneta? Le risorse necessarie non dovrebbero esse-re difficili da reperire (pensiamo alla stessa Regione Veneto), in un’operazione che met-terebbe insieme la storia e il marketing ter-ritoriale.

C’erano l’onorevole Meda, sottosegretario alla Difesa, i coman-di militari e la associazioni mutilati. Come racconta il Corriere del 26 gennaio 1950, ad Arosio, nel locale Istituto grandi invalidi di guerra, viene innaugurato un busto a ricordo del benefatto-re, senatore Borletti. A scoprire l’opera, realizzata da Rosales, c’è anche il direttore, don Carlo Gnocchi che «ha illustrato il significato della cerimonia». Insiema ai membri della famiglia Borletti «un gruppo di mutilatini e orfani di guerra».

DON GNOCCHI RINGRAZIAVA

La proposta

UN RONDÒ AL POSTO DELL’ULTIMA BARACCA VENETA? NO, FACCIAMONE UN MUSEO

La cerimonia

il Giornale della Memoriamensile di divulgazione storica

www.giornaledellamemoria.it

Registrazione pressoil Tribunale di Monza.n. 1975 del 15/02/2010

Direttore responsabile: Giampaolo Cerri

RedazioneVia Giusti, 32/c20034 Giussano (MB)tel. 0362.285087 [email protected]

hanno collaborato: Leandro Cazzaniga,Martina Cerri, Beppe Citterio, Daniele Corbetta, Doranna Fumagalli, Sergio Giussani,Walter Giussani, Annagrazia Internò,Gigi Molteni,Erminia Moretto (ricerche d’archivio),Daniele Villa

Si ringrazia per l’amichevole collaborazione:Pietro Vismara, fotografo

Progetto grafi co e impaginazione: box313 (www.box313.net)

Editore: Associazione Culturale Storia e TerritorioVia Giusti, 32/c20034 Giussano (MB)tel. 0362.285087email: [email protected]

StampaA.G. BELLAVITE Via I maggio, 4123873 Missaglia (Lc)

Stampato su carta ecologica EFC,con inchiostri a base vegetale.

QuIl poverino s’era già fatto sei an-ni di carcere. Da innocente. Pep-pino Gervaso-

ni, operaio di Agrate Brianza, era dietro le sbarre dai primi di gen-naio del 1948, accusato di aver vio-lentato l’allora neppure 20enne S. C., di Caponago, rinvenuta legata a un albero, mezza svestita e con segni di violenze sul corpo, la vigi-lia di Natale dell’anno prima.Peppino fu arrestato, processato e condannato, seppure davanti ai giudici del Tribunale di Monza, protestasse la sua innocenza.La svolta e la libertà per l’operaio di Agrate arrivava qualche anno dopo, come spiega la Stampa del 31 marzo 1955: «S. C. denunciava ai carabinieri di Agrate Brianza un episodio per molti lati simile a quello di cui era rimasta vittima in passato», scriveva il quotidiano, «secondo le sue aff ermazioni. Sta-volta, la donna dichiarò di esse-re stata aff rontata da due giovani che però sostenne di non conosce-re aff atto». L’autorità giudiziaria, mettendo in relazione l’episodio con quanto

accaduto anni prima, ordinò una rigorosa inchiesta affi dandola ai Carabinieri di Caponago. Possi-bile che la stessa donna fosse rima-sta vittima, in un lasso di tempo relativamente breve, di due vio-lenze? «Stando a letto e simulando con straordinaria abilità di essere in preda al delirio, la donna tenne testa a tutti gli interrogatori del magistrato», riportava il quotidia-no, «e ripetè con ampiezza di par-ticolari, che denunciarono poi la fertilità della sua esaltata fantasia, il racconto dell’episodio di cui sa-rebbe rimasta vittima: aggressio-ne, violenza, rapina e borseggio, e poi sevizie e quindi immobiliz-zazione e percosse». Ma alcuni giorni dopo, i Cc tor-narono a interrogarla e, stavol-ta, S.C cadde in numerose con-traddizioni: «Il sospetto che già si era fatto strada fra gli abitanti del sobborgo, che la conoscevano come una specie di esaltata e di maniaca, venne confermato do-po un ultimo interrogatorio dei carabinieri durato cinque ore, al termine del quale, in preda ad una crisi di pianto, la C. confessava di aver completamente inventate le

due aggressioni e dichiarava che il Gervasoni era innocente». Secondo il racconto della Stampa: «Non era mai stata neppure avvi-cinata da lui e non sapeva come e perchè aveva costruito tutto quel castello di basse calunnie, sevi-ziandosi con le sue stesse mani e legandosi da se medesima all’albe-

ro dove per ben due volte in sei an-ni si era fatta trovare da contadini della zona in preda a convulsioni isteriche oppure svenuta». La giovane era stata inizialmente rinchiusa in osservazione nel ma-nicomio giudiziario di Aversa ma lì, i medici l’avevano giudicata sa-na di mente, malgrado una perizia di parte, chiesta dai suoi familiari a una specialista del Paolo Pini di Milano, la dottoressa Alabastro, l’avesse defi nita seminferma. Ri-portata in Brianza, la donna il 31 marzo si apprestava ad aff rontare il giudizio del Tribunale monzese l’indomani.La sentenza sarà dura: sette anni e quattro mesi con il riconoscimen-to della seminfermità mentale. In aula la giovane ammetterà le proprie responsabilità e anche di essersi scritta alcune lettere di mi-natorie.

Il processo1955, un operaio di Agrate accusato di stupro

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4

CO

NSO

NN

O 1

962

Genn. Febb. Marzo 2011

La data del disastro è scritta nella carta bol-lata di un atto pubbli-co: 8 gennaio 1962. Quel giorno di quasi

mezzo secolo fa, davanti a un non precisato notaio, comparvero i rap-presentanti delle famiglie Verga e Anghileri, socie dell’Immobiliare Consonno Srl. La società stessa è al centro di una transazione, una compravendita: ad acquistarla è un distinto signore, nativo di Vercelli, Mario Bagno, classe 1908, impre-sario edile in grande (strade e ae-reoporti). Sebbene la repubblica, costituita da meno di vent’anni, abbia abolito i titoli nobiliari, Ba-gno si fregia del titolo di Conte di Valle dell’Olmo ed è pure, orgoglio-samente, grande ufficiale.Apponendo le loro firme in calce al documento, i Verga, gli Anghileri e il conte decretarono, non solo la cessione delle quote di una scono-sciuta società, ma l’inizio di uno dei più clamorosi scempi paesaggistici d’Italia: la distruzione di Consonno, borgo dell’Alta Brianza, che guarda il Lago di Como.L’immobiliare infatti possiede tutte ma proprio tutte le case che com-pongono il paesino, poche centina-

Storie Follia urbanistica sui monti lecchesi

DISNEYLAND,BRIANZAL’incredibile epopea di Mario Bagno, il conte-industriale che comprò e rase al suolo il borgo di Consonno per farne un parco giochi ma lasciando dietro di sé un paese fantasma

ia di anime, adagiato a 650 metri sul fianco orientale dello stesso Monte Brianza. Un retaggio feudale, pro-babilmente ma sta di fatto che in pezzo di carta bollata stanno tutte le costruzioni di quel villaggio, in-

cluse chiesa, canonica e cimitero. Non solo, della proprietà trasferita fanno parte 140 ettari di campo e di bosco bellissimi: a Consonno do-mina il castagno e nei campi, dove gli ultimi contadini delle Brianza,

quelli che stanno resistendo al ri-chiamo della fabbrica giù nel piano, coltivano un sedano che è rinoma-to, venduto al mercato della vicina Olginate che, dal 1928, a seguito degli accorpamenti amministrati-

Nella foto di Alessandro Casiello, il «minareto» costruito a Consonno dal conte Bagno

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Paolo Pirola, presidente dell’Associazione Brianze, rilegge provocatoriamente la fi gura dell’industriale e il suo sogno brianzolo

Interventi, il conte Bagno rivisitato

FITZCARRALDO SOTTO IL RESEGONE

5Genn. Febb. Marzo 2011

I Ideein circolo

Ci vorrebbe l’UnescoL’Unesco dovrebbe farne un patrimonio dell’umanità. Consonno, o meglio lo sche-letro che ne rimane, dovreb-be essere tutelato così com’è e offerto alla memoria collet-tiva, non solo italiana e brian-zola ma mondiale.Quello infatti che accadde, quasi mezzo secolo fa, in que-sto piccolo borgo appoggiato sulle verdi pendici del Monte Brianza merita d’essere ricor-dato ab aeternum.E non solo per quanto dissesto sia stato possibile produrre, sulle persone e sull’ambiente, sotto lo scudo della «proprie-tà privata» senza che alcuna autorità politica frapponesse ostacolo.La storia di Bagno e dei suoi buldozer infatti segnala l’in-sipienza dell’ambientalismo nostrano: gli ecologisti avreb-bero dovuto fare un sacrario di queste quattro mura piene di calcinacci, un monumento, un monito permanente a qua-le e quanto sia il potenziale di-struttivo dell’uomo.Consonno giudica poi, e dura-mente, l’inadeguatezza della nostra informazione, che ci ha raccontato le tante Punte Pe-rotti d’Italia nascondendoci questo cammeo brianzolo. Invece questo luogo incredi-bile dovrebbe restare un sim-bolo. Gli amministratori di Olgina-te, anziché progettarci centri benessere o villette a schiera, dovrebbero pensarci su e, fa-cendo un ripasso di marketing territoriale, trasformare Con-sonno in una nuova capitale della coscienza civica, un mu-seo dell’ambiente sventrato. Intanto, oggi le macerie del conte Bagno, come scrive Pa-olo Pirola nel bellissimo e pro-vocatorio articolo qui a fi anco, fanno misteriosamente da ar-gine alla speculazione edilizia marciante a Nord di Milano e segnatamente in Brianza.Un giorno ci chiederemo se sia stato peggiore il nobile asfaltatore vercellese o cer-ti sindaci brianzoli con i loro piani generali del territorio. GdM

vi voluti dal Fascismo, ne è anche il municipio.Passare da un padrone di casa all’al-tro può essere una storia di ordina-ria amministrazione per i conson-nesi, si può trattare semplicemente di dover pagare la pigione a uno piuttosto che agli altri. Se non che, Bagno Mario da Vercelli, è un lu-cido visionario: ha deciso che quel fazzoletto di Brianza verdissima, incastonato in mezzo alle Prealpi, debba diventare un paese dei baloc-chi, senza Pinocchio e Lucignolo.Alla gente del luogo, s’è presentato alla fine del 1961, come futuro pa-drone di casa, perché probabilmen-te, ancor prima dell’atto notarile, l’accordo era già fatto. Fa arrivare una sola parola: «rilan-cio». E prima che i Consonnesi ri-escano a capire che cosa sia tanto decaduto, e da dove, tale da giusti-ficare un’azione del genere, sento-no il rombo e l’odore di nafta delle ruspe: Bagno è riuscito ad ottene-re dal Comune l’autorizzazione a trasformare la mulattiera che da Olginate conduce in paese in una strada vera e propria. La gente di Consonno osserva un po’ preoccu-pata il bulldozer fare a pezzi il bo-sco, spianare, macinare sassi e ter-ra. Qualche anziano probabilmente leva una preghiera a San Maver, il san Maurizio patrono dell’antico borgo. L’epifania del rilancio arri-va qualche mese dopo alla firma dal notaio: le stesse ruspe che han-no sfregiato la montagna, stavolta puntano sull’abitato.Anticipando una famosa scena del secondo Amici Miei II di Monicelli, i tecnici piombano in Via del Riz-zolo, via della Spinada, via Chiesa da basso, la toponomastica tipica di quel borgo, e danno ordini peren-tori: «Qui, giù tutto». Solo che qui, a differenza del film, non la burla non c’è. O forse, Mario Bagno è uno scherzo del destino. Sta di fatto che la gente deve trasferirsi in fretta e furia in una baraccopoli da cantie-re che il conte ha fatto predisporre, e osservare attonita la demolizione del proprio paese, delle proprie ca-se, dei propri ricordi. Una scena degna di qualche teatro di guerra, i cui le truppe occupan-ti spiano le case dei civili sconfitti. Anni dopo, nel lontano Mediorien-te, gli Israeliani avrebbero fatto lo stesso con le case dei kamikaze a Gaza o in Cisgiordania.Ma almeno quelli sapevano di aver avuto un congiunto che aveva de-ciso di fare il terrorista e togliere, oltre la propria, anche la vita altrui. Ma che cosa avevano fatto i Con-sonnesi?Nel 2004, un bellissimo documen-tario della Tsi-Tv svizzera italiana, Insonne Consonno firmato dal regi-stra Cesare Bernasconi, ripropone l’assurda storia del paese spianato, attraverso la voce di alcuni «super-stiti». Un fratello e una sorella che con la loro madre, hanno resistito nelle baracche del conte e un altro consonnese rimasto a vivere là. Il loro racconto è un sommesso grido di dolore: raccontano, come rivivendoli con terrore, i momenti delle ruspe che tirano giù muri, tet-ti, che annullano piazzette e crocic-chi, che fanno sparire i luoghi dove ognuno ha mosso i primi passi, riso e scherzato con gli amici, giocato a nascondino.Il conte Bagno però persegue una sua idea creativa, un sogno piccolo industriale: fare di Consonno la ca-pitale del divertimento. È l’antesi-gnano delle odierne Mirabilandia e

C hi sogna può muove-re le montagne». Così recitava Klaus Kinsky

nei panni di Brian Sweeny Fit-zgerald, meglio noto come Fit-zcarraldo, nel celebre, omoni-mo fi lm di Werner Herzog.

Anche la Brianza, anni fa, ha avuto il suo Fitzcarral-do: il famigerato Conte Bagno. Costui, più che muo-vere, spianava le montagne. Solo per permettere alle coppie di sposi che banchettavano al matrimonifi cio di Consonno la classica foto di rito con sullo sfondo il Resegone, appunto nascosto da un mammellone che le instancabili ruspe del Conte provvidero ad elimina-re. O, quantomeno, a rettifi care. Fitzcarraldo voleva edifi care un Teatro dell’Opera nel cuore della foresta amazzonica, risalendo cascate e orridi, tra indios ostili e serpenti velenosi…Il Grande Uffi ciale Mario Bagno, improbabile conte di Valle dell’Olmo, si accontentò della Zanicchi e dei Mar-cello’s Ferial, tra le ben più ospitali prealpi lombarde e le accoglienti braccia dei geometri locali. Non c’erano i Verdi, le sovrintendenze se la intende-vano sotto sotto, il sole dell’avvenire scaldava le menti e i cuori degli italiani. Consonno! Fu una sorta di leggenda, che correva di paese in paese, per la Brianza dei mitici anni ’60.Per chi, come me, era allora bambino, la prima visita a Consonno - in sella sul serbatoio della fi ammante 250 Guzzi di mio papà (l’Airone)- fu uno sballo: la porta d’entrata era vigilata da due armigeri - fi nti anche que-sti - in posizione di guardia. «A Consonno il cielo è più azzurro», stava scritto sugli striscioni che accoglievano i visitatori. Pagode, forti apache, minareti, cannoni… le mille e una notte che turbinavano nelle nostre teste di bambini cresciuti a western, pirati e tughs della Male-sia, presero forma e sintesi a Consonno: la Disneyland

«de noantri», anzi de «domà nunch» .Ebbene, contro il buon senso che indica il conte Bagno quale fi gura simbolo della speculazione edilizia, io inve-ce voglio qui, postumo, pubblicamente ringraziarlo.Mi ha fatto felice da bambino e, a distanza di decenni, mi fa felice oggi. Da bambino perché mi ha regalato qualche ora di sogno; da adulto perché, paradossal-mente per una sorta di eterogenesi dei fi ni, lo specu-latore ha salvato dalla speculazione una grande area verde. No, non sono pazzo. Basta scavallare la monta-gna, o andare su Google Earth, e osservare Galbiate. Lì vive l’ecologista più famoso d’Italia, anch’egli - come Consonno - parto degli anni ‘60: il re degli ignoranti, Adriano Celentano.Ebbene, sembra di precipitare nelle pagine meraviglio-se de La cognizione del dolore, di Carlo Emilio Gadda, quando nel 1963 l’ingegnere descrive la Brianza pastru-faziana ai piedi del Resegone-Serruchòn. «Di ville, di ville!», scrive, «di villette otto locali dop-pi servissi; di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi veduta panoramica del Serruchòn - orto, frutteto, garage, portineria, tennis, acqua potabi-le, vasca pozzonero oltre settecento ettolitri - esposte mezzogiorno, o ponente, o levante, o levante-mez-zogiorno, o mezzogiorno-ponente, protette d’olmi o d’antique ombre dei faggi avverso il tramonatano e il papero, ma non dai monsoni delle ipoteche, che spi-rano a tutt’andare anche sull’anfi teatro morenico del Serruchòn e lungo le pioppaie del Prado. Di ville! Di vil-lule! Di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pen-dici preandine, che, manco a dirlo, “digradano dolce-mente”: alle miti bacinelle dei loro laghi».Invece, nella grande area che circonda Consonno, la Natura ha ripreso il sopravvento sulla stupidera umana.

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La testimonianza

La prima volta che vidi il paese avevo quattro anni. Consonno era già un paese «fantasma», per certi versi, ma di sicuro ancora non vi regnava la decadenza attuale. Conosco ogni strada, ogni sentiero, ogni piccolo e forse insigni-fi cante particolare, perchè i miei genitori affi ttarono un appar-tamento al «palazzo orientale», dove si trova il minareto. Un bilocale che divenne la nostra casa di villeggiatura. So che può sembrare stranissimo, eppure è così. I miei amavano la mon-tagna: le ferie di Natale e quelle estive le trascorrevamo là. Non eravamo soli: con noi, alcuni fra i miei zii e altre famiglie della Brianza. Eravamo più o meno una quindicina di bambi-ni. Le corse in bicicletta giù per la discesa fi no alla piazzetta di fronte al bar-ristorante, con il proprietario del bar che ci re-galava le caramelle; i giochi organizzati nella vecchia balera, le arrampicate sui ponticcioli e sui massi, con i genitori che ci gridavano dietro; le innumerevoli cadute, gli scherzi ai turisti e ai vecchietti dell’albergo, la caccia alle rane nella fontana di-venuta poi stagno. (...) Le passeggiate su Monte Mario, quando andavamo a castagne o a funghi, gli acquazzoni estivi che ci inzuppavano fi no alle ossa mentre eravamo fuori nei prati... E poi la sera, tutti davanti al fuoco, a cantare canzoni alla chitarra. Ricordo nitidamente Il ragazzo della via Gluck (...) Francesca (da www.consonno.it)

IL BELLO DELLA DECADENZA

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Insonne Consonno è il docu-mentario che la Tsi, tv della Svizzera italiana, dedicò al paese fantasma sette anni fa.A firmarlo è stato Cesa-re Bernasconi, regista che più volte si è interessato alla Brianza, per la serie Storie.Un documentario unico, an-cora oggi visibile negli archi-vi online della tv cantonese. Per recuperarlo, basta anda-re all’indirizzo internet www.larsi.ch, cliccare su «Storie» ed inserire il titolo del docu-mentario, o semplicemente la parola «Consonno», nella funzione di ricerca.In alternativa, si può cerca-re il filmato su Google, in-serendo il titolo esatto della trasmissione e aggiunge-re «Tsi». Usciranno anche molti link a blog e a siti che ne parlano, perché il filma-to è certamente un cult per molti appassionati di Brian-za ma anche di architettura e di ambiente. In 50 minuti e 56 secondi di interviste e immagini molto belle, inclu-se quelle originali degli anni ‘60 quando Tsi si era già oc-cupata della Las Vegas brian-zola, Bernasconi racconta la storia apparentemente sur-reale di questo borgo appog-giato sulle pendici del Monte Brianza.Su YouTube invece, digitan-do «Consonno» come chiave di ricerca, si possono vede-re decine di video amatoriali fra le rovine della città fan-tasma, incluso un bellissimo (ma breve) superotto degli anni ’60 e due minuti e mez-zo dello scellerato rave del-la Summer Alliance che, nel luglio del 2007, si abbatté su quel che restava del paese dei balocchi.Chi invece vuol ricostruire la storia incredibile di questo paese, deve passare neces-sariamente da Consonno.it, il sito che raccoglie mate-riali, ricerche, testimonianze (come quelle di queste pagi-ne), foto d’epoca. Lo gestisce Giovanni Zar-doni, insieme all’Associa-zione Amici di Consonno che, ogni anno, organizza la festa di San Maurizio (18-21 settembre), in cui la diaspo-ra consonnese si ricompone e i tanti paesani dispersi ri-tornano.Foto suggestive, come quelle di queste pagine, si trovano poi su www.flickr.com.

Cliccare Las Vegas

Web & dintorni

Genn. Febbr. Marzo 2011

Gardaland e coevo di Disneyland.Un teorico del balocco per famiglie. In breve, sul pianoro ripulito dalle mura secolari, compare una citta-della dai tratti esotici: una lunga co-struizione a tre piani, presidiata da un incredibile minareto. Nascono giardini con pagode, piramidi, tem-pli arabeggianti, arrivano da Cine-città, grandi scenografie dismesse da qualche film d’ambientazione biblica. La nuova Consonno pare il frutto di un mazziere impazzito di Mer-cante in fiera. Inizia la stagione dell’oro. Conson-no comincia ad attrarre stelle e stel-line dell’Italia del boom, il grande salone delle feste ribolle di gente e di note. Le serate all’ombra del minareto sono popolate da Milva, Walter Chiari; si suona si canta, la gente arriva, da Lecco e dalla Brianza, su-pera la scenografia castellana (simi-le alla porta di un grande cassero) e entra in un mondo magico, si af-faccia al bar, magari si ferma per il pranzo al ristorante oppure va a fare shopping nei tanti negozi che, proprio dall’edificio centrale, si af-facciano lungo la strada. Come ricordano gli anziani intervi-stati dalla Tsi, i sabati e le domeni-che, Consonno è popolata da spo-si freschi di cerimonia, inseguiti dai loro fotografi fra i giardinetti e la pagoda.E poi c’è lo sport. In un raro filmato del 1965, ripreso dal documentario di Bernasconi, il conte appoggia-to alla ringhiera con il verde della campagna alle spalle, distilla i suoi progetti con un inconfondibile ac-cento piementese, a cominciare dal ciclismo: «Farò il circuito in quel-la zona là, è uno dei più belli per la zona panoramica quasi d’Euro-pa; vorrei dirlo forte perchè forse un circuito così, se avrò i mezzi, non ci sarà uguale. È piccolino ma molto elegante». Non solo parole: ogni anno arrivano lassù, inseguiti da migliaia di tifosi, i campioni delle due ruote, a partire da quello che domina in quei giorni, il francese Jacques Anquetill,o i giovani vir-gulti italiani, come Gianni Motta, che vince la prima edizione della corsa l’11 agosto del 1967.E non solo bici: «Lì sotto», prose-gue l’intervista, «farò il campo di calcio, il campo della pallacanestro e del tombarello - proprio così alla piemonteisa, anziché tamburello - , che è uno sport in declino; qui ven-gono i campi da tennis, delle boc-ce, e da minigolf, di là dovrà venire la pista del pattinaggio, luna park e uno zoo di bestie da parco e giardi-no. Un grande zoo, con un grande ristorante popolare con orchestrine curiose, è vero, per attirare tutto il pubblico naturalmente». Bagno indossa cappello a falda lar-ga e un gran cappotto chiaro, fuma sigarette con un lungo bocchino e tiene al guinzaglio un bassotto. Un ricco signore à la page degli anni ‘60, un gran cummenda dai modi raffi-nati che è anche un pazzo lucido e pieno di soldi: la collina dinnanzi gli nasconde lo spettacolo del Resego-ne? Lui non esita un attimo e invia le ruspe a sbassarla di qualche deci-ne di metri. Perché, come assicura uno dei tanti cartelloni fatti issare sopra le strade: «Qui a Consonno è tutto meraviglioso».La piccola Las Vegas della Brian-za attira anche dei villeggianti: un’ampia proporzione della strut-tura, composta di tanti miniappar-tamenti, viene data in affitto per

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I ricordi

Il 24 aprile 1976 mi sono sposato felicemente con Gianna, la fe-sta l’abbiamo fatta presso l’Hotel Plaza nella magica dell’allora «Las Vegas» della Brianza. Posto incantevole, da sogno, avve-niristico. Ricordo che tutti gli invitati rimasero a bocca aperta nel vedere un così bel posto. Tony Cassano

(...) era un giorno infrasettimanale del giugno del 1973. Con-sonno aveva imboccato la strada del lento abbandono, ma an-cora qualcosa viveva nei suoi bar e nelle vetrine dei suoi ne-gozi. Ma aleggiava un sinistro alone di morte, quasi imminente. Ricordo benissimo quel giorno perché ci portai la mia ragazza, divenuta poi mia moglie, che, nonostante fosse di Lecco, non era mai salita in quello strano posto. Ricordo un gelato preso seduti nei tavolini di un bar, che all’interno, aveva delle foto in bianco e nero di corridori ciclisti (...) Edoardo Serafi ni

(...) un luogo della mia infanzia che non avevo idea di dove si trovasse perchè mi ci portavano da piccola. Sono del 1967. Ri-cordo perfettamente l’atmosfera di irrealtà e la salita per arriva-re in questo indefi nibile luogo. Venivamo da Brugherio e questa era una gita ripetuta del fi ne settimana. Nathalie

HOTEL PLAZA E DINTORNI

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l’estate e molti decidono di godere la frescura della mezza montagna, non disdegnando neppure un po’ di vita notturna e i negozi sempre aperti che fanno tanto lungomare romagnolo.Ma il sogno terribile di Mario Ba-gno piano piano si incrina. Cam-bia l’Italia, cambiano gli italiani, cambia il concetto di divertimen-to. L’astronave consonnese, col suo missile-minareto puntato verso il cielo, assume, giorno dopo gior-no, l’aspetto triste del residuato. La gente smette di salire, gli affari vanno a picco. Finché non ci si mette anche la na-tura che, con il nobile piemonte-se ha un conte aperto da oltre un decennio, quando aveva mandato le sue ruspe a ferire le pendici del Monte Brianza. Nel ’72 succede che la strada letteralmente frana. È già accaduto nel ’66, l’anno dell’al-luvione di Firenze: le piogge tor-renziali di quel novembre avevano fatto colare su Consonno metri e metri cubi di fango. Ma l’Italia guar-da agli Uffizi allagati e nessuno si cura del dissesto di Consonno che non scalfì minimamente i piani di Bagno: ripara, consolida, si mette a costruire. È un segnale però: il monte e il bo-sco, feriti, hanno lanciato un altolà. Stavolta, la terra e la strada vengo-no giù quando anche i conti stanno andando a rotoli e tutti finiscono per precipitare assieme. Il vecchio conte vercellese chiude le attività, abbassa le saracinesche, spranga i locali, coltivando sogni di ripresa e di rilancio. Ha ormai più di 80 anni e rimugina sulla riconversionel della sua crea-tura. Anziano, immagina di far ri-nascere Consonno come piccolo paradiso della terza età. E affitta l’Hotel Plaza a fratel Alberto Bo-sisio, un religioso, che porta lassù gli anziani ospiti delle sue residen-ze. Nel documentario della Tsi, si può vedere il frate che si aggira fra gli anziani ospiti della struttura, ri-costruendo la disposizione dei lo-cali nel precedente utilizzo: «Ecco, qui c’era il night». Ma nel 2007, se ne va pure lui. Bagno invece se n’era andato nel 1995, ma per l’ultimo viaggio.A Consonno rimangono solo i po-chi scampati al conte, meno di una decina, che vivono nella canonica. Su di loro, fra la fine di giugno e i primi di luglio di quell’anno, si ab-batte la furia di un rave party, con centinaia di giovani scatenati richia-mati sin lì da tutta Europa: tre gior-ni fra musica a volumi folli, alcol a fiumi, droghe sintetiche e vandali-smi di ogni genere. I Carabinieri li controllano a distanza. D’altra parte, siamo o non siamo nella capitale del divertimento?

Il fotografo

Le immagini di queste pagine sono di Alessandro Casiello, 28 anni, vimercatese. Informatico di professione in una grande azienda di telecomunicazioni e scatta per passione e per dna familiare, essendo fi glio di un fotografo professionista che ha accompagnato spesso. E proprio con una vecchia macchina di Casiello sr, una Cosina degli anni ‘80, Alessandro ha comincia-to i primi servizi. Sul sito specializzato www.fl ickr.com, gli scatti di Casiello si tro-vano sotto l’account Spl33n_82. Oltre alle bellissime 21 foto-grafi e su Consonno, ci sono ritratti, nudi e immagini di città di grande suggestione.

L’OBIETTIVO DI ALESSANDRO FRA LE MACERIE DI BAGNO

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Carnevale. 1976 Bambini e giovani canturini nelle strade della città

I GIORNI DEI MAGNAN

C’è stato un tempo in cui il Carneva-le era una festa semplice, in cui contava appunto

semplicemente che la carne vales-se, in attesa della penitenza della Quaresima. C’è stata una stagione in cui le persone, ma più frequen-temente i ragazzini, si vestivano in maschera con grande semplicità, senza far ricorso a costumi o trave-stimenti particolari. C’è stata l’epo-ca dei magnan, degli stagnini. In quel di Cantù, la tradizione carnascialesca per definizione era quella. Per mascherarsi bastavano alcuni vecchi vestiti e annerirsi la faccia col sughero bruciato sulla fiamma del gas per ricordare la fu-liggine che stava sul volto di chi ripuliva le canne fumarie. Due toc-chi facili facili e la faccia diventava quella di uno stagnino provetto. Il resto lo faceva l’allegria e lo sta-re insieme.Nelle epoche passate la gente saliva dalle campagne in

Il fotografo

I lettori l’avevano già conosciuto per un bellissimo servizio sulle baracche venete a Perticato. Attilio Mina è fotografo ma anche videomaker, saggista e scrittore. Dopo aver fatto foto-giornalismo per agenzie e periodici, da Grazia Neri a Photo, da Panorama ad Abitare, si è dedicato all’insegnamento (Istituto sperimentale d’arte di Monza, Ied, Scuola umanitaria, Liceo Modigliani Giussano). Dopo aver abbandonato la fotografia per anni, Mina ha ripreso a scattare. Oggi punta l’obiettivo su-gli scorci più suggestivi delle montagna lariane, per la gioia degli amici che lo seguono su Facebook.

ATTILIO, OCCHI SUL MONDO

Maschere molto semplici, a base di sughero annerito: gli stagnini. Un servizio di Attilio Mina ci riconsegna, a distanza da 36 anni, le feste carnascialesche a Cantù

paese per far festa. Una tradizione che si era assopita e che un grup-po di giovani ha resuscitato a metà degli anni ’90, riportandola a splen-dore in una città che, negli anni, ha visto anche strutturarsi un Carne-vale vero e proprio, con tanto di sfilata, carri allegorici e biglietto d’ingresso.Le foto di queste pagine, uno dei tanti bellissimi servizi che hanno costellato la carriera di Attilio Mi-na, mostrano una festa del 1976, per le strade canturine. Lo stile Magnan è ancora forte anche se si vedono già alcune varianti sul tema: trucchi clowneschi, capelli colorati, schiuma da barba destina-ta di lì a poco a diventare un must anche un po’ grossolano di ogni Carnevale.L’obiettivo del fotografo mariane-se, in uno struggente bianco e ne-ro, coglie volti, smorfie, sorrisi di una Cantù giovane e spensierata, che ha voglia di stare insieme, di di-vertirsi, di far festa nella tradizione

dei padri e dei nonni.Oggi, quasi quarant’anni dopo, quegli scatti destano certamente una punta di commozione.Sarebbe bello che chi vi si ricono-sce, chi ritrova in queste fotogra-fie il ragazzino che fu, scrivesse al giornale per raccontare quale emozione quelle immagini han-no destato in lui

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Chi li ha visti?

Gli stagnini di 40 anni fa

Chi si rivede nello stagnino di quasi 40 anni fa? Il Gior-nale della Memoria cer-ca i Magnan immortalati dall’obiettivo di Attilio Mi-na nel 1976.Chi si riconosca in queste fo-to può inviarci una via email a [email protected] oppure scriverci a Giornale della Memoria, via Giusti 32/c, 20833 Giussano (Monza Brianza), raccontan-doci l’emozione che ha pro-vato rivedendosi ragazzino, il ricordo che ha di quella fe-sta, i nomi degli amici con cui la condivise. Pubblicheremo i vostri rac-conti nel prossimo numero. Così che la vostra personale memoria diventi la memoria di tutti.

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A metà degli anni ’90 si so-no fatti in quattro per ripor-tare in vita l’antica tradizio-ne del Carnevale poi, dopo anni di feste chiassose, alla fine dell’anno scorso hanno deciso di mettersi in proprio, distinguendosi dalla cele-brazioni del ufficiali canturi-ne. Sono i Magnan di Cantù, costituitisi in associazione.Quest’anno il Venerdì gras-so, che cade l’11 marzo, se lo gestiranno in proprio, sfilan-do con i propri carri agricoli nelle vie cittadine.Notizie e aggiornamenti sul-la pagina Fecebook «I ma-gnan di Cantù».

Il Venerdì è grasso!

Di chi si parla

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Nel febbraio di quasi 30 anni fa, la festa in maschera tornò a risuonare per le vie cittadine: carri, scherzi, gente allegra. La cronaca di quelle giornate così come la raccontò L’Ordine

Carnevale passione brianzola. L’Ordi-ne di domenica 28 febbraio 1982 era tutta una cronaca

dei vari festeggiamenti che coin-volgono paesi e cittadine.A quello di Erba, viene dedicata quasi una pagina intera, quella so-litamente riservata all’Alta Brianza e Vallassina. «Dopo vent’anni gli erbesi hanno riscoperto il carneva-le», titola il quotidiano, con un oc-chiello che recita: «Carri allegorici e bontemponi per le strade della cit-tà». Proprio così, per ben due de-cenni, la cittadina aveva rinunciato a festeggiare. L’articolista, che si sigla «G.P.» non spiega le ragioni: molto probabil-mente gli anni che vanno del ’62 all’82 sono quelli in cui era cresciu-to l’impegno politico e religioso di molti, specialmente giovani. Anni di lotte e di contestazione, nei quali forse il Carnevale e le sue feste erano stati visti come fuga, un po’ troppo leggera, dal reale e dai suoi problemi. Forse. Sta di fatto che in quel febbraio di quasi trent’anni fa, le vie cittadine videro il riesplodere dello scherzo e della voglia di diver-tirsi. «La gioia di ieri non è scom-parsa», scriveva L’Ordine, «si parla ancora di quel carnevale diverso, rivissuto per la prima volta dopo anni di congelamento. Una tradi-zione», si proseguiva, «che la città aveva ibernato e che oggi è tornata proponendo un insperato e sugge-stivo spettacolo».Dal racconto, quell’edizione del ri-nato Carnevale pare esser stata ric-chissima: «Le mascherina sparse tra la gente» , scrive il giornalista, «riproducono la “nostalgia”: una pantera rosa, cappuccetto rosso, damine dell’800, tigrotti, qualche arabo e una minutissima coccine-alla un po’ triste, forse non capisce quel movimento, il perché di tutta quella gente». Poi, ovviamente, ar-rivano i carri: «La carrellata ha ini-zio con un enorme televisore pre-ceduto dal “museo degli orrori”, visi sfatti e sguardi cattivi. È la “ca-sa gioventù” che con un’impicca-gione del mezzo di imbalsamazio-ne, offre il patibolo dell’antenna. La guerra», conclude, «all’ipnosi dello schermo». E dire che la tv com-merciale stava muovendo ancora i primi passi, ben lontana dallo stra-potere attuale. Eppure gli Erbesi ci ridevano su, consapevoli di una di-pendenza che era in arrivo.«Sembra d’essere a Viareggio», commentava un passante, «non è proprio la stessa cosa ma è comun-que molto bello». Ancora carri al-legorici: «Un’enorme fetta formag-gio avvolta da topi apre la parodia della crisi, grazie alla quale tutti mangiano». Non mancava, nella festa ritrovata, qualche sentimento protoleghista: un carro raffiguran-

Tradizioni Sfilate dopo venti anni a Erba

Sopra, una pagina de L’Ordine della Brianza. Sotto, maschere canturine immortalate da Mina

CARNEVALE,IL GRAN RITORNO

te “il cretino” intento al suo lavoro, circondato da benestanti o meglio ‘furbi patentati’ che ne deridono l’operato e vivono da parassiti». In città, l’ex-partigiano erbese En-rico Rivolta ha da poco dato vita a una lista civica - Brianza - che lo aveva portato in consiglio comuna-le e che poteva essere considerata di buon grado la progenitrice della successiva Lega Lombarda e attuale Lega Nord (cfr. Il Giornale della Me-moria n.03 aprile 2010). E per le vie di Erba sfilava anche il prototipo della famiglia brianzo-la: la propone uno dei rioni cittadi-na, Cassina Mariaga, «una famiglia Brambilla, stipata nell’auto, seguita da un carrello carrozzina». Il rione Bindella andava sul sicuro con un soggetto iper-tradizionale: Biancaneve e i sette nani: «Arbusti, verde, una capanna e i bucaneve sparsi sul tappeto verde. Intorno a un tavolino i piccolissimi nani so-no intenti a giocare e a posare per i fotografi». Molto lombarda anche la scelta del quartiere Incino che proponeva «una sceneggiata sulla falsariga dei legnanesi, intitolata Un matrimonio in parodia: visi abbruttiti e segnati da troppe rughe».Gli anni ’80, quelli del cosiddetto riflusso dopo la sbornia ideologica, quelli che i sociologi si affrettaro-no a definire dell’edonismo, erano

appena cominciati. La Brianza, co-me l’Italia, aveva voglia di tornare la privato, alle cose solite e sicure, al calore della famiglia, dimenticando, seppure per un momento, le durez-ze di quei giorni, con l’inflazione che mangia gli stipendi, il lavoro che si perde, l’eroina che falcidia tanti giovani e la pazzia che arma

Le altre feste

Sei carri, fra cui uno ispirato a Garibaldi e alla sua storia di li-beratore d’Italia, uno che ripropone Pinocchio e Geppetto, un altro con gli eroi disneyani Paperino e Paperone: è il Carne-vale del 1982 a Briosco, secondo la cronaca de L’Ordine della Brianza del 28 febbraio. Una partecipazione corale del paese, si scrive, ma anche della frazione di Capriano. Nella stessa pa-gina resoconti anche delle feste a Nova Milanese, «Carri come a Viareggio», scrive il giornale, e a Carate, dove la sfilata viene definita «fantasmagorica».Nella stessa pagina, però, anche un commento serio di una giornalista, Anna Motta, che riflette su questa grande attesa carnascialesca. «Colpisce questa voglia disperata di divertir-si», scrive chiedendosi se «non sia appunto, disperata». E ar-gomenta: «Da mesi andiamo registrando su queste pagine di un’ondata di licenziamenti quale mai si è verificata in Brianza, l’allargarsi dell’epidemia della droga, il crescere della vio-lenza giovanile e non. Sorge il sospetto», conclude, «che la “carnavalitudine”di quest’anno non sia allegria ma una fasti-diosa irritazione della pelle. E ci si gratta. E va bene, tanto è per un giorno. Purché l’irritazione non aumenti».

DA BRIOSCO A CARATE

ancora la mano di alcuni terroristi o dei sequestratori.«Il corteo finisce», annotava il cro-nista de L’Ordine, «molti seguono quasi magnetizzati quella sfilata, che ha entusiasmato tutti, special-mente gli adulti. Tutti per un atti-mo hanno rivissuto un carnevale di vent’anni fa»

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serà qualche altro quotidiano, più attento alla moralità pubblica de-gli anni ‘60, aff rettandosi a precisare che erano fi danzati da poco ma «già avevano deciso di sposarsi». Angelo e Ornella comunque non possono mettere in conto che qual-cuno, sbucato dal nulla, li aggredi-sca con furia bestiale. Prima lui, alle spalle, colpito da diverse coltellate, poi lei, raggiunta da un fendente che recedeva l’arteria femorale. L’assassino così com’è venuto, se ne va, senza curarsi di verifi care se i due ragazzi siano morti o vivi. Come un automa, addirittura in-ciampa nello scooter di Angelo, lanciandogli contro un’assurda in-vettiva in dialetto brianzolo: «Va via disgraziato, tu e la tua motoretta», come il ferito racconterà ai Cc. È lui a dare l’allarme, trascinando-si, insanguinato, fi no alla baracca del custode di un vicino cantiere. Luigi Cani, il primo soccorrito-re, sente i lamenti del giovane alle 21,45. Lo raccoglie, lo adagia sulla sua branda, lo sente implorare di

Confessa-no i mo-stri di Desio e Laglio», urla su cinque colonne

il Corriere di Informazione, giornale della sera, del 31 gennaio-1febbraio 1963. L’«ultima della notte», come riporta un bollino accanto alla testa-ta, è tutta incentrata su due casi di cronaca risolti brillantemente con due confessioni. A Laglio, sul La-go di Como, uno scaricatore 25en-ne, aveva ammesso d’essere l’assas-sino di una vedova più vecchia di lui di 32 anni. L’aveva conosciuta in un’osteria, diventandone l’amante e quando lei gli aveva detto di voler troncare la relazione, perché c’era un altro, lui aveva perso la testa uc-cidendola. Il fatto era avvenuto due mesi pri-ma ma l’omicida era stato messo alle strette dai Carabinieri che l’ave-vano fatto confessare. Storia analoga per l’altro mostro, quello brianzolo. Anche in quel caso un delitto avvenuto molto tempo prima, per l’esattezza il 23 settembre, risolto dall’Arma dopo lunghe indagini e dopo una piena confessione resa dall’assassino, ta-le Italo Benito Giarrusso, 29 anni, nativo di Nova Milanese, ma resi-dente a Desio, operaio disoccupato, ultimo di sei fratelli.L’omicidio era avvenuto in una tar-da sera settembrina in una via isola-ta di Desio, la Via Caravaggio. Sono quasi le 22, ormai buio e qui si sono appartati due fi danzatini, Angelo G. e Ornella Bancora, di 21 e 16 an-ni. Lui, siciliano, vive a Desio; lei, brianzola, abita a Varedo. E a Varedo si sono conosciuti. In fabbrica, sotto gli immensi capan-noni della Snia, dove Angelo, un bel giovane moro con una faccia alla James Dean, fa il caposquadra e lei, Ornella, volto solare, incorni-ciato dai capelli neri e corti, lavora alla linea. Sono arrivati in sella al motoscoter di lui. E se ne stanno in un prato là vicino, coperti da un cespuglio. «Si baciavano», scriverà qualche giornale. «Parlavano, ascoltando una radiolina a transistor», preci-

Cronaca Tutta l’Italia guarda alla Brianza

Italo Benito Giarrusso. Arrestato per l’omicidio di una16enne, diventa il mostro di Desio

QUEL MOSTRO DA MANUALEDue fi danzati aggrediti in un campo. Lei, 16 anni, viene uccisa. Lui si salva e, quattro mesi dopo, riconosce l’omicida. Un disadattato che ammette ma poi ritratta. Morirà in carcere

occuparsi della sua ragazza, là fuo-ri. Raggiunge il prato e trova Or-nella, ferita, respira ancora, parla. Come riporta L’Unità del 24 marzo 1965, seguendone la testimonianza in Corte d’Assise, la ragazza ha il fi ato di supplicare: «Mi aiuti, sto morendo» e poi, ancora, «Angelo, dov’è Angelo?». C’è appena il tempo di portarla in ospedale che muore: troppo pro-fonda la coltellata, troppo grave la ferita. Angelo invece si salva. Nello stesso ospedale, a Desio, le loro vite si separano per sempre.Le modalità dell’aggressione, la ferocia dispiegata fanno pensare al raptus di un maniaco sessuale, un guardone che stesse spiando i due fi danzatini. E infatti, nei gior-ni immediatamente successivi alla sanguinosa aggressione, le indagini della Tenenza dei Carabinieri a De-sio si erano orientate sull’ambien-te dei voyeur e di quanti avevano commesso reati a sfondo sessuale. Un giovane monzese, già denun-ziato per un’aggressione analoga,

viene fermato per un giorno in-tero e sottoposto a un serrato in-terrogatorio ma il suo alibi risulta veritiero.Si brancola nel buio fi no alla fi ne di gennaio dell’anno dopo. Quan-do è lo stesso Angelo a recarsi dai Carabinieri, confi dando i suoi so-spetti. Ad aggredirlo è stato uno che abita nella sua stessa via a De-sio, Italo Benito Giarrusso appunto. Le ricostruzioni, secondo i giornali dell’epoca, sono diverse. Una spie-ga che Angelo lo ha riconosciu-to incrociandolo in una trattoria, guardandolo negli occhi. L’altro, apparentemente confuso, incro-ciando il suo sguardo, lascia cade-re la posata con cui sta mangiando e se ne va. Un’altra fonte invece dice che l’ag-gredito sarebbe trasalito sentendo parlare Italo Benito Giarrusso: è lui, l’uomo che, in una sera quasi quat-tro mesi prima, gli aveva distrutto la vita.Sta di fatto che i militi si precipitano a fermare il Giarrusso. Quando lo

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C Di chi si parla

La lotta della sciura Teresa

Teresa Mongiardini gli vole-va bene come un fi glio, anche se Italo Benito l’aveva parto-rito un’altra, la prima moglie di suo marito Giovanni Giar-russo, quando lui, l’ultimo di cinque fi gli, aveva solo due anni. E forse, per averlo tirato su lei, non aveva mai esitato a sentirlo suo. Anche quanto Italo, intorno ai vent’anni, cominciò a sva-golare, mostrano i segni del-la malattia mentale che la co-stringeranno a ricoverarlo in neurologia. Dovette fare tutto lei perché Giovanni non c’era più: la guerra se l’era portato via, quella guerra feroce fra italiani, che s’era combattu-ta in Brianza. Giovanni era un maresciallo delle «Resega» che in zona ne aveva combi-nate troppe, ma quando i par-tigiani vennero a prenderlo, a casa, a guerra fi nita da alme-no una decina di giorni, lei aveva urlato che lui era solo il direttore della banda musi-cale, che non aveva mai am-mazzato nessuno. Non bastò: lo fucilarono. Con questa storia e con que-sta sofferenze, la sciura Teresa vide arrivare i Cc a casa sua, in una fredda sera di gennaio. Si presero l’Italo Benito, sus-surrandole che aveva fatto una cosa orribile, mesi prima, nella strada che da Desio an-dava a Nova. Se la ricordava quella sera di settembre, l’al-larme l’avevano dato proprio dall’Aurora, dove lei faceva la cuoca: urlavano, piangevano, parlavano di coltellate. E ora incolpavano quel suo ragazzo diffi cile. Che prima di andar-sene le giura, sulla tomba del padre morto di non entrarci.E poi i Carabinieri e il giudice istruttore a Monza, che le fa-cevano domande per sapere se lui l’avesse mai insidiata, fi no a costringerla a dormi-re nel ballatoio, se fosse un esibizionista. E lei che aveva ammesso, convinta di farlo ri-coverare anziché fi nire in car-cere. E anche il fatto del col-tello sotto il cuscino non era un’abitudine ma era accaduto una notte soltanto, perché suo fi glio non stava bene.Niente, non le credettero e le sentenze furono pesanti.Ma la sciura Teresa non s’ar-rendeva: era stata già dall’av-vocato Carpinelli per gioca-re l’ultima carta, vale a dire la domanda di grazia al pre-sidente della Repubblica. Era convinta che gliela avreb-bero concessa, a quel suo fi -glio malato, da sei anni dentro e condannato con quelle pro-ve così confuse. Ma un giorno di settembre del 1968, i Carabinieri tornarono. «Signora Mongiardini», le dis-sero, «suo fi glio è morto».

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Uno dei tanti articoli con cui i giornali nazionali seguirono il processo del mostro di Desio

Due processi, due condanne. Italo Benito Giar-russo non riuscirà mai a staccarsi dall’appella-tivo infamante di «mostro di Desio», affi bbia-

togli nelle prime ore del suo arresto, il 31 gennaio del 1963. Nel processo davanti alla seconda sezione della Corte di Assise, a Milano, nel marzo del 1965, presiedu-ta dal giudice Curatolo, la difesa del disoccupato desia-no proverà a smontare la tesi accusatoria del pubblico ministero Gresti. A patrocinare il presunto omicida è un avvocato della sua città, Sergio Carpinelli. Il legale l’aveva patroci-nato nei giorni successivi l’incriminazione e proprio a Carpinelli, Giarrusso aveva off erto la sua prima ritrat-tazione. Ne dava notizia il 9 febbraio il Corriere della Sera: «Ritratta l’uomo che confessò di aver ucciso la Bancora». Secondo il quotidiano, l’accusato «si sarebbe deciso a confessarsi colpevole unicamente per sottrarsi allo stretto interrogatorio cui i carabinieri lo sottopo-nevano da 36 ore e forse anche con il morboso propo-sito di vedersi indicato come protagonista di un fatto di sangue che per la sua gravità aveva destato notevole impressione in tutta la zona». Nel dibattimento Carpinelli, dopo aver chiesto la se-minfermità mentale per il suo assistito (convinto che sia assunto inizialmente la paternità dell’omicidio in preda alla mitomania), punta sulle incongruenze del-la linea accusatoria, a cominciare dal riconoscimento del Giarrusso, a opera del sopravvissuto. Uno dei testi ascoltati, il primo ad accorrere, parla di «luogo buio e coperto da una leggera nebbiolina». Malgrado ciò Angelo G. vede o crede di vedere un uo-mo «biondiccio, magro, alto 1,65», tre dati che non ri-spondono in niente all’aspetto del presunoto omicida che ha i capelli neri, «corvini» dice qualcuno, è piuttosto in carne e sfi ora il metro e ottanta di altezza. Lo scampato lo riconosce in una pizzeria di Desio, mentre mangia una pizza. Angelo, che è col fratello, ha un fremito, gli pare di ricordare quel volto. Chiede di farlo parlare con un escamotage e appena sente le sue parole, gli pare di riconoscere la voce dell’assassino che s’allontanava, mandando al diavolo. E lui, si dice e dice al fratello. Ma aspetta due giorni prima di andare in caserma, «convinto che si sarebbe tradito da solo». Altro fatto sconcertante, i due sono vicini di casa, da tempo, ma il fi danzato ferito dice di averlo visto per la prima volta in quel locale di Desio, la sera del ricono-scimento. In aula vengono sentiti anche i carabinieri

autori delle prime indagini, quellli che raccolsero la confessione del Giarrusso. Sono il maresciallo Antoni-no Mura, brigadiere Francesco Can, che accompagna-rono il reoconfesso sul luogo del delitto per una rico-struzione di cui però Carpinelli fa notare la mancanza della verbalizzazione. «Sarà stato smarrito», dicono i sottuffi ciali e il presidente ammonisce il loro superiore, il tenente Salvatore Gangitano, quando per giustifi car-si dell’assenza del verbale, ricorda che il presunto omi-cida aveva fornito alibi falsi. È la verità. Giarrusso aveva raccontato d’essere stato al cinema, al Centrale di De-sio, vedendo I pirati, «un fi m a colori». Versione ripetuta anche in aula e confutata dallo stesso presidente: «Non è vero, Giarrusso. Al Centrale davano Anni rugg enti, ed era in bianco e nero», gli contesta Curatolo.In aula, il Mostro accusa apertamente l’Arma di avergli estorto la confessione. «Avevo paura, mi avevano detto che arrestavano tutta la mia famiglia», dice secondo quanto riporta il cronista de L’Unità del 23 marzo 1965. Giarrusso continua: «E poi giù, pum, calci, sberle mi han fatto saltare un dente, vuol vederlo?».E l’accusa vacilla anche quando viene chiamato a de-porre il direttore dell’Upim di Porta Volta, a Milano, dove secondo la prima confessione resa, il Giarrusso di-chiarò di aver acquistato il coltellino a due lame con cui avrebbe poi aggredito la coppietta. Gianfranco Sacchi, direttore di quel grande magazzino, nega decisamente che da loro siano in vendita «coltelli bitaglienti».Ovviamente, anche pubblico ministero e parte civile portano testimoni e prove: Giarrusso è un maniaco sessuale, sosterranno citando un episodio della sua gio-ventù e cercheranno di far dire lo stesso alla matrigna (vedi box a fi anco), sottolineando come il fi gliastro dor-misse con un coltello sotto il cuscino.Divisi anche i periti incaricati di valutarne la salute mentale: per un paio di psichiatri Giarrusso è chiara-mente folle, tanto da richiedere un’ulteriore perizia al manicomio criminale di Reggio Emilia. L’accanita difesa dell’avvocato Carpinelli sarà vana: Giarrusso si prende 14, riconsciuto seminfermo di mente.La condanna verrà confermata in Appello, il 20 gennaio 1966, seppure con uno sconto di pena di due anni. Una sentenza che non convince. «In ogni caso prove concrete che il Giarrusso sia eff et-tivamente il cosiddetto “mostro di Desio” non ve ne sono», spiega l’Avanti del 21 gennaio

Malgrado la strenua difesa dell’avvocato Sergio Carpinelli, i due giudizi si risolvono in condanne a 14 e poi a 12 anni. Periti divisi

Processi 1965 e 1966, in Corte d’assise

LA CONFESSIONE PIÙ CHE LE PROVE

fermano, dice alla mamma Teresa, di non aver fatto nulla. È un gio-vane problematico: disoccupato e seriamente malato di tubercolosi, fatto che lo spingerebbe a bere fre-quentemente. Una vita non facile la sua. Intanto la madre gli è matrigna: la sua è mor-ta nel ’36, quando lui aveva due an-ni. Quando ne aveva 11, aveva visto i partigiani venire a casa sua a pren-dersi il padre. Era stato il 4 maggio 1945, la guerra è fi nita da qualche giorno ed è scattata l’ora della ven-detta. Giovanni Giarrusso, mare-sciallo della Brigata nera, viene fucilato. «Dirigeva la banda mu-sicale», scrive Gino Mazzoli sulla Stampa del 1 febbraio 1963, «sembra che non abbia mai partecipato ad azioni di rastrellamento o torture di partigiani. Ma questo fatto non gli salvò la vita. Fu fucilato su un prato alla periferia di Desio». E sem-pre in un campo fuori città, quello in cui viene uccisa Ornella e ferito Angelo, si compie il destino di Italo Benito Giarrusso: per gli inquirenti è subito colpevole, per i giornali è immediatamente il mostro. C’entra il suo vissuto - la malattia, la familiarità repubblichina vista co-me marchio di infamia a pochi anni dalla guerra - il suo volto bovino, sgraziato, con due occhiali da sole che ne celano lo sguardo assente, appoggiate su due orecchie trop-po grandi. Italo Benito Giarrusso è un mostro perfetto. E non può che confessare: al giudice istrutto-re, a Monza, ai carabinieri di Desio. Dice di aver agito in preda a un rap-tus: «Erano felici, non ci vidi più e li accoltellai», titola a tutta pagina La Notte del 31 gennaio, che invia a Desio, uno specialista di nera, Mas-simo Cianetti che sbatte il mostro in prima pagina e lo distrugge così: «Un maniaco sessuale, minato dalla tubercolosi e più volte ricoverato in case di cura per gravi scompensi psichici».Anzi, si spinge a ipotizzare che il mostro di Desio «risulterà proba-bilmente responsabile di altre ag-gressioni a coppiette avvenute nella zona».Ma già la descrizione che il giorna-lista, così convintamente colpevo-lista, off re ai lettori è sconcertante: «È un giovane alto, magro, con i capelli biondicci e risponde perfet-tamente alla descrizione dell’assas-sino fatta a suo tempo da Angelo G.». Ma nella foto di prima pagina, in cui si vede l’arrestato uscire dal-la Procura di Monza, Italo Benito Giarrusso appare tutt’altro che ma-gro e con i capelli scuri.E solo una delle tante incongruen-ze che accompagnano il caso (vedi box), che l’avvocato desiano Sergio Carpinelli, difensore, comincerà, di lì a poco a mettere in fi la. Già due anni dopo, al tempo del processo in Corte d’Assise, qualche quotidiano comincia a parlare di «presunto col-pevole».Ma ormai il mostro è mostro. Malgrado, ritratti la confessione e poi, lungamente, si protesti inno-cente.Nel processo di primo grado gli daranno 14 anni, riconoscendone la seminfermità mentale. In appello gli ridurranno la pena di due anni. Non sconterà tutto per-ché il 25 settembre del 1968, a sei anni esatti da quella orribile notte di Desio, morirà nel carcere mar-chigiano di Fossombrone. «Il bruto omicida di Milano, mor-to in cella per collasso», scriverà la Stampa di Torino dell’indomani

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2 con orgoglio che qui, primi in Eu-ropa, negli anni trenta si erano pro-dotti i fi lati elastici. Allora c’era en-tusiasmo, ogni nuova lavorazione la sentivi una conquista tua. I mac-chinari nuovi li raccontavi a cena, come fossero parte di vita della fa-miglia. Poi lentamente è cambiato, non sappiamo neanche noi come». Già, le cose cambiano… Luigia, impegnata ad inseguire un nipotino, ricorda una azienda d’aiuto alle famiglie. «C’era il Cral che organizzava viag-gi e soggiorni di gruppo. La Snia off riva una mutua interna, le colo-nie estive a Chiavari e al Mottaro-ne e l’asilo nido interno era d’aiuto ai genitori e faceva crescere i fi gli. La Snia era sempre vicina alle fa-miglie dei dipendenti. Mi ricordo che la Befana dell’azienda intratte-neva i bambini e poi dava un dono a tutti. È un po’ diverso da come si lavora adesso». Già, è diverso, penso, e dico.

Far rivivere la Snia nelle parole dei test imoni dà la sensa-zione di un grigio che si rianima,

tornando colore. Siamo davanti all’ex viale di ingresso della fabbri-ca con un capannello di ex dipen-denti, tra di loro Fausto. «La prima volta ho varcato questo cancello nel 1963», racconta, «con la neve ben spalata ai lati. Questo viale ha visto intere generazioni, varedesi e non. La Snia era un organismo che ad ogni fi ne turno si rianimava. Le risate, gli scherzi, la stanchezza, l’entusiasmo, c’era di tutto». «Già», gli fa eco Carlo, «fi no a un certo punto lavorare in Snia è stato mo-tivo d’orgoglio. Ti sentivi all’avan-guardia». Oggi ci vuole fantasia per imma-ginare vita dentro questa scena da spaghetti western, mancano solo i cespugli che rotolano attraverso quello che adesso è un mondo de-solato. «Certo, qui non c’è più nulla», Car-lo scuote la testa, «e se pensi che sono bastati vent’anni per creare questa desolazione…». Giorgio è di fi anco. Guarda l’ingresso e sor-ride, amaro. «Lì dentro ci ho passato una vita in-tera. Sono entrato in Snia che avevo quindici anni, ne sono uscito a 50, vedete voi cosa posso provare da-vanti a questo abbandono. Ho fatto ancora in tempo a vedere una in-dustria in espansione che ricordava

Cronache La Snia-Viscosa chiude gli ultimi reparti

Qui e sotto, nelle foto di Pietro Vismara, i reparti Snia in cui si produceva il fiocco

LA SIRENA NONSUONA PIÙIl 9 febbraio 1982, il grande produttore di fi bre artifi ciali, dopo aver promesso il rilancio, cessa le ultime produzioni. Siamo tornati ai cancelli con gli ex-operai di quell’epoca di Claudio Calvi

Giancarlo, ex delegato. «Per un lungo periodo i dirigenti ci hanno tenuto che gli operai si sentissero parte fondamentale dell’azienda», ricorda. «Ogni anno venivano or-ganizzate visite agli impianti per i fi gli dei dipendenti che così ve-devano cosa facevano mamme e papa nelle ore in cui mancavano da casa». Giancarlo è stato anche presidente del Cral: « Lo diventati nel 1980. Allora si era passati da una gestione volontaria ad una collegia-le che prevedeva la partecipazione dei quadri aziendali e del consiglio di fabbrica. Il peso dei numeri per-metteva di tutto. Si organizzavano gite culturali, eventi sportivi, off er-te a costi ribassati». Si interrompe. È stato lavoratore Snia di seconda generazione, gli tornano i racconti del padre, Umberto. «Fin dagli an-ni venti la Snia aveva migliorato il livello della vita varedese. Lo spac-cio aziendale rappresentò la possi-bilità di prezzi bassi e la mensa una

bocca in meno da sfamare. Per non parlare degli alloggi che l’azienda assegnò ai lavoratori». Quando si parla degli anni ’30, auto-maticamente lo sguardo punta i ca-pannnoni più antichi, monumenti di archeologia industriale. «Duran-te la guerra all’interno della fabbri-ca c’era una cellula partigiana. Un giorno i tedeschi presero gli operai che uscivano e li misero al muro. Li tennero lì per ore, fi nchè il podestà e i dirigenti non si persuasero a rila-sciarli. Le strade di Varedo in quei giorni erano vuote». La guerra e l’immediato dopoguer-ra, con Mario che ricorda un pe-riodo da «recuperanti», i veneti che giravano per i monti della grande guerra per raccogliere ferro, ven-derlo e farne cibo. «Vicino al Seveso c’era tanto piombo. Era quello dei contenitori degli acidi, che quan-do si rovinavano venivano buttati. Nei decenni le rive erano divenute una miniera. Il piombo lo pagavano bene». Piombo, paradigma di una Snia non del tutto salubre. «Mol-ta gente ci è morta per quello che facevano qui. Si è incominciato a chiedere sicurezza, ma poi… ». Poi, silenzio, come quello di oggi.«Ho capito davvero che la Snia era morta», dice Rosella, «quando, per la prima volta, non ho più sentito le sirene dei turni. Tutta la vita del paese era scandita da quei suoni. La principale era quella delle 8, le altre intorno alle 17 ». Già, poi, c’è sta-to il silenzio. Sulla Snia e un po’ su Varedo. Un silenzio che in fondo, purtroppo, dura ancora. Ma chissà che domani...

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P Progetti sull’area

Sviluppo ma sostenibile«Quella di ricostruire una memoria della Snia di Varedo è la nostra prima intenzione», dice Claudio Calvi, presi-dente di Varedofutura, asso-ciazione nata da poco ma già al lavoro sulla memoria del-la comunità. Da intervistatore (nei servizi a fianco), diventa lui l’intervistato.Snia memoria di Varedo? Di più. È la Snia che ha crea-to la società varedese come oggi la conosciamo e oggi la sua area può garantire una rinascita e una crescita nella nostra comunità. Ma per que-sto va fatta attenzione. Non è tutto uguale e anche se oggi ogni valore pare mischiato e una parola può sembra-re simile ad un altra, non è così. Una cosa è lo sviluppo, un’altra è sfruttamento. C’è un cambiamento che può far crescere ma anche uno che può uccidere. Varedo fino a oggi è rimasta una identità sia come territorio che co-me visione. Il rischio è che il ribaltamento architettonico di un’area grande quanto il suo doppio possa annientare questa prerogativa.Come garantirsi? Mantenendo una identità. È nel mantenimento di questo valore, parola abusata ma sempre fondamentale, la di-scriminante tra un futuro au-spicabile e un altro che non può essere accettato. Varedo è oggi davanti a una scelta istituzionale.. Il problema del rapporto dei cittadini con la politica, oggi, non è più quello di tifare per una parte. E neanche di rite-nere a priori, una parte etica-mente più «titolata» dell’al-tra. Di fronte a una campagna elettorale i cittadini dovreb-bero, soprattutto chiedere. Vale a dire?Candidati, quale concezione di Varedo avete? Per difende-re la nostra identità di territo-rio, quali e quanti «no» siete disposti a dire? E soprattut-to, quale è il vostro progetto sull’area Snia e sulle ville? Avrete la forza e l’autonomia per far rispettare, anche di fronte agli affari, la memoria e le prospettive della nostra comunità? Sono queste le do-mande fondamentali, perché nel cuore delle risposte a es-se, all’interno della rinascita delle ville, al centro del ri-pensamento dell’area Snia, stanno tutte le possibilità di futuro della nostra comunità. Un futuro che comunque de-ve partire innanzitutto dalla consapevolezza di ciò che è stato il nostro passato. Perchè, come scriveva Mario Rigoni Stern, «a fare l’identità sono innanzitutto i sentieri sotto la neve», cioè la direzione dalla quale siamo venuti. G.C.

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Giancarlo Boffi , in azienda dal ’59, membro del consiglio di fabbrica, ricorda le lotte per le condizioni di lavoro

Sindacato 1970, lo scontro con la proprietà

CI BATTEVAMO PER LA SALUTE E LA SNIA SCELSE LA SERRATA

I caponnoni della Snia a Varedo nello stato di abbandono attuale

La chiusura della Snia di Varedo è la storia di un trentennio di lotte e di un progressivo ridimensionamento, come ricorda Giancarlo Boffi , già dipendente della Borsani (azienda varedese che diventerà

Tecno) e dal ’59 della Snia. Sindacalista all’interno del consiglio di fabbrica dal 1970, è stato anche Presidente del Cral. L’atto fi nale della Snia Varedo è datato 2004…. Ero già da un decennio fuori dall’azienda ma ricordo bene il disorien-tamento che prese Varedo alla fi ne di quell’agosto. Gli ultimi lavorato-ri dell’ex Snia, divenuta Nylstar, dopo le vacanze estive si ritrovarono a confrontarsi con la realtà di una richiesta della cassa a zero ore da parte dell’azienda. In pratica fu sancita la sospensione di ogni produzione.Quali furono le cause che vennero addotte?Già allora la crisi mondiale fu indicata come ragione della scelta. In realtà erano i costi di produzione che non potevano competere con quelli deci-samente inferiori di alcuni paesi europei e asiatici. Cosa era la Snia nel 2004?Era un pachiderma architettonico di cui ormai Varedo non percepiva gran-chè la presenza. Sicuramente però non era inutile per le decine di lavora-tori che in quegli anni ancora «rappresentavano» la fabbrica. Seppur c’era la percezione che la Snia fosse in dissoluzione, fu duro confrontarsi con la fi ne di una sicurezza economica e il taglio netto delle professionalità acquisite e dei rapporti con i colleghi. Giancarlo, da ex sindacalista si ricorderà bene degli anni ’70 …Al centro delle lotte iniziali fu la richiesta di un mutamento dal punto di vista della sicurezza. Non era più accettabile che gli operai lavorassero rischiando così tanto per la propia vita. Alcune produzioni erano troppo dannose per la salute. Ricordo reparti in cui l’aria era irrespirabile ma fi no ad allora la certezza del posto di lavoro aveva impedito ogni tipo di domanda. Ci si fi dava, tutto lì, poi però con la crescita di una coscienza sindacale non si potè più accettare che fosse normale ammalarsi o morire

per far guadagnare di più l’azienda.Subito la Snia rispose alle richieste con delle chiusure di reparti.Già, e analizzate ora, erano già segnale di quello che sarebbe accaduto. È da aggiungere comunque che il progresso tecnologico aveva portato all’au-tomazione di alcune lavorazioni, il che ridusse ulteriormente il numero dei lavoratori. Le esternalizzazioni e la fi ne della ricerca sospesero il ricambio non consentendo l’ingresso di una nuova generazione in Snia.Dunque, quell’azienda che in altra parte del giornale mostriamo modello per quel che riguarda gli interventi verso le famiglie dei lavoratori, scelse lo scontro frontale.È così. La gestione illuminata della fabbrica che era partita dagli anni ’30, progressivamente si estinse tanto che nel maggio del 1970 l’azienda preferì lo scontro frontale con i lavoratori pur di reprimerne le rivendicazioni. La causa scatenante fu la richiesta del premio di produzione. La situazione precipitò e gli scioperi si tramutarono nella serrata del maggio 1970. In fondo, i rappresentanti dei lavoratori chiedevano solo il riconoscimento dei propri sforzi su eventuali ricavi dell’azienda. A quegli scioperi però la Snia rispose con 4mila sospensioni dal lavoro. Quattromila famiglie si tro-varono improvvisamente senza una mensilità e fu pesante, per Varedo e paesi limitrofi , confrontarsi con quella situazione.Come fi nì?Se ne uscì con un accordo al ribasso, l’azienda accettò di corrispondere un premio economico inferiore a quanto richiesto, i lavoratori accettavano l’accordo come un riconoscimento del proprio ruolo nelle fortune della Snia. Ma quei giorni furono uno spartiacque. Da quel momento ci fu un continuo modifi carsi della natura della fabbrica. Sempre meno commes-se, sempre meno lavoratori nei reparti e, di conseguenza, sempre meno persone a fi ne turno per le strade del paese fi no all’agosto 2004, quando la vita nei reparti Snia divenne defi nitivamente memoria e la fabbrica un’ area dismessa

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Foto gioiose, con una classe inte-ra (e forse più di una) intorno al «prof» diventato celebre. Immagi-ni che ci riconsegnano l’atmosfera della nostre scuole di quasi trent’an-ni fa, con le femmine ancora con i grembiuli neri mentre i maschi se ne erano liberati da un pezzo.Volti di ragazzini e ragazzine che, a 13 anni, paiono molto più grandi de-gli studenti di pari età oggi. Pettina-ture cotonate, camice con i collet-toni, in generale una gioventù più semplice di quella attuale. In mezzo a loro, il professore sorrideva alle-gro, col capello lungo che i suoi 30 anni esatti gli permettevano.Che classe era quella? Chi erano gli studenti che si accalcarono in-torno a Vecchioni in quel giorno festoso? In uno degli scatti, su una parte di lavagna non coperto dai ra-gazzi, si può scorgere un pezzo di numero romano che fa pensare a una terza.Chiunque si riconosca in questi scatti può contattare la redazio-ne, telefonandoci (0362-285087) o inviandoci una mail ([email protected]). Pubblichere-mo i ricordi di quella giornata.D’altra parte sono molteplici i le-gami del vincitore di Sanremo con la Brianza. Non bisogna infatti di-menticare che il cantautore nacque a Carate, dove i genitori, napoletani emigrati a Milano, erano sfollati per la guerra

C hiamami ancora amore ha stregato tutti gli Italiani e gli ha fatto vincere l’ultimo Sanremo.

Ma Roberto Vecchioni, classe 1943, al Festival c’era già stato, nel marzo del 1973, con un brano, L’uomo che si gioca il cielo a dadi, che ebbe poca fortuna. D’altra parte allora, sul palcosceni-co dell’Ariston, trionfava il melodi-co doc e i cantautori, come testimo-nierà anche Lucio Dalla con la sua 4 marzo ’43, o qualche anno dopo Vasco Rossi, non erano capiti.Vecchioni era agli inizi della sua car-riera, ci stava provando anche come autore per altri cantanti e aveva an-nusato un po’ di celebrità due anni prima quando, nell’album Parabola, aveva azzeccato la bellissima Luci a San Siro. Incerto se dedicarsi full time alla carriera musicale o se pro-seguire con l’insegnamento di lati-no e greco nella scuola, dove era entrato grazie alla laurea in Lettere presa alla Cattolica, Vecchioni pro-prio nell’anno di Sanremo stava in cattedra a Cesano.Le foto, bellissime, spuntano dall’ar-chivio del fotoreporter cesanese Pietro Vismara, professionista di lungo corso che in quel periodo lavorava per La Notte, quotidiano della sera milanese dove, con tutta probabilità, quegli scatti fi nirono, proprio nei giorni sanremesi.

Eventi Vecchioni in cattedra

CHIAMAMI ANCORAPROFESSOREIl trionfatore di Sanremo, docente di lungo corso nella scuola italiana, 28 anni fa aveva insegnato in città

Roberto Vecchioni fra i regazzi delle scuole medie di Cesano nelle foto di Pietro Vismara