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I Siciliani n.2 febbraio 2012 www.isiciliani.it A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare? Fior/ Expo: gli appalti/ Catania/ Liberty & Ruspe Mazzeo/ Droni a Sigonella Traffici/ L’asse Vittoria-Fondi Operai/ La nave dei diritti Sgarbi in Sicilia Depistaggi di Stato Caruso Campese Cortina Vitale Abbagnato De Gennaro Prete operaio a Catania Orsatti/ Italian Tabloid Mondo nuovo/ Apple nel G-20 La rivolta del Megastore Messina sepolta Satira/“Mamma!” Jack Daniel CASELLI/ L‘ETERNIT E I DIRITTI DALLA CHIESA/ GOVERNO E ANTIMAFIA CAVALLI/‘NDRANGHETA AL NORD Uccise o costrette a uccidersi perché si ribellano al clan. La loro società le condanna. Spesso, fra i primi aguzzini trovano fidanzati o genitori. Succede solo fra i mafiosi? La strage delle donne MAFIA Rita Atria, Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola giovani

I Siciliani - febbraio 2012

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Rivista di politica, attualità e cultura

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Page 1: I Siciliani - febbraio 2012

I Siciliani n.2

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2www.isiciliani.it

A che serve essere vivi, se non c’èil coraggio di lottare?

Fior/ Expo: gli appalti/ Catania/ Liberty & Ruspe Mazzeo/ Droni a SigonellaTraf�ci/ L’asse Vittoria-Fondi Operai/ La nave dei diritti Sgarbi in Sicilia Depistaggi di Stato Caruso Campese Cortina Vitale Abbagnato De Gennaro Prete operaio a Catania Orsatti/ Italian TabloidMondo nuovo/ Apple nel G-20 La rivolta del Megastore Messina sepolta Satira/“Mamma!” Jack Daniel CASELLI/ L‘ETERNIT E I DIRITTI DALLA CHIESA/ GOVERNO E ANTIMAFIA CAVALLI/‘NDRANGHETA AL NORD

Uccise o costrette a uccidersi perché si ribellano al clan.La loro società le condanna. Spesso, fra i primi aguzzinitrovano �danzati o genitori. Succede solo fra i ma�osi?

La stragedelle donne

MAFIA

Rita Atria,Lea Garofalo,

Maria ConcettaCacciola

giovani

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Compongono e subiscono la criminalità organizzata. La storia

delle mafie è anche una storia di donne, una questione di genere.

Le loro vite servono a capire la natura stesse delle mafie, i “sen-

timenti” che le muovono, la cultura di cui sono portatrici, il si-

stema di “valori” che le caratterizza, il modello sociale di riferi-

mento in cui hanno potuto farsi strada.

Le donne in maniera trasversale rappresentano un elemento di

“normalizzazione” e nello stesso tempo di “eccezionalità” che

caratterizza il fenomeno criminale. L’esempio più lampante è la

vendetta.

Il torto subito in un contesto che non le riguarda direttamente:

la guerra tra cosche per il controllo del territorio, lo sgarro per-

petuato tra boss o affiliati, affari economici irrisolvibili se non

attraverso il sangue trovano l’apice della soddisfazione e del ri-

sarcimento colpendo donne e bambini. Cioè attraverso l’oggetto

più importante del possesso. Colpisco la “cosa” che ti è più cara

e simbolicamente, per questo motivo, quella che non andrebbe

mai colpita. È lo sfregio più grosso da ricevere e anche il più in-

famante da commettere.

Le donne servono per alimentare il silenzio, il silenzio che

serve alle cosche per andare avanti nei propri affari. La cura del

silenzio permette agli uomini di “lavorare”. Sono madri, mogli

che subiscono o che, con complicità, agiscono e creano la cappa

d’isolamento del territorio in cui vivono, operano e inviano ordi-

ni. Sono però anche quelle che quando rompono il silenzio met-

tono in crisi l’intero sistema.

È una donna la prima testimone di giustizia della storia e sono

sempre donne quelle che in Calabria stanno indebolendo la

‘ndrangheta: come Tita Boccafusca e Maria Concetta Cacciola,

che hanno taciuto per sempre ingerendo acido muriatico. Dalla

bocca sono uscite rivelazioni che non si dovevano fare e attra-

verso quella stessa bocca si lava via la tentazione di continuare,

la disperazione di averci provato, il “disonore” di averlo fatto.

Dall'unità d'Italia a oggi sono più di centocinquanta le storie di

donne, messe assieme e di nuovo raccontate dal dossier “Sdiso-

norate/ Le mafie uccidono le donne” dell’associazione daSud

(www.dasud.it)

I Siciliani

giovani

(di Celeste Costantino, Irene Cortese, Sara Di Bella, Cinzia Paolillo,

Angela Ammirati, Danila Cotroneo e Laura Triumbari)

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 3– pag. 3

Donnee mafa

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I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani FEBBRAIO 2012 numero due

Questo numero

Donne e mafia 3L'Eternit e i diritti di Gian Carlo Caselli 6Antimafia e governo di Nando dalla Chiesa 7Mafia a Barcellona di Riccardo Orioles 8Shylock e la Grecia di Paolo Fior 9

Mafia (e antimafia)Aveva scelto la libertà di Michela Mancini 10Testimoni di giustizia di Nadia Furnari 12Ndrangheta al nord di Giulio Cavalli 14Expo di Paolo Fior 16Bologna del riciclo di Salvo Ognibene 18La meglio gioventù di Martina Mazzeo 19

Rewind-forward di Francesco Feola 20

I tempiLiberty e ruspe di Max Vacirca 22

Le nuove rotteVisto da Vittoria di Giorgio Ruta 24Visto da Fondi di Maria Sole Galeazzi 26Depistaggi di Stato? di Lorenzo Baldo 28

I nord e i sudI droni di Sigonella di Antonio Mazzeo 30Da Rosarno a Roma di Bruna Iacopino 33

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 4– pag. 4

Freddo

Un freddo medievale, con centinaia di vittime – selezionate fra i poveri – nella civile Europa. Si discute moltissimo, di cose civilizzate e moderne, governi, politiche, strategie di lungo e medio periodo, eventi vari, cultura, ma la verità è che alcuni ele-menti del nostro panorama sono ormai premoderni.

Sono tornate la tubercolosi e la servitù della gleba. In zone circoscritte (periferie romane, latifondi campani) e per una parte circoscritta della società (meteci, iloti, non-cittadini) ma in modo assolutamente lineare. Non quanto nel medioevo, ma come nel medioevo.

Il centro di questo giornale è pericolosamente vicino al me-dioevo. Nel capannone dove facciamo doposcuola (il Gapa di Catania, oltre a organizzare giornali, organizza anche questo) viviamo quotidianamente a contatto con bambini di cui nessuno sa se saranno tutti vivi fra un anno o due: morti violente, malat-tie, ipersfruttamento, feudalità mafiosa, esercitano i loro diritti con sempre più prepotenza. Il servizio che stavamo preparando sulla squadra di rugby infantile di Librino - di cui siamo orgo-gliosissimi - improvvisamente è diventato futile, un lusso intel-lettuale da borghesi: perché un bambino è scomparso, e non si sa dove sia.

In questo mondo viviamo, e non distogliamo lo sguardo da esso. Nè cerchiamo di illuderci - come fanno quasi tutti: proba-bilmente anche tu che leggi – che sia un mondo minore, da ri-muovere facilmente. Guardare le cose in faccia non rende più lieve la vita. C'è molto amore, ogni giorno, ma esile e continua-mente minacciato.

*

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SOMMARIO L'isola

L'avventura di Sgarbi in Sicilia di Rino Giacalone 34Megastore di Attilio Occhipinti, Giulio Pitroso 38Appello per il lungomare di Catania 41Gli occupanti di Marettimo di Rino Giacalone 42Solidarietà 45Treni di Tommaso Maria Patti e Francesco Midolo 46

SatiraMamma di Mauro Biani, Carlo Gubitosa,Marco Pinna, Lelio Bonaccorso 49Lasciamoli giocare di Jack Daniel 56

ImmagineMessina sepolta di Dino Sturiale, Sebastiano Ambra 57

SocietàForconi di Francesco Appari, Giacomo di Girolamo 66Senzatetto Milano di Federico Beltrami 64Senzatetto Catania di Domenico Stimolo 65Il pezzo di carta di Claudia Campese 66Sant'Agata di Giovanni Caruso, Miriana Squillaci 68

StoriaTuriddu Carnevale di ElioCamilleri 71

ViaggiCracovia di Giuseppe Scatà 72

TeatroIl coraggio di Beatrice Canali e Marta Cavallini 74

MusicaStravinsky e l'i-Pod di Antonello Oliva 75

TecnologieApple nel G-20? di Fabio Vita 76

EconomiaInterviste/ Stefano Bartolini di Laura Cortina 78

PolisColletti sporchi di Gabriele Licciardi 80Diffamati di Salvo Vitale 81Palermo di Giovanni Abbagnato 82Governo di Riccardo De Gennaro 83

MemoriaItalian Tabloid di Pietro Orsatti 84Padre Greco di Fabio D'Urso e Luciano Bruno 88

Il filoBanche di Giuseppe Fava 93

ImmagineOccupiamoci di Scampia di Raffaele Lupoli 95

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 5– pag. 5

DISEGNI DI MAURO BIANI

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Una volta i Procuratori generali fa-

cevano a gara nel presentare gli infor-

tuni sul lavoro come mere fatalità.

A Torino, di fatto, la regola era che

in fabbrica non si poteva morire: nel

senso che se capitava un incidente

mortale, l’ambulanza doveva subito

trasportare l’infortunato in ospedale,

perché lì apparisse avvenuto il deces-

so.

Un problema tragico

Oggi il problema della sicurezza sui

posti di lavoro è ancora tragico. E fa

benissimo il Capo dello stato a ricor-

darcelo spesso.

Siamo tutt’ora in cima alle statisti-

che europee, con l’aggravante che da

noi stranieri e minori hanno ancor più

probabilità di infortunarsi di quella –

già elevata – dei lavoratori

“indigeni”. Eppure qualcosa è cambia-

to. Lo provano i processi di Torino per

il rogo della Thissen Krupp e quello

Eternit per l’amianto che ha causato

oltre 2.200 vittime, delle quali 1.649

uccise.

Una nuova sensibilità

Testimonianza di una nuova sensi-

bilità e cultura per la tutela di fonda-

mentali diritti dei cittadini , la sicur-

ezza nei posti di lavoro e la salute.

La prova che questi diritti, scolpiti

nella Costituzione, cessano di essere

scatole vuote e si trasformano in realtà

vivente quando funzionano gli strumen-

ti che la stessa Costituzione prevede a

presidio di essi.

Senza timori reverenziali

Primo presidio – fra i tanti – è la

magistratura, purchè autonoma ed in-

dipendente, capace cioè di fare il suo

dovere senza timori reverenziali per

questo o quel potente.

Proprio il contrario di quel che tanti

vorrebbero, come dimostra il recentis-

simo colpo di mano del Parlamento

sulla responsabilità civile dei giudici.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag.6– pag.6

Giustizia

Thyssen, Eternite i diritti tutelatidalla Magistratura di Gian Carlo Caselli

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Lo so, il governo Monti non ha pra-

ticamente nominato la mafia nei suoi

programmi. Nessuno vi veda però

l’effetto di complicità inconfessabili.

Semplicemente, i professori da cui è

nato appartengono a un’altra era (geo-

logica, starei per dire) dell’università

italiana.

Per loro la mafia non esisteva...

Quando nacquero i “Siciliani” di

Pippo Fava non c’erano accademici

che si occupassero della materia. Per-

ché mai legare la propria identità a un

fenomeno del passato e appeso a

un’isola? E nemmeno, tranne eccezio-

ni rarissime, se ne occupavano gli ac-

cademici di Sicilia.

Per loro, infatti, la mafia non

esisteva. Il più autorevole di loro

scrisse nell’86 (!), nel grande volume

Einaudi La Sicilia da lui curato, che la

mafia non era tra i maggiori problemi

della sua terra.

Perciò ha segnato l’esistenza di una

nuova era il seminario che il 9 e 10

febbraio scorsi si è tenuto all’istituto

Cattaneo di Bologna, e che ha messo

insieme decine di maturi docenti e

giovani ricercatori, da Palermo a Ox-

ford.

Lo sviluppo economico, il rici-

claggio, il nord, la corruzione, la tran-

snazionalità del crimine, i metodi del-

la ricerca, gli stereotipi culturali, i

nuovi movimenti. Non era mai acca-

duto. Non un convegno, ma due giorni

insieme senza pubblico. Solo per dare

all’intelligenza del paese e delle nuo-

ve generazioni una consapevolezza

più alta.

Le nuove generazioni. Anche queste

alla fine degli anni settanta preferiva-

no studiare altro. E anche loro sono

cambiate. Nel 2011, nella sola facoltà

di Scienze Politiche a Milano si sono

laureati quarantuno studenti sulla cri-

minalità organizzata: beni confiscati,

criminalità albanese e cinese, narco-

traffico, ‘ndrangheta in Lombardia,

mafia e giornalismo…

Nuove generazioni di professori

A loro è stata dedicata una serata

con facoltà aperta, intitolata “La

meglio gioventù”. Quella che sposa

scienza e impegno etico-civile. C’era

anche don Ciotti, venuto apposta per

ringraziarli.

Il governo dei professori non ne

parla. Ma ci sono nuove generazioni

di professori e soprattutto di studenti

che ne parlano. Statene certi. Quando

toccherà a loro, anche la lotta alla

mafia farà parte dei programmi di

governo.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag.7– pag.7

Società

L'antimafiaè importanteper il governo? di Nando dalla Chiesa

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Polemiche

Sarà sciolto per mafiail Comune di Barcellona? di Riccardo Orioles

Dal primo numero di questa nuova se-rie (come già in quella degli anni '90) i Siciliani hanno hanno dato particolare at-tenzione alle vicende di Barcellona in Si-cilia, un tempo isolata enclave mafiosa nel messinese ma poi rapidamente cre-sciuta fino a diventare uno dei luoghi ne-vralgici della mafia (massomafia, avreb-be detto il professore D'Urso) nazionale.

Momenti di svolta furono la latitanza di Santapaola, la partecipazione alla stra-ge di Capaci, l'assassinio di Beppe Alfa-no (che, stando sul luogo, aveva compre-so molto) e altri episodi, criminali e no.

Già alla fine degli anni '70, peraltro, la zona era frequentata da trafficanti inter-nazionali di droga (i Cutaia), che s'incon-travano in un rifugio alpino sulle monta-gne. Dagli anni '90 vi fu, probabilmente un salto di qualità complessivo, in parte legato all'espansione “militare” di Cosa nostra, in parte a rapporti politici e im-prenditoriali facilitati dalle locale camere di compensazione di tipo massonico, fre-quentate da tutto l'establishment senza distinzioni.

Tutte queste belle cose, su cui da anni lavorano le migliori “firme” di Cosa no-stra, sono ben note ai cittadini di Barcel-lona, alcuni dei quali hanno dato vita ad associazioni - la “Rita Atria”, la “Città

Aperta” ed altre – per cercar di salvare la loro città.

Questi gruppi, affiancati da giornalisti capaci come Antonio Mazzeo (un redat-tore dei Siciliani), meritano l'appoggio più convinto di tutti i cittadini democrati-ci e antimafiosi, per motivi che dovrebbe essere inutile spiegare.

Contro Mazzeo, contro Città Aperta, contro l'Associazione Rita Atria e contro l'antimafia di Barcellona ha invece deci-so di schierarsi il principale politico loca-le, il già ministro e ora senatore Domeni-co Nania. L'ha fatto addirittura in sede parlamentare, del che – trattandosi di prassi inconsueta – ho espresso perpels-sità ai nostri lettori. Nania risponde con una lettera al Fatto (sul cui sito era il mio pezzo), che riportiamo appresso.

Nulla a che fare col sindaco

Da essa si evince che l'on. Nania non ha nulla a che fare con la discussa ammi-nistrazione locale, guidata da suo cugino. Si evince altresì che egli è convinto che tutte le inchieste su Barcellona sono ispi-rate dai suoi avversari politici (ma erano cominciate ben prima dei suoi coinvolgi-menti: Mazzeo ne scrive da parecchi anni); che questi suoi avversari politici

sono i nostri “suggeritori” (di cui eviden-temente abbiamo un gran bisogno); e so-prattutto che a Barcellona la mafia non esiste, dato che questo argomento non sembra fra i suoi principali motivi d'inte-resse

Noi naturalmente torneremo su Barcel-lona, sperando di convincere anche l'on. Nania che trattasi (al di là di questo o quel dettaglio, e persino della locale geo-grafia politica in cui l'onorevole ha tanta parte) di una delle capitali di Cosa No-stra, su cui l'attenzione giornalistica non sarà mai abbastanza.

Attendiamo con un certo interesse la scadenza del 10 marzo, quando il mini-stero dell'interno dovrà decidere se scio-gliere o meno, per questioni di mafia, l'amministrazione comunale di Barcello-na, con cui l'on. Nania non ha alcuna re-lazione.

Un simile provvedimento, come abbia-mo scritto chiaramente, è auspicato da tutti i buoni cittadini; i quali – a nostro avviso – farebbero bene a incontrarsi pubblicamente a Barcellona, verso la metà di marzo, per festeggiarlo o per ri-chiederlo ancora, secondo i casi. E' im-probabile, purtroppo, che a questi festeg-giamenti (o richieste) partecipi l'on. Na-nia, e ce ne dispiace.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag.08– pag.08

SCHEDALA LETTERA DI NANIAEgregio Direttore, nel blog di Riccardo Orioles si fa riferimento a una mia recente interrogazione parlamentare (A.S n. 4-06576), attraverso la quale avrei, secondo Orioles, sottoposto il giornalista Mazzeo a "pressioni". Il giornalista Orioles nel suo blog, riporta la notizia della mia interrogazio-ne - un'attività svolta nell'esercizio del mio mandato e a difesa della verità - e la definisce appunto “un'iniziativa senza precedenti....” e allude ad una mia presunta responsabilità e volontà nel voler "censurare" il suo col-lega Mazzeo. Nell’interesse di una corretta e completa informazione, vor-rei ricordare al giornalista Orioles che:a) non è il sottoscritto che “si è sentito toccato dalle sue inchieste” ma l’amministrazione comunale di centrodestra nella quale mi riconosco.b) la mia interrogazione è successiva a quella del sen. Lumia del 12 gen-naio 2010 (A.S. n 4-02499); la sua di attacco, la mia di difesa ma en-trambe rigorosamente legittime. Nella mia, ho semplicemente e dovero

samente analizzato, punto per punto, il contenuto dell'interrogazione Lu-mia e delle fonti dallo stesso ripetutamente citate;b) il nome di Antonio Mazzeo, come fonte e suggeritore dell'interroga-zione Lumia, non è una mia invenzione ma è fatto, e ripetutamente, dal-lo stesso sen. Lumia nella sua interrogazione e, quindi, gli addebiti di “esposizione” vanno mossi nei riguardi del senatore predetto;c) per quanto riguarda l'articolo di Orioles a difesa del suo collega Maz-zeo, valgono, come per oqualunquegiornalista, le regole che disciplinano i dloro overi professionali: prima accertare la veridicità della notizia e, solo dopo, scrivere. Le “sviste clamorose” in cui Mazzeo è incorso sono ben evidenti da una lettura comparata delle due interrogazioni, mia e del sen. Lumia. (A.S 4-02499 del 12/01/10 e A.S. 4-06576 del 12/01/12).

sen. avv. Domenico Nania

Page 9: I Siciliani - febbraio 2012

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L’accanimento con cui si infierisce sul-

la Grecia e sui suoi cittadini non ha nulla

di ragionevole e molto di europeo. Di

quell’Europa che vorremmo scomparsa

con la fine dei totalitarismi e che invece

si ripropone oggi in forme inedite nel bel

mezzo di una devastante crisi economica.

Davvero finiti i totalitarismi?

Pretendere, come si sta facendo, altre

garanzie e altri tagli da un Paese ormai

stremato equivale a chiedere una libbra

di carne viva alle persone. Una richiesta

degna di un Shylock, l'usuraio del Mer-

cante di Venezia, non di un consesso di

nazioni che si autodefiniscono democra-

tiche e civili.

Ciò avviene con il complice silenzio di

tutta l’Unione europea e dei media, che

mandano i loro inviati ad Atene per gli

scontri di piazza e non per raccontare

cosa accade nella quotidianità in un Pae-

se europeo nel 2012.

Scarseggiano i farmaci

Negli ospedali greci scarseggiano mol-

ti farmaci, a partire dall’insulina, e cre-

scono i casi di malnutrizione infantile.

Intere famiglie vivono al buio perché non

sono state in grado di pagare la nuova

tassa sulla casa addebitata direttamente

sulla bolletta elettrica.

Soldi non ce ne sono più, lavoro nean-

che. Disperazione e angoscia affliggono

persone incolpevoli.

Il diritto fallimentare assicura alle

aziende e alle persone una protezione

ben più larga dai creditori. Uno Stato so-

vrano e i suoi cittadini, invece, possono

essere considerati al pari di un bottino di

guerra.

Bisogna riflettere su questo e soprat-

tutto sui nostri silenzi dal retrogusto cini-

co del “mors tua vita mea”.

L'indifferenza e l'orrore

Il problema non è che domani potrebbe

toccare a noi, ma l'indifferenza con cui

spalanchiamo nuovamente le porte

all'orrore.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag.9– pag.9

Europa

Shylocke la carne vivadella Grecia di Paolo Fior

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Testimoni di giustizia

Fatta morire dallasua famiglia perchéaveva scelto la libertàMaria Concetta Caccio-la aveva trentun anni, viveva a Rosarno, era sposata e aveva tre fi-gli. Il 20 agosto del 2011 si suicida inge-rendo acido muriatico. Pochi giorni fa, il pa-dre, la madre e il fra-tello vengono arrestati

di Michela Mancini

Maria Concetta era una testimone di giustizia: figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Bellocco, e moglie di Salvatore Figliuzzi, in carcere dal 2002 per associazione a delinquere di stam-po mafioso. Vivevano tutti nella stessa casa: erano i nonni a pensare alla fa-miglia. In quei posti il vincolo di san-gue non lo scioglie nemmeno l’acido. La famiglia non si deve macchiare di vergogna altrimenti la cosca perde po-tere: la vergogna non consiste solo nel-l’avere “un pentito” sotto al tetto, ba-sta tradire tuo marito mentre lui è in carcere. Per la ndragheta il matrimo-nio è per sempre: di divorzio manco a parlarne.

La storia di Maria Concetta comincia così.

In una lettera alla madre, scrive del marito: «A tredici anni, sposata per avere un po’ di libertà, credevo che potessi tut-to, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo, e tu lo sai». Si sposano dopo una “fuitina”, poi nascono i figli. Troppo tardi per pentirsi. Forse Maria Concetta la sua vita se l’era imma-ginata diversa, nessuna particolare ambi-zione. Ci sono luoghi dove nemmeno i sogni ti puoi permettere, perché finisce che ti mangiano il fegato, peggio dell’a-cido muriatico.

Maria Concetta, dopo l’arresto del ma-rito,probabilmente incontra altri uomini e a Rosarno certe notizie viaggiano veloci. A casa cominciano ad arrivare lettere anonime, siamo a giugno del 2010.

Non la fanno più uscire, rimarrà fra quelle mura fino al maggio dell’anno successivo. Le rare volte in cui valica la porta di casa viene pedinata dal fratello. Non basta: viene picchiata, le botte sono così forti che le sue costole si incrinano o forse si rompono. Non si saprà mai: non verrà mai portata in ospedale. Viene cu-rata a casa da un medico di fiducia.

Maria Concetta è sola, non può parlare neppure con la madre. Nelle famiglie mafiose il mondo delle donne si è spac-cato a metà: ci sono le madri, che hanno mangiato fin da piccole pane e omertà, che proteggono i propri mariti, che ten-gono unita la famiglia, la lucidano come l’argenteria, cancellano la vergogna a colpi di spazzola. E poi ci sono le figlie,

che pensano troppo, che proprio non rie-scono a quietarsi.

Maria Concetta a maggio viene chia-mata dall’Arma di Rosarno perché Al-fonso, il figlio più grande, aveva combi-nato un guaio col motorino. Arrivata in caserma, chiede aiuto e racconta tutto quello che sa, prima ai carabinieri e poi alla Dda di Reggio Calabria.

È stata la paura a farle scegliere lo Stato, l’amore di mamma che voleva un futuro diverso per i suoi figli? Maria Concetta semplicemente chiama le cose col loro nome, da’ un’identità a luoghi e a persone fino ad allora nell’ombra. De-cide che quel vincolo di sangue non è per sempre.

Lontano, più lontano che si può

Da quando entra a far parte del Servi-zio Centrale di Protezione, non può più rimanere a casa sua: un pomeriggio dice che andrà a fare visita al suocero e scap-pa.

Per un primo periodo alloggerà nel co-sentino, ma qualcuno potrebbe ricono-scerla: viene trasferita dall’altra parte d’Italia, a Bolzano. La parola d’ordine è: lontano, più lontano che si può. Sola, in una città straniera Maria Concetta pensa ai figli che non ha potuto portare con sé.

Aveva scritto alla madre: «Ti affido i miei figli. Ti supplico non fare con loro l’errore che hai fatto con me: dagli i suoi spazi, se li chiudi è facile sbagliare». Non è solo la distanza, ha paura che la famiglia possa ritorcersi contro di loro.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 10– pag. 10

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“Le impongono di ritrattare tutto”

Cede e telefona alla madre. Lo confes-serà alla scorta che la trasferisce a Geno-va. «Da Genova io ho richiamato di nuo-vo mia madre dicendo che la voglio ve-dere perché a me mi mancava». La fami-glia di Maria Concetta arriva fino in Li-guria, la mettono in macchina per riportala a Rosarno. Durante il viaggio di ritorno si fermano per una sosta a Reggio Emilia, lei si pente e telefona ai carabi-nieri, che la riportano a Genova. Ma pro-babilmente qualcuno le impone con più decisione di «spegnere tutto». Richiama la madre per l’ultima volta: «Portami a

casa». A Genova arrivano in tre: il fratel-lo, una delle figlie e la madre.

E’ il dieci di agosto quando arrivano a Rosarno. Pochissimi giorni dopo, Maria Concetta scrive una lettera e registra un nastro. Racconta dei colloqui con la Dda: «Gli ho detto delle cose per arrivare allo scopo di andare via da casa, ho detto pure delle cose che mi sono infangata an-che io stessa per il fatto di andare via da casa mia». Pausa nel nastro: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei figli ed ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei aggiungere che avevo scritto una lettera che aggiungo con questa registra-zione e vorrei lasciata in pace in futuro. E non essere chiamata da nessuno».

Le dichiarazioni rese alla magistratura vengono sconfessate da quel nastro: la testimone dice di aver accusato la sua fa-miglia per vendicarsi del padre e del fra-tello che la maltrattavano. La ‘ndranghe-ta? Non ne sa nulla, Maria Concetta vuo-le essere lasciata in pace.

Il 20 agosto va in bagno e ingoia l’aci-do muriatico. Muore in ospedale.

Istigazione al suicidio

Viene aperta un’inchiesta per istiga-zione al suicidio. Laura Garavini del Pd solleva un’interrogazione parlamentare: perché la testimone è stata separata dai figli? Il Servizio di Protezione che opera per il ministero dell’Interno ne era a co-noscenza? Dal Governo nessuna risposta.

Pochi giorni dopo il suicidio, la fami-

glia Cacciola presenta un esposto col quale accusa i magistrati di aver convinto la figlia a collaborare con false promesse. La madre di Maria Concetta scrive anche ad un giornale locale: «Al di là del mero dato parentale, né mio marito, né alcun componente del mio nucleo familiare ha mai condiviso vicissitudini giudiziarie ovvero sia pure semplici rapporti di fre-quentazione criminale con Gregorio Bel-locco».

“Violenza fisica e psicologica”

Lo scorso 9 febbraio, all’alba, la fami-glia Cacciola viene arrestata; secondo la procura di Palmi avrebbe portato la don-na a suicidarsi “attraverso reiterati atti di violenza fisica e psicologica”. Grazie alle dichiarazioni che la testimone fece alla Dda, lo stesso 9 febbraio, con l’ope-razione Califfo vengono messe in manet-te undici persone, probabilmente legate alla cosca Pesce.

Ha vinto lo Stato? Maria Concetta ha scelto il coraggio, come Lea Garafolo, come Tita Buccafusca, come tante altre donne, come tante altre madri.

È perdonabile la distrazione di uno Stato che affida i figli di una testimone di giustizia alla stessa famiglia da cui que-sta sta scappando? Maria Concetta è tor-nata da loro per proteggerli, poco dopo sceglie di far vedere il proprio cadavere a quegli stessi occhi per cui è tornata indie-tro. Questa volta quei tre ragazzini, la cui intera famiglia è in carcere, a chi verran-no affidati?

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SCHEDAOPERAZIONECALIFFO

Pochi giorni fa un’operazione de-nominata Califfo, coordinata dalla pro-cura di Palmi e dalla Dda di Reggio Calabria ha dato una un duro colpo alla cosca Pesce, fra le più rilevanti nella cittadina di Rosarno. È stato fer-mato il latitante Giuseppe Pesce, di-ventato boss dopo l’arresto del fratello Francesco. Insieme a lui sono finiti in manette altri dieci presunti affiliati. Fondamentale, per il nucleo del Ros, un “pizzino” che Francesco Pesce aveva vanamente cercato di far ar-rivare al fratello dal carcere. Il foglietto conteneva una serie di indicazioni che insieme alle dichiarazioni di Maria Concetta Cacciola e di Giuseppina Pesce, altra testimone di giustizia, hanno permesso la ricostruzione del puzzle. Le dichiarazioni delle due donne erano apparse convergenti - seppur fatte in archi temporali differ-enti - sul ruolo svolto da Saverio Marafioti: il cosiddetto “muratore”, che costruiva bunker a prova di bomba, dotati di ogni comfort. Marafioti sce-glieva luoghi inaccessibili e isolati per edificare le tane della ‘ndrangheta.

M.M.

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Testimoni di giustizia

Ma la responsabilitàmorale è anche nostraTutta una società ha concorso alla morte di Maria Concetta. E di Rita. E di molte altre

di Nadia Furnari Associaz. Antimafie “Rita Atria”

Partiamo dalla notizia: "Alle 19.00 di sabato 20 agosto, Maria Concetta Cac-ciola si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l'acido mu-riatico". Ad agosto la notizia arriva sot-to l'ombrellone e al più, per i più infor-mati e per quelli che hanno il vizio di leggere i giornali, è un evento dramma-tico sul quale esercitarsi in ipotesi, valu-tazioni, sentenze… Maria Concetta vie-ne chiamata pentita, collaboratrice, donna di 'ndrangheta come a volere sminuire l'importanza di quella morte. Qualcuno dalla Calabria urla: è una Te-stimone!

Ma l'Italia sotto l'ombrellone è troppo impegnata a gestire la quotidianità per sof-fermarsi su questi particolari e i giornalisti delle testate nazionali troppo affaticati per approfondire il "dettaglio": collaboratrice o testimone?

Solo pochi si sono interrogati sulla don-na Maria Concetta Cacciola, sulla sua vita, sul perché a quattordici anni si sposa un uomo che non si ama e si diventa madre da adolescente.

La nostra associazione è intitolata a Rita Atria: anche Rita si è suicidata a soli di-

ciassette anni, perché uccidendo Paolo Borsellino le avevano ucciso la speranza. Anche Rita Atria come Maria Concetta era nata in un contesto mafioso, anche Rita Atria ha denunciato per avere il diritto di non farsi rubare i sogni e le speranze.

Proviamo dunque a capovolgere la noti-zia, e a raccontare come una donna che na-sce in un contesto culturalmente degradat-o, a soli trentun anni - con tre figli e un marito in galera - conclude la sua esistenza perché vede nella morte la sua liberazione.

Sarebbe bello risalire la filiera delle re-sponsabilità e non soffermarci solo su quei genitori che danno e tolgono la vita con una efferatezza che sembra avere poco a che fare con logiche umane.Lasciamo agli studiosi della materia approfondire l'argo-mento.

Per il prete era normale?

Maria Concetta si sposa a quattordici anni con un uomo della 'ndrangheta. Vero. L'ha sposata un prete? Immagino di sì. Per il prete era normale che una ragazzina di soli quattordici anni si sposasse?

Maria Concetta era cittadina di Rosarno. Gli amministratori di questa cittadina han-no mai istituito un monitoraggio sociale per tutelare i minori? Assistenti sociali, medici, operatori sanitari, sacerdoti, suore, associazioni, etc. si sono mai accorti della violenza su Maria Concetta? Insomma, qualcuno ha mai sondato la felicità di Ma-ria Concetta?

Ma Maria Concetta è una che ha parenti 'ndranghetisti e che si è sposata pensando: "Sognavo un po' di libertà e invece mi sono rovinata la vita perché non mi ama-va, né l'amo e tu lo sai" (così scriverà alla madre); Maria Concetta è una giovane donna che ha partorito il suo primo figlio a sedici anni… insomma perché occuparsi di un "essere inferiore"?

Ormai è opinione comune che il valore della vita di una persona si misuri in base al colore, alla razza, alla famiglia di nasci-

ta, a chi ti sposi e ad altri parametri "socia-li" e "civili". Per noi, ad esempio, un uomo di colore che muore mentre cerca di rag-giungere la speranza su un barcone scassa-to è una non notizia, una vita tra le tante. Per noi un uomo di colore che sgobba nei campi per 15 euro al giorno pagando an-che i caporali è un "extracomunitario" e non uno schiavo.

Quando arrestano il marito, Maria Con-cetta, rimane da sola e la sua vita di ven-tenne deve proseguire tra figli e visite in carcere per portare la sportina all'uomo che non ha mai amato.

E mentre faceva tutto questo Maria Con-cetta viveva a Rosarno tra due morse: la famiglia aguzzina e la società civile a cui non poteva avere accesso perché comun-que era pur sempre la moglie di uno 'ndranghetista e parente dei Bellocco. In-somma senza via di fuga.

Maria Concetta l'anno scorso si innamo-ra e capisce il significato di amore, ma la 'ndrangheta ha sistemi di intercettazione molto sofisticati e così qualcuno apparte-nente all' "onorata società" decide di anda-re dai genitori di Maria Concetta per sve-lare il tradimento. Le violenze e le vessa-zioni sono automatiche.

Non immagina tanto male

Ma Maria Concetta è giovane e vuole vivere e poi è innamorata e vede in quella caserma dei carabinieri non un nemico, come le avevano insegnato da quando era nata, ma la liberazione.

Racconta Maria Concetta, dice quello che ha sentito, quello che ha visto, senza alcuna complicità se non quella di essere nata e vissuta in quel contesto (almeno così risulta dagli inquirenti), entra nel pro-gramma di protezione ma fa l'errore più grande: non porta i figli, scegliendo di la-sciarli ai nonni, perché Maria Concetta non immagina che un padre e una madre possano fare del male ad una figlia o a dei nipoti.

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Ma quei figli le mancano, soprattutto nella solitudine di un programma di pro-tezione, privo di qualsiasi incoraggia-mento sociale, civile, politico e senza al-cuna assistenza psicologica.

Torna a Rosarno il 10 di agosto per riprenderseli, i figli, ma trova un comitato di accoglienza organizzato: avvocati, medici, consiglieri a vario titolo. L'obiettivo è quello di dimostrare che Maria Concetta ha agito sotto effetto di psicofarmaci e si è inventata tutto.

Il silenzio sociale

La memoria torna agli anni '90, a quando gli avvocati definivano Rita Atria una ragazzina dalla personalità instabile e la madre la ripudiava: meglio la morte che una figlia infame.

Maria Concetta doveva ripartire per rientrare nel programma di protezione ma stava cercando di capire quale fosse il momento ideale per lasciare quella casa… purtroppo è passato troppo tempo e la 'ndrangheta con tutti i suoi collabo-ratori esterni e sicura del silenzio sociale, politico e amministrativo, ha torturato Maria Concetta fino ad indurla ad un ge-sto che non può che trovare le radici nel-la disperazione. Uccidersi con l'acido.

“Un mondo di cose semplici”

Quando abbiamo fondato l'associazio-ne Rita Atria, nel lontano '94, qualcuno ci criticava perché non si intitola un'asso-ciazione alla figlia di un boss di mafia.

Ma Rita in un suo tema aveva indicato la strada: "L'unico sistema per eliminare [la mafia] è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trat-tato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel fa-vore".

"Andiamo tra i ragazzi che vivono tra la mafia...". Quando ha scritto queste pa-role Rita pensava a se stessa, al giudizio e al pregiudizio e diceva a tutti che ai fi-gli dei mafiosi si nega la libertà di un "mondo fatto di cose semplici".

“Salvare i figli dei mafiosi”

Rita ci chiedeva di salvare i figli dei mafiosi la cui unica colpa è quella di na-scere e crescere in un contesto senza al-ternative. In molti hanno puntato il dito denunciando l'inefficienza del Servizio Centrale di Protezione. Vero, potevano fare di più.

Chi ci conosce sa perfettamente che da anni denunciamo la gestione del Servizio Centrale di Protezione; sa perfettamente che da anni diciamo che i Testimoni han-no bisogno di un tutor a supporto psico-logico, perché quello che devono affron-tare è troppo grande e la solitudine della località protetta non aiuta e ti fa cadere nella disperazione.

Gli amministratori di quei paesi

Oggi però, per onestà intellettuale, chiediamo a quei "molti" di puntare il dito innanzitutto contro gli amministra-tori di quei paesi, contro i politici di quella regione, contro assistenti sociali, medici, avvocati, chiesa e società conni-vente, che vedono e tacciono, perché ci si indigna (ma non più di tanto) solo se uccidono uno di "noi".

La morte di Maria Concetta deve la-sciarci l'amaro in bocca e deve indurci a chiederci se le nostre attività sono di vero contrasto alle mafie. A parole è tutto facile, ma vivere il territorio è altra cosa e spesso chi lotta e sta accanto a donne come Maria Concetta viene poco consi-derato, perché svolge un'attività sociale che non conquisterà mai gli onori della cronaca.

Rita Atria oggi è considerata un esem-

pio, ma se fosse in vita forse sarebbe una "infame" e la figlia e la sorella di un ma-fioso, ergo una donna di serie z.

“Una donna di serie z”

Parafrasando il pensiero di Sandro Marcucci (per la cui morte stiamo ancora chiedendo giustizia): finché il sangue dei figli degli altri varrà meno del sangue dei nostri figli, fin quando il dolore degli al-tri per la morte dei loro figli, varrà meno del nostro dolore per la morte dei nostri figli, fino a quando la vita di una donna che nasce non per scelta ma per destino in una famiglia mafiosa ma che porta dentro il senso della libertà, varrà meno della nostra vita, allora ci saranno altre Maria Concetta Cacciola, altre Rita Atria che penseranno che la morte sia fonte di libertà.

Un riflettore dentro noi stressi

E la responsabilità morale di quella morte sarà anche la nostra. Mettiamo un riflettore sulle terre di frontiera, mettia-mo un riflettore su queste donne corag-giose che chiedono solo di vivere ed es-sere felici.

Mettiamo un riflettore dentro noi stessi e cerchiamo di capire tutti che parte pos-siamo fare. Anche piccola. Ma fare e agi-re anche con la paura di sbagliare, senza pregiudizio, pensando che ogni donna, ogni bambino e ogni uomo debbano ave-re almeno una opportunità nella vita di ribellarsi al proprio destino. E noi abbia-mo il dovere di aiutarli.

A Rita Atria hanno negato anche il fu-nerale e oggi risposa in pace a Partanna di Trapani. Sua madre e sua sorella, nel-l'indifferenza comune (amministrativa e sociale), non hanno ritenuto opportuno mettere neanche il nome sulla sua tomba. Maria Concetta Cacciola è stata seppelli-ta dai suoi carnefici. A tutti noi il compi-to di fare Memoria.

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Come la mafia ha abolito le regioni

La 'ndrangheta ei suoi refusi al nord

La relazione della DNA sfata diversi miti sulla mafia al nord. Che è una cosa seria, “mo-derna” e radicata, non sanguinario folklore

di Giulio Cavalli

Facciamo un patto. Ma facciamolo sul serio: decidiamo che non ci sia con-cesso di dimenticarci le parole già dette su mafie, cittadinanze e socialità giù al nord. Che non ci sia bisogno ogni volta di un ripasso generale prima di rico-minciare, che non è opportuno avere bi-sogno ad ogni giro di un riassunto delle puntate precedenti. Non per cominciare a dire qualcosa di scontatoma perché almeno non isoliamo i professori (cioè, quelli che professano valore), gli studio-si (quelli che analizzano prima di av-venturarsi nelle più disparate tesi) e i cittadini per vocazione (quelli che non sopravvivono, ma vivono a costo di far-si male per tutti gli spigoli che ci sono intorno).

Ogni giorno che si sfoglia un giornale (o un sito o un blog: sono lo stesso affac-ciarsi su finestre diverse della stessa stan-za) c'è un abbondanza di ridondandismi (non esiste ma rende bene l'idea) che di-stolgono dal punto e banalizzano per vani-ficare: le "infiltrazioni che stanno arrivan-do al Nord", gli imprenditori che "finisco-no per essere vittime senza accorgersene" o i politici "che non sapevano".

E allora ecco il perché del cappello ob-bligatorio a qualsiasi discorso o pezzo per riprendere le fila cominciando a smontare prima di avere il tempo e il terreno per montare un discorso che provi a guardare al presente e al futuro.

La relazione annuale della DNA sul fe-nomeno della 'ndrangheta è un pennarello blu sugli errori da non ripetere, una bac-chettata sulle dita.

Soldi, radicamento e struttura

Il quadro investigativo e processuale complessivamente considerato evidenzia inequivocabilmente che la ‘ndrangheta è caratterizzata non solo da una illimitata disponibilità finanziaria (derivante prin-cipalmente dal traffico di stupefacenti e dai lucrosi investimenti immobiliari e di imprese già rilevati ed evidenziati nella precedente relazione, ma anche da una allarmante e provata diffusione territoria-le che non conosce confini; le indagini di-spiegate negli ultimi anni denunciano una “presenza massiccia” nel territorio che non trova riscontro (rectius: possibilità di comparazione) nelle altre organizzazioni mafiose. L’organizzazione si avvale di mi-gliaia di affiliati che costituiscono pre-senze militari diffuse e capillari e al con-tempo strumento di acquisizione di con-senso, radicamento e controllo sociale.

Quindi basta con le ipotesi di brigantag-gio evoluto. Per favore, basta con le pro-iezioni di qualche rurale malfattore. A Mi-lano dalla Chiesa, Barbacetto, Portanova e tanti altri lo dicono da qualche decennio. Diamolo come concetto digerito.

Qui, lì, dappertutto

Le indagini dell’operazione Crimine 1 e Crimine 2 consentono di radicare, altre-sì, il fermo convincimento che il processo di internazionalizzazione dell’organizza-zione in parola è vieppiù progressivamen-te avanzato: alla presenza in terra stra-

niera di immigrati calabresi “fedeli alla casa madre” ed operativi (sul piano degli investimenti e del riciclaggio di profitti il-leciti) si è aggiunta una strutturale pre-senza (militare e strategica) di soggetti affiliati a “locali” formati ed operanti stabilmente in terra straniera che, fermo restando il doveroso ossequio alla “casa madre”, agiscono autonomamente secon-do i modelli propri dei locali calabresi autoctoni. Il disvelamento di organizzati locali in Germania, Svizzera, Canada ed Australia (si vedano gli arresti colà ese-guiti in esecuzione delle ordinanze Crimi-ne) conclama vieppiù detto processo di progressiva globalizzazione della ‘ndran-gheta che, da fenomeno disconosciuto (o, per meglio dire sottovalutato), può oggi essere considerata una vera e propria “holding mondiale del crimine”.

Siffatti mutamenti ontologici dell’orga-nizzazione in esame sono stati, indubbia-mente, favoriti ed accelerati dalla “nuova generazione” di ndranghetisti che, pur conservando il formale rispetto per le ar-caiche regole di affiliazione, oggi non sono solo in grado di interloquire con al-tre ed altre categorie sociali, ma anche di mettere a frutto le loro conoscenze infor-matiche, finanziarie e gli studi intrapresi.

Basta con il federalismo antimafia. Le regioni non esistono più sullo scacchiere delle 'ndrine. E' un federazione di luoghi oliata e perfetta. Il provincialismo (che è enormemente diverso dall'attenzione per i territori) antimafioso è un condono mora-le che lasciamo ai barbari sognanti.

Politica mafiosa, mafia politica

E’ bene, quindi, rilevare ed evidenziare che gli allarmanti (rectius: inquietanti) rapporti intrattenuti con rappresentanti delle istituzioni, con politici di alto rango, con imprenditori di rilevanza nazionale (disvelati da numerose indagini dispiega-te in varie regioni nel corso del periodo

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in esame) non sono soltanto frutto esclu-sivo del clima di intimidazione e della forza intrinseca del consorzio associativo, bensì il risultato di una progettualità stra-tegica di espansione e di occupazione economico-territoriale, che, oramai, si svolge su un piano assolutamente parita-rio; rapporti con istituzioni ed imprese volto ad intercettare flussi di denaro pub-blico, opportunità di profitti e, contestual-mente, ad innestare nel libero mercato fattori esterni devianti (di nitida deriva-zione criminale e d'inquinamento econo-mico), ma tendenti verso una nuova fase di legittimazione imprenditoriale e socia-le idonea a conferire un grado di “mime-tismo imprenditoriale” e ciò allo scopo di eludere le indagini patrimoniali ed as-sicurare, nel tempo, stabilità economica alle attività imprenditoriali.

Detto fenomeno è ancor più evidente nel nord ove la ‘ndrangheta opera in si-nergia con imprese autoctone o, in talune occasioni, dietro lo schermo di esse.

Nuova generazione di criminali

Esiste, a ben vedere, una nuova genera-zione di criminali calabresi che “si muo-vono a una velocità diversa rispetto alla tradizione dei giuramenti, dei riti e delle formule di affiliazione”.

L’intensa e straordinaria attività di in-dagine dispiegata dalla DDA di Reggio Calabria, Catanzaro, Milano, Roma e To-rino ha, vieppiù, evidenziato le “due na-ture” della ‘ndrangheta: l’una, quella mi-litare, volta all’acquisizione di poteri di controllo territoriale e sociale e, l’altra legata in modo indissolubile alla prima, la ‘ndrangheta “politica” ed imprenditri-ce che intesse rapporti con uomini politi-ci, favorisce ed agevola in modo interes-sato, “cariche politiche” ovvero instaura rapporti economici con realtà imprendi-toriali esistenti sul territorio al fine di fa-gocitarle e/o inglobarle.

Ndrangheta, politica e imprenditoria

non si incrociano per caso e non sono vit-time una dell'altra: convergono (c'è un bel libro di Nando dalla Chiesa che si intitola, indovina un po', “La Convergenza”).

Milano capitale della 'ndrangheta

Lo diceva già Vincenzo Macrì, sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia e lo ripete l'ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia:

I dati di un recente studio del Centro di ricerca della Università Cattolica indivi-duano nella città di Milano la “capitale economica del crimine organizzato”, la città ove operano “i manager delle co-sche”: il numero di beni immobili e mobi-li confiscati nonché di imprese mafiose operanti in vari settori (appalti pubblici, edilizia, movimento terra, turistico-alber-ghiero e ristorazione) in Lombardia con-clamano l’importanza della regione quale luogo eletto di reinvestimento di profitti illeciti delle organizzazioni criminali ita-liane ed il ruolo assolutamente egemone della ‘ndrangheta.

Chi nega o non ne vuole parlare è igno-rante e cretino.

L'antimafia si fa ovunque

Dice la Relazione della DNA che il grado di attenzione ed informazione sul-l’evoluzione del fenomeno ‘ndrangheta, sulla pericolosità di essa, sulla sua poten-za economica nonché sulla pervasiva pre-senza su tutto il territorio nazionale ha raggiunto, nel periodo in esame, livelli insperati e comunque idonei a rendere partecipe l’opinione pubblica della gravi-tà sociale ed economica dell’agire crimi-nale dell’organizzazione.

Orbene siffatto mutamento di rotta in-formativa non è da ricondurre soltanto all’eclatanza dei gesti intimidatori com-messi in danno di magistrati, professioni-sti, giornalisti (di cui si è detto sopra), ma anche, e soprattutto, a due diversi fatto-

ri: da un lato l’intensità del contrasto ed i “successi investigativi” e processuali che hanno dato corpo ad una palpabile pre-senza dello Stato e delle sue Istituzioni e, dall’altro lato, ad una “sorta di risveglio della coscienza civile”, ossia una marca-ta e consapevole presa di posizione civica che lascia intravedere l’inizio di una stre-nua lotta culturale ed etica volta al ri-scatto ed alla progressiva emarginazione del “cancro sociale” che ha attanagliato da decenni la Calabria.

Non solo i magistrati

Le numerose manifestazioni di solida-rietà a Magistrati ed alle instancabili Forze di Polizia, le iniziative culturali, i dibattiti di cui la stampa nazionale ha dato contezza e rilievo fanno intravedere la concreta possibilità di una presa di co-scienza collettiva che fa ben sperare per il futuro e, comunque, fanno intravedere un percorso di contrasto più articolato che si congiunge con quello tracciato dal-la Magistratura che non può essere dele-gata in modo esclusivo.

Ognuno fa la sua parte. Ognuno gioca il proprio ruolo senza timidezze e fanati-smi.

Gli errori in rosso

Queste le righe in blu e gli errori in ros-so che ci vengono riconsegnati. Così al-meno con più memoria si scrivono i pros-simi capitoli.

Non tanto perché sia un "compito in classe", almeno per non perdere troppo tempo a smentire le bugie e perché la 'ndrangheta su al nord è già più nazional-popolare nell'instillare la distrazione di un comizio leghista ben detto, ma se si rima-ne fermi sulla grammatica della memoria viene tutto più semplice. E perché come dice Piercamillo Davigo "è l'oblio dei mi-sfatti che lentamente consuma la libertà delle istituzioni".

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Milano

L'Expo è fermama gli appalti no

A che punto è il più grande evento impren-ditoriale (e politico) di Milano? Quali interessi si muovono, quali sono in attesa? L'eredi-tà Moratti pesa ancora sulla città. Ma la nuo-va classe dirigente po-trebbe correre di più

di Paolo Fior

“Il tempo gioca a nostro sfavore e i ritardi finora accumulati rischiano di trasformarsi in un formidabile cavallo di Troia nelle mani delle organizzazio-ni criminali”. Lo scrive la Direzione nazionale antimafia nella Relazione 2011 presentata al Parlamento poche settimane fa. In quelle pagine si rilan-cia l’allarme su Expo 2015: “V’è il ti-more che l’approssimarsi delle scaden-ze imposte dal Bureau di Expo 2015 possano imporre soluzioni accelerate e protocolli d’urgenza che potrebbero vanificare ogni possibilità di contrasto alle infiltrazioni criminali”.

Ecco, se vogliamo fare il punto su ciò che sta accadendo a Milano dobbiamo necessariamente partire da qui, dai ritar-di, e dalla fotografia per nulla tranquilliz-zante scattata dai magistrati della Dna, secondo cui non si registrano novità di rilievo sul fronte delle infiltrazioni “per effetto di una sostanziale paralisi delle attività progettuali e realizzative”.

In altre parole, l’Expo è ancora ferma ma la torta degli appalti è sempre lì e fa gola a molti.

Anche se il progetto ha perso molti pezzi rispetto alla versione originale con cui Milano ha ottenuto nel 2008 l’asse-gnazione dell’Esposizione universale dal Bie (Bureau international des Exposi-tion), stiamo pur sempre parlando di ol-tre 13 miliardi di investimenti diretti e indiretti che potrebbero generare un be-neficio economico per il territorio supe-riore ai 34 miliardi di euro con una crea-zione di circa 70mila nuovi posti di lavo-ro nell’arco di 5 anni. Queste almeno le stime attuali di Assolombarda, l’associa-zione degli industriali che fa capo a Con-findustria.

Discontinuità col passato

Per sgomberare il campo da possibili equivoci, va detto subito che la nuova amministrazione comunale guidata da Giuliano Pisapia ha ereditato i ritardi ac-cumulati dal centrodestra che fino allo scorso anno aveva tutte le leve del potere in mano (governo nazionale, regionale, provinciale e cittadino) e che è riuscito a

perdere oltre due anni in lotte al coltello per le poltrone senza fare nessun concre-to passo in avanti su Expo.

E va detto anche che la nuova ammini-strazione di Milano è riuscita finalmente a dare un forte segnale di discontinuità rispetto al passato con l’istituzione della Commissione antimafia cittadina, la cui nascita era stata apertamente osteggiata dal prefetto Gian Valerio Lombardi (lo stesso che nel gennaio 2010 aveva detto alla Commissione nazionale antimafia che “a Milano e in Lombardia la mafia non esiste”) e bloccata dal precedente sindaco Letizia Moratti e dalla sua mag-gioranza.

Il “Protocollo di legalità”

Detto questo, però, i problemi restano tutti sul tappeto. Di recente è stato final-mente siglato in prefettura il “Protocollo di legalità” che contiene le linee guida fissate dal Viminale per prevenire le in-filtrazioni mafiose in vista dei lavori per Expo e che prevede l’accentramento in Prefettura del rilascio di tutte le certifica-zioni antimafia per le aziende, anche se domiciliate fuori dalla Lombardia.

Tra i punti qualificanti dell’intesa, l’i-stituzione di una “white list” di imprese a cui i vincitori degli appalti potranno af-fidarsi con assoluta tranquillità.

Si tratta infatti di aziende che si aprono ai controlli antimafia dentro e fuori i can-tieri in modo molto più approfondito di quello previsto dalla legge e per questo vengono incluse in uno speciale elenco.

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Il protocollo accende un faro specifico sui subappalti, sul reclutamento della manodopera per prevenire il lavoro nero e sulla tracciabilità dei flussi finanziari.

E’ la premessa indispensabile per dare il via alle gare d’appalto che avrebbero dovuto svolgersi già più di un anno fa e che – di rinvio in rinvio – non sono anco-ra partite. E se la cittadella espositiva è in clamoroso ritardo, che dire delle infra-strutture principali che avrebbero dovuto essere pronte per il 2015?

Le opere accantonate

Diverse opere sono state accantonate, come la Linea 6 della metropolitana, al-tre rischiano di restare solo sulla carta e altre ancora – crisi finanziaria permetten-do – saranno pronte solo dopo l’Expo.

Lo si legge chiaramente nel Rapporto annuale dell’Osservatorio territoriale in-frastrutture che fa i conti in tasca ai can-tieri. Per il collegamento ferroviario di-retto tra l’aeroporto di Malpensa e il polo espositivo si prevede la costruzione di un terzo binario per 25 chilometri e la risi-stemazione del nodo ferroviario di Rho.

Mancano però all’appello 220 milioni, mentre altri 140 milioni (che non ci sono) servirebbero a collegare su rotaia i due terminal aeroportuali.

La Linea 4 del metrò

Se tutto andrà bene, per il 2015 della Linea 4 della metropolitana, quella che dovrebbe collegare l’aeroporto di Linate al centro, saranno pronte solo tre ferma-

te, mentre per il potenziamento delle al-tre linee mancano del tutto i fondi: per la linea Verde ci sono 6 milioni su 477; per la linea Gialla, 9 su 750.

Stiamo parlando di infrastrutture ne-cessarie non solo per l’Expo, ma per una metropoli moderna che dovrebbe investi-re sempre più sul trasporto collettivo e sull’efficienza dei collegamenti. Metro-poli che, se tutto andrà bene, dall’Expo dovrebbe guadagnare almeno la riqualifi-cazione della Darsena (l’antico porto mi-lanese), il ripristino di alcune vie d’acqua e una pista ciclabile di 21 chilometri che dai navigli porterà fino a Rho per un in-vestimento complessivo di 17 milioni di euro.

Tra le opere più controverse ci sono poi le nuove strade e autostrade. Sono opere indipendenti dall’Esposizione, ma per le quali l’evento avrebbe dovuto fun-gere da traino. E su queste infrastrutture su cui si concentrano forti interessi eco-nomici occorrerebbe di certo una mag-gior vigilanza.

La Milano-Brescia

Per il 2015 potrebbe essere pronta solo la cosiddetta Brebemi, ossia la Milano-Brescia, a patto che vengano disseque-strati i cantieri bloccati a fine novembre in seguito all’arresto di una decina di persone tra cui il vicepresidente della re-gione Lombardia, Franco Nicoli Cristia-ni, nell’ambito di un’inchiesta su corru-zione e traffico illecito di rifiuti: i cantie-ri sarebbero stati utilizzati per smaltire il-

legalmente rifiuti tossici, tra cui amianto, come sottofondo del manto stradale.

Quanto alla Tangenziale Est Esterna e alla Pedemontana, non ci sono i tempi e, soprattutto, i fondi. Colpa certo della cri-si economica che ha colpito duro l’intero progetto dell’Esposizione universale: dall’Orto planetario che avrebbe dovuto superare la vecchia formula dei padiglio-ni tradizionali, si è arrivati a una sorta di “Fiera campionaria” in grande: l’idea di un’Expo basata sull’agricoltura e sulla sostenibilità declinava benissimo il tema dell’esposizione (“Nutrire il pianeta, energia per la vita”), ma non sposava a sufficienza le ragioni commerciali.

La “cittadella digitale”

Di qui la decisione di ripiegare su una più ragionevole “cittadella digitale” che verrà realizzata su quel milione di metri quadrati acquistati a caro prezzo dalla so-cietà mista Regione-Comune: 200 milio-ni di euro, di cui poco meno di 50 sono andati ai privati e il grosso è stato pagato alla Fondazione Fiera che essendo pro-prietaria di buona parte di quell’area agricola ed essendo anche membro del comitato promotore di Expo ha provve-duto fin dal 2008 a rivalutare i terreni nel suo bilancio. Una scelta che non ha man-cato di sollevare un vespaio di polemi-che.

Fin qui la storia. Ma di ritardo in ritar-do, di taglio in taglio, cosa ne sarà di Expo? Il rischio non è tanto quello di un flop o dell’ennesima occasione sprecata,

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ma soprattutto quello che i due commis-sari Roberto Formigoni e Giuliano Pisa-pia, accampando ragioni d’urgenza, ini-zino a derogare dalle normative com’è loro potere. E’ già accaduto con la deci-sione di esentare dalla Valutazione di im-patto ambientale (Via) uno dei progetti più invasivi: la deviazione e la parziale copertura del torrente Guisa che attraver-sa l’area espositiva. Potrebbe accadere su altri, ancor più delicati fronti.

Cementificazione selvaggia

E’ proprio questo il rischio paventato dalla Direzione nazionale antimafia e an-che da associazioni come Legambiente e Wwf che temono come l’Expo, perdendo la sua connotazione originaria caratteriz-zata da scelte a “impatto zero”, traspa-renza e sostenibilità, finisca con il lascia-re in eredità scempi ambientali e cemen-tificazione selvaggia.

Come dargli torto, visto che ancora non si sa nulla circa la destinazione post 2015 dell’area espositiva e che al mo-mento l’unica certezza è che, grazie a Formigoni, con la scusa dell’Expo si

darà mano libera alla speculazione sel-vaggia su Milano e sulla Lombardia.

Il testo del piano casa lombardo che sta per essere approvato dalla commissione regionale, infatti, sancisce un vero e pro-prio far west: gli alberghi potranno esse-re ampliati quasi a piacimento, le volu-metrie dei capannoni industriali potranno essere aumentate di un 10% anche in de-roga alle normative urbanistiche, mentre potranno essere cedute o trasferite volu-metrie su aree sia pubbliche sia private senza il consenso dei Comuni.

La lobby dei costruttori

Oltre al recupero dei sottotetti trasfor-mabili in abitazioni, il piano prevede an-che la possibilità di abbattere un edificio e ricostruirlo più alto del 30%.

L’unica speranza è che la bozza venga pesantemente emendata, ma la lobby dei costruttori è molto potente sia in Regione sia a Milano, come dimostra la contro-versa nomina del presidente dei costrut-tori, Claudio De Albertis, alla presidenza della Triennale, una delle più prestigiose istituzioni culturali milanesi.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 18– pag. 18

Mafie al nord

Bolognadel riciclo

A Bologna non si spara ma si ricicla tanto anche se per molti, ancora, la mafia è un problema degli altri. Niente “coppo-la e lupara” ma tanti soldi, una barca di soldi da “pulire” e da investire. Pochi ne parlano, ma mafia qui è arrivata ormai da cinquant’anni, con la legge sul soggiorno obbligato.

Giusto nelle settimane scorse il presi-dente di Confindustria Emilia Romagna, Gaetano Maccaferri, aveva parlato di una situazione regionale assolutamente sotto controllo e “sana”. "Non abbiamo di que-sti problemi. Le infiltrazioni mafiose o il pericolo mafia non sono all'ordine del giorno. E non ci sono mai state, finora, perché non abbiamo mai avuto di questi problemi".

La verità è che le attività svolte dalle mafie a Bologna sono le stesse di quelle svolte a Palermo, Napoli o Reggio Cala-bria. Attività evolute nel tempo, adattate alla realtà sociale, fonte di ingenti guada-gni. Dal traffico di armi alla droga, gli appalti, le bische, il giro della prostitu-zione, il “pizzo” che qui a Bologna si chiama “imposizione dei propri pro-dotti”. E vogliamo parlare del fenomeno dei “compro oro”, proliferati come i fun-ghi? Sono più di quaranta.

Abbiamo assistito alla chiusura di ri-storanti e pizzerie, di negozi in pieno centro, addirittura nella scorsa primavera sono stati messi i sigilli antimafia alla fa-mosa pizzeria “Regina Margherita”, sot-toposta a sequestro preventivo su ordine della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Ventidue tra aziende e beni im-mobili confiscati, latitanti arrestati, ‘ndranghetisti, casalesi, Cosa nostra e mafie straniere. Ma a Bologna si parla ancora di “infiltrazione” e non di radica-mento.

In questo quadro generale il Comune lavora ad un osservatorio per la legalità e ci si appresta all’apertura di una sezione della Direzione Investigativa Antimafia.

Durante l'inaugurazione dell'anno giu-diziario il Pg di Bologna Ledonne ha lan-ciato l’allarme: “La criminalità organiz-zata in Emilia Romagna continua a far affari e vive una delle situazioni ideali: la pax mafiosa”.

Salvo Ognibenewww.diecieventicinque.it

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Società civile

La meglio gioventùStorie dalla Milanoche studiaNon si può dire che la vecchia generazione di professionisti e studio-si abbia assolto al suo dovere di proteggere dall'assalto mafioso il Paese, specialmente al Nord. Perciò toccherà ai giovani. Ce la faran-no?

di Martina Mazzeo www.stampoantimafioso.it

Metti una sera in una Facoltà del-l’Università Statale di Milano. Metti una motivazione a sfidare la temperat-ura sotto zero, un freddo che fa tremare, di quelle che promettono di rinvigorire più del vin brulè in piazza. Prendi il tutto e ottieni “La Meglio Gioventù”. Sotto gli auspici e l’entu-siasmo del Preside, il Prof. Daniele Checchi, orgoglioso che la Facoltà sia tornata ad essere un “luogo di coscien-za civile”, Scienze Politiche apre le porte – o meglio, eccezionalmente le tiene aperte – per un evento promosso e organizzato dal professor Nando dal-la Chiesa e dal Dipartimento di Studi Sociali e Politici.

“La Meglio Gioventù” significa premiare le migliori tesi di Sociologia del-la criminalità organizzata prodotte nelle sessioni di laurea del 2011. Quarantuno la-vori di ricerca, quarantuno volti, quarantu-no storie di caffè nero la notte e grattacapi senza tregua. La Sala Lauree gremita è lì per applaudire i risultati di quei quarantun-o “studenti e studiosi” che con il loro im-pegno si fanno ogni giorno “promotori at-tivi di consapevolezza”, portando la loro determinazione scientifica e civile nelle loro realtà locali e dandosi pervicacemente da fare per organizzare eventi pubblici in cui denunciare il radicamento mafioso nei loro territori.

Quarantuno “studenti e studiosi”

“Alcuni diventano esperti e la qualità delle loro conoscenze gira l’Italia”, assicu-ra dalla Chiesa, che di tutte queste storie è motivatore e di tutte queste tesi relatore. L’evento di ieri sera celebra, di riflesso, la ritrovata sinergia tra università e società civile, ne svela il riscoperto dialogo, ne esalta la vitalità rimasta per anni latente.

E le nove tesi presentate delle quarantu-no premiate (con libri messi a disposizione dalle case editrici Melampo e Chiare Let-tere) testimoniano esattamente questo: guai a parlare degli studenti come di spu-gne acritiche e inconcludenti. E basta par-lare dell’università come fosse l’anticame-ra della disoccupazione. Investire energie nei propri studi e investire i propri studi nel sociale e nell’impegno civile a partire dal proprio territorio paga.

Laureati a pieni voti

“Con la cultura non si mangia”, diceva un tale. Non ci si abbuffa come certi pa-

rassiti statali, questo è sicuro, ma altret-tanto certo è che può garantire un guada-gno dignitoso – molte delle quarantuno tesi si tradurranno in progetti editoriali per riviste del settore, non solo italiane – oltre che una vita ricca di quel bene pre-zioso che si chiama soddisfazione.

E chi ha assistito alla presentazione dei lavori di ricerca non ha visto altro che soddisfazione sui volti di quegli studenti, tutti laureati in corso a pieni voti e in gran parte lavoratori part o full time.

Ragionevolmente il senatore Antonino Caruso, membro milanese della Com-missione Parlamentare Antimafia, si dice “impressionato dalle illustrazioni appas-sionate”.

E ha tutti i motivi anche Basilio Rizzo, Presidente del Consiglio Comunale di Milano, per definire “fondamentale il ruolo del sapere” tanto da auspicare un costruttivo “rapporto tra studenti e am-ministrazione” comunale. Quel sapere che ha il colore della “assunzione di re-sponsabilità”.

“Siete voi che insegnate”

“Siete voi che insegnate delle cose a noi”. I soliti occhi chiusi di don Luigi Ciotti che parlano. E denunciano che “l’ultimo codice antimafia è fitto di tra-nelli e contraddizioni” che ostacolano la vera lotta contro la mafia.

La vera lotta per l’alternativa, che ieri sera portava i nomi di quarantuno stu-denti e studentesse, “persone innamorate della vita e lontane dai compromessi”, persone “disposte a crederci” ogni giorno nel valore di quella “ricerca e cultura che arricchisce tutti noi”. E allora evviva tutti loro. Evviva questa Milano che studia.

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accadrà ieri . . . . . . REWINDa cura di

Francesco Feola

Si dimette in tvIL PREMIER DELLA ROMANIA

Il 6 febbraio si dimette in diretta tv il premier romeno Emil Boc. Sono state decisive le proteste che da metà gennaio hanno coinvolto migliaia di cittadini, scesi in piazza contro il piano di austerità e di privatizzazioni deciso dal governo. Le manifestazioni hanno coinvolto più di 40 città e provocato decine di feriti.

Governo-bombaSIRIA: 50 CIVILI UCCISI

Nello stesso giorno in Siria le truppe governative bombardano la città di Homs, considerata la roccaforte dei ribel-li al regime di Bashar al-Assad. Sono 50 i civili uccisi. Molti altri moriranno nei bombardamenti dei giorni successivi.

AnonymusCONTRO IL TIRANNO

Il 7 febbraio il gruppo hacker Anony-mous rende pubbliche le email tra il pre-sidente siriano Bashar al-Assad e il suo staff. Viene anche svelata la password di molti account governativi, tra cui quello del ministro degli affari presidenziali e quello dell’ufficio stampa di Assad. La sequenza è banale: 12345.

AnonymousCHIEDE IL PIZZO

Qualche giorno dopo un gruppo di hacker indiani, che sostengono di essere affiliati ad Anonymous, fa sapere di aver rubato il codice sorgente di due program-mi di Symantec, noto produttore di anti-virus. Gli hacker pubblicano le email di Symantec, in cui l’azienda si dice dispo-sta a pagare 50.000 dollari in cambio dei codici.

Il poliziottoSI RIBELLA

Intanto alle Maldive il presidente Mo-hamed Nasheed si dimette dopo che le forze di polizia hanno occupato la televi-sione di stato chiedendo alla popolazione di ribellarsi. Al suo posto subentra il vi-cepresidente Mohammed Waheed Has-san. Il portavoce del ministero del turi-smo informa che gli stranieri in vacanza alle Maldive non verranno coinvolti in alcun modo dalla crisi politica in corso.

Il demosPERDE LA PAZIENZA

Il 10 febbraio il governo greco approva il pacchetto di misure di austerità richie-ste dall’Unione Europea, dal Fondo mo-netario internazionale e dalla Banca cen-trale europea in cambio del nuovo piano di salvataggio. Due giorni dopo il parla-mento darà il suo voto favorevole, men-tre in piazza decine di migliaia di perso-ne manifesteranno la loro rabbia scon-trandosi con la polizia.

Vietato uccidereI LAVORATORI

Lunedì 13 arriva a Torino la sentenza del processo Eternit: l’imprenditore sviz-zero Stephan Schmidheiny e il belga Louis De Cartier De Marchienne vengo-no riconosciuti colpevoli di disastro do-loso e omissione dolosa di misure antin-fortunistiche, e condannati a 16 anni di reclusione. La condanna riguarda i reati commessi negli stabilimenti piemontesi di Casale e Cavagnolo dall’agosto 1999 in avanti, mentre quelli

precedenti - contestati negli stabilimenti di Bagnoli (Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia) - risultano prescritti. Lunghissimo l’elenco dei risarcimenti: si è calcolato che fino al 5 ottobre del 2011 siano state 1830 le persone decedute a causa dei danni provocati dalla lavorazione dell’amianto.

I danniDELLA MONSANTO

Nelle stesse ore a Lione un giudice condanna la Monsanto, la multinazionale statunitense che produce pesticidi e altri prodotti agricoli, ritenendola responsabi-le dei danni neurologici subiti da un con-tadino francese, ammalatosi per aver usa-to il diserbante Lasso. È la prima volta che una multinazionale viene condannata per i danni provocati dai propri prodotti, ma si calcola che nella sola Francia, dal 1986 a oggi, vi siano 200 casi sospetti al-l’anno.

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FORWARD . . . . accadde domani

Primo marzoFESTA DI (TUTTI) I LAVORATORI

Anche quest’anno il primo marzo i la-voratori immigrati sciopereranno insieme ai lavoratori italiani per chiedere l’abro-gazione della legge Bossi-Fini, la chiusu-ra dei Cie, la cittadinanza immediata per i bambini nati in Italia da genitori stra-nieri, la regolarizzazione generale di tutti coloro che non hanno il permesso di sog-giorno.

FiomDIFENDE LO STATUTO

Il 9 marzo sciopereranno invece i me-talmeccanici della Fiom per difendere l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e protestare contro gli accordi separati del-la Fiat, che hanno cancellato nel gruppo il contratto nazionale metalmeccanici.

FirenzeNO-TAV DI TUTTA EUROPAIl 3 e 4 marzo a Firenze il Comitato contro il sottoattraversamento Tav di Fi-renze organizza, presso il Saloncino del Dopolavoro ferroviario di via Alamanni 6, un convegno sulle grandi opere pub-bliche. L’obiettivo è quello di collegare i movimenti che in tutta Europa si oppon-gono alla realizzazione di grandi infra-strutture, che distruggono i territori senza produrre crescita.info: [email protected], http://no-tavfirenze.blogspot.com

MarsigliaFORUM MONDIALE DELL'ACQUA

Dal 14 al 17 marzo a Marsiglia si terrà il Forum alternativo mondiale dell’ac-qua, che vedrà la partecipazione di tutti quei movimenti della società civile che lottano per sottrarre alle imprese private la gestione dell’acqua. Finora hanno dato la loro adesione 118 associazioni di 40 paesi diversi.info: http://www.fame2012.org/it/

PadovaLO SCHERMO PRIGIONIERO

Si terrà a Padova, dal 23 febbraio al 22 marzo, la rassegna cinematografica “Ja-far Panahi, lo schermo prigioniero”, de-dicata al regista iraniano condannato a sei anni di carcere e al divieto di dirigere film per 20 anni per aver preso parte alle manifestazioni di protesta contro il regi-me di Ahmadinejad nel marzo del 2010. Saranno proiettati cinque suoi lavori, dal film d’esordio, Il palloncino bianco, al recente Offside.info: www.cinemainvisibile.info

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L'antico liberty catanese

La città va a fondoe il relitto eccolo qua

Catania com’era e com’è. Esattamente uguale a se stessa. La continuità del de-grado urbanistico eccola lì materializzata e immobile da trent’anni, nel bel centro di corso Italia. E’ come se la Costa Con-cordia, da qui al 2042, fosse lasciata a dar mostra ddi sé con la pancia coricata davanti al porto del Giglio.

Ma qui parliamo del naufragio di un elegante palazzo. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, gli anni in cui il giornalista Giuseppe Fava veni-va ucciso in una traversa dello stesso via-le due chilometri più su, maturava questo piccolo, simbolico delitto urbanistico nel cuore borghese della città.

Nel silenzio collettivo più assoluto. Che perdura, assordante, finoggi. Come molti dei delitti compiuti tra queste stra-de.

Un monumento al degrado

Protagonista della storia è Villa Bona-iuto, diventata un monumento vivente del degrado estetico della città. Non si può non vederla, sventrata e impudica; mostra le sue ferite senza vergogna.

Ma nessuno sembra vederla più. Fa parte del panorama così com’è, per metà sbriciolata.

La sua storia racconta l’abbrutimento di una collettività più di un intero quar-tiere abusivo, proprio perché quel mon-cherino di un antico palazzetto liberty fa spudoratamente mostra di sé in pieno centro storico, su uno dei viali dove la gente passeggia e fa shopping. Distratta e rassegnata a convivere anche con quel moncherino di città.

L’edificio storico in questione sangui-na per l’aggressione a colpi di ruspe che ha subito tre decenni or sono e sanguina perché nessuna autorità ha mai fatto nul-la per evitare e poi coprire la vergogna di quella ferita. Sembra un paziente capitato nell’ospedale sbagliato, sotto i ferri di un chirurgo senza capacità e coscienza. Gli hanno amputato un braccio senza ragione e poi lo hanno lasciato lì, a marcire in corsia, senza neanche suturare il mon-cherino.

Una storia di ordinaria mala-urbanisti-ca, tra vizi privati e pubbliche distrazio-ni.

Catene di ferro tengono in piedi quel

relitto di villa Bonaiuto, ma la ruggine e alcuni rampicanti su quell’imbracatura metallica rendono ancora più grottesca la visione.

La gente passa accanto a quella villa amputata, la guarda sbriciolata a metà, osserva gli interni di quello che fu un sa-lotto borghese e commisera l’intera città. Come se fosse un monumento ai caduti della civiltà urbana.

Architettura liberty

E invece no. Questo non è un monu-mento commemorativo. Villa Bonaiuto è, anzi era, un pregevole esempio di archi-tettura liberty. A Palermo e a Catania gli anni Venti e Trenta del secolo scorso fu-rono una stagione artistica importante, grazie a una generazione di architetti con la testa e la passione rivolti a modelli eu-ropei.

La villa era stata costruita nel 1934, dall’architetto Paolo Lanzirotti. In base a una legge sulla tutela del patrimonio ur-banistico è vietato abbattere edifici di pregio storico-artistico costruiti da più di cinquant’anni.

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Nel centro di Catania sorge un relitto. Non è la Costa Concordia, ma è l'emblema di un naufragio equivalente. E' l'antica nobile Villa Bonaiuto, vandalizzata dalle ruspe e abbandonata al degrado in piena vista della città

di Max Vacirca

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“Senza pudore.Senza passato

né futuro”

I proprietari della villa e un’impresa locale avevano agito per tempo, ben pri-ma della scadenza che avrebbe impedito lo scempio: nel 1977 avevano chiesto al Comune l’autorizzazione a demolirla, per edificare al suo posto un palazzone simile a quelli che circondano villa Bo-naiuto, unica sopravvissuta agli anni del-la speculazione selvaggia degli anni Ses-santa.

La giunta presieduta dal sindaco Salva-tore Coco – la stessa dello scandalo della refezione scolastica che fu la prima (e ante litteram) amministrazione comunale italiana a finire dentro un processo per Tangentopoli – aveva concesso l’autoriz-zazione. ma quei lavori non avevano il nulla osta della Sovrintendenza, contraria alla demolizione e dunque subito pronta a mettere un vincolo e a fare un primo ri-corso alla giustizia amministrativa.

Sei anni dopo e passata molta carta bollata, nel 1983, il Tar dà torto alla So-vrintendenza e ragione ai privati che ri-presentano una nuova istanza: visto che non era ancora passato mezzo secolo, ma “solo” 49 anni – questo il senso di quella sentenza che accolse il ricorso dell’im-presa edile – la villa si può demolire.

I tempi della giustizia amministrativa – si sa – sono lunghi e nel frattempo corro-no i mesi, siamo al 1984, l’anno dell’as-

sassinio Fava, l’anno in cui scade il mez-zo secolo ed entra in vigore il divieto di demolire, ma nessuno sospende l’inter-vento delle ruspe.

La Sovrintendenza insiste e – non avendolo fatto per i decenni precedenti - mette un nuovo vincolo paesaggistico, considerando la villa parte del patrimo-nio di verde privato vincolato. Nuovo ri-corso di proprietari e impresa e, nel mag-gio 1985, nuova bocciatura del consiglio di giustizia amministrativa, l’appello del-la giustizia amministrativa.

Entrano in azione le ruspe

La mattina del 5 giugno 1985 entrano in azione le ruspe. Non autorizzate allo scempio, abbattono un quarto di villa e un patio interno. Ma riescono a fare il la-voro solo a metà.

Quel giorno, nella vicina caserma del comando provinciale dei carabinieri, le autorità locali celebravano il rito del 171° anniversario della fondazione del-l’Arma. Un fotografo, arrivato in caserma per fare qualche scatto sulla cerimonia, racconta a un amico quanto aveva visto poco prima a meno di un chilometro sullo stesso viale, giù verso il mare: «Le ruspe si stanno mangiando

Villa Bonaiuto».Un giovane “pretore d’assalto” dell’e-

poca, Renato Papa, presente alla cerimo-nia in onore dei carabinieri, ascolta quel-la conversazione e corre di persona a dare un’occhiata. Poi, torna in ufficio e interviene. Ordina sigilli e fine della de-molizione.

Ma è tardi, la violenza è consumata, la villa deturpata per sempre, destinata a re-stare lì per i decenni successivi. Deturpa-ta e abbandonata. Quando i vigili arriva-no con in mano l’ordinanza di stop alle ruspe, un quarto di villa è già demolito.

Solo negli anni successivi, la Regione interverrà e porrà vincoli. Solo davanti al relitto di quel monumento liberty a Cata-nia le autorità porranno vincoli e faranno piani urbanistici per tutelarla.

Ma la tutela, da trenta e più anni, ri-guarda uno scempio avvenuto. La villa smozzicata sta lì, congelata nella sua di-struzione.

La villa Bonaiuto mostra al mondo cir-costante quanto sia inutile, qui, pensare alla tutela della bellezza e della storia co-mune. Almeno mentre quella bellezza esiste e prima che sia ferita.

Qui la storia (e la sua bellezza) si rade al suolo con le ruspe. E i ruderi si espon-gono senza pudore. Senza passato né fu-turo.

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Mafia/ Le nuove rotte

L'asse Vittoria-Fondi/ Visto da sud

Il mercato ortofruttico-lo di Vittoria ha sem-pre garantito due cer-tezze per i ragusani: soldi e malaffare

di Giorgio Ruta Il Clandestino

Il vaso di Pandora è stato scoper-chiato dalla Guardia di Finanza di Ra-gusa che in due anni di attività ha con-trollato e ricontrollato cifre, nomi, sto-rie. Si è messo il bastone tra gli ingra-naggi di un meccanismo consolidato e perverso. Gli uomini guidati dal Col. Francesco Fallica, il primo febbraio, hanno denunciato 74 operatori e sco-vato 18 milioni di euro di evasione fi-scale, in quella che è stata battezzata operazione “Right price”. Quello che è venuto fuori è sconvolgente, se pur so-spettato. Un sistema basato sull'illega-lità e sul caos. Il mercato di Via Fanel-lo sembra essere una zona franca.

Sessantacinque persone sono state de-nunciate per rialzo fraudolento dei prezzi, 63 per truffa, 41 per turbata liber-tà degli incanti, 8 per abuso d'ufficio, 3 per peculato, 2 per favoreggiamento rea-le, 1 falso in scrittura privata, 1 per ban-carotta fraudolenta.

A saltare agli occhi è un dato: oltre 27.000 kg di ortaggi provenienti dalla Tunisia sono stati spacciati per locali. Un danno enorme alla credibilità della pro-duzione locale, già in forte difficoltà.

La doppia attività

Ma il punto nevralgico dell'indagine delle Fiamme gialle ragusane è un altro: la doppia attività. Alcuni commissionari - gli intermediari tra i produttori e la gran-de distribuzione - non si limitavano al la-voro di tramite intascando il 10% previ-sto di commissione.

Spesso il commissionario era al tempo stesso acquirente, snaturando illegalmen-te le logiche del mercato e mettendo in ginocchio i produttori costretti a vendere a prezzi talvolta umilianti. E proprio gli agricoltori sono stati i primi ad esultare dopo l'operazione.

Secondo dati Cia con la doppia attività sarebbe stato sottratto ai produttori una somma che si stima tra i 250 e 300 milioni di euro.

Non c'è stata tregua per gli operatori del mercato ortofrutticolo più grande del meridione. Infatti, le fiamme gialle, su disposizione del Procuratore di Ragusa Carmelo Petralia, il 10 febbraio, all'alba,

hanno di nuovo varcato i cancelli della struttura ed hanno sequestrato 15 box, sempre nell'ambito dell'operazione “Right price”. Qualche giorno dopo sono stati dissequestrati 5 box.

La città trema e la politica cerca di non esser travolta dall'onda.

Al mercato di Vittoria, sono presenti 74 box, e ogni hanno girano centinaia e centinai di milioni. La struttura oggi è gestita dal Comune dopo un lungo con-tenzioso con la Regione Sicilia.

Anno dopo anno, anomalia dopo ano-malia, si è capito che l'unica soluzione per avere un po' di trasparenza fosse cambiare la gestione. Tra gli obiettivi del sindaco Pd, Giuseppe Nicosia - ormai al secondo mandato - c'è pure quello di affi-dare la gestione del mercato ad una srl. Già due anni fa sembrava tutto pronto: la società è costituita ma mai entrata in fun-zione.

Cambiare la gestione

Peppe Cannella, ex consigliere comu-nale di Rifondazione Comunista, ci ave-va visto bene ed oggi dichiara: “più e più volte, proprio il sindaco ha condiviso e fatto sue le nostre denunce politiche ma non sono seguiti i fatti. Si deve capire da subito quale ruolo deve avere la politica di questa città. Subire in silenzio limitan-dosi ai complimenti per il lavoro svolto da altri, oppure aprire un confronto che porti in tempi brevi ad una profondo cambiamento del Mercato? Per noi non si può continuare a far finta di nulla”.

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“Uominicon pesantiprecedenti

penali”

Intanto, a seguito dell'operazione della Finanza qualcosa si è mosso: è stato ap-provato il regolamento per l'affidamento delle licenze ai commissionari. Per molti è ancora poco: “va cambiato il regola-mento generale che risale al '71”.

Subito dopo l'operazione Rosario Lo Monaco, assessore con delega al mercato al Comune di Vittoria afferma: “Il comu-ne ha approvato il bando per la verifica triennale delle concessioni al mercato e per l’attribuzione di nuove concessioni. Ora, cominceremo ad occuparci del rego-lamento del mercato, che risale al 1971”.

Molto più di un'ombra

Ma il mercato di Vittoria non è solo poche regole e furbetti. È molto di più. Qui la mafia è molto più che un'ombra. E la Guardia di Finanza lo ha capito e an-nuncia un coordinamento con il servizio Centrale Investigazione Criminalità Or-ganizzata di Roma. Non è sulla stessa lunghezza d'onda Filippo Giombarresi, che rappresenta i commissionari: “Vor-remmo chiarire, una volta per tutte, che i concessionari di Vittoria nulla hanno a che fare con la mafia, come si vorrebbe far credere, anzi sono per la legalità e so-prattutto per il lavoro”.

L'interesse della criminalità

L'interesse della criminalità organizza-ta non può che essere forte in un mercato che conta 74 commissionari e un giro di

affari annuo di centinaia e centinaia di milioni di euro.

L'Operazione Sud Pontino della Dda di Napoli, per ultima, ha collegato i tasselli del potere mafioso nel settore ortofrutti-colo.

Joint venture mafiosa

Una vera e propria joint venture mafio-sa si è formata tra le cassette di ortaggi. Camorra, Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Stidda si sono spartite il settore a suon di minacce e soldi. Ad avere un ruolo prin-cipale la Camorra che con la Paganese Trasporti controllava gran parte del tra-sporto della merce tra i mercati.

L'operazione della Dda di Napoli ha coinvolto pure il Mercato di Vittoria. In alcune intercettazioni è emerso il ruolo di una delle agenzie di trasporto più grande che operano all'interno della struttura commerciale ragusana, la Sud Express dei Di Martino.

Una telefonata

In una telefonata, del dicembre 2008, Costantino Pagano, titolare della Pagane-se, uomo dei Schiavone, ordina ad un suo uomo di entrare nel mercato vittorie-se con un accordo con la ditta locale. “...Tu devi fare il padrone del camion dentro l'agenzia Di Martino... questi ci tengono a te? …fai il padrone del ca-mion...”. Qualche giorno più avanti la ri-sposta: affare fatto.

I Di Martino hanno un passato opaco.

Secondo Carmelo Barbieri, una doppia vita da professore di educazione fisica e da picciotto - oggi pentito - i Di Martino si appoggiavano ad ambienti vicini a Stidda e Cosa Nostra, a seconda della maggiore influenza dei due gruppi nel vittoriese.

Sul versante trasporti

Ma sul versante trasporti non c'è solo la Sud Express a far sorgere qualche in-terrogativo. Sono numerose le ditte che contano all'interno soggetti che in passa-to sono stati ritenuti vicini agli ambienti mafiosi. Per esempio la Tutto Trasporti amministrata dalla compagna di Raffaele Giudice ritenuto in passato, dal Tribunale di Ragusa, interno al clan “Dominante Carbonaro”. Così come tranquillamente girano all'interno del mercato e delle agenzie uomini con precedenti penali pe-santi e parenti di mafiosi.

Infettato il mercato

Dai trasporti all'imballaggio il discorso non cambia. Il sospetto di molti è che at-traverso l'imposizione di alcune ditte si paghi il pizzo.

Intanto una riunione della Dda a Cata-nia ha discusso del “caso Vittoria”. Dai presenti nessuna dichiarazione ma non si esclude che oggetto della discussione sia-no stati personaggi mafiosi e meccanismi criminali che hanno infettato il mercato ortofrutticolo più grande del meridione.

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Mafia/ Le nuove rotte

L'asse Vittoria-Fondi/ Visto da nord

Il viaggio in treno per il Mercato Ortofrutti-colo di Fondi sarebbe di sola andata. Accan-to al gigante verde, si fermano due binari morti ultimati agli inizi degli anni ’80

di Maria Sole Galeazzi

I binari servivano per incrementare il trasporto su rotaia delle tonnellate e tonnellate di prodotti ortofrutticoli.

L’equazione è semplice, con i treni i costi si sarebbero abbattuti così come i livelli di inquinamento dovuti al tra-sporto su gomma. Fin qui tutto quadra anche in considerazione del fatto che il socio pubblico nonché di maggioranza del Mof, è la Regione Lazio. I lavori vengono ultimati, ma da allora all’in-terno del mercato i treni merci non sono mai passati. Ne parliamo con il referente regionale di Libera Lazio Antonio Turri.

- In questi anni al mercato ortofrut-ticolo di Fondi è entrato di tutto tran-ne che i treni, perché?

“Dal punto di vista tecnico perché po-che decine di metri di rete metallica im-pediscono l’accesso ai treni merce che dovrebbero trasportare i prodotti orto-frutticoli che vengono commercializzati in un’area strategica quella del Mof di Fondi che unisce sud, centro e nord Italia ed apre le rotte per i mercati europei.

Ma non sono certamente queste supe-rabilissime cause tecniche ad impedire l’accesso ai treni. Fondi e il mercato or-tofrutticolo sono stati e rimangono una sorta di laboratorio dove le mafie tradi-zionali italiane una volta infiltratesi nel settore del commercio dell’agro alimen-tare hanno contaminato pesantemente pezzi di economia, di politica e di crimi-nalità locale.

Nei fatti quei treni non entrano e non entreranno mai fino a quando la Quinta Mafia, non lo riterrà opportuno”.

La quinta mafia

Circa trent’anni che segnano giorno dopo giorno il fallimento di quello che allora poteva essere un riuscito progetto economico, un treno, è proprio il caso di dirlo che per il Mof non passerà mai.

- Ma comunque qualcosa in movi-mento c’è, un soggetto nuovo che pia-no piano si definisce e che Libera chia-ma oggi la Quinta Mafia. Di cosa stia-mo parlando?

“La Quinta Mafia – continua Turri -

rappresenta l’evoluzione del sistema ma-fioso e cioè un mix esplosivo composto dalle mafie tradizionali ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra capaci di contaminare la criminalità autoctona, pezzi dell’eco-nomia e della politica al di sopra del con-fine geografico fino agli anni ’80 rappre-sentato dal fiume Garigliano che segnava il confine tra la Campania prima regione del meridione e l’Italia del centro- nord.

Armi e droga fra gli ortaggi

È questa joint-venture criminale che ha ritenuto conveniente e meno rischioso fare viaggiare armi e droga celati tra gli ortaggi e la frutta sulle migliaia di tir che annualmente partono o fanno scalo dal Mof. Del resto sarebbe stato impensabile organizzare i traffici illeciti utilizzando i treni delle Ferrovie dello Stato”.

L’operazione condotta nel 2010 dalla Dia di Napoli denominata Sud Pontino, partendo proprio dal mercato ortofrutti-colo di Fondi dimostra non solo quanto sia saldo l’asse camorra - ‘ndrangheta - mafia nella gestione del trasporto dei prodotti ortofrutticoli su gomma e nel commercio di armi e sostanze stupefa-centi, ma anche come emergano dal giro famiglie autoctone, laziali, dai ruoli tut-t’altro che secondari.

Armi e droga fra gli ortaggi

C’è però una svolta. La Mof spa di-chiara che “la dirigenza e i suoi operatori

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“Il mancatoscioglimentodel Consiglio

comunale”

costituiscono il primo baluardo di con-trasto contro tentativo di infiltrazione criminosa nel suo tessuto sano”, e si co-stituisce parte civile nel processo Sud Pontino.

Il Mof legittimamente reagisce ma con un precedente che fa comunque om-bra.

Il silenzio per un'altra inchiesta

Ovvero il silenzio per un’altra inchie-sta, la Damasco 2, quella nota ai più per la vicenda del mancato scioglimento del consiglio comunale di Fondi.

Il processo inizia il 20 ottobre 2010, le parti civili vengono ammesse ma il Mof, da più parti chiamato in causa, comun-que non si fa avanti.

- La pressione mediatica sale e supe-ra anche i confini nazionali, l’immagi-ne del Mof non viene di certo lesa meno che per l’operazione Sud Ponti-no. Perché la costituzione di parte ci-vile non arriva?

“Penso siano fortemente significative le risultanze della commissione di ac-cesso nominata dall’allora Prefetto di Latina Bruno Frattasi – spiega Turri – in cui si evincevano senza ombra di dubbio le connessioni tra famiglie della ‘ndrangheta, della camorra casertana e di cosa nostra legate anche per via parentale ad elementi di spicco della criminalità organizzata del basso Lazio, a loro sono legate a figure di vertice del Comune di Fondi, nonché, come si legge negli atti redatti dagli ufficiali di polizia giudiziaria che componevano

quella commissione “a titolari di attività commerciali pienamente inserite nel mercato ortofrutticolo di Fondì”.

La sentenza di primo grado

Tutto questo trova anche un riscontro giudiziario nella sentenza di primo gra-do recentemente emessa per il processo cosiddetto Damasco 2.

Tra gli imputati ce ne sono sette con-dannati per associazione a delinquere di stampo mafioso o delitti ad esso collega-ti e tra questi ben cinque sono politici, o imprenditori nati e da sempre residenti nella regione Lazio.

Infiltrate e radicate

Questo a dimostrazione di come le mafie una volta infiltratesi e radicatesi su altri territori siano capaci di contami-nare”.

Le vie del commercio sono rimaste chiuse per i treni, sono state aperte per migliaia di camion, poi c’è un terzo tra-gitto, quello scelto dai clan per arrivare sulle tavole delle famiglie italiane. E non è una questione di gusti.

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Strage di via D'Amelio

Depistaggiodi Stato?

Dietro la richiesta di revisione del processo per l'assassinio di Pao-lo Borsellino e della sua scorta

di Lorenzo Baldo antimafiaduemila.com

“Cortese Signora Agnese e figli, Si-gnora Rita e figli, signor Salvatore e fi-gli, sono Scarantino Vincenzo che Le scrive e mi creda non è una cosa facile per me essendo con uno stato d'animo difficilissimo. (...) Io non avevo nessun motivo di depistare le indagini ne tanto meno ne avevo voglia, ma per la mia fra-gilità nelle decisioni è diventata un'arma infallibile per chi invece ne aveva di mo-tivi e di voglie per depistare tutto. Fatto sta che hanno vinto loro. Le indagini sono state depistate. Infatti oggi sono ri-masto un uomo solo e abbandonato da tutta la famiglia e da tutti. Sono sicuro che quel poco che fino a ora ho scritto non darà mai la rispettabilità dovuta al dottor Borsellino. Lui è stato tradito dal-la mia inconsapevole fragilità, ma anche da chi volutamente ha fatto capire altro. Detto tutto ciò vengo da voi a chiedervi umilmente perdono per quanto accaduto e per il coraggio che non ho mai avuto a fermare quella macchina di disobbedien-ti e di menti più qualificate della mia. Vi chiedo perdono per tutto e vi ringrazio per essere stati la fonte di un coraggio a me sconosciuto il quale da oggi mi libe-rerà da un peso terribile. Perdono”.

Mafiosi, pentiti, depistatori

E’ il 2 ottobre del 2010 quando Vin-cenzo Scarantino scrive questa lettera dal carcere di Velletri.

A distanza di un anno, il 14 ottobre 2011, le agenzie diramano la notizia che il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, ha avanzato alla Corte di Appello di Catania l’istanza di revisione dei processi per la strage di via D’Amelio denominati “Borsellino uno” e “Borsellino bis” per alcuni imputati già condannati in via definitiva.

Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, ex uomo d’onore del mandamento di Brancaccio, sono risultate attendibili a tal punto da scardinare la versione fornita da Scarantino rivelatosi un collaboratore di giustizia falso e soprattutto “imbeccato”.

La richiesta di sospensione della pena e di revisione riguarda quegli stessi im-putati condannati per strage sulle dichia-razioni di quest’ultimo: Salvatore Profe-ta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Gaetano Murana, Giu-seppe La Mattina, Natale Gambino (già condannati all’ergastolo) e Salvatore Candura, lo stesso Vincenzo Scarantino, Giuseppe Orofino e Salvatore Tomaselli (condannati a pene fino a 9 anni).

Per Orofino, Candura e Tomaselli l’i-stanza riguarda unicamente la revisione del processo in quanto i tre hanno già scontato la pena per i reati in ordine ai quali era stata ritenuta la loro responsabi-lità.

In attesa della Cassazione

Le revisioni dei processi “Borsellino uno” e “Borsellino bis” si faranno. Ma non subito. La decisione della Corte di Appello di Catania si basa su un orienta-

mento giurisprudenziale.Per poter celebrare un nuovo dibatti-

mento occorre un'altra sentenza definiti-va che accerti responsabilità di altre per-sone e che quindi contrasti con il primo verdetto.

Al momento si resta quindi in attesa di una sentenza di Cassazione relativa alle nuove ricostruzioni di Gaspare Spatuzza, così come quelle di Fabio Tranchina, sul-l'eccidio del 19 luglio 1992.

La richiesta di sospensione dell’esecu-zione della pena viene invece accolta im-mediatamente per: Salvatore Profeta, Co-simo Vernengo, Giuseppe Urso, Giusep-pe La Mattina, Natale Gambino e Gaeta-no Murana. Tutti liberi.

Anche per Vincenzo Scarantino si aprono le porte del carcere, ma su di lui viene attivato un servizio di protezione lontano da Palermo per evitare prevedibili vendette mafiose nei suoi confronti. Gaetano Scotto, l’uomo di Cosa Nostra legato ai Servizi, resta inve-ce in carcere per scontare il residuo di pena di due condanne definitive.

Le pagine dei magistrati nisseni

I principali protagonisti delle vecchie e nuove indagini sulla strage del 19 luglio 1992 si ritrovano uno dopo l’altro nelle pagine scritte dai magistrati nisseni. A partire da Salvatore Candura che per pri-mo accusa Vincenzo Scarantino di essere colui che lo ha incaricato di rubare la Fiat 126 convertita in autobomba.

Nelle carte vengono successivamente riscontrate le dichiarazioni del pentito Fabio Tranchina che indica Giuseppe Graviano come colui che, nascosto in un giardino dietro un muretto in fondo a via D’Amelio, avrebbe premuto il teleco-mando collegato all’autobomba.

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“Quali istituzioniavevano interesse

a depistarele indagini?E perché?”

Su Antimafia Duemila n.68il dossier completosulla strage di via D’Amelio

In base alla ricostruzione di Tranchina e ad altre prove raccolte dagli investiga-tori cade quindi la pista del Castello Ut-veggio quale possibile luogo dal quale i killer di Borsellino avrebbero premuto il telecomando. Al posto del castello torna sotto i riflettori la pista del palazzo dei fratelli Graziano, situato di fronte a via D’Amelio, dalla cui terrazza il mafioso di Brancaccio, Fifetto Cannella, avrebbe avvisato Giuseppe Graviano dell’arrivo di Borsellino.

La figura del boss di Brancaccio e dei suoi collegamenti con Forza Italia viene passata ai raggi X al pari di quella di Ar-naldo La Barbera, allora capo del pool che investigava sulla strage di via D’A-melio (deceduto nel 2002). Contro di lui e contro altri tre componenti della sua squadra si scagliano oggi Scarantino e i suoi due compari Candura e Andriotta che li accusano di violenze e pressioni per obbligarli a recitare una parte all’in-terno di una pista già prestabilita.

Un copione preordinato?

La memoria conclusiva della procura di Caltanissetta e l’istanza della procura generale nissena rappresentano un punto di partenza dal quale si deve necessaria-mente ripartire per poter giungere alla to-tale verità sulla strage di via D’Amelio. L’ultima versione di Vincenzo Scarantino e dei suoi compari di sventura, scaturita dopo le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, riapre gli scenari su possibili depistaggi istituzionali già presenti nelle stragi di Stato che hanno insanguinato il nostro Paese.

Siamo di fronte ad una regia occulta capace di scrivere il copione che è stato fatto leggere a Candura, Scarantino e An-driotta?

A quali ordini ha obbedito Arnaldo La Barbera, alias “Rutilius” (nome in codice ai tempi della sua collaborazione con i Servizi), quando lui e i suoi uomini impartivano “lezioni” a Scarantino e compagni? Dal canto suo il picciotto della Guadagna ha riferito negli anni una quantità di bugie che sono crollate miseramente con l’avvento di Gaspare Spatuzza. Ma altresì ha saputo fornire elementi veritieri, successivamente confermati dai nuovi collaboratori.

Secondo quale strategia si è deciso quali notizie “confidenziali” dovevano essere messe in bocca a Scarantino, Can-dura e Andriotta? Alcune di queste dove-vano essere veritiere, altre invece erano destinate a sbriciolarsi. Un grave errore o un rischio da correre sull’altare di una “ragione di Stato” figlia di una “trattati-va” tra mafia e istituzioni vigente da de-cenni? E soprattutto quale “trattativa” è stata intuita da Paolo Borsellino al punto che la sua scoperta ha accelerato il pro-gramma del suo omicidio?

Al momento le indagini sulla strage di via D’Amelio proseguono. Ma anche questa volta è una lotta contro il tempo. Contro l’oblio che incombe sulla fragile memoria del nostro Paese. Indifferente e complice a tanti crimini commessi.

La risposta di Agnese Borsellino a Vin-cenzo Scarantino restituisce integra quel-la dignità e quella sete di giustizia calpe-stata ripetutamente da chi non vuole la verità sulla strage di via D’Amelio. A fu-tura memoria.

La lettera di Agnese Borsellino

Caro Vincenzo,ti fa onore che tu abbia avvertito il bi-

sogno di chiedermi perdono, è un senti-mento che io accetto.

Mi chiedo tuttavia quali siano i motivi per i quali mi chiedi perdono, quale ri-bellione ha la tua coscienza, come sei stato coinvolto in questa immane trage-dia? Prima della strage quali sono stati i referenti che ti hanno indirizzato nella cattiva strada approfittando delle tue fragilità?

Dopo la strage di via d’Amelio quali sono le persone che ti hanno “zittitto” e “minacciato”?

Quali istituzioni avevano interesse a depistare le indagini? E secondo te per-ché?

Tutto quello che mi scrivi può essere anche realtà. Aiuta chi ti ascolterà a co-noscere la verità su questo drammatico depistaggio, talmente grave che i suoi autori meritano di essere puniti e sma-scherati quanto coloro che hanno arma-to la mano degli attentatori.

Inizia una nuova vita rivelando tutto quello che sai ai magistrati di Caltanis-setta, i tempi sono cambiati, solo così ti sentirai un uomo libero; racconta tutta la verità evidenziando prove valide ai fini processuali, un vero uomo deve pos-sedere in tutti i momenti della sua vita il coraggio delle proprie azioni, siano esse cattive siano esse buone, non ti arrende-re dinnanzi alle difficoltà, solo così gua-rirai definitivamente dalla depressione e onorerai la memoria di un santo uomo quale verosimilmente è stato mio marito Paolo.

Parla solo e soltanto con il procurato-re della Repubblica di Caltanissetta, il dottor Sergio Lari, che ti assicuro pater-namente ti ascolterà.

Con umana cristianità ti auguro tutto il bene possibile.

Agnese Borsellino

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Fortezza Sicilia

Le guerre futuredi Sigonella

La Sicilia sacrificata sull’altare del dio di tutte le guerre. Quelle di oggi e quelle future. Negli oceani, in cielo, in terra

di Antonio Mazzeo

Guerre satellitari, spaziali, stellari. Disumanizzate e disumanizzanti. Da combattere su un monitor a migliaia di chilometri distanti. Con aerei senza pi-lota e bombe teleguidate. Ordigni di ogni tipo, forma e dimensione. Al laser o all’uranio impoverito, killer elettro-magnetici o nucleari. Target “virtuali” ma terribilmente reali: bambini, don-ne, anziani di cui nessuno conoscerà mai volti e identità. Corpi da spezzare, stuprare, dilaniare. Continenti da affa-mare. Popoli da sterminare.

I signori e i marcanti di morte hanno ipotecato ruolo e funzioni dell’isola: trampolino di guerra per colpire regimi disobbedienti e perpetuare ingiustizie e disuguaglianze planetarie; enorme cen-trale di spionaggio per incunearsi nelle vite di ognuno, dall’Atlantico agli Urali, dall’Africa all’estremo oriente. Il territo-rio siciliano è divorato dal cancro Sigo-nella, la più grande base militare Usa, Nato ed extra-Nato nel Mediterraneo.

lE metastasi hanno pervaso Niscemi, Birgi, Augusta, Pantelleria, Lampedusa, Marsala, Noto-Mezzogregorio, Pachino, sedi di supersegrete installazioni militari e laboratori sperimentali dell’olocausto del terzo millennio.

Sigonella principale base AGS

A Bruxelles, l’ultimo summit dei mini-stri della difesa della Nato ha ufficializ-zato la scelta di Sigonella come “princi-pale base operativa” dell’AGS (Alliance Ground Surveillance), il nuovo sistema di sorveglianza terrestre dell’Alleanza: un Grande Orecchio per monitorare il globo 24 ore al giorno, individuare gli obiettivi e scatenare il first stike, conven-zionale o nucleare, in nome della guerra globale e permanente, preventiva e di-struttiva.

Entro cinque anni, nella grande stazione aereonavale saranno ospitati i sistemi di comando e di controllo del-l’AGS che analizzeranno le informazioni intercettate da migliaia di sistemi radar satellitari, aerei, navali e terrestri. Per po-ter poi pianificare e ordinare gli attacchi, ovunque e comunque. Senza vincoli e re-gole morali.

Il più grande velivolo senza pilota

Strumento cardine del nuovo sistema Nato, il più grande e sofisticato velivolo senza pilota mai progettato, l’RQ-4 “Global Hawk”, un falco globale di 13 metri e mezzo di lunghezza e un’apertura alare di oltre 35, in grado di volare a cir-ca 600 chilometri all’ora a quote di oltre 20.000 metri. Con un’autonomia di 36 ore, è in grado di perlustrare un’area di

103.600 chilometri quadrati, in qualsiasi condizione meteorologica, grazie ad un potentissimo radar e all’utilizzo di telecamere a bande infrarosse. La sua rotta è fissata da mappe predeterminate, un po’ come accade con i famigerati missili da crociera “Cruise”, ma da terra gli operatori possono cambiare le missioni in qualsiasi momento. Un velivolo a tecnologia avanzata che tra ricerca, sviluppo e produzione comporta un costo unitario di 125 milioni, sperimentato proprio da Sigonella in occasione del recente conflitto alla Libia.

Predatori teleguidati

Per gli strateghi del Pentagono, la Sici-lia dovrà fare da vera e propria caput mundi di falchi e predatori teleguidati: una decina i “Global Hawk” che l’aero-nautica e la marina militare Usa si appre-stano a dislocare; ancora più numerosi i “Predator” e i “Reaper” lanciamissili e lanciabombe. Per l’AGS di Sigonella, i “Global Hawk” dovrebbero essere uffi-ciosamente quattro, forse cinque e maga-ri sei. O perfino otto, come riferì in Par-lamento il 12 giugno 2009 l’allora mini-stro della difesa Ignazio La Russa.

“L’Alleanza atlantica acquisterà un sistema di sorveglianza aerea basato su una flotta di otto velivoli a pilotaggio remoto e un segmento terrestre di guida e controllo, da integrare nell’ambito del sistema C4ISTAR della Nato”, annunciò il ministro che più si è battuto per fare di Sigonella la centrale strategica del nuovo sistema di sorveglianza.

Di otto falchi globali ha parlato pure Ludwig Decamps, caposezione dei pro-grammi di armamento della Nato.

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“Un radicalecambiamento

nei rapportitra piano strategico,operativo e tattico”

“Il sistema AGS sarà fondamentale per

le missioni alleate nell’area mediterranea ed in Afghanistan, così come per assiste-re i compiti della coalizione navale con-tro la pirateria al largo della Somalia e nel Golfo di Aden”, ha dichiarato.

“L’AGS fornirà un preciso quadro del-la situazione operativa soprattutto per tutti i responsabili della Nato Response Force, la forza d’intervento rapido allea-ta, accrescendo le capacità di sorveglian-za aerea. Il sistema consentirà inoltre di supportare i crescenti requisiti operativi anche per la gestione delle crisi, la sicu-rezza nazionale e gli aiuti umanitari”.

Apprendisti stregoni

Per comprendere appieno la vocazione umanitarista degli odierni apprendisti stregoni bisogna dare un’occhiata alla nuova dottrina strategica dell’Alleanza, denominata NCW Network Centric War-fare. “L’AGS è di vitale importanza per poter applicare sul campo la NCW e pun-tare all’integrazione in tempo reale delle forze militari in un’unica rete informati-va globale”, spiegano a Bruxelles.

“La NCW prevede un radicale cambia-mento nei rapporti tra piano strategico, operativo e tattico e un diverso modo di comunicare, pianificare ed operare tra Comandi e forze militari”.

Per farla breve, stabiliti gli obiettivi prioritari “senza limiti geografici”, gli in-terventi vengono demandati alle compo-nenti spaziali, aeree, navali e terrestri che operano “in piena autonomia” nei teatri di guerra.

Un network dunque che azzererà le tra-dizionali catene di comando-decisionali e impedirà qualsivoglia forma d’interfe-

renza da parte delle autorità politiche sul-le scelte e l’operato delle forze armate.

Un modello ritenuto “indispensabile” perché “il campo di battaglia è ormai in-definito, la minaccia è asimmetrica e il nemico è invisibile, onnipresente e capa-ce di colpire ovunque”. Un’orgia di fol-lia, mentre cresce l’assuefazione dei giu-sti e dei pii all’odore acre della morte. Come in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Li-bia, Somalia. E il sonno della ragione ge-nera nuovi e più terribili mostri.

AGS, affare Usa sulle tasche NatoCome dare torto al segretario della di-

fesa USA, Leon Panetta. È sicuramente un “ottimo accordo” quello raggiunto tra i paesi Nato per l’AGS a Sigonella. Otti-mo per i massimizzare i profitti delle in-dustrie chiave del complesso militare in-dustriale degli Stati Uniti d’America e trasferire ai partner europei gli oneri fi-nanziari e gli insostenibili impatti am-bientali e sociali.

La patria dei falchi globali

Merita di essere rammentata la storia che ha portato a fare della Sicilia la pa-tria-colonia dei falchi globali per le mis-sioni di guerra del XXI secolo.

Maturata la decisione di dar vita a quello che per voce di Bruxelles è il più “ambizioso e costoso” programma della storia dell’alleanza atlantica, l’ultimo go-verno Prodi candidò l’Italia quale main operating base del sistema AGS, negli stessi mesi in cui offriva segretamente l’ex scalo Dal Molin di Vicenza alle trup-pe aviotrasportate dell’esercito USA e la riserva naturale “Sughereta” di Niscemi al MUOStro per le telecomunicazioni spaziali della Us Navy.

Il 19 e 20 febbraio 2009, durante il vertice dei ministri della difesa Nato, venne raggiunto un accordo di massima per assegnare a Sigonella i comandi e gli aerei senza pilota AGS, dopo una lunga e lacerante trattativa che aveva visto ridur-re progressivamente a 13 il numero dei paesi disposti a contribuire economica-mente al programma (Stati Uniti, Italia, Bulgaria, Repubblica ceca, Estonia, Ger-mania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Romania, Slovacchia e Slove-nia).

Commesse ultramilionarie

Originariamente, il piano di sviluppo del sistema di sorveglianza vedeva asso-ciate 23 nazioni. Tutte determinate a di-vidersi le ultramilionarie commesse per allestire aerei e centri d’intelligence.

“C’erano in gara due consorzi d’indu-strie che proponevano piattaforme diver-se, la Transatlantic Industrial Proposed Solution (TIPS) ed il Cooperative Tran-satlantic AGS System (CTAS)”, ha riferi-to l’esperto John Shimkus all’Assemblea Parlamentare della Nato.

“Tutti e due i consorzi proponevano di utilizzare lo stesso sistema radar di base. La principale differenza era il tipo di piattaforma aerea suggerita. TIPS pro-spettava una combinazione del velivolo europeo Airbus A321 e dell’aereo senza pilota Global Hawk di produzione statu-nitense, mentre CTAS prevedeva un’as-sociazione di Bombardier e Predator.

Quest’ultima proposta sarebbe risultata meno costosa per l’acquisto del velivolo, ma avrebbe presupposto il doppio di sta-zioni a terra rispetto al sistema TIPS (49 contro 24)”.

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“I velivolisenza pilotidisturbanol'aeroporto

civile”

Fu così che il vertice Nato di Istanbul

dell’aprile 2004 attribuì al consorzio TIPS la ricerca e la progettazione delle apparecchiature terrestri e aeree del-l’AGS. La scelta accontentava quasi tutti i maggiori protagonisti dell’industria bel-lica transatlantica: dai colossi Usa North-rop Grumman e General Dynamics, al gruppo aerospaziale franco-tedesco-olan-dese EADS, ai francesi di Thales, agli spagnoli di Indra sino alle italiane Selex e Galileo (gruppo Finmeccanica).

Senza consultarsi con gli alleati

Nel novembre 2007, il colpo di scena. Senza consultarsi con gli alleati, l’ammi-nistrazione degli Stati Uniti annunciò l’abbandono della soluzione “mista” e affidò in esclusiva la realizzazione del-l’intero sistema AGS alla Northrop Grumman, produttrice dei Global Hawk.

La delusione degli europei fu inconte-nibile e, uno dopo l’altro, Belgio, Fran-cia, Ungheria, Olanda, Portogallo, Grecia e Spagna ritirarono il proprio appoggio finanziario ed industriale, con la conse-guenza che aumentò l’onere a carico del-l’Italia.

Centosettanta miliardi di euro

In cambio di una subfornitura delle due aziende Finmeccanica di apparecchiature destinate alle stazioni terrestri e alle co-municazioni e la trasmissione dei dati, il governo italiano si accollò una spesa di 177,23 milioni di euro, pari al 12,26% del costo globale del programma (stima-to in 1.335 milioni di euro).

Nel settembre 2009, il memorandum sottoscritto in sede Nato per definire il

quadro giuridico, organizzativo e finan-ziario dell’AGS ha tuttavia stimato i co-sti finali del programma a non meno di 2 miliardi di euro. Ciò significherà per il nostro paese un esborso di 245 milioni circa, a cui si aggiungeranno i costi per le trasformazioni infrastrutturali necessa-rie ad ospitare a Sigonella il personale Nato preposto al funzionamento del si-stema, 800 militari circa, secondo l’ex ministro La Russa. Con la conseguente spinta ad accrescere la già asfissiante pressione militare sui territori della re-gione.

Le ombre più funeste riguardano però il futuro del traffico aereo in Sicilia. Quando le autorità spagnole che in un primo tempo avevano candidato Zarago-za come base operativa dell’AGS decise-ro di ritirarsi, spiegarono che i velivoli senza pilota avrebbero pregiudicato il normale funzionamento del vicino aero-porto della città.

I rischi per l'aeroporto di Catania

“Dato che le aeronavi della Nato vole-ranno continuamente per catturare le in-formazioni, si potevano generare restri-zioni al traffico aereo, saturazione nello spazio aereo e problemi durante gli atter-raggi e i decolli”, dichiarò un portavoce dell’allora governo Zapatero.

Una valutazione dei rischi per la sicu-rezza dei sei milioni e mezzo di passeg-geri in transito annualmente dallo scalo di Catania-Fontanarossa che i governi Prodi, Berlusconi e Monti non si sono sentiti di dover fare.

Il 31 marzo 2008, l’allora comandante del 41° Stormo dell’Aeronautica militare italiana, colonnello Antonio Di Fiore,

aveva assicurato un parlamentare e i rap-presentante della Campagna per la smili-tarizzazione di Sigonella che mai sareb-bero stati trasferiti nella base siciliana i Global Hawk in quanto “la gestione di quel tipo di aerei senza pilota non è com-patibile col traffico civile del vicino ae-roporto civile Fontanarossa”.

L'appalto alla CMC di Ravenna

Oggi, però, nella base ci sono attivi perlomeno tre falchi globali e il Congres-so ha approvato un piano di 15 milioni di dollari per installarvi una selva di anten-ne e generatori di potenza per supportare le telecomunicazioni via satellite del-l’Unmanned Aircraft System (il sistema degli aerei senza pilota) e gestire le ope-razioni dei droni.

“Nel nuovo centro sorgeranno dodici ripetitori con antenne, attrezzature e macchinari, con la possibilità di aggiun-gere altri otto ripetitori della stessa tipo-logia”, è riportato nella scheda progettua-le del Dipartimento della difesa.

Intanto procedono celermente i lavori di realizzazione del Global Hawk Air-craft Maintanance and Operations Com-plex, il complesso che consentirà ai mili-tari Usa di eseguire a Sigonella la manu-tenzione dell’intera flotta senza pilota schierata in Europa e Medio oriente.

L’appalto per 16 milioni e mezzo di euro è stato assegnato dal Pentagono alla CMC - Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna, società di costruzioni leader della “rossa” Lega Coop. Rossa di vergo-gna per aver disseminato l’Italia di basi e infrastrutture Usa e Nato. E gestire da mercenaria i centri-prigione per migranti, rifugiati e richiedenti asilo.

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Emigranti

Vita di un“invisibile”da Rosarno a Roma

Saydou sta in cucina a pelare patate da mette-re in forno: al centro sociale c'è una cena di autofinanziamento. Si lascia andare ai ricor-di: “Quando stavo a Rosarno era brutto...”

di Bruna Iacopino

Saydou scuote la testa e sorride. “Eh” mi fa “ niente acqua, niente luce e poi porte e finestre rotte, troppo freddo, come si fa ?” Lo dice come se raccontasse un brutto sogno, una cosa ormai passata che non può più far male, come la racconterebbe a un fi-glio, se lo avesse. Ripercorre le tappe di una storia costellata di violenza, di soprusi, ma anche di battaglie e di pic-cole vittorie. Sì, perchè Saydou la sua vittoria ce l'ha in tasca e se la tiene an-che stretta.

Il permesso ottenuto per motivi umani-tari appena lo scorso anno dopo una fitta serie di manifestazioni, sit-in, assemblee, interviste a giornali e televisioni è stato rinnovato per un altro anno. Saydou re-spira e sorride.

Le iniziative promosse a gennaio in tutta Italia contro il lavoro nero e lo sfruttamento nel settore agricolo – specie per gli immigrati: 274.000 regolari e 400.000 in nero sotto caporale - hanno compiuto un piccolo miracolo: far sì che la mannaia di una scadenza (la conver-sione del permesso umanitario in per-messo di lavoro) non costringesse questi uomini a tornare nel limbo dell'invisibilità.

“Vogliamo i documenti!”

Invisibili sono sempre i “fratelli” che lavorano ancora nelle campagne di Ro-sarno o nel foggiano, in quel non-luogo che tutti ormai chiamano “Gran ghetto”, giunti in forze nella capitale, per la mani-festazione del 13 gennaio: presidio la mattina davanti al Ministero dell'Agricol-tura, pomeriggio in piazza all'Esquilino.

Un viaggio lungo una notte, una gior-nata di lavoro persa, e una sola richiesta, urlata a gran voce: “Vogliamo i docu-menti!”.

Permesso di soggiorno, sanatoria gene-ralizzata, estensione dell'articolo 18, abo-lizione della Bossi-Fini, politiche pubbli-che di sostegno all’agricoltura contadi-na... Sono queste le richieste dei brac-cianti agricoli stranieri che affollano le

nostre campagne, pagati venti euro al giorno, assoldati da caporali, oggi come nel 2010 quando il mondo intero scoprì la vergogna di Rosarno.

Queste richieste giacciono in attesa di risposta presso il Ministero delle politi-che agricole e forestali, quello del Lavo-ro, quello dell'Interno e quello della Soli-darietà. Ma qualche frutto l'hanno già hanno sortito.

Una piccola vittoria

Quei cento permessi rinnovati sono una piccola conquista, frutto di un cam-mino di lotta iniziato ormai due anni fa.

Dalla rivolta di Rosarno all'arrivo (la deportazione, come la definiscono gli an-tirazzisti della capitale) a Roma, alla soli-darietà civile che ha fatto muro attorno a questi ragazzi abbandonati a se stessi, fino all'inizio di un percorso di auto-de-terminazione con la costituzione dell'as-semblea dei lavoratori africani di Rosar-no a Roma (Alar), incoraggiata e soste-nuta passo passo dall'Osservatorio anti-razzista Pigneto-Prenestino.

Le domeniche pomeriggio passate a di-scutere hanno così portato un centinaio di africani a confrontarsi direttamente con la politica di palazzo e con le asso-ciazioni di categoria, dalla prefettura alla sede di Confagricoltura, al grido di: “Agricoltura sì, lavoro nero no!”

E la lotta, in questo caso, ha pagato.Saydou aspetta. Il suo permesso lo tie-

ne in tasca e per campare si fa la stagione a Foggia, lavorando in nero.

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L'avventura di Sgarbi in Sicilia

Sindaco di GiammarinaroAlla faccia dei siciliani

La provincia di Trapa-ni, fiore all'occhiello della borghesia mafio-sa, ha bisogno di ripu-lirsi l'immagine. Serve qualcuno che non fac-cia troppe domande e che si presti...

di Rino Giacalone

Salemi. Cominciamo dalle dimissioni del critico d’arte Vittorio Sgarbi da sin-daco di Salemi? O dalle dimissioni che annunciate sino all’8 febbraio sono sta-te presentate solo il 15 febbraio in un Consiglio comunale super affollato dove ognuno ha cercato di avere la sua “fetta di notorietà” e Sgarbi ancora ha stupito tutte, mi dimetto – ha detto – ma dalle 21 del 21 febbraio”? O dalla relazione degli ispettori prefettizi che hanno accertato l’inquinamento mafio-so dell’attività amministrativa e politica del Comune di Salemi? O ancora dal maxi sequestro di beni da 35 milioni di euro che ha colpito l’ex deputato regio-nale della Dc e capo degli andreottiani trapanesi, Pino Giammarinaro, “rais” di Salemi, la cosidetta operazione “Sa-lus Iniqua” condotta nella primavera dell’anno scorso?

Salemi non è un paese qualsiasi né della provincia di Trapani né della Sicilia, ma il luogo dove la mafia borghese ha comin-ciato a piazzare le sue radici mentre nel resto dell’isola i mafiosi si ammazzavano per la droga o ancora per i latifondi.

Due nomi su tutti, quelli degli esattori Salvo, i cugini Nino e Ignazio, eredi di un altro notabile, Luigi Corleo, scomparso dopo un sequestro “anomalo”.

A questi nomi si potrebbe aggiungere quello dell’imprenditore Ignazio Lo Pre-sti, il personaggio, ammazzato poi da Rii-na, che sotto anonimato parlava per tele-fono coll sig. Roberto che stava in Brasile e al quale confidava, preoccupato, la mat-tanza di uomini che stava insanguinando la Sicilia, questi altri non era che Tomma-so “Masino” Buscetta.

Il paese di Pino Giammarinaro

Salemi è anche il paese dove si trovano i segni della mafia irruenta, violenta, quel-la che muove i grandi traffici di droga, che ha come suo uomo il potente Salvato-re Miceli, che riesce a parlare con Riina quanto con Provenzano e quindi con l’o-dierno super latitante Matteo Messina De-naro. Anche Miceli è mafioso per eredità, è nipote di un altro mafioso e trafficante di droga, salemitano, Salvatore Zizzo.

Ma Salemi è oggi il paese di Pino Giammarinaro, “Pinuzzu” per gli amici, o ancora “Pino Manicomio” come si dice sia appellato, non per dileggio, dai suoi amici di oggi, gli stessi che frequentavano il sindaco che Giammarinaro volle fortis-simamente volle…Vittorio Sgarbi.

Giammarinaro, imprenditore edile, co-minciò le sue fortune con l’imprenditore Lo Presti; negli anni ’80 conobbe la sanità pubblica, diventando presidente della Usl di Mazara. Da allora non ha lasciato que-sto terreno fertile, di voti, consensi e maz-zette, costruendo una ampia tele di rela-zioni e di potere. Nel 1991 l’elezione ple-biscitaria all’Ars con oltre 50 mila voti di

preferenza presi con la Dc. Poco tempo dopo l’ordine di arresto e la latitanza, co-minciata su un peschereccio partito da Mazara verso la Tunisia e finita in Croa-zia dove la Finanza andò ad arrestarlo, mentre contro di lui si aprivano altre inda-gini sulla malasanità trapanese.

Pino Giammarinaro non è stato mai condannato per mafia, è uscito assolto da un processo, quello che mentre era in cor-so fu condizionato dall’entrata in vigore, retroattiva, della cosidetta legge sul giusto processo, e praticamente non si poterono utilizzare le dichiarazioni di accusa fatti contro di lui dai pentiti che nel dibatti-mento entrarono attraverso la produzione dei vari verbali di interrogatorio.

La nuova norma vuole che le dichiarazioni dei pentiti siano utilizzabili solo se il collaboratore di giustizia ripete le accuse davanti ai giudici. Il pm Ingroia dovette chiedere l’assoluzione per Giammarinaro, e però quelle dichiarazioni finirono dentro il procedimento per la misura di prevenzione, e a Giammarinaro furono inflitti 4 anni di sorveglianza speciale.

Gli incontri con Cuffaro

Misura che non gli impedì di continuare a fare politica, addirittura di candidarsi al-l’Ars e sfiorare per una manciata di voti la rielezione, sorvegliato speciale che rice-veva nella sua casa di Salemi politici im-portanti come l’allora Governatore della Sicilia Totò Cuffaro. O di muoversi, gra-zie a certificati medici di favore, per anda-re a Palermo a incontrarsi con altri mag-giorenti della politica come l’on. Saverio Romano, capo dell’Udc siciliana.

Tutti sapevano che Giammarinaro era un sorvegliato speciale per mafia, ma fa-cevano spallucce. E se non stava a Salemi oenon andava a Palermo, Pino Giammari-naro era facile incontrarlo davanti all’in-gresso della Usl di Trapani, a ricevere i “clienti” mandati dagli amici.

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“E' stato eletto sindaco senza bisognodi campagna elettorale. L'importante

era l'appoggio di don Pinuzzo Giammarinaro...”

Sicilia

Un documentario di Stefano Maria Bianchi (uno della «truppa» di Santoro) ha fotografato, anni fa, la «mafia bianca», ossia gli interessi di Cosa nostra nel filone sanitario siciliano. Nel 2005 la Commis-sione nazionale antimafia in missione a Trapani si interessò alle ingerenze mafio-se nella sanità trapanese.

Ma le infiltrazioni dei boss dentro il mondo sanitario non sono di oggi ma di molti decenni fa. Bisogna risalire al 1926 ad un certo dottore Melchiorre Allegra, «punciutu» e primo vero pentito di mafia. Certo, il rapporto tra mafia e camici bian-chi da allora si è evoluto. Ma sempre bor-ghesia mafiosa, bianca come il colore dei camici dei sanitari.

Un capo mafia famoso è stato il medico Michele Navarra di Corleone. Oggi si sentono fare i nomi di altri medici, paler-mitani, ma legati a Matteo Messina Dena-ro, come Antonino Cinà e Giuseppe Guat-tadauro, fratello di Filippo cognato diretto del boss latitante, il numero 104 nei pizzi-ni di don Binnu.

Medico e capomafia

Mafioso e pentito come Melchiorre Al-legra è l’alcamese Vincenzo Ferro, figlio di Giuseppe che con la sanità ha avuto un altro genere di legame, riuscì per anni a fingersi pazzo, poi scoperto decise di se-guire il figlio nella strada della collabora-zione. Altro medico-mafioso ad Alcamo è Ignazio Melodia, altro camice bianco fa-moso è stato il partannese Vincenzo Pan-dolfo, seguì il «patriarca» della mafia be-licina, don Ciccio Messina Denaro nella latitanza per garantirgli assistenza medica, si consegnò in carcere nel 2006, due anni addietro ancora giovane è morto in cella.

Insomma la mafia i «colletti bianchi» li ha sempre avuti, e non solo come affiliati ma addirittura fra i capi. Non a caso si parla di «borghesia mafiosa» perchè qui a comandare non sono stati mai i «viddani» alla corleonese, ma persone istruite, di un

certo «lignaggio». Allegra parlò della ma-fia trapanese come di una organizzazione dove l’onore aveva un senso «cavallere-sco».

All'ombra delle cosche

Una situazione che non è cambiata, ri-calca quella odierna dove a comandare le cosche restano i "borghesi" forti della loro in sospettabilità, quelli che pretendono ri-spetto e lo ottengono ancora meglio di un vero mafioso, quelli che proteggono la la-titanza di Matteo Messina. Una atmosfera di grandi connivenze dove tutto spesso si palesa alla luce del sole in un territorio dove si dice che la mafia non c’è più solo perché non si ammazza più.

Vittorio Sgarbi, arrivato da ultimo in provincia di Trapani, è stato plebiscitaria-mente eletto sindaco di Salemi senza una sola ora di campagna elettorale. E' bastato che lo volesse Pinuzzu Giammarinaro. E ha cominciato a recitare una parte che lo aveva già visto protagonista, l'attacco frontale ai soggetti più esposti nella lotta alla mafia. Ha detto subito che la mafia non esiste esistono i mafiosi sparsi, che non contano nulla. La mafia è nell’eolico, ha continuato, sfondando una porta inve-stigativamente già aperta. Il mandato di sindaco l’ha trascorso attaccando, un gior-no si e l’altro pure, l’attivismo (per la ve-rità mai molto acceso, per mancanza di forze) dell’antimafia.

Con l’arrivo di Sgarbi, sindaco a Sale-mi, scoppiò l’apocalisse. La prima ad in-sediarsi fu una squadra di “dandy”, asses-sori chiamati da Sgarbi, come Oliviero Toscani. Salemi diventa il palcoscenico di una sorta di reality show. Non c’è fine set-timana che non arrivino a Salemi troupe tv. Sgarbi riempie la scena, il resto lo fan-no i suoi assessori, mostre, musei, anche quello della mafia (“la mafia non esiste più”, roba da museo secondo lui, ma una diffida gli fa presto togliere tutto ciò che riguarda l’esattore Nino Salvo, morto sen-

za condanne). Un'iniziativa pubblica è quella della vendita ad un euro delle case abbandonate e diroccate del centro stori-co: sulla carta vengono vendute, ma in realtà la magistratura di Marsala le ha se-questrate perché la vendita non ha elimi-nato i pericoli di crollo. Crescono le ini-ziative propagandistiche di Sgarbi e con esse i debiti fuori bilancio. Lui con gli scritti al vetriolo del suo addetto stampa smentisce e minaccia querele.

Tutto questo regge finchè non arriva il sequestro di beni contro l’on. Giammari-naro e non saltano fuori le intercettazioni che svelano come l’ex deputato fuori dal Comune di fatto era e restava il deus ex machina. Dal maggio scorso ad ora è sto-ria contemporanea.

Lunedì 6 febbraio il sindaco Vittorio Sgarbi ha annunciato le dimissioni. Anzi: appreso dal Fatto Quotidiano.it che gli ispettori nominati dal Viminale (e anche questa nomina “scaturiva” da una sua ri-chiesta avanzata appena 24 ore prima del-l’ufficializzazione all’allora ministro Ma-roni) avevano concluso l’ispezione propo-nendo lo scioglimento per inquinamento mafioso degli organi politici del Comune, dapprima aveva detto che la notizia non era vera, annunciando richieste di risarci-mento milionarie, poi dopo qualche ora accertando che bugia non era annunciava la nomina a vice sindaco di Pino Giam-marinaro, dopo qualche ora ancora l’an-nuncio delle dimissioni e la notizia di un incontro col ministro Cancellieri per la giornata dell’8 febbraio.

A presentarlo al ministro un’altra di-chiarazione dirompente: “Mi sentivo in pericolo e me ne torno al Nord. Incontrerò il ministro Cancellieri alle 9 di mercoledì prossimo per riferire il mio compiacimento per questa scelta".

Gli ispettori, un vice prefetto, un com-missario di Polizia e un tenente dei cara-binieri, hanno lavorato nei termini affida-ti, e la conclusione è stata inequivocabile:

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“Qui c'è mafia”disse Toscani.

E Sgarbi: “Visionario!Omosessuale!”

l’amministrazione del sindaco Vittorio Sgarbi “è stata oggetto di infiltrazione mafiosa”. L’amministrazione, non la città come ha voluto dire il sindaco Sgarbi.

L'amministrazione, non la città

Gli ispettori hanno “fotografato” la real-tà che era stata descritta dall’ordinanza di sequestro di beni – oltre 35 milioni di euro – che ha colpito l’ex deputato Giam-marinaro. Gli ispettori hanno certificato che Giunta e Consiglio comunale, i vertici della burocrazia, hanno subito pressioni e influenze nelle decisioni da prendere fuori da ogni contesto di democrazia e confron-to, ma con un metodo tipicamente mafio-so. Punto di partenza l’onorevole Giam-marinaro rispetto al quale Sgarbi non ha mai rinnegato il legame.

Dopo che per l’operazione “Salus Ini-qua”, Sgarbi aveva minacciato querele per il questore Esposito e per il comandante della stazione di Salemi dei carabinieri, maresciallo Teri, alla notizia del contenu-to della relazione ispettiva ha preannun-ciato querele per i tre ispettori: «Ho lavo-rato come un matto, ho io contrastato gli interessi mafiosi, come nel caso delle pale eoliche e ora mi attaccano. Sa che faccio? Nomino vice sindaco Pino Giammarinaro; se accetta continuerò a fare il sindaco».

«E non è - precisa - una provocazione. Non mi sono mai accorto in tutti questi anni di infiltrazioni mafiose nel Comune di Salemi e non sono verificate in alcun atto. Non sono mai stato condizionato nel-la mia attività. Ero sotto scorta - aggiunge - e tutti vedevano quello che facevo. Pen-so che la Sicilia non abbia possibilità di fare qualcosa di nuovo, di ipotizzare un futuro diverso. Invito il consiglio comuna-le a dimettersi prima che i consiglieri ven-gano smobilitati, sarebbe una cosa non onorevole. Io ho creato il museo della ma-fia - prosegue - ho portato Picasso, Ru-bens, Caravaggio stavo portando Van Gogh e hanno trovato infiltrazioni mafio-

se ignari delle infiltrazioni culturali. Non ho alternative devo ringraziarli...».

Sui contatti con Giammarinaro, ha ri-sposto risposto: «Non c'è nessun legame, semmai c'è' stato nell'aver sostenuto la mia candidatura a primo cittadino di Sale-mi. È poi va sottolineato che Giammari-naro non è indagato: è un politico demo-cristiano che si è occupato di realizzare le mie liste. Francamente non credo che que-sto sia un atto politicamente ri-levante». Per Sgarbi perfettamente legitti-mo che Giammarinaro può avere avuto dalla sua assessori, consiglieri, funzionari e dipendenti comunali.A raccontare un’al-tra storia, rispetto a quella recitata da Sgarbi, è stato il famoso fotografo Olie-viero Toscani, assessore nella sua Giunta. “Qui c’è mafia”, ha detto Toscani e Sgarbi gli ha dato del visionario e anche “omo-sessuale”.

La “tassa” per diventare deputato

La storia dello zio Calò. C'è un «filo rosso» all'interno dell'indagine che ha por-tato al sequestro dei beni nei confronti dell'ex parlamentare regionale Pino Giam-marinaro. Ed è il filo dei collegamenti po-litici che comprende il retroscena dell'ele-zione a deputato dell'ex presidente dell'or-dine dei medici Pio Lo Giudice. Questo fu convinto da Giammarinaro a candidarsi e fu alle ultime regionali l'unico parlamen-tare dell'Udc eletto. Già in campagna elet-torale qualcosa era suonato in modo stra-no, in particolare gli incontri elettorali ai quali Giammarinaro era sempre presente e che concludeva con una «novella»: rac-contava, parlando con Lo Giudice, della storia di un politico potente agrigentino, "u zu Calò" che un giorno notificò al par-lamentare che era eletto che non lo sareb-be stato più, dandogli pubblicamente dell'«ex» quando ancora era in carica.

Il «messaggio» a Lo Giudice insomma arrivò forte e chiaro su quello che avrebbe dovuto fare e su come sarebbe finita se

avesse girato a lui le spalle. Non contento a Lo Giudice a risultato ottenuto notificò una richiesta: il pagamento di 200 mila euro per spese elettorali sostenute. Lo Giudice protestò, si rivolse al segretario del partito Romano e da questi ebbe ad apprendere che a Giammarinaro diretta-mente erano stati consegnati 40 mila euro di rimborso elettorale che in realtà sareb-bero spettati a lui.

Terreni confiscati

Ma nell'indagine c'è anche altro: la sto-ria di un terreno confiscato al narcotraffi-cante mafioso di Salemi Salvatore Miceli. Confiscato da oltre 10 anni non è stato mai assegnato. Incartamento rimasto fer-mo al Comune e ancora di più da quando è sindaco Sgarbi. C'era un progetto per as-segnarlo a Slow Food e a Libera, ma il sindaco Sgarbi è stato intercettato a parlare con un assessore vicino a Giam-marinaro, l'avv. Caterina Bivona, mentre assicurava che Giammarinaro non sarebbe andato deluso, «A don Ciotti quel terreno non verrà mai dato».

Parlando con Giammarinaro, Sgarbi poi si faceva dire a chi doveva assegnarlo e Giammarinaro gli indicò l'Aias e il signor Francesco Lo Trovato. Ad oggi comunque l'assegnazione non è andata avanti e il ter-reno, 70 ettari, resta non produttivo. L’a-genzia nazionale dei beni confiscati se lo è ripreso indietro, e Sgarbi ha presentato la circostanza come una vittoria e non una sconfitta. E il mafioso, arrestato in Vene-zuela dai carabinieri e ora in carcere, se la ride.

E il mafioso se la ride

Il ministro dell’Interno Cancellieri nella giornata di mercoledì 8 febbraio ha incontrato Sgarbi, ancora sindaco di Sale-mi, a Roma. Il Viminale non ha fatto co-municati sulla “visita”, Sgarbi ha diffuso un lungo documento.

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“Cala il sipario,parte la pubblicità...”

Nessun cenno alle dimissioni, assunzio-ne dei poteri prefettizi per avviare l’acces-so in tutti gli enti locali della provincia, ri-lascio del nulla osta di bontà sull’operato di Giammarinaro a Salemi dove aveva pieno diritto a fare il “rais”. Perché la sin-tesi risulti riscontrata, diamo di seguito il comunicato stampa di Sgarbi.

Il comunicato di Sgarbi

< Vittorio Sgarbi ha incontrato stama-ne a Roma, nella sede del Viminale, il mi-nistro dell’Interno Annamaria Cancellie-ri. Nel corso del colloquio, durato poco più di un’ora, Sgarbi ha esposto la situa-zione di Salemi e illustrato «l’azione di rinnovamento e di pieno contrasto ad ogni abuso, anche nella tutela del centro storico e nello sforzo di impedire abbatti-menti e distruzioni». Il ministro ha molto lodato, tra le altre cose, l’iniziativa delle «Case a 1 euro», «dispiacendosi dell’in-terruzione del procedimento di assegna-zione delle case che riterrebbe opportuno anche in altre città di Sicilia». «Ho detto al ministro – spiega Sgarbi – di ritenere la richiesta di scioglimento ingiusta e di-scriminatoria. Ho difeso la dignità, l’ono-re di Salemi e dei consiglieri regolarmen-te eletti nelle liste promosse dall’ex depu-tato Pino Giammarinaro che aveva dun-que legittimo titolo a discutere progetti e proposte politiche».

Vittorio Sgarbi ha manifestato al mini-stro «la decisione di inoltrare un esposto, oltre che al ministro stesso, alla magi-stratura e al Prefetto di Trapani, per chie-dere perché la valutazione delle presunte “infiltrazioni mafiose” sia stata ritenuta “necessaria” soltanto per il Comune di Salemi, dove l’azione dell’ex deputato Giammarinaro è stata legittimata da libe-re elezioni con presentazione di liste ap-provate dalla Prefettura e con un pro-gramma esposto in liberi comizi alla pre-senza delle forze dell’ordine, senza che nessuno mettesse sull’avviso il sindaco

della, se non illegittimità, della inop-portunità di fare attività politica con l’e-splicito sostegno e accordo del suddetto Giammarinaro». «Né il Prefetto né il Questore e neppure il Comandante dei Carabinieri della locale stazione, che pure ben conosceva e conosce Giammari-naro – ha sottolineato Sgarbi al ministro – hanno mai manifestato perplessità o critiche al suo pubblico ruolo di leader politico che aveva titolo e obbligo di rap-presentare la maggioranza, con lui, legit-timamente eletta. Su queste ovvie consi-derazioni il ministro ha convenuto». «Ho inoltre annunciato al Ministro – rivela Sgarbi – la mia decisione di chiedere “ l’accesso agli atti” in tutti i comuni in cui sia provata l’influenza politica di Pino Giammarinaro e la presenza di rappre-sentanti della sua corrente politica, tanto più senza la presentazione di liste eletto-rali, ma solo sul piano della persuasione e delle conoscenze personali (ciò che può essere conseguentemente considerato “infiltrazione” o “regia occulta”.

A Salemi la “regia” fu manifesta e il sindaco fu il primo attore). «Chiedo così che venga verificata l’influenza politica di Pino Giammarinaro a Mazara del Val-lo, dove ha appoggiato la lista del candi-dato sindaco sostenuto dall’ex Pm Massi-mo Russo, in una singolare coincidenza tra quello che fu il magistrato inquirente e il suo indagato; a Castelvetrano, dove Giammarinaro ha indicato rappresentanti della sua corrente politica in giunta, oltre ad avere consiglieri di suo riferimento; a Marsala, dove vi sono consiglieri e asses-sori espressione sempre di Giammarina-ro; ed ancora ad Alcamo, Calatafimi, Gi-bellina e Partanna. E alla Provincia re-gionale di Trapani dove la corrente di Giammarinaro ha espresso consiglieri e assessori che a lui rispondono. Ovvero in quelle città – osserva Sgarbi – in cui sono stati eletti consiglieri o nominati assesso-ri amici, conoscenti, sodali, esponenti po-

litici della stessa area del noto “ex sorve-gliato speciale”».

«Solo a Salemi – ricorda Sgarbi – di cui si propone, senza alcuna indicazione di fatti ma solo sulla base di supposizioni, lo scioglimento dell’amministrazione, l’ex deputato Pino Giammarinaro ha agito alla luce del sole, con ciò negando il principio stesso di “regia occulta” o “in-filtrazioni mafiose”. Su questo piano Giammarinaro può aver condizionato qualunque amministratore e, anche in passato, non si è mai, da parte delle For-ze dell’Ordine, omissivamente, indicato la sua influenza occulta. L’unica ammini-strazione che non era in grado di influen-zare, per la presenza di un sindaco, senza liste politiche, che lo ha culturalmente e democraticamente contraddetto e contra-stato su ogni proposta, è quella di Salemi. «Il paradosso vuole che – aggiunge Sgar-bi – che quando Giammarinaro “influen-zava” realmente, le amministrazioni sono state risparmiate. Quando invece non era in grado di farlo, e i suoi stessi consiglie-ri non rappresentavano le sue istanze, com’è accaduto a Salemi, si è proposto un immotivato scioglimento. Gli ispettori e gli inquirenti sembrano avere agito sul-la suggestione di un noto mistificatore di professione, abituato a creare illusioni: Oliviero Toscani. Il quale ha chiamato mafia, come egli stesso ammette, la buro-crazia». In compenso, contro la volontà di Giammarinaro – conclude Sgarbi – ho realizzato infinite iniziative per restituire onore al nome di Salemi, tra le quali, pa-radossalmente, lo stesso “Museo della Mafia”. Stessa scena in Consiglio comu-nal. Con l’annuncio che lui da Salemi non va via, o almeno resta il nome perché a Salemi avrà sede la sua fondazione. >

Cala il sipario

A questo punto, tanti saluti. Cala il sipa-rio, parte la pubblicità, arrivederci alla prossima puntata.

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Sicilia/ Cronache di democrazia

“No al mostro MegastoreFuori dal mio paese!”

La provincia di Catania ha il record dei centri commerciali: molti (non cristallini) inve-stimenti, pochissimo lavoro. Il più terrifi-cante di tutti è previsto a Scordia. La gente del posto non è d'accordo

di Attilio Occhipinti di Generazione zero

E' il 10 febbraio, pioviggina a Scor-dia, una macchia di case nella valle del Calatino. Il sole non sembra aver vo-glia di uscire stamattina. Sono le 9,30 circa, c'è freddo, il tipico freddo di feb-braio. La sciarpa al collo è d’obbligo. Davanti al municipio si raduna un po' di gente, studenti con lo zaino in spalla e signori fra i quaranta e i sessanta che parlano tra di loro. Fumano nervosa-mente, come se il fuoco delle sigarette possa confortarli dal freddo, mentre la pioggia leggera smette di cadere e, fi-nalmente, qualche timido raggio di sole trafigge il cielo nuvoloso.

"Siamo tutti per il no! Il sindaco è l'u-nico contro i suoi concittadini! Deve an-dare via! Non lo vogliamo ‘sto Megasto-re!" grida quaòcuno dalla folla, mentre

un altro, uno sulla quarantina con la barba lunga e una giacca nera, urla: "Dicono che il Comune ha bisogno dei seicentomila euro di ‘sto centro commerciale, ma la verità è che il sindaco cura solo i propri interessi! E a noi commercianti chi ci pensa?". Ed eccone un altro che, fissandoci negli occhi e agitando le mani, incalza: "Questo sindaco non ha orecchie per la gente di Scordia!!". Già, la gente di Scordia.

Sulle scale del municipio un ragazzo si sistema la kefiah intorno al collo guar-dando la folla, poi avvicina le labbra al megafono: "Popolo di Scordia, commer-cianti e studenti, oggi siamo qui per dire no... Una volta per tutte!". Applausi. "Non vogliamo lo Scordia Megastore! Facciamolo capire a questi signori!". Ap-plausi e cori.

“Posti di lavoro finti”

Ma perché sono qui? Che ragioni muo-vono questa gente? Fra un'ora inizierà al municipio la conferenza dei servizi: Ca-mera di Commercio, Regione Sicilia, Provincia Regionale di Catania e il Sin-daco di Scordia, Agnello, decideranno se costruire o meno il centro commerciale “Scordia Megastore”.

Dal megafono continuano a fiorire pa-role e grida mentre, accanto al gruppo

dei commercianti, una donna soffoca la sigaretta con la punta dello stivale: è Lina Basso, presidente della Confcom-mercio di Scordia. “La Confcommercio di Scordia oggi è qui per stare vicino ai propri commercianti e lavoratori e per dichiarare tutto il proprio dissenso: il Megastore schiaccerà l'economia di Scordia. Vengono inoltre promessi dei posti di lavoro a progetto, cioè finti, e secondo le nostre analisi per ogni posto di lavoro di questo tipo se ne perdono tre normali. Non riusciamo a trovare un mo-tivo per dire sì a questo centro commer-ciale!".

La Scordia Megastore Srl

Ricomincia a piovere, ma sempre in modo leggero. I ragazzi di Rifondazione Comunista e Italia Dei Valori si alternano al megafono, sono quasi le 11 e c'è dav-vero molta gente. "La ditta Scordia Me-gastore Srl risulta essere in mano ai Fra-telli Basilotta Immobiliare" dice Marletta del Prc, occhi scavati, barba di un paio di giorni. "E Vincenzo Basilotta, uno dei fratelli, ha ricevuto una condanna defini-tiva e gli sono stati pure sequestrati beni per un totale di 30 milioni di euro. A cau-sa di questo sequestro ha dovuto vendere le azioni della sua ditta ai fratelli, ed è anche il proprietario della caserma dei Carabinieri proprio di Scordia!".

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SCHEDAI NUMERI DEI CENTRI COMMERCIALICentri commerciali in Italia: 250 metri quadrati ogni 1000 abitantiCentri commerciali a Catania: 360 metri quadrati ogni 1000 abitantiCentri commerciali prima del 2000: 40.000 metri quadrati Centri commerciali oggi: 388.929 metri quadratiCentri commerciali provincia di Catania: 0,5 metri quadri per abitante

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“La povera democrazia del paese contro i grandi affari decisi altrove”

"Sappiamo - aggiunge - che Basilotta è molto vicino al presidente Lombardo, ha svolto dei lavori privati per la moglie di lui, ed è anche vicino a Rosario Di Dio, entrambi di Castel di Judica".

“All'aula consiliare!” urlano tutti

Ora piove con più intensità, pare si sia aperto il cielo. E’ ora di entrare in muni-cipio. Ci dirigiamo insieme alla folla ver-so la stanza del sindaco Agnello, la den-tro ci sarà un tavolo attorno al quale si decideranno le sorti del Megastore e

quindi di tutta Scordia. La gente vuole assistere alla conferenza, ma la stanza è troppo piccola per contenere tutti.

"All'aula consiliare!" urlano dal fondo, ma i carabinieri schierati davanti alla porta invitano alla calma. Ore 11,45: an-cora nessuna traccia della Regione e del-la Provincia, un gruppo di studenti si sie-de sulle scale, c'è chi appoggia la testa al muro e chi sbadiglia. Aspettiamo ancora. Ore 12, tutti in aula consiliare. Il sindaco ha deciso che si svolgerà lì la conferenza dei servizi.

Ci sediamo in seconda fila, davanti a noi i tavoli, i microfoni, le poltrone, ma

ancora nessuno di quelli che dovranno decidere ha preso posto, mentre in platea non ci sono più posti a sedere.

L'impazienza dell'attesa

Commercianti, studenti, rappresentanti di associazioni o di parte politica hanno riempito letteralmente l'aula. Sui loro volti si legge, oltre alla stanchezza, l'impazienza dell'attesa, come prima di una grande partita, quando la squadra di casa è già schierata e pronta a giocare e si attende la squadra ospite.

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SCHEDAI PROTAGONISTIDEL MEGASTORE

Angelo Agnello, sindaco di ScordiaVota “no” alla conferenza dei servizi del 10 febbraio. E’ tuttavia considerato uno dei promotori del Megastore. E' oggetto di intimi-dazione nell’aprile 2011, quando ignoti gli rubano l’auto, che sarà poi ritrovata con un foro di proiettile sul cofano posteriore.Mario Ciancio, editore/imprenditoreViene citato dal Prc come protagonista di un altro caso di costru-zione di centro commerciale sospetto. “Non possiamo dimentica-re i milioni di euro che entrarono nelle tasche dell’editore Mario Ciancio proprietario dei terreni dove è sorto il centro commerciale del quartiere Pigno”. Proprio dall’episodio in questione sarebbe poi nato l’interessamento della magistratura catanese a Mario Ciancio del marzo 2009 (Fatto Quotidiano, Antonio Condorelli). Nella società che ha realizzato il centro commerciale vicino al-l’aeroporto di Catania ci sarebbero il fratello del senatore azzurro Carlo Vizzini e il figlio (incensurato) dell’ex parlamentare di Forza Italia Tommaso Mercadante. I lavori per la costruzione del centro sono stati realizzati da Basilotta. Possiede le tv locali Antenna Sicilia, Teletna, Telecolor e Video 3, e le radio locali Radio Sis, Radio Telecolor e Radio Video 3. Ha quote azionarie nei quotidiani Giornale di Sicilia, Gazzetta del Sud e La Gazzetta del Mezzogiorno. Ha partecipazioni in LA7,

MTV, Telecom, Tiscali e L'Espresso/Repubblica. Stampa e distri-buisce quotidiani nazionali in Sicilia e Calabria.Gaetano Anastasi, consigliere comunale MpaGenero di Vincenzo Basilotta. Rappresenta l’azienda di famiglia alla conferenza dei servizi. E’ considerato il tramite per i lavori privati che Basilotta ha eseguito per Lombardo. E’ consigliere co-munale per l’Mpa a Castel di Iudica. Bisignani Biagio, ingegnereProgettista Megastore. Nel 2003/2008 docente a contratto per l’insegnamento di Gestione Urbana, raggrupamento ICAR20, Università di Catania, Facoltà di Architettura sede Siracusa. Nel 2007/2009 docente a contratto per l'insegnamento di Tecniche Urbanistiche, modulo interno al laboratorio di Progettazione Ar-chitettonica 2a/2b. Nel 2009/2010 docente a contratto per l'inse-gnamento di Progettazione Urbanistica, Architettura sede Siracu-sa. Nel 2010/2011, Docente a contratto per l'insegnamento di Progettazione Urbanistica, Architettura sede Siracusa.Nel 2005/2007, direzione lavori (60%) e parte di progettazione dell'area commerciale integrata Etnapolis, Belpasso (zara, Oisho, Berska, Emmelunga, Camille, C'art, Segafredo, Zona Food); 2005/2009, Pilotage centro commerciale Etnapolis, Belpasso; 2006/2010, progettazione di un centro commerciale a Biancavilla; 2007/2010, altra progettazione analoga a Scordia; 2010, proget-tazione di un centro servizi-commerciale a Catania.

Giulio PitrosoGenerazione zero

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L'attesa è finita, l’orologio segna un orario imbarazzante, le 12:30. Abbiamo aspettato un’ora e mezza. Tutti prendono posto, Camera di Commercio, Regione, Provincia, Sindaco dietro al tavolo decisionale, di lato; da una parte la Confcommercio Sicilia e dall'altro il rappresentante della società “Scordia Megastore Srl”, Anastasi ( genero di Vincenzo Basilotta), e il progettista della struttura, l'ing. Bisignani (lo stesso dell'Etnapolis).

“Il piano presenta incoerenze”

Il sindaco apre i lavori, il pubblico ru-moreggia, ma appena si accendono i mi-crofoni subentra subito il silenzio. Il rap-presentante della Regione Sicilia, Leo-nardo Pipitone, e quello della Camera di Commercio, Franco Virgillito, chiedono di vedere le necessarie autorizzazioni per la costruzione dell'edificio: viene mostra-to il progetto, i vari permessi, i diversi incartamenti e, dopo una fase di lettura e analisi molto lunga, si passa agli inter-venti.

La Confcommercio Sicilia: "Il piano di impatto commerciale, presentato dalla società Scordia Megastore Srl, presenta diverse incoerenze. Parliamo di una società che stima di fatturare un importo

annuo inferiore a quello che fatturerebbe un centro commerciale che va male!", e poi: "Il fatturato previsto è di circa 4.900.000 euro, laddove le altre strutture fanno 11 milioni di euro, se va male, e 24 milioni se va bene!". Applauso di tutta la platea.

Lo striscione rimosso

Ora la parola all'ingegner Bisignani, il quale con un breve intervento sulla "nor-male non perfettibilità del piano di im-patto commerciale", difende il proprio operato, dato che oltre alla progettazione della struttura si è anche occupato della realizzazione del già menzionato piano di impatto.

Sono circa le 15:45, quando gli addetti ai lavori sono chiamati a votare. In aula c'è trepidazione, dietro di noi i commer-cianti in silenzio sembrano quasi pietrifi-cati, mentre i ragazzi di Rifondazione Comunista espongono uno striscione: "NO SCORDIA MEGASTORE". Glielo faranno togliere poco dopo.

Per prima esprime il suo voto la Came-ra di Commercio, ed è no; tocca alla Pro-vincia di Catania, ed è un altro no. Ades-so si insinua un misto di allegria e preoc-cupazione tra i cittadini, mentre l’ansia serpeggia nei loro ventri e sbarra loro gli

occhi. Mancano ancora due voti, quello della Regione e poi quello del sindaco Agnello. Sì o no.

Il momento della decisione

Alla nostra destra un ragazzo seduto di fianco a me tiene gli occhi chiusi, muove leggermente le labbra, come se stesse pregando. Come prima di un rigore. E arriva il terzo no, quello della Regione. Tifo da stadio in aula, c'è il sorriso stampato sul volto di tutti i presenti e partono pure i cori.

“Pure il sindaco ha votato no!”

Viene negata la concessione alla realiz-zazione del centro commerciale Scordia Megastore. La partita è chiusa. Lasciamo la sala insieme alla folla, i commercianti che avevamo sentito stamattina, nervosi, ora mostrano tutta la loro gioia. C’è un ragazzo, magrolino con i dread, i jeans a vita bassa e con uno zainetto sulle spalle; ci dice: " Scrivetelo che pure il sindaco oggi ha votato no!"

Verso le 17 lasciamo Scordia, la lascia-mo diversa da come l'abbiamo trovata stamattina. Il sole non c'è, è calata la sera, ma in cielo non c'è traccia di nuvo-le.

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Catania

Contro il sacco del lungomareAppello della società civile contro il progetto Viabilità di scorrimento Europa-Rotolo

Al sig. Sindaco di CataniaAl commissario ad acta relativo

al procedimento "Viabilitàdi scorrimento Europa-Rotolo"

Il 31 luglio 2009 tredici associazioni catanesi, numerosissimi cittadini, profes-sionisti, tecnici e docenti universitari avevano rivolto un appello agli organi di informazione, alla cittadinanza ed alle istituzioni affinché non venisse realizzato il progetto denominato "Viabilità di scor-rimento Europa-Rotolo" nei termini de-scritti in un'inchiesta pubblicata nei gior-ni precedenti sul "Quotidiano di Sicilia" a firma di Antonio Condorelli: «400 mila metri quadri di sbancamento a 10 metri sul livello del mare, 56 mila metri quadri di centro commerciale e 48 mila mq di parcheggi a pagamento spalmati tra una strada che doveva essere una via di fuga antisismica e un pezzo di costa lungo 1200 metri, in concessione per 38 anni ad un gruppo imprenditoriale».

Le conseguenze del progetto

Dopo avere esaminato approfondita-mente il progetto, seguì l'8 febbraio 2010 una seconda lettera nella quale altrettante associazioni argomentarono le loro forti perplessità affermando che il progetto così come ideato, originariamente quale viabilità di scorrimento per motivi di protezione civile, alla quale venne asso-ciata una vasta area commerciale al fine di poterlo realizzare in project financing, avrebbe comportato:

- il cambiamento di finalità della strada V.le De Gasperi, che da prevista viabilità di scorrimento, sarebbe diventata coper-tura di un Centro commerciale, perdendo quindi le sue finalità a servizio della si-curezza in caso di terremoto per diventa-re una strada di accesso o di avvicina-mento al sottostante Centro commerciale ed ai vari parcheggi, alcuni interrati;

- l'aumento del traffico veicolare ed in-cremento della quantità complessiva di cittadini che in caso di pericolo abbando-nerebbe l’area con conseguente riduzione del livello complessivo di sicurezza;

- l'annullamento dell’unicità del Borgo

marinaro di San Giovanni Li Cuti, attual-mente separato tramite il lungomare dalla città, con due soli ingressi, mentre col pro-getto sarebbe stato integrato al Centro commerciale essendovi una fusione com-pleta fra il Centro ed il borgo;

- la modifica della visione prospettica del Borgo di San Giovanni Li Cuti dai punti di visuale del Lungomare (V.le Rug-gero di Lauria);

- la trasformazione del Lungomare in percorso commerciale e in copertura tra-sparente dei negozi sottostanti con conse-guente perdita della sua attuale funzione di percorso ambientale, di jogging, di relax;

- la polarizzazione delle attività com-merciali verso il lungomare e le aree limi-trofe a discapito delle attività commerciali poste lungo le strade interne della città come Corso Italia o Via D’Annunzio;

- la disgregazione della scogliera lavica e delle relative grotte in corrispondenza di Piazza Tricolore a causa della realizzazio-ne di un altro grande parcheggio interrato la cui costruzione per dimensioni e posi-zione avrebbe indebolito la coesione fra le varie colate nella fascia rimanente fra il parcheggio ed il mare;

- la mancanza di una pianificazione complessiva che contemperi e integrari le diverse esigenze di quell’area della città col resto della pianificazione urbana.

“Forti perplessità”

Le forti perplessità ed i rilievi tecnici suesposti sembravano avere incontrato il consenso dell'Amministrazione comunale che, infatti, per bocca del Sindaco dichia-rò: «Qualunque progetto sia stato elabora-to il mio pensiero, che ho sempre illustrato apertamente, è che non si possa procedere con un intervento demolitorio che non ab-bia alla fine effetti benefici per la città. Questa amministrazione sgombrerà il campo da dubbi e con chiarezza va detto che non sarà fatto nulla che possa deturpa-re il territorio, men che meno si può pen-sare che questa amministrazione voglia procedere a una cementificazione selvag-gia del lungomare. Quindi dico a tutti, as-sociazioni, consiglieri, cittadini comuni di stare tranquilli perché il Comune procede-rà con la massima cautela e attenzione» (La Sicilia, 3 agosto 2009); e ancora: «Si tratta di un progetto di finanza già aggiudi-cato prima del mio insediamento. Per

quanto mi riguarda non ho firmato la relativa convenzione. Sono contrario al restringimento della carreggiata del Lungomare e ai progetti invasivi, ma concordo con il completamento dell’asse viario di viale De Gasperi. Non permetteremo altri scempi» (La Sicilia, 21 giugno 2010).

A seguito però di un ricorso esperito dinanzi al TAR dalle società aggiudicata-rie dei lavori per l'asserito comportamen-to inadempiente del Comune, il giudice amministrativo ha con sentenza del lu-glio 2011 nominato nella persona del Se-gretario del Comune di Messina il com-missario ad acta deputato a sostituirsi al Comune inadempiente per il completa-mento della procedura relativa al proget-to di finanza "Viabilità di scorrimento Europa-Rotolo". Il commissario risulte-rebbe essere già insediato con provvedi-mento del novembre 2011.

“Annullare la gara”

L'inerzia delle istituzioni comunali nel definire questa vicenda, seppur ereditata da amministrazioni del passato, ha com-portato la soccombenza in un giudizio le cui non indifferenti spese graveranno sul-le tasche dei contribuenti catanesi. Ora l'auspicio è quello che, subito dopo avere ottemperato alla sentenza, l'Amministra-zione provveda, con i poteri di cui gode, all'annullamento della gara.

Con la presente, pertanto, le scriventi ventisette associazioni chiedono al Sig. Sindaco di assumere senza indugio tutti i provvedimenti necessari perché venga posta fine all'ennesima operazione specu-lativa ai danni dell'ambiente, della citta-dinanza, del bene comune.

Cittàinsieme, Comitato Porto Del Sole, Federconsumatori, Italia Nostra, Legam-

biente Catania, Lipu Catania - Wwf Cata-nia, Addiopizzo Catania, Centro Astalli

Catania, La Città Felice, Cives Pro Civita-te, Decontaminazione Sicilia, Associazione Domenicani Per Giustizia E Pace, Ecologi-sti E Reti Civiche Catania, Forum Catane-se Acqua Bene Comune, Gapa (Centro Di Aggregazione Popolare San Cristoforo), I Cordai, Laboratorio Della Politica, Coor-

dinamento Provinciale Di Libera, Nike, Ri-fiuti Zero Catania, Ass. Antimafie Rita

Atria, Akkuaria, Artists&Creatives, 51 Pe-gasi, 25 Novembre Giornata Mondiale

Contro La Violenza Alle Donne, U Cuntu

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Marinai/ Gli occupanti della “Marettimo”

Da mesi dentro la naveper non perdere il lavoro

Garibaldi doveva sbar-care a Trapani, dicono, non a Marsala. Un grande porto, rifinan-ziato da poco per Cop-pa America: e tuttavia è in crisi, coi creditori non pagati e gli operai senza lavoro...

di Rino Giacalone

Trapani. Qualcuno li potrebbe anche chiamare i “forconi” del mare. La loro è una protesta per il giusto lavoro, per vedere riconosciuti i propri diritti dopo che hanno fatto fino in fondo il loro dovere. A differenza però dei “for-coni” certamente nessuno può venire in mezzo a loro dicendo di avere senti-to “odore di mafia”. E poi loro non hanno fermato alcuna attività, non hanno determinato chiusura di azien-de, cassa integrazione, file ai distribu-tori. Stiamo parlando dei trenta operai che da quasi tre mesi vivono dentro una petroliera costruita dal Cantiere Navale di Trapani e che occupano, abi-tandovi giorno e notte, una parte del piazzale del Cnt, sotto una tenda. Il Cantiere ha conosciuto una crisi im-provvisa dopo feste e festicciole, botti-glie di champagne stappate, attorno alla petroliera che adesso è diventata la casa della manovalanza del cantiere.

D’improvviso lo stop, il Cnt è in crisi, non ci sono soldi per pagare gli stipendi, non ce ne sono per mantenere i livelli oc-cupazionali di prima. L’annuncio di nuo-ve commesse di colpo è come se si fosse sciolto come neve al sole, il Cnt deve sbaraccare e deve fare subentrare nella concessione demaniale una nuova socie-tà, la Satin.

Come in tutte le cose siciliane c’è un risvolto: Cnt e Satin sono due società che vivono sotto lo stesso gruppo imprendi-toriale, quello della famiglia D’Angelo, Salvatore è un anziano capitano, per anni consigliere comunale della Dc a Trapani, a prendere le redini però della società è stato presto suo figlio Giuseppe. Ad af-fiancare il gruppo D’Angelo è un inge-gnere, Vincenzo Sorge,nel cantiere già da quando, tantissimi anni fa, era a gestione pubblica. E' conosciuto anche come ex attivista prima del Pci e poi del Pd.

Sorge, da direttore tecnico del cantiere, oggi con i D’Angelo è uno dei compo-nenti del Cda del Cantiere Navale di Tra-pani. Praticamente i D’Angelo escono dalla porta con il Cnt e rientrano nemme-no dalla finestra ma dallo stesso cancello con la Satin, lasciandosi però per strada un bel po’ di operai. Nella nuova società infatti non c’è spazio per tutti.

La società ha spento il motore

Gli operai destinati alla mobilità (paro-la che fa intendere tante cose ma il cui vero significato è “licenziamento") non hanno fermato nulla. A spegnere il moto-re del Cnt è stata la società imprendito-riale. Liquidità azzerata, impossibile tira-re avanti nonostante annunci di nuove commesse (l’ultima da sette milioni e mezzo di euro da parte della Marina Mi-

litare).La petroliera - Marettimo M. – appar-

tenente a un gruppo armatoriale Mednav di Catania - doveva essere il fiore all’oc-chiello della società. Ma dopo un paio di vari (ha avuto come madrina l’avv. Anto-nia Postorivo D’Alì, moglie del senatore Tonino, ex sottosegretario all’Interno di Forza Italia; il sacerdote che la “benedì” fu monsignore Ninni Treppiedi, adesso al centro di indagini su vorticosi ammanchi di denaro in Curia) è rimasta incompleta.

Quando fu varata, giugno 2009, si di-ceva che in due mesi sarebbe stata conse-gnata all’armatore;. L’armatore provò a prendersela, dopo avere saputo che la so-cietà era in crisi ed i lavoratori occupava-no già il cantiere, ma gli operai quando capirono che la “loro” nave stava per es-sere portata via, sono saliti a bordo per bloccarla. Da quel giorno non sono più scesi a terra. A turno i 30 operai si danno il cambio, in attesa che la loro protesta sortisca l’effetto sperato, e la disoccupa-zione venga scongiurata.

Cantieristica navale da sempre

Breve cronistoria. Il Cnt occupa una delle più estese aree demaniali del porto di Trapani. Qui si è fatta cantieristica na-vale da sempre. Un tempo a gestione pubblica, poi sono arrivati i privati. A di-sposizione fino a poco tempo fa c’erano anche due bacini galleggianti. Adesso ne è rimasto solo uno. La Regione ha man-tenuto la proprietà, ha stanziato parecchi soldi, 9 milioni di euro, per la manuten-zione facendo re “regalo” alla società che gestisce il cantiere. Sullo sfondo non mancano cronache giudiziarie. Si dice che quando, molti anni fa, ci fu da met-tersi d’accordo su quale cordata dovesse

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www.isiciliani.it Foto A.Malatesta/Arci

prendere in gestione il Cantiere, si mosse il capo mafia Vincenzo Virga per “mediare”.

Voci. Nei fatti fu il gruppo D’Angelo, assieme al gruppo Morici, a prendere in gestione il cantiere. Morici è uno dei più grossi imprenditori edili della città, ha fatto i lavori più importanti, poi uscì dal cantiere (anche per vicissitudini nei rap-porti familiari) per tornare ai lavori edili. Nel frattempo i Morici, padre e figlio, Francesco e Vincenzo, sono citati nelle pagine dell’indagine per mafia nei con-fronti del senatore D’Alì, a proposito di rapporti tra mafia, politica e impresa. Francesco Morici ha anche in tasca un avviso di garanzia.

Non solo per colpa della crisi

Non si può certo dire che questa sia un’altra storia. La politica ed i rapporti politici fanno più che capolino nelle vi-cende odierne. Questa protesta non è solo una delle tante storie della nostra Italia colpita dalla crisi. E’ una storia di lavoratori che di colpo hanno visto svani-re lavoro e stipendi, ma non solo per col-pa della crisi. Il che, a Trapani, è para-dossale.

Il porto, osannato e festeggiato con le lussuose barche a vela della Coppa Ame-rica, trasformato da una infinita serie di lavori pubblici condotti in un battibaleno (ma con la super visione di Cosa nostra: vedi sentenze), è rimasto incompiuto (40 milioni di euro di nuove banchine spesi senza risultato) quando si è scoperto che i fanghi provenienti dall’escavazione do-vevano finire su di una chiatta per essere gettati al largo, o ancora finire su dei ca-mion diretti in discariche “abusive”, il porto di Trapani, quello che la storia dice

doveva essere l’approdo vero di Garibal-di quando invece i Mille finirono con lo sbarcare a Marsala, il porto che vorrebbe essere la porta del continente Europeo e che guarda verso quello Africano, il por-to dai mille traffici (anche illegali), ecco, questo porto che mai avrebbe dovuto co-noscere la crisi invece è in crisi. Profon-da crisi e già da prima che lo “spread” si mettesse a fare le bizze.

L'alleanza D'Alì-D'Angelo

Il porto che doveva rinascere, così an-davano dicendo i politici locali, che se la prendevano con la magistratura quando andava scoprendo illeciti di varia natura, oggi rischia di scomparire. Quando si an-davano facendo quelle dichiarazioni alti-sonanti sul porto – bipartisan, da destra a sinistra, passando per il centro – c’erano una serie di alleanze alle spalle.

La più importante era quella tra l’allora sottosegretario all’Interno senatore Anto-nio D’Alì e la famiglia D’Angelo. In questo scenario un giorno arrivarono a Trapani imprenditori dalla Sicilia Orien-tale che chiesero al cantiere navale di co-struire la prima di una serie di petroliere.

I politici al cantiere

Comunicati esaltanti, ricchezza fatta toccare con mano, girandola di meriti tra politici e imprenditori, ma presto comin-ciarono i guai. Si ruppe l’alleanza tra i D’Alì e i D’Angelo, proprio mentre gli allora candidati premier a Roma e Paler-mo, Veltroni e Anna Finocchiaro, entra-vano in pompa magna nel cantiere per parlare agli operai, coi D’Angelo felici per essere stati scelti per l’unico appunta-mento elettorale trapanese della coppia aò vertice del centrosinistra.

Presto però la società imprenditoriale cominciò a presentare diversi problemi. Le proteste degli operai, dopo che aveva-no affettuosamente lanciato in aria il loro patron Peppe D’Angelo il giorno che venne fatta la prova di galleggiamento della petroliera (filmato su youtube), co-minciarono a farsi incessanti, fino a esplodere. Il Cnt decide di sbaraccare. Le imprese dell’indotto cominciano a non vedere arrivare i pagamenti, le imprese che facevano da satellite al Cantiere Na-vale di Trapani si rivelano quasi delle scatole vuote, non c’è giorno che passi senza che ci sia una protesta.

Casse diverse, ma stesse persone

La soluzione è presto trovata. La socie-tà che controlla a sua volta la società Cantiere Navale di Trapani (Cnt) è la “Satin” entrambe del gruppo D’Angelo. La Satin ha lavorato nell’area demaniale nei lavori per la petroliera commissionata da “Augusta due”, per un importo pari a 44 milioni di euro. “Augusta due” paga la “Satin” che, a sua volta, sta corrispon-dendo il prezzo del subappalto alla socie-tà “Cnt”, la società che di fatto ha realiz-zato il bene per il committente. Tra dare e avere non si è ben capito chi è in credi-to e chi ha il debito.

Accade quando a gestire casse diverse sono le stesse persone. I soldi per pagare i dipendenti “in crisi” di “Cnt” subiscono dunque il “filtro” della “Satin” deciso dal medesimo soggetto amministrante. “Cnt” è attualmente sotto procedura fallimenta-re e l'amministratore “in comunione” vorrebbe mettere in mobilità (leggasi li-cenziamento) i dipendenti ed ottenere, in favore della società “Satin”, l'affitto del ramo di attività della società “Cantiere

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Navale Trapani”. Per la Capitaneria, tito-lare del rilascio della concessione, si può far passare il titolo dal Cnt alla Satin.

Nel frattempo i lavori per la petroliera sono stati completati, “Augusta due” per ultimare i pagamenti, saldati al 90 per cento, chiede la consegna della nave ma i lavoratori a rischio di mobilità (licenzia-mento) si stanno opponendo poiché non capiscono per quale ragione “Augusta Due” abbia pagato la commessa mentre la società che ha eseguito i lavori (CNT) è in crisi ed è inoltre orientata ad affittare l'attività a condizioni agevolatissime alla “Satin”, che sarebbe sua debitrice.

La storia però non finisce qui. Perché sugli accordi sindacali c’è una clamorosa divisione. Cgil, Cisl e Uil hanno infatti sottoscritto gli accordi con l’azienda. I trenta operai che protestano, a differenza degli altri 50 che stanno in silenzio sotto il “cappello” dei confederali, dicono che un accordo che non è discusso non può definirsi sancito da niente. E hanno costi-tuito un sindacato autonomo e di base.

Nel disinteresse della città

La cosa che colpisce è quella che la protesta di questi operai da mesi va avan-ti nel disinteresse più assoluto della città. Pochissimi quelli che sono a loro vicini. I giovani di Rifondazione, Idv, il circolo Arci Amalatesta, qualche consigliere provinciale: il resto delle istituzioni non s'è visto. L’assessore regionale Venturi si è fatto avanti riuscendo a convocare le parti in prefettura ma anche lì c’è stato il classico buco nell’acqua. La città ha fatto festa per Natale con tanto di neve sparata nella piazza del Municipio in occasione di una festa per la legalità organizzata da Comune di Trapani e Questura, a distan-

za c’era il serale tam tam dei tamburi che vengono battuti sulla nave dagli operai senza più lavoro speranzosi che qualcuno si ricordi di loro.

Alle sorti di questa 30 operai si è inte-ressata la trasmissione “Piazza Pulita” di La 7, ma quando le telecamere dovevano essere accese per la diretta è giunta la diffida dei proprietari del cantiere, la tra-smissione ha rischiato di saltare “per oc-cupazione abusiva” del suolo demaniale, i tecnici hanno fatto salti mortali ma alla fine da Trapani il collegamento c’è stato. Una diffida che non suona proprio bene a proposito di annunciata volontà al dialo-go del gruppo D’Angelo che adesso ha fatto un’altra diffida stavolta contro gli occupanti della petroliera e del cantiere. Licenziati e pure abusivi.

Un'area che fa gola

Ma è proprio vero che il porto e la can-tieristica sono così in crisi? A Trapani non tutti la pensano così, qualcuno è con-vinto che in crisi sono entrati rapporti personali e politici. L’area demaniale oggi occupata dal cantiere Navale di Tra-pani è un’area che fa gola e altri impren-ditori del mare la vorrebbero far propria.

Un nome per tutti? Quello dell’armato-re Morace, patron del Trapani Calcio e prima ancora deus ex machina della compagnia di navigazione Ustica Lines. Morace, napoletano verace, è arrivato a Trapani da Messina, doveva essere una gita la sua e invece qui si fermò, abban-donando la cantieristica messinese.

apprima qualche aliscafo, poi la flotta è cresciuta, negli ultimi anni un inve-stimento di oltre 14 milioni di euro per comprare una serie di navi e traghetti che però spesso sono rimaste ferme in ban-

china, qualcuna di queste navi è stata usata dalla protezione civile nazionale per portare via da Napoli immensi cari-chi di rifiuti. Morace ha ora pensato a fare anche un suo cantiere. E ha messo gli occhi sull’area del Cnt. Intanto le sue navi per i lavori in cantiere a quello di Trapani, dietro l’angolo, ne preferiscono uno di Napoli. Il suo sponsor in tutto e per tutto è l’attuale sindaco di Trapani, Girolamo Fazio, che è tanto amico di Morace da avere pensato a lui, e anche alla moglie dell’armatore, per le prossi-me elezioni a sindaco. Fazio è al secondo mandato non può ricandidarsi ma l’erede vuole sceglierlo lui.

Diffidata anche Libera...

La “Satin” in questi giorni si è fatta ri-sentire. Ha promesso che tutti saranno riassunti ma non ha voluto sottoscrivere la dichiarazione. Poi altra alzata d’inge-gno. Gli operai potrebbero diventare pa-droni di se stessi, entrare come soci nella Satin. E con quali denari? Quelli del “loro Tfr”. Siccome a quanto pare non ci sono nelle casse nemmeno i soldi per pa-gare il Tfr si fa una manovra tutta sulla carta e quei soldi vengono trasformati in azioni. Chissà se quei pezzi di carta sa-ranno disposti a prenderseli le banche per far credito oppure il supermercato sotto casa dove andare a fare la spesa. Rispo-sta scontata, della serie “non ci provate neppure”. Noi dalla petroliera non ci muoviamo. Contro padroni spietati e sin-dacati che non sono di tutti i lavoratori.

La parola fine a questa storia è messa da un’altra diffida. Quella fatta sempre dal gruppo D’Angelo a Libera che l’11 febbraio voleva fare svolgere la sua cena annuale dentro al cantiere occupato.

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Solidarietà/ 1

“Insieme perAnna Maria”

Lunedì 20 febbraio 2012, alle ore 9:00, pres-so la sezione distaccata del Tribunale di Palmi, a Cinquefrondi (RC), udienza per uno dei pro-cessi partiti dalle denun-ce di Anna Maria Scarfò.

Anna Maria aveva 13 anni quando un branco ha iniziato ad abusare di lei nel paesino in cui è nata e cresciuta, San Martino di Taurianova. Le violenze sono proseguite per due anni, finchè Anna non ha tro-vato il coraggio di denunciare, spinta dall'amore verso la sorellina, su cui il branco aveva deciso di accanirsi di lì a poco.

Appena quindicenne, dunque, Anna Maria ha iniziato la sua bat-taglia per riappropriarsi della sua vita. Da sola e contro tutti: con-tro i suoi stupratori, ma anche contro il suo paese, che l'ha emargi-nata e condannata, anzichè riconoscerne il coraggio e starle vicina. Come fosse lei la colpevole. Come una "malanova" da tenere lon-tana...

Da dieci anni Anna Maria combatte la sua lotta ed è riuscita a far condannare, con sentenza definitiva in rito abbreviato, sei dei suoi dodici stupratori. Per gli altri sei è in corso il processo d'appello con rito ordinario (in primo grado sono stati condannati anche loro). Inoltre è riuscita a fare ammonire una decina di persone per stalking.

Le belve e i loro sostenitori hanno ucciso l'adolescenza e la gio-vinezza di questa ragazza sfortunata e coraggiosa, ma non la sua dignità e la sua forza.

Due anni fa Anna Maria è stata però costretta a "scappare" da San Martino, ad abbandonare la sua terra a causa delle minacce e persecuzioni che continua a subire dalla "sua" gente.. Vive in loca-lità protetta, in una terra che non le appartiene, lontana dai suoi af-fetti, estirpata dalle sue radici per la sola colpa di essersi ribellata all'ingiustizia, alla violenza, a una mentalità mafiosa e retrograda che troppo spesso al Sud prende il sopravvento su tutto il resto.

Aiutare Anna Maria a riprendersi la sua vita significa aiutare i calabresi onesti a riprendersi la loro terra. A far capire, alle "belve" di ogni tempo e spazio e a chi le protegge e sostiene, che le vere "malanove" sono proprio loro e che sono loro a dover essere estir-pate, come una gramigna che rovina i raccolti.

Associazione “Rita Atria”, Fondazione "Filianoti",Le Siciliane, Casablanca, Libera Reggio Calabria,Comitato "Se non ora quando?" Reggio Calabria,

Le autrici di "Non è un paese per donne",Comitato "Se non ora quando?",

Associazione "Jineca" Reggio Calabria,Stopndrangheta.it

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Solidarietà/ 2

Cataniacittà aperta?

Vorremmo dire alcune cose in merito all'ennesima aggres-sione avvenuta il 14 febbraio in un pub del centro storico cata-nese ai danni di una trans che in quel locale aveva deciso di trascorrere la serata.

Michelle Santamaria, estetista transessuale di Licata, si tro-vava in compagnia di un' amica dentro un pub in via Michele Rapisardi, vicino al Teatro Massimo Bellini. Le ore erano tra-scorse ballando, festeggiando il giorno di San Valentino ma verso le 4 del mattino Michelle viene insultata da un ragazzo con l'immancabile "Bastardo frocio devi morire" e colpita con un pugno in pieno viso.

Altre persone, il branco, giovani e giovanissimi, la fanno ca-dere e la colpiscono nuovamente con calci e pugni.

Michelle non viene soccorsa da nessuno, nemmeno dai ge-stori del locale ma anzi viene inseguita dagli aggressori, alcuni dei quali armati. Riesce ad arrivare in Questura e denunciare il fatto, viene soccorsa e medicata all'ospedale Garibaldi dove le riscontrano trauma cranico e toracico e una vertebra fratturata, con una progosi di 25 giorni.

Vogliamo esprimere la nostra solidarietà a Michelle, ricono-scendole il coraggio di essersi esposta con una denuncia pub-blica e augurarle di rimettersi al più presto da questa ignobile avventura conoscendo perfettamente le dinamiche incontrolla-bili che scatenano questi accadimenti.

Come Open Mind siamo accorsi in difesa di una trans siero-positiva che a San Berillo non era stata fatta salire in ambulan-za, chiamata perché si era sentita male, e tante volte abbiamo raccolto il disagio, il dolore e le lacrime di volti e anime ferite nei corpi e nella dignità, accompagnati in questo, dalla solida-rietà concreta di donne e uomini, compagne e compagni.Cata-nia non è una città immune dalla violenza contro chi ha il co-raggio e il desiderio di mostrare un aspetto diverso e non con-forme alla cultura dominante del nostro paese. Le parole di Michelle ce lo confermano.

"Mi hanno aggredita perché ho un viso maschile e non fem-minile come si aspettavano". Come a dire che ognuno di noi deve corrispondere a ruoli e comportamenti normati, che non diano scandalo.

Se pensiamo che a dicembre una donna, Stefania Noce, una ragazza giovane e fiere della sua donnità, è stata massacrata dal suo fidanzato, ci rendiamo conto di come la nostra terra sia ancora pregna di cultura patriarcale che si traduce in disprezzo e violenza contro i corpi che la mettono in discussione. Donne, gay, lesbiche e trans, nella loro identità non normata, e quindi rivoluzionaria, sono comunemente considerat* soggetti fragili e a rischio. Capovolgiamo questo paradigma, facciamo diven-tare il limite una risorsa, così costruiremo un mondo altro.

Sara CrescimoneOpen Mind, Catania

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Trasporti

Com'era bello il mio trenoNostalgie ferroviarie

Ne ho fatti di viaggi sulla Freccia del Sud e treni simili. Tutto co-minciò nel 1969...

di Tommaso Maria Patti CTzen

Per quasi quattro anni i miei viaggi Catania-Bologna, dove frequentavo il triennio di ingegneria, furono incontri di amore-odio proprio con la Freccia del Sud: di odio le partenze verso il freddo e il dovere; di amore i ritorni verso casa, il caldo, il mare… la mia ragazza. A quei tempi la Stazione fer-roviaria di Catania era sempre affolla-tissima. Partiva e arrivava tantissima gente, mentre l’aeroporto, sebbene in crescita, sembrava ancora quello di una piccola città.

Nei due anni successivi, trascorsi a Padova, prendevo il treno per Venezia; credo si chiamasse Freccia della Lagu-na. Si è trattato sempre di viaggi in cuccetta. Poi seguirono trentacinque anni e più di cuccette e vagoni letto (da quando ho cominciato a potermelo permettere) tra Roma e Catania. Or-mai però le partenze e i ritorni erano da Roma e per Roma. La mia ragazza intanto era diventata mia moglie. Ho viaggiato anche in macchina, in aereo, in nave, in pulmann, è vero, ma il tre-no è stato sempre il mio mezzo di tra-sporto preferito.

Era divertente il treno. Vi accadeva di tutto. Mi piaceva. In certi periodi in cui ho fatto il pendolare settimanale Roma-Padova in treno ci ho praticamente vissuto: ci dormivo due notti a settimana.

Confesso che soffrivo e soffro quando sento certi commenti, soprattutto a Cata-nia: «Che schifo i treni! Sono carri be-stiame. Non capisco come faccia certa gente a prenderli… lenti, sporchi, mal serviti, mai puntuali; ci invecchi sui tre-ni…». Io quei treni invece li ho amati, anche se forse ci sono invecchiato vera-mente. All’inizio avevo tutti i capelli ed erano scuri, come la barba. Oggi capelli ne ho pochissimi e sono bianchi. E bian-ca è pure la barba. Ma i treni del sud sono serviti sempre peggio e ormai quelli per la Sicilia, un po’ alla volta, li stanno sopprimendo: prima quelli da e per il nord, poi i notturni da e per Roma.

Alla fine li aboliranno tutti

Alla fine aboliranno anche i diurni. Costa troppo la gestione dei traghetti fer-roviari. Non fanno più neanche la manu-tenzione di quelli guasti. Ne sono rimasti solo due operativi dei cinque di una vol-ta. Quando, a breve, saranno anche quelli inservibili… abbiamo chiuso! Prima o poi tutti i treni si fermeranno a Villa e si dovrà traghettare per conto proprio. Nel-l’isola vinceranno definitivamente i pull-man delle compagnie private.

E’ ovvio che allora l’aereo non avrà più alternative neanche da Roma. Intanto Alitalia avrà acquistato Windjet e, in mancanza di concorrenza, torneranno i prezzi carissimi di una volta.

Che peccato. E che passo indietro per la Sicilia! Le centinaia di volte che il mio treno ha dovuto traghettare ho sempre

considerato assurdo che si impiegassero circa due ore e mezza dall’arrivo a Villa alla ripartenza da Messina. A lungo mi sono illuso che prima o poi si sarebbe co-struito quel benedetto ponte.

E quando ancora non si associava l’i-dea del ponte a un personaggio preciso e a una parte politica precisa… quasi tutti la pensavano come me. Ricordo Giusep-pe Fava, che pure era di sinistra e certa-mente schierato contro la mafia, come lo auspicava quel ponte. Scrisse pagine in-fuocate per dimostrarne la necessità.

L'Italia, senza saperlo, cresceva

Ma torniamo ai treni: ricordo che fino a qualche anno fa il treno occorreva pre-notarlo con due mesi di anticipo, soprat-tutto nei periodi di punta, a Natale, Pa-squa, d’estate… altrimenti col cavolo che la trovavi la cuccetta. Nel periodo che ancora il dollaro valeva stabilmente 625 lire (la nostra liretta era stabile) e l’Italia, anche senza accorgersene, cresceva velo-cemente, la cuccetta costava 1.600 lire. Poi a lungo il prezzo mi pare sia stato di 1.950 lire. Il biglietto vero e proprio, di qualche decina di migliaia di lire, variava in base alla lunghezza del viaggio e alla classe.

Viaggi a volte avventuros

I viaggi erano abbastanza sicuri, ma certe volte avventurosi. Scioperi che co-stringevano a scendere a Villa per risalire su un altro treno a Messina. Nevicate che facevano fermare a lungo i treni anche a pochi chilometri dalle città di destinazio-ne. Pullman sostitutivi per tratti inagibili, ad esempio per mareggiate in Calabria. Ne ho viste, ah se ne ho viste! Ricordo

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“Di ritorno dal nord,l'arancino

del traghetto...”

un viaggio con partenza da Venezia in piedi… anzi su un piede solo fino a Bo-logna, poi ho potuto proseguire su due piedi finché da Firenze in giù sono co-minciati i turni per sedersi.

Un'atmosfera di simpatia

Oggi ci si lamenta di treni scomodi e sporchi… Ma vedeste allora... Ricordo l’assalto a un aranceto in Calabria, visto che il treno era fermo da ore e i viveri erano finiti...

Ricordo certi incontri simpatici. Una ragazza in particolare: era di Augusta. Fu un viaggio piacevole, sebbene pieno di disagi. Avrei volentieri proseguito per quella città se a Catania non mi avesse aspettato una persona che per me contava molto.

Ricordo certe partite a carte, più viste che fatte. Ricordo certi scompartimenti a cuccette, pieni di mamme con bambini neonati che piangevano tutta la notte… e gli odori... e i rumori... Ricordo che certe volte nascevano discussioni piuttosto accese, mentre altre volte si creava una magica atmosfera di simpatia e armonia.

Un'antica cultura contadina

Ricordo un viaggio speciale un 26 di-cembre con l’intera vettura vuota. Erava-mo solo mia moglie ed io e nessuno avrebbe potuto sorprenderci. Ricordo che i litigi fra i viaggiatori sono sempre stati rarissimi. La gente era paziente e mostra-va un’antica cultura contadina fatta di saggezza. Mai sentito di furti, ma tanto di notte ci si chiudeva dentro, bloccando la porta.

Sul traghetto si andava al bar solo se si poteva lasciare qualcuno di guardia nello scompartimento. C’erano anche piacevo-

li abitudini. Ricordo alla stazione di Fi-renze una voce che gridava «hàffe hàldo!!!» e quant’era buono quel caffè! Di ritorno dal nord l’arancino sul traghet-to era il primo incontro con la Sicilia. Ri-cordo la ressa al bar: «A me cinque». «Io ne voglio due!». «Dieci arancini per me!».

Una scena non la dimenticherò mai. Al barista, a un certo punto, ne era rimasto solo uno, anziché i dieci richiesti. Il cliente deluso e piuttosto maleducato, afferrato con rabbia l’unico arancino, lo scagliò in faccia al povero cameriere.

Erano soprattutto emigranti

Ho visto lentamente cambiare il livello culturale e l’educazione dei viaggiatori: soprattutto emigranti prima, povera gente che le famose valigie di cartone legate con lo spago le aveva davvero e che spesso proseguiva per la Germania; stu-denti, militari, turisti, o gente che viaggia quotidianamente per lavoro più di recen-te.

Prevaleva il dialetto prima, l’italiano oggi. Si fumava dappertutto prima, poi gradualmente si è smesso e chi ancora fuma deve scendere alle stazioni. Da un certo momento in poi hanno istituito gli scompartimenti a cuccette per sole don-ne. Per un certo numero di anni sono sta-ti operativi i viaggi «treno con auto al se-guito». Che comodi che li trovavo!

Chiedevano “Vuol favorire?”

Dal ’69 è passato tanto tempo. Oggi nessuno getterebbe l’arancino in faccia ad un cameriere. Ma in compenso nessu-no ti chiederebbe «Vuol favorire?» come si faceva una volta, quando con modi ce-rimoniosi, ma quasi sempre sinceri, si of-

frivano, tirandoli fuori da incredibili ba-rattoli o da cartocci di carta oleata olive, acciughe, formaggio…ed era una pena per me rifiutare, ma francamente non ce la facevo. Loro ci restavano male…

Quanti ricordi, quanti episodi… troppi per raccontarli tutti. Per molti quelli era-no solo viaggi nella geografia del paese. Per chi, come me, ha sempre viaggiato su e giù per l’Italia, si è di fatto trattato di un incredibile e magico viaggio nel tem-po, che peraltro non è ancora finito.

Più ricchi e meno gentili

Oggi la gente non ha più né le gentilez-ze né le rozzezze di una volta. E’ cambia-to tutto. Le persone sono mediamente più colte, più educate, più ricche, ma forse anche meno pazienti e gentili. Forse co-munque le persone sarebbero anche oggi ben felici di avere pure al sud e in Sicilia treni moderni, confortevoli ed efficienti come i Freccia Rossa. Se si potesse anda-re a Roma in quattro ore perché prendere l’aereo?

Ma già oggi, purtroppo, o forse fra poco, la Sicilia non avrà più neanche i treni brutti e puzzolenti di una volta… Mentre i treni comodi e veloci saranno riservati solo alla parte più ricca del pae-se, quella che va da una certa latitudine in su e che è proiettata verso l’Europa. Poi ci si domanda come e perché nasca il divario nord-sud… Mah!

Oggi la stazione ferroviaria di Catania sembra la stazione, poco frequentata, di una piccola città periferica: ci si vedono più cani randagi che viaggiatori. L’aero-porto, invece, sembra quello affollatissi-mo di una metropoli del terzo mondo, dove i treni non possono permetterseli.

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Trasporti

Siracusa-MilanoOdissea sul binario Non tutti i chilometri sono uguali... Dall'e-strema Sicilia sono molto più lunghi

di Francesco Midolo Ci sono tre imprenditori, Giovanni

di Ragusa, Lucio di Siracusa e Antonio di Bari. Sono tutti e tre alle stazioni ferroviarie delle loro città alle ore otto del mattino. L’imprenditore ragusano ed l’imprenditore barese, vogliono raggiungere Milano per promuovere la loro azienda alla B.I.T. L’imprenditore siracusano vuole andare a Trapani per scegliere dei prodotti locali da propor-re nella propria azienda. Partono in treno perché hanno tanto materiale pubblicitario da portarsi dietro.

Giovanni parte da Ragusa alle otto del mattino. Arriverà a Milano – facendo due cambi – alle sei e cinquantacinque del giorno dopo. 22 ore e 55 minuti di viag-gio per 1.447 Km. Il suo treno viaggerà a 62Km/h di media.

Lucio parte da Siracusa alle dieci e trenta del mattino, perché prima di quel-l’ora non ci sono treni. Arriverà a Trapa-ni – dopo aver effettuato tre cambi – alle ventuno e cinquanta. 11 ore e 20 minuti di viaggio per 489 Km. Il suo treno viag-

gerà a 43 Km/h di media.Antonio parte da Bari alle otto del mat-

tino. Arriverà a Milano – senza effettuare cambi – alle quindici e venticinque dopo appena 7 ore e 43 minuti di viaggio per 880 Km. Il suo treno viaggerà a 118 Km/h di media.

Giovanni e Antonio partecipano alla B.I.T. Antonio vende più pacchetti viaggi di Giovanni. Giovanni non andrà mai più alla B.I.T. Almeno con il treno.

Lucio trova tanti prodotti che potrebbe essere utili alla sua azienda. Prende ciò che può e li porta a Siracusa. Ma è poca roba, dovrebbe tornare. Lucio non andrà mai più a Trapani. Almeno con il treno.

I personaggi non sono reali. La situa-zione delle ferrovie dell’estremo sud Ita-lia, sì.

“Siracusa e la Sicilia stanno piano pia-no perdendo il ruolo di piattaforma eco-nomica strategica nel Mediterraneo - af-

ferma Roberto Aloisi della Cgil - Le poli-tiche aziendali stanno mettendo in discussione il diritto alla mobilità delle persone, senza contare le conseguenze per il trasporto delle merci“.

Il problema è noto. In un consiglio co-munale aperto, tenutosi a Siracusa, con-vocato dalla conferenza dei capigruppo su richiesta del consigliere Sergio Bona-fede, si è discusso proprio dei tagli dei treni e degli investimenti ferroviari nel-l’estremo sud.

Visto dal sud del sud

Il primo a intervenire è stato il sindaco, Roberto Visentin, che ha denunciato la sordità di Ferrovie dello Stato rispetto alle tante richiesta di incontro partite da-gli enti locali. Per Visentin, che ha chie-sto la firma in tempi brevi del contratto di servizio tra Regione e azienda, i recen-ti blocchi stradali hanno dimostrato l’im-portanza dei collegamenti su rotaie ed è “inaccettabile” che gli investimenti nel settore riguardino solo il centro-nord. L’abbandono di una regione come la Si-cilia, ha aggiunto, è un fatto grave e ren-de vani gli sforzi che gli enti locali, pur in un momento di crisi finanziaria, met-tono in campo per il turismo.

Ad ascoltare le parole del sindaco di Siracusa, oltre ad una folla di gente ac-corsa per sapere delle sorti della stazione ferroviaria, erano presenti i deputati re-gionali Roberto De Benedictis e Bruno Marziano e i rappresentati sindacali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 48– pag. 48

SCHEDASUD-NORD IN TRENO

Ragusa-Milano con cambio a Siracusa e Roma costa 113,65 in seconda classe per 22 ore e 55 minuti di viaggio (08:00-06:55).Siracusa-Trapani con 3 cambi (Mess-ina, Palermo e Piraino) costa 35,60 per 11 ore e 20 minuti di viaggio (10:30-21:50, 489 Km) .Bari-Milano (nessun cambio) costa 85 euro in seconda classe per 7 ore e 42 minuti (07:43-15:25, 880 Km).Fonte: Trenitalia.comPrezzi calcolati su posti a sedere

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MAMMA !

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Una pericolosa innocenza

Qualche giorno fa, mi trovavo in un liceo

di Angoulème in Francia, per parlare a

dei ragazzi della storia di Peppino

Impastato che insieme a Marco Rizzo

abbiamo raccontato a fumetti.

Ovviamente parlammo della mafia, e di

come la vivessimo ogni giorno quaggiù

in Sicilia. Domande, curiosità e tanti

luoghi comuni, come potete immaginare.

"Certo che potete venire in Sicilia, non vi

sparano mica addosso come si vede nei

film, è tutto molto diverso da quello che

vi raccontano ".

E' vero, oggi non si spara più, poi a

Messina, si è sempre sparato pochissimo,

a Messina, "la città babba"

non accade quasi mai nulla di rilevante,

figuriamoci a Villafranca Tirrena, il

paese in cui abito e in cui devo dire, si

vive anche abbastanza bene.

Quasi 20 anni fa però, era il 1985, la

piccola Graziella Campagna veniva

barbaramente trucidata in quella che

sembrava un'esecuzione mafiosa. Gli

assassini Gerlando Alberti Jr e Giovanni

Sutera, latitanti di Cosa Nostra nascosti

proprio a Villafranca, verrano

successivamente scoperti e condannati

all'ergastolo.

L'altro giorno sono venuto a sapere della

morte di Santo Sfameni, presunto boss

del paese, uomo rispettato e di cui so

poco, se non quello che si può appunto

leggere sui quotidiani, e cioè che fu lui a

presentare al sindaco e al maresciallo

dell'epoca quelli che poi diverranno gli

assassini della piccola Graziella.

Su questo nulla da dire, in fondo ci sono

tanto di inchieste che hanno parlato del

fatto, e se ci sarà da giudicare, cosa che

non amo fare, non spetta certo a me.

La cosa che però fa riflettere, sono le

parole del parroco Pelleriti "fu un

benefattore perchè aiutò la nostra

comunità", e la presenza dei politici

locali, tra cui il vicesindaco De Marco ed

i vigili urbani.

Tutto sotto l'indifferenza quasi totale del

paese, anche forse per la paura di parlare

di certe cose.

Mi chiedo con non poca emozione, come

ci si possa però dimenticare di Graziella

Campagna, una bambina massacrata

come un cane, di gente come padre

Puglisi, Falcone e Borsellino a cui

restano sterili celebrazioni, inutili targhe

su vie o piazze, come l'obolo pagato da

una coscienza addormentata, per

continuare a dormire.

Credo dunque, sia doverosa una

riflessione.

Mentre scrivo queste righe, il mio

pensiero va a quei ragazzi francesi che

hanno timore a venire qui da noi, che in

fondo ci diciamo, sono solo vittime del

pregiudizio, dell'ignoranza, e a quanto

davvero non abbiano ragione a pensare

certe cose di noi siciliani.

Perchè è vero che oggi non si spara per

strada come nel "Padrino", ma è

altrettanto vero, che la nostra stessa

dignità, la nostra profonda innocenza

viene assassinata ugualmente, giorno

dopo giorno.

Lelio Bonaccorso

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da salotto. Ci voleva un lavora-tore emigrato come Marco “MP” Pinna, che si è bruciato due set-timane di ferie per partorire la saga di Nicola, l’antieroe in tuta blu del terzo millennio. Un mondo precario dove Nicola lotta per salvare la sua fabbrica dalla chiusura, e scopre i trucchi più loschi con cui i padroni frega-no le classi medio–basse.Più spericolato di Batman, più sfigato di Fantozzi, più ribelle di Spartacus e più solo di Ulisse: Nicola è il simbolo della nostra voglia di resistere alle ingiustizie. Contro di lui un padrone senza scrupoli e una famiglia senza ver-gogna, incarognita dalle mode più devastanti del momento.Uno spietato “reality show” a fumetti, un micromanuale di eco-nomia finanziaria, un prontuario di autodifesa sindacale ma so-prattutto lo sfogo di satira rab-biosa di un “artista–operaio”.Ottanta pagine di sopravvivenza proletaria: astenersi perditempo.

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La storia di Giuseppe Gatì, 22 anni, pastore per vocazione, produttore di formaggi per

mestiere, attivista antimafia per passione.Il suo volto è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contestazione al “pregiudicato Vittorio Sgarbi”, che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva Caselli! Viva il pool antimafia!”Con l’aiuto degli amici e dei fa-miliari di Giuseppe, Gubi e Kanja-no hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di questo ragazzo, che ha lasciato una ere-dità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un banale incidente sul lavoro.Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimen-talismo e della commemorazione, per restituire al lettore tutta la bel-lezza di una intensa storia di vita.

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47 MAMMA! | n. 8 | Paura, eh?

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Weimar? George Grosz

“Lasciamoligiocare,poveri bambini”

La casa, ancora bella, era stata un tempo bellissima. Ora, però, risentiva degli anni, se non dei secoli, e della pe-nuria di restauri e manutenzioni. Qualche traccia di umido, l’intonaco qua e là sbrecciato, graffi su porte e in-fissi. In cucina, i pensili da tempo non formavano più una linea dritta e dal tavolo, nonostante bruciature e anelli di bicchieri, non era scomparsa la pas-sata bellezza e solidità, nonostante il disordine di fogli e cartelline che lo in-gombravano.

«Il problema sono le rate del mutuo».«Quando scadono?»,«A marzo».Dalla stanza accanto, dalla quale, per

tutta la durata della discussione, era pro-venuto un brusio di sottofondo, si levò un urlo di trionfo che li costrinse ad in-terrompere l’esame dei conti. Trovarono la forza di sorridere «Beati loro, che rie-scono a divertirsi…».

«Beati loro, che non si pongono questi problemi».

Sguardi benevoli e comprensivi.E poi, scuotendo la testa per non farsi

distrarre da pensieri troppo lievi, «Entro marzo bisogna trovare quei soldi, quindi. E dove?».

«Potremmo vendere qualcosa. La mac-china, i libri.».

«I libri?» e gli occhi preoccupati e tri-sti andarono alla libreria carica e affolla-ta grazie a decenni di amorosi acquisti.

«In fondo – le disse prendendole la mano – ormai se ne trovano tanti in rete. Non è più necessario averli di carta».

«Lo so. Ma sono ricordi, i nostri ricor-di…».

Un barrito di trionfo si levò dalla vici-na stanza. Per scaricare la tensione ab-batté il pugno sugli estratti conto appog-giati sul tavolo, scostò fragorosamente la sedia dal tavolo, si alzò facendo volare altri estratti conto che teneva sulle ginoc-chia e, aperta la porta, «Volete piantarla, ragazzi?!».

“Volete piantarla, ragazzi?”

Si levarono deboli e poco convinte proteste che interruppe con voce ancora alterata «Con la mamma stiamo parlando di cose importanti! Cercate di stare buo-ni, una volta tanto».

Si risedette sospirando, si chinò per prendere le carte atterrate sotto il tavolo. «In fondo dobbiamo solo stringere la cin-ghia per un paio d’anni. Magari se rinun-ciamo alle vacanze e tagliamo ancora un

po’ le spese ce la possiamo fare, e senza dar via i libri».

«Tagliare le spese? Ancora? Quali?».La domanda si perse nel silenzio. Un

silenzio breve, di lì a poco interrotto da nuova grida dalla stanza vicina. Ancora una volta stava per alzarsi, ma lei lo pre-venne, poggiandogli una mano sul brac-cio.

«Lasciali fare, lasciamoli giocare».«Ma non si rendono conto di quello

che stiamo passando?».«Forse no, ma è meglio così, lasciamo-

li sfogare.»«Lo facciamo, tutti i giorni, con le leg-

gi elettorali, con l’Art18, con le riforme costituzionali. Li assecondiamo, passia-mo ore con loro quando vogliono fare i sindacati o i politici. Ma in certi momenti dovrebbero capire.».

«Forse è meglio che non capiscano, forse è meglio che non si rendano conto. Sarà più facile per loro sopportare questi anni.».

«Hai ragione, Elsa. Ma poi ogni giorno si svegliano e chiedono un nuovo emen-damento, altri fondi, ulteriori spese men-tre noi, invece, siamo qui seduti a chie-derci se sia il caso di vendere i libri.».

«Devi aver pazienza, Mario. Sono solo dei ragazzi, lasciamoli giocare.».

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 56– pag. 56

Il ceto medio si sta liquefacendo. Ben pochi, nelle famiglie borghesi, avranno il tenore di vita dei loro padri. C'è un'aria di Weimar sempre più insistente. Ma i politici non lo sanno

di Jack Daniel

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FOTOREPORTAGE

Messinasepolta viva

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 57 – pag. 57

La città nasconde, nel ventre, una storia millenaria che viene fuori appena viene smossa la terra. Eppure si continua a costruire senza indagini

archeologiche e, a volte, senza fermarsi davanti al passato che risorge.

di Dino Sturiale e Sebastiano Ambra

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I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 58 – pag. 58

Tomba a Tholos ritrovata nel cantiere “I granai”, in località Gazzi: i lavori per costruire delle palazzine è sorto lì dove fino a poco tempo fa c’erano dei mulini dove lavoravano il grano centinaia di lavoratori. I mulini sono stati chiusi circa due anni fa. Come finirà? C’è da dire che la presenza di conci fa intuire che lo scavo deve proseguire, perché più in là c’è dell’altro.

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I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 59 – pag. 59

Una villa di epoca tardo-romana venuta

alla luce mentre costruivano un palazzo. I lavori, però,

vanno avanti tranquillamente

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Dietro il Duomo c’è il sito archeologico di “San Giacomo”: 500.000 croceristi l’anno sbarcano a Messina e quella è loro prima tappa. Il sito è lasciato all’incuria, ed è posto dove si sa da tempo che scorre dell’acqua , quella del torrente “Portalegni”

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La Soprintendenza aveva previsto delle pompe di drenaggio da mettere in funzione per evitare infiltrazioni d’acqua, ma le pompe non sono mai partite a causa di un conflitto di attribuzione tra il Comune e l’Ato.

I ritrovamenti più importanti legati a questo sito (una metopa e degli affreschi) sono stati portati altrove e, di fatto, salvati.

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Cripta normanna decorata barocca nel Duomo. Un cantiere della soprintendenza che arranca da oltre 10 anni a causa delle infiltrazioni di acqua (che rallentano i lavori). Dovrebbero essere cambiati i pluviali esterni e dovrebbe farlo la curia. Ma c’è un ping-pong fra curia e soprintendenza e l’acqua si mangia tutto.

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Personaggi

Il re dei forconi

Comincia da Palermo il nuovo corso di Mar-tino Morsello, re defe-nestrato del Movimen-to dei Forconi per la sua vicinanza a Forza Nuova, e del suo deci-mato seguito. Sotto la finestra del governato-re Raffaele Lombardo urlano “dimissioni!”

di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo

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Il movimento si è spaccato. C’è Mor-sello, e i suoi pochi intimi, che deposita il marchio tanto fortunato scatenando le ire dei ritardatari al seguito di Ma-riano Ferro, che adesso annunciano le vie legali. Uno contro l’altro, il teatrino può cominciare. Ma Martino Morsello è un tipo tosto, fantasioso e affezionato al suo broncio da vittima del sistema. Espressione esatta del Movimento an-che da lui fondato: tante mezze verità.

Portabandiera dell’antipolitica, negli anni ’80 e ’90 ricoprì per diverse volte le cariche di consigliere comunale e asses-sore nella sua città, Marsala, col Psi. Dopo vari saltelli si candida alle regiona-li proprio con la coalizione di Lombardo raccogliendo solo 181 voti.

Trova la soluzione ad ogni problema: contro chi gli oscura i manifesti usa l’ar-ma dello sciopero della fame. Contro la crisi degli agricoltori trapanesi propone di coniare una nuova moneta.

Sciopero della fame

Si definisce imprenditore, vittima un po’ di tutto. Impiegato comunale a Petro-sino, piccolo comune trapanese, finisce sotto processo per truffa e falso continua-to. Avrebbe finto più volte di trovarsi in ufficio, quando in realtà si trovava altro-ve. Ma è anche imputato per bancarotta fraudolenta per il fallimento della sua azienda.

Da qui prende quota il personaggio Morsello. Si incatena al Comune, rac-conta le sue avventure in tv. La moglie Vita, compagna di scioperi della fame, e la figlia Antonella, addetto stampa del padre, non lo lasciano mai solo.

L'Ittica Mediterranea

Nei primi anni ‘90 il suo allevamento di pesci, Ittica Mediterranea, va bene. Poi inizia il calvario, i pesci vengono colpiti da un virus e iniziano a morire. “Mi sono indebitato con le banche per

salvare la mia attività, poi il tribunale di Marsala ci ha fatto fallire”, racconta a Fabrizio Frizzi.

Nel 2003 l’azienda viene dichiarata fallita, e Morsello s’ingegna. Stipula un contratto di affitto dell’Ittica ad un’altra società intestata alla moglie, Acquacoltu-ra Mediterranea, che prende in custodia i pesci.

Ma dopo alcuni mesi avanza delle esorbitanti richieste di rimborso spese per il mantenimento dei pesci che nel giro di poco muoiono. E degli 800 mila euro chiesti al tribunale gliene vengono concessi 270 mila.

Morsello non è soddisfatto e anche questa azienda fallisce. Denuncia il cura-tore fallimentare e il giudice rei, a suo avviso, di averlo fatto fallire. “I giudici ce l’hanno con me”.

Scrive al Presidente

Scrive al Presidente del Consiglio, Ca-mera e Senato. E anche al Papa. Nel frat-tempo l’azienda viene messa in vendita, ma le aste vanno a vuoto. E puntualmen-te, poco prima delle aste, i locali subisco-no incendi di chiara natura dolosa.

Chi parla delle sue intricate vicende giudiziarie rischia di essere accostato a “certi poteri loschi”. Nel suo ultimo vo-lantino elettorale si legge: “Sono un uomo schietto, umile, testardo, sincero, con senso di giustizia, legalità, umiltà, ri-spetto e bontà”.

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Senzatetto/ Milano

Alla faccia della nevealla facciadella 'ndranghetaPer sopravvivere alla neve e al gelo delle notti milanesi i senza-tetto hanno a disposi-zione un nuovo dormi-torio: il “For a King”, discoteca sequestrata alla ‘ndrangheta e ria-dattata a ricovero gra-zie a un accordo tra Sogemi e Comune

di Federico Beltrami www.stampoantimafioso.it

Quarantacinque nuovi posti letto. Quarantacinque volti bianchi, neri e gialli. Qualcuno scavato dal freddo e dalla fame, qualcun altro rosso di quel vizio che è ormai necessità, compa-gnia, distrazione. Quarantacinque nuovi motivi per sperare. Da mercole-dì 8 febbraio, e per le prossime notti, si trovano al terzo piano di un edificio in via Lombroso 54, poco fuori dal centro

Lì c’era un locale: “For a King”, “Per un re”, si chiamava. L’avevano inaugura-to una sera di aprile del 2007: le balleri-ne, le luci, lo champagne. E gli uomini del clan di Salvatore Morabito.

Due settimane dopo, gli arresti e il se-questro del bene. Cinque anni dopo, i senzatetto. Merito di un accordo tra il Comune di Milano e la Sogemi, la muni-cipalizzata che gestisce i mercati annona-ri della città meneghina.

Se non fosse vera, questa storia, par-rebbe una metafora: del male che soc-combe ai danni del bene, del puzzo di uno sfarzo arrogante, di una ricchezza unta di violenza e disonore cancellati dal profumo della dignità, del candore di un’esistenza vissuta senza compromessi, nel bene e – soprattutto – nel male. Del fortino dei (pre)potenti espugnato dal si-lenzioso esercito degli invisibili.

E invece questa storia è vera e non è tutta rose e fiori: è anche spine. La più appuntita si trova proprio davanti al rico-vero per i senzatetto.

Si chiama Ortomercato e insieme a tanta buona frutta e verdura ospita(va) chili di droga, oltre a una discreta dose di violenze e minacce ai danni di sindacali-sti, di sfruttati che non vogliono più farsi sfruttare ma che vi sono costretti, se non vogliono finire anche loro al terzo piano del palazzo di fronte al quale lavorano.

Droga all'ortomercato

Lì, come al “For a King”, dominava un facchino che facchino non era, tanto che al lavoro c’andava su una fiammante Ferrari: Salvatore Morabito. A coprirlo, lì come al For a King, un ex sindacalista che sindacalista non era più, tanto che pagava parte degli stipendi dei lavoratori della sua cooperativa in nero: Antonio Paolo. Oggi i due lì non ci sono più, con-dannati a 13 anni e 8 mesi uno e a 7 anni e 8 mesi l’altro.

A questa storia, però, manca il lieto fine: a Milano, l’esercito di invisibili continua a crescere. E pure l’altro.

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Senzatetto/ Catania

Sono rimasti al geloma riscaldatida tante promesseSalvo la Caritas e qual-che parroco, nessuno ha pensato a salvare i più poveri dal frddo che è arrivato anche qui. In compenso, i po-litici ne hanno parlato tanto

di Domenico Stimolo

In questa Italia ghiacciata, loro muo-iono. Sono i cosiddetti senza tetto, gli emarginati, i mendicanti; nostrani e “forestieri”.. Vivono quotidianamente all’esterno, avvolti negli stracci e in qualche lercia coperta; molti dentro un‘improvvisata “latta” montata, a far da casa. Quanti sono? Decine o centi-naia di migliaia? Sono considerati scar-ti della razza umana, quindi non utili per il censimento. Le politiche di esclu-sione montate negli anni li hanno fatti assurgere alle cronache come sinonimo di oggetti da bastonare o da bruciare.

I pochi posti nei dormitori gestiti dai comuni sono esauriti da tempo. In molte città non esistono proprio. In parecchi casi sono stati smantellati. Non è produttivo impiegarvi qualche soldo. In mancanza di una certa ed efficace azione pubblica, si cerca di fronteggiare con l’intervento ge-neroso dei volontari e della Caritas. Una goccia nel mare, che non può esaurire i compiti di aiuto, assistenza, accoglienza e reinserimento sociale. sanciti dalla nostra Costituzione.

Qualche sindaco si commuove

Nei giorni del gelo qualche amministra-tore, nelle grandi città, si commuove; se va bene si lasciano aperti per la notte gli atrii d’ingresso delle metropolitane e di qualche stazione ferroviaria. A Milano, dove il comune gestisce 1700 posti nei dormitori, insufficienti per il grande nu-mero dei senza tetto, si spendono 570 mi-lioni per costruire il nuovo edificio della Regione. A Bari il sindaco mette a dispo-sizione il Teatro cittadino (il Petruzzelli) e le palestre di due scuole, a guisa di dormi-torio.

A Catania, dove non è mai stato realiz-zato il campo di transito per i Rom – in città ne sono presenti parecchie centinaia – e in centro centinaia di emarginati vivono drammaticamente in una indegna baraccopoli, siamo alla commedia. Ma truce.

In tutta la città per i senza dimora sono disponibili 105 posti letto: ottanta gestiti dalla Caritas e venticinque da un consor-zio convenzionato col Comune. Il 6 feb-braio è stato comunicato che tra il sindaco Raffaele Stancanelli e il sottosegretario Filippo Milone era stato deciso di appron-tare sessanta posti letto nella caserma Sommaruga (una grande area con edifici e grandi cortili, in parte non più utilizzati).

Ma l'idea è naufragata nell’arco di po-che ore, per quanto si fossero già messi in opera i volontari.

L’entusiasmo del sindaco e del sottose-gretario non aveva infatti considerato che in caserma, come si è ufficialmente appre-so, per gli ospiti si deve pagare. In questo caso ovviamente la struttura erogante do-veva essere il Comune. Velocissima mar-cia indietro, e la caserma è rimasta chiusa.

Luoghi pubblici inutilizzati

E dire che la città è piena di ampi luo-ghi pubblici, privati e di culto - molti gli appartamenti vuoti - che in questo periodo di intenso freddo potrebbero ampiamente accogliere gli emarginati.

Ma le chiacchiere sui simboli hanno to-talmente prevaricato la nuda, cruda e drammatica realtà che riguarda gli umani.

Nel silenzio totale, a parte la Caritas, si è fatto avanti solo padre Gianni Notaro parroco di una chiesa cittadina che ha al-loggiato dieci disperati nel salone.

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Andare o restare? La storia di Edoardo

«Parto per tornare,è una battagliadi civiltà»Edoardo Cicero fareb-be felice il vicemini-stro Martone perché non ha ancora 28 anni ed è già laureato. De-nuncia le storture universitarie e intanto viaggia per gli ospedali d’Europa, sognando un futuro nella ricerca. Ma alla fine torna sem-pre a Catania

di Claudia Campese CTzen

Una laurea in medicina, un futuro sognato da ricercatore in neurologia, brevi boccate d’aria all’estero ma testa e cuore sempre a Catania. Nonostante ministri e viceministri. Edoardo Cice-ro, 25 anni, si è laureato a ottobre alla facoltà di Medicina etnea e adesso at-tende gli esami di abilitazione. Intanto ha fatto la parte di se stesso in Il pezzo di carta, il cortometraggio del catanese Marco Pirrello proiettato in anteprima lo scorso 13 febbraio al cinema King.

«Ci tengo a far sapere che non stavo recitando – spiega – manifestavo davve-ro». Megafono alla mano, denuncia stor-ture e mancanze del sistema universitario cittadino e nazionale. Le stesse che sco-raggiano il protagonista del corto, prossi-mo alla laurea, e dividono il suo destino da quello di un amico, in cerca di fortuna a Milano. Edoardo invece è rimasto, ma senza arrendersi.

Pazienti abbandonati

Dopo gli sfigati del viceministro al Lavoro Michel Martone sono arrivati «i giovani che vogliono lavorare vicino a mamma e papà» del ministro dell'In-terno Anna Maria Cancellieri. Tu che ne pensi?«E’ una cosa folle. Di una superficialità e una cattiveria che non mi aspettavo da un ministro. La realtà è più complessa. Tra i reparti degli ospedali vedo tanti pazienti abbandonati dallo Stato, privi di assisten-za. Se non avessero le famiglie vicine, per loro sarebbe un dramma. In casi come questi restare è una scelta obbliga-ta, per sopperire alle mancanze di un si-stema. Che rabbia sentire la Cancellieri parlare così di queste persone».

Tu 28 anni ancora non li hai e ti sei già laureato. Di cosa trattava la tua tesi? Resterà anche lei in Italia?«Diagnostica differenziale del Parkinson e delle sue varianti più aggressive. Detto in modo semplice, per questa malattia esistono solo diagnosi cliniche, nessuna

analisi di laboratorio che consenta di ap-profondire la tipologia o lo stadio della patologia per effettuare una terapia effi-cace e mirata. Nel mio studio invece ten-to di dimostrare come sia possibile agire in modo diverso. Quella contenuta nella tesi, però, è solo una piccola parte di un anno di lavoro su 175 pazienti, un cam-pione abbastanza rilevante. La gran parte dei dati devo ancora analizzarla e orga-nizzarla per scrivere un articolo che spe-ro verrà pubblicato all’estero. Ci sto an-cora lavorando».

Abilitazione permettendo, hai già scelto come vuoi continuare la tua carriera in medicina?«Dopo l’esame, si aspettano i bandi di concorso per le specialistiche. Io sono in-teressato alla neurologia, alla ricerca. La mia segreta speranza è quella di con-tribuire un giorno a trovare la cura per le malattie neurodegenerative. Come l’alz-heimer, per intenderci».

“Anche fuori non cambia molto”

E tutto questo l’hai fatto e sognato a Catania. Come mai?«Per comodità. E forse anche per vigliac-cheria, non lo nascondo. Perché è stato più comodo continuare dove sono nato e cresciuto e perché, fatti i miei conti, i punteggi da superare ai test d’ingresso mi consentivano di stare abbastanza sere-no rispetto a quelli necessari in altre città d’Italia. E poi ho anche provato ad anda-re fuori ma ho scoperto che non cambia-va molto».

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“Se nonlo facciamo noi,

non lo farànessuno”

Una fuga alla Leopardi. Dove sei stato?

«Tra il mio terzo e il quarto anno mi sono trasferito a Roma, all’università Tor Vergata. Ci sono stato solo due settimane ma mi sono bastate per capire che la si-tuazione era uguale alla nostra, a Cata-nia. I ragazzi si lamentavano delle stesse cose, come i tirocini programmati e mai fatti. Forse loro stanno messi un po’ me-

glio dal punto di vista delle infrastruttu-re, ma i problemi sono gli stessi».

Perché allora, secondo te, si fa un gran parlare dell’andare o restare?«Perché è vero che i problemi sono gli stessi, ma qui sono anche aggravati da una disastrosa situazione precedente. L’immobilismo catanese è una condizio-ne che ci trasciniamo dietro da tanto. Qui, a differenza di altrove, c’è una clas-se di docenti, quelli che si sono formati durante le contestazioni studentesche, che una volta ottenuto il posto ha iniziato a gestire il potere esattamente come quel-li che combatteva da giovani. A questo aggiungiamo la mancanza di investimenti unita allo spreco di risorse e otteniamo questo risultato finale. All’e-stero, ad esempio, è tutto diverso».

All'estero te la cavi

Quindi all’estero ci sei stato. E’ an-data meglio che a Roma?Ho fatto due tirocini estivi di un mese negli ospedali di Turku, in Finlandia, e a Bilbao, nei Paesi Baschi. In Finlandia, per tornare alla Cancellieri, i ragazzi rie-scono ad essere indipendenti anche vi-vendo nella stessa città dei genitori per-ché ogni studente ha diritto ad un asse-gno mensile di 400 euro.

Considerato che l’affitto di un apparta-mento va dai 250, 300 euro, con un lavo-retto o l’aiuto della famiglia te la cavi. A Bilbao, che ha uno dei sistemi sanitari migliori d’Europa, ho imparato invece come i docenti siano meno gelosi dei no-

stri e più disposti ad insegnare una loro tecnica in sala operatoria. Il motivo se-condo me è abbastanza curioso. In queste occasioni si parla sempre in inglese, una lingua che non ha la terza persona. Que-sto abbatte qualunque distanza anche tra docente e allievo.

Una cattedra fra noi e loro

Nel cortometraggio ti si sente denun-ciare proprio la mancanza di dialogo all’interno dell’università e la condi-zione di studente come lotta per la so-pravvivenza. Che intendi?Tra noi e i professori c’è sempre una cat-tedra. Non si sperimentano mai formule di apprendimento diverse dalla lezione frontale, magari più creative. L’università ti lascia solo. E’ difficile reperire infor-mazioni, incontrare i professori, avere un rapporto con loro al di fuori delle lezioni e degli esami. Non si crea nessuna comu-nità.

Ricapitolando: a Bilbao la sanità è migliore, in Finlandia ti pagano per studiare, a Roma i professori sono meno parrucconi. Dopo l’abilitazione intendi restare o andare?Se potessi me ne andrei. Ma solo per im-parare e poi tornare. L’obiettivo dev’es-sere restare perché, se lasciamo quella che a Catania è anche una battaglia di ci-viltà, ci dichiariamo sconfitti in partenza. E perché sappiamo che, se non lo faccia-mo noi, non lo farà nessuno. Oppure lo faranno quelli che non vorremmo e che hanno già contribuito allo sfacelo.

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LAUREE E SOGNI DI FUGAUNA SOLA SOLUZIONE:«NON ARRENDERSI»

Luca vuole restare in Italia. Per i suoi odori, il suo cibo e il coraggio nascosto di molti dei suoi abitanti. Così come un giovane laureando catanese, deciso a terminare l'uni-versità nella sua città. Al contrario di un suo amico, in partenza per Milano, verso un'opportunità e di Gustav, il fid-anzato di Luca, che vorrebbe andare via dall'Italia, nauseato dal Rubygate e scoraggiato dalla fuga delle imp-rese. Due direzioni opposte in due di-verse pellicole: Il pezzo di carta, corto-metraggio di Marco Pirrello, e Italy: love it or leave it, documentario di Luca Ragazzi e Gustav Hofer. Due proiezioni che hanno attirato centinaia di spettatori – moltissimi giovani - al cinema King, per l'evento organizzato da CTzen, RadioLab e UPress in col-laborazione con il Cinestudio. Una serata all'insegna di due domande – Andare? O restare? - ma con una sola certezza: «No surrender, fratello».

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Sicilia/ Una città unita per un giorno

“Cittadini! VivaSant'Agata!” Cronacada una festaE' la festa religiosa più affollata d'Europa. La gente partecipa in massa, i mafiosi ne ap-profittano per fare af-fari. Quest'anno, dopo l'inchiesta dei magi-strati, la Chiesa è stata vigile contro la infiltra-zioni. Non altrettanto le autorità civili

di Giovanni Caruso I Cordai

Osservo la cera ormai raffreddata sul selciato di via Plebiscito, in quel selciato ormai lucido e consumato dove si riflet-tono le luminarie di una festa appena

passata. Immagino l’odore della carne di cavallo sui focolai che si mescola con gli odori della “calia abbrustolita”, brusio e voci che si confondono con le trombette delle bancarelle, gli ottoni luccicanti che suonano Cacao meravigliao “.

“Cittadini... Viva Sant'Agata!”. Lo hanno appena gridato quegli uomini e quelle donne, con i loro “sacchi bianchi”, in modo accorato, a tal punto da perdere la voce.

“Agata, chi sei? - pensa qualcuno - Chi sei per far sentire tanti e tante, per un giorno, cittadini, in questa Catania mal-trattata?". I volti delle donne del popolo somigliano tanto al suo, quelle donne che tengono i bambini in braccio col piccolo sacco bianco e con una candela in mano e si spingono sotto la “Vara “ per chiede-re un miracolo. Quelle stesse donne di San Cristoforo che si danno da fare per allevare i figli; figli che crescono sulla strada, senza una scuola sicura, costretti a non lavorare o ad essere sfruttati. Don-ne che aspettano i mariti alla ricerca di un lavoro per un giorno, che si vendono

e si mortificano davanti a un “caporale” o un “padroncino”. "Chi sei Agata? Qua-le esempio per queste donne?".

Catania 251 d. C. La forza romana do-mina il mondo. Il suo imperatore Decio Cesare perseguita i cristiani, uccide e massacra. Così, come oggi l’emigrante d’oltre mare, ieri il cristiano ribelle. Aga-ta, cristiana, vive la sua adolescenza ri-bellandosi all’oppressione, appassionan-dosi al senso di giustizia e a Cristo. Quel Cristo che predica una rivolta senza armi, fatta di parole costruite sulla pace. Agata dice no a Quinziano, proconsole romano che schiaccia la città e vuole dominare su di lei, violando il suo corpo. Agata dice no, fino alla morte. Le spoglie vengono disperse, ma il vento della storia le riporta alla sua Catania.

“Più forte ancora, cittadini!”

Mi piace immaginare che il suo ritorno ci voglia dire qualcosa. Forse vuole dirci di resistere ai nuovi oppressori come lei stessa fece, gli oppressori di oggi che non rispettano i nostri diritti, gli stessi oppressori che comprano la nostra digni-tà per un voto. Gli stessi che "regalano" spesa e cellulari in via Plebiscito.

Quelli che per stare al potere usano il malaffare, e si fanno usare dalle mafie.

Quelli con le fasce tricolore che impu-nemente passeggiano per via Etnea, fra gli spazi delle festa e la folla.

Cittadini, prima di chiamare Sant’Aga-ta, alzate la testa, guardate gli occhi di Agata e iniziate a gridare. Gridate e sen-titevi…”più forte e più forte ancora, cit-tadini”… e non solo per un giorno.

FOTO DI ALESSANDRO ROMANO

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SANT'AGATADURANTE LA CRISI/CORAGGIO E COMPROMESSI,FEDE E ECONOMIAdi Miriana Squillaci I Cordai

E' necessario spendere 650mila euro per questa festa? La “Santuzza” preferi-sce i fuochi d’artificio o le opere di cari-tà? C’è più fede o teatralità? Quante per-sone, e soprattutto quante donne si rico-noscono nel coraggio di Sant’Agata?

Abbiamo chiesto di rispondere a que-ste domande al signor SiRacusa, macel-laio di via Plebiscito “devoto” da 60 anni, e al signor Liuzzo, commerciante anch’esso di via Plebiscito.

Entrambi ci fanno notare come non si possa “fare di tutto l’erba un fascio”, i devoti, quelli veri, continuano ad esserci e a seguire la festa con la dovuta fede ma certo non si può negare che c’è anche chi indossa il sacco non per devozione ma per “fare teatro”.

Allo stesso modo non si può definire la festa “commerciale”. “Indubbiamente quindici anni fa non si vendevano i cuori di gomma o i cuscini con la scritta “viva Sant’Agata”, cosi come non si vendeva carne di cavallo e salsiccia; ma i tempi sono cambiati e la crisi rende necessario sfruttare tutte le occasioni per guadagna-re qualcosa e portare un po’ di soldi a casa.”

In via Plebiscito si è interrotta anche

l’usanza di sparare i fuochi d’artificio in omaggio alla Santa. Il signor Siracusa, ad esempio, non lo fa più da 4 anni: “Dieci minuti di fuoco costano 1000 euro, una “torta” con 600 fuochi costa dagli 800 ai 1000 euro; prima, non dovevo aiutare i miei figli o i miei nipoti, ma adesso, con questa crisi preferisco dare a loro questi soldi, anche se la mia fede resta immuta-ta”.

Viene allora spontaneo chiedersi: visto che la crisi coinvolge anche il Comune, non sarebbe più giusto festeggiare in ma-niera più sobria?

“Certo, magari, potrebbero essere ri-dotti i fuochi ma si potrebbe pensare an-che a una soluzione alternativa: invece di ridurre le spese per la festa, si povrebbe-ro ridurre i costi dei gettoni di presenza dei consiglieri comunali o di quartiere, che guadagnano dagli 80 ai 110 euro per ogni seduta” .

“...'pa Santussa chistu e autru!”

Insomma, 'pa Santuzza chistu e autru! Ma Sant’Agata, il suo coraggio, ci rap-presenta ancora?

“Dipende” ci dice qualche mamma “ ci sono cose per cui si può cedere e altre no”.

“Certe volte bisogna scendere a com-promessi, non sempre si può prendere una posizione netta”, ci risponde qualche altra.

Una posizione netta la prendono, inve-ce, i ragazzi di Addio Pizzo che hanno ri-empito le vie del centro di fogli con scrit-to “ SANT’AGATA NON VUOLE LA MAFIA, E I CITTADINI?” oppure “ SANT’AGATA LIBERACI DAL PIZ-ZO”.

Insomma Catania continua essere una città piena di contraddizioni, dove una magnifica festa riesce a mettere insieme fede ed economia, coraggio e compro-messi.

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Sicilia/ Una città sfruttata tutto l'anno

Le infiltrazionimafiose nella festa

Parlano i collaboratori di giustiziaDi Raimondo e Giuffrida

Il 29 giugno 2006 davanti al magistrato Natale Di Raimondo dichiara:

“Sono devoto di Sant’Agata e ancora oggi seguo la manifestazione tramite la televisione, via satellite.

Nel 1992 e nel 1993, quale responsabi-le del gruppo “ Monte Po”, destinai i proventi di una bisca clandestina ove si giocava alla “ zicchinetta “ e i cui pro-venti erano destinati al mio gruppo, per pagare i portatori della candelora del cir-colo di Sant’Agata nel quartier Monte Po’. La candelora stazionò 2/3 giorni nel quartiere e pernottò sotto casa mia.

Decisi di fare arrivare la candelora nel quartiere sia per acquisire maggiore pre-stigio quale “ mafioso “ sia per senso di devozione verso la Santa. Il quartiere era perfettamente a conoscenza che la cande-lora era a Monte Po per mia iniziativa.

Scelsi la candelora del circolo di San-t’Agata in quanto mio zio era una dei portatori de quella candelora. Mio zio non faceva parte dell’organizzazione, ma era “lavoratore” alla fiera di Catania, ove aveva un posto fisso.

“Acquisire prestigio come mafioso”

La “ venuta “ della candelora nel quar-tiere, comportò una spesa di circa 30/40 milioni di lire l’anno, che io versai a mio zio, utilizzando- come ho già detto- i proventi della bisca. Con tali somme vennero pagati i portatori, l’lluminazione del quartiere e i fuochi d’artificio. Io non mi sono materialmente occupato dell’or-ganizzazione, perché in entrambe le oc-casioni versai i soldi a mio zio il quale si ineteressò di tutto.

A celebrazione della venuta della can-delora nel quartiere, feci realizzare uno stendardo con l’indicazione del nome dellla mia famiglia, con la dicitura “ Di Raimondo 199271993”, che all’epoca costò qualche tre milioni di lire. Lo sten-dardo venne appeso alla candelora del

circolo di Sant’Agata e vi rimase anche negli anni successivi , mentre io ero dete-nuto. Poi, nel 1998, quando divenni col-laboratore di giustizia, lo standardo venne tolto. Non so che decise di togliere lo stan-dardo, anche se è chiaro che non venne più appeso perché io ero diventato collabora-tore di giustizia. Io seppi da mia madre che non era stato più appeso.

Da giovane partecipai attivamente ai fe-steggiamenti agatini nella città di Catania, anche vestendomi con il sacco bianco. Poi ritenni di non essere più degno di vestire il sacco e partecipai alla festa solo privata-mente, recandomi con i miei familiari presso Piazza Borgo per assistere ai fuochi di artificio serali.

Ricordo che in una di queste occasioni vidi anche Nino Santapaola, fratello di Enzo ed entrambi i figli di Salvatore San-tapaola, fratello di Nitto, che vestito del sacco e portando un grosso cero sulle spallle, seguiva la processione all’interni dei cordoni.

Ho conosciuto Pietro Diolosà. Me lo presentò mio zio come uno di quelli che “ contavano” per la candelora del circolo di Sant’Agata: ricordo che era alto e con i baffi.

Nella stessa circostanza della venuta a Monte Po’ della candelora di Sant’agata, conobbi il commendatore Maina, che si è intrattenuto nel quartiere per quell’even-to.”

Secondo le indagini, le candelore dei pe-scivendoli, dei macellai, dei fruttivendoli e dei pizzicagnoli, proprio queste quattro, secondo Giuffrida, sarebbero state gestite dai clan affiliati ai Santapaola.

Ed ecco quanto si legge nelle dichiara-zioni di Daniele Giuffrida: “Il cereo dei pizzicagnoli, candelora dei “fummaggiari” era gestito dalle famiglie dei Ceusi e Cap-pello, alle quali il mio gruppo riuscì a sot-trarla con la forza nel 1994-1995. Anche gli altri cerei venivano gestiti da clan ma-fiosi. Quello dei “pisciari” era gestito dal clan Savasta. Il cereo dei macellai, invece, era gestito dai Cappello che gestivano an-che il cereo dei fruttivendoli.”

Continua Giuffrida: “ L’interesse di ge-stire un cereo è di natura esclusivamente economica. Ogni settimana venivano raccolti offerte dai ciascun esrecente fino ad arrivare, alla fine dell’anno anche a 200 milioni di lire. Una parte veniva utilizzata per pagare i portatori, ai quali veniva anche fornita gratis cocaina de-traendo il costo dalla somma complessi-va. Altra parte della somma veniva desti-nata al pagamento del fuochista. Circa 150 milioni venivano versati in un fondo cassa del gruppo utilizzato per il paga-mento degli stipendi o per acquistare co-caina o armi. Altri interessi economii ri-guardavano le scommesse che venivano fatte al momento della salita di San Giu-liano e che si basavano sulla durata del tempo in cui il cereo veniva tenuto solle-vato. Ricordo che in una occasione il mio gruppo scommise circa 15 milioni.

“Altri introiti dalla festa”

Il mio gruppo aveva altri introiti dalla festa di Sant’Agata. In particolare i devo-ti offrono al passaggio della Santa nume-rose candele, che vengono poi scaricate nelle soste della vara in alcuni camion. Ebbene, la ditta che si occupava di racco-gliere questa cera, era obbligata a conse-gnare al nostro gruppo la somma di 50 lire per ogni chilogrammo raccolto. Fino a raccogliere alla fine della festa 15 mi-lioni di lire.

Inoltre ricordo che nel 1994-1995, mentre ero agli arresti dominiliari, feci un’evasione. Parlai con una persona che dirigeva i movimenti della vara. Si tratta-va di una persona grossa, con baffi e oc-chiali. Gli dissi che doveva sostare in via Plebiscito, dopo il bal Lanzafame, a San Cristoforo. Io deduco che la sosta aveva lo scopo di fare vedere la Santa a Natale D’Emanuele, a quell’epoca latitante e con molta probabilità nascosto in una casa in quella zona in via Plebiscito, ove egli possiede numerosi immobili. Di fat-to la sosta avvenne per circa dieci minuti, come richiesto”.

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Storia

Un siciliano di nome TuridduCarnevaleA Roma c’era un comu-nista di nome Fausto Gullo che faceva il mi-nistro dell’Agricoltura...

di Elio Camilleri

Il ministro Gullo aveva pensato bene

di abbattere il latifondo e di distribuire le terre ai contadini, di cambiare le re-gole secolari della divisione del raccolto all’interno dei contratti di mezzadria. Crispi e poi Giolitti ed anche Mussolini avevano trovato nei latifondisti un sicuro sostegno politico e la schiera dei gabelloti, dei campieri e dei sovrastanti gestiva al meglio l’intermediazione ma-fiosa parassitaria e assicurava un solido consenso elettorale.

Nell’ottobre del 1944, i decreti del mi-nistro Gullo alimentarono le speranze di milioni di contadini e la rabbia dei feuda-tari, la ferocia dei gabelloti e la determi-nazione di migliaia di sindacalisti e di at-tivisti socialisti e comunisti.

A Sciara, nel cuore del feudo della prin-cipessa Notarbartolo, passavano i mesi e gli anni e non cambiava niente; erano pure arrivate le notizie dei morti di Portel-la e delle centinaia di contadini ammazza-ti dalla mafia, ma tutto sembrava lontano, come accaduto in un altro pianeta.

Solo nel 1951 anche a Sciara arrivò il momento della frantumazione del silen-zio, della organizzazione contro la poten-za e la prepotenza di don Peppino Panze-ca, gabelloto del feudo Notarbartolo e boss mafioso e per Salvatore Carnevale fu l’inizio della fine.

Aveva aperto la sezione del partito so-cialista e a un contadino comunista che gli aveva chiesto perché non avesse aperto quella comunista rispose che non aveva nulla in contrario con i comunisti, ma che a causa della massiccia e sistematica pro-paganda secondo la quale i comunisti mangiavano i bambini e ammazzavano i preti, era forse opportuno scegliere un’opzione più accettabile.

Ma per la mafia non c’era nessuna dif-ferenza tra socialisti e comunisti perché tutti meritavano di essere battuti e abbat-tuti. Malgrado gli avvertimenti, le minac-ce Turi Carnevale riuscì ad ottenere, il 1° settembre 1951, che per l’anno 1951 la raccolta delle olive sarebbe spettata ai contadini per il 30% del raccolto, mentre il 70% sarebbe andato al proprietario; dal-l’anno successivo il 55% al proprietario e il 45% al contadino, il raccolto del grano sarebbe stato ripartito secondo le disposi-zioni del Decreto Gullo.

Il mese dopo, Turi Carnevale organizzò la prima occupazione simbolica del feudo per fare l’applicare la legge regionale 104 sul divieto della proprietà oltre i duecento ettari e sull’obbligo della buona coltiva-zione. Più di trecento contadini partecipa-rono alla manifestazione che a Sciara ebbe l’effetto dell'atomica: Turi Carnevale la guidò con cura, evitò che i contadini cadessero nelle provocazioni di don Pep-pino Panzeca e compari e i carabinieri non ebbero alcun motivo per intervenire.

Con la scusa di accompagnarlo in Mu-nicipio, i carabinieri lo andarono a pren-dere a casa e lo portarono in carcere, così, tanto per dargli una lezione, ma la lotta sortì i suoi frutti e il 21 luglio 1952 fu emanato un primo decreto di scorporo delle terre del feudo eccedenti i duecento ettari e il 16 marzo 1954 un secondo de-creto sancì la fine del latifondo anche se lo scorporo non produsse automaticamente proprietà contadina, se pur individuale, ma nuova proprietà ma-

fiosa attraverso una colossale speculazio-ne attivata nelle pieghe stesse della Legge 104.

Fu una vittoria che Turi Carnevale pagò con la perdita del lavoro e con un biglietto per andare al nord per trovarne del nuovo e dell’altro, ma poi tornò a Sciara, richia-mato dalla madre e dai compagni contadi-ni per riprendere la lotta.

Un’altra grandiosa occupazione delle terre del feudo, ancora più imponente ed impressionante della prima,insostenibile per la mafia, incontrollabile dai carabinieri, succubi della mafia e ingesti-bile politicamente dallo stesso PSI che, impegnato con la DC, a formare i primi governi di centrosinistra, lasciò pratica-mente solo Turi Carnevale.

Migliaia di ettari già confiscati non fu-rono assegnati ai contadini che furono praticamente espulsi dall’agricoltura e co-stretti a cercare lavoro in altri settori e ad emigrare. E tutto rimase come prima, anzi, peggio di prima perché la contrad-dittoria applicazioni della legge 104, alla fine, favorì quell’apparato mafioso e pa-rassitario che già operava sul territorio, sicché Turi Carnevale lasciò i campi e tro-vò lavoro come operaio in una cava nella piana tra Termini e Cefalù.

Ripropose tutti i contenuti della lotta per i diritti dei lavoratori, per il rispetto dell’orario di lavoro e per un salario giu-sto e regolare. Allora nuove intimazioni e minacce ed un terribile presentimento: una fucilata al fianco e poi altre quattro all’alba del 16 maggio 1955.

Il giorno dopo: municipio sbarrato e sindaco irreperibile, la mamma che avvol-ge la bara con la bandiera rossa e poi un funerale infinito.

Dopo sei anni, 21 dicembre 1961, erga-stolo per esecutori e mandanti. Dopo otto anni, il 14 marzo 1963, in appello tutti as-solti per insufficienza di prove. Dopo die-ci anni, il 3 febbraio 1965, in Cassazione tutti assolti.

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Teatro

“Il coraggio dei Siciliani”va in scena a Milano

Sarà il titolo del lavoro che noi studenti del la-boratorio teatrale del liceo Virgilio di Milano porteremo in scena l'8 maggio nell’audito-rium di via Peroni

di Beatrice Canali e Marta Cavallini laboratorio teatrale sulla memoria del Liceo Virgilio di Milano

E' un adattamento del libro di Anto-nio Roccuzzo “Mentre l’orchestrina suonava Gelosia” che il drammaturgo Francesco Di Maggio ha elaborato, in-serendo l’artificio del coro greco. Con-taminazione che , ci ha spiegato, nasce dai brani di “Cronaca” di Ghiannis Ritsos. La realtà isolana di Samo e la realtà catanese: una visione mediterra-nea che fa riflettere su quanto l'indo-lenza e, peggio, l'indifferenza sia alla radice del cancro mafioso.

Il lavoro che il nostro Liceo presenta nell'ambito della rete tra scuole “Il Futu-ro è la Memoria” presenta Pippo Fava come “testimone di verità”, portando un

parallelo tra vittime dei genocidi e vittime della criminalità organizzata, legata al contesto di una diffusa corruzione politica e istituzionale.

Non è semplice capire e interpretare la realtà della Catania anni '80; noi abbiamo avuto una grande occasione, da un lato con un narratore e motivatore come il professor Giuseppe Teri, dall'altro con una regista come Lieselotte Zucca.

Abbiamo capito via via di star facendo qualche cosa di importante, per chi ha vis-suto direttamente questa storia e per chi ne raccoglie oggi il suo significato. Il prof. Teri è spesso tornato sui suoi ricordi cata-nesi, con spunti e spiegazioni preziose per la messa in scena e la recitazione.

La mafia “che non esisteva”

Spesso abbiamo discusso sugli stereotipi della “mafia che non esisteva” e del falso mito dei ricchi imprenditori della Sicilia orientale, i cavalieri del lavoro di Catania che, anche se collusi e favoriti da Cosa nostra, erano presentati dalla stampa e dal gran parte dei politici come la grande oc-casione di modernizzazione e dello sviluppo economico della Sicilia. Il 3 feb-braio è venuto anche Antonio Roccuzzo, l'autore. Ci ha colpito il desiderio di veri-tà e l’autentico valore del fare i giornali-sti, rivendicati senza condizionamenti e censure.

C’è una domanda che ritorna sempre in questo lavoro teatrale: Cosa sarebbe suc-

cesso se Pippo Fava fosse stato ascoltato e la sua denuncia raccolta dallo Stato e dagli imprenditori? Se “ I Siciliani” avesse avuto anche un pochino di pubblicità? Quante cose potevano cambiare e potrebbero cambiare anche oggi, se tutti fossimo meno indifferenti e pigri ?

Bisogna parlare di mafia a Milano?

C'è bisogno di parlare di mafia a Mila-no? Pippo Fava lo aveva detto 30 anni fa e tutti girarono la testa dall’altra parte imbarazzati e un po’ piccati.

Oggi molti avvertono quanto sia sotto-valutata questa tematica e quanto inqui-nato possa essere il mondo politico e economico anche nel nostro “efficiente” e ricco Nord. La ricchezza e la possibilità di impiego di ingenti capitali attira gli appetiti della criminalità organizzata e le nostre disattenzioni hanno favorito una vera e propria colonizzazione.

Essere anche anticonformisti

Per questo vogliamo realizzare questo piccolo contributo, per ricordare a tutti come sia importante prendere posizione, raccontare la verità, essere anche anti-conformisti, minoranza che testimonia, anche se apparentemente isolata.

Come i Siciliani Giovani dell’84, quei ragazzini che al funerale di Fava gridava-no che era stata la mafia e che i mandanti erano in prima fila a fingere contrizione.

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Musica

Ma l'iPodconta piùdi Stravinsky?

i

Ti vendono le cose, e va bene. Ma non farti vendere anche il mododi sentire la musica...

di Antonello Oliva

Con tutti i problemi che abbiamo e in tempi così grami l’argomento po-trebbe sembrare frivolo, secondario, ma su ciò che si considera -e perché lo si considera - prioritario o secondario, forse ogni tanto qualche piccola pausa di riflessione non farebbe male.

Non guasterebbe neppure avere idee più proprie e chiare su ciò che realmente significa qualità di vita, o anche più sem-plicemente qualità.Nella riproduzione musicale domestica il concetto di qualità, quando si è avuto il bisogno di manife-starlo, lo si è associato prima al termine stereo, poi ad hi fi, e infine, quando tutto era già hi fi, ad hi end. Terminologia a parte, in realtà tale sviluppo non sempre ha coinciso con un effettivo migliora-mento della qualità audio degli apparec-chi, anche se questo, pomposamente, ve-niva dato ogni volta da intendere.

Così è accaduto ad esempio nel pas-saggio da LP a CD, ovvero dal suono analogico a quello numerico. Sostanzial-mente una bufala, spacciata però, e feli-cemente recepita, per una conquista, una specie di sbarco sulla luna della tecnolo-gia finalmente alla portata di tutti. Pro-gresso e democrazia; libertà obbligatoria avrebbe detto Gaber.

Ma cosa è accaduto davvero in quel passaggio? Chi ci ha veramente guada-gnato? Due conti si fa presto a farli: Un CD, finito, incellofanato, e con tanto di bollino Siae, viene a costare al produtto-re meno di 50 centesimi, un vinile 33 giri circa 4 euro:otto volte tanto.

Le spese naturalmente non sono solo queste, ma il rapporto è questo, ed è un rapporto molto interessante, che in un sol colpo a suo tempo, ha praticamente por-tato al raddoppio dei profitti. Bingo! Ma non solo. Il CD significava novità, tecno-logia avanzata, maggior qualità, e queste sono cose che ovviamente si pagano, al-trimenti che si diventa a fare più ricchi. E infatti il CD fu commercializzato da su-bito a un prezzo ben più alto dell’LP. Ma non è finita perché bisogna anche mette-re in conto l’indotto che la novità mise in moto, rottamazione dei vecchi dischi e giradischi, riacquisto degli stessi titoli nel nuovo formato più acquisto del CD Player, etc...

Altra bufala...

Tra i seguaci più fedeli del credo au-diophile non pochi furono pure quelli che cambiarono anche i diffusori, dato che nel frattempo girava voce accreditata che quelli vecchi non erano più adatti alle su-periori capacità dinamiche delle nuove macchine. Altra bufala naturalmente, perché a dire il vero, si trattava esatta-mente del contrario, erano cioè i giradi-schi a restituire maggiore spunto dinami-co, ma lasciamo perdere, visto che si era in ballo…

Insomma, cosa più cosa meno l’affare fu questo. Il vero problema però, quello che dovrebbe fare riflettere, e seriamen-

te, fu un altro. Il digitale suonava e suona tuttora peggio dell’analogico, ciò nono-stante nell’immaginario collettivo passò, in totale adesione con quello pubblicita-rio, il messaggio opposto. Ecco, è questo il punto, perché questo si chiama “pote-re”, in certi casi prende il nome di mafia, in altri di dittatura, regime, in altri ancora di democrazia, ma la sostanza non cam-bia, sono solo i mezzi a cambiare, i modi di adattarsi alle circostanze.

Il potere resta. Certe forme poi sono talmente raffinate e redditizie che, in democrazia ad esempio, i cornuti li produce già contenti. C’è da chiedersi però a questo punto cosa centri tutto ciò col concetto di qualità, perché è questo che invece frettolosamente percepiamo.

Bene, passo dopo l’altro in questa lu-minosa via siamo finalmente giunti all’I pod, che è indubbiamente trendy pratico e leggero, utile in tanti casi, ed è certa-mente il mezzo migliore per spararsi al volo l’ultimo hit di chiunque sia ovunque ci troviamo. Bene. Ma da che parte si ac-cende per sentirsi La Sagra della Prima-vera di Stravinsky?

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SCHEDAOtis TaylorContrabandTelarc/ TEL-33188/ Blues

Il blues per definizione è una di quelle musiche che non necessita di rinnova-mento per produrre opere che abbiano significato, e gli stessi quattro accordi sono bastati a intere generazioni di musicisti afro americani per produrre buona parte del suo sterminato canzo-niere. Ma se esiste ancora e continua ad essere uno dei generi popolari più diffusi, lo si deve non poco a quei grandi innovatori che qua e là nel suo corso si sono affacciati. L’ultimo in or-dine di tempo si chiama Otis Taylor, un musicista di Chicago che si è affac-ciato alla discografia non più giovanissimo, ma che ha poi mostrato una notevole prolificità. Per chi già lo conosce è sufficiente la semplice se-gnalazione, per gli altri, cioè quasi tut-ti, anche se non consapevoli amanti del genere, è opportuno il consiglio di ascoltarlo, perché è uno che ha cose interessanti da dire e lo fa in modo singolare e coinvolgente. A.O.

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Apple entrerà nel G-20?

I nuovi Stati:come cambia il mondo

xxxxxApple ha più dollari di Obama. In soldoni, è la notizia del Guardian di due settimane fa, se-condo cui nelle casse di Apple c'è un patrimonio annuale netto (denaro disponibile) superiore a quello del governo degli Stati Uniti

di Fabio Vita

Coi suoi 468 miliardi di dollari di ca-pitalizzazione, d'altra parte, Apple ha già superato (come valore azionario) il prodotto interno lordo di uno Stato di media importanza come il Belgio. Se Apple fosse uno Stato – e non è detto che non lo sia – entrerebbe a pieno di-ritto nel G-20, l'insieme delle venti na-zioni più industrializzate del mondo. Non ci entrerebbe da sola. La sola Ex-xon vale già quattrocento miliardi di dollari. Google centonovantasei.

Ci sono diversi nuovi Stati, nuovi im-peri; vassalli che diventano re. Con i loro eserciti, le loro bandiere. Sono tutti atten-tissimi ai simboli ed agli stendardi: gli stemmi – chiamati loghi - dei nuovi stati sono onnipresenti. Ciascuno di loro ha il proprio motto (“Think different”, “Don't be evil”...) analogo a quelli (“E pluribus unum”, “In God we trust”) delle nazioni tradizionali.

La nazione AppleLa nazione Apple possiede – se parlia-

mo di eserciti – ben 63mila dipendenti, di cui 43mila negli stati Uniti. Pochi, ri-spetto alla Royal Navy o al Corpo dei Marines, o anche (come fa osservare il New York Times) rispetto ai 400mila di-pendenti della General Motors anni '50 o a quelli di General Electric anni '80.

Ma ciascuno di questi dipendenti ha fruttato alla Apple, nell'ultimo anno, più di 400mila dollari (“più di Goldman Sa-chs, Exxon Mobil o Google”, chiosa il N.Y.Times). E soprattutto ad essi si af-fianca una marea di collaboratori in su-bappalto, quasi tutti asiatici: più di sette-centomila. Un'orda. E qui i paragoni non vanno fatti più con le nazioni moderne, ma direttamente con Gengis Khan e Ta-merlano.

Le città-stato di FoxconnLe fabbriche di Foxconn in Cina (cioè

i principali subappalti) hanno dimensioni galattiche, da città-stato. La più grande, a Shenzhen, chiamata – ovviamente - Fox-conn City, secondo le stime più prudenti

possiede 230mila operai (altri dicono 300 o anche 450mila). La maggior parte lavo-ra sei giorni a settimana per dodici ore al giorno, per diciassette dollari al giorno. Molti alloggiano nei dormitori adiacenti. Una buona parte lavora di notte. Nella cucina centrale si cuociono tre tonnellate di maiale e quattordici di riso al giorno. Ci sono trecento guardie per “smistare il traffico” nelle strade.

Nel giugno 2010, dopo una serie di suicidi fra gli operai Foxconn, Apple venne chiamata in causa per rispondere delle condizioni di lavoro di queste fab-briche. Con molto understatement, Steve Jobs in persona dichiarò che "hanno ri-storanti e piscine... Per essere una fabbri-ca, è una fabbrica piuttosto bella".

Da quell'ondata di suicidi in poi, se vuoi lavorare in Foxconn devi firmare una clausola aggiuntiva in cui t'impegni a non suicidarti, pena ritorsioni legali ver-so la tua famiglia. Devi inoltre parteci-pare, con la maglietta I-Love-Foxconn, alle manifestazioni in cui si inneggia alla compagnia e lavorare senza suicidarsi. E in ogni caso, dal giugno 2010 in poi sono state installate reti antisuicidio dappertut-to.

“Non sarà il 1984”

"Non sarà il 1984 di Orwell" promette-va (ricordate?) la Apple, quando lanciò il primo Mac nell'84. Beh, Orwell non pre-vedeva l'uso di robot per sorvegliare i prigionieri, nel suo romanzo. Nella Corea

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del Sud invece il governo ha annunciato (magari non c'entra niente, ma insomma...) che in futuro le carceri sa-ranno sorvegliate da appositi robot che - come ci annuncia Repubblica - "hanno occhi grandi, un simpatico sorriso stam-pato, e sono capaci di parlare”.

Sempre in Corea, è in costruzione an-che la disneyland dei robot. E la solita Foxconn già mesi fa ha annunciato la co-struzione - da parte di essere umani - di una fabbrica di automi.

Il tablet indiano, il chip cinese

Mercati. Nel 2011 tablet e smartphone hanno quasi raggiunto i computer (porta-tili di tutte le taglie e fissi). I processori Arm stanno quindi superando gli Intel. Fra i sistemi operativi Android, con Ker-nel Linux o Apple iOS sta soppiantando Windows.

Il tablet indiano proposto a 35 dollari con aiuto governativo per allevare una generazione di programmatori è una ri-sposta autoctona ai computer di Negro-ponte e di Intel.

Il processore per Android, interamente realizzato dalla cinese Icub che integra processore e scheda grafica in consumi ridotti mostra i progressi della Cina nel campo tecnologico, non solo come fuci-na ma anche come sviluppo e ingegneriz-zazione di dispositivi e componenti.

Un milione di prolet

Note sparse. Foxconn ha oltre un mi-lione e trecentomila di lavoratori, e oltre ad essere in Cina, di cui è primo esporta-tore, è sparso un po' ovunque: è il secon-do esportatore della Repubblica Ceca; ha fabbriche in Messico, dove produce per Motorola e Cisco.

Iniziò nel 1974 producendo connettori in plastica (si possono trovare nell'Atari 2600) e poi schede-madri per computer. Adesso produce per ditte americane (Ap-ple, Amazon, Dell, HP, Intel), orientali (Samsung, Sony, Nintendo, Toshiba, Acer) ed europee (Nokia).

Ancora Apple. L'ex sindaco di San Francisco, il 77 enne avvocato nero Wil-lie Brown, a dicembre aveva esortato i

manifestanti di “Occupy” della sua città a protestare contro Apple piuttosto che contro l'amministrazione del suo partito; erano già nell'aria le manifestazioni degli Occupy Apple contro l'iper-sfruttamento dei lavoratori cinesi.

Seguite, mediaticamente, da “accura-tissimi” controlli interni di Apple sulle fabbriche Foxconn. I “controllori” dopo un giorno di visita guidata nelle fabbri-che, dichiarano che in Foxconn si sta me-glio che delle altre fabbriche cinesi.

La parola “bolla”

Le previsioni degli analisti sul valore di Apple sono di ulteriore crescita (quelli stessi analisti prevedevano una discesa delle azioni, dopo la morte di Steve Jobs, che non è successo) ma con la quotazio-ne di Facebook (la più grande IPO della storia, il 5% delle sue azioni, per un va-lore stimato della compagnia di 100 mi-liardi, 30 volte il fatturato, 80 volte gli utili) si legge la parola “bolla”.

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La moneta elettronicaTrend, tecnologia, applicazioni, mercati

Tutto sul bitcoin(aggiornamenti in tempo reale)

LINK http://www.repubblica.it/scienze/2012/02/05/news/robot_guardie_carcerarie-29022851/http://www.economist.com/blogs/freeexchange/2012/01/supply-chains?fsrc=scn/tw/te/bl/appleandtheamericaneconomyhttp://www.nytimes.com/2012/01/22/business/apple-america-and-a-squeezed-middle-class.html?_r=2&pagewanted=allhttp://www.guardian.co.uk/technology/2012/jan/29/apple-windfall-spent?CMP=twt_guhttp://www.repubblica.it/economia/2012/02/13/news/apple_vola-29821010/http://www.sfgate.com/cgi-bin/article.cgi?f=/c/a/2011/12/17/BARA1MD5EO.DTLhttp://www.corriere.it/economia/10_giugno_02/foxconn-steve-jobs-fabbrica-carina_201f6a18-6e30-11df-b855-00144f02aabe.shtmlhttp://en.wikipedia.org/wiki/Foxconn#Chinahttp://www.engadget.com/2012/02/17/visualized-ios-2011-sales-outsells-28-years-of-mac/

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Interviste/ Stefano Bartolini

Economia delle relazioni o economia del Pil?Un tempo l'economia era la “scienza umana” per eccellenza. Per qualcuno, dovrebbe esserlo ancora

di Laura Cortina

Stefano Bartolini insegna economia po-litica a Siena e fa parte di quella nuova leva di studiosi che si s'è presa l’onere di spiegare la seconda grande crisi del capi-talismo, oltre i numeri e le analisi stretta-mente finanziarie, cercando di cogliere la complessità aperta davanti a noi e a tutte le società occidentali e non. Il suo recente Manuale per la felicità: come passare dal ben-avere al ben-essere (Donzelli), racco-glie dieci anni di osservazione e studio della storia economica, sociale e cultura-le, dagli Stati Uniti all’Italia, che ha avuto come epilogo il black-out finanziario del luglio 2007 e la crisi economica che è poi sopraggiunta.

La crisi del luglio 2007

Professor Bartolini, possiamo definire il 2007 la seconda grande crisi del capi-talismo, come è opinione comune, op-pure, come invece lei in qualche modo ci induce a riflettere con le sue analisi, il vero disvelamento del capitale, nella sua più intima essenza?

Il modello capitalista con la crisi inizia-ta a luglio 2007 ha senza dubbio tradito la sua promessa: vi renderò tutti più felici, a tutti sarà data la possibilità di usufruire di condizioni di vita migliori.

Come in parte ha fatto, almeno fino ad un certo punto. Il capitalismo è stato sen-za dubbio uno strumento per superare in-digenza, malattie, ingnoranza, disparità tra i sessi, condizioni di vita complessiva-mente misere.

Ma negli ultimi decenni è divenuto un capitalismo zoppo, soprattutto quello sta-tunitense, perché ha camminato solo sulla gamba dei consumi garantiti dalla mag-giore ricchezza a disposizione. Mentre l’economia diventava economicismo al seguito del totem del Pil.

In questi ultimi anni gli economisti di tutto il mondo stanno infatti rivedendo gli indici economici che posso realmente darci la misura della condizione di una società. La sua proposta è quella di so-stituire il Pil con un nuovo indice della felicità?

Il Pil è un ottimo indicatore dello stato della congiuntura economica, un elemento importante ma non sufficiente a compren-dere la complessità del ben-essere sociale.

Una società non funziona a comparti-menti stagni, né l’individuo può esistere solo come un’isola. La coesione sociale in larga parte del mondo occidentale è stata sopperita dal consumo e più ci si è trovati soli più si è consumato fino ad indebitarsi all’inverosimile.

L'implosione dello sviluppo

Questa dinamica perversa è stata più acuta negli Usa. In questo circolo vizioso il capitalismo ha tradito: ha reso uomini e donne sempre più infelici, soli e poveri di tempo. E per compensazione sempre più consumatori. La vecchia economia del Pil deve essere soppiantata da una nuova economia delle relazioni, umane, sociali, lavorative. Una società relazionale.

In una parola un’economia che sappia ridare slancio a quell’idea di fare comune che è stata spazzata via dall’individuali-smo e dalla rincorsa edonista di questi ul-timi trent’anni di sviluppo capitalista. Si badi bene, il mio non vuole essere un semplicistico attacco alla modernità.

Lo sviluppo che abbiamo conosciuto dal secondo dopoguerra fino ad oggi, ha subito un implosione. E’ il cosiddetto nuovo capitalismo Neg, Negative endoge-nous growth, crescita endogena negativa.

Ci può spiegare meglio l’evoluzione di questo capitalismo Neg, a crescita en-dogena negativa, di cui lei e altri econo-misti parlano in questi anni?

L’aumento dei consumi come rivelano gli studi che ho compiuto insieme ad altri economisti, sono la cartina di tornasole della condizione di infelicità. La crisi fi-nanziaria e poi economica cseguita al su-per indebitamento delle famiglie statuni-tensi e che ha contagiato tutto il mondo occidentale è il risultato del capitalismo Neg. Questo tipo di capitalismo è radicato soprattutto negli Stati Uniti La competi-zione sovietica produceva una pressione per l’umanizzazione del capitalismo.

L'evoluzione europea

Dagli anni Ottanta in poi, col declino e poi il crollo del sistema socialista, è venu-ta meno la spinta verso un capitalismo dal volto umano. Da allora sempre più la gen-te è stata fatta per l’economia anziché fare l’economia per la gente. Il capitalismo ha dato il peggio di sé. Oggi produce cioè in-felicità, instabilità, povertà. E isolamento, una condizione che confligge con la no-stra biologia.

Ma Europa e Stati Uniti presentano però un percorso diverso rispetto a questo tipo di capitalismo sostanzial-mente involutivo che lei ha analizzato in questi anni nelle sue ricerche.

L’Europa ha avuto un’evoluzione diver-sa rispetto agli Stati Uniti. Il risultato è stato che mentre la felicità e la qualità del-la vita relazionale dell’americano medio sono peggiorate negli ultimi decenni, quelle dell’europeo medio sono legger-mente migliorate o sono rimaste stabili.

Inoltre in Europa gli orari di lavoro sono generalmente diminuiti mentre in America sono aumentati, rendendo la pressione sul tempo un fenomeno assai più estremo negli Usa.

Quello europeo è stato un capitalismo più sociale, che garantiva istruzione e sa-nità pubbliche, un sistema pensionistico e

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misure di welfare, più protezioni per il la-voro; tutto questo ha garantito meno dise-guaglianze e dunque più coesione sociale.

Invece negli Stati Uniti una organizza-zione economica, sociale e culturale os-sessivamente votata al possesso e alla competizione ha generato, a partire dagli anni Ottanta, un circolo vizioso ha portato alla crisi del 2007: meno felicità, più con-sumi, ancora meno felicità.

In questo quadro mondiale, tra i ca-pitalismi europeo e statunitense, dove e come si colloca l’Italia dal suo punto di vista?

L’Italia ha potuto beneficiare di tutti gli aspetti positivi di un capitalismo più so-ciale. Inoltre ha una peculiarità che manca ad altri paesi europei, quella di avere un tessuto industriale fatto di distretti, un si-stema locale di piccole imprese che in cui i legami sociali e comunitari giocano un ruolo importante.

Inoltre in questi sistemi è stata da sem-pre molto forte la mobilità tra capitale e lavoro. L’operaio specializzato ha aperto la sua micro impresa, si è messo in pro-prio o ha organizzato piccole società con altri lavoratori. Oggi il nostro paese si tro-va però in mezzo ad un guado.

Mercato del lavoro duale

Sta somigliando sempre più agli Stati Uniti, grazie ad una colonizzazione cultu-rale che non ha paragoni in altri paesi eu-ropei, e questo riguarda soprattutto le no-stri classi dirigenti economiche, e politi-che che stanno prendendo la strada del modello iper competitivo americano.

A questo si aggiunge l’anomalia di un mercato del lavoro sempre più duale, da una parte le garanzie inossidabili del pub-blico impiego e della media grande indu-stria, dall’altro la deregolamentazione sel-vaggia che ha prodotto la flessibilità e i nuovi contratti di lavoro atipici.

Fa da cornice a tutto questo un sistema di welfare incongruo rispetto alla nuova società che abbiamo di fronte.

Quello che succederà nei prossimi anni dipenderà da come la classe politica saprà affrontare queste grandi sfide sociali ed economiche.

Quindi secondo lei il nuovo accordo

Fiat va nella direzione di un capitali-smo a rischio di implosione?

L’accordo Fiat e l’approccio Marchion-ne fanno parte di quello stile di manage-ment anglosassone, competitività a prezzo di super sfruttamento del lavoro, che fino-ra non ha prodotto alcun successo indu-striale. Come si può riscontrare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, che l'hanno pagato con una forte deindustrializzazio-ne.

Ci sono altri approcci manageriali, come quello tedesco, che hanno funziona-to meglio e che si concentrano invece sul-l’innovazione, su l’ideazione di nuovi mo-delli automobilistici e su relazioni coope-rative con i lavoratori e le rappresentanze sindacali.

Altri approcci manageriali

Se dovesse dettare un’agenda politica per fronteggiare la condizione di disa-gio che sta vivendo il Paese…

Una riforma urbana: mobilità sostenibi-le e qualità degli spazi pubblici. Ridiamo valore agli urbanisti che purtroppo sono scomparsi nel ruolo di progettisti delle re-lazioni e quindi della qualità della vita.

Una riforma della scuola che sappia so-stenere non solo intelligenze cognitive ma intelligenze emotive e creative dei più giovani e sappia ridare agli studenti un ruolo attivo nella proposta scolastica.

Una riforma sanitaria che sposti la pre-venzione fuori dai sistemi sanitari clau-strofobici, ospedali, laboratori di analisti, e che sappia trasformare il rapporto medi-co paziente in una relazione terapeutica già in sé.

Una riforma del mercato del lavoro e del sistema dei contratti che esca dal dog-ma del tempo indeterminato e dal mito della flessibilità come panacea.

Quanto alle politiche internazionali...La deregolazione finanziaria ha creato

un mondo in cui tutti i tipi di istituzioni fi-nanziarie possono comprare e vendere tut-ti i tipi di prodotti finanziari.

La libertà internazionale di movimento dei capitali seguita al crollo di Bretton Woods negli anni ’70, ha profondamente modificato le abitudini dei risparmiatori di tutto il mondo. Per esempio in Italia fino agli anni ’70 le occasioni di investi-menti finanziari erano limitate sostanzial-mente alla inaffidabile borsa italiana e ai Bot.

Dopo Bretton Woods

La liberalizzazione ha creato un mondo di occasioni finanziarie. In questa nuova era dove si sono prevalentemente diretti i capitali del mondo? Ovviamente verso i paesi più affidabili e le piazze finanziarie più grandi. Cioè verso gli Stati Uniti.

È così che Wall Street ha finito per as-sorbire gran parte dei capitali del mondo e, quel che è peggio, del Terzo Mondo.

I ricchi dei paesi poveri hanno sottratto i capitali da dove ce n’era più bisogno, per spedirli nel paese più ricco del mondo.

Così l’estrema diseguaglianza tra i paesi del mondo in tema di credibilità e di di-mensione delle piazze finanziarie ha finito per finanziare i consumi del paese che già consumava di più.

In questo modo una crisi americana si è trasmessa al mondo. Perché più o meno tutto il mondo aveva titoli del debito delle famiglie americane e il motivo è che la proliferazione dei titoli era avvenuta ba-sandosi su tale debito. Ed era avvenuta in modo da non poter più riconoscere la qua-lità dei titoli, cioè la loro rischiosità.

Non riesco a immaginare altre soluzioni efficaci diverse dal revocare i cambiamen-ti legislativi che hanno permesso l’oscura cartolarizzazione del debito americano, li-mitare la speculazione ri-regolando il mercato in modo da segmentarlo e porre limiti alla mobilità internazionale dei ca-pitali finanziari.

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Società

Colletti sporchie politica debole La mafia è sinonimo di criminalità. Ma non solo: spesso è una pa-tologia del potere. Do- ve sono le sue radici?

di Gabriele Licciardi Centro Studi Luccini, Padova

Quando l’intreccio fra poteri legali e poteri criminali mina l’integrità, eco-nomica e morale, di un paese, diventa indispensabile capire da dove nascono queste pratiche criminali e attraverso quali canali riescono a manifestare la loro forza dirompente. Attorno alle mafie si muovono interessi economici, politici e sociali, identificabili nell’am-pia zona grigia che storicamente ha le-gato gli interessi strettamente mafiosi, con quelli di chi con la mafia fa affari o intreccia pericolosi sodalizi politici, insomma la variegata gamma dei reati che la magistratura cerca di colpire at-traverso la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa.

Spesso queste manifestazioni del pote-re mafioso sono state rappresentate con la famosa immagine della piovra, una te-sta e tanti tentacoli, senza tenere conto del fatto che parliamo di gruppi che si af-fiancano e si sovrappongono, parliamo di reticoli affaristici sovra locali e spesso internazionali, ma che riescono a riconoscersi e a coordinarsi, reticoli fluidi, almeno quanto i mercati che cercano di insidiare quotidianamente.

Capitale liquido e mercati legali

Nel momento in cui parliamo di mafie che agiscono in territori lontani da quelli d’origine, la cerniera rappresentata da professionisti, uomini d’affari e più in generale, la tolleranza che un crimine economico, meno cruento delle stragi quotidiane degli anni ottanta, ha saputo costruire nell’immaginario comune, han-no determinato e continuano a determinare la condizione primaria affinché il robusto capitale liquido delle famiglie mafiose possa trovare uno sbocco nei mercati legali, distorcendone le forme, aggravandone i profili, ma soprattutto, deviandone la ragione sociale, non più profitto in un regime di libero mercato, ma alterazione delle libertà economiche in favore dell’ar-ricchimento di criminali, e il conseguente rafforzamento di quell’asse che lega il mondo dell’economia mafiosa, con quel-lo dell’economia reale.

Il mondo di sopra e quello di sotto

Di pari passo assistiamo ad un gradua-le e progressivo aggravarsi dei dati che

certificano il diffondersi dei reati contro la pubblica amministrazione in tutte le regioni del nord italia; peculato, concus-sione, corruzione, diventano in questo modo la chiave d’accesso attraverso cui il mondo di sotto, quello dei mafiosi, en-tra in relazione col mondo di sopra, quel-lo ufficiale, determinandone comporta-menti e inficiandone l’efficacia.

Nelle regioni settentrionali il pericolo delle infiltrazioni mafiose non è avvertito nella sua enorme portata, anche se i co-muni sciolti, o i blitz dei mesi scorsi cer-tificano l’esistenza. a volte, anche di un radicamento ben più profondo di comun-que pericolose infiltrazioni.

Una cerniera di invisibilità

Le mafie al nord continuano in modo invisibile a riciclare i proventi delle atti-vità delittuose grazie alla cerniera di col-letti bianchi che ne permettono l’invisibi-lità, e grazie alla mancanza di una robu-sta coscienza antimafiosa. A costruire questo anticorpo dovrebbe pensarci prin-cipalmente la politica, che invece sem-bra declinare il tema secondo le logiche della polemica interna al sistema.

Così ancora una volta l’antimafia sem-bra un discorso confinato nel limbo degli strumenti della repressione, un’emergen-za della sicurezza che non lascia spazio ad iniziative strutturate miranti a codifi-care un’etica pubblica in grado di ricono-scere ed espellere le manifestazioni del potere mafioso dai gangli del tessuto so-cioeconomico delle regioni settentrionali.

La mafia al nord non è più un problem-a marginale, non lo è mai stato, oggi più di ieri.

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Società

Tecniche d'eliminazioneI diffamatiIn Storie di giornalisti uccisi dalla mafia e se-polti dall’indifferenza Luciano Mirone li ha chiamati “Gli insabbia-ti”. Claudio Fava ha in-titolato un suo libro “I disarmati”

di Salvo Vitale

Ma potremmo chiamarli “I diffama-ti”, tutti i caduti di su cui si è provato a gettar fango, in vita e subito dopo la loro morte. L’esempio di Peppino Im-pastato è forse il più eclatante:da atti-vista politico schierato all’estrema si-nistra, a terrorista che era saltato in aria con la sua bomba. Lo schema del-la diffamazione non poteva essere mi-gliore, tanto più che il pazzo voleva far saltare in aria gli operai che andava-no a Palermo col primo treno. Addirit-tura, per Sciascia, “se di delitto di ma-fia si tratta, è un “delitto anomalo”. E solo perché c’era alle spalle un nucleo di compagni bene organizzato e deciso, la provocazione non è passata.

Vogliamo parlare di Beppe Alfano? Dopo la sua morte, scrive Mirone, “uno strisciante tam tam si diffonde con rapi-dità incredibile: Alfano è stato ucciso per questioni di donne o di debiti di gioco. Dice il pentito Maurizio Bonaceto: “Spesso, quando si verificava un omici-dio nel barcellonese, veniva fatta girare la voce che si trattava di storie di donne, per nascondere la provenienza e la matri-ce mafiosa del delitto”.

Ma passiamo a Mauro Rostagno: “Un delitto in famiglia” lo definì il giudice Garofalo, che curò le indagini per diver-so tempo: Rostagno sarebbe stato ucciso a seguito di una sorta di triangolo amoro-so che vedeva sua moglie Chicca Roveri amante del socialista Cardella, ammini-stratore e finanziatore della comunità “Saman”: Rostagno drogato, scoppiato, sovversivo, forse ucciso dai suoi ex compagni di Lotta Continua o dagli stes-si tossicodipendenti della comunità di Lenzi. Per avviare le indagini sul delitto di mafia consumato dal mafioso trapane-se Virga sono dovuti passare 22 anni e c’è voluta la testardaggine del giudice In-groia.

Fava, De Mauro, Rizzotto...

Vogliamo citare Giuseppe Fava? Sin dal primo giorno venne avviata una cam-pagna di delegittimazione con la quale il giornalista veniva dipinto come donnaio-lo, incallito giocatore di carte, ricattatore. Perquisita la casa di Fava, la sede de “I Siciliani”, sospettati gli stessi collabora-tori di Fava. Indagini ferme per otto anni, fino a quando il pentito Giuseppe Pelle-griti e dopo di lui Maurizio Avola non fanno precisi nomi di mafiosi facenti capo a Nitto Santapaola.

Su Mauro De Mauro è stato detto tutto: che era un fascista della decima Mas, che aveva scoperto l’inghippo dietro il delitto di Enrico Mattei, che sapeva molte cose del delitto Tandoy, (un commissario PS assassinato ad Agrigento), che era a co-noscenza della preparazione del golpe poi fallito di Junio Valerio Borghese, che era rimasto vittima del mondo del traffi-co degli stupefacenti. Anche qua una ca-tena di depistaggi, mai finita, per tenere lontana la mafia.

Potremmo continuare all’infinito: Pla-cido Rizzotto, la cui fidanzata sarebbe stata amante del suo assassino Luciano

Liggio, Cosimo Cristina, giovane giorna-lista che si sarebbe gettato sotto un treno per delusione amorosa, per arrivare a don Diana, che una campagna di diffa-mazione ha tentato di far passare per pre-te mafioso.

I veleni di Palermo

Perché questa è una delle regole cardi-ni di Cosa Nostra nei confronti dei suoi nemici: la delegittimazione. E' il primo gradino, fatto di fango, di calunnie, di voci messe abilmente in giro, spesso a conferma che tu sei colluso con coloro che fingi di combattere: chi non ricorda la “stagione dei veleni” al Palazzo di giu-stizia di Palermo e le lettere del “corvo” contro Giovanni Falcone

Adesso qualcuno ci sta provando con Piero Grasso, reo di avere barattato la sua nomina a Procuratore Antimafia con la rinuncia a indagini che riguardassero i presunti rapporti tra Forza Italia e Ber-nardo Provenzano.

Ma anche il procuratore Messineo, te-nace e onesto, è entrato nel mirino dei diffamatori a causa di un suo fratello im-plicato in vicende di mafia. Per non par-lare di Roberto Saviano che in “La bel-lezza e l’inferno” accenna al calvario di menzogne, accuse indimostrate, illazioni, carognate nei suoi confronti anche attra-verso giornali nazionali.

E infine, l'ultima soluzione

Il fango che viene ad arte diffuso, pri-ma da “radio ombra”, poi dai mass me-dia, diventa una cortina fumogena che al-lontana l’immagine reale e la sostituisce con quella dei comuni mortali, felici di coinvolgere nella propria mediocrità co-loro che cercano di trasmettere un mes-saggio diverso. La condanna a morte è l’ultima soluzione, quando i mafiosi si accorgono che non c’è niente da fare.

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Politica

Identikit del politicosiciliano. E dellesue amnesie

I costumi dei governanti siciliani sono caratterizzati da una continuità che riporta un identikit del malcostu-me governativo ricorrente nel tempo, con facce diverse ma spesso identici vizi. Per capirlo non è necessario parti-re dalla sostanza di una politica basata sul favore parcellizzato per controllare i bisogni primari e gli istinti peggiori di ampie fasce clientelari. Si può anche partire dalle forme esterne dell’osten-tazione del potere, ampiamente rivela-trici di una precisa idea della gestione del potere, a tutti i livelli.

La recente vicenda dell’Assessore re-gionale all’Economia Gaetano Armao mostra come un atteggiamento da yuppie rampante non cambi la sostanza del vive-re il potere con una certa altezzosa vol-garità. In questo senso fa scuola la recen-te notizia – per la Procura notizia di reato - dell’uso, a dire poco improprio, dell’au-to blu, messa dall’Assessore a disposi-zione di persona a lui sentimentalmente vicina, ma che nulla aveva a che fare con l’Amministrazione.

Se si aggiunge che la persona inopina-tamente beneficiata è un Magistrato, si potrebbe concludere con il detto sicilia-no: "non si piglia se non si assomiglia".

Continuando su questo livello minima-le si può commentare la notizia del posto d’auto riservato sotto casa – a Palermo indicatore di status importantissimo – ot-tenuto in quanto console onorario del Be-lize, che però l’Assessore si è guardato bene dal farsi revocare venuta meno la funzione diplomatica. Peccati veniali? No, punte di iceberg.

Il problema riguarda solo questa com-pagine di governo e il suo componente Armao? Certo che no. Ma almeno la classe politica di un tempo non osava in-neggiare - come suole l’Assessore - alla trasparenza, la legalità e l’innovazione etica nell’Amministrazione.

Conflitto d'interesse

Per la verità l’Assessore Armao è stato anche coinvolto in una polemica ben più rilevante che riguardava un possibile conflitto d’interesse tra i suoi ruoli di As-sessore competente per il settore dei ri-fiuti e di consulente di una ditta di termo-valorizzatori.

L’esponente dell’allora opposizione Cracolici, nella sua funzione di capo-gruppo PD, accusò senza mezzi termini Armao, oltre che di avere consentito alle ditte di decidere il numero di inceneritori da costruire, anche di aver annunciato un

possibile indennizzo alla società conces-sionaria da parte della Regione, produ-cendo un effetto-annuncio a beneficio delle azioni della Actelios (gruppo Falk) di cui Armao era stato consulente.

Come mai non ne parlano più?

Armao si difese definendo farnetica-zioni le illazioni dell’avversario politico e dichiarando che da due anni aveva chiuso quella consulenza. E minacciava querela nei confronti di Cracolici e co-stringendo il presidente dell'Assemblea Cascio a richiamare l’articolo 6 dello Statuto sull’insindacabilità di voto e opi-nioni dei Deputati nell’esercizio delle loro funzioni.

La polemica continuò e l’opposizione richiese le dimissioni di Armao, ma nulla accadde. Armao confermò il suo ruolo di Assessore forte del Governo Lombardo, con l’importantissima competenza del-l’Economia, anche nella compagine di governo appoggiata dal PD.

A questo punto, la domanda: come mai Cracolici e il suo Partito, dopo la svolta governativa, non hanno più ripreso la grave vicenda del conflitto d’interesse sui termovalorizzatori e si sono guardati bene dal commentare anche le recenti e disdicevoli vicende dell’Assessore?

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 82– pag. 82

Atene piange ma Sparta non ride: l'una fa i pateracchi, l'altra finge di non ricordarsene più...

di Giovanni Abbagnato

GAETANO ARMAO

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Politica

Governo in alto,la gente in basso e in mezzo un muro

Il pensiero del governo Monti in ma-teria di lavoro si può riassumere, a grandi linee, in tre no: no all’articolo 18, no al posto fisso per i nuovi assunti, no a un welfare più robusto che garan-tisca i disoccupati. L’abolizione del-l’articolo 18 potrebbe essere sostituita da un allargamento della casistica pre-vista delle leggi sui licenziamenti indi-viduali e collettivi, che oggi (fatta salva la giusta causa) sono permessi solo in caso di stato di crisi dell’azienda: ciò permetterebbe ai sindacati di cantare vittoria sull’art.18.

Ai tre “no” si può aggiungere una peri-colosa propensione del governo allo svuotamento del contratto collettivo, come da anni chiede Confindustria. Se tutto questo non è la legge della giungla applicata al mercato del lavoro poco ci manca. Sicuramente ci troviamo nell’al-veo del liberismo più spudorato.

Con l’aggravante di un’ironia che non ha fatto ridere nessuno se non i peggiori esponenti del precedente governo: i gio-vani che puntano al posto fisso sono pi-gri, “mammoni” e aspirano a una vita no-iosa. È una storia vecchia: si aumenta la flessibilità del lavoro (una politica che, come dimostra l’ultimo decennio, non ha mai aumentato l’occupazione, semmai è il contrario) e nello stesso tempo si an-

nunciano nuovi ammortizzatori sociali, che resteranno semplici promesse perché alla fine, guarda caso, mancheranno le ri-sorse.

“Bisogna spalmare le tutele su tutti”, ha puntualizzato il ministro Fornero, sen-za dire dove, come, entro quando. Nel frattempo, i dati sulla disoccupazione giovanile e sulla povertà delle famiglie sono ogni mese più drammatici.

Qualche giorno fa la padrona della tin-toria vicino casa mi ha raccontato che la mattina era stata al supermercato. A un certo punto hanno fatto irruzione due giovani decisi, le pistole in pugno, che si sono avvicinati alle casse e si sono fatti dare i soldi.

Il “welfare” della mafia

Mi aspettavo che la donna mi manife-stasse la sua rabbia nei confronti dei ra-pinatori, ma mi sbagliavo. Il suo era un sentimento di comprensione: “Ma è chia-ro, non c’è lavoro, cosa possono fare d’altro?”.

Se vuole evitare che i giovani si diano alle rapine o si affidino al “welfare” della mafia è indispensabile che il governo dei professori cominci a pensare con la testa degli studenti. Qualcuno ha detto che mai un governo è stato così lontano dalla realtà, dalla vita quotidiana del Paese che

dovrebbe guidare. Non era difficile pre-vederlo al momento del suo insediamen-to, quando cioé ci si è resi conto che il nuovo esecutivo avrebbe preso ordini dal sistema bancario internazionle. Chi è più lontano dal Paese reale di un accademico o di un banchiere?

E pensare che i professori Monti e For-nero, docenti di economia a Torino, do-vrebbero saperlo. Hanno letto Keynes, le sue formule le avranno scritte migliaia di volte alla lavagna: il reddito nazionale aumenta se aumentano i consumi, gli in-vestimenti o la spesa pubblica.

Le prime due leve sono bloccate per la mancanza di una politica dei redditi (meno salari uguale meno consumi ugua-le meno investimenti uguale meno occu-pazione), mentre la terza è stata “inibita” ad arte con la costruzione di un’Europa esclusivamente monetaria, attenta soltan-to ai vincoli di bilancio e non al benesse-re dei cittadini.

I principali flussi finanziari hanno dire-zioni molto precise, non sarebbe difficile colpirli, ma chi li governa ha più potere di chi ci governa e spesso chi li governa e chi ci governa sono complici. È una sola gigantesca rapina internazionale che provoca e continuerà a provocare, se non muteranno gli equilibri, un’infinità di piccole rapine ai supermercati di quartie-re.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 83– pag. 83

Al supermercato c'è chi “giustifica” i rapinatori: “Non c'è lavoro, che possono fare?”. Non è pro-prio una lode per la politica economica corrente...

di Riccardo De Gennaro

MARIO MONTI

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ANTICIPAZIONI/Dal prossimo libro di

Pietro Orsatti

Italian tabloid

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 84– pag. 84

“...Li metto così, in fila, in ordine cronologico, i miei appunti, i lanci di agenzia, i ritagli di giornali su quella giornata. Frammenti di memoria. Questo sono. Memoria. Li metto in fila così perché non trovo altri modo di farlo questo lavoro che mi gira per la testa. Raccontare di un tesoro che non si trova più, di un tesoro grande, immenso. Ogni tanto ne compare qualche traccia, frammenti, poi il nulla. Ma quei soldi ci sono, pesano. Stanno lì. Producono affari, potere, politica e morte. E dalla morte inizio. Da quella di Stefano Bontade, Bontade il “Principe di Villagrazia” diplomato al liceo bene di Palermo, il Gonzaga, e diventato a soli vent’anni capo della famiglia si Santa Maria di Gesù. E’ il 26 aprile del 1981, quel giorno che cerco di ricostruire. E’ quello il giorno del suo funerale. Lui, il Principe, è morto nel giorno del suo quarantatreesimo compleanno...”

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Questa è una storia difficile da raccon-tare. Una storia che ha tanti punti di par-tenza e innumerevoli finali, se si riesce a trovarne. E’ la storia di un fiume di dena-ro, il denaro del traffico internazionale di eroina fra gli anni ’60 e i primi anni ’80. La storia del valore politico e economico di un gruppo di potere che è perfino limitato definire criminale perché si com-portava come un governo di uno Stato che agiva, trattando, con un altro Stato, quello Italiano. Trattando. Dal 1943, in preparazione dello sbarco alleato e perfi-no all'atto della firma dell’Armistizio.

E ancora nel ’47 a Portella della Gine-stra nel sangue versato. E che non era espressione di una criminalità “popolare” ma di un’élite economica e culturale. Ba-roni, imprenditori, perfino luminari della medicina, imprenditori, politici. E una folla, comunque, di massoni. Tutti mafio-si, tutti Cosa nostra.

La vecchia Cosa nostra

Sto parlando di quella Cosa nostra retta dal cugino di Michele Greco, Salvatore detto “Cicchitedda”, il primo capo della commissione nata dalla “riforma” della mafia dopo la riunione nell’ottobre del 1957 all’Hotel des Palmes di Palermo fra i siciliani e gli americani, fra Lucky Lu-ciano e Greco e compagnia bella. Con tanto di uomo di quel confine indefinibile fra i due mondi, Tommaso Buscetta, a presenziare all’incontro.

Un “soldato” al cospetto dei capi e che con i capi si fa “una parlata”. E quando mai si è vista una cosa del genere? Ma c’era bisogno di uomini di confine, di persone come don Masino, di emissari verso il mondo degli affari, della politica e dei “servizi” non solo italiani. Un uomo di due mondi. Di un boss dei due mondi, appunto, come Buscetta era soprannomi-nato. Perché si era in piena guerra fredda e la mafia serviva, su una sponda e sul-l’altra dell’Atlantico. Serviva la sua capa-cità militare, il suo controllo del territorio e il tanto, e davvero era un fiume, denaro non rintracciabile.

Ai tempi della guerra fredda

Guerra fredda, pochi se ne ricordano oggi. Dove valeva tutto, anche il patto con il diavolo per sconfiggere il pericolo rosso. Meglio i mafiosi di Cosa nostra che dei sindacati che funzionavano e la salita al governo di socialisti e soprattutto

di quei comunisti del Pci italiano che era-no i più forti dell’Europa occidentale.

Sto parlando di quella Cosa nostra che nonostante i capi della commissione fos-sero prima Salvatore Greco, poi Gaetano Badalamenti e infine Michele Greco alla vigilia del colpo di Stato e della dittatura di Totò Riina, era in realtà guidata dal ca-risma e dalla capacità politica e imprenditoriale del “principe di Villagra-zia”, Stefano Bontate il cui patrimonio fu solo in parte affidato ai cugini Nino e Ignazio Salvo, ma soprattutto venne reso potere assoluto nelle mani e nella rete fi-nanziaria di Michele Sindona, “il salvato-re della lira” secondo Giulio Andreotti. E quei soldi poi nessuno li ha ritrovati.

O forse ne ha trovato un pezzo quel Bernardo Provenzano, socio di Riina ma da lui distante galassie nella gestione del potere. Mafioso vecchio stile era diventa-to Provenzano a scuola di Cosa nostra nella sua lunga latitanza a Cinisi sotto l’a-la protettrice di Tano Badalamenti (quello che per intenderci mafieggiava e uccide-va Peppino Impastato e, come lui stesso ammise, contemporaneamente era confi-dente dei carabinieri).

Riina era l’anomalia. Provenzano di-venne, nonostante l’origine, la continuità con la vecchia mafia. Nella gestione dei soldi, della politica, dell’invisibilità e dei rapporti con poteri come quelli della mas-soneria, chiamiamola così, “deviata”.

Il giudice Pierre Michel

Rileggevo, nella notte, quegli appunti che avevo tirato giù qualche giorno prima di incontrare il mio personale Caronte nell’inferno di Cosa nostra. Quante con-ferme. Ora. E quante ne aspettavo ancora. E poi ecco quel frammento su Marsiglia.

Soldi. E un mare di sangue. Una mat-tanza per prenderli. Una mattanza per mantenerli.

Questa è una piccola storia. La storia di un magistrato francese ammazzato a Mar-siglia il 21 ottobre 1981. Pierre Michel.

Morto perché indagava, anche in colla-borazione con i magistrati palermitani, sul traffico internazionale di eroina gesti-to da Cosa nostra ma che vedeva coinvol-ta anche la criminalità organizzata marsi-gliese che per prima si era avvicinata al business e aveva i “chimici” e la prepara-zione per avviare l’industria più redditizia dalla fine della Seconda Guerra mondia-le. Una storia totalmente rimossa, quella di Pierre Michel.

* * *

Stava andando a casa sulla sua moto, Pierre Michel, quando venne affiancato da un’altra motocicletta con due uomini sul sellino. Solo due colpi, uno al corpo, l’altro alla testa. Fine. La sua vita, la sua carriera e le sue inchieste erano finite lì, su un viale di Marsiglia all’ora di pranzo. Giovane, alto e bravo nel suo lavoro. Un anticonformista in un posto di peso.

In Italia lo avrebbero ribattezzato, sen-za starci tanto a pensare, un “giudice ra-gazzino”. Che stava indagando sulla cri-minalità della grande città del sud della Francia. Era il 21 ottobre 1981. Ricordia-mola quella data, in memoria di un'altra vittima della guerra di mafia.

* * *

Perché mi sono trovato a seguire questa storia praticamente dimenticata è stato sorprendente. Stavo facendo una ricerca sulla banca dati delle agenzie di stampa su un nome: Giusto Sciacchitano. Un ma-gistrato discusso da quando era uno dei sostituti del procuratore Gaetano Costa. Uno di quelli che si erano rifiutati di fir-mare i mandati di arresto richiesti della grande inchiesta sul traffico di droga istruita all’inizio degli anni ’80 e che ave-vano lasciato il procuratore a firmare da solo e assumersi tutte le responsabilità di quell’atto. Pochi mesi dopo, il 6 agosto, Costa era stato ucciso da Cosa nostra.

La conoscevo quella storia. Ma avevo ricontrollato quel nome per vedere se c’e-rano novità sulla carriera di Sciacchitano dopo che Massimo, il figlio di Vito Cian-cimino l’ex sindaco e assessore ai lavori pubblici del “sacco di Palermo”, lo aveva accusato di essere stato proprio lui a spin-gerlo a non parlare in tribunale in relazio-ni agli imbrogli legati alla Gas, la società creata dal padre con l’aiuto del commer-cialista Gianni Lapis e con uno stuolo di soci occulti e il defunto Ezio Brancato. Brancato era suocero del magistrato pa-lermitano.

Luci ed ombre

Il magistrato, che dai tempi della colla-borazione con Gaetano Costa era arrivato fino a un incarico alla procura nazionale antimafia (nonostante il parere contrario dell’ex procuratore nazionale Vigna), aveva annunciato querele, ma la coinci-denza era emersa e non era coincidenza da poco. Insomma, luci e ombre.

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E facendo quel controllo di routine ave-vo incrociato la storia dell’omicidio del giudice Pierre Michel. Perché di cose si-ciliane il magistrato marsigliese se ne oc-cupava eccome. E da tempo.

ZCZC079/RSR EST RSMAGISTRATO UCCISO A MARSI-

GLIA: LA ” FRENCH CONNECTION”(ANSA) – PARIGI, 21 OTT – IL

GIUDICE PIERRE MICHEL, UCCISO OGGI DA DUE MOTOCICLISTI A MAR-SIGLIA, LAVORAVA DA DIVERSI MESI, IN COLLABORAZIONE CON I COLLEGHI ITALIANI, SULLA POSSI-BILE RINASCITA DELLA FAMOSA ” FRENCH CONNECTION” , CIOE’ IL TRAFFICO DI STUPEFACENTI VERSO L’ EUROPA E GLI STATI UNITI. I TRE MAGISTRATI DELLA PROCURA DI PALERMO CHE EGLI AVEVA RICEVUTO ALL’ INIZIO DEL MESE A MARSI-GLIA, ERANO VENUTI ACCOMPAGNATI DA GUARDIE DEL CORPO, MEMORI DELLA MORTE DEL GIUDICE GAETANO COSTA UCCISO NELLE VICINANZE DI PALERMO MENTRE SVOLGEVA UN ‘ INCHIESTA SU UN TRAFFICO DI STUPEFACENTI VALUTATO A CENTO VENTI MILIARDI DI FRANCHI (UN FRANCO VALE CIRCA 212 LIRE ITA-LIANE).I PRIMI INDIZI DELLA RINASCI-

TA DELLA ” FRENCH CONNECTION” ERANO STATI SCOPERTI NEL MARZO 1980, NELL’ ALTA LOIRA, FRANCIA CENTRO SETTENTRIONALE. DIECI PERSONE AVEVANO ORGANIZZATO UN LABORATORIO CLANDESTINO PER LA TRASFORMAZIONE DELLA MORFINA-BASE IN EROINA. ARRESTATE, ERANO STATE TUTTE INTERROGATE DAL GIUDICE MICHEL. FRA LORO VI ERANO ELEMENTI GIA’ NOTI NE-GLI ANNI SETTANTA. L’ INCHIE-STA, SVOLTA DALLE POLIZIE ITA-LIANA E FRANCESE AVEVA CONDOTTO NEL GIUGNO 1980, ALLO SMANTEL-LAMENTO DI UN TRAFFICO FRANCO ITALIANO DI STUPEFACENTI, IL CUI QUARTIER GENERLE ERA NELLE VICINANZE DI MILANO. NELL’ AGOSTO DEL 1980 VENIVA SCOPERTO A PALERMO UN ALTRO LABORATORIO CLANDESTINO, CAPACE DI PRODURRE MEZZA TONNELLATA DI EROINA AL MESE. (SEGUE)RS/CE21-OTT-81 21:19 NNNN

E poi, ancora, sempre l’Ansa forniva dettagli ancora più interessanti su questa morte totalmente stralciata dal racconto

del business dell’eroina e del traffico in-ternazionale partito dalla Sicilia con l’a-iuto dei marsigliesi.

ZCZC041/03R CRO 03 QBXBOMICIDIO GIUDICE MARSIGLIA :

INDAGINI A PALERMO(ANSA) – PALERMO, 22 OTT – LA

POLIZIA FRANCESE HA INVIATO ALLA QUESTURA DI PALERMO UN PRIMO RAPPORTO, DEFINITO” IN-FORMALE” , SULL’ OMICIDIO DEL GIUDICE PIERRE MICHEL DI MARSI-GLIA, CHE DA QUASI UN ANNO LA-VORAVA, CON I MAGISTRATI PALER-MITANI GIOVANNI BARRILE E GIU-STO SCIACCHITANO SUI COLLEGA-MENTI FRA LA MAFIA SICILIANA E LA MALAVITA. PIERRE MICHEL ERA ATTESO A PALERMO ENTRO LA META’ DI NOVEMBRE NELL’ AMBITO DI UNA SERIE DI INCONTRI PROGRAMMATI DA TEMPO CON I GIUDICI LOCALI, CHE INDAGANO SUL TRAFFICO DI EROINA TRA LA SICILIA, LA FRAN-CIA E GLI STATI UNITI. (SE-GUE)MP/MC22-OTT-81 09:44 NNNN

Le indagini di Carlo Palermo

Era bravo, Pierre Michel. Ed era riusci-to a mettere le mani su un filone di inda-gine fondamentale per capire le regole e i flussi dell’organizzazione internazionale del traffico di stupefacenti, scoprendo che i marsigliesi, che fino alla fine degli anni ’50 erano stati i “padroni” dell’eroina in Europa, alla fine degli anni ’60 erano di-ventati in pratica solo dei tecnici di labo-ratorio e degli specialisti nella trasforma-zione della morfina base in eroina al sol-do delle famiglie siciliane che il traffico del derivato dell’oppio se lo erano preso tutto in blocco.Perché attraverso i rap-porti con i “cugini” americani si erano vi-sti affidare il monopolio del rifornimento del mercato statunitense.

Rileggevo gli appunti, i lanci di agen-zia, i resoconti, pochi, della stampa italia-na dell’epoca e i tanti, giustamente, della stampa francese che su quel delitto cla-moroso avevano centrato l’attenzione.

E non riuscivo a prendere sonno. Per-ché c’era qualcosa che tornava. Che col-legava quella storia a un’altra, ancora. Quella della pista dei soldi seguita da Carlo Palermo a Trento pochi anni dopo, e quella seguita, quasi contemporanea-mente, da Giovanni Falcone a Palermo.

Marsigliesi, turchi, bulgari, siciliani e “americani”.

Le assonanze fra le indagini, quella di Palermo e quella di Trento, erano davvero troppe per considerarle una semplice coincidenza. Ritrovai un’agenzia “di con-torno” relativo al quinto anniversario del-l’omicidio di Michel, trattato di straforo dalla pigra stampa italiana solo perché alla cerimonia partecipò quello che all’e-poca era di fatto il cuore del pool antima-fia di Palermo, Giovanni Falcone.

Falcone a Marsiglia

ZCZC220/0BR EST R16 R29 S0B QBXBTRAFFICO STUPEFACENTI: GIUDI-

CE FALCONE A MARSIGLIA(2)(ANSA) – PARIGI 21 OTT. – LE

INDAGINI, COMINCIATE NEL DICEM-BRE 1984 IN STRETTA COLLABORA-ZIONE TRA LA ”DRUG ENFORCEMENT ADMINISTRATION” DEGLI STATI UNITI, L’UFFICIO FRANCESE PER LA REPRESSIONE DEL TRAFFICO DI STUPEFACENTI, E LA POLIZIA ITA-LIANA, PORTARONO UN MESE FA AL-L’ARRESTO A MARSIGLIA DI MARIA-NO PIAZZA, PROPRIETARIO DI UNA PIZZERIA DELLA CITTA’, E DI AL-TRI SUPPOSTI COMPLICI. A QUANTO SCRISSERO ALL’EPOCA ALCUNI GIORNALI FRANCESI, L’ARRESTO DI MARIANO PIAZZA FU RESO POSSIBI-LE DA ASCOLTI TELEFONICI REA-LIZZATI A PALERMO. ”IL GIUDICE FALCONE – RIFERI’ ”LE MATIN” – HA CONSEGNATO ELEMENTI DETERMI-NANTI AI MAGISTRATI MARSIGLIESI CHE SONO ANDATI A VEDERLO LA PRIMAVERA SCORSA”. UNA DELLE CONVERSAZIONI TELEFONICHE PER-MISE DI ACCERTARE CHE LA MORFI-NA BASE PER LA FABBRICAZIONE DELL’EROINA VENIVA ACQUISTATA IN TURCHIA E CHE AL FINANZIA-MENTO PARTECIPAVANO ”ELEMENTI SICILIANI E MARSIGLIESI”, TRA CUI MARIANO PIAZZA. I MAGISTRA-TI HANNO QUINDI SEGUITO LA ”PIZZA CONNECTION” DALLA TUR-CHIA FINO A MIAMI, NEGLI STATI UNITI, ATTRAVERSO L’ EUROPA SU-DORIENTALE. LE INDAGINI SONO VOLTE ANCHE AD ACCERTARE DOVE L’EROINA FOSSE RAFFINATA, SE IN FRANCIA, OPPURE IN ITALIA. A QUANTO SI E’ APPRESO OGGI, IL GIUDICE FALCONE CONTA DI TRAT-TENERSI A MARSIGLIA FINO A GIO-VEDI’ PROSSIMO.(ANSA).PR/AV21-OTT-86 16:46 NNNN

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 86– pag. 86

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“Troppe assonanze, troppe coincidenze. Tutti e tre i magistrati,

mettendo quegli elementi in fila, stavano cercando di capire

gli incastri dello stesso puzzle”

Poi andai a cercare le agenzie relative a

uno dei momenti salienti delle indagini a Trento di Carlo Palermo, il blitz con ses-santadue arresti del 29 agosto 1982.

ZCZC030/01U CRO 01 QBXB STUPEFACENTI: SESSANTADUE AR-

RESTI(ANSA) - MILANO, 29 AGO - A

MILANO, TRENTO E VERONA POLIZIA E CARABINIERI HANNO

ARRESTATO IERI 62 PERSONE NELL' AMBITO DI UN' INDAGINE DA TEMPO AVVIATA DALL' UFFICIO ISTRUZIO-NE DEL TRIBUNALE DI TRENTO, CHE HA PORTATO FINORA ALL' EMISSIO-NE DI 160 MANDATI DI CATTURA E ALLA SCOPERTA DI ALCUNI QUINTA-LI DI EROINA E MORFINA. L' OR-GANIZZAZIONE, UNA DELLE PIU' IMPORTANTI MAI SCOPERTE, IMPOR-TAVA LA MORFINA DALLA TURCHIA, LA STIPAVA NEI DEPOSITI DI TRENTO, VERONA E BOLZANO, LA FACEVA RAFFINARE IN SICILIA E LA ESPORTAVA NEI MERCATI STATU-NITENSI E MARSIGLIESI. IMPORTA-VA ANCHE, ATTRAVERSO GLI STESSI CANALI, EROINA PURACHE SERVIVA PER ALIMENTARE I

MERCATI DEL NORD ITALIA. (SE-GUE)VO/SG29-AGO-82 12:41 NNNN(...)ZCZC038/01 U CRO 01 QBXB STUPEFACENTI: SESSANTADUE AR-

RESTI (3)(ANSA) - MILANO, 29 AGO - I

RESPONSABILI DELL' IMPORTAZIONE IN ITALIA SONO CINQUE, TUTTI CITTADINI STRANIERI. SI TRATTA DI SALAH AL DIN WAKKAS, (ARRE-STATO IN GRECIA); HZIR HEPGULER (ARRESTATO ALL' AEROPORTO DI TUNISI); MEHEMET ALI' KARAKAFA (SORPRESO A BELGRADO E ARRESTA-

TO INSIEME A VENTI CORRIERI); MUSTAFA' KISACIK (TROVATO A ISTAMBUL NEL MAGGIO SCORSO E FERMATO DALLE AUTORITA' TURCHE IN ESECUZIONE DI UN MANDATO DI CATTURA EMESSO DAL GIUDICE ITA-LIANO, CHE SI TROVAVA NELLA CA-PITALE TURCA PEALCUNI ATTI ISTRUTTORI) E HASAN NEHIR (DA SOLO ACCUSATO DI SPACCIO DI 230 CHILOGRAMMI DI EROINA E DI TRAFFICO DI ARMI).GLI ARRESTI, AVVENUTI CON LA

PIENA COLLABORAZIONE DELLE AU-TORITA' DI POLIZIA TURCA E JU-GOSLAVA, SI SONO SUCCEDUTI NEI MESI SCORSI E HANNO PORTATO ALLA SCOPERTA DEI RESPONSABILI ITALIANI, UNA PARTE DEI QUALI FERMATI IERI. MOLTI DI LORO, GIA' IN CARCERE, SI SONO VISTI NOTIFICARE IL NUOVO MANDATO DI CATTURA. TRA QUESTI GERLANDO ALBERTI, ROSARIO D' AGOSTINO E MATTEO BUCCOLA (GIA' INQUISITI PER I DUE LABORATORI PALERMITA-NI NEI QUALI VENIVA RAFFINATA LA MORFINA). E, ACCANTO A LORO, SETTE SICILIANI, ACCUSATI DI PARTECIPAZIONE ALLA MAFIA, COR-RIERI DELLO STUPEFACENTE DAL TRENTINO ALLA SICILIA. DUE FRA-TELLI, INVECE, SECONDO GLI IN-VESTIGATORI TENEVANO I COLLEGA-MENTI CON LA '' NDRANGHETA'' CALABRESE.(SEGUE)VO/SG29-AGO-82 13:19 NNNN

Michel, Palermo, Falcone

Poi Carlo Palermo si era trovato ad in-crociare, sempre in collegamento con quella incredibile inchiesta, Bettino Craxi e una cupa vicenda di tangenti verso il Psi. Risultato, tutte le inchieste in corso sospese, poi il trasferimento a Trapani e

dopo 55 giorni l’attentato da cui era sfug-gito per puro caso ma con una scia di san-gue terribile.

Partendo dai soldi e dai movimenti di soldi collegati ai traffici di eroina. Seguendoli per mezzo mondo.

Tre magistrati, una sola pista?

Pochi giorni prima di morire Pierre Mi-chel era andato a cena dal padre. Me lo immaginavo arrivare in moto, con la bor-sa colma di carte a tracolla, i capelli lun-ghi spettinati, la cravatta sciolta sotto il giaccone da motociclista. E quella sera al padre aveva confessato che stava per mettere le mani su altri trafficanti, su una rete ancora più vasta che vedeva coinvol-te sempre, oltre ai soliti criminali locali, le grandi famiglie siciliane.

Non più i vecchi "capi", i grandi del milieu marsigliese raccontati dai film con Jean Gabin. Non più i vecchi boss come Dominique Venturi detto Nick finito die-tro alle sbarre come Al Capone per eva-sione fiscale o Barthèlemy Guerini più conosciuto come Memè e incastrato per l' assassinio di un piccolo pesce della cri-minalità locale.

Comparivano i nuovi padroni. I Maria-no Piazza e i suoi soci ancora non indivi-duati. Rimasti, poi, nell'ombra. Come sta-va accadendo ed era già accaduto in Sici-lia. La modernità era il frutto avvelenato del papavero.

Erano stati dei marsigliesi ad ammazzare Michel. Anche se nessuno riuscì a capire davvero chi fossero i veri mandanti di quell’omicidio. Chi fossero e soprattutto di quale nazionalità fossero.

Alla fine crollai davanti al monitor.

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MEMORIA/ CONCETTO GRECO

Un preteoperaioa Catania

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 88– pag. 88

“Io penso che vi sia bisogno per ogni confronto di una parità fra i due. Il sottoscritto ha scommesso la sua vita per i poveri, mentre altri hanno scommesso la loro perché i propri figli stessero bene - socialmente, economicamente – o possibilmen-te meglio degli altri. Questa è la vera disparità che ci separa”

di Fabio D'Urso e Luciano Bruno

Padre Greco è morto da quattro anni. Nella nostra memoria, rimane la sua testi-monianza di un uomo che senza alcun po-tere ha difeso i poveri, con una pratica concreta di liberazione, al margine di un quartiere di perifera di Catania.

Egli ora è cittadino dei cieli: “dei cieli degli occhi dei bambini, nel cuore dei semplici, dei sogni dei poeti, dei pastelli dei pittori, del rincrescimento dei deli-quenti, del sostegno dei forti”.

Di padre Greco rimangono moltissimi scritti, pagine fotocopiate per gli amici, per il gruppo, per la comunità cristiana,

per il quartiere del Pigno a Catania. Molte di queste girano in rete, in modo informa-le come frammenti di una vita evangelica.

Sono pagine scomode che raccontano un impegno soffocato dall'anonimato den-tro la chiesa e la società civile.Pagine che lui non mai nascosto, e di cui non ha te-muto la pubblicazione.

Questa sua testimonianza di vita da pa-dre Giuseppe Ruggieri è stata paragonata nello stile a quella di Francesco di Assisi, resta tuttavia nell'oblio di questa cerchia di fortunate persone, e non ancora conse-gnata a tutti.

Lui ne avrebbe sorriso. Ha rinunciato a ogni onore, ma non hai mai rinunciato a vivere con trasparenza, e in solidarietà con “qualunque uomo, giallo, rosso, nero o bianco, stanco o pimpante, debole o for-te, infermo o sano, scartato o assimnilato, peccatore o santo, ignorante o sapiente, di ieri e di domani”.

Ha sognato una chiesa aperta, che in-frangesse ogni muro e in cui i soli poveri fossero i soli protagonisti della sua storia. Con questa intervista essenziale, fatta lo stesso anno della sua morte, lo vogliamo ricordare.

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INTERVISTAA PADRE GRECOdi Fabio D'Urso

Si chiama Concetto Greco. E' prete da cinquantasei anni, a Catania. Vive tra la gente in una periferia della città, il Pigno.

- Da quanto tempo?“Da trentasette anni”.- Quanti anni aveva?“ Quarantadue”.- Come era il Pigno negli anni settan-

ta? Come ci è arrivato?”.“Nel 1970, ci sono andato di mia ini-

ziativa, ricevendone il mandato pastorale dal vescovo Bentivoglio, di cui ero stato il segretario. Sono venuto a fare il curato”.

- Lei faceva parte della classe diri-gente della chiesa catanese?

“Sì. Così pensavamo in molti. Ero mol-to attento al messaggio del Concilio, e alle vicende dei piccoli fratelli del Vange-lo”.

- Che vuol dire ?“Charles de Foucauld è andato a morire

nel cuore dell'Africa”.- Si è sentito liberato, quando è stato

mandato qui?“Sì, da una vita comoda, mai ricercata”.- E poi è venuto a vivere qui?“Sì, in via dei Sanguinelli, accampato

accanto agli altri”.- Ci vuol parlare del Pigno?. Questa

periferia sud- ovest della città, dove nei prossimi anni potrebbe sorgere il più grande centro commerciale di Sici-lia, che occuperà duecentoquaranta mila metri quadrati di spazio ( si parla del centro commerciale Porte di Cata-nia, NdR).

“Ti racconterò del giovane proprietario, Giovanni Pulvirenti. Il Pigno prima degli anni sessanta era un feudo della sua fami-glia. Un vigneto, di cui già il padre aveva venduto una metà ad un medico, che l'a-veva in cura. Nella parte restante sarebbe passata dritta la tangenziale che collega con l'autostrada, tra Palermo e Catania. La parte finale in pratica poteva passare dove adesso stiamo parlando”.

- Che cosa è successo ?“Quel terreno per una sorta di obiezio-

ne allo stato, è stato venduto sulla parola e senza soldi, a quelle famiglie che arri-vavano fin qui, chi da dentro della Sicilia, chi da altre regioni, per venire a lavorare a Catania”.

- Come appariva il Pigno ?

“Era un contesto povero, desolato”.- Come che la gente è rimasta se non

poteva farsi la casa”. “Giovanni Pulvirenti portava lui stesso

alla gente i sacchi di cemento, se li cari-cava e li portava con i suoi mezzi.”.

- Come lo pensa?“Con l'animo nobile”.- Ci racconti del quartiere?“Dall'inizio degli anni sessanta fino alla

fine degli anni settanta si son formati i di-versi isolati del quartiere. Più famiglie che venivano dallo stesso luogo avevano qualche cosa che li accomunava e li face-va sopravvivere”.

- Gruppi diversi?“Volevo fare l'omelia in dialetto. Non

mi capivano, i dialetti erano diversi. La gente era arrivata da Messina e da Enna, ma anche dalla Calabria e dalla Roma-gna”.

- Che cosa ha fatto?“Alla lunga hanno compreso la lingua

italiana, divenuta simile a tutti.- La sua scelta ha avuto a che fare

con il rinnovamento della chiesa di Ca-tania, durante gli anni dopo il Concilio ?

“Alcuni preti furono molto sensibili alle nuove affermazioni del Concilio, aderendo non solo con la testa, ma anche con la vita: Biagio Apa, Giovanni Piro, Pippo Di Bella, Pippo Gliozzo, Pino Rug-gieri, Carmelo Politi”.

Alcuni mesi prima del 1970, prima di andare al Pigno, padre Greco, dovremo dire Monsignor Greco, aveva ricevuto il compito di assistere il rettore del semina-rio della città, monsignor Francesco Ven-torino a formarne gli aspiranti sacerdoti. Era stati nominato insieme ad altri preti. Così tra la metà del 1970 e la fine del 1971, essi avevano rielaborato l'espe-rienza del seminario, a partire dalla vita comune e dal coinvolgimento dei semina-risti nel lavoro tra la gente nelle parroc-chie. Questa vicenda è stata ben raccon-tata da Nino Indelicato, in un articolo, dodici anni dopo: “ si voleva dare la possibilità ai seminaristi di verificare la scelta, mettendoli in situazione di pover-tà, e di confronto la vita reale.” Perciò una parte di questi in aveva scelto di sta-re nella parrocchia del Pigno.

La formazione degli aspiranti preti fuori dalle mura del seminario, venne contrastata da una parte dei preti della della diocesi.

Alla fine del dibattito in seminario, partecipato a tutti i prei della diocesi; e dopo un processo alle intenzioni del rin-novamento della formazione, Ventorino aveva dato le dimissioni. Così era finita l'esperienza educativa del Pigno.

“La storia di questi trentasette anni, qui al Pigno sono una storia assai stramba”.

- Per quale motivo?“Ho dovuto dar conto al vangelo, piut-

tosto che ad altro”.- Che dice la gente di lei? “All'inizio non capiva il motivo della

scelta. Vivevo in appartamento piuttosto che in canonica, del lavoro di fabbro piut-tosto che dei soldi che lo stato dà alla chiesa”.

Padre Greco scrive ad un amico: “Ave-vo ventitré anni, quando sono stato ordi-nato . Per diciassette di questi anni sono esistito dentro la stanza dei bottoni. l'e-sercizio di un potere. Poi, per la causa dei poveri. ho fatto il curato in un villag-gio con nessuna storia alle spalle”.

E continua a scrivervi dalla gente: “.(.). con pane e cipolla, si sono rifinita la casa. Non pochi ragazzi, in questi ultimi venti anni, son giunti a laurearsi. Quan-do son venuto al Pigno, non si aveva ac-qua nelle case, e per lavarmi la faccia, alle sei del mattino, nelle rigide giornate d'inverno, andavo sulla strada, dove era-no posizionate delle enormi botte di me-tallo. Quando le famiglie si costruivano la casa, appena possibile vi si cacciava-no dentro; a posto degli infissi appende-vano, su due chiodi, povere coperte”.

“Insegnavo in un liceo, ma dopo il pri-mo anno, sono andato a fare il fabbro”.

- Per quanti anni?“ Per quindici anni, dal 1971 fino al

1985”.- Poi che cosa è successo?“Ho avuto un incidente sul lavoro. Ol-

tre non sono riusciuto ad andare”.- Come si definisce rispetto al lavoro

che ha fatto?“Sono un anarcoide”- Che significa?“ Pressoché anarchico? Chi ti paga di-

venta il tuo padrone. Ho rinunciato ai sol-di dello stato, finché ho potuto”.

- E la parrocchia? “La sera vivevo il ministero nella par-

rocchia, insieme alla comunità di creden-ti”.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 89– pag. 89

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- E i sacramenti ?“Si vivono a partire dal vissuto dei cre-

denti entro la comunità”.- Oppure?“Si fanno discorsi severi e prassi

facili.” - Cosa le sta a cuore ?“Che i sacramenti siano segni di una

fede, altrimenti sono segni magici; e poi questi non vengano pagati”.

- Che pensa di questo tempo ?“C'è paura e violenza. Riesce difficile

andare avanti. Avverto un senso di soffo-camento”.

- Sul Vangelo ?“Che è possibile che sfugga, che lo si

perda di vista”.- Un'immagine di Dio?“Dio - dice Gesù - non è abisso miste-

rioso di forza che giustifica i potenti, non è mai volto irato che richiede sacrifici”.

- L'uomo?“ Fidarci di ogni uomo”.- Che possiamo ancora imparare?“L'amore. Gesù ridona splendore ad

ogni uomo che scorge in sé una dignità”.- E la fede?“ Essa si spende nella vita, con la quo-

tidiana fatica del vivere”.- Che cosa dire sempre ?“ La novità del Regno”.- Che significa? “Accostarsi a Cristo; distanziarsi dai

potenti del mondo; pace, giustizia, amore, distacco dalle cose, priorità delle persone sulle cose, speranza ai disperati”.

- Che cosa fa un cristiano ?“Rende presente Lui, assume il suo sti-

le e la sua disponibilità ad amare fino alla croce”.

- E la Chiesa ?“Ci vuole un confronto serio col suo di-

vino fondatore, il Cristo”.- Di che cosa si preoccupava

Gesù?”.“Per lui era fondamentale sapere se era

stata accolta o no la base risolutiva di ogni etica sessuale e della stessa convi-venza civile: una vita spesa nell'amore gratuito, nel dono di sé”.

- Cosa cosa le preoccupa della Chie-sa?.

“Ha enorme difficoltà a riconoscere che lei non è la salvezza”.

- Ci aiuti a capire.“La chiesa è un semplice umile mezzo

voluto dal Cristo per l'edificazione del Regno”.

- E'..?

“Essa è popolo di Dio e poi dotata di gerarchia. Nasce dove due o tre si unisco-no nel Cristo, e spezzano il pane”.

- Le parole della chiesa.?“Quelle di una comunità di battezzati”.- In pratica quanto conta il popolo di

Dio, i cristiani laici ?“Non sono ancora soggetto”.- Il Concilio ha chiesto alla chiesa di

mettersi in servizio?”.“...ma deve prima di tutto assumere la

forma di Cristo, il suo stile”.- E invece?“L'impressione che non sia essa ad

evangelizzare il mondo ma, al contrario”.- Che vuol dire?“Non vedo quel tentativo di non con-

formarsi”.- Di che sta parlando?“La voglia di potere e d'insegnare è ben

presente in maniera patetica”.- In pratica?.”... uomini alla ricerca di una diocesi,

di una parrocchia autorevole, di contatti con gente che conta, perfino di vittorie elettorali da fare pesare al momento op-portuno nelle contrattazioni con i potenti”.

- Che succede ..?“Si entra così in una cerchia di compa-

gnie”.- Che pensa del potere?“E' un genere quasi sacro. I potenti si

appoggiano a vicenda. Poco importa se uno è detentore del potere economico, un altro di quello mafioso, altri di quello po-litico o religioso”.

- Che valori si perdono? “Il bene comune, il potere come servi-

zio e la politica come la forma più grande di amore”.

- Cosa ancora?“La bella notizia, la risurrezione del

Cristo per l'uomo disperato. In giorni bui mi chiedo tuttavia se le risposte a queste domande, importino a molti.”

- In particolare ?“Mi chiedo se la difficoltà dei seguaci

di Cristo di essere segno del Regno nel mondo, é presente nella vita degli uomini di chiesa. Se esiste la coscienza di un possibile, involontario tradimento del Vangelo. Ciò sarebbe premessa per la conversione. Purtroppo non sono ottimi-sta”.

- Cosa la preoccupa ?“Questo oscillare della Chiesa tra i ben-

pensanti e gli esclusi. Chi, se non la Chie-sa, deve mostrare che si sta stravolgendo

ogni pietà, ogni fede ed ogni umanità? - In particolare?“La Boss- Fini trasforma in delinquente

un disperato. E continuiamo a tacere. Sia-mo molto titubanti sui Centri di Perma-nenza Temporanea”.

- Che pensa ?“Ai tempi di Costantino si mise il se-

gno dello Sconfitto, la croce, sui labari degli oppressori”.

- E dove altro ancora, oggi ?“Si benedicono bombe atomiche o por-

taerei o valorose truppe di occupazione.” I teologi?.“Sanno tutto su Dio in cielo, ma così

poco di quel Dio che nei suoi figli appro-da sulle coste della Sicilia in cerca di un inferno meno atroce di quello lasciato alle spalle”.

- E l'ospitalità ?“Non è un valore politico”.- Con chi sta la Chiesa ?“Di chi si preoccupa questa mia madre?

Non dichiaratamente con gli esclusi, non con i diversi, non con i poveri, non con i giovani, non con la classe operaia, non con i disoccupati”.

- Che fa la chiesa?“ Vede di malocchio quanti dei suoi fi-

gli osano trattare non solo il corpo eucari-stico di Cristo ma anche il suo corpo mi-stico, ben visibile tra i crocifissi ed i reietti del Terzo Mondo e delle nostre pe-riferie urbane?”.

- Senza denuncia?“Questo silenzio mi scandalizza, mi

soffoca, perché vorrei poter dire, non solo in nome di Cristo ma vorrei poter dire che la Chiesa c'è per ogni disperato, lei portatrice di una felice parola”:

- Infine? “La chiesa appare come priva della pa-

rola. Non è possibile essere Chiesa di Cristo se non ridiventiamo Chiesa dei po-veri e degli esclusi. Non ce la caviamo senza di loro. Se continuiamo ad essere sale scipito, cristiani fasulli, saranno fa-sulli la Chiesa e lo stesso Cristo”.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 90– pag. 90

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UNA TESTIMONIANZA/DA LIBRINO AL PIGNOdi Luciano Bruno

E' la fine degli anni ottanta, a Librino, periferia a sud-ovest di Catania, un grup-po di ragazzini decidono di costruire con le loro mani un campo da calcio. Ogni pomeriggio usciti da scuola si incontrano sotto il portone di Rosso, capelli castani, occhi molto profondi. C'é Pirocchiu, capelli biondi e occhi azzurri, sembra un tedesco.Tigna e Luciano.

E' il mese di giugno la scuola sta per fi-nire; ed il pomeriggio, nonostante i quasi quaranta gradi all’ombra, riescono a fini-re il campo. Pirocchiu si occupa di fare i buchi per inserire i pali, Tigna con mar-tello e scalpello in mano toglie i dislivelli dal terreno. Luciano toglie l’erbacce. Rosso va in un cantiere li vicino e chiede al capocantiere, i pali e le traverse.

Dopo settimane il loro campo è pronto. “Immaginavati tutte le partite che po-tremmo fare, i campionati che si possono organizzare”. Il sogno dura poco. Una mattina mentre Rosso é in cucina, si sente un rumore di una ruspa. Questi si affaccia e vede che stanno abbattendo il campo, scende e va a chiedere spiegazioni:

“Senta, chi sta facennu chistu è u no-stru campu. h �

“Iu appi l’ordini do Comuni.” Quel pomeriggio, i giovani sono seduti

sulla ringhiera, non hanno dove andare a tirare quattro calci al pallone.

Si alza uno di loro, Luciano : “Carusi o Pignu c’è na sala di giocu, ci iemu? Chi ni pinsati?”.

Il Pigno è il quartiere autocostruito dal-la povera gente vicino a Librino. Ci van-no tutti e prendono quello stradone peri-coloso che collega i due quartieri. Entra-rono nella sala gioco e restano senza pa-role guardando “quella grande scoperta” Aspettano Pirocchiu: “Carusi dda c’è a carambola, na facemu na pattita?”. Piroc-chiu in coppia Luciano, e Minnirossi con Tigna. Quello rimane il loro posto dove incontrarsi.

Alcuni anni dopo, sempre al Pigno, co-nosco Padre Greco, prete alla parrocchia di San Giuseppe.

“ Senti io vado al Pigno, stasera si riu-nisce il gruppo vuoi venire? h.�

“Sì, meglio di stare solo a casa.” Quando arriviamo a casa di padre Gre-

co; la prima cosa che mi colpisce è il suo abito sobrio. Ma non è vestito da prete.

Tiene la barba, e mi restano in mente quei suoi occhi, la corporatura robusta. Quando ho detto quello che pensavo sulla chiesa mi ha lasciato libero di parlare. “Un prete deve stare fra la gente, insieme agli ultimi.” Lui ha vissuto in questa periferia, una delle tante dove i preti dovrebbero stare.

DUE SCRITTIdi padre Concetto Greco

I deboli in Italia sono usati come cavie. Quello che di male può succedere, succe-de prima a loro. Di solito solo a loro. Sono i porcellini d’India della nostra so-cietà. I canarini usati in miniera per evita-re gli incidenti da grisou. I deboli vivono vicino agli inceneritori. I deboli sono espropriati dei loro appartamenti popolari dai delinquenti. I deboli non possono mai permettersi di violare la legge. I deboli non conoscono gli avvocati. I deboli sono i primi a essere derubati dal finto esattore del gas. Dall’offerta della finanziaria a rate. Se un delinquente esce grazie all’in-dulto è certamente un vicino di casa dei deboli. I deboli non possono ammalarsi, morirebbero. Bevono acqua al cloro, re-spirano Pm10, hanno il riscaldamento spento. I deboli sono di solito persone oneste. Rispettano le istituzioni. Per que-sto non sono rispettati.

Ogni buona legge ha bisogno di un pe-riodo di sperimentazione. I deboli hanno questa funzione sociale. E’ meritoria, e preserva le classi più abbienti da conse-guenze indesiderate. Un taglio alle pen-sioni, un nuovo ticket sanitario, la legge Biagi, un indulto produrranno reazioni sociali? I deboli sono qui per questo. Se loro sopravvivono, allora si può fare. Ai deboli va la nostra eterna riconoscenza. Ai deboli voglio dedicare un discorso proto evangelico. Più proto che evangeli-co. Il discorso della mezza montagna

Beati i deboli, perché di essi sono le periferie.

Beati i deboli, perché saranno consolati da Previti.

Beati i deboli, perché erediteranno i de-biti dei genitori.

Beati i deboli che hanno fame e sete della ingiustizia, perché saranno saziati.

Beati i deboli, perché troveranno il pu-sher sotto casa.

Beati i deboli, perché vedranno la tele-visione di Stato.

Beati i deboli, perché saranno chiamati populisti.

Beati i deboli a causa della giustizia, perché di essi è il regno di Regina Coeli.

Beati voi deboli quando vi insulteran-no, vi perseguiteranno e, mentendo, vi di-ranno demagoghi per causa mia.

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra funzione sociale: quella di prenderlo nel c..o.”

* * *E' vero o non vero che la chiesa ha ne-

gato i funerali a Piergiorgio Welby, per aver rifiutato l’accanimento terapeutico? Come se nel vangelo ci fosse scritto, che qualcuno doveva pur portare una bombo-la di ossigeno a Gesù in croce, così pote-va durare di più e dire qualche altra paro-la impegnata a san Pietro. È vero o non è vero che la chiesa ha celebrato i funerali a Pinochet, un uomo che ha assassinato migliaia di persone? È vero o non è vero che la chiesa ha celebrato i funerali a Franco? È vero o non è vero che la chiesa ha celebrato i funerali ad un mafioso, del-la banda della Magliana, dopo essersi le-vato di torno parecchie persone?

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Io mi chiamo Giovanni Tizian

Cronista sotto scorta Parte la solidarietàal contrario

Sono passati due mesi da quando Giovanni Tizian, giornalista calabrese di 29 anni e militante dell’associazione antimafie daSud, è stato messo sotto scorta a causa delle sue inchieste giornalistiche sulle mafie al Nord, in particolare in Emilia Romagna. A metà gennaio daSud ha lanciato una campagna a sostegno del cronista che ha avuto ampio risalto sui media nazionali, raccogliendo l’appoggio di diverse personalità del campo dell’impegno civile, della politica e dello spettacolo. Sul sito iomichiamogiovannitizian.org sono arrivate migliaia di adesioni da tutta Italia.

L’associazione daSud ha pensato sin da subito che la situazione in cui il giornalista si è trovato suo

malgrado, fosse un’occasione non per creare l’ennesimo eroe solidario, simbolo di una lotta antimafia delegata a poche persone, ma per ragionare al contrario sul bisogno dell’impegno collettivo. Se le mafie si possono permettere di minacciare giornalisti coraggiosi è perché in pochi fanno la propria parte. Per questo motivo la seconda fase della campagna “Io mi chiamo Giovanni Tizian” ribalta lo schema e chiede a chi vuol essere solidale con il giornalista calabrese di assumersi la responsabilità di mettere in atto buone pratiche antimafie. Con un video disponibile sul sito www.iomichiamogiovannitizian.org, su facebook, twitter e youtube, l’associazione ha raccontato alcune delle buone pratiche antimafie già

esistenti, che riguardano enti locali, giornalisti, imprenditori, consumatori, liberi professionisti, scuole, associazioni, artisti, bloggers e singoli cittadini.

L’associazione daSud invita tutti i media a diffondere le buone pratiche antimafie e ognuno a scambiare la solidarietà a poco prezzo con l’impegno quotidiano.

Tutti possiamo fare delle buone pratiche antimafia. Su www.dasud.it segnaliamo alcuni degli esempi più interessanti in Italia. Una lista, non esaustiva, di proposte possibili tenendo sempre presente che le buone pratiche, grazie all’impegno di tanti, si moltiplicano di giorno in giorno e coinvolgono sempre più cittadini.

I SicilianiI Sicilianigiovanigiovani – pag. 92– pag. 92

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IL FILO

Banchedi Giuseppe Fava

...Molto più in alto dei cosiddetti ucci-sori c'è il livello dei pensatori, con la lon-tananza, il distacco di autorità che può esserci tra una fanteria alla quale è affi-dato soltanto il compito di conquistare, uccidere, presidiare, morire, e le stanze imperscrutabili dello Stato maggiore dove si elabora la grande strategia mafio-sa.

Scopo unico e massimo di questa stra-tegia è la riciclazione del denaro contin-uamente prodotto dall'operazione droga, cioè la fase ultima e più delicata, quella appunto che esige una autentica capacità tecnica e finanziaria. Si tratta infatti di centinaia e migliaia di miliardi che, per essere immessi nel mercato economico e diventare usufruibili, debbono passare at-traverso una serie di operazioni legali che li assorbano e magicamente li ripro-ducano come ricchezza. Ci vuole talento,

ci vuole fantasia, competenza tecnica. Non a caso abbiamo parlato di un salto nella cultura mafiosa.

Un salto nella cultura mafiosa

Gli strumenti essenziali sono due: le banche e le grandi imprese economiche.

Anzitutto le banche: ricevono il dena-ro, lo fanno proprio, lo celano, lo ammi-nistrano, conservano, proteggono, reim-piegano (cento miliardi provenienti dalla droga, alle cui spalle sono decine di per-sone miseramente morte o uccise, e mi-gliaia di infelicità umane, possono essere impiegati per la costruzione di un gratta-cielo, un ponte, una diga, un'autostrada). Le banche gestite e controllate dallo stato difficilmente potrebbero (ma non è detto che non possano) poiché c'è sempre il ri-schio di un funzionario di vertice che in-daga, spia, riferisce, protesta, accusa. Le banche private.

Talune banche private ovviamente. Non a caso Sindona aveva la vocazione di creare banche, ne aveva l'estro, la fan-tasia. Il giorno in cui dovesse decidere di raccontare finalmente tutta la verità, mol-ti imperi finanziari vacillerebbero. E in realtà Sindona, invecchiato, gracile, stan-

co, terrorizzato, preferisce starsene in un tiepido carcere americano. All'aria aper-ta, in libertà, non avrebbe certamente più di un giorno di vita! Per decifrare perfet-tamente la tragedia mafiosa sarebbe inte-ressante sapere appunto quante banche e quali banche con il suo vertiginoso talento, per cui riusciva a sconvolgere persino gli alti burocrati della Banca d'I-talia, Michele Sindona, piccolo ragionie-re di provincia, riuscì in meno di quindici anni a creare in tutta Italia e soprattutto in Sicilia.

Banche che fiorivano, si moltiplicava-no, esplodevano letteralmente nelle gran-di città e nei centri di periferia dove per gestire gli affari economici, i micragnosi affari della piccola borghesia commercia-le e agricola sarebbe stata già d'avanzo un'agenzia del Banco di Sicilia.

“Eccomi, sono la nuova banca!”

Banche invece che spalancavano di colpo i battenti: "Eccomi qua, io sono la nuova banca! A disposizione!", tutto l'ap-parato già pronto, direttori, impiegati, casseforti, banchi di metallo, sistemi elettronici, computerizzazione, vetri anti-proiettile, uscieri, gorilla con la divisa di sceriffo e la Smith Wesson, epiche ceri-monie inaugurali con interventi di parla-mentari, sottosegretari, ministri, questori, prefetti, "Taglia il nastro la gentile signo-ra di sua eccellenza", fiori, applausi, ban-chetto, champagne, capitali già depositati nelle casseforti.

(Da “I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa”, I Siciliani, gennaio 1983)

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“Gli strumenti essen-ziali sono due: le ban-che e le grandi impre-se economiche. Anzi-tutto le banche: ricevo-no il denaro, lo fanno proprio, lo celano...”

____________________________________La Fondazione FavaLa fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promo-zione di attività culturali che coinvolgano i gio-vani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani.Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a [email protected] [email protected]____________________________________Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebra- zioni, semplicemente uno stru- mento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

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I SicilianiI Sicilianigiovani giovani Rivista di politica, attualità e cultura

Fatta da:Celeste Costantino, Irene Cortese, Sara Di Bella, Cinzia Paolillo, Angela Ammirati, Danila Cotroneo, Laura Triumbari, Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Paolo Fior, Giulio Cavalli, Paolo Fior, Salvo Ognibene, Martina Mazzeo, Riccardo Orioles, Michela Mancini, Nadia Furnari, Francesco Feola, Max Vacirca, Giorgio Ruta, Maria Sole Galeazzi, Lorenzo Baldo, Antonio Mazzeo, Bruna Iacopino, Rino Giacalone, Attilio Occhipinti, Giulio Pitroso, Tommaso Maria Patti, Francesco Midolo, Mauro Biani, Carlo Gubitosa, Marco Pinna, Lelio Bonaccorso, Jack Daniel, Dino Sturiale, Sebastiano Ambra, Fabio Vita, Federico Beltrami, Domenico Stimolo, Francesco Appari, Giacomo Di Girolamo, Claudia Campese, Giovanni Caruso, Miriana Squillaci, ElioCamilleri, Giuseppe Scatà, Beatrice Canali, Marta Cavallini, Antonello Oliva, Laura Cortina, Gabriele Licciardi, Salvo Vitale, Giovanni Abbagnato, Riccardo De Gennaro, Pietro Orsatti, Padre Greco, Fabio D'Urso, Luciano Bruno, Raffaele Lupoli, Luca Salici

Webmaster: Max Guglielmino [email protected] engineering: Carlo Gubitosa [email protected] director: Luca Salici [email protected] Coordinamenti: Giovanni Caruso [email protected] e Massimiliano Nicosia [email protected] Segreteria di redazione: Riccardo Orioles [email protected]

Progetto grafico di Luca Salici(da un'idea di C.Fava e R.Orioles)

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I Siciliani giovani/ Reg.Trib.Catania n.23/2011 del 20/09/2011 / d.responsabile riccardo orioles

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periferie

#Occupiamocidi Scampia

OccupyScampia? Come dire di no! Anche se non fossimo

all’alba di una nuova guerra di camorra, anche se non ci

fossero tweet e articoli di giornale a proporcelo, occupare

fisicamente e occuparsi materialmente di un pezzo di Sud da

liberare è un dovere di tutti noi. Ancor più se da quel pezzo di

Sud arrivano mille esperienze che ci chiedono di aggiungere le

nostre braccia alle loro per dare una spinta forte se non

definitiva al controllo mafioso che marchia a fuoco e soffoca

un territorio grande quanto una capitale europea. È vero:

l’occupazione è l’essenza stessa di uno spazio pubblico, ma

l’occupazione di un giorno non fa la piazza e non rende

“pubblico” lo spazio. #Occupy non è e non può essere un

pomeriggio in piazza. #OccupyScampia sì, allora, se significa

che finalmente contribuiamo a restituire un luogo fisico ai suoi

abitanti, i tanti che vorrebbero riprenderselo e affidarlo “in

custodia” ai nonni, ai nipoti, alle madri, ai sorrisi e alle urla.

#OccupyScampia per costruire una società e un’economia

diverse, perché il quartiere diventi “piazza di spaccio” di

esperienze positive, di occasioni di lavoro, socialità e

creatività. Non accade in un giorno, ma se un giorno accade

che cominciamo tutti a farci carico di quello che manca e a

sostenere quelli che rappresentano l’altra Scampia – gli amici

del Gridas, gli A67, Legambiente, Mammut e tanti altri – è un

buon inizio. Occupiamo e occupiamoci di Scampia, dunque,

innanzitutto imparando a conoscere la sua vivacità e le sue

storie di resistenza che diventa speranza. Raffaele Lupoli

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FOTO DI JJLICKY

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Nel 1984 gli imprenditori siciliani non facevanopubblicità sui giornali antimafiosi. E ora?

Un tempo, gli imprenditori siciliani non facevano pubblicità sui giornali antimafiosi. Perciò i giornali come I Siciliani

alla fine dovevano chiudere. Nessun giornale può sopravviveresenza pubblicità, per quanto fedeli siamo i suoi lettori.

Noi facciamo la nostra parte. Voi, fate la vostra.

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