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ROBERTO LAMANTEA IL CASO LEOPARDI | 1 Il caso Leopardi A scuola era una favoletta, a volte sopravvive nonostante duecento anni di lettura biografica e critica e a 40 anni da un libro fondamentale nella storiografia letteraria leopardiana come La protesta di Leopardi di Walter Binni 1 : è l’associazione “gobba-malattia-pessimismo”, Leopardi cantore del nulla, della negatività, della cancellazione della speranza. Lo è stato, sino agli esiti piú desolati; ma Leopardi è anche il poeta che canta la giovinezza, il “tempo giovanil”, “piú caro / che la fama e l’allor, piú che la pura / luce del giorno”; 2 della rimembranza che “molce” 3 il cuore; della bellezza della natura; dei colori dei paesaggi e del mistero della notte; delle voci udite da lontano o riemerse dalla lontananza del tempo. È il cantore di una sincerità di vita che mai, dopo Dante e Petrarca, ha raggiunto quella intensità; è il poeta della fratellanza della “Ginestra”; l’alchimista della lingua, che gioca 1 WALTER BINNI, La protesta di Leopardi, Sansoni, Milano 1973. 2 Le ricordanze 44-46. Cfr. GIACOMO LEOPARDI, Canti, a cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli, Einaudi, Torino 1962-1993, p. 179. 3 “molceva” è lo stupendo verbo di A Silvia 44: inteneriva, illanguidiva. Cfr. GIACOMO LEOPARDI, Canti, cit., p. 173.

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Il caso Leopardi

A scuola era una favoletta, a volte sopravvive nonostante duecento anni di lettura biografica e critica e a 40 anni da un libro fondamentale nella storiografia letteraria leopardiana come La protesta di Leopardi di Walter Binni1: è l’associazione “gobba-malattia-pessimismo”, Leopardi cantore del nulla, della negatività, della cancellazione della speranza. Lo è stato, sino agli esiti piú desolati; ma Leopardi è anche il poeta che canta la giovinezza, il “tempo giovanil”, “piú caro / che la fama e l’allor, piú che la pura / luce del giorno”;2 della rimembranza che “molce”3 il cuore; della bellezza della natura; dei colori dei paesaggi e del mistero della notte; delle voci udite da lontano o riemerse dalla lontananza del tempo. È il cantore di una sincerità di vita che mai, dopo Dante e Petrarca, ha raggiunto quella intensità; è il poeta della fratellanza della “Ginestra”; l’alchimista della lingua, che gioca 1 WALTER BINNI, La protesta di Leopardi, Sansoni, Milano 1973. 2 Le ricordanze 44-46. Cfr. GIACOMO LEOPARDI, Canti, a cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli, Einaudi, Torino 1962-1993, p. 179. 3 “molceva” è lo stupendo verbo di A Silvia 44: inteneriva, illanguidiva. Cfr. GIACOMO LEOPARDI, Canti, cit., p. 173.

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dal greco e dal latino per dire le sue intermittenze del cuore. È la voce di un amore per la vita che raggiunge vette struggenti e di una delusione sconsolata come i piú neri abissi; è capace di contraddirsi nel giro di pochi giorni, come testimoniano molti passaggi delle lettere e dello Zibaldone. Non è un ideologo, il suo è un “pensiero liquido”, un “pensiero poetante”4. È un autore vivo e dilaniante di un’attualità che brucia. Altro che poeta triste perché gobbo quindi solo. In vita ebbe invece un’infinità di ammiratori, nei suoi viaggi a Bologna, Firenze, Pisa, fino ai suoi ultimi giorni napoletani. Ecco perché la lettura del bellissimo libro di Pietro Citati, Leopardi5, oltre a regalare la gioia di una scrittura fluida, chiara e musicale, ha il senso di un atto di giustizia critica. Leopardi di Pietro Citati è un libro innamorato. Alcuni recensori hanno scritto che Citati, nel suo intrecciare biografia e letteratura, nell’annodare trama e ordito del labirinto di vita e scrittura, è “erede di Sainte-Beuve”6 o “ultimo erede di Sainte-Beuve” per “l’attenzione alla biografia [...] costante della saggistica di Citati”7. Era opinione e metodo di Sainte-Beuve che biografia e opera in uno 4 È il titolo di uno dei libri piú belli della critica leopardiana degli ultimi decenni, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi di ANTONIO PRETE, Feltrinelli, Milano 1980. 5 PIETRO CITATI, Leopardi, Mondadori, Milano 2010, 438 pagine. 6 MARIO ANDREA RIGONI, “Leopardi, il genio vince l’infermità” in Corriere della Sera, 16 ottobre 2010. 7 RAOUL BRUNI, “Come un’opera buffa” in L’Indice, anno XXVIII n. 5, maggio 2011.

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scrittore fossero intrecciate, respirassero l’una con l’altra, l’opera germogliasse dalla vita. Ma il Leopardi di Citati va oltre. Citati è il personaggio che narra: da Goethe (1970-1990) ad Alessandro (1974-2004), Vita breve di Katherine Mansfield (1980-2001), Kafka (1987-2007), Tolstoj (1983-1996), fino a libri stupendi come La colomba pugnalata su Proust (1995-2008), La morte della farfalla (2006), La malattia dell’infinito (2008)8. Citati racconta Leopardi con la confidenza di chi narra la vita di un amico; è colloquiale nel tono e raffinato nella scrittura; ma ogni aneddoto, ogni riferimento, ogni sguardo sul Leopardi fanciullo o adulto è documentato con rigore storico e filologico e offerto al lettore con la naturalezza di un compagno di viaggio. In questo Citati è unico: in passato, una prosa critica così ammaliante e scientificamente nitida era in Giovanni Macchia, Mario Praz, Roberto Longhi, maestri oggi inarrivabili. Insieme alla biografia, ricostruita soprattutto attraverso gli epistolari e lo Zibaldone, Citati segue l’opera di Leopardi nella sua cronologia, ricostruendo, con le parole rimaste nei documenti, i suoi pensieri, perfino le sue emozioni. Affascina, in Citati, la capacità di descrizione da dentro, come se l’autore fosse lo spettatore invisibile, l’angelo wendersiano delle giornate di Leopardi e della mente del poeta. La pagina è tessuta nei pensieri al loro 8 Le date si riferiscono alla prima edizione e alla ristampa Adelphi.

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sbocciare o al loro infrangersi come onde contro altri pensieri in contraddizione; è fatta di odori, luci, sapori, cieli e stanze, carta e pietra. Perché la poesia è fatta di corpo. Infanzia e fanciullezza, l’allegria Uno dei meriti del libro di Citati è che l’intreccio tra opera e biografia libera la figura di Giacomo Leopardi da detriti e limo, non concede sconti a nessuno (dal conte Monaldo ad Adelaide Antici, il fratello Carlo e la sorella Paolina, le tante figure – alcune mediocri – che hanno sfiorato la vita del poeta), nemmeno a Giacomo. Ma attraverso questo lavoro minerario la grandezza del poeta di Recanati ne esce più rilucente. A parte i biografi, ovviamente, nessuno immagina Giacomo come un bambino tutto “allegrezza pazza”, bambino giocherellone, una furia scatenata. “Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro Leopardi nacque a Recanati venerdí 29 giugno 1798”9. Nei ritratti di Monaldo e Adelaide, o nei loro disegni per il figlio, Giacomo è tutto altarini e devozione, un futuro vescovo o papa, mentre per i fratelli, soprattutto Carlo, Giacomo è “gioia, furia, allegrezza pazza, al punto che se non si fosse contenuto avrebbe saltato, gettato seggiole in aria, fino a farsi male per

9 PIETRO CITATI, Leopardi, Mondadori, Milano 2010, p. 19. D’ora in poi il libro sarà citato come PCL.

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allegria”10. Ma subito, per il giovane Giacomo, si definisce un mondo: la biblioteca di Palazzo Leopardi, raggrumata da Monaldo per il figlio anche come nèmesi alla propria ignoranza, e l’universo della natura, del paesaggio, del clima, da cui sarebbe germogliata tutta l’opera di Leopardi, a cominciare dalle tante struggenti invocazioni all’infanzia e alla fanciullezza, alle “rimembranze”, non i ricordi ma la loro musica. E l’infinito dell’immaginazione, nutrito dai classici greci e latini e dalle moderne letture francesi come Rousseau. “Fuori dalla biblioteca c’era l’universo, e Leopardi avrebbe sempre ricordato cosa aveva visto intorno a sé nell’infanzia e nell’adolescenza. Niente, allora, gli appariva indifferente o insensato: ogni cosa aveva un senso; il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante. Tutto sembrava volergli parlare: lui interrogava le immagini e gli alberi e i fiori e le nuvole, abbracciava i sassi e i legni [...] Ogni cosa era nuova e meravigliosa: i colori delle cose, la luce, le stelle, il fuoco, il volo degli insetti, il canto degli uccelli, le acque chiare delle fonti; e si muoveva, ondeggiava e fluttuava come fluttua la romanzesca immaginazione infantile”11. Scrive Citati: “[...] qualsiasi apparenza – il sole e la luna e il tuono e il vento e il giorno e la notte e l’anno e il tempo e le stagioni e le messi

10 PCL, p. 20. 11 Ivi, pp. 21-22

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– aveva una “sembianza” o una “similitudine umana”. Poi, al di sopra di tutto, più in alto, più in alto, la fantasia intendeva ‘un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo’. Quella musica avrebbe echeggiato sullo sfondo di ogni poesia di Leopardi, sebbene egli non la esprimesse mai con le parole”12. Nella lezione di Montaigne (parzialmente) e di Rousseau, era l’immaginazione a generare poesia: “Nello Zibaldone, Leopardi aggiungeva che, per lui, il mondo era doppio: da un lato vedeva con gli occhi una torre o una campagna, sentiva con gli orecchi il suono di una campana; mentre con l’immaginazione vedeva un’altra torre, un’altra campagna, e udiva un altro suono. ‘Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione’13. Nel Leopardi bambino e adolescente c’era un miscuglio di candore infantile, piacere del gioco, ma già un’indole sensibilissima alla fantasticheria, indole in lui sviluppatissima prima della malattia, che avrebbe solo acuito, tra slanci delusi, innamoramenti brucianti e il bruit incessante della vita, la sua lontananza.

12 Ivi, p. 22. 13 Ivi, p. 23

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La malattia No, non era bello Leopardi. E in quanto alla sua famosa gobba, ne aveva due. Giacomo Leopardi era alto 1,41, aveva grosse gambe, due gobbe che i ragazzi di Recanati deridevano (mentre a Napoli gliele toccavano, quelle gobbe, e gli chiedevano i numeri del lotto, ché le gobbe portano fortuna). Giacomo pensava di essere responsabile, colpevole, della sua bruttezza, del suo rachitismo, ma non era così. Uno dei meriti della biografia di Citati è di raccontare la malattia, anzi il sistema di malattie14, di Leopardi con una precisione e crudeltà clinica. Il critico cita una lettera del fratello di Giacomo, Carlo, che raccontava di trovare Giacomo di notte “in ginocchio davanti al tavolino per poter scrivere fino all’ultimo momento,mentre il piccolo lume si spegneva”15. Ma “Leopardi non diventò gobbo a causa del rachitismo. La sua malattia era infinitamente più grave e complicata: la tubercolosi ossea (o morbo di Pott), come per primo suppose Giovanni Pascoli: una malattia metamorfica, mimica, che assume tutti gli aspetti e forma un sistema saldissimo; il primo dei sistemi che distrussero la vita di Leopardi, colpendolo nelle ‘apparenze’, che tanto amava. In una data che non possiamo precisare, il suo corpo cominciò a non crescere più: la statura si fermò a 1 metro e 41 centimetri; la parte

14 Ivi, p. 82. 15 Ivi, p. 33.

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alta rimase esilissima; i femori e le gambe si svilupparono, mentre due grosse gibbosità si formarono sia nella parte anteriore sia in quella posteriore del corpo”16. Ma la sua malattia, annota Citati, divenne “un’enciclopedia degli orrori”17: impotenza, oftalmia, lacrimazione, stitichezza, disturbi dell’apparato digerente e del basso ventre, insufficienza respiratoria, reumi di testa, di gola e di petto, emorragia al naso, asma, idropisia, bronchite, dolori addominali, gonfiore delle ginocchia e delle caviglie, versamento pleurico, inattività ghiandolare, acutissima sensazione di freddo d’inverno, per via della debolezza cardiocircolatoria. “Nulla”, aggiunge Citati, “della vita di Leopardi – quei venti terribili anni - obbedì al caso, o all’estro di qualche piccola, indifferente malattia. Tutto era sistema. Nessun medico tentò un’analisi o un rimedio qualsiasi”18. Aggiunge il biografo: “La cosa più grave era che Leopardi si sentiva colpevole della propria malattia. Se soffriva indicibilmente, ogni giorno della sua vita, se gli cresceva la gobba, se un liquido maligno gli riempiva il torace, se gli occhi lacrimavano, egli credeva che la causa fosse una sola: gli ‘studi matti e disperatissimi’ dell’adolescenza. Non sapeva che non era colpevole di niente. La colpa era soltanto della natura”19. 16 Ibid. 17 Ibid. 18 PCL, p. 34. 19 Ibid.

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Ma non è finita qui, perché Giacomo, “oltre che dalla tubercolosi ossea, era torturato da un altro sistema molto più misterioso: la depressione psicotica”20: nelle lettere a Pietro Giordani21 Leopardi scriveva di un’ “ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora”, di una “notte fittissima, e orribile”. Citati, con un’unghiata critica geniale, osserva che “Leopardi parlava dell’esperienza depressiva come di un pensiero”22. È perfino ovvio annotare che la depressione come pensiero è uno dei cardini della psichiatria di origine fenomenologica e della follia come linguaggio che arriva agli anni ’60 di Laing e Cooper (e in mezzo c’è l’universo della teoria e della clinica). Giacomo Leopardi morìa 39 anni nel 1837. La noia Quasi un secolo e mezzo prima di Sartre, Leopardi dedicò pagine mirabili alla noia – un parallelo con le néant rivelerebbe aspetti interessanti – qualcosa di più orribile del dolore e della disperazione perché approda all’atonia23. “Quanto più violento e terribile fu il suo dolore e la sua disperazione ne’ primi anni, e ne’ primi saggi ch’egli fece della vita” che “l’uomo di sentimento” passa a una quiete 20 PCL, p. 35. 21 Cfr. nota p. 418. 22 PCL, p. 35. 23 PCL, pp. 40-43, e note pp. 418-419.

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e rassegnazione costante, a una disperazione non sensibile. Ma in queste righe Leopardi scrive uno degli omaggi più intensi alla poesia: nell’insensibilità al dolore, annota il poeta di Recanati, “l’uomo perde il sentimento e il dono della poesia, non sente più né la natura né la bellezza: la sua grande immaginazione diventa fredda, e smarrisce persino l’angoscia per la nullità delle cose”: non c’è poesia senza la ribellione al dolore, quando la percezione della bellezza si scontra con la consapevolezza della sua fragilità. Il nulla di Leopardi, osserva Citati, rinvia a Pascal. Aggiunge il critico toscano: “La noia è una passione moderna, perché è la fine delle passioni [...] non è altro che il vuoto dell’anima [...] la noia è sterile: è una nebbia che incombe e un’acqua limacciosa che ci affoga”24. In Ad Angelo Mai Leopardi scrive “nebbia di tedio”. “La noia è un paradosso, una coincidenza di estremi: la morte nella vita, la morte sensibile, il nulla nell’esistenza; l’essere e il niente che diventano la stessa cosa”. Più avanti, rileggendo quella che Citati definisce “la più tremenda lettera dell’epistolario”25, il tema della noia, della vanità, appare in tutta la sua luce nera: “...sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che me ne vo fuori di me, considerando

24 Il corsivo è nel testo. 25 PCL, p. 91.

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ch’è un niente anche la mia disperazione”26. È la lettera a Pietro Giordani del 19 novembre 1819. Commenta Citati: “Mai, credo, Leopardi arrivò più a questo estremo degli estremi, a questo abisso degli abissi, oltre il quale la mente non riesce a giungere”27. Ed eccolo il nulla: “Tutto gli era quasi indifferente. Non aveva più speranze di felicità né per sé né per gli altri: non aveva illusioni né passioni; non pensava di poter fare grandi cose nel mondo. [...] Così Leopardi si adattò a vivere e a tollerare il tempo e gli anni. Aveva trovato la calma: una specie di ‘quiete dello spossamento’; o una ‘disperazione placida, tranquilla, rassegnata’, che fluiva lentamente dentro di lui”28. In un’altra lettera a Giordani (26 ottobre 1821), Giacomo delineerà questo ritratto di se stesso: “Non più giovane, non più renitente alla fortuna [...] escluso dalla speranza e dal timore, escluso dai minimi e fuggitivi piaceri che tutti conoscono [...] essendo stanco di far la guerra all’invincibile, tengo il riposo in luogo della felicità, mi sono coll’uso accomodato alla noia, nel che mi credeva incapace d’assuefazione, e ho quasi finito di patire”29. È inevitabile pensare, oltre all’esistenzialismo francese, a Kafka, a Beckett, agli autori della sottrazione del senso e della cancellazione della forma come ordine: 26 Ivi, pp. 91-92. 27 Ivi, p. 92. 28 Ivi, p. 94. 29 Ibid., il corsivo è mio.

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nei primi decenni dell’Ottocento Leopardi aveva già i semi del pensiero novecentesco. Ma c’è di più: nel capitolo “La mente di Leopardi”, Citati affronta il tema dell’esclusione e del disprezzo, altra gemma nera della filosofia, letteratura (e cinema, naturalmente, la nuova arte) del Novecento. “Il suo spirito era assuefatto da lunghissimo tempo alla solitudine e al silenzio”30, cosa che nella società degli uomini porta all’esclusione. “Alla propria assoluta, innocente e colpevole, esclusione, Leopardi dedicò, a distanza di sette anni, due capolavori: Ultimo canto di Saffo e Il passero solitario”31. Citati propone una pagina drammatica e lancinante di Leopardi: “L’uomo d’immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch’è verso l’amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell’amore. Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto l’incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l’ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente che egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor dalla sfera della bellezza, come l’amante escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell’amata ... Egli insomma si vede e conosce escluso senza

30 PCL, p. 44. 31 Ibid.

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speranza”32. “In questa esclusione c’è una colpa. Nelle due poesie la risposta è diversa. In Ultimo canto di Saffo, la poetessa si chiede se abbia peccato prima della nascita, in un eone sconosciuto: o da bambina, quando la vita ignora cosa sia il male. Ma evita di rispondere. Sostiene che le sue parole sono incaute: non è possibile accusare il fato o gli dèi; l’unica cosa certa è il mistero degli eventi fissati dal destino. Nel Passero solitario, Leopardi confessa la propria colpa. Il poeta-passero non condivide la gioia, il volo, l’amore, il canto, il divertimento della vita, come gli altri passeri. Un tempo, ha rifiutato la giovinezza e la gioia. Ora si pente e, sconsolato, si volge indietro, verso il tempo perduto. Questa esclusione dalla natura e dal mondo è una persecuzione. Come Leopardi scrisse a Pietro Brighenti il 21 aprile 1820, si era accorto ‘d’esser nato colla sacra e indelebile maledizione del destino’. Il destino aveva molti nomi: Dio, gli dèi, il fato, la fortuna, la natura”33. Ma l’esclusione di “questo maledetto dagli dèi”34 è più profonda di un’intonazione di carattere o di un disegno del fato. Leopardi “si rendeva conto che la società [...] non lo amava: sentiva in lui qualcosa di ostile, di avverso, di refrattario. [...] L’uomo non era fatto per la società, come oggi la conosciamo. Essa è

32 PCL, p. 45. 33 Ibid. 34 PCL, p. 46.

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inconciliabile con la natura umana. Se vogliamo entrare nella società, dobbiamo spogliarci delle nostre qualità essenziali e ingenite: libertà, indipendenza, uguglianza. Quando era afflitto, o oppresso dalla malinconia o dalla sventura, non tollerava ‘il tuono della frivolezza e della dissipazione’, o l’aspetto della ‘gioia insulsa’, che il mondo emana come un cattivo profumo”35. Questi accenti leopardiani andrebbero letti accanto alle pagine pasoliniane sull’omologazione; come il Leopardi del destino e dell’esclusione ha un fratello, storico e metafisico, nel Pavese dei Dialoghi con Leucò e del Mestiere di vivere36. Pietro Citati ci soccorre anche nel leggere il genio di Recanati come un preludio della grande letteratura novecentesca. Se “per Leopardi, leggere era già scrivere, e scrivere era una forma di lettura”37 e “per capire un testo bisogna diventare quel testo, pensando con la stessa profondità dell’autore” è chiaro che il testo non ha più un autore, sia Omero, Virgilio o Leopardi38, così “lo Zibaldone era lì, sotto i suoi occhi, come un’immensa e mostruosa rovina, a dimostrargli quale forza di dissoluzione lo possedesse. Senza saperlo, Leopardi parlava di Flaubert, di Kafka, di

35 Ivi, p. 47. Il corsivo è nel testo. 36 Una lettura intrecciata di Leucò e delle Operette morali sarebbe fertile di paralleli e confermerebbe, ancora, quanto Leopardi abbia anticipato vari aspetti del Novecento. 37 PCL, p. 57. 38 Ivi, p. 58. Qui Citati rivela una sorta di autopoetica.

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Musil, di Gadda e di molti scrittori del ventesimo secolo, divorati dallo spirito di incompiutezza e dallo spirito di infinito”39. La natura. La grandezza della poesia di Leopardi - la sua unicità nella letteratura italiana moderna - può essere contemplata in alcune parole fondamentali della sua poetica: natura, infanzia, fanciullezza, rimembranza. Se all’amore - Giacomo s’innamorò più volte - Citati dedica pagine delicate, rilevando tra l’altro il ruolo di un testo come la Nouvelle Héloïse di Rousseau, “fuoco irradiante della letteratura europea del diciottesimo e del diciannovesimo secolo”40, presente nella biblioteca di Monaldo, tra pagina letteraria e tressaillement41, è naturalmente il tema della

39 Ivi, p. 59. Voglio citare la bellissima p. 60, dove Citati vede in Leopardi anche un raffinato e “poetico” teorico della critica letteraria: “Il lettore-scrittore era anche un critico letterario: o, almeno, un teorico della critica letteraria. Leopardi aveva una grande diffidenza per i critici che oggi potremmo dire ‘ideologici’: per gli ‘uomini naturalmente tardi e freddi di cuore e d’immaginazione’, sebbene dotati di intelligenza e di cultura. Il vero critico condivideva la pieghevolezza di Leopardi: aveva l’animo aperto, mobile, caldo, vivace: era capace di immedesimarsi e ‘mettersi nei panni’ dello scrittore; la sua fantasia prendeva subito la forma che lo scrittore gli suggeriva, seguendo ogni minimo impulso del testo. Possedeva un fortissimo senso pittorico e musicale: sentiva vivamente ‘ogni leggero tocco’ e, come la corda di una cetra, risuonava alle minime percosse della mano. Infine, aveva la scienza del cuore: condivideva tutti i sentimenti, le passioni, i fenomeni; e possedeva il ‘tatto fino e profondo’ nelle cose della natura”. 40 Ivi, p. 128. 41 Cfr. le pp. 128-141. Il tressaillement, fondamentale nella poetica

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natura uno dei fulcri - intrecciato con gli altri, ma tutta l’opera di Leopardi è un fuoco vivo di sovrimpressioni, per usare un titolo zanzottiano - della filosofia, poesia e teoria critica del poeta marchigiano. All’inizio del capitolo VIII, Citati fa un po’ di cronologia, utile anche a capire il metodo leopardiano: “Leopardi cominciò lo Zibaldone nel luglio o agosto 1817: scrisse le Memorie del primo amore nel dicembre 1817: il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica tra il marzo e il dicembre 1818: le canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante nel settembre-ottobre 1818: la Vita abbozzata di Silvio Sarno tra il marzo e il maggio 1819; L’infinito, Alla luna e Odi, Melisso nel 1819, non sappiamo in quale mese. Tra il primo e l’ultimo testo corrono due anni o poco più di due anni, che coincidono con una fase gravissima della malattia di Leopardi (la quasi cecità) e il disperato tentativo di fuga”42. In quegli anni la riflessione sulla natura, l’infanzia, l’indefinito o “vago”, parola amatissima da Leopardi, tra letteratura antica e ricordanza, prende forma sino a costituire il nodo centrale e modernissimo della sua riflessione. Annota bene Citati: “Come la natura, il poeta antico lascia moltissimo alla fantasia e al cuore dei

leopardiana, è spiegato da Citati così: “L’emozione, l’ondeggiamento e confusione di pensieri e sentimenti tanto più indistinti e indefinibili quanto più vivi; lo stesso ondeggiamento che fa nascere in noi la poesia” (p. 134). 42 PCL, p. 142.

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suoi lettori”43. “La natura antica era l’infanzia: l’infanzia di allora e di sempre. Tutto l’universo, per la fantasia dei bambini, è umanizzato. Nell’infanzia, il tuono, il vento, il sole, gli astri e gli animali sono amici o nemici: ogni oggetto ci accenna e ci parla [...] Per questo aspetto, il Discorso è un testo straordinario, dove la strada verso il primitivo e la fanciullezza è ancora completamente aperta”44. Leggiamo con attenzione questi passaggi perché qui Leopardi arriva a definire un catalogo dei suoni e del vedere dove convivono, come fossero lo stesso soggetto, la poesia come corpo delle cose e l’indefinito, che troverà poi suggello in uno dei capolavori della lirica moderna, L’infinito, fino a divenire, negli ultimi anni, teoria della poesia. Scrive Citati: “Il culmine dell’infanzia è il suono”45. “Esiste qualcosa al di sopra della poesia: il suono, il suono materiale e casuale, quando non è stato ancora armonizzato, melodizzato e mediato dalle mani degli uomini. Allora esso non imita il sentimento della natura, dove è determinato, ma lo trova in sé stesso, nella propria oscura profondità. Lì giacciono tutti i sentimenti: anche quelli vaghi e infiniti; e le sensazioni di cui parla Leopardi – la dolcezza celestiale, il principio del mondo”46. Ed ecco, in Leopardi – e poi in Pascoli, tra sinestesia, onomatopea e, 43 Ivi, p. 144. 44 Ivi, p. 145-146. 45 Ivi, p. 146. 46 Ivi, pp. 146-147

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anche in lui, vaghezza dell’infanzia – le voci delle lontananze, siano fisiche (il canto degli uccelli, o canti solitari, melodie di ragazze come Silvia, rintocchi di campane, suoni portati dal vento) siano misteriosi echi della memoria. È il preludio all’Infinito. L’infinito vuoto. È uno dei capitoli piú belli del libro di Citati. Il critico cita Les rêveries du promeneur solitaire di Rousseau, al soggiorno (1765) nell’isola di Saint-Pierre, lago di Bienne, Svizzera. Un luogo da idillio: “Le rive erano più selvagge e romantiche di quelle del lago di Ginevra, perché le rocce e i boschi costeggiavano l’acqua da più vicino. C’erano una sola casa, grande e comoda: campi, vigne, boschi, frutteti, pascoli ombreggiati da arboscelli di ogni specie, e un’alta terrazza con due file d’alberi. Il silenzio era spezzato soltanto dal grido delle aquile, dal canto interrotto di qualche uccello e dallo scorrere dei torrenti”47. Ricordando quel soggiorno, Rousseau iniziò a scrivere Les rêveries... nel 1776: “Sulle rive del lago di Bienne, Rousseau non aveva bisogno di ricordare il passato né di anticipare il futuro: non voleva uscire dal tempo per entrare nell’eterno, ma abitare il presente, e togliergli ogni traccia di durata e di successione. Era un tempo immobile ed estatico, che aveva perduto 47 Ivi, p. 171.

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ogni odore di tempo, senza sentimenti di privazione né di gioia né di piacere né di dolore. Restava un’unica sensazione: quella dell’esistenza”. Queste “pagine memorabili” sono “una specie di nuda mistica della vita”48. Rousseau parla del “paese delle chimere” (lettera del 26 gennaio 1762). Il testo arriva a Giacomo attraverso una lettera del fratello Carlo (12 dicembre 1822) che l’aveva letto in due libretti di Pensées; Giacomo lo copia nello Zibaldone il 7 maggio 1829. Citati analizza così quel pensiero: “Anche se tutti i suoi sogni fossero divenuti reali, non gli sarebbero bastati: avrebbe immaginato, sognato, desiderato ancora. Trovava in sé un vuoto inesplicabile che nulla poteva riempire: un certo slancio del cuore verso un’altra specie di gioia, di cui non aveva idea e di cui sentiva il bisogno”49. Il capitolo sull’Infinito ha pagine memorabili perché – parlando dell’Idillio del 181950 – Citati dipinge un affresco della poesia moderna e contemporanea, di teoria della poesia, dicendo con esemplare chiarezza (e anche con emozione) perché Leopardi è l’unico poeta europeo dell’Ottocento italiano. L’infinito non è la poesia della fantasticheria, annota il critico: “in quel momento egli [Leopardi] non vuole 48 Ivi, p. 173. 49 Ibid. 50 Del 1819 è la composizione recanatese, molte le varianti fino all’edizione bolognese del ’26 e le annotazioni nello Zibaldone sul tema dell’infinito.

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badare agli spettacoli dell’indefinito: con una volontà ascetica, si proibisce qualsiasi fantasticheria. [...] Egli guarda con occhi vuoti e ciechi, con occhi distratti e che non vedono, per accogliere la pura visione interna”51; Citati sottolinea il valore del latinismo mi fingo: “plasmare, dar forma, creare, dare origine, modellare. Significa probabilmente anche conoscere”52. Nel gennaio 182153 Leopardi “aggiunse che né la nostra facoltà conoscitiva né quella amorosa né quella immaginativa sono capaci ‘dell’infinito, o di concepire infinitamente’: dell’infinito, noi riusciamo a possedere le apparenze, mai la sostanza. Noi siamo capaci soltanto dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. [...] Quel tentativo, che Leopardi fece guardando con occhi vuoti e ciechi, è il disperato azzardo, la prova suprema di pensare qualcosa che, a rigore, è quasi impensabile. [...] Per cogliere una goccia pura di infinito [...] deve immaginarlo vuoto, immobile, sovranamente silenzioso. C’è qualcosa di tremendo in questo tentativo, come se uno di noi cercasse di immaginare Dio al di fuori di ogni parola, di ogni tempo, di ogni eternità, di ogni numero: un punto fermo e invisibile nel cielo”.54 “I timori di Leopardi”,

51 PCL, p. 176. 52 Ibid. Corsivi nel testo. 53 Cfr. nota p. 426: Zibaldone 472. 54 PCL, p. 177. Di seguito Citati rinvia al famosissimo pensiero di Pascal tradotto da Foscolo nell’Ortis sul supremo smarrimento davanti agli “spaventosi spazi dell’universo che mi rinchiudono”, p. 177, nota p. 426: è

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commenta Citati, “non assalgono né l’io, né il pensiero, ma il cuore, la parte più fragile del suo essere: ‘ove per poco Il cor non si spaura’ (vv. 7-8). Egli è abituato all’assenza di Dio”55. Ed ecco tornare il tema della natura, analizzato da Citati in pagine illuminate su questo idillio leopardiano, e con la natura – il vento, la siepe – il tema dell’indefinito: “Con il vento risorge il limite, il ‘qui’, il ‘questo’, che Leopardi aveva abolito col pensiero. [...] Leopardi amava i suoni vaghi: i canti uditi da lontano o che vanno a poco a poco allontanandosi; o lo stormire del vento tra gli alberi di una foresta. Essi erano per lui la voce dell’indefinito, che aveva allontanato all’inizio della poesia e che ora tornava ad assalirlo con la sua dolcezza”.56 Seguono pagine assolutamente mirabili, tra le vette della critica leopardiana, che, trattando dell’Infinito, entrano nel cuore del pensiero poetante del grande recanatese e di ogni concezione lirica moderna nel respiro europeo della parola.57 “L’immensità-mare, nella quale il pensiero 683, p. 540 nell’edizione a cura di Carlo Carena, Einaudi, Torino 2004. 55 Ivi, p. 178. 56 Ivi, p. 179. 57 Leopardi è un caso unico nella letteratura italiana dell’Ottocento, l’unico “europeo” in Italia, nessun altro può essere accostato a Hölderlin. La tradizione lirica in Italia, anche in tutto il Novecento se si eccettuano il Pascoli più sperimentale e il D’Annunzio più intimo, il primo Montale, poi solo Zanzotto, non ha la profondità e la vertigine enigmatica di molta letteratura tedesca e francese; anzi, oggi tende – sostenuta in questo da un’incomprensibile politica editoriale – alla pagina piatta, grigia, a un presunto canto del quotidiano e dell’antilirico che proclama l’ironia come

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egli annega e naufraga, è l’ ‘indefinito’, oltre il quale l’uomo non può giungere. O un infinito impuro, mescolato al tempo, al ‘qui’, al presente. Tutta la poesia è un gioco di corrispondenze e di contrapposizioni. All’inizio, c’è il regno del questo (quest’ermo colle, questa siepe) – il luogo del qui e del limite; e negli ultimi tre versi ci sono altri due questo: quest’immensità, questo mare, che sono al contrario il luogo dell’illimitatezza e dell’indefinito. I due opposti vengono uniti sotto il segno dello stesso aggettivo determinativo. Nei primi versi, l’io (v. 7) – la totalità della persona, che comprende in sé il ‘pensiero’ e il ‘cuore’ – finge, crea nel pensiero gli interminati spazi, i sovrumani silenzi e la profondissima quiete. Negli ultimi versi c’è un’analoga prossimità: il pensiero ‘annega’ nell’immensità; e il naufragio è dolce all’io che appare nell’ultimo verso. Questi due aspetti della persona – io e pensiero – sono entrambi presenti nei momenti estremi, e supremi, della vicenda intellettuale di Leopardi”.58 Nella stessa pagina, Citati offre un’annotazione geniale: “Per la prima e l’ultima volta nei Canti, Leopardi usa i verbi s’annega e naufragar. In luoghi simili dello Zibaldone aveva impiegato il verbo perdersi: ‘perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose’; ‘un tempo indeterminato, dove l’anima si perde’.

una bandiera senza averne la più lontana traccia. 58 PCL, p. 181. Corsivi nel testo.

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Annegare, naufragio, perdersi, insieme a immensità, mare, annullarsi, dissolversi, fondersi, sono parole tipiche del linguaggio mistico cristiano e islamico, e di quella contraffazione del linguaggio mistico (accompagnato da ‘estasi’ e ‘rapimento’) che è la scrittura di Rousseau. [...] Ma quella di Leopardi non è una mistica, o è una mistica dove l’oggetto, invece di Dio, è la rêverie, la vita interiore dell’individuo”.59 “La poesia, che aveva cominciato orgogliosamente con la creazione nel pensiero (v. 7) di un infinito mentale, si conclude con il naufragio del pensiero (v. 14) nel mare vago e ipnotico delle associazioni”.60 Sempre sull’infinito “vuoto”, Leopardi riflette nello Zibaldone, il 2 maggio 1826, sette anni dopo la poesia: soltanto quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, il nulla è “senza limiti”, ed è dunque infinito.61 Mirabili, infine, le pagine conclusive del capitolo sull’Infinito, dove Citati evidenzia come Leopardi stilasse un catalogo del vedere e dei

59 Ibid. 60 Ivi, p. 182. 61 “Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. [...] ...nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l’anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, un’impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua immaginazione, o concezione o idea”. Zibaldone 472-473, in Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata a cura di Giuseppe Pacella, Garzanti, Milano 1991, volume primo, p. 345.

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suoni. Le sensazioni indefinite Leopardi le trasforma “in archetipi, o in oggetti circondati da una specie di aura o di venerazione. La luce o l’ombra, o il canto possono presentarsi soltanto in alcuni modi eletti. Infine, trasforma il catalogo in una retorica: quegli oggetti della vita, quei piaceri dell’esistenza che la natura ci concede, sono le immagini che dovranno comporre e costruire i Canti”.62 Primo archetipo, il vedere: “Le sensazioni indefinite che Leopardi sceglie nel vasto mondo del possibile comprendono una campagna ‘arditamente declive’, in modo che la vista non giunga in fondo alla valle: o un viale di cui non arriviamo a scorgere la fine: o una torre che pare innalzarsi sola sull’orizzonte: o il cielo contemplato attraverso una finestra o una porta: o la luce del sole e della luna veduta da un luogo dove essi non si vedono e non si scopre la sorgente di luce: o la luce riflessa: o il penetrare della luce in un luogo dove non si distingua, come attraverso un canneto, una selva, o i balconi socchiusi: o la luce veduta in un andito, o in una loggia: o la luce confusa con le ombre, come sotto un portico, o fra le rupi e i burroni di una valle, o sui colli scorti dalla parte dell’ombra: o la luce veduta nelle città, frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta col chiaro: o la luce che degrada a poco a poco, come sui tetti: o la vastità del sole o della luna in una campagna 62 PCL, p. 184.

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aperta: o il cielo puro o pieno di piccole nuvole: o un salone ampio e disteso di cui scorgiamo appena i muri estremi; o l’interno delle stanze guardate dalle strade o attraverso le finestre aperte”63: esempio, questa pagina di Citati, di grande prosa, un elenco di amori, di quelle cose di cui la letteratura di Leopardi è ricca, a rivelare un immenso amore-piacere per la vita. Secondo archetipo: l’udire: “...un canto udito da lontano, o che pare lontano senza esserlo, o che si vada a poco a poco allontanando, o che l’orecchio perde nella vastità degli spazi: o un canto udito in modo che non si vede il luogo da cui parte: un canto che risuona più volte in una stanza, dove non siamo: o un canto di agricoltori invisibili: o un suono che si diffonde largamente e vastamente, specie se non se ne vede la causa: o il fragore del tuono in aperta campagna: o lo stormire del vento quando freme confusamente in una foresta o è udito da lontano o dentro una città, senza che si veda l’origine: o l’eco nell’oscurità: o la velocità, o l’antico, o la molteplicità delle sensazioni: o l’orologio della torre sentito dal letto di una camera con le persiane chiuse, mentre stridono le banderuole; o il canto notturno di un contadino quando è finita la festa”.64 Ed ecco l’unghiata del critico-scrittore: “Queste situazioni sono simili: troviamo sempre la

63 Ibid. 64 Ivi, pp. 184-185.

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distanza, lo scorcio, il contrasto, l’indistinto, il riflesso [...] Le sensazioni ondeggiano davanti agli occhi del lettore e del poeta. Dappertutto aleggia l’invisibile e l’incomprensibile: tutto sembra nato a caso, liquido e fluido come le onde del mare, o vaporoso come una nuvola. [...] Come diceva la Staël a proposito della lingua tedesca, molte immagini si celano in una sola parola: attorno a ogni parola si muovono nubi e forme, che risvegliano una folla di ricordi. C’è un tressaillement, una confusione di pensieri e di sentimenti, tanto piú indistinti e indefiniti quanto più vivi, ora materiali ora spirituali, come accade nell’esperienza amorosa”.65 È la ricordanza a comporre poesia: “Dal ritorno e dal rimbalzo di un’ ‘immagine antica’ ha inizio la poesia: ‘Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica”.66 65 Ivi, p. 185.Per i rinvii ai passi dello Zibaldone cfr. nota p. 427. 66 ANTONIO PRETE, Il pensiero poetante, cit., p. 50. Sul raffinatissimo gioco presenza/assenza in Leopardi, nel capitolo dedicato all’Infinito nel suo saggio (pp. 48-62), Prete legge l’idillio leopardiano alla luce di Freud, Lacan, Bachelard, e annota: “La siepe leopardiana, fermata in molti commenti e nell’immaginario vulgato come segno del paesaggio leopardiano, è sintomo dell’assenza, dice per quel che non dice, è garanzia d’un rapporto duraturo (sempre caro) non perché rinvia ad altro, ma perché esclude l’altro, pronuncia la differenza. [...] Nell’universo della esclusione si delinea l’avventura del pensiero: ciò che è escluso diventa l’oggetto della vera appropriazione. Nella differenza comincia l’avventura del linguaggio. [...] Il limite, sintomo dell’assenza, è condizione perché l’assenza si

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Leopardi romantico? Nel libro Leopardi antiromantico e altri saggi sui “Canti”67, Pier Vincenzo Mengaldo dimostra in modo esemplare l’infondatezza filosofica e stilistica dell’assunto che vorrebbe Leopardi come il maggiore poeta romantico della letteratura italiana. Mengaldo va anche piú in là, e sottolinea con ironia, riprendendo Baldacci, come l’Italia una letteratura romantica non l’abbia proprio avuta, come invece l’Europa tra Settecento e Ottocento, Germania e Inghilterra soprattutto, la Francia fino al simbolismo e Baudelaire. È una lettura utile, a questo punto del voyage nel libro di Citati, con cui – senza citarlo – Mengaldo concorda: “Lo sciogliersi ad ogni riga del pensiero poetico anche il più aguzzo in canto o in musica è appunto ciò che fa di Leopardi un poeta unico, non solo da noi”.68 Perché

trasformi un una presenza simbolica, e si popoli di forme, di evocazioni, di memoria. Ed è sintomo del desiderio d’infinito, sintomo della sua non colmabilità; non limite al desiderio, ma sintomo del suo sconfinamento, della sua illimitatezza. Il leopardiano ‘desiderio illimitato’ paradossalmente è rappresentato sulla scena da un limite, che si presenta come caro alla memoria” (pp. 51-52). Più avanti Prete sottolinea; “...sulla soglia dove l’interrogazione non ha risposte, dove il desiderio sperimenta l’incolmabilità e il perpetuo rinvio di immagini desideranti, l’abbandono del pensiero, l’abbandono del rapporto di possesso col pensiero (‘il pensier mio’), permette di attingere quel non-sapere che è la radice del desiderio. Permette di riandare a quell’ ‘ignoranza’ dei fanciulli da cui partono le immagini che fanno della vita una sopravvivenza, la quale può tornare ad essere vita nei momenti in cui quelle immagini si ripetono. La coincidenza di ignoranza del fanciullo e di sapienza dell’antico è la terra della poesia” (pp. 59-60). 67 PIER VINCENZO MENGALDO, Leopardi antiromantico e altri saggi sui “Canti”, Il Mulino, Bologna 2012. 68 MENGALDO, cit, p. 9.

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Leopardi, al di là di uno dei tanti luoghi comuni storiografici ed ermeneutici sull’opera del poeta marchigiano, non è un romantico? Leopardi ama l’allegoria “ma sempre limpida ed esplicata, e mai esposta a scivolare nel simbolismo [...] L’allegoria leopardiana è prodotto di un pensiero, non di una sensibilità”.69 “Non è comunque cosa indifferente [...] aver indicato che il maggiore, e di gran lunga, lirico italiano dell’età moderna procede per una strada che è tutt’altra da quella dei romantici e dei loro continuatori simbolisti [...] lo stile sobrio e casto, di cui gli echi della tradizione fanno parte, sta al materialismo come lo stile diffuso e accumulativo dei romantici, che ha sempre bisogno di dire qualche parola in più, allo spiritualismo. Ciò non toglie ovviamente che, con diversi mezzi, anche Leopardi abbia portato il suo forte contributo a quelle che sembrano le svolte basilari della poesia europea tra fine Settecento e primo Ottocento, fra Hölderlin e Keats”; Leopardi, conclude Mengaldo nella Premessa, è “l’unico grande poeta europeo di quel cinquantennio ancora nutrito del pensiero dei Philosophes e non del pensiero a quello opposto dell’idealismo e spiritualismo romantici”.70 Leopardi antiromantico? Giacomo non amava Byron, che in quegli anni era un’icona

69 Ivi, p. 10. 70 Ivi, pp. 11-12.

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(Chateubriand lo divinizzava). Mengaldo rileva le affinità con Hölderlin, Keats, Schelling, ma anche con l’antiromantico Schiller e avvia un’analisi raffinata delle differenze. Nello stile: “Già il leopardista francese Norbert Jonard aveva segnalato la povertà di metafore (e similitudini) in Leopardi [...] la differenza dai romantici, già notevole nelle Canzoni e nei Canti fiorentini e napoletani, è vistosissima nel tratto Idilli-Canti pisano recanatesi in cui Leopardi realizza una sua inarrivabile poetica della sobrietà e naturalezza”.71 È la differenza nella tecnica ossessiva nei romantici (lo studioso cita Lamartine, Hugo, Shelley, Vigny, Musset, Coleridge, Keats, Puškin, Lermontov, Brentano e il simbolismo, piú volte nomina Novalis. “[...] emerge la differenza da Leopardi, poeta di purezza greca, sensista anche in poesia come lui stesso ha più volte richiamato, e come descrittore, anche di sentimenti, mai riassuntivo ed emblematico ma sempre, per dirla così, distributivo e addetto al singolare concreto (cfr. prima di tutto le grandi aperture della Quiete e del Sabato)”.72 Ci sono poi quelle che Mengaldo chiama differenze assolute: “La prima è l’assenza, assoluta appunto in Leopardi, di quell’esotismo che dei romantici è una delle sigle”.73 Leopardi è estraneo al gusto

71 Ivi, p. 15. 72 Ivi, p. 17. 73 Ibid.

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medievistico; ha “il sentimento e la certezza dell’irrecuperabilità dell’Antico da parte dei moderni”74; infine “non è cosa per nulla leopardiana il culto per il magico-fantastico e per il satanico”75, il meraviglioso-demoniaco, il macabro-mortuario, protagonisti di tanta novellistica, narrativa e poesia di quei decenni: è prezioso il “catalogo” che fornisce Mengaldo (sino alla “deliziosa Ondine di La Motte-Fouqué”, che qui ci piace sottoscrivere). E la natura? C’è un solo luogo dove Leopardi sfiora quei temi, nella figura della Natura gigantessa insensibile nel Dialogo della Natura e di un Islandese nelle Operette morali, testo (1824) che segna anche la svolta nella visione della malvagità assoluta della Natura: “Leopardi non ha bisogno del demoniaco proprio perché demoniaca è la Natura tutta in quanto tale [...] E quando Leopardi capovolge la propria concezione originaria di natura, cancella precisamente quell’idea roussoviana di bontà originaria della natura stessa, pervertita da uomini, società e storia, che continua ad essere spesso la base dell’ideologia romantica”.76 In più, la natura di Leopardi non è un mistero (quante stupende visioni di orridi e crepacci, di boschi e rovine, quanta mitologia della Notte nel romanticismo!): “...con razionalismo quasi galileiano o diderottiano”,

74 MENGALDO, Leopardi..., cit, p. 18. 75 Ibid. 76 Ivi, p. 20.

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nello Zibaldone (2705 ss., 22 maggio 1823), prima del Dialogo..., Leopardi annota che “la natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda e aperta”. E a proposito della notte: “...molte liriche di Leopardi, poeta della luna, sono in tutto o in parte dei notturni – verrebbe da dire, come nel suo omologo Chopin – garanti dell’intimità e della solitudine a lui care, e dell’espandersi dei sentimenti che solo nella solitudine è possibile. Ma nessun passo suo celebra l’autenticità della notte e la superiorità sul giorno; anzi gli ultimi versi – forse – da lui scritti, nel Tramonto della luna, ci dicono con inaudita anche per lui potenza la gloria del sorgere del sole. S’impone il confronto con un’opera chiave del primo Romanticismo, gli Inni alla notte di Novalis, dove, precedendo l’eterna notte wagneriana [...] si parla [...] di cielo e luce della Notte, della Notte come ‘Madre’, e addirittura del ‘Sole’ della Notte”.77 Il retroterra, avverte Mengaldo, è spiritualistico e irrazionalistico, inaccettabile per Leopardi. Il “punto cruciale” è “l’assoluta continuità di Leopardi, che semmai piú volte lo radicalizza, col materialismo e razionalismo illuministici, di contro all’antilluminismo spiritualistico se non irrazionalistico dei romantici”.78 In Leopardi si danno la mano, sottolinea più avanti lo studioso, “antiromanticamente, ...un sensismo spinto all’estremo, ma anche

77 Ivi, pp. 21-22. 78 Ivi, p. 23.

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rovesciato in universale carità, l’idea sempre viva dell’universale e per così dire imparziale malvagità della natura e infine quella che è certo una delle conquiste intellettuali più notevoli dello Zibaldone, delle Operette e dei Canti, cioè una concezione del mondo non solo antiantropocentrica, ma anche antigeocentrica, in cui l’uomo è un mero accidente”.79 Mengaldo analizza inoltre, nella dinamica Leopardi-romanticismo, i temi del corpo e dell’ineffabile caro a Schlegel (per il quale “ogni bellezza è allegoria”, mentre Hugo, al contrario del sensista Leopardi, parla di “invisibile”, e il critico commenta: “...mai nello Zibaldone l’ineffabilità è una categoria di pensiero”), per concludere con un’unghiata: “Anche in Italia [...] la storia letteraria dell’Ottocento si è svolta, come in tanti hanno notato, quasi come se Leopardi non fosse esistito. [...] E comunque nel secolo passato in cui la poesia di Leopardi ha nutrito tutti i migliori, il suo pensiero è rimasto molto a lungo fuori del circolo filosofico a causa dell’obiettiva alleanza di cattolicesimo e idealismo, anche in veste di sinistra (poche cose Croce ha capito così poco come Leopardi). Con le parole pungenti di Baldacci ‘un connubio tra socialismo e cristianesimo che ha messo per sempre la mordacchia a tutti i problemi che più urgevano al filosofo di Recanati’; e anche in interpretazioni recenti 79 Ivi, p. 26.

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piú aperte e complici non può sfuggire certa tendenza a elidere precisamente il materialismo del filosofo e poeta”.80 Il giardino di Leopardi È certo tema centrale in Leopardi e, postilla all’analisi di Mengaldo, la natura non è la porta del meraviglioso fantastico né ha il fascino dell’orrido sino a sfiorare il demoniaco di molta letteratura romantica tedesca e inglese. La riflessione di Leopardi sulla natura è filosofica dalla svolta del 1824, spiega la souffrance come essenza dell’essere, non è paesaggio incantato o décor ma interroga le cellule, gli atomi, le molecole, le relazioni tra gli esseri viventi. “Con gli occhi e i capelli nerissimi [la Natura] è la moderna regina della Tenebra” osserva Citati nelle pagine sul Dialogo della Natura e di un Islandese: “Leopardi non aveva mai rappresentato la Natura e non la rappresenterà mai più, nemmeno nella Ginestra. Ora la dispone in un luogo incognito all’uomo. Dunque, è una straniera”.81 La Natura non è malvagia, dell’uomo non s’avvede neanche, potrebbe anche annientare la specie umana, non se ne accorgerebbe. È la vertigine, assolutamente laica, del pensiero di Leopardi. Il Dialogo della Natura e di un Islandese dalle Operette morali

80 Ivi, p. 30. 81 PCL, p. 246.

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va accostato a un passo famoso dello Zibaldone, che segue l’operetta di due anni: la pagina sul giardino fiorito del 19-22 aprile 1826 (Zib. 4174-4177), scritta a Bologna: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male”.82 Commenta Citati (che però curiosamente non prosegue fino al passo sul giardino fiorito, Zib. 4175-4176): “Con quale spaventosa lucidità, con quali occhi terrificanti e terrificati condannava l’Essere identico al male e il male identico all’Essere. Tutto era cosa. Nella sua enumerazione, Leopardi aveva dimenticato (volutamente) un nome: Dio. Se ascoltiamo la metafisica classica, Dio è sovranamente l’Essere: Ego sum qui sum, come diceva la Genesi; e dunque l’egualmente sovrana necessità e perfezione. Con una forza rarissima Leopardi contestava e malediva appunto l’Essere, e Dio-Essere, Dio-necessità, e Dio-perfezione. Se usiamo un’altra espressione, malediva il Tutto”.83 Ecco la pagina dello Zibaldone.

82 Ivi, p. 253. In Zibaldone, cit. volume secondo, pp. 2296-2299 83 PCL, p. 253.

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“Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le

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ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. [...] Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere”. Tutto negativo, quindi? Naturalmente no. Citati si diverte a sottolineare come Leopardi abbia “distrutto il principio di non contraddizione”84. “Non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose”: “Ma cosa sono le cose che non son cose? Usando un altro linguaggio, anni prima, Leopardi aveva studiato il loro immenso e misterioso regno: il possibile. ‘Chi può conoscere i limiti della possibilità?’ aggiungeva il 22 aprile. [...] ‘L’infinita possibilità è l’unica cosa assoluta’. E cos’era Dio se non il trionfo del possibile? Dio non è migliore di tutti gli esseri possibili, perché non esiste un migliore o un peggiore assoluto, ma racchiude in sé tutte le possibilità, ed esiste in tutti i modi possibili. [...] Le cose che non son cose non comprendono solo il possibile: ma i riflessi dell’indefinito, gli

84 Ibid.

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oggetti doppi visti con l’immaginazione, l’infanzia, il ricordo, il ricordo involontario, il paese delle chimere di Rousseau, le illusioni, gli inganni, le larve, i fantasmi; e probabilmente anche il nulla”.85 Rovesciamento stupendo, sillogismo visto dall’altro lato del cannocchiale: tutto Leopardi è così, e il libro di Citati è un magnifico viaggio in questo paesaggio di apparenti contraddizioni, al punto che annota: “Il suo sguardo [di Leopardi] andava sempre altrove, anche oltre ciò che è, per definizione, l’altrove. Il suo tutto comprendeva il Tutto, e ciò che è al di fuori del Tutto, e ciò che è al di fuori di ciò che è al di fuori dell’al di fuori del Tutto”.86 Ma com’è possibile vivere e pensare conoscendo la souffrance strutturale degli esseri viventi, pur consolati, si fa per dire, dalle cose che non son cose? Con le illusioni. È un’altra operetta, meno nota e anch’essa del 1824, l’Elogio degli uccelli, ad aprire, nella filosofia e nella prosa leopardiana, una porta di luce. Elogio degli uccelli fu composto dal 29 ottobre al 5 novembre 1824 e pubblicato la prima volta nell’edizione delle Operette del 1827.87 Leopardi prende a prestito il nome di Amelio, “oscuro filosofo neoplatonico e discepolo di Plotino del III secolo d.C., per 85 Ivi, pp. 253-254. 86 Ivi, p. 254. 87 Cfr. GIACOMO LEOPARDI, Operette morali, a cura di Sergio Solmi, Ricciardi, Milano-Napoli 1956, edizione Einaudi, Torino 1976, p. 153.

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attribuirlo a un personaggio di sua fantasia”88; per Citati “Gentiliano Amelio era etrusco: [...] aveva vissuto ventiquattro anni assieme a Plotino a Roma: [...] il maestro lo chiamava Amerio, perché Amerio significa ‘indivisibile’. [...] [Gli uccelli] non provano mai noia, a differenza degli altri animali. [...] Quando volano, vedono dall’alto spettacoli immensi e variatissimi, grandi spazi di terra, paesi e paesi, fiumi lucenti. E, in questo, sono simili ai grandi poeti, che anch’essi vedono le idee e le cose dall’alto. [...] Mentre gli uomini più hanno vita, più sono infelici, gli uccelli più hanno vita, più godono una quasi estatica felicità. Mai Leopardi aveva scritto una prosa così ricca di movimento, di vibrazioni, di brillii, di pétillements, come in questo Elogio che l’allievo di Plotino scrive silenziosamente in un giorno del terzo secolo”.89 Ed ecco il passaggio-chiave, ben evidenziato da Citati: “Quelle voci di gioia risonanti e solenni, quegli applausi alla vita universale, quelle testimonianze della felicità delle cose, che ci pervengono attraverso il canto-riso degli uccelli, sono false, aggiunge Leopardi in un inciso. Nell’universo non c’è allegria, né gioia, né felicità. Mentre cantano, ridono, volano, si muovono, si spostano, immaginano, guardano e vibrano di vita, gli uccelli ci ingannano. [...] Ma questo inganno è uno dei tanti benefici inganni della natura,

88 Ibid. 89 PCL, pp. 268-271.

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almeno della più antica natura leopardiana, la quale cerca, con la menzogna, di renderci la vita più sopportabile. L’idea della felicità è, sempre, un inganno. Tutte le illusioni, le meravigliose e colorate illusioni, sono inganni; eppure costituiscono la parte essenziale della nostra esistenza, senza la quale non ci resterebbe che morire. La sola cosa importante è che qualcosa, che forse porta il nome di ‘natura’, continui a donarci illusioni; e che in noi vibri ancora il ricordo di quell’incantevole riso uccellesco, che una volta era la nostra voce”.90 Abbiamo voluto citare questa pagina perché, forse, è una delle più belle pagine di critica leopardiana mai scritte. Tra l’altro la gioia, il “grandissimo uso d’immaginativa”; “quella ricca, varia, leggera, instabile e fanciullesca” dote degli uccelli, e il passaggio: “l’uccello quanto alla vispezza e alla mobilità di fuori, ha col fanciullo una manifesta similitudine”91, hanno un’evidente similitudine con la poetica pascoliana del Fanciullino.92 L’albero dei ricordi Il ricordo, la rimembranza, la ricordanza, sono temi centrali nella poetica leopardiana, ma 90 Ivi, p. 272. 91 GIACOMO LEOPARDI, Operette morali, ed. cit., pp. 158-159. 92 Si ricorda qui la recente edizione di Nottetempo, Roma 2012, con un saggio di Giorgio Agamben, che riprende l’edizione Feltrinelli, Milano 1982, del celebre manifesto di Pascoli.

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sono anche una tecnica o meglio, una genesi della poesia. Citati sottolinea come Leopardi possedesse una memoria immensa, ma un colle o un torrente o un cielo divenissero poetici sono se “lontani”: “Se voleva farli diventare poetici, doveva allontanarli da sé e trasformarli in passato, o volgere loro le spalle, perché si perdessero nella lontananza. [...] Quando era giovanissimo, Leopardi era affascinato dai ricordi involontari”.93 E tra i ricordi trionfano quelli infantili, perché tessuti di vago e indefinito: “Quando il bambino vede una campagna, una pittura, un’immagine, o sente un suono, un racconto, una favola, il suo piacere è sempre vago e indefinito: l’idea che le visioni destano in lui è sempre indeterminata e senza limiti; i minimi oggetti riempiono l’anima di infinito e si perdono nel vago. [...] E se proviamo ancora, nel resto della vita, immagini e sensazioni indefinite, per la massima parte non derivano direttamente dalle cose, ma sono ricordanze, ripetizioni, ripercussioni, riflessi di ricordi infantili. [...] viviamo ormai stabilmente nel mondo del riflesso, come la luna. Siamo nel luogo della seconda volta. Ma la seconda volta è il paese più sublime dove possiamo abitare: l’unica beatitudine che ci è concessa, perché ripete il sole assoluto dell’infanzia. Mentre abitiamo il regno della seconda volta, ci attirano soprattutto (almeno nei tempi moderni) le 93 PCL, p. 328.

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immagini lontane, quasi perdute e irrecuperabili. [...] Sono la voce di ciò che è perduto: per sempre perduto. Così entriamo nel paese della malinconia, aperto soltanto ai poeti moderni: talvolta esso li può rendere superiori a Omero ed Esiodo, che non conoscevano questa distanza, questo struggimento e questo dolore”.94 È la genesi della poesia leopardiana e della poesia moderna e, qui sì almeno nell’intonazione, della lirica romantica. Ecco A Silvia, Il passero solitario, Il risorgimento, a cui Citati dedica pagine memorabili. In A Silvia “non è il ricordo che torna all’improvviso alla mente, ma la mente che ricorda. Il verbo non è sovvienti o rammenti (come nelle prime stesure) né ricordi, ma rimembri: questo vasto, intimo e contemplativo verbo petrarchesco apparso in Chiare, fresche et dolci acque (v. 5), la poesia dello spavento amoroso”.95 Esiste anche un’ora delle ricordanze: “Non è la notte piena, come potrebbe far credere la presenza delle stelle scintillanti in cielo: ma il tardo tramonto o l’inizio della notte. Mentre la poesia inizia [Le ricordanze], Leopardi vede ancora da lontano i monti diventati azzurri, che la notte avrebbe celato. Nelle Ricordanze siamo sempre in bilico: sui margini tra giorno e notte, tra presente e passato, tra attualità e ricordo, e tra due sensazioni che si incontrano e si

94 Ivi, pp. 330-331. 95 Ivi, p. 346. E su Il passero solitario cfr. pp. 353-359.

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dissolvono l’una nell’altra”.96 Mentre in Aspasia ad annunciare l’irrompere della figura nel verso “è un altro senso: non la vista e l’udito, che sono stati un soave preannuncio, ma l’odorato, che compie da solo, senza soccorsi, l’ultimo passo”97: “... E mai non sento / mover profumo di fiorita piaggia, / né di fiori olezzar vie cittadine, / ch’io non ti vegga ancor qual eri il giorno / che ne’ vezzosi appartamenti accolta, / tutti odorati de’ novelli fiori / di primavera, del color vestita / della bruna viola, a me si offerse / l’angelica tua forma ...”. Che sia la ricordanza o lo sguardo, o il canto degli uccelli o un profumo di fiori, quella di Leopardi è poesia di sensi. “Leopardi morì con moltissima grazia, e in tono minore, come in tono minore aveva vissuto quasi tutta la sua vita, celando o velando i dolori, le angosce, la desolazione, le passioni, la solitudine, il dono di essere un genio immenso”: così si congeda Citati dal suo autore.98. Il critico e scrittore fiorentino ha scritto la pagina migliore per dire perché Leopardi è senza tempo: “Questa era una delle sue grandi facoltà: non appartenere a nessuna epoca, né a quella presente né a quella passata; non viveva nel quarto secolo prima di Cristo né nel 1750 o nel 1826. Era a casa

96 Ivi, p. 360. 97 Ivi, p. 387. 98 Ivi, p. 412.

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dappertutto e da nessuna parte. La sua radicale estraneità al tempo gli permise di comprendere il diciannovesimo e ventesimo secolo, la società borghese e quella di massa. Se leggiamo lo Zibaldone, lampi ci richiamano di continuo alla memoria Nietzsche e Spengler, Adorno e David Riesman. Cosí Leopardi, il non moderno, ci sembra straordinariamente moderno, come se abitasse e guardasse e studiasse cosa avviene oggi”.99

luglio 2012

99 Ivi, p. 298.