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INCONTRO CON UN’OPERA 1 © 2014 - M. Sambugar, G. Salà - Letteratura & oltre Il romanzo La trama Holden Caulfield, figlio di ricchi ebrei di New York, sa di esere stato espulso dalla famosa e costosa scuola di Pencey, in Pennsylvania. Prima che la notizia giunga ai suoi genitori, decide di fuggire. La sua intenzione è di presentarsi a casa dopo alcuni gior- ni, con l’inizio ufficiale delle vacanze natalizie. Giunto a New York in treno, finisce in uno squallido albergo. Dopo essere passato da un nightclub all’altro, al ritorno all’hotel accetta la proposta di Maurice, l’addetto all’ascensore, di procurargli una ragazza. Umiliato per la sua timidezza e per il suo desiderio di mantenere l’innocenza, derubato e maltrattato dal ruffiano, si sente defraudato e ingannato. Non solo il sesso, ma anche altri miti lo hanno deluso: il jazz, il teatro e, più di tutto il cinema, in cui vede una finzione odiosa e inutile. Vita e opere di Jerome David Salinger Nato a New York il 1° gennaio 1919, da padre ebreo e madre irlandese, J.D. Salinger, crebbe in una agiata famiglia borghese. Come molti degli eroi delle sue opere, fu un «adolescente diffi- cile» che abbandonò parecchie scuole, compresa un’accademia navale. Diplomatosi all’Accademia militare «Valley Forge» della Pennsylvania, nel 1938 andò in Polonia e in Austria dove si oc- cupò, per conto del padre, dell’importazione di salumi da quei paesi. Il primo racconto di Salinger, I giovani, uscì nel 1940. Prese poi parte alla seconda guerra mondiale prima come ser- gente di fanteria, successivamente, dal 1942, come ufficiale del controspionaggio americano. Nel 1944 fu in Europa, impiegato in varie azioni militari. A differenza di altri prosatori della sua generazione, non privilegiò, però, l’esperienza bellica. Alla fine della guerra, dal 1945 in poi, la sua attività di scrittore lo impegnò a tempo pieno. I suoi racconti uscirono su varie rivi- ste. Nel 1950, un anno di grande importanza per la sua carriera, debuttò sul «New Yorker» con Per Esmé – con amore e squallore, forse il suo racconto più pienamente riuscito. Questa rivista pub- blicherà poi la maggior parte dei suoi racconti. Da un altro rac- conto, Zio Wiggly nel Connecticut (1941), è tratto il film Questo mio folle amore, con Susan Hayward e Dana Andrews, che ebbe un grande successo. È l’unico film tratto da un’opera di Salinger il quale espresse su di esso un giudizio negativo. Il 16 luglio 1951 uscì Il giovane Holden, che ebbe un successo im- mediato e inatteso. Salinger ne fu talmente spaventato che pen- sò di fuggire in Europa. Ma la fuga cui è destinato questo scrit- tore così peculiarmente americano non è verso luoghi lontani, ma all’interno del «grande paese», nel suo angolo più esclusivo e autentico: il New England, e più precisamente il New Hampshire, in una villa fra il verde. Della vita privata di Salinger si sa ben poco: vi fu un matrimonio nel 1955, un figlio e una figlia poco dopo, e un divorzio nel 1967. Lo scrittore, che non rilasciò mai volentieri interviste, interruppe i contatti col mondo esterno nel 1953. Di lui ci restano poche frasi “storiche” dette al telefono o sulla porta di casa a giornalisti cu- riosi: «Sono conosciuto come un uomo strano, superbo. Natural- mente scrivo ancora. Mi piace perseverare nella mia vita ritirata, senza fornire informazioni su di essa. Non pubblicare dà una me- raviglosa pace. Amo scrivere. Ma scrivo per me stesso, e per il mio piacere. C’è niente di più noioso di uno scrittore, quando parla?». Dopo il 1951, le pubblicazioni di Salinger comprendono Nove racconti (1953), apparsi in precedenza, come numerosi altri, su varie riviste, specialmente il «New Yorker». Anche qui, come nel Giovane Holden, i ragazzi e il loro linguaggio sono l’occhio critico, la struttura narrativa e il veicolo ideologico. A interessi di tipo metafisico (in particolare, per il buddismo zen) vengono attribu- iti un certo squilibrio di fondo e una sorta di manierismo che caratterizzano le opere successive dello scrittore, capitoli ideali di una complessa saga familiare Franny e Zooey (1961), Alzate l’architrave, carpentieri (1963), Seymour. Introduzione (1963) e, infine, Hapworth 16, 1924, l’ultimo racconto apparso sul «New Yorker» nel 1965, prima del grande silenzio in cui Salinger si chiu- se volontariamente. È una disperata dichiarazione di impotenza e di umiltà perché scandita senza alcuna ironia. Si tratta di una lettera scritta ai genitori da un ragazzino di sette anni, contenen- te un’assurda richiesta di libri per il campeggio che per pagine e pagine elenca le opere della scienza e della letteratura del mon- do. È una lista di letture a cui lo scrittore si arrende e a cui ci rimanda. Salinger morì nel 2010. Il giovane Holden

Il giovane Holden · Ha i capelli rossi ed è «magra magra, però magra carina». Ama profondamente il fratello che contraccambia il suo grande affetto. È grazie a lei se Holden

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  • INCONTRO CON UN’OPERA

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    © 2014 - M. Sambugar, G. Salà - Letteratura & oltre

    Il romanzo

    ● La trama Holden Caulfield, figlio di ricchi ebrei di New York, sa di esere stato espulso dalla famosa e costosa scuola di Pencey, in Pennsylvania. Prima che la notizia giunga ai suoi genitori, decide di fuggire. La sua intenzione è di presentarsi a casa dopo alcuni gior-ni, con l’inizio ufficiale delle vacanze natalizie. Giunto a New York in treno, finisce in uno squallido albergo. Dopo essere passato da un nightclub all’altro, al ritorno all’hotel accetta la proposta di Maurice, l’addetto all’ascensore, di procurargli una ragazza. Umiliato per la sua timidezza e per il suo desiderio di mantenere l’innocenza, derubato e maltrattato dal ruffiano, si sente defraudato e ingannato. Non solo il sesso, ma anche altri miti lo hanno deluso: il jazz, il teatro e, più di tutto il cinema, in cui vede una finzione odiosa e inutile.

    Vita e opere di Jerome David Salinger

    Nato a New York il 1° gennaio 1919, da padre ebreo e madre irlandese, J.D. Salinger, crebbe in una agiata famiglia borghese. Come molti degli eroi delle sue opere, fu un «adolescente diffi-cile» che abbandonò parecchie scuole, compresa un’accademia navale. Diplomatosi all’Accademia militare «Valley Forge» della Pennsylvania, nel 1938 andò in Polonia e in Austria dove si oc-cupò, per conto del padre, dell’importazione di salumi da quei paesi. Il primo racconto di Salinger, I giovani, uscì nel 1940.Prese poi parte alla seconda guerra mondiale prima come ser-gente di fanteria, successivamente, dal 1942, come ufficiale del controspionaggio americano. Nel 1944 fu in Europa, impiegato in varie azioni militari. A differenza di altri prosatori della sua generazione, non privilegiò, però, l’esperienza bellica.Alla fine della guerra, dal 1945 in poi, la sua attività di scrittore lo impegnò a tempo pieno. I suoi racconti uscirono su varie rivi-ste. Nel 1950, un anno di grande importanza per la sua carriera, debuttò sul «New Yorker» con Per Esmé – con amore e squallore, forse il suo racconto più pienamente riuscito. Questa rivista pub-blicherà poi la maggior parte dei suoi racconti. Da un altro rac-conto, Zio Wiggly nel Connecticut (1941), è tratto il film Questo mio folle amore, con Susan Hayward e Dana Andrews, che ebbe un grande successo. È l’unico film tratto da un’opera di Salinger il quale espresse su di esso un giudizio negativo.Il 16 luglio 1951 uscì Il giovane Holden, che ebbe un successo im-mediato e inatteso. Salinger ne fu talmente spaventato che pen-sò di fuggire in Europa. Ma la fuga cui è destinato questo scrit-tore così peculiarmente americano non è verso luoghi lontani, ma all’interno del «grande paese», nel suo angolo più esclusivo e autentico: il New England, e più precisamente il New Hampshire, in una villa fra il verde.

    Della vita privata di Salinger si sa ben poco: vi fu un matrimonio nel 1955, un figlio e una figlia poco dopo, e un divorzio nel 1967. Lo scrittore, che non rilasciò mai volentieri interviste, interruppe i contatti col mondo esterno nel 1953. Di lui ci restano poche frasi “storiche” dette al telefono o sulla porta di casa a giornalisti cu-riosi: «Sono conosciuto come un uomo strano, superbo. Natural-mente scrivo ancora. Mi piace perseverare nella mia vita ritirata, senza fornire informazioni su di essa. Non pubblicare dà una me-raviglosa pace. Amo scrivere. Ma scrivo per me stesso, e per il mio piacere. C’è niente di più noioso di uno scrittore, quando parla?».Dopo il 1951, le pubblicazioni di Salinger comprendono Nove racconti (1953), apparsi in precedenza, come numerosi altri, su varie riviste, specialmente il «New Yorker». Anche qui, come nel Giovane Holden, i ragazzi e il loro linguaggio sono l’occhio critico, la struttura narrativa e il veicolo ideologico. A interessi di tipo metafisico (in particolare, per il buddismo zen) vengono attribu-iti un certo squilibrio di fondo e una sorta di manierismo che caratterizzano le opere successive dello scrittore, capitoli ideali di una complessa saga familiare Franny e Zooey (1961), Alzate l’architrave, carpentieri (1963), Seymour. Introduzione (1963) e, infine, Hapworth 16, 1924, l’ultimo racconto apparso sul «New Yorker» nel 1965, prima del grande silenzio in cui Salinger si chiu-se volontariamente. È una disperata dichiarazione di impotenza e di umiltà perché scandita senza alcuna ironia. Si tratta di una lettera scritta ai genitori da un ragazzino di sette anni, contenen-te un’assurda richiesta di libri per il campeggio che per pagine e pagine elenca le opere della scienza e della letteratura del mon-do. È una lista di letture a cui lo scrittore si arrende e a cui ci rimanda. Salinger morì nel 2010.

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    © 2014 - M. Sambugar, G. Salà - Letteratura & oltre

    Il giovane Holden

    Neppure una cara amica capisce l’angoscia di Holden, affranto osservatore dell’esistenza umana che aspira inutilmente a essere un adulto responsabile. Intanto, nella sua mente le immagine di Allie, il fratello minore morto di leucemia, continuano a sovrapporsi alla real-tà. Dopo un incontro segreto con la sorellina Phoebe, Holden va dal suo vecchio professore di inglese, Mr. Antolini, ma temendo che questi voglia sedurlo, fugge nella notte e si rifugia alla stazione centrale. Alla fine, Phoebe, che egli ha voluto vedere un’ultima volta prima di partire definitivamente per l’ovest, lo convincerà a ritornare dai genitori i quali non lo «ammazzano», come lei temeva, ma lo ricoverano in una clinica affidandolo alle cure di uno psicanalista.

    ● I personaggi Holden Caulfield: è il protagonista del romanzo, con il quale il lettore ado-lescente può identificarsi. È un giovane sedicenne, molto alto, bruno, con i capelli a spazzola.

    L’epoca di Salinger

    ●● GLI STATI UNITI DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE

    Gli Stati Uniti uscirono dalla seconda guerra mondiale come la nazione più potente del mondo, vittoriosa in un conflitto combattuto fuori dal suo territorio, in grado di godere di gran-di vantaggi economici e, nello stesso tempo, tanta fortunata da essere riuscuita a evitare gli enormi danni causati dalle battaglie terrestri e dalle incursioni aeree. La vecchia politica di isolazionismo non era più possibile. Nella loro posizione di grande potenza, gli USA erano costretti a estendere la loro in-fluenza, anche solo per ragioni economiche, in una parte tan-to grande della terra per assicurare un mercato adeguato ai prodotti della propria industria che si era ampliata in modo considerevole durante gli anni di guerra. Il presidente demo-cratico Harry S. Truman, che entrò in carica durante gli ultimi mesi di conflitto, dovette affrontare i primi anni del dopo-guerra arduo compito di impedire l’espansione sovietica fuori dalle zone stabilite dalla conferenza di Malta (febbraio 1945) e, contemporaneamente, di mantenere per gli Stati Uniti l’im-magine di paese «di pace e libertà» come utile antitesi all’at-trazione sociale esercitata dai paesi comunisti. L’immagine, tuttavia, non sarebbe stata sufficiente senza il denaro. Infatti, grazie specialmente, a un vasto programma di adiuti ai pesi europei (il cosiddetto piano Marshall) e alla firma di un ac-cordo di mutua difesa (la Nato), l’Europa occidentale si legò sempre più agli USA, sia economicamente sia politicamente. Negli anni Cinquanta, che videro le due presidenze (1952-1960) del repubblicano Dwight Eisenhower, eroe della guerra da pochi anni terminata, si stabilì fra i due blocchi mondiali – occidentale e orientale – la «guerra fredda».

    ●● NUOVO MODELLO DI VITA NEGLI STATI UNITI

    Dal punto di vista sociale, il dopoguerra e gli anni Cinquanta furono un periodo relativamente tranquillo durante il qua-le si sviluppò un nuovo modello di vita. Molti americani si trasferirono nei sobborghi dove l’uniformità delle costruzioni

    incoraggiava il formarsi di comunità prive di caratteristiche individuali. La televisione e il cinema divennero la fonte principali di divertimento. È proprio contro il secondo che Holden, figlio di una società che disprezza, si scaglia ritenen-dolo apportatore di falsi messaggi; egli odia le sale cinema-tografiche, vere e proprie «gabbie di matti», le chilometriche code davanti all’entrata, la gente elegante che vi si reca la domenica (cap. XVI).L’istruzione aveva come unico scopo quello di formare i gio-vani portandoli al successo e inculcando loro il desiderio di superare i genitori nel reddito e nella posizione sociale.Contro questo esasperato arrivismo, contro questi falsi valori della società imbevuta di ipocrisia, si scaglia Holden alla co-stante ricerca di verità e onestà che raramente trova.

    ●● LA SCENA LETTERARIA DEGLI ANNI CINQUANTA

    Sulla scena letteraria la seconda parte degli anni Quaranta e la prima degli anni Cinquanta videro l’ulteriore produzione di scrittori che erano già famosi prima della guerra – come William Faulkner, Ernest Hemingway e John Steinbeck – e alcune delle opere di Truman Capote (1924-1984), caratteriz-zate da un’abile fusione di elementi fantastici e grotteschi, di umorismi e di orrore.

    ●● LA BEAT GENERATION

    Nella seconda metà degli anni Cinquanta si delinea un feno-meno destinato a incidere profondamente sulla cultura e sul costume: si tratta della beat generation i cui più noti rap-presentanti sono Allen Ginsberg (1926-97), il quale con la poesia Urlo (1956) si opponeva all’influenza distruttiva della civiltà contemporanea sulle «menti migliori» della sua genera-zione, e Jack Kerouac (1922-69), il cui romanzo Sulla strada (1957) descrive il vagabondare senza scopo di due amici at-traverso gli Stati Uniti.

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    Appartiene alla classe sociale medio-alto borghese, ma si ribella ai suoi codici di comporta-mento, al suo conformismo e alla sua assenza di valori. Nei suoi rapporti esterni con il pros-simo desidera, però, piacere ed essere simpatico. Alla ricerca di una propria identità, rifiuta di «lasciarsi educare». La sua contestazione quasi totale lo spinge all’alienazione, a seguito della quale viene sottoposto a un trattamento psicanalitico che lo riporti alla “normalità”.

    Phoebe: è la sorellina di Holden di dieci anni. Ha i capelli rossi ed è «magra magra, però magra carina». Ama profondamente il fratello che contraccambia il suo grande affetto. È grazie a lei se Holden rinuncia al suo piano di fuga definitivo nell’ovest. A differenza di Hol-den, è molto brava a scuola e non ha problemi di alcun genere.

    Allie: è il fratello minore di Holden, morto di leucemia a tredici anni. È sempre presente nella mente del protagonista che parla spesso di lui e «con lui». Aveva due anni meno di Holden, «ma era cinquanta volte più intelligente» di lui. Aveva i capelli rossi e «a tavola rideva così forte per qualche cosa che gli girava per la testa che quasi ruzzolava giù dalla sedia».

    D.B.: è il fratello maggiore di Holden e vive a Holliwood dove lavora scrivendo copioni di film.

    Stradlater: è il compagno di stanza di Holden a Pencey. Ha sempre una gran fretta e tutto è per lui «un affare di stato». Se ne va spesso in giro a torso nudo perché «è convinto di essere maledettamente ben piantato» e si liscia sempre per farsi bello «perché si ama alla follia». È il tipo di bel ragazzo da album scolastico. Pensa molto alle ragazze e ne ha sempre una da portare fuori, da «vero mandrillo». Chiede spesso in prestito giacche e cravatte a Holden che soddisfa sempre le sue richieste.

    Ackley: è il ragazzo che occupa la stanza vicina a quella di Holden. È alto più di un metro e novanta e ha la schiena rotonda «e certi denti da farti venire il voltastomaco». Ha un brutto carattere ed è anche un po’ maligno. Non può soffrire il compagno di stanza di Holden e neppure tutti gli altri, «o giù di lì». Non gli piace essere chiamato «pivello» perché frequenta l’ultimo anno di università e non capisce quando Holden gli parla con ironia o con sarca-smo. È «un bastardo ficcanaso», ma a Holden fa un po’ pena.

    Il vecchio Spencer: è il professore di storia di Holden all’Istituto Pencey. È sulla settantina ed è «tutto piegato in due. Ma non se la cava poi tanto male». Quando non è in classe, grida sempre e certe volte «dà sui nervi». Si mette le dita nel naso e non sta «quasi mai a sentire quando qualcuno gli dice qualche cosa». Ha, però, pronta una «predica tremenda» per l’a-lunno poco volonteroso, ma Holden si accorge che il fatto di averlo bocciato in storia «lo fa sentire un verme».

    ● La struttura La vicenda si articola in cinque parti.

    Prima parte (capitolo I): il narratore-protagonista inizia a parlare ai suoi lettori. Holden Caulfield, l’io narrante, li avverte di non avere nessuna voglia di raccontare tutta la sua «dannata autobiografia». Si limiterà a raccontare «le cose da matti» che gli sono capitate verso Natale, prima di ridursi «così a terra» da dovere essere ricoverato nella casa di cura in cui si trova per ritornare alla “normalità”. Inizia il suo racconto dal giorno in cui lascia di nascosto l’Istituto Pencey per tornare a New York, la sua città, essendo stato espulso dalla scuola per scarso profitto. È sabato pomeriggio e alla scuola si gioca un’importante partita di rugby che Holden osser-va da un colle dominante il campo. Si sente solo e triste: la mattina l’incontro di scherma previsto a New York con la scuola McBurney non ha avuto luogo perché lui, manager della squadra di Pencey, ha dimenticato fioretti, equipaggiamento «e tutto» sulla metropolitana.

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    Seconda parte (capitoli II-VIII): dalla visita di Holden al professor Spencer alla fuga del ragazzo a New York. La visita al professor Spencer – un’alternanza di dialogo fra i due, e di riflessioni mentali di Holden (una sorta di monologo interiore) spesso poco lusinghiere per il professore – si conclude con una serie di consigli e di raccomandazioni da parte dell’insegnante accolti dal ragazzo con la preghiera di non preoccuparsi per lui. Holden si reca poi nella sua stanza dove, in attesa della cena, legge un libro. Viene interrotto prima da Ackley – il ragazzo che dorme nella stanza accanto alla sua – poi da Stradlater – il suo compagno di stanza al quale ha promesso di fare un tema «descrittivo».Dopo cena, all’uscita dalla sala da pranzo, i ragazzi hanno la sorpresa di trovare il suolo co-perto da un alto strato di neve e si divertono a «buttarsi palle di neve e a fare i matti scatena-ti». Quando giunge il momento di fare il tema promesso a Stradlater, Holden sceglie come argomento la «descrizione» del guantone di baseball di suo fratello Allie, morto di leucemia un paio d’anni prima.Stradlater non apprezza l’argomento e Holden perciò stracciò il foglio senza parlare. Que-sti piccoli gesti sono significativi perché gettano luce sulla pesonalità del protagonista, sui suoi sfoghi fanciulleschi, sugli impulsi di generosità, sui ricordi struggenti, sulle reazioni istintive.Holden decide improvvisamente di fuggire dalla scuola quella sera stessa: restare lo fa sen-tire «troppo triste e solo». Andrà a New York e alloggerà in un albergo economico fino a mercoledì, poi andrà a casa «riposato e in gran forma». Ha bisogno di una piccola vacanza perché ha «i nervi a pezzi sul serio».

    Terza parte (capitoli IX-XX): dalla Penn Station a Central Park. Le numerose «avventure» di Holden a New York non sono quasi mai a lieto fine e il racconto che il ragazzo ne fa è un interessante contrappunto contrassegnato da intenzioni, situazioni, pensieri, ricordi, ri-flessioni. Si coglie molto spesso l’angoscia della solitudine che il narratore cerca di alleviare telefonando a qualcuno. In particolare, vorrebbe parlare con la sua sorellina Phoebe, una ragazzina innocente e affettuosa, ma teme che al telefono rispondano i genitori che ancora non vuole affrontare. L’unico momento piacevole è la conversazione con due suore alla ta-vola calda della stazione dove fa colazione dopo una notte molto movimentata.L’esperienza dell’albergo, la notte precedente – la stanza «lercia», i «pervertiti e sudicioni» che aveva visto guardando dalla finestra i vari nightclub nei quali si era recato durante la notte e dove aveva bevuto alcolici – erano stati talmente tristi e deprimenti che Holden, pri-ma di addormentarsi, aveva sentito la «voglia» di suicidarsi buttandosi dalla finestra. Non lo aveva fatto perché non gli andava che «un mucchio di ficcanaso» si fermasse a guardarlo «tutto sporco di sangue». L’avventura con Sally Hayes, una vecchia amica che incontra nel pomeriggio e lo porta prima a teatro, poi a pattinare sul ghiaccio, si conclude con un litigio, cosicché Holden se ne va via da solo e, per passare il tempo, entra in un cinema dove assiste ad un film di guerra che odia. Entra, poi, in un bar «sofisticatissimo» con un vecchio compa-gno di scuola e, bevendo alcuni whisky e soda con lui e parecchi altri da solo, dopo che l’ami-co se ne è andato, si prende «una solennissima sbornia». È ormai tardi, non sa dove andare a dormire perché ha speso quasi tutto il denaro. Non è il desiderio di avventure, quindi, che lo porta a Central Park, un luogo che gli è assai noto. Ha solo «una malinconia del diavolo». Si siede su una panchina «tremando come un idioda», e lì, temendo di prendersi la polmonite e di morire, vive con la fantasia la più tetra e tormentata delle sue avventure: il suo funerale. Si risolleva decidendo di andare a casa «a fare quattro chiacchiere con Phoebe».

    Quarta parte (capitoli XXI-XXV): dall’arrivo a casa alla visita alla giostra con Phoebe. L’avventura con Phoebe è dolce, quasi sempre piacevole e si conclude con una danza «fan-tastica» che i due fratelli intrecciano nella casa deserta. È una danza simbolica in quanto gli adulti ne sono esclusi perché occupati altrove per il weekend. Ciò che non è piacevole durante l’incontro di Holden e Phoebe è la preoccupazione della ragazzina, che teme l’ira del padre alla notizia dell’espulsione del fratello dalla scuola. «Papà ti ammazza», ripete.

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    Quando Holden cerca di rassicurarla e di elencarle i lati negativi di Pencey, la bambina lo sfida a nominare una sola cosa che gli piace. E qui, in questo momento clou del romanzo, il ragazzo rivela forse l’aspetto più significativo della sua personalità immatura e donchi-sciottesca: ciò che vorrebbe fare è salvare i giovani in pericolo. Egli immagina sempre tan-ti ragazzini che fanno una partita di un immenso campo di segale. L’unico adulto presente è lui, che sta in piedi sull’orlo di un «dirupo pazzesco» e prende al volo tutti quelli che stanno per cadere. «Non dovrei fare altro tutto il giorno», afferma. La visita al professor Antolini, che è stato suo insegnante di inglese e che egli considera «il miglior professore che abbia mai avuto», è un’altra avventura spiacevole: le velate proposte omosessuali, che Holden crede di scorgere nel suo comportamento, lo fanno fuggire precipitosamente: la sua innocenza è minacciata. Holden decide di vedere Phoebe un’ultima volta prima di fuggire all’ovest dove troverà la tranquillità totale nell’incomunicabilità, fingendosi sor-domuto. La pace, nel sogno, sarà finalmente raggiunta, anche se il prezzo sarà il silenzio. Ma quando si rende conto che Phoebe crede in lui e vuole rimanere con lui, messo per la prima volta davanti a una grossa responsabilità, e sentendosi pieno d’amore per la sorelli-na, comprende che non può partire. Una visita alla giostra del parco è l’ultima avventura di quel weekend «pazzesco». Quell’andare in tondo, gioiosamente a vuoto, piace molto a Phoebe e procura a lui un’intensa sensazione di allegria che lo induce a rinunciare defini-tivamente alla partenza e gli permette di accettare il mondo degli adulti. La sua maturità è vicina. Sta per verificarsi ciò che il professor Antolini aveva cercato di comunicargli tramite un biglietto: «ciò che distingue l’uomo maturo è che vuole umilmente vivere per una causa».

    Quinta parte (capitolo XXVI): Holden si congeda dai suoi lettori. Dopo essere tornato a casa, Holden ha un esaurimento nervoso dal quale guarisce e può così narrare i giorni drammatici da lui vissuti e le esperienze a essi legate, ora che si sente pieno di comprensio-ne per tutte le persone che ha conosciuto, «perfino per quel maledetto Maurice», l’addetto all’ascensore dell’Hotel Edmont. Forse in autunno tornerà a scuola, quando sarà uscito dalla casa di cura.

    ● Genere e significato Il giovane Holden può essere considerato il testamento spirituale della generazione americana del dopoguerra. È un’opera che riassume, attraverso le av-venture del sedicenne Holden Caulfield, l’assurdità del mondo contemporaneo e individua nel rifiuto dell’universo degli adulti il primato di quello dell’adolescenza. Salinger di-mostra nel suo romanzo – l’unico da lui scritto – una notevole capacità di resa del linguag-gio parlato e degli atteggiamenti dei giovani negli anni Cinquanta. Questa immediatezza si intreccia con una simbologia che consente di inserire i personaggi adolescenti in una problematica essenziale e spirituale, e di trattare con humour i grandi temi dell’ideologia nazionale americana. Le giornate «avventurose» che Holden trascorre nella sua città – New York – dopo essere fuggito dal collegio, diventano simbolo di tutti i miti americani – jazz, teatro, cinema e sesso – che si rivelano ingannevoli e deludenti, tragiche spie del disagio giovanile.Ma che Il giovane Holden sia anche un romanzo di avventure lo dichiara Holden stesso nella prima pagina dell’opera, quando dice ai lettori: «Vi racconterò le cose da matti che mi sono capitate verso Natale». E le racconta veramente tutte queste sue «avventure» con minuziosa precisione anche cronologica – dal momento in cui fugge dal collegio a quando decide, per amore della sorellina, di non partire per sempre, come aveva intenzione di fare, di non andare «in nessun posto», di tornarsene a casa. Con il suo berretto rosso da cacciatore messo sempre di sghimbescio, Holden, costantemente pronto a dichiarare guerra al «peccato», rappresenta, fra i personaggi del dopoguerra americano, il tipo neopicaresco: rozza e patetica figura soli-taria, malinconica e beffarda, eternamente donchisciottesca, nella tradizione di Huckleberry Finn (1884) di Mark Twain (1835-1910). Anche Huck Finn, infatti, sfugge ai rischi della civiltà e dell’«educazione» affrontando la discesa lungo il fiume Mississippi a bordo di una zattera.

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    Il giovane Holden

    Ma le avventure di entrambi trascendono il modello picaresco per farsi iniziazione che, nel caso di Holden si conclude, però, con l’alienazione. In giro per le strade di New York egli spe-rimenta quanto profondo sia il disagio esistenziale e quanto lacerante la propria solitudine.Ma proprio attraverso il sofferto scontro con la realtà, si avvia una lenta integrazione di Hol-den nel contesto sociale e il suo ritorno alla «normalità»; l’opera, pertanto, può essere defini-ta anche un romanzo di formazione. È stato anche detto a ragione che l’intero romanzo è una specie di lungo «messaggio in bottiglia» (C. De Petris) – a volte spassoso, a volte dolente – inviato da Holden, chiuso nella più asettica delle cliniche, a chiunque lo voglia leggere. È una storia di iniziazione alla maturità, i cui riti dovrebbero essere regolati da un maestro. Ma Holden non ha maestri. Sua madre è sempre ammalata e nervosa, suo padre è impe-gnato negli affari. La sua, quindi, è anche la storia della ricerca di una figura paterna degna di insegnare e capace di amare. Ma una ricerca vana attende il ragazzo e il suo fallimento mette in discussione l’intero sistema pedagogico americano. I tre personaggi che potrebbero aiutarlo a crescere – il vecchio Spencer, il cameriere ruffiano Maurice e il professor Antolini – non sono all’altezza del compito: il primo è vecchio e ottuso, il secondo gli mostra soltanto miseria, brutalità e inganno, il terzo gli fa temere ambiguità di intenzione.

    ● Stile e tecniche narrative Il racconto delle avventure di Holden è un lungo flashback che copre un periodo di circa tre giorni da un sabato pomeriggio al lunedì sera. La realtà è filtrata attraverso il modo di pensare, i sentimenti, la capacità di giudizio di Holden, protagonista del romanzo e io narrante.Il racconto è spesso interrotto da riflessioni, ricordi, imprecazioni, confessioni di debo-lezza e di paura che rappresentano, appunto, l’altro lato della medaglia: il disagio giovanile che il protagonista sta vivendo.Il rapporto tra Holden e il lettore inizia dalle prime parole del romanzo «Se davvero avete voglia di sentire questa storia...». È un inizio alquanto insolito che sorprende chi legge per il modo immediato e perentorio che lo caratterizza. Holden si rivelerà con sincerità ai lettori e nelle sue parole ci sono spesso umorismo, ironia, sarcasmo e disprezzo per il mondo che lo circonda. Non manca tuttavia l’autocritica che dimostra il desiderio di Holden di conoscere se stesso nel profondo.Non mancano anche nel corso dell’opera mutamenti di atmosfera, di condizione psicologi-ca. Prostrazione, depressione e nevrosi, dovute al manifestarsi dell’esaurimento nervoso che colpisce il protagonista, lasciano il posto, talvolta a sorpresa, imbarazzo e incertezza, cui fa seguito in certi casi la confessione di pentimento. Il punto di vista è sempre quello di Holden che racconta, a volte nei minimi particolari, le visioni lugubri che gli attraversano la mente, segni di uno stato d’animo tormentato, descritto con convincente verosimiglianza.Il tono del racconto varia, facendosi di volta in volta serio, ironico, sprezzante, affettuoso.A poche pagine dalla fine del romanzo, Holden si rivolge ancora direttamente ai lettori per metterli in guardia dal desiderio di narrare la propria storia. Il cerchio si è chiuso: Holden nella casa di cura, sta lentamente imparando ad accettare il mondo degli adulti: le sue ulti-me parole al lettore rivelano l’inizio di un processo di maturazione.Il giovane Holden si distingue anche per il particolare linguaggio, colloquiale e gergale, tipico dei ragazzi che frequentano il college (college slang), ricco di modi di dire e infarcito di parole volgari.

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    Il giovane Holden

    È l’inizio dell’opera e il protagonista – il giovane Holden – che è anche il narratore, si presen-ta ai lettori. Parla di sé, ma fa una scelta volontariamente limitata di ciò che narrerà: il suo racconto, infatti, riguarda in questo brano ciò che gli accade nelle poche ore che precedono l’abbandono della costosa scuola privata che lo ospita, in Pennsylvania.

    Il giovane Holden, cap. I

    Il giovane Holden si presenta ai lettori

    Contenuti

    ┛┛ La spregiudicatezza verso la famiglia

    ┛┛ Critica all’istituzione scolastica

    Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa face-vano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield1, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d’infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre. Cari-ni e tutto quanto – chi lo nega – ma anche maledettamente suscettibili. D’al-tronde, non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e compagnia bella. Vi racconterò soltanto le cose da matti che mi sono capitate verso Natale, prima di ridurmi così a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia2. Niente di più di quel che ho raccontato a D.B., con tutto che lui è mio fratello e quel che segue. Sta a Hollywood, lui. Non è poi tanto lontano da questo lurido buco, e viene qui a trovarmi prati-camente ogni fine settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci andrò il mese prossimo, chi sa. Ha appena preso una Jaguar. Uno di quei gingilli inglesi che arrivano sui trecento all’ora. Gli è costata uno scherzetto come quattromila sacchi o giù di lì. È pieno di soldi, adesso. Mica come prima. Era soltanto uno scrittore in piena regola, quando stava a casa. Ha scritto quel formidabile libro di racconti, Il pesciolino nascosto, se per caso non l’avete mai sentito nominare. Il più bello di quei racconti era Il pesciolino nascosto. Parlava di quel ragazzino che non voleva far vedere a nessuno il suo pesciolino rosso perché l’aveva comprato coi soldi suoi. Una cosa da lasciarti secco. Ora sta a Hollywood, D.B., a sputtanarsi. Se c’è una cosa che odio sono i film. Non me li nominate nemmeno. Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che lasciai l’Istituto Pencey. L’Istituto Pencey è quella scuola che sta ad Agerstown in Pennsylvania. Pro-babile che ne abbiate sentito parlare. Probabile che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di riviste, e c’è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo. Io di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lì, né nei dintorni. E sotto quel tipo a cavallo c’è sempre scritto: «Dal 1888 noi forgiamo una splendida gioventù dalle idee chiare». Buono per i merli. A Pencey non forgiano un accidente, tale e quale come nel-le altre scuole. E io laggiù non ho conosciuto nessuno che fosse splendido e dalle idee chiare e via discorrendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano già così prima di andare a Pencey.

    1. David Copperfield: protago-nista dell’omonimo romanzo di

    Charles Dickens (1812-1870).2. grattarmi la pancia: oziare.

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    Ad ogni modo, era il sabato della partita di rugby con Saxon Hall. La partita col Saxon Hall, a Pencey, era un affare di stato. Era l’ultima partita dell’anno e pensavano che dovevi per lo meno ammazzarti se il vecchio Pen-cey non vinceva. […] Io me ne stavo là sulla Thomsen Hill, e non giù alla partita, per il semplice motivo che ero appena tornato da New York con la squadra di scherma. Ero lo stramaledetto manager della squadra di scherma. Un affare di stato. La mattina eravamo andati a New York per quell’incontro con la Scuola McBur-ney. Ma l’incontro non c’era stato. Avevo lasciato fioretti3, equipaggiamento e tutto su quella metropolitana della malora. Non era stata tutta colpa mia. Dovevo continuare ad alzarmi per guardare quella carta, se no non sapevamo dove scendere. Sicché eravamo tornati a Pencey verso le due e mezzo invece che per l’ora di cena. In treno, mentre tornavamo, tutta la squadra mi aveva messo al bando. Era stato abbastanza da ridere, a pensarci. L’altro motivo per cui non mi trovavo giù alla partita era che dovevo anda-re a salutare il vecchio Spencer, il mio professore di storia. Aveva l’influenza e compagnia bella, e io pensavo che probabilmente non l’avrei rivisto prima che cominciassero le vacanze di Natale. Mi aveva scritto quel biglietto per dirmi che voleva vedermi prima che andassi a casa. Sapeva che non sarei tornato a Pencey. Questo mi ero dimenticato di dirvelo. Mi avevano sbattuto fuori. Dopo Natale non dovevo più tornare, perché avevo fatto fiasco in quattro materie e non mi applicavo e le solite storie. Mi avevano avvertito tante volte di metter-mi a studiare – specie a metà trimestre, quando i miei erano venuti a parlare col vecchio Thurmer4 – ma io niente. Sicché mi avevano liquidato. A Pencey succede spessissimo che liquidino qualcuno. È una scuola ad alto livello, Pencey. Altroché. Ad ogni modo, era dicembre e tutto quanto, e l’aria era fredda come i ca-pezzoli di una strega, specie sulla cima di quel cretino d’un colle. Io addosso avevo soltanto il cappotto doubleface5 senza guanti né altro. La settimana prima, qualcuno era andato fino in camera mia a rubarmi il cappotto di cammello, coi guanti foderati di pelliccia in tasca e tutto quanto. A Pencey c’erano un sacco di farabutti. Una quantità di ragazzi venivano da famiglie ricche sfondate, ma c’erano un sacco di farabutti lo stesso. Una scuola, più costa e più farabutti ci sono – senza scherzi. Ad ogni modo, io continuavo a starmene vicino a quel cannone scassato, guardando la partita e gelandomi il sedere. Solo che alla partita badavo poco. Se me ne restavo lì era perché cercavo di provare il senso di una specie di addio. Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l’addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio.

    da Il giovane Holden, trad. A. Motti, Torino, Einaudi, 1961

    3. fioretti: spade sottili e fles-sibili, prive di taglio usate negli incontri di scherma.

    4. Thurmer: il preside della scuola.5. doubleface: si dice di indumen-ti che possono essere reversibili.

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    PER LAVORARE SUL TESTO

    ●● L’inizio alquanto insolito del brano (e del romanzo) sor-prende i lettori, che raramente si sentono apostrofare da un narratore-protagonista in modo tanto immediato e perento-rio. Holden ha le idee molto chiare su tutto ciò che lo circon-da e su chi gli sta vicino. È spregiudicato a parole verso la sua famiglia, ma si avverte, in fondo, un affetto sincero per i genitori e specialmente per il fratello maggiore che chia-ma D.B. Per la scuola elegante e costosa che lo ha «sbattuto

    fuori» prova, invece, soltanto antipatia e perfino disprezzo, Holden si potrebbe definire un contestatore totale; per lui, tutto, o quasi tutto, è storto. Eppure, non c’è solo questo in lui, c’è anche un lato «sentimentale» che si manifesta nell’af-fetto per la famiglia. Sorprende il lettore anche il linguaggio di Holden – popolaresco e grossolano – che riproduce con notevole precisione quello dei giovani americani degli anni Cinquanta.

    Analisi di un testo in prosa 1a prova, tip. A

    VERSO L’ESAME

    COMPRENSIONE DEL TESTO

    L’infanzia di Holden1. Quale aggettivo usa il protagonista-narratore per defi-

    nire la propria infanzia? Perché?

    La famiglia2. Di quali membri della sua famiglia parla Holden? Qua-

    li sentimenti esprime verso di loro?

    L’espulsione dalla scuola3. Holden è stato espulso dall’Istituto Pencey. Come lo

    comunica ai lettori?

    David Copperfield4. Chi è David Copperfield e perché il narratore vi fa ri-

    ferimento?

    La partita di rugby5. Holden non va alla partita di rugby della sua scuola

    per due ragioni: quali?

    ANALISI DEL TESTO

    Il narratore6. Il narratore della vicenda è esterno o interno, onni-

    sciente o non onnisciente?

    Holden racconta ai lettori qualcosa della sua vita nell’Istituto Pencey. Ricorda in particolare due compagni: Ackley, che dorme nella stanza accanto alla sua, e Stradlater, che divide con lui la stanza. Ackley suscita spesso l’ironia e il sarcasmo del protagonista. A Holden non piace neppure Stradlater che è molto disinvolto e ama la compagnia femminile. Essendo meno bravo di lui in inglese e dovendo uscire con una ragazza, gli chiede di fargli un tema su qualunque argomento, purché sia descrittivo. Holden a malincuore accetta. Stradlater se ne va felice al suo appuntamento con Jane Gallagher, una ragazza che il narratore conosce e con la quale ha giocato per ore a dama. Holden è molto disturbato da questa idea.

    IL FILO DEL RACCONTO

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    Il giovane Holden

    È sabato sera e ora di cena. È caduta molta neve. Holden, che non ha la ragazza, decide di uscire con un compagno. Poi scriverà il tema che gli ha chiesto Stradlater.

    Il giovane Holden, capp. V e VI

    Un sabato sera in collegio

    Contenuti

    ┛┛ La sofferenza di Holden per la morte del fratello

    A Pencey, il sabato sera, la cena era sempre la stessa. E siccome ti davano la bistecca passava per un avvenimento. Scommetto mille sacchi1 che ce la davano solo perché la domenica venivano a trovarci caterve di genitori, e il vecchio Thurmer probabilmente si figurava che tutte le madri avrebbero domandato ai loro diletti rampolli che cosa avevano mangiato a cena la sera prima e loro avrebbero risposto «Bistecca». Bella fregatura. Dovevate vedere quelle bistecche. Certi affarini duri e risecchiti che non riuscivi nemmeno a tagliarli. E la sera della bistecca ti davano sempre quella purea di patate tutta gnocchi, e per dolce la marronata che nessuno mangiava, tolti forse i ragazzini delle prime classi che non capivano niente – e i tipi come Ackley che mangiavano qualunque cosa. Però fu bello quando uscimmo dalla sala da pranzo. C’erano dieci cen-timetri di neve per terra, e continuava a venirne giù un sacco e una sporta. Era uno spettacolo fantastico, e cominciammo tutti quanti a buttarci palle di neve e a fare i matti scatenati. Una cosa da asilo di infanzia, ma ci divertiva-mo un mondo. Io la ragazza non ce l’avevo, così con quell’amico mio, Mal Brossard, che era uno della squadra di lotta, decidemmo di prendere un autobus fino ad Agerstown per andare a mangiarci un hamburger e magari a vederci un qual-che schifo di film. Né lui né io ce la sentivamo di restarcene tutta la sera come due cretini. Mancava solo un quarto alle nove quando tornammo in dormitorio. Il vecchio Brossard aveva il pallino del bridge e si mise a girare tutto il dormito-rio per combinare una partita. Dopo che se n’era andato, mi misi il pigiama, la vestaglia e il mio vecchio berretto da cacciatore e cominciai a fare il tema. Il guaio era che non mi riusciva di pensare né a una stanza, né a una casa né a niente da descrivere , come mi aveva detto di fare Stradlater. Non è che descrivere le stanze e le case mi mandi in estasi, comunque. Sicché andò a finire che feci il tema sul guantone di baseball di mio fratello Allie. Era un argomento molto descrittivo. Dico davvero. Mio fratello Allie, dunque aveva quel guantone da prenditore, il sinistro. Lui era mancino. La cosa descrittiva di quel guanto, però, era che c’erano scritte delle poesie su tutte le dita e il palmo e dappertutto. In inchiostro verde. Ce le aveva scritte lui, così aveva qualcosa da lettere quando stava ad aspettare e nessuno batteva. Ora è mor-to. Gli è venuta la leucemia ed è morto quando stavano nel Maine, il 18 luglio del 1946. Vi sarebbe piaciuto. Aveva due anni meno di me, ma era cinquanta volte più intelligente di me. Era di un’intelligenza fantastica. I professori non facevano che scrivere a mia madre per dirle com’erano contenti di avere in classe un ragazzo come Allie. E non è che facessero tanto per dire. Dicevano sul serio. Ma non era soltanto il più intelligente della famiglia. Era anche il più simpatico, in centomila modi. Non perdeva mai le staffe con nessuno. Dicono che i rossi di capelli perdono le staffe molto facilmente, ma Allie mai,

    1. mille sacchi : mille dollari.

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    ed era rossissimo. Ora vi dico che specie di rosso era Allie. Io ho cominciato a giocare a golf che avevo solo dieci anni. Mi ricordo che una volta, l’estate che ero sui dodici anni, stavo per dare il colpo eccetera eccetera, e mi è ve-nuto come un lampo che se mi giravo di scatto vedevo Allie. Mi son girato, ed eccotelo là, stava seduto sulla sua bicicletta dall’altra parte dello steccato – c’era quello steccato che girava tutt’intorno al campo – e lui stava seduto là, a duecento metri da me, a guardarmi tirare. Ecco che razza di rosso era Allie. Dio, era un ragazzo in gamba, però. A tavola rideva così forte per qualche cosa che gli girava per la testa, che quasi ruzzolava giù dalla sedia. Aveva solo tredici anni e loro volevano farmi psicanalizzare e compagnia bella perché avevo spaccato tutte le finestre del garage. Non posso biasimarli. No, fran-camente. Ho dormito nel garage, la notte che lui è morto, e ho spaccato col pugno tutte quelle dannate finestre, così, tanto per farlo. Ho tentato anche di spaccare tutti i finestrini della giardinetta che avevamo quell’estate, ma a quel punto mi era già rotto la mano eccetera eccetera, e non ho potuto. È stata una cosa proprio stupida, chi lo nega, ma io quasi non sapevo nemme-no quello che stavo facendo, e poi voi non conoscevate Allie. La mano ogni tanto mi fa ancora male, quando piove e compagnia bella, e io non posso più stringere il pugno – ben stretto, voglio dire – ma tolto questo non me ne importa molto. Voglio dire che in qualunque caso non diventerò mai un dan-nato chirurgo e nemmeno un violinista né niente. Ad ogni modo, ecco su che cosa feci il tema di Stradlater. Il guantone di baseball del vecchio Allie. Per caso l’avevo là nella valigia, così lo tirai fuori e copiai le poesie che c’erano scritte sopra. Non dovetti far altro che cambiare il nome di Allie, in modo che nessuno capisse che era mio fratello, e non il fratello di Stradlater. Non è che quel tema mi mandasse molto in estasi, ma non mi veniva in mente nient’altro di descrittivo. Del resto, mi andò abba-stanza a genio di scrivere quella storia. Mi ci volle un’oretta, perché dovetti usare quella schifa macchina da scrivere di Stradlater che continuava a pian-tar grane. La mia l’avevo prestata a un ragazzo che stava in fondo al corrido-io, ecco perché non potevo usarla. Finii che erano circa le dieci e mezzo. Non ero stanco, però, così me ne re-stai per un po’ guardare fuori della finestra. Non nevicava più, ma ogni tanto potevi sentire una macchina chi sa dove che non riusciva a mettersi in moto. Potevi sentire anche il vecchio Ackley che russava. Attraverso quelle dannate tende della doccia, potevi sentirlo. Aveva la sinusite, e quando dormiva non respirava tanto bene. Le aveva tutte lui, quello là. Sinusite, foruncoli, denti schifi, alito cattivo, unghie sozze. Come facevi a non compatirlo un po’, quel-lo svitato figlio di puttana. [...]

    Quando Stradlater ritorna in collegio, dopo aver trascorso la serata fuori con una ragazza, si interessa del suo tema.

    Mentre si toglieva la cravatta, mi domandò se avevo fatto il suo maledetto tema. Io gli dissi che stava sul suo dannatissimo letto. Lui andò a prenderlo e lo lesse, sbottonandosi la camicia. Stava lì in piedi a leggerlo e si accarezzava un po’ il petto e lo stomaco, con quell’idiotissima espressione sulla faccia. Stava sempre ad accarezzarsi lo stomaco o il petto, lui. Si piaceva alla follia. Tutt’a un tratto disse: – Cristo santo, Holden. Quest’accidente parla di un maledetto guantone da baseball. – E allora? – dissi io. Freddo come il ghiaccio. – Che vuol dire, e allora ? Ti avevo detto che doveva parlare di una stanza o di una casa o di un accidente così.

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    – Hai detto che doveva essere descrittivo. Che ti frega se parla di un guan-tone da baseball? – Dio lo stramaledica –. Aveva un diavolo per capello. Era addirittura fu-rioso. – Tu fai sempre tutto a culoverso –. Mi guardò. – Naturale che ti sbattono fuori da qui, – disse. – Mai che tu faccia una dannata cosa come va fatta. Dico sul serio. Mai neanche una dannata cosa-– Benissimo, ridammelo, allora, – dissi. Gli andai vicino e glielo tolsi da quel-la maledetta mano. Poi lo strappai. – Perché diavolo l’hai strappato? – disse lui. Non gli risposi nemmeno. Mi limitai a buttare i pezzi nel cestino della carta; poi mi sdraiai sul letto.

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    PER LAVORARE SUL TESTO

    ●● Interessante rilevare quanto vivo sia in Holden il ricordo del fratello minore morto di leucemia. È il guanto da baseball di Allie che Holden sceglie come argomento del tema. Ciò che viene ricordato con struggente nostalgia è il ragazzino scomparso, ben diverso dal narratore, migliore di lui da tutti i punti di vista. Alla sua morte Holden ebbe una reazione tal-mente violenta da mettere in pericolo la propria incolumità

    fisica. È passato del tempo da quel triste momento, ma Allie è ancora presente nella mente e nel cuore del protagonista e la descrizione del guanto gli «va a genio». La reazione di Stradlater alla lettura del tema «descrittivo» scelto dall’amico è dettata dall’ira, ma non poteva essere diversa se si pensa che il compagno di stanza di Holden è un ragazzo superficia-le, vanitoso e privo di sensibilità.

    Analisi di un testo in prosa 1a prova, tip. A

    VERSO L’ESAME

    COMPRENSIONE DEL TESTO

    Il riassunto1. Riassumi il testo in circa 8 righe.

    Sabato sera2. Che cosa pensa Holden del sabato sera a Pencey? Quel

    sabato sera è rallegrato da qualcosa di insolito. Come accolgono la novità i ragazzi?

    Holden e la morte di Allie3. Come viene descritto da Holden Allie? Che cosa rivela

    del carattere di Holden quella descrizione?

    Il tema strappato4. Holden strappa il tema criticato dal compagno: quale

    aspetto del suo carattere emerge da questa reazione?

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    Il giovane Holden

    Sdraiato sul letto, Holden cerca di sapere che cosa abbia fatto il compagno con Jane Gallagher. Sente di odiar-lo e comincia a insultarlo incurante delle proteste dell’altro e delle sue richieste di smetterla. Stradlater gli sferra allora un pugno che lo stende a terra e gli fa sanguinare abbondantemente il naso. Holden passa nella stanza di Ackley, si sdraia sul secondo letto della stanza «a pensare a Jane e tutto quanto». Poi esce nel corridoio che gli sembra «silenzioso e deprimente da morire». È a questo punto che Holden decide di fuggire: prenderà il treno e andrà a New York, ma non si recherà subito a casa.Giunto a New York, Holden vorrebbe telefonare a qualcuno, ma non riesce a pensare a chi. Prende allora un taxi e si fa portare all’Edmont, un albergo squallido, pieno di «pervertiti e sudicioni», come presto scopre. Dopo aver fatto alcune telefonate poco soddisfacenti, va al nightclub dell’albergo, dove balla, beve e, all’ora di chiu-sura, si siede nell’atrio e pensa con nostalgia a Jane Gallagher, «la vecchia Jane». Poi va in un altro nightclub e, finalmente, torna all’albergo. Il giorno dopo è domenica. Holden telefona a Sally Hayes, una vecchia amica, la porta a pattinare sul ghiaccio, poi stanco dell’ipocrisia che incontra dappertutto, le chiede di fuggire con lui nell’aperta campagna nel New England. Questo progetto poco realistico fa adirare Sally che lo rifiuta con fermezza suscitando nel suo compagno una reazione violenta che si manifesta con parolacce. I due litigano; Holden lascia Sally alla pista di pattinaggio e va prima a vedere un film che, naturalmente, non gli piace, poi al bar a ubriacarsi. Entra in seguito in una cabina telefonica del locale, chiama Sally e si riconcilia con lei.

    IL FILO DEL RACCONTO

    Dopo aver fatto la pace con l’amica Sally, Holden, ubriaco, rimane nella cabina telefonica perché a fatica si regge in piedi. Non sa che cosa fare.

    Il giovane Holden, cap. XX

    Pensieri di morte

    Contenuti

    ┛┛ La solitudine e la depressione di Holden

    Restai in quella dannata cabina telefonica per un pezzo. Continuavo a reg-germi al telefono, in certo qual modo, se no crollavo. Non mi sentivo in gran forma, se volete proprio saperlo. Finalmente, però, uscii di là e andai alla toletta degli uomini, rullando come un cretino, e riempii un lavabo di acqua fredda. Poi ci tuffai dentro la testa fino alle orecchie. Non mi curai nemmeno di asciugarla né niente. Che quella figlia di puttana gocciolasse, amen. Poi andai al termosifone vicino alla finestra e mi ci sedetti sopra. Era caldo e gra-devole. Mi faceva sentir bene perché stavo tremando come un idiota. È una cosa buffa, quando mi sbronzo tremo sempre a tutto spiano. Non avevo nient’altro da fare, sicché me ne restai seduto sul termosifone a contare quei piccoli riquadri bianchi del pavimento. Mi stavo inzuppando. L’acqua mi gocciolava sul collo a litri e finiva tutta sul colletto e sulla cravatta e compagnia bella, ma non me ne importava un accidente. Ero troppo ciucco per badarci. [...] Quando alla fine scesi dal termosifone e mi diressi al guardaroba, stavo piangendo e tutto quanto. Vattelappesca perché, ma piangevo. Forse perché mi sentivo così maledettamente solo e depresso, immagino. Poi, quando ar-rivai al guardaroba, Dio solo da dove avevo messo quel maledetto scontrino. La ragazza del guardaroba fu molto carina, però. Mi diede il soprabito lo

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    stesso. E il mio disco di Little Shirley Beans1 – che ce l’avevo ancora e via di-scorrendo. Le diedi un dollaro perché era stata così carina, ma lei non volle prenderlo. Continuava a dirmi di andare a casa e di mettermi a letto. Feci qualche tentativo di darle un appuntamento per quando smontava dal lavo-ro, ma lei non volle. Disse che era abbastanza vecchia per essere mia madre e via discorrendo. Io le feci vedere i miei stramaledetti capelli bianchi e le dissi che avevo quarantadue anni – per scherzo, naturalmente. Era carina, però. Le feci vedere quel mio dannato berretto rosso da cacciatore e le piacque. Prima che uscissi me lo fece mettere perché avevo ancora i capelli fradici. Era proprio in gamba. Quando uscii non mi sentivo più tanto sbronzo, ma era tornato un gran freddo e cominciai a battere i denti come un dannato. Non riuscivo a tratte-nermi. Andai fino alla Madison Avenue e mi misi ad aspettare un autobus, perché non avevo quasi più soldi e dovevo cominciare a far economia sui tassi e via discorrendo. E del resto, non sapevo nemmeno dove andare. Così andò a finire che mi incamminai verso il parco. Mi venne l’idea di andare a quel laghetto per vedere che diavolo facessero le anitre, se c’erano o no. Ancora non sapevo se c’erano o no. Il parco non era molto lontano e io non avevo nessun altro posto dove andare – non sapevo nemmeno dove sarei andato a dormire – così andai là. Non avevo sonno né niente. Avevo solo una malinconia del diavolo. Poi, proprio mentre entravo nel parco, successe una cosa terribile. Mi cadde di mano il disco della vecchia Phoebe. Si ruppe in cinquanta pezzi a dir poco. Era in una grossa busta tutto quanto, ma si ruppe lo stesso. A mo-menti piangevo, mi sentivo in un modo terribile, ma non feci altro che tirare fuori pezzi dalla busta e mettermeli nella tasca del soprabito. Non servivano più a un accidente, ma non me la sentivo di buttarli via. Poi andai nel parco. Ragazzi, che buio! Ho passato a New York tutta la mia vita e conosco Central Park come le mie tasche, perché da bambino ero sempre là a pattinare e a scorrazzare in bicicletta, ma quella notte sudai sette camicie a trovare quel lago. Sape-vo benissimo dov’era – era proprio a due passi da Central Park South e via discorrendo – ma non mi riusciva di trovarlo. Dovevo essere più ciucco di quanto credessi. Continuavo a camminare, un passo dietro l’altro, e intor-no a me tutto diventava sempre più buio e sempre più spettrale. Non vidi un’anima per tutto il tempo che restai nel parco. Meglio così. Probabilmente avrei fatto un balzo di almeno un chilometro, se avessi incontrato qualcuno. Poi, alla fine, lo trovai. Era mezzo gelato e mezzo no, ecco com’era. Ma non vidi nemmeno un’anitra. Feci tutto il giro di quel maledetto lago – a un certo punto per poco non ci cascavo dentro, anzi – ma non vidi un’anitra neanche a pagarla. Pensai che forse non ce n’erano, come niente dormivano o che so io vicino all’orlo dell’acqua, vicino all’erba e compagnia bella. Fu così che per poco non ci cascavo dentro. Ma non ne trovai neanche una. Alla fine mi sedetti su quella panchina, e là non c’era quel buio d’inferno. Ragazzi, stavo ancora tremando come un idiota, e con tutto che avevo in testa il mio berretto da cacciatore i capelli dietro, mi si erano come riempiti di pic-coli pezzetti di ghiaccio. Questo mi preoccupava. Come niente mi prendevo la polmonite e morivo, pensai. Allora mi misi a figurarmi i milioni di balordi che sarebbero venuti al mio funerale eccetera eccetera. Mio nonno di Detroit, quello che quando andate in autobus con lui dice forte i numeri delle strade, e le mie zie – ho una cinquantina di zie – e tutti quei pidocchiosi dei miei cugini. Che ciurma ci sarebbe stata! Vennero tutti quando morì Allie, tutta quella dannata banda di cretini. Ho quella zia cretina con l’alito cattivo che

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    701. il mio disco ... Beans: un disco che Holden ha comprato per la sorelli-na Phoebe.

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    Il giovane Holden

    non la finiva più di dire che Allie aveva un’aria così serena, lì disteso. Me l’ha raccontato D.B. Io non c’ero. Stavo ancora in ospedale. Ero dovuto andare in ospedale e tutto quanto, dopo essermi fatto male alla mano. Ad ogni modo continuavo a preoccuparmi che stavo buscandomi una polmonite, con tutti quei pezzetti di ghiaccio nei capelli, e che sarei morto. Mi dispiaceva enorme-mente per mia madre e mio padre. Soprattutto per mia madre, perché non si era ancora ripresa dopo mio fratello Allie. Continuavo a raffigurarmela che non sapeva cosa fare di tutti i miei vestiti e l’attrezzatura sportiva e compa-gnia bella. Una sola cosa andava bene: sapevo che non avrebbe permesso alla vecchia Phoebe di andare al mio maledetto funerale perché era soltanto una ragazzina. Questa era l’unica cosa che andasse bene. Poi pensai a tutti loro in gruppo che mi ficcavano in un dannato cimitero e via discorrendo, col mio nome sulla lapide, e via discorrendo. In mezzo a tutti quei morti. Ragazzi, quando morite vi servono di tutto punto. Spero con tutta l’anima che quando morirò qualcuno avrà tanto buonsenso di scaraventarmi nel fiume o qualco-sa del genere. Qualunque cosa, piuttosto che ficcarmi in un dannato cimite-ro. La gente che la domenica viene a mettervi un mazzo di fiori sulla pancia e tutte quelle cretinate. Chi li vuole i fiori, quando sei morto? Nessuno. Quando fa bel tempo, i miei genitori vanno spessissimo a mettere un maz-zo di fiori sulla tomba del vecchio Allie. Sono andato con loro un paio di volte, poi ho smesso. Tanto per cominciare, non mi diverte proprio vederlo in quel cimitero pazzesco. In mezzo ai morti e alle tombe e compagnia bella. Ancora ancora quando c’era il sole, ma ben due volte – due volte – eravamo là quando cominciò a piovere. Era spaventoso. Pioveva sulla sua lapide schifa, e pioveva sull’erba sulla sua pancia. Dappertutto, pioveva. Tutti quelli che erano andati a visitare il cimitero si misero a correre a gambe levate verso le loro automobili. Fu questo a farmi quasi impazzire. Tutti quelli che erano andati a visitare il cimitero si misero a correre a gambe levate verso le loro automobili. Fu questo a farmi quasi impazzire. Tutti quanti potevano entrare nelle loro automobili e aprire la radio e tutto quanto e poi andare a cena in qualche posto gradevole – tutti, fuorché Allie. Non potevo sopportarlo. Lo so che al cimitero c’è soltanto il suo corpo eccetera eccetera e che la sua anima è in cielo e tutte quelle cretinate, ma non potevo sopportarlo lo stesso. Vor-rei soltanto che non fosse là. Voi non lo conoscevate. Se l’aveste conosciuto, capireste cosa voglio dire. Ancora ancora quando c’è il sole, ma il sole viene fuori quando gli gira. Dopo un po’, tanto per togliermi dalla testa quell’idea che mi buscavo la polmonite e via discorrendo, tirai fuori i miei soldi e mi misi a contarli alla luce schifa dal lampione. Tutto quello che mi restava erano tre colpi da uno2, cinque da un quarto e un nichel3 – ragazzi, avevo spesso un patrimonio da quando ero partito da Pencey. Allora andò a finire che mi avvicinai al lago e feci a rimbalzello con le monete da un quarto e il nichel, là dove non c’era il ghiaccio. Perché lo feci non lo so, ma so che lo feci. Forse pensavo che mi avrebbe tolto dalla testa quell’idea di buscarmi la polmonite e di morire, im-magino. Però non me la tolse. Cominciai a pensare che effetto avrebbe fatto alla vecchia Phoebe se mi fossi buscato la polmonite e fossi morto. Erano idee da asilo infantile, ma non riuscivo a smettere. Sarebbe stata molto male se fosse successa una cosa simile. Le vado proprio a genio. Voglio dire, mi vuole molto bene. Sul serio. Ad ogni modo, non riuscivo a togliermi dalla testa quell’idea, sicché alla fine mi venne in mente quello che avrei fatto, mi venne in mente che era meglio se andavo a casa di nascosto e vedevo Phoebe, nell’ipotesi che fossi morto e via discorrendo. Avevo la mia chiave e tutto quanto, sarei entrato di nascosto

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    2. tre colpi da uno: tre pezzi da un dollaro.3. un nichel: un cente-simo di dollaro.

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    nell’appartamento, piano piano e tutto quanto, e mi sarei fermato il tempo di far quattro chiacchiere con lei. L’unica cosa che mi preoccupava era la porta d’ingresso. Cigola come una dannata. È una casa piuttosto vecchia, la nostra, e l’amministratore è un bastardo sfaticato, e tutto cigola e scricchiola. Avevo paura che i miei genitori mi sentissero entrare. Ma decisi che avrei tentato lo stesso. Così me ne uscii subito dal parco e andai a casa. Feci tutta la strada a pie-di. Non era tanto lontano, e io non ero stanco e nemmeno più sbronzo. C’era solo un freddo terribile, e nemmeno un cane in giro.

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    PER LAVORARE SUL TESTO

    ●● Il brano si articola in tre parti:Nella prima parte Holden, che è ubriaco, cerca di riprender-si tuffando la testa nell’acqua fredda. Dopo aver lasciato il bar, non sapendo dove andare e che fare, si incammina verso Central Park che conosce bene. È molto malinconico e ha bisogno di compagnia, così va in cerca delle anitre che vi-vono nel lago del parco. Fatica a trovare il lago e non trova neppure un’anitra. Per poco non cade nell’acqua. Ha freddo perché è inverno e perché ha ancora la testa bagnata. Teme di prendersi una polmonite e di morire;Nella seconda parte l’idea della morte mette in moto la fantasia del ragazzo che, seduto su una panchina del parco,

    nell’oscurità e al freddo, immagina il suo funerale e i «milioni di balordi che vi andrebbero». I particolari che dà ai lettori sono indice di uno stato d’animo cupo e tormentato. Il tono è vario: a volte serio, a volte ironico, sprezzante, perfino blasfe-mo, a volte affannoso nei particolari e nei pensieri collegati alla famiglia, specialmente alla madre e alla sorellina;Nella terza parte, che conclude il brano, i pensieri della morte tanto insistiti cedono brevemente il posto al gioco, e Holden fa a rimbalzello sul lago con le poche monete che gli sono rimaste. Ma non è tutto: il ricordo della sorellina gli per-mette di prendere finalmente una decisione positiva: andrà a casa a vedere Phoebe e «a fare quattro chiacchiere con lei».

    Analisi di un testo in prosa 1a prova, tip. A

    VERSO L’ESAME

    COMPRENSIONE DEL TESTO

    Central Park1. Perché Holden va a Central Park? È un luogo che gli

    è familiare?2. Un’attività riesce a sollevare un po’ lo spirito del ragaz-

    zo. Descrivila e cerca di attribuirle un significato.

    I pensieri di Holden3. L’idea della morte mette in moto la fantasia del ragaz-

    zo. In quale direzione?4. Quali particolari del suo immaginario funerale ti sem-

    brano più commoventi? Quali più tetri?5. Quale pensiero fa allontanare Holden dal parco in

    quella notte fredda e buia?

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    Giunto nell’atrio di casa, Holden riesce a raggiungere la porta del suo appartamento senza destare i sospetti dell’addetto all’ascensore. Vuole soltanto «dare un salutino» a Phoebe e poi andarsene senza che nessuno sappia della sua visita.Holden, che ha la chiave di casa in tasca, entra in silenzio nell’appartamento perché non vuole essere visto dai genitori che lo credono ancora in collegio e non sanno nulla della sua espulsione da Pencey. Entra nella camera della sorellina, ma non la trova: dorme nella stanza del fratello maggiore (che Holden chiama D.B.) quando questo è lontano da casa come ora. La sua intenzione è di andarsene lontano per sempre dopo averla salutata.

    Il giovane Holden, capp. XXI-XXII

    Solo con Phoebe

    Contenuti

    ┛┛ Il rifiuto del mondo degli adulti

    Stavo seduto là alla scrivania di D.B. e mi lessi tutto il notes1. Non mi ci volle molto, e io sono capace di passare tutto il giorno e tutta la notte a leggere cose di questo genere, il notes di un pivello, che sia Phoebe o vattelappesca. I notes dei pivelli mi lasciano secco. Poi accesi un’altra sigaretta – era l’ultima. Devo averne fumati tre pacchetti almeno, quel giorno. Poi, finalmente, la sve-gliai. Voglio dire, non potevo mica passare tutta la vita seduto a quella scriva-nia, e del resto avevo paura che da un momento all’altro mi piombassero tra capo e collo i miei genitori e prima volevo almeno salutarla. Così la svegliai. Lei non ci vuole niente a svegliarla. Voglio dire, non c’è bisogno di gridare né niente. In pratica, basta sedersi sul suo letto e dirle «Svegliati, Phoebe», e pam, eccola sveglia. – Holden! – disse subito. Mi buttò le braccia al collo eccetera eccetera. È molto affettuosa. Voglio dire, è molto affettuosa, per essere una bambina. Certe volte è perfino troppo affettuosa. Io le diedi un bacetto e lei disse: – Quando sei ritornato? – Era felice come una pasqua. Si vedeva lontano un miglio. – Parla piano. Adesso. Come stai, prima di tutto? – Bene. Hai avuto la mia lettera? Ti ho scritto ben cinque pagine... – Sì, parla piano. Grazie. Mi aveva scritto quella lettera. Io però non ero riuscito a risponderle. Non parlava che di quella recita di scuola nella quale aveva una parte. Mi aveva detto di non prendere impegni né niente per venerdì, perché dovevo andare a vederla. – Come va la recita? – le domandai- – Come hai detto che è intitolata? – Parata di Natale per gli Americani. È uno schifo, ma io faccio Benedict Arnold2. Praticamente è la parte principale, – disse. Ragazzi, era altro che sveglia. Si entusiasma moltissimo quando vi racconta queste cose. – Comin-cia che io sto morendo. E allora la vigilia di Natale viene questo fantasma e mi domanda se non mi vergogno eccetera eccetera. Sai, perché ho tradito il mio paese eccetera eccetera. Ci vieni? – Si era messa a sedere sul letto e via dicendo. – È di questo che ti ho scritto. Ci vieni? – Certo che ci vengo. Ci vengo senz’altro. – Papà non può venire. Va in California in aereo, – disse. Ragazzi, era altro che sveglia. A lei le bastano sì e no due secondi per svegliarsi completamente. Stava seduta sul letto – mezzo inginocchiata – e teneva stretta la mia dannata mano. – Senti un po’. Mamma aveva detto che venivi a casa mercoledì, – disse – Ha detto mercoledì. – Sono venuto via prima, parla piano. Svegli tutti. – Che ora è? Torneranno a casa molto tardi, ha detto mamma. Sono anda-

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    1. il notes : un notes scritto da Phoebe.2. Benedict Arnold : (1741-1801) generale che combatté per l’in-dipendenza degli Stati Uniti dall’Inghilterra. Poi passò dalla parte degli inglesi.

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    ti a un ricevimento a Norwalk nel Connecticut, – disse la vecchia Phoebe. – Hanno detto a che ora sarebbero tornati? – No, ma molto tardi. Papà ha preso la macchina e tutto, così non dove-vano preoccuparsi per i treni. Ci abbiamo messo la radio, adesso! Solo che mamma ha detto che nessuno può aprirla quando siamo in mezzo al traffico. Io cominciai un po’ a rilassarmi. Voglio dire che finalmente smisi di star lì a pensare se mi beccavano in casa o no. Mandai tutto all’inferno. Se mi beccavano, amen. [...] Poi cominciò a guardarmi in modo strano. – Holden, – disse, – com’è che non sei venuto mercoledì? – Come? Ragazzi, quella non si può perderla d’occhio un momento. Se credete che non sia furba, siete matti. – Com’è che non sei venuto mercoledì? – mi domandò – Non ti sarai mica fatto buttare fuori o qualcosa del genere, per caso? – [...] Ci hanno fatto parlare prima. Hanno fatto andar via tutta... – Ti hanno buttato fuori! Ti hanno buttato fuori! – disse la vecchia Phoebe. Poi mi diede un pugno sulla gamba. È molto portata a dar pugni, quando le gira. – Ti hanno buttato fuori! Oh, Holden! – Si teneva la mano sulla bocca eccetera eccetera. È molto emotiva, parola d’onore. – Chi l’ha detto che mi hanno buttato fuori? Nessuno ha detto che... – È così. È così, – disse lei. Poi mi mollò un altro pugno. Se credete che non fa male, siete scemi. – Papà ti ammazza! – disse. Poi si buttò a pancia sotto sul letto e si mise sul viso quel dannato cuscino. Lo fa spessissimo. È proprio matta, certe volte. – E smettila avanti! – dissi. – Nessuno si sogna di ammazzarmi. Nessuno si sogna nemmeno... Andiamo, Phoebe, togliti quel maledetto arnese dalla faccia. Nessuno si sogna di ammazzarmi. Lei però non se lo volle togliere. Nessuno può farle fare una cosa, se lei non vuole. Continuava a dire «Papà ti ammazza» e nient’altro. Non si riusciva nemmeno a capirla, con quel dannato cuscino sulla faccia. [...] Alla fine andai nella stanza di soggiorno, presi un po’ di sigarette dalla scatola sul tavolo e me ne misi qualcuna in tasca. Ero stanco morto. Quando tornai, il cuscino dalla faccia se l’era tolto – questo lo sapevo – ma ancora non voleva guardarmi, con tutto che stava sdraiata sulla schiena ec-cetera eccetera. Quando girai intorno al letto e mi sedetti di nuovo, lei volse quella sua faccia stralunata dall’altra parte. Mi stava mettendo al bando con tutti i crismi. Proprio come la squadra di scherma di Pencey, quella volta che avevo lasciato sulla metropolitana tutti quei dannati fioretti. – Papà ti ammazza. Ragazzi, quando le viene un pallino non c’è niente da fare. – Ma no che non mi ammazza. Male che vada, mi dà un altro liscio e bus-so e poi mi spedisce a quella maledetta scuola militare. Questo è tutto quello che mi fa. E tanto per cominciare, io non ci sarò nemmeno. Sarò via. Sarò... probabilmente sarò nel Colorado in quel ranch. – Non farmi ridere. Non sai nemmeno andare a cavallo. Poi, tutt’a un tratto, disse: – Oh, ma perché l’hai fatto? – Voleva dire per-ché mi ero fatto buttare fuori un’altra volta. Mi diede una certa tristezza, come lo disse. – O Dio, Phoebe, non stare a far domande. Ne ho piene le tasche di tutti quanti che mi domandano la stessa cosa, – dissi. – Ci sono perché da vendere. Era una delle scuole peggiori che mi sia mai capitata. Piena di gente balorda. E gretta. Mai vista tanta gente gretta in vita tua.

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    Allora la vecchia Phoebe disse qualcosa, ma non riuscii a sentirla. Aveva l’angolo della bocca schiacciato contro il cuscino e non riuscii a sentirla. – Come? – dissi. – Tira via la bocca di là. Non riesco a sentirti, se tieni la bocca in quel modo. – A te non ti piace niente di quello che succede. Quando disse così mi fece sentire ancora più depresso. – Ma sì che mi piace? Sì che mi piace! Naturale che mi piace. Non dire così. Perché diavolo dici così? – Perché non ti piace. Non ti piace nessuna scuola. Non ti piacciono un milione di cose. Non ti piace. – Invece sì! Qui hai torto, è proprio qui che hai torto! Perché diavolo devi dire così? – dissi. Ragazzi, quanto mi deprimeva. – Perché non ti piace – disse. – Dinne una. – Una? Una cosa che mi piace? – dissi. – D’accordo. Il guaio era che non riuscito a concentrarmi troppo. È difficile concen-trarsi, certe volte. – Una cosa che mi piace molto, vuoi dire? – le domandai. Ma lei non mi rispose. Stava tutta scontorta e capovolta dall’altra parte del letto. A mille miglia di distanza. – Avanti, rispondimi – dissi. – Una cosa che mi piace molto, o che mi piace soltanto? – Che ti piace molto. – Benissimo, – dissi. Ma il guaio era che non riuscivo a concentrarmi. – Non riesci a trovare nemmeno una cosa. – Ma sì. Ma sì. – Be’, allora dilla. – Mi piace Allie, – dissi. – E mi piace fare quello che sto facendo adesso. Stare seduto qui con te a parlare, e a pensare alle cose, e... – Allie è morto. Dici sempre la stessa cosa! Se uno è morto eccetera ecce-tera e sta in cielo, non è veramente... – Lo so che è morto! Credi che non lo sappia? Ma mi può ancora piacere, no? Non è mica che uno non ti piace più solo perché è morto, Dio santo, spe-cie se è mille volte meglio della gente viva che conosci e compagnia bella. La vecchia Phoebe non disse niente. Quando non trova niente da dire, non dice più mezza dannata parola. – Ad ogni modo, mi piace ora, – dissi. – Proprio adesso, voglio dire. Stare seduto qui con te a fare quattro chiacchiere e a scherzare... – Questa non è una vera cosa! – È una vera cosa eccome! Certo che lo è. Perché diavolo non lo è? La gen-te non crede mai che una cosa sia una vera cosa. Ne ho arcipiene le maledette tasche! – Smettila di bestemmiare. Va bene, dimmi qualcos’altro. Dimmi che cosa ti piacerebbe essere. Come uno scienziato. O un avvocato o qualche cosa. – Non potrei essere uno scienziato. In scienze sono una schiappa. – Be’, un avvocato, come papà e compagnia bella. – Gli avvocati sono in gamba, direi, ma non mi attira, – dissi. – Voglio dire, sono in gamba se vanno in giro tutto il tempo a salvare la vita degli innocenti e roba simile, ma se sei avvocato queste cose non le fai. Tutto quello che fai è accumulare soldi giocare a golf giocare a bridge comprare macchine bere martini e aver l’aria dell’alto papavero. E del resto! Anche se te ne vai in giro a salvare la vita della gente e via discorrendo, chi ti dice che lo fai perché vuoi veramente salvare la vita della gente, e non perché in realtà quello che vuoi è soltanto di essere un fenomeno di avvocato, con tutti quanti che ti dànno manate sulla schiena e ti fanno le congratulazioni in tribunale quando il ma-

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    ledetto processo è finito e i giornalisti e tutti quanti, come si vede in quegli sporchi film? Chi ti dice che non sei uno sbruffone? Non lo sapresti mai, ecco il guaio. Non sono ben sicuro che la vecchia Phoebe capisse di che diavolo parlavo. Voglio dire, in fondo non è che una bambina e via discorrendo. Però stava a sentire, almeno. Se qualcuno almeno vi sta a sentire non è tanto brutto. – Papà ti ammazza. Vedrai che ti ammazza, – disse. Ma io non la sentivo. Stavo pensando a un’altra cosa – una cosa pazze-sca- – Sai cosa mi piacerebbe fare? – dissi. – Sai cosa mi piacerebbe fare? Se potessi fare quell’accidente che mi gira, voglio dire. – Cosa? Smettila di bestemmiare. – Sai quella canzone che fa «Se scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo qualcuno»? Io vorrei... – Dice «Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno», – dis-se la vecchia Phoebe. – È una poesia. Di Robert Burns3. – Lo so che è una poesia di Robert Burns. Però aveva ragione lei. Dice proprio «Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno». Ma allora non lo sapevo. – Credevo che dicesse «E ti prende al volo qualcuno», dissi. – Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e in-torno non c’è nessuno altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono sen-za guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella se-gale4 e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che una pazzia. La vecchia Phoebe non disse niente per molto tempo. Poi, quando final-mente si decise a dire qualcosa, tutto quello che disse fu: – Papà ti ammazza.

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    3. Robert Burns: (1759-1796) poeta scozzese.4. l’acchiappatore nel- la segale: è il titolo del romanzo nell’originale americano The Catcher in the Rye.

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    Il giovane Holden

    PER LAVORARE SUL TESTO

    ●● Questo brano rappresenta il momento clou del romanzo. Il giovane contestatore, sempre pronto a ridire su tutto – persone, scuole, professioni – riesce a indicare, con grande fatica, alla sorella due «cose che gli piacciono»: il fratello morto e lo stare vicino a lei «a parlare, e a pensare alle cose». Ma Phoebe gliele scarta con buone ragioni e gli chie-de poi che cosa gli piacerebbe essere. Non uno scienziato, non un avvocato, risponde Holden. Egli non vorrebbe es-sere o fare nulla di quanto è considerato importante nella

    società “bene” americana. Il suo rifiuto dell’universo degli adulti ha come rovescio della medaglia – o diritto, secondo il punto di vista – il primato dell’adolescente: non sempre responsabile, ma generoso, desideroso di affetto, di sinceri-tà e di guida onesta e disinteressata. L’unica cosa, anche se «pazzesca», che a Holden piacerebbe fare è salvare i «ragaz-zini» dai pericoli della vita; è una proiezione fantastica di un ideale padre-maestro per se stesso.

    Analisi di un testo in prosa 1a prova, tip. A

    VERSO L’ESAME

    COMPRENSIONE DEL TESTO

    L’incontro tra Phoebe e Holden1. Come accoglie Phoebe la visita del fratello?2. Quando si rende conto che Holden è stato espulso dal

    collegio, come reagisce?

    Le scelte di Holden3. A Holden piacciono due sole cose: Allie e «parlare» con

    la sorellina. Del carattere di Holden, che cosa eviden-ziano queste scelte?

    4. Holden come motiva il suo rifiuto di diventare scien-ziato o avvocato?

    ANALISI DEL TESTO

    L’«acchiappatore nella segale»5. Cerca di spiegare che cosa significhi per Holden essere

    un «acchiappatore nella segale».

    La contestazione di Holden6. Qual è l’atteggiamento di Holden nei confronti della

    società e del mondo degli adulti? In che cosa consiste la sua contestazione?

    Holden telefona al professor Antolini, un suo ex insegnante di inglese, il quale, avendo saputo dell’espulsione da Pencey, invita il ragazzo a casa sua.Holden è contento di avere un luogo dove trascorrere la notte, ma, prima di andarsene, torna da Phoebe e balla allegramente con lei. Improvvisamente rincasano i genitori che hanno trascorso il fine settimana fuori città.Holden si nasconde nel ripostiglio e non viene scoperto. Prima di lasciare Phoebe, le chiede un po’ di denaro e la sorella gli dà tutti «i soldi di Natale», otto dollari e ottantacinque cents. Tanta generosità commuove profon-damente il fratello, che scoppia in lacrime, l’abbraccia e scappa via.A casa di Antolini tutto sembra normale: il professore parla con l’ex alunno molto seriamente, gli fa capire che è immaturo e gli fa leggere un pensiero scritto da uno psicanalista: «Ciò che distingue l’uomo immaturo è che vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che distingue l’uomo maturo è che vuole umilmente vivere per essa». Ma Holden non se la sente di concentrarsi, è «maledettamente stanco». Va subito a letto e si addormenta profondamente. A un tratto si sveglia perché qualcuno gli sta accarezzando la testa: è il professor Antolini. Lo shock è tale che il ragazzo se ne va immediatamente con una scusa e passa il resto della notte nella sala d’aspetto della stazione centrale.

    IL FILO DEL RACCONTO

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    Il giovane Holden

    Quando Holden lascia la sala d’aspetto della stazione centrale comincia appena a fare gior-no. Decide di fare una passeggiata per New York, ma è molto depresso. È ora giunto alla Quinta Avenue.

    Il giovane Holden, capp. XXV-XXVI

    La fuga è finita

    Contenuti

    ┛┛ Il ritorno alla normalità

    Era lunedì1 e via discorrendo e mancava poco a Natale, e tutti i negozi erano aperti. Sicché non era tanto spiacevole camminare per la Quinta Avenue. Era alquanto natalizio. Fermi alle cantonate c’erano tutti quei Babbi Natale macilenti che suonavano i loro campanellini, e sonavano campanellini pure le ragazze dell’Esercito della Salvezza, quelle che vanno in giro senza rosset-to né niente. Io continuavo a guardarmi un po’ intorno. Poi, tutt’a un tratto, cominciò a succedermi una cosa dell’altro mondo. Ogni volta che arrivavo alla fine di un isolato e scendevo da quel maledetto marciapiede, avevo la sensazione che non sarei mai arrivato dall’altra parte della strada. Mi pareva che avrei continuato ad andare giù, giù, giù, e che nessuno mi avrebbe più ri-visto. Ragazzi, mi venne un accidente. Non potete nemmeno immaginarvelo. Cominciai a sudare come dio sa che – tutta la camicia e la biancheria, tutto! Poi cominciai a fare un’altra cosa. Ogni volta che arrivavo alla fine di un iso-lato, facevo finta di parlare con mio fratello Allie. «Allie, – gli dicevo, – non farmi scomparire. Allie, non farmi scomparire. Allie, non farmi scomparire. Allie, non farmi scomparire. Per piacere, Allie». E poi, quando raggiungevo l’altro marciapiede senza essere scomparso, gli dicevo grazie. E poi tutto dac-capo non appena arrivavo all’altra cantonata. Ma io continuavo a camminare eccetera eccetera. Avevo una certa paura di fermarmi, credo – francamente, non me ne ricordo. So che mi fermai soltanto un bel pezzo dopo la Sessante-sima, passato lo zoo e compagnia bella. Allora mi sedetti su quella panchina. Ero spompato e sudavo ancora come non si sa che. Rimasi seduto un’oretta, credo. Finalmente presi una decisione, la decisione di andarmene. Decisi che non sarei più tornato a casa e che non sarei mai più andato in un’altra scuo-la. Decisi che non sarei più tornato a casa e che non sarei mai più andato in un’altra scuola. Decisi che avrei visto soltanto la vecchia Phoebe per dirle addio e tutto quanto e ridarle i suoi soldi di Natale; e che poi mi sarei diretto all’ovest con l’autostop. Quello che dovevo fare, pensavo, era di andare al Holland Tunnel e farmi dare un passaggio, e poi farmi dare un altro pas-saggio, e poi un altro e un altro, e in pochi giorni sarei arrivato nell’ovest, in qualche bel posticino pieno di sole dove nessuno mi conosceva e mi sarei tro-vato un lavoro. Pensai che potevo trovar lavoro in qualche stazione di rifor-nimento a mettere benzina e olio nelle macchine. Ma non m’importava che genere di lavoro. Fintanto che loro non mi conoscevano e io non conoscevo loro. Quello che dovevo fare, pensai, era far finta d’essere sordomuto. Così mi sarei risparmiato tutte quelle maledette chiacchiere idiote e senza sugo. Se qualcuno voleva dirmi qualche cosa, doveva scrivermelo su un pezzo di carta e ficcarmelo sotto il naso. Dopo un po’ ne avrebbero avuto piene le tasche, e per il resto della vita non avrei più sentito chiacchiere. Tutti avrebbero pen-sato che ero un povero bastardo d’un sordomuto e mi avrebbero lasciato in pace. Mi avrebbero fatto mettere olio e benzina nelle loro stupide macchine, e in cambio mi avrebbero dato un salario eccetera eccetera, e con quei soldi io mi sarei costruito una capanna da qualche parte e ci avrei passato il resto

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    401. Era lunedì: Holden è fuggito dal collegio il sabato sera. La sua avventura dura tre gior-ni.

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    © 2014 - M. Sambugar, G. Salà - Letteratura & oltre

    Il giovane Holden

    della mia vita. Me la sarei costruita vicino ai boschi, ma non proprio nei bo-schi, perché volevo starmene in pieno sole tutto il tempo. Mi sarei fatto da mangiare io stesso, e in seguito, se volevo sposarmi o qualcosa del genere, avrei incontrato quella bella ragazza, sordomuta anche lei, e ci saremmo sposati. Sarebbe venuta a vivere con me nella mia capanna, e se voleva dirmi qualcosa doveva scriverlo su un maledetto pezzo di carta, come tutti gli altri. Se avessimo avuto dei figli li avremmo nascosti in qualche posto. Potevamo comprargli un sacco di libri e insegnargli a leggere e a scrivere. A forza di pensarci mi entusiasmai da matto. Quella faccenda di far finta di essere sordomuto era cretina e lo sapevo, ma mi piaceva lo stesso pensar-la. Però decisi davvero di andarmene all’ovest eccetera eccetera. Prima vo-levo soltanto salutare la vecchia Phoebe. Così, tutt’a un tratto, attraversai la strada correndo come un forsennato – a momenti mi facevo ammazzare, se proprio volete saperlo – e andai da quel cartolaio a comprare un blocchetto di carta e una matita. Pensavo di scriverle un biglietto per dirle dove ci sa-remmo incontrati, di modo ch’io potessi salutarla e restituirle i suoi soldi di Natale, e poi di portare il biglietto alla sua scuola e di farglielo consegnare da qualcuno della segreteria. Perciò mi cacciai in tasca il blocchetto e la matita e mi incamminai più in fretta che potevo verso la sua scuola – ero troppo frenetico per scrivere il biglietto nella cartoleria. Camminavo così in fretta perché volevo che avesse il biglietto prima di andare a casa a pranzo, e non mi restava molto tempo.

    Holden va alla scuola di Phoebe e scrive un biglietto alla sorellina dicendole che partirà per l’ovest in giornata e che desidera incontrarla al Museo d’arte nel-la tarda mattinata. Phoebe arriva con una grossa valigia: vuole andare con lui. Quando il fratello le dice che è impossibile, la ragazzina comincia a piangere e Holden le promette che non partirà. Ma Phoebe è ora adirata con lui. Si incam-minano verso lo zoo: lui su un marciapiede, lei sull’altro. Allo zoo guardano gli animali, ma Phoebe è sempre arrabbiata. Vanno poi verso una giostra nel parco e la ragazzina continua a non volere parlare con il fratello, però si è un po’ am-mansita.

    – Vuoi andare a fare un giro? – dissi. Sapevo che probabilmente ne aveva voglia. Quand’era piccola piccola, e Allie, D.B. e io la portavamo al parco con noi, andava matta per la giostra. Non si riusciva a strapparla da quel dannato aggeggio. – Sono troppo grande, – disse. Credevo che non mi avrebbe risposto e invece sì. – No che non lo sei. Vai pure. Io ti aspetto qui. Vai, su, – dissi. Eravamo proprio lì, oramai. Sulla giostra c’erano alcuni bambini, per lo più molto piccoli, e i genitori li stavano aspettando lì avanti, seduti sulle panchine e via discorrendo. Allora finì che andai allo sportello dove vendono i biglietti e ne presi uno per la vecchia Phoebe. Poi glielo diedi. Lei mi stava proprio vicina. – Tieni, – le dissi. – Aspetta un momento... prendi anche il resto dei tuoi soldi –. Feci per darle il resto dei soldi che mi aveva prestato.– Tienili tu. Tienili per me, – disse lei. Poi aggiunse subito: – Ti prego. È deprimente, quando uno ti dice «Ti prego». Se è Phoebe o qualcuno così, voglio dire. Mi sentii depresso da morire. Però mi rimisi i soldi in tasca. – Vieni a fare un giro anche tu? – mi domandò lei. Mi stava guardando in modo un po’ buffo. Si capiva che non ce l’aveva più tanto. – Il prossimo, magari. Adesso sto qui a guardarti, – dissi- – Hai il biglietto? –Sì.

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    – Vai, allora, io mi siedo su questa panchina. Sto a guardarti –. Andai a sedermi sulla panchina e lei salì sulla giostra. Ne fece tutto il giro. Voglio dire che ne fece proprio tutto il giro, una volta sola. Poi si sedette su quel vecchio stallone scuro dall’aria malandata. Allora la giostra si mise in moto e io guar-dai Phoebe che girava, girava. Sopra c’erano solo altri cinque o sei ragazzini, e la canzona che stavano sonando era Fumo negli occhi. La suonavano in modo molto buffo, come se fosse jazz. Tutti i bambini si sforzavano di af-ferrare l’anello d’oro, anche la vecchia Phoebe, e io avevo un po’ paura che cadesse da quel maledetto cavallo, però non dissi e non feci niente. Il fatto, coi bambini, è che se vogliono afferrare l’anello d’oro, uno deve lasciarli fare senza dire niente. Se cadono, amen, ma è un guaio se gli dite qualcosa. Finito il giro, lei scese dal suo cavallo e venne da me. – Stavolta vieni an-che tu. – disse. – No, sto solo a guardarti. Mi sa che sto solo a guardarti, – dissi. Le diedi un po’ dei suoi soldi . – Tieni. Prendi qualche altro biglietto. Lei prese i soldi. – Non sono più arrabbiata con te, – disse. – Lo so. Sbrigati, ora ricomincia. Allora, tutt’a un tratto, mi diede un bacio. Poi tese la mano e disse: – Sta piovendo. Comincia a piovere-– Lo so. E allora lei fece una cosa che per poco non mi lasciava secco: mi infilò la mano nella tasca del soprabito, ne tirò fuori il mio berretto rosso da caccia-tore e me lo mise in testa. – Non lo vuoi tu? – dissi. – Per un po’ puoi portarlo. – D’accordo. Però adesso sbrigati. Finisce che perdi il giro. Non troverai più il tuo cavallo né niente. Ma lei continuava a esitare. – Lo pensavi proprio quello che hai detto? È vero che non vai in nessun posto? È vero che dopo vai a casa? – mi domandò. – Sì, – dissi. E lo pensavo davvero. Non le stavo dicendo una bugia. Andai a casa davvero, dopo. – Sbrigati, ora, – dissi. – Si sta muovendo. Lei scappò via, comprò il suo biglietto e tornò su quella maledetta giostra appena in tempo. Poi ne fece tutto il giro finché non ritrovò il suo cavallo. Al-lora ci montò sopra. Mi salutò con la mano, e anch’io la salutai con la mano. Ragazzi, cominciò a piovere che non vi dico. A secchi, ve lo giuro su Dio. I genitori e le madri e tutti quanti corsero a mettersi proprio sotto il tetto della giostra per non bagnarsi come pulcini eccetera eccetera, ma io me ne restai per un pezzo su quella panchina. Ero bagnato fradicio, soprattutto il collo e i calzoni. Il berretto da cacciatore mi riparava davvero, e molto, in un certo senso, ma ero fradicio lo stesso. Me ne infischiavo, però. Mi sentivo così ma-ledettamente felice, tutt’a un tratto, per c