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ROBERTO GIGLIUCCI Appunti sull’ossimoro d’amore nel Rinascimento «Oxymoron est cum idem de seipso negatur, ut illa vulgi: “id aliquid nihil est”; “tu pol si sapis, quod scis, nescis”. Et cum Terentio: “cum ratione insani- re”; et apud Horatium: “strenua inertia”, “insaniens sapientia”, “consultum erra- re”; et apud Ovidium: “concordia discors”; “iniusta iusta”. Et apud Martialem: “Non bene semper olet, qui bene semper olet”. Item: “Quisquis ubique habitat, Maxime, nusquam habitat”» 1 . A leggere gli esempi che Vico appone alla definizione di ossimoro nelle sue Institutiones oratoriae si è invasi dal proliferare elencatorio di enunciati con- traddittori e paralizzanti. In realtà, contestualizzando gli stessi, si verifica che le assurdità si sciolgono, operando magari quella “dissociazione nozionale” 2 per cui il paradossismo apparente si riduce a formulazione razionale. Collocando ad esempio gli antonimi su piani diversi si ha la esplicazione: l’insaniens sapientia degli epicurei, in Hor. Carm. I 34 2, è tronfia saggezza a loro avviso, in realtà sciocca secondo l’ottica filosofica oraziana, così come la stoltezza di Dio è sapienza per gli uomini e viceversa in San Paolo. Si ha allora un primo apparen- te colpo inferto al principio di non-contraddizione e a quello del terzo escluso, cui segue, per il lettore che ha la chiave, o semplicemente contestualizza l’enun- ciato, la restaurazione della razionalità apofantica 3 . Il punto, per noi, è allora: 65 1 G. VICO, Institutiones oratoriae, a cura di G. Crifò, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 1989, pp. 382-84. 2 C. PERELMAN, L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’ argomentazione. La nuova retorica, Torino, Einaudi, 1966 [1958], pp. 463 sgg. Per la bibliografia sulla teoria retorica de oxymoro rimando al mio Oxymoron Amoris. Retorica dell’amore irrazionale nella lirica ita- liana antica, Anzio, De Rubeis, 1990, cui aggiungerei almeno l’ottima L. BISELLO, Ossimoro, voce del Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica diretto da G. L. Beccaria, Torino, Einaudi, 1994, pp. 532-33 e l’altrettanto perspicua M. P. ELLERO, Introduzione alla retorica, Milano, Sansoni-RCS libri, 1997. 3 Come è noto Aristotele fonda come postulato primo e difende per via di confutazione il principio di non-contraddizione in Metaph. IV 3 sgg.

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ROBERTO GIGLIUCCI

Appunti sull’ossimoro d’amorenel Rinascimento

«Oxymoron est cum idem de seipso negatur, ut illa vulgi: “id aliquid nihilest”; “tu pol si sapis, quod scis, nescis”. Et cum Terentio: “cum ratione insani-re”; et apud Horatium: “strenua inertia”, “insaniens sapientia”, “consultum erra-re”; et apud Ovidium: “concordia discors”; “iniusta iusta”. Et apud Martialem:“Non bene semper olet, qui bene semper olet”. Item: “Quisquis ubique habitat,Maxime, nusquam habitat”»1.

A leggere gli esempi che Vico appone alla definizione di ossimoro nelle sueInstitutiones oratoriae si è invasi dal proliferare elencatorio di enunciati con-traddittori e paralizzanti. In realtà, contestualizzando gli stessi, si verifica che leassurdità si sciolgono, operando magari quella “dissociazione nozionale”2 percui il paradossismo apparente si riduce a formulazione razionale. Collocando adesempio gli antonimi su piani diversi si ha la esplicazione: l’insaniens sapientiadegli epicurei, in Hor. Carm. I 34 2, è tronfia saggezza a loro avviso, in realtàsciocca secondo l’ottica filosofica oraziana, così come la stoltezza di Dio èsapienza per gli uomini e viceversa in San Paolo. Si ha allora un primo apparen-te colpo inferto al principio di non-contraddizione e a quello del terzo escluso,cui segue, per il lettore che ha la chiave, o semplicemente contestualizza l’enun-ciato, la restaurazione della razionalità apofantica3. Il punto, per noi, è allora:

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1 G. VICO, Institutiones oratoriae, a cura di G. Crifò, Napoli, Istituto Suor OrsolaBenincasa, 1989, pp. 382-84.

2 C. PERELMAN, L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’ argomentazione. La nuovaretorica, Torino, Einaudi, 1966 [1958], pp. 463 sgg. Per la bibliografia sulla teoria retorica deoxymoro rimando al mio Oxymoron Amoris. Retorica dell’amore irrazionale nella lirica ita-liana antica, Anzio, De Rubeis, 1990, cui aggiungerei almeno l’ottima L. BISELLO, Ossimoro,voce del Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica diretto da G. L. Beccaria,Torino, Einaudi, 1994, pp. 532-33 e l’altrettanto perspicua M. P. ELLERO, Introduzione allaretorica, Milano, Sansoni-RCS libri, 1997.

3 Come è noto Aristotele fonda come postulato primo e difende per via di confutazione ilprincipio di non-contraddizione in Metaph. IV 3 sgg.

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esistono enunciati contraddittori insolubili? Ve n’è qualcuno siffatto, nell’elencovichiano? Probabilmente la concordia discors ovidiana (Met. I 433), che indicala discorde armonia di acqua e fuoco («umorque calorque», v. 430) da cui sigenera ogni cosa, e anche quel cum ratione insanire terenziano (Eun. 63) cheindica l’assurda operazione di chi vorrebbe razionalizzare l’amore, che è irra-zionale e contraddittorio per definizione. Ecco un territorio dove gli ossimoripossono spesso rimanere insoluti: il territorio dell’amore, della poesia d’amore.La lirica di Saffo, ad esempio, per trovare una fondazione. La semeiosi del mald’amore nella celebre ode Phàinetai moi strappa l’entusiasmo all’autore delSublime: «Non provi meraviglia [...] che in una sequenza di opposizioni essageli e nel contempo bruci, sragioni e recuperi il senno [...] in modo che non unasola passione traspare in lei, ma un accavallarsi di passioni [pathòn dè syno-dos]?»4. Nella lirica amorosa nessi quali dolce amarezza, odio e amore, fuoco eghiaccio, sofferenza e godimento sono straordinari proprio quando non solubili,autentici materiali per la diagnosi differenziale di amore. Così, nella tradizionecortese oitanica, ad es. nell’episodio del Cligés ove la nutrice Thessala verificanegli stati contraddittori dell’animo di Fenice il suo essere innamorata5, oppurenel lai Narcisse: Danè, innamorata del protagonista, delirante comprende qualesia la natura del proprio delirio: «Onques mais ne soi qu’Amors fu, / or a primesl’ai couneü / or me fait il sans froit tranbler» (vv. 333-35)6. Quando Narciso,troppo tardi, si convertirà all’amore anaclitico per Danè, proverà in sé le topichecontraddizioni (ora piange, ora ride, ora brucia e ora ha freddo ecc., vv. 718-721), nuovamente proposte come criterio di individuazione: «Or me menbre quej’oï dire / que tel torment et tel martire / et tel vie seulent mener / cil qui s’entre-metent d’amer» (vv. 725-28). Scendendo dal medioevo al tardo rinascimentovediamo, ad esempio nell’Adriana del Groto, una situazione nutrice-protagoni-sta ove nuovamente i contrapposti sono indizio inequivocabile del mal d’amore:

Fu il mio male un piacer senza allegrezza,un voler, che si stringe, ancor che punga.Un pensier, che si nutre, ancor che ancida.Un affanno che ’l ciel dà per riposo.Un ben supremo, fonte d’ogni male.Un male estremo, d’ogni ben radice.Una piaga mortal, che mi fec’io.

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4 PSEUDO-LONGINO, Del sublime, a cura di F. Donadi, Milano, Rizzoli, 1991 p. 181.Diversamente, per Dionigi di Alicarnasso, Saffo diventa esempio di stile elegante, dolce eraffinato: cfr. De compositione verborum 23 (vd. DIONYSIUS OF ALICARNASSUS, Criticalessays, vol. II, a cura di S. Usher, Cambridge Mass. – London, Harvard U. P. – W.Heinemann LTD, 1985 pp. 196 sgg.) e l’introduz. di Donadi, pp. 23-25.

5 Vd. GIGLIUCCI, Oxymoron, cit., pp. 47 sgg.6 Lai di Narciso, a cura di M. Mancini, Parma, Pratiche, 1989.

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Un laccio d’or dov’io stessa m’avvinsi.Un velen grato ch’io bevei per gli occhi.Giunto un finire, e un cominciar di vita.Una febre, che ’l gelo, e ’l caldo mesce.Un fel più dolce assai, che mele o manna.Un bel foco che strugge, e non risolve.Un giogo insopportabile, e leggero.Una pena felice, un dolor caro.Una morte immortal piena di vita.Un inferno che sembra il paradiso7.

«Tu sei innamorata, a quel ch’io intendo» (v. 82), arguisce infallibilmente laNutrice. E non poteva essere altrimenti. Lo saprà bene Shakespeare, che nella“cavatina” di Romeo elencherà topiche definizioni contraddittorie di amore, conuna punta acuminata e fulgida di invenzione barocca e generosa e geniale:

O heavy lightness! serious vanity!Misshapen chaos of well-seeming forms!Feather of lead, bright smoke, cold fire, sick health!Still-waking sleep, that is not what it is!This love feel I, that feel no love in this.[...]What is it else? A madness most discreet,a choking gall, and a preserving sweet(Romeo and Juliet I i, vv. 181-85, 196-97)8.

Il topos delle contraddizioni d’amore è, alle sue scaturigini, certamente qual-cosa di molto serio, riflette un dato psicologico urgente e ineludibile. Eros èrealmente dolceamaro, per la Saffo del celebre frammento9 e per chiunque l’ab-bia provato. Sicché in principio, potremmo dire, era il dramma, il nodo irrazio-nale, shocking, non il gioco, l’artificio; la sincera inquietudine, la diagnosi vera-ce di caos, non l’artificio, l’indovinello. Il turbamento che trascina con sé la lin-gua e conia neoformazioni (glykypikron), nello sforzo di esprimere l’inesprimi-bile contraddittorio. Quindi l’adozione del topos può essere profondamentemotivata. Petrarca ne è un esempio vitale: il suo prediligere la contrapposizionee la fusione degli opposti si iscrive in una visione dell’amore e della realtà com-plessivamente segnata dal contrasto, dal dissidio soggettivo e oggettivo, cosmi-

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7 Atto I vv. 62-78; cfr. L. GROTO, Adriana in Il teatro italiano, vol. II, La tragedia delCinquecento, a cura di M. Ariani, tomo I, Torino, Einaudi, 1977, pp. 281-424: p. 293.

8 Cfr. G. WEISE, Manierismo e letteratura, Firenze, Olschki, 1976, pp. 79 sg.9 130 Voigt; vd. SAFFO, Frammenti, a cura di A. Aloni, Firenze, Giunti, 1997 p. 223;

GIGLIUCCI, Oxymoron, cit., pp. 15 sg. (chiedo perdono per gli auto-rimandi, ma preferiscoevitare di ripetere quanto già scritto, bene o male che sia).

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co, eracliteo (cfr. ad es. Remedia, prefaz. al II libro, o la paradigmatica senilisXI 11, per non parlare dei compatti blocchi ossimorici dei Triumphi)10.

Il parametro sincerità vs superficialità non appaia allora ingenuo, sì funzio-nale, se applicato alla complessiva adozione del topos da parte di un autore.Certo, non è facile stabilire se si è difronte a reali pene d’amore o a peneverbali11. Risulterebbe quasi ovvio che la formalizzazione letteraria prescindadalla realtà, dai referenti. Io credo piuttosto che l’adozione di uno schema siasempre un travaso di realtà nella forma: il punto è stabilire lo spessore linguisti-co (che è poi spessore di materia) della forma (che è poi sostanza), cioè in prati-ca il valore stesso dell’opera. Il parametro in questione potrebbe essere riformu-lato come antinomia di radicalità vs occasionalità (magari performativa, come incerta poesia per musica). Un parametro che porterebbe a identificare quasi uncanone di poeti d’amore più intimamente legati al modulo della contradditto-rietà-irrazionalità rispetto ad altri. Si possono fare i nomi di Pico rimatore involgare, di Michelangelo, di manieristi quale il Pigna, il Groto ecc. Invece unmodello autorevolissimo di poeta scarsamente ossimorico, in questo senso robu-stamente “aristotelico”, era stato Dante, da contrapporre a Petrarca anche pertale aspetto. Nella Vita nova il superamento della fase cavalcantiana, espressa ades. dal son. Tutti li miei penser, conduce alla lode positiva, anaclitica, proiettatasull’alterità senza più autoscopia ossessiva. Il sonetto sulla battaglia dei diversipensieri, che ospitava un verso così tipico dello stato d’animo incerto e contrad-dittorio, «e vorrei dire, e non so ch’io mi dica» (v. 10)12, rappresentava unadimensione ancora reclinata sull’immagine del proprio caos interiore, fiorita diossimori, come nella canzone montanina, irta di voluptas dolendi e moriendi, dicommistione vita-morte ecc. Il distacco da questa compiaciuta e inoperosainquietudine è un atto etico-religioso, prima che stilistico, per Dante: gli ossi-mori della Commedia saranno allora funzionali ad esprimere l’inesprimibileultraterreno, oppure autentiche inversioni spiritualmente corrette dei motivi cor-

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10 Su ossimoro e antitesi nel Canzoniere vd. recentemente F. SBERLATI, Sulla dittologiaaggettivale nel «Canzoniere». Per una storia dell’aggettivazione lirica, in «Studi italiani»,VI, 1994, 2, pp. 5-69: pp. 54 sgg. e M. VITALE, La lingua del Canzoniere (Rerum vulgariumfragmenta) di Francesco Petrarca, Padova, Antenore, 1996, pp. 404 sgg., oltre alla bibliogra-fia indicata in F. PETRARCA, Canzoniere a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, inmerito ai sonetti de oppositis come Pace non trovo o S’amor non è.

11 Cfr. E. TADDEO, Il manierismo letterario e i lirici veneziani del tardo Cinquecento,Roma, Bulzoni, 1974, p. 60 e G. POZZI, Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 203 sgg.

12 Cito da D. ALIGHIERI, Vita nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996, p. 68. Unapreziosa analisi di Tutti li miei penser è in P. BOITANI, Il tragico e il sublime nella letteraturamedievale, Bologna, Il Mulino, 1992 [1989], pp. 97 sgg.: lo studioso confronta la «granvarietate» dantesca con le costruzioni olossimoriche del Petrarca e conclude: «Dante lamentala propria incertezza, Petrarca la accetta e vi trova persino un certo compiacimento» (p. 98).

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tesi: si pensi alla felicità nel fuoco, propria delle anime purganti e non più degliamanti algolagnici13.

Il locus ossimorico amoroso è altresì neutro, in quanto può conoscere conte-stualizzazioni tragiche, disforiche, oppure euforiche, gaudiose. Può essere testi-monianza di pienezza esaltata o di deprivazione infelice. Il parametro euforia vsdisforia è rilevante (basti pensare alla declinazione in senso negativo dei mira-coli d’amore, da parte di Perottino, e la traduzione di quei miracoli in qualcosadi positivo, da parte di Gismondo, negli Asolani).

La modalità ossimorico-paradossale è neutra anche nei confronti degli inten-ti stilistici, espressivi, dei contesti culturali: è infatti cospicuamente presente sianella poesia “cortigiana” che in quella petrarchista in senso bembiano che inquella “manierista” (ci saranno, magari, divergenze quantitative, ma neanchetanto; piuttosto divergenze di pubblico e di Erwartungshorizont, quindi diperformatività e di registro). Imitare da presso Petrarca, con intenzioni spiritual-mente e formalmente “gravi”, non comporta rifiutare il modulo della contraddit-torietà amorosa, così intimamente petrarchesco, anzi. Allora scarterei, per ora,un parametro che distingua ossimoro “cortigiano”, ossimoro petrarchista-bem-besco e “manierista”14.

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13 In GIGLIUCCI, Oxymoron, cit., le pp. dedicate a Dante erano soltanto due (95 sg.), vera-mente troppo poche. Spero di tornare sull’argomento.

14 Come è noto, WEISE, Manierismo e letteratura, cit., distingue un petrarchismo classici-sta bembiano da un petrarchismo artificioso di lunga durata, dal tardogotico di fineQuattrocento al manierismo cinquecentesco e pre-barocco (pp. 176-77 n. e 236 sgg.). La disa-mina del Weise è straordinariamente ricca di documenti e stimolante; la sua prospettiva, tutta-via, rischia di semplificare e magari fraintendere la realtà, ove si ascrivano alla linea modera-ta classicheggiante lirici come Michelangelo (o, per altri versi, Ariosto) che fanno invece usosistematico dell’ossimoro quale strumento espressivo fondamentale, non diversamente, d’al-tra parte, dallo stesso Petrarca. L’artificio formale esasperato interno al codice, come un tra-vaglio dentro il labirinto, caratterizza la poesia manierista di un Groto, ad esempio, ma la lin-gua petrarchesca è quella comune anche a una Stampa o a un Tasso. Cfr., per la nozione dimanierismo in letteratura, A. QUONDAM, La parola nel labirinto. Società e scrittura delManierismo a Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1975; ID. (a cura di) Problemi del Manierismo,Napoli, Guida, 1975; G. FERRONI, A. QUONDAM, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed espe-rienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973; R. SCRIVANO, Ilmanierismo nella letteratura del Cinquecento, Padova, Liviana, 1959; TADDEO, Il manieri-smo letterario, cit.; A. PINELLI, La bella maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza,Torino, Einaudi, 1993; E. RAIMONDI Rinascimento inquieto, nuova edizione, Torino, Einaudi,1994, pp. 219 sgg., oltre al classico A. HAUSER, Il Manierismo. La crisi del Rinascimento el’origine dell’arte moderna, Torino, Einaudi, 1988, pp. 251 sgg. ecc. In particolare A.GAREFFI, Le voci dipinte. Figura e parola nel Manierismo italiano, Roma, Bulzoni, 1981, èattento alla dialettica degli opposti nel manierismo: si vedano, fra l’altro, i richiami all’enan-tiodromia eraclitea, a proposito di Tasso, alle pp. 122 e 164.

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La contraddittorietà può proporsi in forme enigmatico-solubili, la forma ades. del devinalh, peraltro fondante nella tradizione lirica cortese15. Quando inve-ce la solubilità è negata, il cozzo con la ragione, con la logica del tertium nondatur è violentissimo (e galvanizzante). Significativo, quindi, un parametrosolubilità vs irriducibilità. Nella Retorica di Aristotele l’enigma è ammessocome forma di espressione paradossale concentrata ed efficace, ma naturalmen-te la contraddittorietà apparente si scioglie, intendendo magari un termine indiverse accezioni (III 11, 1412a-b)16. Anche nella Retorica ad Alessandro siprende in considerazione, nell’ambito del discorso encomiastico, la possibilitàdi avvicinare cose disparate, la familiarizzazione di realtà non congiunte, l’in-staurazione di parentela fra cose lontane, non compresenti, la mè prosòntonsynoikèiosis (III, 1425b)17.

Ai parametri-guida finora evidenziati (serietà vs superficialità ludica; ossi-moro euforico vs ossimoro disforico; solubilità dell’enigma vs irriducibilità)possiamo aggiungerne almeno un altro. Tenendo presente che la concordiadiscors è considerata spesso come “giusto mezzo”, equilibrio fra gli opposti,contemperamento che mira a una pace “mediocre”, si dovrà puntualizzare ilparametro dicotomico medietas vs miscela irrazionale. Si legga Bruno: «il vizioè là dove è la contrarietade; la contrarietade è massime là dove è l’estremo; lacontrarietà maggiore è la più vicina all’estremo; la minima o nulla è nel mezzo,dove gli contrarii convegnono e son uno ed indifferente [...]. Allora è in stato divirtude, quando si tiene al mezzo, declinando da l’uno e l’altro contrario: maquando tende a gli estremi, inchinando a l’uno e l’altro di quelli, tanto gli mancade esser virtude che è doppio vizio; il qual consiste in questo, che la cosa recededalla sua natura, la perfezion della quale consiste nell’unità; e là dove conve-gnono gli contrarii, consta la composizione e consiste la virtude»18. Si dà alloraun luogo geografico mediano fra gli opposti che può essere visto come equili-brio, composizione, oppure compresenza, caos; una geografia, insomma, che

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15 Rimando (e mi scuso) ancora a GIGLIUCCI, Oxymoron, cit., pp. 35 sgg.; un esempio altoin area italiana è dato dal testo giullaresco di Ruggieri Apugliese Umile son, con scioglimentoanalitico delle contraddizioni: modello occitanico per il nostro era Savis e fols di Raimbaut deVaqueiras (ivi, p. 38).

16 L’aenigma è definito altrove tò lègonta hypàrchonta adynata synàpsai, mettere in con-tatto ciò che non è collegabile (Poet. 22, 58a), cosa impossibile da farsi se non con i traslati,le metafore, come per l’indovinello che si scioglie allorché si esce appunto fuor di metafora.

17 La traduzione del Rakham, «the attribution of qualities that do not exist» non mi con-vince (ARISTOTELE, Problems. Rhetorica ad Alexandrum, a cura di W. S. Hett e H. Rackham,Cambridge Mass. – London, Harvard U. P. – W. Heinemann LTD, 1983, p. 305).

18 G. BRUNO, Eroici furori, introd. di M. Ciliberto, testo e note a cura di S. Bassi, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 36, 37-38.

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vede la razionalità regnare al centro, in contrapposizione a un’altra geografiache vede al centro la miscela contraddittoria, il caos, il movimento e lo strazio(o il gaudio paradossale) piuttosto che la quiete equidistante. In un sonetto delBandello, ad esempio, la mistura dei contrari è vissuta come salvezza, rispettoall’assoluto positivo o all’assoluto negativo:

Così mi regge Amor, che s’a quest’almadesse solo martir o gioia pura,col peso ne morrei di tanta salma.Ma mentre l’un con l’altro fa mistura,morte non può di me portar la palma,ché se m’impiaga l’un, l’altro mi cura.(XXXI, 9-14)19.

Di altre vicende paradossali, più o meno canoniche, facciamo soltanto qual-che esempio. Lo stato di gioia può annullare (magari solo temporaneamente) lacoincidenza degli opposti, propendendo ad es. per l’euforia depurata dal suo con-trario, sconfitto quindi l’ossimoro. Cfr. G. B. Pigna, Il ben divino, CXCV: il sino-lo speme-timore (e quello martire-desire e fuoco-gelo) viene infranto, la speranzairrompe vittoriosa, l’allegrezza dissolve il timore e l’ossimoro si spegne.

Ite, querele e pianti:ite, ché risi e canti

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19 M. BANDELLO, Rime, a cura di M. Danzi, Ferrara-Modena, ISR-Panini, 1989. Cfr. ana-logo ragionamento nel Bembo asolano: Artemisia, argomenta Perottino in tutte le redazionidegli Asolani (pp. 51, 110, 245: cito dall’ediz. critica a cura di G. Dilemmi, Firenze, Pressol’Accademia della Crusca, 1991), visse felice col marito Mausolo e poi, rimasta vedova, futremendamente infelice fino a morirne. «Il che non le sarebbe avenuto, se ella nelle sue dol-cezze havesse alcuno amaro sentito e fussesi mediocremente ne’ suoi piaceri rallegrata».L’indicazione che la mixtio possa avere ruolo di salvaguardia equilibrante, piuttosto che dicaotico precipizio, è esplicita nel frammento C Dilemmi, autografo, contenuto nel ChigianoL.VIII.304, «da collocare nell’àmbito della revisione di Q». Il passo così suona: «Quello cheper sé et separatamente essendo v’ucciderebbe, quello medesimo v’aita, vi soccorre et difen-de et guarda dal morire. Perciò che, mentre il dolore confuso col piacere gli leva parte dellasua malitia, v’aita in ciò, che fa che ’l piacere non vi può uccidere, [non] essendo egli tuttointero, ma in parte sc[e]mo, come s’è detto. Et il piac[e]re confuso col dolore v’aita, cheopera che ’l dolore altresì uccidere non vi può, scemo ancho egli per la contentione et mischiaessendo. Et il somigliante aviene della speranza et del timore, che l’una et l’altro v’aita,togliendo et scemando del potere et forza del suo contrario» (p. 73). La miscela piacere-dolo-re, come quella, altrettanto canonica, timore-speranza, vista come punto di equilibrio fra gliestremi opposti ove i contrari si stemperano a vicenda, risulta salvifica, produttiva e nondisgregante. Il dolore assoluto, come il piacere assoluto, può uccidere, mentre la mixtio, lungida produrre disordine, garantisce la sopravvivenza.

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con le dolcezze lor v’han posto in fuga(vv. 32-34)20.

Ma si può avere anche l’esito opposto, ove la soppressione dello stato ambi-valente, di coincidenza di opposti affetti e opposte condizioni, provoca il trapas-so nell’amaro schietto, nel dolore senza dolcezza. Si veda ad es. V. Gambara,Rime, 11: da una situazione in cui le fiamme d’amore erano «dolci e tranquille»e fusi delicatamente dolore e piacere, si perviene a una negatività assoluta, ove«sommerse il poco dolce il molt’amaro»21 e la speranza è sconfitta dal desiderioinsopportabilmente infocato. In questo caso, evidentemente, la precedente coin-cidentia era vissuta nella forma dell’equilibrio, e non della compresenza lace-rante.

Un altro componimento della Gambara offre una vicenda diversa e interes-sante: al vedere gli occhi amati nasce nell’animo un affanno dolce, un malesoave; nell’assenza di quegli occhi il dolore trionfa e l’amaro fuga ogni dolcez-za (son. 20). In absentia non si darebbe commistione, dunque; tuttavia, nel son.14, la poetessa aveva asserito che proprio la memoria induce uno stato di fluc-tuatio e compresenza:

La memoria mantienmi e mi disface;la memoria mi fa lieta e scontenta;ne la memoria il ben e ’l mal mio iace.La memoria m’allegra e mi tormenta;dunque dalla memoria ho guerra e pace,e in tal variar lei sola mi contenta (9-14).

Gli antonimi sono legati dalla copula e: sembrerebbero proprio proporsicome compresenti, salvo l’indicazione all’ultimo verso, variar, che suggerisceinvece un andare e venire dall’uno all’altro. Spesso l’equivoco fra antitesi edossimoro22 resta aperto nella lirica d’amore. In ogni caso risulta ben paradossalela dichiarazione in clausola: il variar, che dovrebbe avere un segno negativo didrammatica fluttuazione, rende invece contenta la Gambara.

L’introiezione del dettato poetico petrarchesco, nel Cinquecento, è dunque,anche e soprattutto, adozione di una langue topico-ossimorica robustamente

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20 G. B. PIGNA, Il ben divino, a cura di N. Bonifazi, Bologna, Commissione per i testi dilingua, 1965.

21 V. GAMBARA, Le rime, a cura di A. Bullock, Firenze, Olschki, 1995.22 Rammento soltanto che ove l’antitesi distingue, l’ossimoro fonde: l’ossimoro è sostan-

zialmente una negazione del rapporto antitetico.

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radicata. L’evocazione di celebri oxymora dei Rvf è naturalissimo anche in unoscambio di battute galante cortigiano. Leggiamo, dal dialogo sulle imprese delDomenichi, un aneddoto significativo:

già fu un gentilhuomo in Pavia, mio grandissimo amico, il quale essendo innamoratod’una bellissima et rarissima gentildonna et d’acutissimo spirito, facendo una mascherata percomparirle innanzi et voler farle intendere il misero et pericoloso stato dove egli era posto percagione dell’amore che le portava, dipinse una nave in alto mare, senza alcuno armeggio, etappresso questo verso del Petrarcha: MI TRUOVO IN ALTO MAR SENZA GOVERNO.Havendo egli dunque occasione di ragionare in ballo et trattenersi, come s’usa, con questagentildonna, ragionando venne a farle conoscere come essa gli havea dato cagione di levartale impresa, che molto ben se gli conveniva, per non sapere egli trovar riparo al suo infelicis-simo stato. Allhora quella gentildonna, dotata, come io ho detto, di prontissimo et vivo intel-letto, senza troppo pensare alla risposta che gli dovea fare, disse: «Assai più, signore, vi siconverrebbono i versi che seguono, i quali, sì come voi sapete, dicono: “Sì lieve di saper,d’error sì carca, / ch’io medesmo non so quel ch’io mi voglio, / et tremo a meza state ardendoil verno”». Rimase quel gentilhuomo tutto stordito et confuso et pieno di maraviglia, pensan-do alla pronta et pungente risposta che quella accorta et valorosa signora gli haveva fatta (pp.190-91)23.

La gentildonna arguta (che immaginiamo, secondo una diffusa iconografia,con un petrarchino in mano, cioè a mente) ribatte coi versi finali di S’amor nonè, presi come emblemi di uno stato negativo di caos e incapacità di discerni-mento; in una dimensione sociale elegante il disordine della volontà e l’erroreamoroso vengono percepiti, amabilmente, come sconvenienti in un amantesenza speranze e leggiadramente gabbato. Si tratta di una chiave graziosa esquisitamente cortigiana in cui viene letto il dramma principe della spiritualitàpetrarchesca, svelando il carattere di gioco del petrarchismo nella sua utilizza-zione, come dire, quotidiana. Se le formulazioni violentemente ossimoriche,nelle rime petrarchesche, sono soluzioni espressive (se pure già canonizzate)ideali per trasmettere un’inquietudine costante e ineludibile, in una fruizioneludica possono ridursi bene a stereotipi neutri, come metafore catacresizzate.Naturalmente, quando si analizzano testi petrarchisti, stabilire il margine fragioco d’ingegno e trasmissione di angoscia è assai arduo.

Nell’orizzonte del petrarchismo i motivi contraddittori assenti dal modellonon passano nella lirica d’amore. Ad esempio il tema dell’odi et amo, proprio di

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23 Cito da L. DOMENICHI, Dialoghi, Venezia, Giolito, 1562. I versi petrarcheschi sonotratti, come si sa, da Rvf CXXXII (10-14), sonetto de oppositis celeberrimo (tradotto in latino,come Pace non trovo, dal Salutati), per cui cfr. L. FORSTER, The icy fire. Five studies inEuropean Petrarchism, Cambridge, Univ. Press, 1969 pp. 4 sgg. e D. DIANI, Pétrarque:Canzoniere 132, in «Revue des études italiennes», n. s., XVIII, 1972, pp. 111-67.

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Catullo e dell’elegia latina e necessariamente escluso dall’orizzonte cortese epetrarchesco. L’ambivalenza, quando presente, è allora indizio significativo ditrasgressione. Oppure di appartenenza ad un’area cronologica precedente lacanonizzazione bembiana. Troviamo il motivo, infatti, in rime di ambito cosid-detto “cortigiano” tardoquattrocentesco e primocinquecentesco; ad esempio sifa determinante all’aprirsi delle Rime del Cei24. Il sonetto secondo è subito vio-lentemente esplicito:

Amore e odio in mezzo hanno il cor mio:l’un par lo infiammi ognor, l’altro il consumi;l’un m’empie l’alma di gentil’ costumi,l’altro l’attosca d’ogni fer desio.Vien da quel dua contrarî, come un riotalvolta spande oppositi dua fiumi,pur vanno all’Occeàn: così presumiche l’uno e l’altro il cor guidi a fin rio.Signor mio, queste due contrarie voglieper volere ad un tempo conseguirel’una perfezïone alla altra toglie.Né ti so di mio stato riferirealtro che dubbî, incendî, angustie e doglie;né vo’, né posso el mio destin fuggire.

Alla luce di questo secondo sonetto, nel primo della raccolta i «dua pen-sier’», «dua fer’ nimici» (vv. 1, 9) saranno identificabili proprio nell’impulso adamare e in quello ad odiare. Le due opposte voglie sono spregiudicatamentedenunciate dal fiorentino, in una dimensione aspra, talora brutale, propria di unaraccolta di rime che serba memorie dantesche, che sviluppa movenze espressivi-stiche talora acute. Un poeta che fu considerato moltissimo ai primi delCinquecento25 e che fu sicuramente letto dal Buonarroti (si pensi al son. LXVIIIdel Cei, davvero così “michelangiolesco”).

Nelle Rime del Cariteo v’è un sonetto di amore e odio più dolorante e som-messo, ma comunque nettissimo:

D’amore et d’odio in qual guisa si movail vario affetto in me, no’ ’l saprei dire,ma so che amare insieme et abhorrire

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24 Ho presente la recente ediz. di F. CEI, Canzoniere, a cura di M. Ceci, Roma, Zauli,1994, che segue la giuntina del 1503. (Per le ulteriori edizioni cinquecentesche vd. Biblia.Biblioteca del libro italiano antico, diretta da A. Quondam, La biblioteca volgare, 1, Libri dipoesia, a cura di I. Pantani, Milano, Editrice Bibliografica, 1996, p. 80).

25 Vd. la constatazione del Varchi nell’introduz. della Ceci, p. 9.

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mi dànno pena inusitata et nova.Onde di darvi biasmo ho fatto prova,Madonna, et vi confesso il mio fallire:Non vi potrei biasmar senza mentire,Ch’envidia stessa in voi colpa non trova.Non vi son traditor, il ver vi mostro,io m’affanno in passar l’onde d’oblio,et armar contra voi l’amaro inchiostro.Ma dal principio al fin l’ingegno mioaltro scriver non sa che ’l valor vostro,né mi posso pentir del bel desio(Endimione son. 108 Pèrcopo).

Qui lo sforzo di sincerità nei confronti di Madonna è massimo, e definitiva èla sconfitta finale del proposito vituperante e odiante. Non si può non lodare lapropria donna: sembra la dichiarazione di impossibilità, ormai, della compre-senza odio-amore, approssimandosi una scelta di aderenza al modello petrarche-sco più organica ed intima, rispetto allo sperimentalismo libero del sec. XV. Laviolenza del Cei è più arretrata, per certi versi, mentre lo sciogliersi in una ine-ludibile dolcezza del Gareth segna un passo in avanti verso la Stimmung delpetrarchismo ortodosso.

Allora la impossibilità istituzionale del sentimento di odio si farà rigorosa;scendendo al secondo Cinquecento la sostanza non cambia: in un componimen-to tassiano per la Peperara, la miscela odio-amore, propria della donna, non puòassolutamente darsi nel cuore dell’amante:

Donna bella e gentil, del vostro pettoson passioni eguali odio ed amore,ma non già del mio core,dove l’un vive e spento è l’altro affetto ecc.(163 1-4).

È la negazione di un topos, quello dell’Ambivalenz, già ritenuto invece lecitoper tutto il ’400, ove l’animosità del poeta nei confronti dell’amata, fuori daogni possibile petrarchismo avanti lettera, non era affatto esclusa: si pensi alsolo Giusto de’ Conti. O al lamento della fanciulla Agilitta, nell’elegia omonimadell’Alberti: «Io meschina pur seguo aspreggiando / me e chi m’ama, né soch’io mi voglia: / amo ed ho in odio, e me vivo onteggiando» (vv. 31-33)26. Iltesto albertiano, così inquieto e vivace nell’articolare il monologo della giovi-netta innamorata, ripropone l’incertezza e l’oscillazione fra amore e odio più

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26 L. B. ALBERTI, Rime e versioni poetiche, a cura di G. Gorni, Milano-Napoli, Ricciardi,1975, p. 55.

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volte27, con una aderenza tutta umanistica al “realismo” psicologico elegiacoclassico, in una cultura che non aveva affatto messo al bando la sconvolgenteviolenza dell’odi et amo catulliano.

L’ossimoro d’amore di osservanza petrarchesca si radica nella lirica cinque-centesca: anche i commentatori dei Rvf e dei Triumphi mettono in rilievo la«contrarietà del suo [di Petrarca] amoroso stato»28, espressa al massimo daisonetti-devinalhs come Pace non trovo. Ed è interessante verificare questo radi-camento profondo sul versante delle parodie: ad esempio quella dialettale,straordinaria, di Andrea Calmo nel son. Paxe no trouvo che ’l pan me fa verra,con abbassamento realistico e deperimento della tragedia alto-retorica degliopposti29. Si pensi oppure alla versione macaronica delle pene d’amore nellaZanitonella folenghiana; si veda l’egloga XV:

Schioppo, creppo, brusor, picolum nec trovo ripossum,nec datur almancum posse morire cito.Affannus maior meus est quod vivus amazzor,mors nec amazzatum me rapit ulla viam (vv. 772-75)30.

In quel tricolo asindetico iniziale leggiamo una trascodifica violentementeespressivista deformante del modulo classico plautino di Cistellaria 206 sgg.(«Iactor, crucior, agitor» ecc.), paradigmatico in Petrarca, nella trattatistica deamore, nei repertori cinquecenteschi ecc. Quindi Folengo esibisce la parodia dellamento sul nodo vita-morte, traducendo in lingua macaronica il miracolo piùabusato: vivus amazzor. Gli è che la natura di Amore sembra essere diventataessenzialmente una natura retorica, in cui l’ossimoro diventa la quintessenza, lavetta, il concentrato emblematico di detta sostanza retorica di eros. Ne dà testi-monianza l’autore più rappresentativo dell’umore antipetrarchista cinquecente-sco, Aretino. Nella Talanta (a. II sc. X) il precettore Peno tiene una lezione adArmileo sull’amore, così vomitando: «pure la somma d’ogni sua natura è duoloallegro, torto giusto, stoltizia saggia, timidità animosa, avarizia splendida, infer-mità sana, asprezza agevole, odio amicabile, infamia gloriosa e iracondia placi-da» (p. 388)31. Al che Armileo domanda come dovrà comportarsi; risponde

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27 Vd. la nota del Gorni al v. 33.28 Parole del Vellutello: vd. G. BELLONI, Il petrarchismo delle Bizzarre rime del Calmo

tra imitazione e parodia, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di G. Padoan, Firenze,Olschki, 1976, pp. 271-314: p. 288.

29 Ivi, pp. 280 e 286-91.30 T. FOLENGO, Macaronee minori. Zanitonella, Moscheide, Epigrammi, a cura di M.

Zaggia, Torino, Einaudi, 1987, p. 265.31 P. ARETINO, Teatro, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1971.

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incalzante il precettore: «Imita la prestanzia di quegli che ciechi veggono, penti-ti perseverano, languendo godano, gridando tacciono, perduti si trovano, negan-do consentono, partendo restano, prigioni son liberi, digiunando si saziono emorti risuscitano» (ivi). Non poteva Aretino, maestro dell’accumulo ingordo edenergetico, dell’adiectio comica, rimanere insensibile alla lunga tradizione dellacascata ossimorica, quella struttura acervante testimoniata da Alano di Lille,Jean de Meung, Petrarca e da tanta poesia giù giù fino alle celebri ottavedell’Adone mariniano (VI 173-74)32. L’antipetrarchismo ed antipedantismo are-tiniani esplodono nella reazione di Armileo ai paradossi infiniti del suo precetto-re: «Cotesta bellezza di parole nasce da i farnetichi di voialtri filosofi, e non dal’arbore de la verità» (p. 388). E la trattatistica d’amore è colma di questi farne-tichi; citiamo, per provvisoriamente concludere, solo una battuta della Tullia daldialogo Della infinità di Amore:

E quinci è che gli amanti or piangono, or ridono; anzi (il che è non solo più meraviglioso,ma del tutto impossibile agli altri uomini) piangono e ridono in un medesimo tempo, hannosperanza e timore, sentono gran caldo e gran freddo, vogliono e disvogliono parimente,abbracciando sempre ogni cosa e non istringendo mai nulla, veggono senza occhi, non hannoorecchie ed odono, gridano senza lingua, volano senza moversi, vivono morendo, e finalmen-te dicono e fanno tutte quelle cose che di loro scrivono tutti i poeti, e massimamente ilPetrarca, al quale niuno si può comparare, né si dee, negli affetti amorosi33.

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32 G. Pozzi, nel suo monumentale commento, evoca i versi di un poema del Valdivielsocome modello rubacchiato genialmente dal Marino. Una bella cascata di contrapposti anchenelle Glorie di guerrieri e d’amanti di Cataldo Antonio Mannarino, IX 1 sgg. (cfr. l’ediz.antologica a cura di G. Distaso, Fasano, Schena, 1995 pp. 229 sgg.). Lunga sequenza analogapoi nella tragedia Antigono tradito di Pierfrancesco Goano, stampata a Milano nel 1621: vd.F. G. B. SPADA, Giardino de gli epiteti, traslati et aggiunti poetici italiani, Bologna, per l’ere-de di Vittorio Benacci, 1665, ad vocem “Amore”.

33 Trattati d’amore del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Roma-Bari, Laterza, 1980,p. 216.