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Il counselling nell’intervento di cura con i genitori e con i bambini - Estratto

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Il libro è disponibile come corso FAD ECM su http://www.ebookecm.it Questo libro si rivolge a tutti coloro che lavorano con i bambini e con le loro famiglie, in ambito sanitario, sociale, educativo. Lavorare con i bambini è bellissimo, lavorare con i bambini è – quantomeno – scomodo. “Forse sarebbe più facile se i genitori non fossero…. Se le mamme non fossero… Se i mass media non dicessero…”. In più di trentacinque anni di lavoro di formazione e di supervisione con professionisti sociali e sanitari, insegnanti, educatori, sono queste le osservazioni che ho sentito fare con maggiore frequenza, ed è questa l’impressione più viva che mi resta a partire dagli innumerevoli colloqui e casi analizzati insieme a loro. Lavorare con i bambini è bello e difficile. Intendiamoci: non che sia più facile il lavoro di chi si occupa di adulti in difficoltà, o di anziani: la relazione e la comunicazione con i pazienti e con le loro famiglie si è complicata negli ultimi decenni. Ma per chi si occupa dell’età evolutiva c’è una difficoltà in più: il sistema famiglia che il professionista incontra è un sistema strutturalmente agitato. Chi si occupa di bambini incontra le famiglie nelle fasi di più intenso cambiamento della loro storia di vita, l’inizio dell’avventura genitoriale, la scoperta dell’identità separata (e dotata di volontà) del loro bambino nelle diverse fasi della crescita, l’adolescenza. Possiamo considerare le competenze di counselling uno strumento in più per navigare con la famiglia nel mare agitato dell’età della crescita. Senza perdere la bussola.

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IL COUNSELLING NELL’INTERVENTO DI CURA

CON I GENITORI E CON I BAMBINI T E C N I C H E D I C O U N E L L I N G S I S T E M I C O P E R P R O F E S S I O N I S T I S A N I T A R I

S I L V A N A Q U A D R I N O

COLLANA EBOOKECM EBOOK PER L'EDUCAZIONE CONTINUA IN MEDICINA

© 2014

Il presente libro è accreditato come Autoapprendimento con Tutoraggio FAD con riconoscimento ECM per: Psicologo, Psicologo Psicoterapeuta, Medico Psicoterapeuta, Medico Pediatra, Medico Psichiatra, Medico Neuropsichiatra dell'età evolutiva, Dietista, Medico Scienze dell’Alimentazione, Medico Diabetologia, Logopedista, Terapista della

neuro e psicomotricità dell'età evolutiva, Educatore professionale, Infermiere, Infermiere Pediatrico, Fisioterapista, Ass. Sanitario

solo attraverso apposita registrazione al sito WWW.EBOOKECM.IT

Il counselling nell’intervento di cura con i genitori e con i bambini

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INDICE

INTRODUZIONE 4

CAPITOLO 1. Il professionista del counselling: come, quando,perchè 5 1.1 Un po’ di storia 5 1.2 Il Il fattore tempo 9 1.3 Le trappole nascoste delle comunicazioni nella relazione di cura 11 1.4 Esempi di counselling 13 1.5 Dalla pragmatica della comunicazione umana al counselling 17 1.6 Per saperne di più 23

CAPITOLO 2. La basi del counselling sistemico: metodi, tecniche, strumenti 27 2.1 Incontro professionale, comunicazione e contesti invisibili 28 2.2 Metacomunicazione e ridefinizione della relazione 33 2.3 Complementarietà e simmetria 36 2.4 Per saperne di più 38 2.5 Imparare a fare domande 43

CAPITOLO 3. Prima che il professionista entri incampo: ogni coppia genitoriale ha la sua storia 64 3.1 Prima che arrivi il bambino 65 3.2 A caccia di esperti e di informazioni 67 3.3 Dall’informazione alla decisione 71 3.4 Per saperne di più 73 3.5 Esempi di counselling 78

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CAPITOLO 4. L’apprendista mamma e gli esperti della maternità

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4.1 Chi è il più bravo 88 4.2 Il tempo per imparare 92 4.3 Esempi di counselling 93 4.4 Fuori dai triangoli 99 4.5 Per saperne di più 103 CAPITOLO 5. La crescita: cambiamenti, conquiste, confronti… e lo spettro della “non normalità

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5.1 La storia familiare e il concetto di normalità 109 5.2 Esempi di counselling 112 5.3 Una tranquilla e costante evoluzione? 120 5.4 Per saperne di più 120 5.5 Domande difficili e risposte possibili 122 5.6 Il circuito del sintomo 126 CAPITOLO 6. Occhio non vede… Quando la famiglia nega i problemi del bambino 130 6.1 Paure celate, paure condivise 131 6.2 Diagnosi o sentenza? 132 6.3 Esempi di counselling 133 6.4 Per saperne di più 141 CAPITOLO 7. Bimbi sani e genitori difficili 144 7.1 Genitori che non fanno le cose giuste 144 7.2 Per saperne di più 147 7.3 Genitori che chiedono troppo 154 7.4 Esempi di counselling 155 7.5 Il mito della madre ansiosa 162 7.6 Quando le ipotesi del professionista non coincidono con quelle dei genitori

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Il counselling nell’intervento di cura con i genitori e con i bambini

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CAPITOLO 8. Sintomi e malattie nel gioco della famiglia

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8.1 Il linguaggio dei sintomi 173 8.2 Sintomo, malattia, cura 177 8.3 Esempi di counselling 177 8.4 Per saperne di più 183 CAPITOLO 9. Bambini con necessità speciali 192 9.1 Bambini non proprio come gli altri 194 9.2 Chiedere, limitare, educare: la famiglia e il bambino di fronte alle esigenze imposte dalla malattia

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9.3 Esempi di counselling 202 9.4 Per saperne di più 208 9.5 A fianco dei genitori: i momenti critici nella famiglia di un bambino con necessità speciali

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CAPITOLO 10. La parola ai bambini (e agli adolescenti)

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10.1 Per saperne di più 235 10.2 Indicazioni, proposte, prescrizioni 239 10.3 Piccoli pazienti crescono 242 10.4 Parlare di salute e di rischio con gli adolescenti 247 10.5 Esempi di counselling 251 10.6 Il difficile problema del segreto 256 10.7 Per concludere 260 NOTE SULL’AUTRICE 261 BIBLIOGRAFIA RAGIONATA

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INTRODUZIONE

Lavorare con i bambini è bellissimo. Lavorare con i bambini è,

quantomeno, scomodo. Forse sarebbe più facile se i genitori non fossero… Se le mamme non fossero… Se i mass media non dicessero…

In più di trentacinque anni di lavoro di formazione e di

supervisione con professionisti sociali e sanitari, insegnanti, educatori, sono queste le osservazioni che ho sentito fare con maggiore frequenza, ed è questa l’impressione più viva che mi resta a partire dagli innumerevoli colloqui e casi analizzati insieme a loro. Lavorare con i bambini è bello e difficile.

Intendiamoci: non che sia più facile il lavoro di chi si occupa di adulti in difficoltà, o di anziani. La relazione e la comunicazione con i pazienti e con le loro famiglie si è complicata negli ultimi decenni. Ma per chi si occupa dell’età evolutiva c’è una difficoltà in più: il sistema famiglia che il professionista incontra è un sistema strutturalmente agitato. Chi si occupa di bambini incontra le famiglie nelle fasi di più intenso cambiamento della loro storia di vita, l’inizio dell’avventura genitoriale, la scoperta dell’identità separata ( e dotata di volontà!) del loro bambino nelle diverse fasi della crescita, l’adolescenza. Possiamo considerare le competenze di counselling uno strumento in più per navigare con la famiglia nel mare agitato dell’età della crescita. Senza perdere la bussola.

Questo libro si rivolge a tutti coloro che lavorano con i bambini

e con le loro famiglie, in ambito sanitario, sociale, educativo. Per comodità di scrittura ci riferiremo a tutti gli operatori con il termine “professionista”, e ai destinatari del loro intervento con il termine “paziente”.

Silvana Quadrino

Il counselling nell’intervento di cura con i genitori e con i bambini

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CAPITOLO 1.

Il professionista del counselling: come, quando, perché

1.1 Un po’ di storia Quando presentai per la prima volta, in un convegno di

pediatria, il metodo di comunicazione consapevole che cominciavo a definire counselling, il titolo che scelsi per la mia relazione fu “Anche il counselling, adesso?”. La platea era interessata ma difficile: era la fine degli gli anni ‘80, di counselling si parlava da poco, e dopo le prime esperienze di formazione sulle tecniche di comunicazione rivolte a medici e professionisti sociali e sanitari avevo ben chiaro un rischio: quello di scontrarmi con la convinzione che, parlando di counselling, si chiedesse ancora una volta ai professionisti di “ascoltare di più”, di “essere più empatici”, di “decodificare i veri bisogni”, di fare, insomma, gli psicologi dilettanti o i confidenti affettuosi dei loro pazienti; in ogni caso, di fare qualcosa di più avendo a disposizione lo stesso tempo di sempre: tempo avvertito costantemente come scarso e affannoso, insufficiente anche per effettuare con calma e coscienziosamente una visita e un breve colloquio senza pretese. Altro che counselling!

Era da poco uscito il primo libro1 in cui avevo cominciato a

sistematizzare, insieme a Giorgio Bert, le basi teoriche e le linee metodologiche di quello che definivamo counselling sistemico

1 Bert G , Quadrino S , Il medico e il counselling, Il pensiero Scientifico 1989

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Perché counselling? La scelta di utilizzare questo termine invece di parlare semplicemente di comunicazione fra professionista sanitario paziente nasceva dall’intenzione di rendere evidente che una comunicazione realmente efficace fra professionista e paziente richiede qualcosa di più e di diverso di quanto i professionisti apprendono all’Università o nella buona pratica; che pensare di fare del proprio meglio nella comunicazione con i pazienti non garantisce l’efficacia della comunicazione stessa; che, insomma, poteva essere necessario imparare qualcosa di nuovo e di diverso, che aveva un nome e una serie di regole ben precise, che poteva essere sperimentato, adattato alle esigenze specifiche di ambiti educativi, sociali e sanitari diversi; che poteva essere valutato. Un metodo, uno strumento, un atteggiamento mentale. Serviva un nome, e counselling, nonostante le riserve dovute all’uso di una parola straniera, sembrava adattarsi bene. Anche perché il termine cominciava in realtà a diffondersi in alcuni ambiti socio sanitari, in particolare nell’educazione del paziente e negli interventi di motivazione al cambiamento di abitudini di vita.

E qui si colloca la seconda ragione della scelta di questo termine: così come veniva presentato, il counselling sembrava infatti una specie di offerta speciale che poteva essere fatta a persone in situazioni particolarmente difficili, un optional collocato al di fuori della quotidianità della relazione di aiuto e di cura. Un intervento speciale e come tale destinato a far sentire speciale (non necessariamente in senso positivo) il destinatario dell’intervento stesso.

La mia esperienza di psicoterapeuta della famiglia mi stava dimostrando che l’esigenza più sentita e più inascoltata, per le persone e per le famiglie, era invece quella di una presa in carico valida e completa all’interno della abituale relazione con il professionista sanitario, con l’assistente sociale, con l’educatore. Aggiungere con troppa facilità l’intervento della psicologo a quello del professionista che ha in carico un caso non rappresenta necessariamente un guadagno per la famiglia, e anzi rischia di trasformarsi in una perdita, se il professionista sceglie di delegare allo psicologo anche momenti strettamente legati alla relazione di

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cura, come l’individuazione dei disequilibri che una malattia o le sue conseguenze hanno prodotto nella famiglia, l’esplorazione delle risorse interne ed esterne della famiglia per fronteggiare situazioni di difficoltà, la ricerca di soluzioni sostenibili ecc.

Al tempo stesso per lo psicologo, il neuropsichiatra, lo psicoterapeuta un invio troppo frettoloso e non appoggiato su una solida relazione della famiglia con il pediatra o con il professionista inviante si rivela spesso fragile e poco produttivo.

Per non delegare ad altri aspetti della relazione di cura che gli competono, come l’affiancamento, la ricerca di soluzioni sostenibili, l’educazione terapeutica, e per attivare una rete professionale funzionante, coinvolgendo altri professionisti nel modo giusto e nel momento giusto, ogni professionista ha però il diritto, oltre che il dovere, di poter contare su una preparazione adeguata: in questo senso le competenze di counselling rappresentavano in quel momento storico una assoluta novità e potevano rispondere all’esigenza di maggiore qualità degli interventi espressa sia dalle famiglie che dai professionisti.

Ma in che modo, e con quali contenuti il counselling può diventare elemento della pratica quotidiana? E’ necessario chiarire che non si tratta di aggiungere ai compiti del pediatra, dell’infermiere, dell’educatore anche quelli dello psicologo, come se gli strumenti per gestire gli aspetti qualitativamente più significativi delle relazioni di aiuto dovessero essere unicamente quelli derivati dalle scienze psicologiche. Il metodo del counselling sistemico nasce con l’obiettivo di differenziare in modo chiaro il counselling dall’intervento psicologico, e arricchirlo con contenuti derivanti dall’ antropologia, dalla pedagogia, dalla scienza della comunicazione.

La sistemica, a cui la denominazione del metodo fa riferimento,

benché sia stata conosciuta da molti principalmente come intervento di terapia della famiglia non è una teoria psicologica. E’ una epistemologia, una concezione ecologica delle realtà che vede fra i

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suoi fondatori fisici (Von Foester2), matematici, antropologi (Gregory Bateson3).

L’ottica sistemica introduce nella lettura delle relazioni umane

un aspetto che in altre modalità di analisi delle relazioni e delle comunicazioni non è altrettanto evidente: la centralità dei due soggetti della comunicazione, e la focalizzazione su ciò che fra i due soggetti avviene: interazione, comunicazione, scambio di messaggi, che diventano regole di una relazione in continuo divenire, e che producono modificazioni nei sistemi significativi in cui i due protagonisti sono inseriti: il professionista e il suo paziente comunicando fra loro danno infatti vita a un sistema con regole precise, ruoli, equilibri, giochi relazionali. Un sistema diadico che interagisce con gli altri sistemi di cui sia il paziente che il professionista fanno parte.4

Come vedremo più approfonditamente nei capitoli successivi, il

metodo del counselling sistemico va oltre la concezione della “centralità del paziente”5: si focalizza su ciò che accade fra il professionista e il paziente, in quello spazio fra le due persone in cui si intrecciano richieste, proposte, informazioni, emozioni. E in cui entrano in gioco altri attori talvolta virtuali ma non per questo meno attivi e significativi: i personaggi dei sistemi di riferimento dei due attori principali (la famiglia, l’istituzione in cui il professionista opera, i gruppi significativi ecc.)

2 Von Foester H, Sistemi che osservano, a cura di Mario Ceruti e Umberta Telfner, Astrolabio, Roma 1987

3 Bateson G , Verso un’ecologia della mente, Adelphi Milano 1976 4 La definizione di sistema umano a cui facciamo riferimento è “un insieme di elementi (persone) caratterizzati da specifici attributi (ruolo, immagine, compiti, diritti, doveri) che si sono definiti nella storia di quel sistema, e legati fra loro in modo tale che una modificazione di uno degli elementi produce modificazioni anche negli altri. 5 Rogers C, La terapia centrata sul paziente, Martinelli 1970

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Strumento principale del counselling sistemico è la consapevolezza della non semplicità degli atti comunicativi: solo imparando a intravedere la complessità di ogni scambio comunicativo diventa possibile per il professionista – poiché la responsabilità del buon andamento della comunicazione non è, ahimè, equamente ripartita fra i due attori ma poggia prevalentemente sulle spalle del professionista - muoversi per obiettivi, valutare gli effetti dei propri messaggi, riadattare la comunicazione per ottenere una maggiore efficacia, per evitare di compromettere la qualità della relazione.

1.2 Il fattore tempo Ma è realistico immaginare di gestire questa complessità nel

tempo assai spesso ridotto ci cui dispongono i professionisti a cui ci rivolgiamo? La convinzione che per comunicare in modo valido sia necessario molto tempo è assai diffusa; il metodo che cercherò di illustrare in questo libro dimostrerà che non è la quantità di tempo a disposizione a determinare il buon andamento di una comunicazione, ma il modo in cui viene utilizzato: a partire dal tempo di cui dispone il professionista può mettere in atto un buon intervento comunicativo se impara, per cominciare, a:

1. Non muoversi impulsivamente verso obiettivi

irrealistici: cercare di intervenire sulle modalità di comunicazione fra una coppia di genitori nel momento di una comunicazione di diagnosi, o quando si deve cercare una soluzione per l’inclusione scolastica di un bambino, e in ogni caso quando il ruolo del professionista NON E’ quello del terapeuta della coppia è inutilmente faticoso e scarsamente produttivo. Così come è poco produttivo cercare a tutti i costi di convincere i genitori che il professionista sta facendo per il loro bambino tutto quello che è possibile, e che chiedere di più non è sensato. Come vedremo nei capitoli seguenti, obiettivi come “far capire”, “far accettare”

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contengono una trappola nascosta, quella del tentativo di portare l’altro a dar ragione a noi… e torto a se stesso.

2. Non aver paura di dire “non so” ; oppure “in questo

momento non ho una risposta alla vostra richiesta”, “su questo argomento preferirei documentarmi meglio”, “è una domanda a cui non so davvero rispondere”. La gestione del proprio tempo e delle proprie conoscenze è un diritto umano inalienabile, che in genere viene accettato senza troppa difficoltà dall’interlocutore se non viene presentato in modo aggressivo, sprezzante, o eccessivamente imbarazzato.

3. Non cedere alla tentazione di risolvere le situazioni

difficili con un supplemento di informazioni: la capacità di ascolto di una persona diminuisce di fronte a momenti difficili o di tensione, così come diminuisce la capacità di “fermare” le informazioni e di ricordarle a distanza. Una delle competenze più preziose che i professionisti acquisiscono con il metodo del counselling sistemico è la riduzione delle comunicazioni informative a vantaggio delle domande esplorative, che riattivano l’attenzione dell’altro e facilitano la comprensione e la condivisione delle informazioni.

4. Superare la convinzione che sia necessario sapere il più

possibile della vita e della situazione familiare del paziente per poter dare indicazioni valide e per impostare interventi realmente efficaci.

Da questo derivano quelle che definiamo le 5 massime su cui si

fondano le tecniche di counselling che vengono insegnate nei nostri corsi:

- C’è sempre una domanda che fino a quel momento nessuno ha pensato di fare, o una strada che non è ancora stata tentata;

- Bisogna a tutti i costi evitare di annegare (noi e i nostri clienti)

in un mare di informazioni inutili;

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- Per evitare il rischio di rigetto, prima di dare indicazioni e consigli dobbiamo verificare che siano compatibili con il mondo e la realtà dell’altro;

- Bisogna rassegnarsi all’idea che degli altri non sappiamo nulla,

anche se abbiamo parlato con loro molte e molte volte; - Possiamo aiutare le persone a cambiare solo rispettando i loro

limiti e proponendo loro di procedere un gradino alla volta Per applicare queste massime è necessario innanzitutto passare

da una modalità di comunicazione spontanea6 a una comunicazione impostata in modo professionale : le domande bisogna saperle fare, le risposte del paziente bisogna saperle utilizzare, la collaborazione bisogna saperla costruire, la motivazione bisogna saperla attivare. Le parole fanno succedere cose, e ne abbiamo le prove continuamente. Perché non imparare a far succedere cose più utili per il paziente, e anche per il buono stato dei nervi del professionista?

1.3 Le trappole nascoste delle comunicazioni nella

relazione di cura Ci sono alcune caratteristiche specifiche delle comunicazioni nei

contesti di aiuto e di cura : per cominciare, l’occasione e il contenuto delle comunicazioni hanno a che fare con una situazione di difficoltà del paziente (o nel nostro caso del suo bambino): un problema di salute, una difficoltà di vita, un problema scolastico ecc. La richiesta

6 La spontaneità nel metodo del counselling sistemico viene considerata più nei suoi aspetti rischiosi che come un valore. “In una comunicazione spontanea non vengono individuati obiettivi, non si tiene conto della distanza fra le convinzioni del professioniste e la realtà del paziente, non si filtrano le emozioni per proteggere il paziente e consentirgli di restare in relazione con il professionista senza costi eccessivi. ’opposto di spontaneità non è, quindi, falsità o mistificazione, ma consepevolezza, cioè chiarezza di obiettivi e attenzione al feed back, con un obiettivo di mantenimento della relazione e di costruzione di azioni condivise con il paziente.” In Bert G , Doglio M , Quadrino S , Le parole del counselling sistemico, ed. CHANGE 2011

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esplicita che passa fra i due attori è che uno – il professionista – faccia qualcosa per aiutare l’altro a superare quella difficoltà, per curare il bambino, per aiutare lui e la famiglia ; la richiesta implicita del professionista è che allora l’altro, il paziente, faccia ciò che gli viene indicato, senza protestare e senza discutere.

Semplice; ma allora perché le cose non vanno quasi mai in

questo modo? Perché così spesso i genitori non fanno quello che viene loro consigliato?

Le risposte dei professionisti a questa domanda sono molto

precise e concordi: perché i genitori sono incostanti, ostinati, irragionevoli, poco motivati; mentono sulle proprie intenzioni, non capiscono ciò che gli viene detto ma non dicono di non aver capito. Si fanno influenzare da consiglieri inattendibili, non hanno sufficiente fiducia nel professionista, preferiscono lamentarsi piuttosto che cambiare. Se poi il problema del loro bambino non si risolve, la colpa è loro…

Queste descrizioni compaiono tutte le volte che chiediamo a

pediatri, infermieri, professionisti sociali e sanitari “cosa soprattutto vi rende difficile la collaborazione con i genitori?” . Sono risposte preziose, perché mostrano l’alto grado di tensione che caratterizza la relazione di cura, che spesso la trasforma, per usare le parole di Shorter,7 in “uno scontro rabbioso”. Tensione comprensibile, se la traduciamo in termini fisici: le informazioni, le prescrizioni, le indicazioni e i consigli del professionista rappresentano una azione-forza alla quale troppo spesso il paziente contrappone una reazione-forza di segno contrario: non fa, non obbedisce, non accetta…ma non abbandona il campo, continua a chiedere di essere aiutato, di avere indicazioni, informazioni, consigli .

7 Shorter E, tormentata storia del rapporto professionista sanitario-paziente, Feltrinelli 1986

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Le uscite da questo gioco senza prospettive, frustrante e faticoso non sono che due:

- Sperare che il paziente cambi, finisca per fare ciò che chiediamo, per cedere alla logica e alla evidenza delle nostre informazioni, delle nostre indicazioni, del nostro sapere

- Cambiare stile comunicativo facendo qualcosa di diverso, cambiando il gioco

Benché l’esperienza dimostri che i pazienti non cambiano tanto

facilmente (perché sono, appunto, inaffidabili, incostanti, irragionevoli ecc.), è necessario uno sforzo mentale non indifferente per abbandonare la via n. 1, per imboccare la via n. 2. Oltre allo sforzo mentale è però necessario un po’ di apprendimento: non basta voler cambiare gioco per cambiarlo davvero. Alla base del nuovo gioco c’è un nuovo atteggiamento mentale basato sulla conquista di una modalità relazionale a doppio centro, quello che Martin Buber8 definisce relazione io-tu. Questa sequenza di colloquio fra una fisioterapista e una mamma rappresenta un ottimo esempio di conquista dell’atteggiamento mentale io-tu.

1.4 Esempi di counselling La relazione io-tu e la costruzione della collaborazione Il caso La signora C. è la mamma di un bambino di 4 anni, Andrea,

nato prematuro e con lievi segni di sofferenza cerebrale. Il bambino è attualmente seguito da una fisioterapista e da una logopedista per un ritardo del linguaggio e della motricità. La mamma da alcuni mesi insiste per sospendere l’intervento riabilitativo, sostenendo che Andrea ormai parla e si muove benissimo, e che è anche più abile del fratello minore che non ha mai avuto problemi di alcun tipo. Nelle visite precedenti la fisioterapista si è sforzata di far capire alla

8 Buber M, Io e tu, in Il principio dialogico, Comunità, Milano, 1958

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signora che oggettivamente le modalità di linguaggio e di movimento di Andrea non permettono di considerare acquisito il recupero, che sospendere i trattamenti in questo momento danneggerebbe il bambino, che non ha senso fare un confronto fra Andrea e il fratellino di due anni. A questo la signora oppone la considerazione che le sedute di fisioterapia e di logopedia impediscono ad Andrea di condurre una vita “normale”, e che questo è il motivo dell’apparente ritardo di cui parlano sia i sanitari che le insegnanti della scuola materna.

Si è insomma strutturata una relazione di contrapposizione, da cui però la signora non mostra di voler uscire. In sostanza, si direbbe che la mamma voglia dal professionista l’autorizzazione a sospendere la riabilitazione. O a definire Andrea “normale”?

Il colloquio che segue avviene dopo una seduta di fisioterapia, al termine della quale la mamma lancia una ennesima richiesta:

Mamma: Adesso abbiamo un altro problema con la scuola di

Andrea: avevo fatto domanda per iscriverlo a un corso di ginnastica ritmica che fanno a scuola, i suoi compagni ci vanno quasi tutti. Come se avessi chiesto la luna! Prima hanno fatto storie perché c’erano già tanti bambini iscritti, poi perché farlo fermare oltre l’orario era troppo faticoso per lui… insomma alla fine mi hanno detto chiaro e tondo di no, che non possono inserirlo, che non è un’attività adatta a lui. Io non ne posso più, se lo trattano da handicappato, se le attività normali non glie le lasciano fare, è logico che può solo peggiorare. E anche voi, se vi dico che mi sembra che il bambino vada meglio mi dite che non è vero, per voi l’unica cosa che conta è che faccia la riabilitazione, ma io lo vedo che ormai Andrea fa così, a casa parla e si muove normalmente ma appena vede un estraneo si blocca, sembra che lo faccia apposta, davvero, gli fanno fare l’handicappato e lui lo fa…

La signora è molto agitata, sull’orlo del pianto. La professionista

decide di provare a cambiare rotta.

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Fisioterapista: In effetti, l’idea di qualche attività motoria in aggiunta alla riabilitazione può essere una buona strada per Andrea. Non ne avevamo parlato, finora, lei ci aveva già pensato altre volte?

Mamma: Avevamo pensato a una attività sportiva, il judo, o il calcio, ma poi non ne abbiamo fatto niente…

Fisioterapista: Invece questa ipotesi delle ginnastica ritmica l’ha portata avanti, ha chiesto di iscriverlo…

Mamma: L’idea della ginnastica mi piaceva, è anche più vicino a quello che è abituato a fare con lei, poi è meno competitiva del judo o del calcio, lui con quelli aggressivi si spaventa…

Fisioterapista: Già, pensavo proprio a quello che lei diceva prima, con gli estranei per ora si blocca ancora… conoscendolo, pensa che qualcosa potrebbe metterlo in difficoltà o non piacergli anche in una attività non competitiva come la ginnastica?

Mamma: Bè, per lui tutte le cose nuove sono un po’ un problema…E’ ancora timido, si convince che non riesce a fare le cose e poi non vuole più neanche provare.

Per interrompere lo schema precedente “proposta della mamma – contrapposizione del professionista” era necessario che ilprofessionista riuscisse a individuare un obiettivo utile al mantenimento della relazione con la mamma , e non astratto o ideologico come “ il bene di Andrea”. La sua scelta è in questo caso di valorizzare le ipotesi della mamma (l’idea di iscrivere Andrea al corso di ginnastica , valorizzata come “evento nuovo” e connotata positivamente) per costruire nuove ipotesi condivise e più adeguate alle condizioni del bambino.

La fisioterapista utilizza anche un’altra tecnica per il rafforzamento della relazione: riprende una frase della mamma ( “ appena vede un estraneo si blocca” ) e la mette in relazione con la nuova proposta della mamma: potrebbe essere ancora difficile per Andrea, che appena vede un estraneo si blocca, affrontare situazioni in cui deve confrontarsi con estranei che gli chiedono prestazioni? Con questa tecnica ( tu dici, io ti ascolto e uso quello che dici, io faccio una ipotesi e chiedo cosa ne pensi tu ) l’ascolto reciproco

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migliora, tanto che la mamma riesce a vedere le possibili difficoltà del suo bambino, che nei colloqui precedenti negava e smentiva.

Questo cambiamento è fondamentale: nello schema rigido precedente la professionista si era assunta il ruolo di chi vede le difficoltà ( io dico che Andrea ha ancora delle difficoltà), costringendo la mamma nel ruolo opposto di chi invece le nega ( e io invece, dico che le ha superate).

Nella modalità io-tu la fisioterapista ha inaugurato un nuovo schema: io chiedo a te che difficoltà vedi tu. La cauta apertura della mamma a possibili difficoltà di Andrea consente al professionista di inserire il suo parere professionale in una situazione di non contrapposizione.

Fisioterapista: E’ proprio quello che dobbiamo evitare:

proporgli nuove attività è utilissimo, ma bisogna che Andrea non le avverta come una messa alla prova. Io direi anche: dobbiamo aspettare che sia più sicuro di sé. Se lei lo vede già più sicuro a casa, è un buon segno. Io però continuerei, come le ho già detto, con la riabilitazione proprio per dargli più sicurezza, poi piano piano si può provare a proporre qualcos’altro. Possiamo immaginare di muoverci in questo modo, riabilitazione ancora per un po’ e poi qualche prova di altre attività?

Mamma: Ma, lo sa, io avevo pensato di sospendere le sedute con lei e con la logopedista…

Fisioterapista: Io le faccio un’altra proposta: proviamo a vedere anche con la logopedista che ipotesi di attività aggiuntive è più opportuna, con che tempi, e cosa è più utile ad Andrea per prepararlo a qualcosa di nuovo. Io davvero non vedo bene per ora la sospensione delle attività che Andrea sta facendo, ma la sua ipotesi di aggiungere in seguito qualcos’altro mi sembra più che buona. Pensandoci, le sembra accettabile un percorso di questo tipo?

Mamma: Bè, sa, non è che io ce l’ho con voi, sia lei che la logopedista siete bravissime, Andrea viene volentieri…ma se possiamo fargli fare anche qualcos’altro, con gli altri bambini … io era questo che volevo.

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Fisioterapista: Restiamo con questa idea di aggiungere gradualmente qualche altra attività, senza sospendere nulla. Direi che è un buon progetto, io comincio ad accennarne anche alla collega, poi ne riparliamo tutti insieme.

Il doppio centro su cui si muove questo colloquio, evidenziato dall’uso esplicito dei pronomi ( la fisioterapista ha cura di iniziare le sue frasi dicendo “io continuerei…, io le faccio una proposta “ e conclude ogni proposta con domande esplicite alla mamma per consolidare la condivisione di ogni passaggio ) consente alla professionista di riaffermare il proprio parere collegandolo alle ipotesi e alle osservazioni della mamma. Il progetto, su cui la fisioterapista chiude il colloquio, è davvero un progetto io-tu, costruito accogliendo le richieste della mamma e ristrutturandole progressivamente senza rinunciare all’obiettivo professionale che, ricordiamolo, in questo caso era di non far sospendere i trattamenti riabilitativi per Andrea, e NON di costringere la mamma ad ammettere che il suo bambino ha ancora problemi motori e di linguaggio.

A questo punto dall’io-tu si è passati con gradualità e naturalezza al noi: sia la fisioterapista che la mamma usano la prima persona plurale (proviamo a vedere… se possiamo fargli fare…) e questo è un segno chiaro di condivisione del progetto e di consolidamento della relazione.

1.5 Dalla pragmatica della comunicazione umana al counselling (passando per la linguistica, la teoria della conversazione e la retorica)

Le definizioni di “counseling” (o “counselling”, nella forma utilizzata negli Stati Uniti) sono ormai innumerevoli, e risentono delle impostazioni teoriche e metodologiche a cui fanno riferimento le differenti scuole e i differenti professionisti.

E’ innanzitutto necessario superare un fraintendimento legato all’assonanza fra il termine counselling e i termini consiglio e

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consulenza. Nel significato che dà al termine la British Association of Counselling , e che condividiamo, il counselling è un intervento che esclude la presenza di un esperto che sa, consiglia, indica comportamenti: in questo caso si parla piuttosto di advise, ed è in questa dimensione che si collocano alcuni interventi impropriamente definiti di counselling come le prescrizioni dietetiche, le consulenze genetiche ecc.

Un altro aspetto da definire con correttezza é il rapporto fra il counselling e l’ intervento psicologico. Il metodo che viene presentato in questo libro colloca il counselling più vicino all’uso professionale della comunicazione che all’intervento psicologico: la finalità di un intervento di counselling in ambito socio sanitario ed educativo è innanzitutto quella di rendere possibile uno scambio comunicativo efficace, mantenendo una relazione valida fra il professionista e il paziente o il familiare in vista di un obiettivo professionalmente ed eticamente sostenibile.

In una relazione professionale è il professionista il principale responsabile del buon andamento della comunicazione. Per rispondere validamente a questa esigenza, deve disporre di strumenti validi: una buona conoscenza dei processi comunicativi e una buona capacità di utilizzarli concretamente.

La Pragmatica della comunicazione umana9 è stata per molti il primo passo verso una maggiore consapevolezza di ciò che avviene negli scambi comunicativi fra persone. In particolare, gli assiomi della comunicazione individuati da Watzlawick introducono a una visione degli atti comunicativi basata non solo su “ciò che dico” ma – soprattutto – su “ciò che faccio succedere dicendo”. Se riflettiamo sul fatto che “ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione” (secondo assioma) e che quindi in ogni scambio comunicativo si decide anche “ chi dovrebbe fare cosa e per volontà di chi”, diventa molto difficile sostenere che una buona comunicazione richiede solo un po’ di buona volontà e un linguaggio chiaro e semplice: è in gioco anche lo spazio decisionale

9 Watzalwick P e altri, La pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971

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di ciascuno, la posizione relazionale che ciascuno accetta di assumere nei confronti dell’altro.

Le comunicazioni dei professionisti contengono in genere molte (troppe…) indicazioni e imposizioni sul “ cosa fare”. Lo scarso entusiasmo dei pazienti nell’accettare, eseguire, adeguarsi a queste indicazioni viene abitualmente attribuito a ostinazione, irragionevolezza, scarsa compliance, ecc. e fronteggiato dai professionisti con strumenti faticosi quanto inadeguati: l’aggiunta di informazioni, la minaccia di rischi futuri, l’invito a essere ragionevoli, fino ad arrivare alla svalutazione e al giudizio morale. Anche se l’esperienza dimostra giorno dopo giorno che si tratta di modi che non funzionano, non è facile abbandonarli se non si dispone di strumenti nuovi con cui sostituirli. La scommessa del counselling sistemico consiste nel sostituire strumenti tradizionali di tipo psicologico (interpretazione, attenzione alla storia passata del paziente, ricerca delle cause dei comportamenti e delle resistenze al cambiamento, focalizzazione sulla struttura della personalità del paziente) con una sorta di assemblaggio di strumenti di provenienza diversa.

La pedagogia, la filosofia del linguaggio e la retorica classica, ad esempio, forniscono indicazioni illuminanti quando si tratta di decidere cosa dire e come dirlo. Sul piano della pratica comunicativa, le prime sostituzioni da attuare in una logica di counselling sistemico sono:

1. Dalle domande “perché?” alle domande “cos’altro?” Rinunciare programmaticamente alle domande costruite sul “

perché” modifica sensibilmente sia il clima del colloquio che l’atteggiamento mentale del professionista: il “perché” ci mette alla ricerca di una causa, di un punto di inizio del problema, e più o meno inconsapevolmente di un colpevole. Sono domande colpevolizzanti, e anche limitanti: individuano un punto chiave (l’inizio) e trascurano “ciò che sta intorno”. Non sono domande sistemiche.

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Esempio Medico: “Perché non mi ha portato prima la bambina? Le

avevo già fatto notare che cresceva troppo poco, e adesso sono passati due mesi dall’ultima visita e il peso è sempre basso”.

Medico: “Quando si è accorta che la bambina continuava a

crescere poco … da cosa ha pensato che potesse dipendere? ne ha parlato con qualcuno? cosa avete già provato a fare?

2. Dall’ipotesi “lui è” all’ipotesi “ lui si comporta” Siamo abituati a vedere i comportamenti degli altri come se

fossero caratteristiche specifiche e immutabili di quella persona. Così diciamo “ quella mamma è ansiosa”, “quel padre è autoritario ”, “quel ragazzino è strafottente” ecc. Possiamo invece abituarci a vedere i comportamenti (nostri e degli altri) come messaggi che acquistano senso nello scambio comunicativo: proposte relazionali, come dice Watzlawick, a cui possiamo rispondere rafforzandole o rendendole invece meno rigide, rendendo possibili altri comportamenti. Il primo passo consiste nell’introdurre, nei nostri pensieri e nelle nostre ipotesi mentali, la domanda “ cosa mantiene l’atteggiamento ansioso di questa mamma? Cosa potrebbe succedere di diverso, per permetterle di essere meno ansiosa?”

3. Da “insistere” a “rendere possibile” Quando non otteniamo la collaborazione, l’adesione,

l’accettazione delle nostre proposte, rischiamo di passare rapidamente dalla domanda non sistemica (“perché non fa quello che dico?”) alla ipotesi “è“ (“perché è… ostinato, aggressivo, incosciente) . Questo ci porta a un atteggiamento di contrapposizione a fin di bene (devo convincerlo, costringerlo ad ammettere, fargli fare a tutti i costi…) che sul piano relazionale è quasi sempre controproducente. Se riusciamo a evitare la domanda “ perché” e a leggere il comportamento che vorremmo modificare come una fase dello scambio comunicativo fra noi e l’altro, e non

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come una caratteristica dell’altro, che dobbiamo combattere e stroncare, diventiamo capaci di interventi che escono dallo schema della contrapposizione: domande sulle difficoltà che il paziente sta incontrando, domande su cosa lo aiuterebbe a provare ancora ecc.

Esempio Dietista: Perchè avete lasciato che Massimo abbandonasse

la dieta così presto? Se mollate voi dopo pochi mesi e lo lasciate ingrassare di nuovo dopo che avevamo avuto qualche risultato lo abituate a non impegnarsi, a rassegnarsi, non è educativo…

Dietista: Dobbiamo provare a riproporre la dieta a

Massimo: avevamo avuto dei risultati, poi è successo qualcosa,e adesso ha ripreso peso: voi cosa avete visto succedere, quali possono essere state le difficoltà più grosse, sia per voi che per lui?… Da cosa partireste, per aiutarlo a riprendere la dieta?

4. Dalla “comunicazione in uscita” alla “comunicazione

in entrata” Ciascuna di queste nuove modalità porta quasi

automaticamente a un uso diverso delle strutture comunicative. Nelle comunicazioni fra un professionista, un “esperto”, una persona informata e competente, e chi chiede il suo intervento prevalgono le sequenze comunicative “in uscita” , che vanno cioè dal professionista al paziente: spiegazioni, informazioni, indicazioni, ammonimenti, consigli e così via. Se vogliamo provare a costruire comunicazioni basate su “cosa altro succede”, “cosa rende possibile un certo comportamento”, “cosa rende difficile la collaborazione” ecc. ci rendiamo conto che dobbiamo usare delle domande: dobbiamo cioè attivare sequenze comunicative “in entrata” (dal paziente al professionista).

E’ evidente che questa modificazione è la più significativa e la

più produttiva sul piano della qualità dello scambio comunicativo.

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Richiede però nuove competenze: quella di guidare il colloquio, di usare in modo efficace il materiale narrativo che le sequenze comunicative “in entrata” producono; di selezionare le informazioni effettivamente urgenti e indispensabili, che il professionista deve assolutamente dare (comunicazioni di diagnosi, informazioni su percorsi assistenziali, procedure ecc.) da quelle che “ possono aspettare”, e da quelle che, in termini comunicativi, sono più vicine al rumore che all’informazione: precisazioni non essenziali, commenti su situazioni simili, spiegazioni eccessivamente tecniche ecc.

5. Dal colloquio spontaneo al colloquio per fasi e obiettivi

La capacità di guidare il colloquio rappresenta la risposta tecnica al dubbio “ ma come facciamo a trovare il tempo per fare tutto questo?” La capacità da conquistare è quella di mantenere il colloquio su un binario non troppo rigido ma neppure troppo vago e fluttuante. Di suddividerlo esplicitamente in fasi (“cominciamo con… poi vedremo anche….”). Di proporre un obiettivo alla volta. Di non mescolare momenti informativi con momenti prescrittivi. Di selezionare le informazioni realmente indispensabili, utili e comprensibili. Di fare regolarmente il punto di ciò che si è detto e di ciò che si sta cercando di fare. Di stoppare narrazioni troppo ampie o fuori tema senza il timore di “ perdere qualcosa di importante”. Diregolare l’andamento del colloquio in base agli obiettivi e ai tempi di cui si dispone.

Su questi cambiamenti e su queste abilità si basa il metodo del counselling sistemico che può essere utilizzato da ogni professionista nella non facile interazione fra le sue proposte e i suoi obiettivi terapeutici e le risposte concrete di quei genitori, di quel bambino, e delle altre numerose persone coinvolte nel progetto “salute, sviluppo, benessere e magari felicità” che accompagna nel bene e nel male la crescita di ogni bambino.

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1.6 Per saperne di più

1. Comunicare, convincere, motivare

Nel rispondere a una richiesta di aiuto o consiglio, o nel dare indicazioni a una persona nei cui confronti abbiamo un obbligo di cura, di tutela, di sostegno, tendiamo ad utilizzare modalità che sono state definite “modalità barriera”. Carl Rogers, basandosi su un testo di E.Porter10 ne individua cinque:

Valutazione/giudizio morale: il comportamento dell’altro viene sottoposto a una valutazione basata sui valori e le priorità del professionista (Esempio: Ha fatto male a sospendere così presto l’allattamento al seno, avrebbe dovuto continuare a provare almeno fino al quinto mese). La reazione a questa modalità può andare dalla difesa-giustificazione alla ribellione, alla ricerca di altri “colpevoli”, e in ogni caso influisce negativamente sul clima di collaborazione e di fiducia reciproca spiegazione interpretativa: il professionista si attribuisce il diritto di dire all’altro cosa realmente significa ciò che ha detto o fatto, e ovviamente di decidere che la sua interpretazione è vera (Esempio: Lei dice che suo figlio non accetta di stare a dieta, ma in realtà è lei che non è convinta e gli permette di trasgredire). Questo può produrre perdita di interesse per la comunicazione, distacco e rinuncia a esporre le proprie difficoltà e le proprie esperienze.

Consolazione/minimizzazione: il professionista, nel tentativo di consolare o di diminuire la sofferenza e la preoccupazione del paziente, svaluta il suo problema e cerca di “sdrammatizzarlo” (Esempio: Forse state un po’ esagerando le difficoltà vostre e di vostro figlio, adesso che sappiamo che i suoi disturbi sono dovuti alla celiachia: in fondo si tratta solo di eliminare dalla sua dieta alcuni cibi; se fosse allergico alle fragole cosa fareste? Non gli dareste le fragole. Nel nostro caso, basta non dargli alimenti

10 Porter E , An introduction to therapeutic counselling, Houghton Miffin, Londra 1950

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che contengono il glutine…). Questa modalità produce quasi sempre la sensazione frustrante di non essere capiti e di non ricevere reale aiuto.

Investigazione/inquisizione: il professionista ha in mente una ipotesi o una teoria (questo genitore non si fida di me, questa mamma non segue le mie indicazioni, questi genitori dicono di fare e poi non fanno) e cerca di confermarla con domande di indagine sulle “ragioni” del comportamento dell’altro ( “ perché ha fatto….? Perché non mi ha detto…?), con domande suggestive o che influenzano la risposta (“ Lei pensa davvero che il bambino possa affrontare la prima elementare, con le difficoltà di socializzazione che manifesta già alla materna?”), con domande di tipo aut aut ( “se non usiamo gli antibiotici il bambino rischia delle complicazioni serie, lei cosa preferisce, mantenere le sue idee sugli antibiotici o proteggere suo figlio? “); tutto questo produce comportamenti difensivi che possono arrivare fino alla menzogna o alla falsa adesione alle richieste del professionista.

Soluzione del problema/sostituzione: il professionista offre al suo interlocutore la “risposta giusta” per uscire da una situazione difficile . Si tratta o di una azione ( “ perché non prova a …) o di un atteggiamento ( “ lei dovrebbe essere più decisa…. Meno ansiosa…. Guardare la realtà in faccia…) che però non tengono conto della situazione concreta e delle reali risorse dell’altro, e quindi sono quasi sempre impossibili da realizzare.

2. La filosofia del linguaggio colloca alla base di ogniscambio comunicativo fra persone il cosiddetto “patto comunicativo”, che lega i due interlocutori a un impegno comune: quello di capire e di farsi capire.

Secondo Paul Grice11 in ogni comunicazione chi comunica intende produrre un effetto sul suo interlocutore. Perché questo

11 Grice P, Logica e conversazione, il Mulino, Bologna 1993

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effetto vada nella direzione del patto comunicativo, cioè renda possibile a entrambi gli attori capire ed essere capiti, Grice propone alcune massime:

- massima di quantità: dare informazioni solo e unicamente nella misura in cui sono richieste dalla situazione (non troppe, non troppo poche)

- massima di qualità: dire soltanto ciò che è appropriato alla situazione ( ciò che abbiamo il diritto di dire, ciò che riteniamo ragionevolmente vero e valido)

- massima di relazione: essere pertinenti ( cioè adeguare ciò che diciamo alla situazione e alla relazione in cui la comunicazione si situa)

- massima di modo: essere perspicui, cioè evitare l’ambiguità, l’oscurità dei termini e delle espressioni, mantenere un filo ordinato nell’esposizione, non parlare troppo

Su queste massime si basano alcune delle indicazioni di metodo del counselling sistemico che troverete in questo libro: l’equilibrio degli atti comunicativi, la comunicazione orientata per obiettivi, la selezione delle informazioni adeguate, la sequenzialità delle fasi del colloquio.

3. Anche la retorica classica, quella di Aristotele perintenderci, sviluppata poi nella Roma antica da Cicerone e Quintiliano, fornisce indicazioni preziose a chi voglia rendere la propria comunicazione più efficace.

Alla retorica sono stati attribuite colpe in parte esagerate: la manipolazione dell’altro, la costruzione del consenso, l’uso artefatto delle informazioni per convincere e ottenere approvazione. Nell’ambito che ci interessa, quello della comunicazione professionale, la ricerca del consenso o del vantaggio personale deve essere data per esclusa sulla base delle regole etiche e deontologiche che regolano qualsiasi relazione professionale. Nella retorica troviamo invece indicazioni che non hanno mai perso la loro

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attualità e validità per ciò che riguarda l’arte di costruire un discorso efficace. Ad esempio, quella che viene definita dispositio: l’arte di dare ordine e chiarezza al discorso, è uno strumento importante per passare dal colloquio spontaneo al colloquio guidato per fasi e obiettivi di cui si parla nelle pagine precedenti. Così come l’elocutio (lo stile e il requisito del discorso) dà indicazioni preziose sul modo di formulare le domande, di utilizzare e riassumere le parole dell’altro, di rendere chiaro ciò che diciamo tenendo conto delle caratteristiche di chi ascolta. Le virtù dell’elocuzione ci abituano a fondare le nostre scelte comunicative su alcune domande chiave:

- A chi parlo? - Con quale obiettivo? - Cosa so di lui/lei/loro? - Cosa è (sono) in condizioni di capire ? - Che attese ha ( hanno)? - In quale contesto mi trovo?

E’ questa la base di quella che definiamo comunicazione consapevole.