4
I laici e la liturgia: dalla “actuosa participatio” all’”ars celebrandi” (Andrea Grillo, Roma [S. Anselmo] –Padova [S. Giustina]) “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a compenderlo meglio” Papa Giovanni XXIII 1 La questione del rapporto tra laici e liturgia appare del tutto centrale al dibattito degli ultimi 50 anni, anche se ciò spesso accade in modo paradossale, visto che essa può essere affrontata appieno solo a patto di riconsiderare adeguatamente la lettura che della liturgia il magistero del XX secolo ha saputo fornire, mentre, d’altra parte, non è possibile comprendere il rinnovato concetto di liturgia senza un ripensamento profondo della ministerialità ecclesiale nel suo insieme. In una parola, senza ripensare profondamente il ministero non si comprende la vera realtà della liturgia, mentre senza pensare fino in fondo la realtà della liturgia non si riesce a venire brllantemene a capo della questione del ministero nella Chiesa. La nostra riflessione intende assumere la "partecipazione attiva" come regola di comprensione di tutta la ministerialità sacramentale, e in primis per la “identità del laico”, di colui che secondo una tradizione molto antica non è chiamato alla presidenza della assemblea eucaristica. Mediante tale forma di comprensione, la figura del "ministro" viene sganciata dalla presidenza e valorizzanta in quanto costitutivamente plurale e articolata (modello pluriministeriale), a differenza della comprensione tipica dello stile classico (modello monoministeriale) e diffusa fino ad oggi a partire dalla stagione della teologia scolastica 2 . La grande novità portata da questa comprensione consiste comunque in un più generale mutamento di paradigma nella comprensione della triade "forma/materia/ministro": in sostanza, essa passa da una dimensione esclusivista ad una inclusivista, da una visione minimalista o essenzialistica ad una visione massimalista o storico- narrativa, da una dimensione monoministeriale a una pluriministeriale. Ma, per chiarire bene questa differenza "paradigmatica" - che, come vedremo, è più complessa della semplice contrapposizione tre due paradigmi antitetici - dobbiamo brevemente fermarci su due idee fondamentali del nostro itinerario. In questi passaggi non è in gioco soltanto una teoria adeguata del ministero liturgico, e il ruolo che in esso giocano i laici, ma la stessa cultura spirituale del soggetto ministeriale, che può trovarsi giustificato solo in una radicale relazione con la porzione di popolo di Dio nella quale e per la quale svolge il proprio ministero. 2. Le idee centrali e il percorso da seguire L'indagine cui ci dedichiamo avrebbe la piccola ambizione di presentare il mutamento "paradigmatico" di modello teorico mediante il quale viene pensato e vissuto il "ministero" nella teoria e nella prassi sacramentale degli ultimi secoli. Una prima idea portante di questa mia riflessione potrebbe essere formulata così: la lettura autenticamente "aggiornata" del ministero ecclesiale e la teoria del sacramento che lo interpreta come "azione" trovano il loro centro focale in una adeguata - ma purtroppo assai ardua - comprensione della "partecipazione attiva" come cuore pulsante (e sacro) della esperienza liturgica della Chiesa. Una tale impostazione, per quanto possa apparire anche largamente condivisa, richiede un percorso di indagine assai ampio e articolato, che qui potrò soltanto abbozzare: esso sarà comunque sufficiente a far comprendere quale sia la posta in gioco nel raccordare efficacemente i tre "corni" del problema: ossia una teoria del ministero, una corrispondente teoria del sacramento e la riscoperta del primato della azione nella celebrazione. E' da notare che tale correlazione, nella sua complessa articolazione ci permette di arrivare alla seconda idea, ossia ci porta a uscire da una logica antitetica (che contrappone paradigma medievale e paradigma conciliare) per scoprire una logica "triadica", in cui la soluzione del problema del ministero è possibile solo con il superamento sia del paradigma medievale, sia del paradigma liberale tardo-moderno, per aprirsi su un paradigma conciliare di tipo simbolico-rituale, che con la sua intersoggettività sappia rimediare alla dolorosa antitesi tra un modello puramento oggettivo (e classico) e un modello puramente soggettivo (moderno) di identità ministeriale ed ecclesiale. 1 Ci ricorda questa frase “pronunciata sul letto di morte da papa Giovanni” Gh. Lafont, nella brillante sintesi Vaticano II. 2000 di questi anni, “Jesus”, dicembre 2009, 2-7. 2 Occorre considerare attentamente il fatto che - proprio all'interno di questo modello "classico" rigorosamente monoministeriale, che identifica il ministro con colui che presiede - abbiamo potuto assistere ad una "resistenza giuridico-disciplinare" di una istanza "plurale", rispetto alla assolutizzazione di un modello dogmatico che tendeva ad attribuire "competenza esclusiva" sul sacramento al solo ministro: è sufficiente meditare sull'obbligo della presenza di almeno un ministrante nella cosiddetta "messa privata", o "messa senza il popolo", per comprendere come anche il paradigma medievale non fosse del tutto sprovvisto di criteri "plurali" circa la ministerialità. D'altra parte, è proprio con la tradizione più recente - immediatamente preconciliare - che l'espressione "missa privata" viene esplicitamente censurata dalla massima autorità ecclesiale (cfr. le Rubricae generales del Messale del 1962, che risalgono al 1960). Il concetto di “missa sine populo” resta necessariamente solo come una eccezione, mai come la regola della spiritualità presbiterale di “presidenza”. Sarebbe un grave errore, per i laici, voler scimmiottare i presbiteri in questi errori.

Grillo18mar2010 Laici e Liturgia

Embed Size (px)

Citation preview

Page 1: Grillo18mar2010 Laici e Liturgia

I laici e la liturgia: dalla “actuosa participatio” all’”ars celebrandi” (Andrea Grillo, Roma [S. Anselmo] –Padova [S. Giustina])

“Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a compenderlo meglio”

Papa Giovanni XXIII1

La questione del rapporto tra laici e liturgia appare del tutto centrale al dibattito degli ultimi 50 anni, anche se ciò spesso accade in modo paradossale, visto che essa può essere affrontata appieno solo a patto di riconsiderare adeguatamente la lettura che della liturgia il magistero del XX secolo ha saputo fornire, mentre, d’altra parte, non è possibile comprendere il rinnovato concetto di liturgia senza un ripensamento profondo della ministerialità ecclesiale nel suo insieme. In una parola, senza ripensare profondamente il ministero non si comprende la vera realtà della liturgia, mentre senza pensare fino in fondo la realtà della liturgia non si riesce a venire brllantemene a capo della questione del ministero nella Chiesa. La nostra riflessione intende assumere la "partecipazione attiva" come regola di comprensione di tutta la ministerialità sacramentale, e in primis per la “identità del laico”, di colui che secondo una tradizione molto antica non è chiamato alla presidenza della assemblea eucaristica. Mediante tale forma di comprensione, la figura del "ministro" viene sganciata dalla presidenza e valorizzanta in quanto costitutivamente plurale e articolata (modello pluriministeriale), a differenza della comprensione tipica dello stile classico (modello monoministeriale) e diffusa fino ad oggi a partire dalla stagione della teologia scolastica2. La grande novità portata da questa comprensione consiste comunque in un più generale mutamento di paradigma nella comprensione della triade "forma/materia/ministro": in sostanza, essa passa da una dimensione esclusivista ad una inclusivista, da una visione minimalista o essenzialistica ad una visione massimalista o storico-narrativa, da una dimensione monoministeriale a una pluriministeriale. Ma, per chiarire bene questa differenza "paradigmatica" - che, come vedremo, è più complessa della semplice contrapposizione tre due paradigmi antitetici - dobbiamo brevemente fermarci su due idee fondamentali del nostro itinerario. In questi passaggi non è in gioco soltanto una teoria adeguata del ministero liturgico, e il ruolo che in esso giocano i laici, ma la stessa cultura spirituale del soggetto ministeriale, che può trovarsi giustificato solo in una radicale relazione con la porzione di popolo di Dio nella quale e per la quale svolge il proprio ministero. 2. Le idee centrali e il percorso da seguire L'indagine cui ci dedichiamo avrebbe la piccola ambizione di presentare il mutamento "paradigmatico" di modello teorico mediante il quale viene pensato e vissuto il "ministero" nella teoria e nella prassi sacramentale degli ultimi secoli. Una prima idea portante di questa mia riflessione potrebbe essere formulata così: la lettura autenticamente "aggiornata" del ministero ecclesiale e la teoria del sacramento che lo interpreta come "azione" trovano il loro centro focale in una adeguata - ma purtroppo assai ardua - comprensione della "partecipazione attiva" come cuore pulsante (e sacro) della esperienza liturgica della Chiesa. Una tale impostazione, per quanto possa apparire anche largamente condivisa, richiede un percorso di indagine assai ampio e articolato, che qui potrò soltanto abbozzare: esso sarà comunque sufficiente a far comprendere quale sia la posta in gioco nel raccordare efficacemente i tre "corni" del problema: ossia una teoria del ministero, una corrispondente teoria del sacramento e la riscoperta del primato della azione nella celebrazione. E' da notare che tale correlazione, nella sua complessa articolazione ci permette di arrivare alla seconda idea, ossia ci porta a uscire da una logica antitetica (che contrappone paradigma medievale e paradigma conciliare) per scoprire una logica "triadica", in cui la soluzione del problema del ministero è possibile solo con il superamento sia del paradigma medievale, sia del paradigma liberale tardo-moderno, per aprirsi su un paradigma conciliare di tipo simbolico-rituale, che con la sua intersoggettività sappia rimediare alla dolorosa antitesi tra un modello puramento oggettivo (e classico) e un modello puramente soggettivo (moderno) di identità ministeriale ed ecclesiale. 1 Ci ricorda questa frase “pronunciata sul letto di morte da papa Giovanni” Gh. Lafont, nella brillante sintesi Vaticano II. 2000 di questi anni, “Jesus”, dicembre 2009, 2-7. 2 Occorre considerare attentamente il fatto che - proprio all'interno di questo modello "classico" rigorosamente monoministeriale, che identifica il ministro con colui che presiede - abbiamo potuto assistere ad una "resistenza giuridico-disciplinare" di una istanza "plurale", rispetto alla assolutizzazione di un modello dogmatico che tendeva ad attribuire "competenza esclusiva" sul sacramento al solo ministro: è sufficiente meditare sull'obbligo della presenza di almeno un ministrante nella cosiddetta "messa privata", o "messa senza il popolo", per comprendere come anche il paradigma medievale non fosse del tutto sprovvisto di criteri "plurali" circa la ministerialità. D'altra parte, è proprio con la tradizione più recente - immediatamente preconciliare - che l'espressione "missa privata" viene esplicitamente censurata dalla massima autorità ecclesiale (cfr. le Rubricae generales del Messale del 1962, che risalgono al 1960). Il concetto di “missa sine populo” resta necessariamente solo come una eccezione, mai come la regola della spiritualità presbiterale di “presidenza”. Sarebbe un grave errore, per i laici, voler scimmiottare i presbiteri in questi errori.

Page 2: Grillo18mar2010 Laici e Liturgia

Per questo la nostra breve riflessione si dedicherà anzitutto ad una breve messa a punto del concetto portante di "actuosa participatio", che comporta direttamente una rivisitazione della teoria "classica" del sacramento et quidem del ministero fino alla elaborazione di una "terza via" che metta a confronto lo sviluppo "paradigmatico" del concetto di ministro parallelamente a i concetti di forma e di materia. Quel che è certo è che solo in questo modo - a questo prezzo e a questo rischio - si potrà dire qualcosa di utile non solo "per sempre" ma anche "per l'oggi", tanto sul piano ecclesiale quanto sul piano culturale. 3. Il contesto "complesso" (ecclesialmente e liturgicamente) della ricerca La nostra indagine è obiettivamente condizionata da una realtà effettuale e da una realtà virtuale: da un lato facciamo i conti con la realtà di fatto di una differenza sensibile tra diverse modalità di comprensione del ministero nella Chiesa, con tante conseguenze di carattere ecclesiale, spirituale, pastorale e organizzativo; d'altra parte siamo anche tentati di continuare a identificare la "vera chiesa" con il modello ministeriale che abbiamo conosciuto quando eravamo bambini - e che magari, per nobilitarlo, chiamiamo "antico", "tradizionale" o addirittura "originario", mentre si tratta soltanto della decadenza tardoborghese del modello tridentino. Questa complessità, tuttavia, non deve scoraggiare. La nuova lettura sia della partecipazione dei fedeli ai riti, sia della natura dei sacramenti, sia della identità ministeriale rimane uno "ktèma es aei", una "acquisizione irreversibile" della chiesa e della cultura moderna. E' del tutto comprensibile che, di fronte alle inevitabili difficoltà che la Chiesa sperimenta nel fare esperienza dei nuovi modelli, talvolta essa stessa sia tentata di rifugiarsi nel passato per uscire dall'imbarazzo. Ma, appunto, la forza dei fatti non si può smentire. Il "nuovo paradigma ministeriale", che riscopre i tesori del I millennio e rende possibile una esperienza del sacramento fedele al suo carattere di azione e una comprensione della partecipazione liturgica che coinvolge radicalmente ogni membro della Chiesa, è entrato nella carne e nel sangue della Chiesa, senza poter evitare né il clericalismo né il laicismo, ma infondendo la speranza che queste tragiche alternative non siano la verità della Chiesa, il suo compimento e la sua gloria, quanto piuttosto la sua maschera sfigurata e sradicata, forma tangibile della sua degenerazione e della sua fragile vicenda. Proprio in un tale contesto la riflessione ha bisogno di un supplemento di chiarezza e di convinzione, deve essere ancora più ricca ed ecumenica, se vuole davvero rendere giustizia agli "oggetti immensi" di cui tratta. D'altra parte, non vi è lavoro teologico autentico senza messa alla prova, senza rischio e senza un prezzo da pagare per attingere a quella libertà, di cui ha bisogno tanto l'atto di rivelazione, quanto l'atto di fede. 4. La riflessione contemporanea sulla "actuosa participatio" La riflessione contemporanea sulla riforma liturgica stenta ad individuare in modo netto e determinato il proprio centro di gravità e di attrazione nel nuovo modello di "partecipazione" che SC ha introdotto ufficialmente nella esperienza ecclesiale. Senza ripetere cose già trattate altrove - da altri e da me -, mi limito a ricordare qui i tratti salienti di questa novità: a) la evidenza del bisogno di “partecipazione attiva, consapevole, pia, comunitaria...” emerge soprattutto nell’”ancien régime rituale”. Le pagine più alte sul nostro tema sono state scritte – inevitabilmente - sotto la vigenza del “rito di Pio V”, frutto del concilio tridentino. Questo, tuttavia, non deve far pensare incautamente che sia il rito di Pio V a garantire la partecipazione attiva. Anzi, questo appare proprio come un pericoloso paralogismo – un vero “blocco mentale” - privo di fondamento razionale e profondamente tendenzioso – quasi l’indice di una strutturale autoimplicazione fallace della argomentazione3. b) a partire ufficialmente da SC - anche se con anticipazioni già alla fine del pontificato di Pio XII e durante il pontificato di Giovanni XXIII - la partecipazione alla liturgia non è più semplicemente "actus animae" - come avrebbero detto facilmente scolastici e neo-scolastici - ma è anzitutto "usus rerum exteriorum", ossia azione esterna, sensibile e visibile. c) partecipare al sacramento - quindi - non significa attivare parallelamente una serie di "vie diverse e alternative" il cui senso ultimo (interno, trascendente e invisibile) coinciderebbe con la grazia del sacramento, e cui ognuno potrebbe giungere vuoi con il rito liturgico, vuoi con la meditazione personale, vuoi con un libro edificante, vuoi con allegorismi arbitrari, vuoi con preghiere presonali del rosario o di novene a S. Antonio. d) la partecipazione ora viene definita "attiva" proprio perché ognuno compie la medesima azione simbolico-rituale, fa atto di "intelligenza del mistero" ("id bene intelligentes") attraverso la mediazione rituale ("per ritus et

3 Di tale errore logico sembrano compiacersi tutti quegli incauti “laudatores temporis acti” che hanno smarrito, oltre alla memoria, anche il senso del limite e che pertanto si illudono di poter salvaguardare la tradizione mediante un pericoloso compromesso tra disperazione e presunzione. Esemplare per mancanza di rigore e per approssimazione è il volumetto sgangherato di N. Bux, La Riforma di Benedetto XVI, Casale M., Piemme, 2008, compresa la disinformatisima “Presentazione”, inultilmente elogiativa, del giornalista, aspirante teologo, Vittorio Messori.

Page 3: Grillo18mar2010 Laici e Liturgia

preces") e ciò accomuna tutto il corpo della Chiesa, sia pure nella diversità di ministeri e di carismi. Il ruolo della presidenza è al servizio di questo atto comunitario, non sostitutivo di esso. e) per rendere possibile questa "partecipazione attiva", ossia questa nuova rilevanza della corporeità simbolico-rituale della liturgia, è stata fatta la Riforma liturgica, che è soltanto il grande strumento perché tale nuova idea/esperienza di partecipazione possa affermarsi nella vita della Chiesa, una volta rimossi gli ostacoli linguistici, testuali e contestuali da parte dell'opera riformatrice. E' vero che non mancano teorie intorno alla partecipazione liturgica che di fatto la riducono alla dimensione interiore4: ma tali visioni, anziché portare un chiarimento allo sviluppo del concetto, rischiano piuttosto di minarne le basi, poiché non escono dall'orizzonte angusto dell'idea di partecipazione "puramente interiore" che ancora Mediator Dei condivide. Un tale concetto, con tutta la sua storia e la sua tradizione, non aveva bisogno né di una riforma liturgica, né di un adeguamento strutturale della esperienza del ministero ordinato. Viceversa, il concetto di “participatio actuosa” elaborato dal Movimento Liturgico e poi assunto dal Concilio Vaticano II non è più compatibile con una visione "clericale" della Chiesa, ossia con una concezione della liturgia, della scrittura, del diritto canonico e della amministrazione ecclesiale riservata semplicemente ad una particolare esperienza del servizio ecclesiale, ossia a quella tipica ed esclusiva del ministro ordinato. Dovremmo dire, allora, che è proprio una concezione "attiva" della partecipazione a costituire una delle premesse fondamentali per introdurre con forza nella esperienza ecclesiale un concetto più ricco e più originario di "ministero/servizio. Ma proprio qui vediamo che la scarsa penetrazione nella cultura e nella prassi cristiana di questa idea di partecipazione ha lasciato il "nuovo paradigma ministeriale" in una pericolosa forma di "volontarismo", senza coglierne le logiche necessarie e portanti. 5. Il nodo della questione: un'azione di e per tutti? Le conseguenze che tale lettura della "partecipazione" al sacramento (et quidem alla Chiesa) comportano per la concezione della ministerialità ecclesiale e della identità del presbitero sono profonde e di non semplice recezione. Proviamo a considerarne solo le principali: a) Il mutamento paradigmatico che passa dalla "partecipazione dei fedeli" di Mediator Dei alla "actuosa participatio" di Sacrosanctum Concilium comporta una mutazione profonda nel modo di concepire l'azione rituale, in cui i "soggetti della celebrazione" non sono esclusivamente i "ministri", ma piuttosto tutti i membri della assemblea liturgica5. b) Per questo è necessario che la natura stessa del sacramento implichi una forma di partecipazione in cui interno ed esterno siano mediati precisamente dalla logica simbolico-rituale della azione. La mediazione, in altri termini, non è del solo ministro ordinato, ma dell'intera azione di cui egli è soltanto "colui che presiede"6. c) Dietro questo recupero della soggettività della assemblea, tuttavia, si nasconde un secondo livello di novità: non solo l'azione sacra non è "il culto che il prete rende a Dio", ma è la lode che Cristo rende al Padre nello Spirito. In tal modo, non solo il vero soggetto non è il presbitero, bensì l'assemblea, ma vale anche una seconda - più decisiva - alternativa: il vero soggetto non è il presbitero, né l'assemblea, ma anzitutto e ultimamente Cristo stesso7. 4 Cfr. in primis il ricco studio di M. Palombella, Actuosa participatio. Indagine circa la sua comprensione ecclesiale, Roma, LAS, 2002.

5 Qui bisogna precisare bene che cosa si intende qui con "soggetti della celebrazione". In effetti è stata una irrinunciabile acquisizione del Movimento Liturgico, già assunta autorevolmente da Mediator Dei, il riconoscimento della soggettività "cristica" ed "ecclesiale" della liturgia. Il corpo integrale della Chiesa (Capo e Corpo) è il vero soggetto. Ora, di fronte a questa acquisizione fondamentale, risulta evidente che rispetto a tale soggettività, tutti coloro che costituiscono la assemblea liturgica sono ministri, servi, umili servitori di Cristo e della Chiesa. Potremmo dire che il nuovo concetto di ministerialità crea lo spazio per la soggettività autentica di Cristo e della Chiesa nell'azione rituale. Da essa scaturisce la necessità di un grande ampliamento e di una profonda articolazione della ministerialità ecclesiale, come fenomeno di "autorevole perdita di potere" piuttosto che di "acquisizione o conquista di potere".

6 Colui che presiede, in tal modo, apre radicalmente la assemblea alla sua insufficienza, la rende trasparente al suo Signore, attivando al suo interno molte forme di ministero e di servizio. Lettori, ministri straordinari della comunione, ministranti sono in tal modo la attestazione di una strutturale vocazione della assemblea liturgica e eucaristica.

7 In tal modo ogni ministerialità ecclesiale, dalla presidenza alla più elementare forma di servizio alla Chiesa, viene posta in una posizione di apertura sul mistero di Cristo e sul mistero della Chiesa. Più che "rappresentarlo", vi si pone autorevolmente "di fronte". Sono "in persona Christi ed Ecclesiae", più nel senso del "coram" che nel senso della rappresentanza (Cfr. a questo proposito il giustamente famoso testo di B.-D. Marliangeas, Clés pour une théologie du ministère. In persona Christi In persona Ecclesiae, Paris, Beauchesne, 1973). Questo non esclude, evidentemente, il senso giuridico, ma piuttosto lo anticipa e lo illumina sul piano simbolico-rituale, livello che riconosceremo come decisivo e fondamentale.

Page 4: Grillo18mar2010 Laici e Liturgia

6. Unicità del presidente, pluralità di ministeri, assenza (attesa) di presbiteri Rispetto a quanto abbiamo qui brevemente descritto, il ruolo del ministro ordinato, nella celebrazione liturgica, non è quello di rivendicare ostinatamente la esclusiva della propria unicità ministeriale, ma piuttosto quello di suscitare - con la propria presidenza - una articolazione ministeriale della assemblea come (secondo) soggetto liturgico e una trasparenza del (primo) soggetto Cristo, al cui scopo il servizio del ministro è decisamente dedicato. Le recenti perplessità - autorevolmente riprese dal documento "Redemptionis Sacramentum" - circa l'utilizzo dell'espressione "assemblea celebrante" - mettono bene in luce la progressiva incomprensione in cui è caduto il "nuovo paradigma" di cui abbiamo cominciato a parlare. Ossia si teme che, usando l'espressione "assemblea celebrante", si faccia venir meno il ruolo insostituibile del ministro ordinato per la celebrazione dell’assemblea. In realtà, dovremmo dire che "assemblea celebrante" implica una presidenza del ministro ordinato, il quale, tuttavia, non assorbe in sé l'intera ministerialità, ma presiede affinché ogni (altro) ministro possa sviluppare appieno la propria funzione all'interno del "corpus Christi" ecclesiale. Se si pensa secondo il paradigma medioevale, la affermazione della "assemblea celebrante" implica la negazione della celebrazione da parte del prete; se si pensa secondo il paradigma liberale tardo-moderno, la celebrazione della assemblea tende a sopprimere il ruolo stesso del prete come presidente; mentre se si pensa secondo il paradigma conciliare la celebrazione dell'assemblea è il vero scopo della presidenza, che il prete svolge secondo il proprio specifico ministero. Dietro la questione della "assemblea celebrante" si nasconde quindi, come abbiamo visto, una questione di ministero, ma anche un problema di comprensione della forma/materia del sacramento e della qualità della partecipazione da riferirsi all'assemblea. La coscienza di queste implicazioni impedisce ogni facile retorica circa il rapporto tra il presbitero e le presidenza eucaristica: in questo rapporto si gioca molto di più sia rispetto alla semplice “competenza esclusiva del prete sulla messa”; sia rispetto ad una presunta signoria della assemblea sulla stessa messa l’arte del presiedere è, ultimamente, la possibilità di una diversa trasparenza, di una più viva evidenza dei veri soggetti (Cristo e Chiesa) rispetto a cui tutti gli altri (dal presidente all’ultimo dei ministri) non sono altro che “umili servi della vigna del Signore”. Alla luce di quanto fin qui affermato, appare anche sotto un’altra luce la questione delicata del ruolo del laico in una comunità “in assenza” (o “in attesa”) di presbiteri8. Credo che, al di là della previsione normativa delle diverse forme di “rimedio” alla condizione di assenza di presidenza ordinata delle comunità, si dovrebbero poter coltivare le forme “alternative” di presidenza, che al laico sono normalmente accessibili: presidenza della liturgia delle ore, presidenza della liturgia della parola, presidenza di liturgie penitenziali. E, d’altra parte, solo la normale frequentazione, da parte dei presbiteri e dei Vescovi, anche di queste forme “diverse dall’eucaristia” di rapporto con il mistero pasquale e di rapporto con la presenza del Signore Gesù potranno consentire una lenta ma progressiva osmosi tra competenze che restano diverse, ma che possono incontrarsi serenamente sulla maggior parte dei terreni rituali cristiani, comuni a tutti ai battezzati prima che riservati a soggetti particolari. Finché la “actuosa participatio” non sarà diventata “ars celebrandi” comune a tutto il popolo di Dio, non avremo neppure cominciato ad affrontare in modo efficace quelle “assenze” che necessitano di un popolo che sappia sperare e pregare nella attesa.

8 La differenza lessicale tra “assenza” e “attesa” può non essere un mero artificio retorico solo se le comunità ecclesiali pastoralmente agiscono per scoprire nella assenza di presbiteri una attesa e una promessa di rinnovamento significativo del ministero ecclesiale.