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IL MARGINE 7 AGOSTO-SETTEMBRE 2003 Emanuele Curzel 3 Negli occhi di chi ha visto Andrea Conci 6 Frammenti d’Africa Vincenzo Passerini 12 In memoria dei resistenti Francesco Comina 14 La pace, realismo di un’utopia Stefano Visintainer 22 I luoghi del morire. Riflessioni sul morire dell’uomo occidentale Silvio Mengotto 33 Lo sbarco della scienza. Il pensiero scientifico arabo-islamico e l’Occidente Associazione Rosa Bianca 41 “Governare il mondo: un’utopia possibile” 23ª Scuola della Rosa Bianca - Triuggio, 5-6-7 settembre 2003 IL MARGINE mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Direttore: Emanuele Curzel In redazione: Anita Bertoldi, Luca Cristellon, Lucia Galvagni, Walter Nardon (vice-direttore) Amministrazione: Monica Cianciullo [email protected] Responsabile diffusione: Pierangelo Santini [email protected] Webmaster: Maurizio Betti [email protected] Comitato di direzione: Celestina Antonacci, Giovanni Colombo, Francesco Comina, Marco Damila- no, Fulvio De Giorgi, Marcello Farina, Guido Formigoni, Paolo Ghezzi (resp. a norma di legge), Paolo Giuntella, Giovanni Kessler, Roberto Lambertini, Paolo Maran- gon, Fabrizio Mattevi, Michele Nicoletti, Vincenzo Passerini, Gra- zia Villa, Silvano Zucal. Collaboratori: Carlo Ancona, Dario Betti, Stefano Bombace, Lui- sa Broli, Vereno Brugiatelli, Michele Covi, Marco Dalbosco, Cornelia Dell’Eva, Michele Dori- gatti, Michele Dossi, Eugen Galas- so, Pierangelo Giovanetti, Giancar- lo Giupponi, Paolo Grigolli, Tom- maso La Rocca, Paolo Mantovan, Gino Mazzoli, Milena Mariani Pue- rari, Pierluigi Mele, Rocco Parolini, Nestore Pirillo, Gabriele Pirini, Emanuele Rossi, Gianluca Salvato- ri, Flavio Santini, Sergio Setti, Giorgio Tonini. Progetto grafico: G. Stefanati Una copia 2,00 - abbonamento annuo 20 - abbonamento d’ami- cizia 30 - abbonamento estero 30 - estero via aerea 35. I versamenti vanno effettuati sul c.c.p. n. 10285385 intestato a: “Il Margine”, c.p. 359 - 38100 Trento. Autorizzazione Tribunale di Trento n. 326 del 10.1.1981. Redazione e amministrazione: “Il Margine”, c.p. 359, 38100 Trento http://www.il-margine.it e-mail: [email protected] Publistampa Arti Grafiche, Pergine Il Margine n. 7/2003 è stato chiuso in tipografia il 18 agosto 2003. “Il Margine” è in vendita a Trento presso: “Artigianelli”, via Santa Croce 35 - “Centro Paolino”, via Perini 153 - “La Rivisteria” via San Vigilio 23 - “Benigni” via Belenzani 52 - a Rovereto presso “Libreria Rosmini” - a Milano presso “Libre- ria Ancora”, via Larga 7 - a Monza presso “Libreria Ancora”, via Pavo- ni 5 - a Roma presso “Libreria Anco- ra”, via della Conciliazione 63. ASSOCIAZIONE OSCAR ROMERO Presidente: Alberto Conci [email protected] Vicepresidente: Paolo Marangon Mentre andiamo in stampa... Domenica 10 agosto 2003, pagina 710 di Televideo Rai, previsioni del tempo per i giorni successivi. Mercoledì: “sarà una giornata all’insegna del caldo torrido”. Giovedì: “Il cli- ma caldo e soleggiato favorirà le gite in montagna e al mare”. Le gite in montagna e al mare. Questo è il messaggio, minimizzante e deresponsabiliz- zante, che esce dai mezzi di comunicazione. Sembra che ci dicano: chi può, fugga dai deserti che sono diventate le nostre città. Chi non può, si aggrappi ai condizionatori. E chi non può scappare, e chi non può comprarsi il condizionatore, si arrangi. Ironia? Cinismo? Stupidità? Difficile dirlo. Possiamo anche sperare che l’eccezionale (?) estate che stiamo vivendo non sia conseguenza delle attività umane, ed in particolare dello stile di vita dei popoli più ricchi e ignoranti; ma certamente la continua immissione di gas prodotti dai combustibili fossili non aiuta a raffreddare il clima. A quando una politica capace di pren- dere sul serio questo tema? Una politica capace di porre al primo posto la fuga rapida e definitiva dal petrolio? Chi non conosce i danni ecologici e sociali che derivano dalle fasi di estrazione, trasporto, utilizzo, smaltimento dei suoi residui? Come non vedere che mol- te delle tensioni esistenti a livello mondiale nascono per il controllo dell’oro nero, e che la lobby petrolifera condiziona pesantemente non solo l’economia, ma anche la politica del- le nazioni democratiche? Qualcuno parlerà di utopia: ma non è più utopista chi pensa (e pretende) che questo “sviluppo” possa continuare indefinitamente? Il Muro che cresce Lorenza Erlicher è stata liberata il 6 agosto e “invitata a lasciare spontaneamente il pae- se”, come recita il decreto del Ministero degli Interni israeliano, dopo due giorni di detenzione con l’accusa di “ostruzionismo ad operazione militare”. Lorenza stava par- tecipando ad un progetto di interposizione nonviolenta a Mashah, nella West Bank, con un gruppo di 40 volontari internazionali. Questi erano stati arrestati mentre protestava- no contro la costruzione del Muro dell’Apartheid e contro la demolizione di una casa palestinese destinata a far posto al Muro. In 37 erano poi stati subito liberati mentre Lorenza e altri due pacifisti, un israeliano ed un palestinese, sono stati deportati in un carcere a nord di Tel Aviv. Iniziato nel luglio 2000, il “recinto di sicurezza” israeliano sarà composto di reticolati ad alta tensione, filospinato, barriere anticarro, trincee, muri di cemento armato di 3 metri di altezza, sensori e telecamere a circuito chiuso, torrette di guardia seminate lun- go tutto il confine, zone di passaggio e strade percorribili presidiate da checkpoints e posti di blocco. Circa 15 villaggi che si trovano lungo il percorso del muro sono isolati dal resto del territorio palestinese e dalle proprie terre, che sono in corso di espropria- zione. Si stima che le terre espropriate ammontino a 16.000 ettari (quasi tutti nel nord della Cisgiordania). Le terre confiscate comprendono frutteti, la maggiore produzione palestinese, terreni coltivabili e pozzi idrici (30 pozzi per un totale di circa 4 milioni di metri cubi d’acqua). (dal comunicato stampa del consorzio Ctm altromercato)

Il Muro che cresce IL MARGINE filezante, che esce dai mezzi di comunicazione. Sembra che ci dicano: chi può, fugga dai Sembra che ci dicano: chi può, fugga dai deserti che sono diventate

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IL MARGINE 7 AGOSTO-SETTEMBRE 2003

Emanuele Curzel 3 Negli occhi di chi ha visto

Andrea Conci 6 Frammenti d’Africa

Vincenzo Passerini 12 In memoria dei resistenti

Francesco Comina 14 La pace, realismo di un’utopia

Stefano Visintainer 22 I luoghi del morire. Riflessioni sul morire dell’uomo occidentale

Silvio Mengotto 33 Lo sbarco della scienza.Il pensiero scientifico arabo-islamicoe l’Occidente

Associazione Rosa Bianca 41 “Governare il mondo: un’utopia possibile”23ª Scuola della Rosa Bianca -Triuggio, 5-6-7 settembre 2003

IL MARGINEmensile dell’associazioneculturale Oscar A. Romero

Direttore:Emanuele Curzel

In redazione:Anita Bertoldi, Luca Cristellon,Lucia Galvagni, Walter Nardon(vice-direttore)

Amministrazione:Monica [email protected]

Responsabile diffusione:Pierangelo [email protected]

Webmaster: Maurizio [email protected]

Comitato di direzione: CelestinaAntonacci, Giovanni Colombo,Francesco Comina, Marco Damila-no, Fulvio De Giorgi, MarcelloFarina, Guido Formigoni, PaoloGhezzi (resp. a norma di legge),Paolo Giuntella, Giovanni Kessler,Roberto Lambertini, Paolo Maran-gon, Fabrizio Mattevi, Michele

Nicoletti, Vincenzo Passerini, Gra-zia Villa, Silvano Zucal.

Collaboratori: Carlo Ancona,Dario Betti, Stefano Bombace, Lui-sa Broli, Vereno Brugiatelli,Michele Covi, Marco Dalbosco,Cornelia Dell’Eva, Michele Dori-gatti, Michele Dossi, Eugen Galas-so, Pierangelo Giovanetti, Giancar-lo Giupponi, Paolo Grigolli, Tom-maso La Rocca, Paolo Mantovan,Gino Mazzoli, Milena Mariani Pue-rari, Pierluigi Mele, Rocco Parolini,Nestore Pirillo, Gabriele Pirini,Emanuele Rossi, Gianluca Salvato-ri, Flavio Santini, Sergio Setti,Giorgio Tonini.

Progetto grafico: G. Stefanati

Una copia € 2,00 - abbonamentoannuo € 20 - abbonamento d’ami-cizia € 30 - abbonamento estero € 30 - estero via aerea € 35.I versamenti vanno effettuati sulc.c.p. n. 10285385 intestato a: “IlMargine”, c.p. 359 - 38100 Trento.Autorizzazione Tribunale di Trenton. 326 del 10.1.1981.

Redazione e amministrazione: “IlMargine”, c.p. 359, 38100 Trentohttp://www.il-margine.ite-mail: [email protected]

Publistampa Arti Grafiche, Pergine

Il Margine n. 7/2003 è stato chiusoin tipografia il 18 agosto 2003.

“Il Margine” è in vendita a Trentopresso: “Artigianelli”, via SantaCroce 35 - “Centro Paolino”, viaPerini 153 - “La Rivisteria” via SanVigilio 23 - “Benigni” via Belenzani52 - a Rovereto presso “LibreriaRosmini” - a Milano presso “Libre-ria Ancora”, via Larga 7 - a Monzapresso “Libreria Ancora”, via Pavo-ni 5 - a Roma presso “Libreria Anco-ra”, via della Conciliazione 63.

ASSOCIAZIONE OSCAR ROMEROPresidente: Alberto [email protected]

Vicepresidente:Paolo Marangon

Mentre andiamo in stampa...Domenica 10 agosto 2003, pagina 710 di Televideo Rai, previsioni del tempo per i giornisuccessivi. Mercoledì: “sarà una giornata all’insegna del caldo torrido”. Giovedì: “Il cli-ma caldo e soleggiato favorirà le gite in montagna e al mare”.Le gite in montagna e al mare. Questo è il messaggio, minimizzante e deresponsabiliz-zante, che esce dai mezzi di comunicazione. Sembra che ci dicano: chi può, fugga daideserti che sono diventate le nostre città. Chi non può, si aggrappi ai condizionatori. E chinon può scappare, e chi non può comprarsi il condizionatore, si arrangi. Ironia? Cinismo?Stupidità? Difficile dirlo. Possiamo anche sperare che l’eccezionale (?) estate che stiamovivendo non sia conseguenza delle attività umane, ed in particolare dello stile di vita deipopoli più ricchi e ignoranti; ma certamente la continua immissione di gas prodotti daicombustibili fossili non aiuta a raffreddare il clima. A quando una politica capace di pren-dere sul serio questo tema? Una politica capace di porre al primo posto la fuga rapida edefinitiva dal petrolio? Chi non conosce i danni ecologici e sociali che derivano dalle fasidi estrazione, trasporto, utilizzo, smaltimento dei suoi residui? Come non vedere che mol-te delle tensioni esistenti a livello mondiale nascono per il controllo dell’oro nero, e che lalobby petrolifera condiziona pesantemente non solo l’economia, ma anche la politica del-le nazioni democratiche? Qualcuno parlerà di utopia: ma non è più utopista chi pensa (epretende) che questo “sviluppo” possa continuare indefinitamente?

Il Muro che cresceLorenza Erlicher è stata liberata il 6 agosto e “invitata a lasciare spontaneamente il pae-se”, come recita il decreto del Ministero degli Interni israeliano, dopo due giorni didetenzione con l’accusa di “ostruzionismo ad operazione militare”. Lorenza stava par-tecipando ad un progetto di interposizione nonviolenta a Mashah, nella West Bank, conun gruppo di 40 volontari internazionali. Questi erano stati arrestati mentre protestava-no contro la costruzione del Muro dell’Apartheid e contro la demolizione di una casapalestinese destinata a far posto al Muro. In 37 erano poi stati subito liberati mentreLorenza e altri due pacifisti, un israeliano ed un palestinese, sono stati deportati in uncarcere a nord di Tel Aviv.Iniziato nel luglio 2000, il “recinto di sicurezza” israeliano sarà composto di reticolatiad alta tensione, filospinato, barriere anticarro, trincee, muri di cemento armato di 3metri di altezza, sensori e telecamere a circuito chiuso, torrette di guardia seminate lun-go tutto il confine, zone di passaggio e strade percorribili presidiate da checkpoints eposti di blocco. Circa 15 villaggi che si trovano lungo il percorso del muro sono isolatidal resto del territorio palestinese e dalle proprie terre, che sono in corso di espropria-zione. Si stima che le terre espropriate ammontino a 16.000 ettari (quasi tutti nel norddella Cisgiordania). Le terre confiscate comprendono frutteti, la maggiore produzionepalestinese, terreni coltivabili e pozzi idrici (30 pozzi per un totale di circa 4 milioni dimetri cubi d’acqua).

(dal comunicato stampa del consorzio Ctm altromercato)

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«Mi pare di sentire l’obiezione: ‘tutto questo lo sappiamo già da tem-po e non è necessario che ce lo rammentiate continuamente’. Ma vidomando: se lo sapete, perché non reagite, perché tollerate che questitiranni vi spoglino progressivamente, in modo aperto o velato, di un dirit-to dopo l’altro, fino a quando un giorno non rimarrà più nulla, null’altroche una macchina statale comandata da criminali e ubriaconi? … Nonnascondete la vostra viltà sotto il velo della prudenza».

(dal terzo volantino della Rosa Bianca)

EDITORIALENegli occhi di chi ha visto

OLTRFRONTIERAFrammenti d’Africa

APPUNTIIn memoria dei resistenti

TESTIMONILa pace,realismo di un’utopia

BIOETICAI luoghi del morire

STORIALo sbarco della scienza

ASSOCIAZIONE ROSA BIANCA“Governare il mondo:un’utopia possibile”

Mensiledell’associazioneculturaleOscar A. RomeroAnno XXIII

2003 NUMERO 7

Periodico mensile - Anno XXIII, n. 7, agosto-settembre 2003 - Sped. in a.p. - art. 2 comma 20/c Legge 662/96 - Fil. di TNRedazione e amministrazione: 38100 Trento, cas. post. 359 - Una copia € 2,00 - Abb. annuo € 20

www.il-margine.it

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Editoriale

Negli occhi di chi ha vistoEMANUELE CURZEL

F ranz Joseph Müller racconta, e gli brillano gli occhi. Le labbra si in-crespano sotto i lunghi baffi bianchi, mentre ricorda quando lui e isuoi amici si nascondevano in una chiesa evangelica (“le chiese evan-

geliche sono frequentate solo di domenica, gli altri giorni non c’è mai nessu-no”) per scrivere gli indirizzi sulle buste che portavano i volantini della WeißeRose in giro per la Germania: uno suonava l’organo, gli altri sceglievano dal-l’elenco telefonico. Sorride quando racconta che, insieme ai suoi compagnidi classe, aveva leggermente modificato il saluto nazista: il loro direttore eracontento di vederli con il braccio teso, ma i ragazzi non gridavano Heil Hi-tler, gridavano Heilt Hitler: curate Hitler!, come a dire che il Führer del tut-to sano non era. Il presidente della Weiße Rose Stiftung parla, sorseggiandola sua tazza di caffè, nella sala dell’università di Monaco dove un eterogeneogruppo di italiani lo ascolta. Sorride: eppure non sta raccontando episodi diuna giovinezza spensierata. Ricorda il periodo in cui, diciottenne, dovettescegliere tra morire per Hitler – come già facevano tanti giovani tedeschi,mandati allo sbaraglio a Stalingrado – o morire contro Hitler, con i suoi ami-ci della Rosa Bianca. Si salvò per caso, grazie ad una treccia bionda: Freislerlo condannò ‘solo’ a cinque anni di carcere perché la sorella del suo amicoera una ragazza decisamente ariana, e per questo il giudice del più alto tribu-nale del Reich non se la sentì di mandarli alla ghigliottina con gli Scholl, eProbst, e Huber, e Graf, e Schmorell.

Anche Josef Kunz racconta. Legge di fronte all’assemblea che gremiscela chiesa di Ostermiething, all’estremità orientale dell’Austria Superiore. Nonè certo la prima volta che parla in pubblico, non è certo la prima volta che de-scrive il suo passato di combattente sul fronte russo, non è certo la prima voltache prova ad esprimere il suo travaglio interiore, il suo dramma di cattolico masoldato del Terzo Reich. Il rimorso da sessant’anni lo tormenta, la voce si in-crina, gli occhi si gonfiano, anche chi non capisce le sue parole intuisce laprofondità del conflitto interiore, l’angoscia che lo ha spinto e lo spinge anco-ra oggi a partecipare a queste riunioni (si ricorda infatti il sessantesimo anni-versario della morte di Franz Jägerstätter, contadino austriaco e padre di fami-glia giustiziato l’8 agosto 1943 per non aver voluto vestire la divisadell’esercito tedesco) per portare la sua testimonianza: la voce di chi ha capito

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le persone che intendevamo ricordare. Testimonianze, dunque, tanto più credi-bili e vive, che danno un colore tutto particolare a quanto è altrimenti espressosolo dalla parola scritta. E testimonianze offerte da volti capaci di ridere (o dipiangere) con sincerità; il riso e il pianto di chi, pur nella drammaticità degliavvenimenti, sente l’irruzione di Dio nella storia e gioisce per la sua presenza.Qualcosa di molto distante dall’“attitudine alla politica” propria dei regimi che,come denunciavano i ragazzi della Rosa Bianca nel loro primo volantino (ci-tando da Schiller), erano capaci di negare l’amore coniugale, l’amore materno,l’amore filiale, l’amicizia; e di altrettanto lontano dal teatrino dei sentimentispacciato quotidianamente dai media. E se davvero, come è stato detto duran-te l’omelia, è nel volto dei santi che riconosciamo il volto di Dio, possiamo diredi aver visto un riflesso di quel Volto.

Il drago in casa

Durante l’esecuzione di un brano musicale, nella chiesa di Ostermiething,Michele (classe 1999) mi ha detto che in quel suono gli sembrava di sentire ilpasso di un drago. “Un drago che cammina piano, piano, piano. Dentro unacasa. E nessuno lo vede”. Josef Mayr-Nusser, la Rosa Bianca, Franz Jägerstät-ter, in diversi momenti e diversi contesti, l’hanno visto, quel drago, che cam-minava nelle loro case. Si sono confrontati con i propri vicini, anche con colo-ro che non vedevano o non volevano vedere; hanno riflettuto sulla storia delproprio popolo e sulla Parola di Dio; hanno valutato le possibilità che eranoloro offerte, immaginando un futuro migliore, non solo per sé stessi o per leproprie famiglie, ma per tutto il loro popolo, ed anzi tutta l’umanità (si legga adesempio la parte finale del quinto volantino della Weiße Rose); sono giunti allaconclusione che piuttosto che uccidere e morire per il Führer era meglio ri-schiare di farsi uccidere e morire contro il nazismo razzista e pagano. Basta leg-gere i loro scritti per rendersi conto di quanto poco, alla base dei loro atteggia-menti e delle loro decisioni, vi sia stata un’etica dei principi astratta, anarchicae assetata di martirio, e quanto invece vi sia stata l’etica della responsabilità,costruttiva e solidale.

Quasi inutile aggiungere che si tratta di un atteggiamento di permanentevalidità, nel momento in cui siamo chiamati a far fronte alla cattiva utopia delguadagno globale, che ritiene di poter tutto saccheggiare e tutto consumare, nelsupremo disprezzo dei limiti del creato e rinnovando un culto della razza chesperavamo tramontato ma che oggi torna invece ad affermare che su questo pia-neta c’è chi ha diritto di vivere e chi invece no. ■

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– e teme di aver capito troppo tardi – che non si può essere, insieme, soldati eseguaci di Cristo.

Franziska ha compiuto novant’anni, e sta seduta vicino alla tomba del ma-rito, che è ormai coperta di lumini. La celebrazione è finita, l’ha conclusa lei, per-ché è a lei che il cardinale arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn ha affi-dato il microfono. Ha congedato le centinaia di persone che – dopo aver percorsoa piedi i dieci chilometri che ci separano da Ostermiething – si sono assiepatenella piccola chiesa di St. Radegund. La vedova di Franz Jägerstätter ha invitatotutti ad andare in pace, e anche a recarsi all’osteria per mangiare insieme. Ora ri-ceve con cordiale semplicità i saluti di chi vuole ringraziarla per essere stata vi-cino al marito nei momenti più difficili, per non averlo abbandonato nella sceltadi opporsi al regime nazista. Il suo Franz non c’è più da sessant’anni, ma tuttociò che, da qualche decennio a questa parte, le capita, lo interpreta come un donodel suo sposo. Durante la messa ha letto le beatitudini, con voce ferma e tran-quilla. “Beati voi che ora piangete, perché riderete” (Lc 6,21b).

Volti capaci di ridere e di piangere

Un viaggio-pellegrinaggio ha portato un gruppo composto da una trenti-na di persone provenienti dall’area geografica che sta tra la Puglia e il Veneto,tra il Piemonte e l’Alto Adige/Südtirol (questi ultimi sono stati preziosi media-tori linguistici) a visitare, in rapida successione, alcuni luoghi particolarmentesignificativi per la storia della resistenza al Nazismo. Il 7 agosto, a Stella di Re-non (BZ), abbiamo visto la tomba di Josef Mayr-Nusser, il presidente dell’A-zione Cattolica di Bolzano morto di stenti sul vagone che lo portava a Dachau:arruolato a forza nelle SS, si era rifiutato di prestare giuramento al Führer. L’8agosto l’incontro con Franz Joseph Müller all’università di Monaco, la visita alcampo di concentramento di Dachau e al cimitero di Perlach, dove sono sepol-ti Hans Scholl, Sophie Scholl, Christoph Probst e Alexander Schmorell. Il 9agosto la giornata più impegnativa: la commemorazione di Franz Jägerstätter èsvolta dapprima a Ostermiething, dove tra gli altri hanno preso la parola ErnaPutz, che da decenni studia la vita del martire austriaco, Bruce Kent, presiden-te della sezione inglese di Pax Christi, e Giampiero Girardi, capo della delega-zione italiana. Poi nel pomeriggio ci siamo incamminati verso St. Radegund,dove in serata si è svolta la messa, celebrata dall’arcivescovo di Vienna, dal ve-scovo di Linz e dal vescovo emerito di Ivrea Luigi Bettazzi.

Un viaggio ricco di riflessioni e di incontri; incontri tanto più significati-vi perché abbiamo potuto avvicinare chi ha conosciuto direttamente gli anni e

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cupano delle relazioni con i beneficiari. Essi visitano le famiglie coinvolte,danno consigli e informazioni, effettuano monitoraggi costanti della realtà incui St. Martin agisce.

Il viaggio, tre chilometri di strade asfaltate piene di buche e di dossi in ce-mento creati apposta per rallentare la corsa folle dei “matatu” 1, ci costa 10scellini kenioti (circa 12 centesimi di euro) che serviranno a John per acqui-stare il grano da seminare nei prossimi mesi in un piccolo appezzamento diterreno ai margini della città. John ha 35 anni, ma ne dimostra molti di più.Alto circa un metro e ottanta, molto magro, il volto scavato e sorridente, hauna moglie e due bambini ancora piccoli. Vive in una baracca, non sua, diotto/dieci metri quadrati, nella zona vecchia di Maina dove l’acqua “potabile”sta pian piano arrivando. Due stanze separate da una tenda di cotone scuro,come scuro è l’interno visto che non esistono né finestre né luce elettrica. Perdormire c’è solo un grande materasso, nessun mobile arreda le stanze, non cisono sedie, non c’è un tavolo. Solo un piccolo fornello in ferro ricavato da unvecchio bidone. Serve per farci da mangiare e per scaldarsi nelle fredde nottidi Nyahururu. Vi bruciano carbone ricavato dal legno che viene tagliato in ma-niera illegale e irresponsabile da chi, come lui – e sono tantissimi – non ha al-tra fonte per riscaldarsi. In passato aveva un impiego ben pagato presso il vec-chio missionario che abitava a Maina, ma purtroppo non è riuscito, permentalità e pigrizia, a risparmiare nulla e ora ogni giorno è una fatica mante-nere la famiglia col suo lavoro di driver.

L’incapacità di guardare al futuro rappresenta uno dei problemi più seriper le popolazioni africane. La precarietà della vita e la mancanza di speranzali rendono incapaci di investire per il futuro: tutto quello che guadagnano vie-ne speso per sopravvivere. Solo le donne riescono almeno in parte a pensareal domani, probabilmente perché si sentono maggiormente responsabili neiconfronti dei loro figli ai quali sentono di dover assicurare un avvenire.

John è uno dei tanti, vive giorno per giorno la sua vita pedalando per levie di Nyahururu e nonostante tutto ha comunque sempre voglia di ridere escherzare. Non posso dire sia infelice e penso a quello che il mio don mi hadetto un giorno: “Quando ero in Bolivia vivevo con pochissimo e mi sentivoricco, ora qui vivo con molto e a volte mi sento povero”. A volte, nonostantetutto ciò che possediamo ci sembra di non avere abbastanza. Forse da John do-vremmo imparare i ritmi africani e la serenità che si porta dentro: accade?

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1 Pulmini da 16 posti che sfrecciano per tutto il Kenya, a velocità folli! Sui matatu riesconoa stiparsi anche 28 persone (bagagli compresi).

Oltrefrontiera

Frammenti d’Africa

ANDREA CONCI

L e stelle che brillano mentre salgo prima dell’alba verso la cima del Ce-vedale mi riportano ad un altro cielo, stellato e lontano, lontano seimi-la chilometri… il cielo del Kenya.

Quindici giorni non sono molti per capire l’Africa, ma sono abbastanzaper lasciarti negli occhi e nel cuore storie e volti di un mondo diverso dove pertroppi uomini, donne e bambini sopravvivere è una scommessa quotidiana.

La bici di John

Sobbalzo sul sellino posteriore del boda-boda di John, il nostro driver,che ogni mattina mi trasporta con Svet e Andrea da Maina al St. Martin.

Maina è la più grande delle tre baraccopoli di Nyahururu, 250 km a norddi Nairobi, sull’equatore, a 2400 metri circa sul livello dell’oceano. Non si sabene quante persone vi abitino, c’è chi dice trentamila, chi ventimila, chi ven-ticinquemila. È impossibile tenere il conto. Qui ogni giorno nascono e muoio-no decine di persone, anime e volti che appaiono e scompaiono senza lascia-re traccia di sé nella storia. Nemmeno nell’arida storia delle anagrafi che peri poveri non esistono. Migliaia di persone che vivono in baracche di legno elamiera, senza acqua corrente, luce elettrica e servizi igienici. Quando piove,e piove tanto in questo periodo dell’anno, le strade di Maina si trasformano intorrenti di fango e fogna; percorrerle diventa una fatica incredibile, bisognasaltare di zolla in zolla e sperare di non scivolare.

St. Martin è invece il centro di una serie di attività e di progetti fatti per econ gli abitanti del posto. Sei progetti animano il St. Martin: aiuto ai disabili,microcredito, supporto legale, “street children” (e non-formal school), HIV-AIDS e “interventi d’emergenza”. Ogni progetto ha un responsabile rigorosa-mente africano aiutato da personale internazionale. La vera forza del St. Mar-tin, e anche quello che gli permette di sopravvivere, è il volontariato: circa 600persone. Accanto ai responsabili lavorano infatti moltissime persone che si oc-

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“Foresta è vita”

“Tree is life” è il motivo per cui sono andato in Kenya. È un progetto diriforestazione nato dall’intuizione di Thomas, un corsista dell’UNIP - Uni-versità della Pace di Rovereto, venuto tra noi per l’educazione alla nonviolen-za e tornato all’equatore con la voglia di estendere il bello dei nostri monti. Ilprogetto è della diocesi di Nyahururu ed ha come sponsor principale la Pro-vincia Autonoma di Trento. Cerca di sensibilizzare al problema della defore-stazione con la creazione di vivai gestiti nei vari villaggi dalla gente e daglistudenti del luogo. Assieme al direttore Stefan, olandese da sette anni inKenya, a coordinare il tutto vi è una équipe di 5 persone del luogo. Alle pub-bliche relazioni c’è Fabio Pipinato, per due anni in Kenya con la famiglia etornato in Italia proprio in questi giorni. Il progetto è stato presentato anchenelle scuole trentine coinvolgendo circa trecento ragazzi di ogni età. All’in-terno del progetto “Tree is life” ha proposto uno scambio tra studenti trentinie studenti kenioti ed è così che sono finito in Africa.

Seduto su una poltroncina d’aereo diretto a Nairobi ancora non sapevocosa aspettarmi da questo viaggio. L’ho capito laggiù, dopo aver visto i ceppicarbonizzati degli alberi tagliati per procurarsi legname e poi bruciati per ave-re pascolo per il bestiame. Dopo vent’anni di deforestazione e nessun tentati-vo di riforestazione, la superficie boschiva del Kenya non supera oggi il 2,7%del suolo nazionale. Secondo le Agenzie ONU che si occupano del problemala quantità minima di foreste necessaria a mantenere stabile l’ecosistema è del10%. Il fatto è che lì la legna è necessaria per cucinare, per scaldare la casa,per proteggere l’orticello dalle capre, per costruire le case. Ma tutti i boschivicini alla città sono stati tagliati per lo più dalle multinazionali in cerca di le-gname prezioso a basso costo e così le donne e i bambini sono costretti a per-correre anche sette chilometri, magari più volte al giorno, per poter raccoglie-re la legna necessaria ai bisogni. La distruzione del bosco spesso comportaanche la scomparsa dell’acqua perché il terreno non la trattiene più. Così du-rante la stagione delle piogge si assiste alla caduta di numerose frane, mentredurante la stagione secca il terreno inaridisce e diventa improduttivo nel girodi pochi anni.

L’idea che ha permesso di raggiungere tutte le persone di Nyahururu edintorni, e non solo i ragazzi delle scuole, l’ha avuta proprio Fabio qualchetempo fa: disegnare dei murales che parlassero di ambiente, rispetto per la na-tura, riforestazione. Quasi una campagna di “pubblicità progresso” destinataa durare nel tempo. E in meno di un anno la cittadina si è riempita di più dicento murales, rappresentanti uomini e donne intenti a piantare e curare albe-

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Akuna matata! Nessun problema! La vita continua, l’importante è metterciimpegno.

Morire a nove giorni

Giovane, ma non saprei dire quanti anni ha. L’ho vista di striscio, non ciho badato davvero. Una delle tante che ho incontrato. Stava seduta vicino adon Gabriele nel suo Defender bianco e sono partiti in fretta, senza lasciarcinemmeno il tempo di scambiare due parole. Davvero non ci ho badato.

È sera. Gabriele è tornato e stiamo bevendo una tisana nel soggiorno del-la sua casa a Maina. È una delle poche case con la corrente elettrica (ma nonc’è l’acqua corrente) anche se non sai mai se la sera lasceranno la luce o se lacompagnia che gestisce il servizio la toglierà per impedire ai più di rubarla conallacciamenti di fortuna. La notte scende prestissimo all’equatore: il sole tra-monta alle 18 e nel giro di mezz’ora è tutto assolutamente buio. Guai, per unbianco, avventurarsi per le stradine di Maina dopo quell’ora.

Svet tiene la tazza tra le mani e chiede a don Gabriele di raccontare la suagiornata. Lui risponde che tutto è andato bene e poi inizia davvero a racconta-re. Quella signora seduta nel Defender che abbiamo solo intravisto era unadelle ragazze ammalate di AIDS che il don segue. Aveva un figlio di pochigiorni, nove per essere esatti, nato sieropositivo. Nove giorni di fatica e di do-lore per lui e per la madre che lo ha visto spegnersi poco a poco. È morto dueore dopo che don Gabriele ha lasciato la baracca. Non urlava quel bambino,ma due rivoli di lacrime scendevano in silenzio dagli occhi e gli solcavano ilviso scarno. Nato per morire. Non so nemmeno come si chiamava e di che co-lore avesse gli occhi, ma lo penso come un bambino non diverso da quelli chenascono qui. Ma lui è nato solo per morire.

Don Gabriele ci è abituato, noi no: 15 giorni sono troppo pochi per abi-tuarsi alla morte. Qui ogni giorno muore qualcuno di AIDS: metà della popo-lazione di Maina porta dentro il virus di questa malattia e fuori dalla baracco-poli, nei quartieri più ricchi, “solamente” un terzo. Forse arriva anche daquesta tragedia dell’AIDS il deficit di speranza nel futuro, anche se, nono-stante tutto, qui continuano a sorridere e i bambini che incontri per la barac-copoli ti seguono festanti, ti accompagnano per un pezzo di strada tenendotiper mano, e intanto ti gridano a gran voce “How are you, Modongo?”, “Comeva, uomo bianco?”. Metà di loro o è già sieropositivo o lo diventerà, eppuretrasmettono quella gioia e voglia di vivere che è difficile trovare nei nostri ra-gazzini di 7-8 anni, perennemente stanchi, annoiati e già vecchi.

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pianta in un’enorme ricchezza. Panda Miti lo ha capito e lo sta insegnando atutti i suoi ragazzi.

Dopo averci mostrato la sua opera ci ha invitato a pranzo; assieme a noisi è seduta anche la moglie di Panda Miti, cosa assai rara in Africa dove, allapresenza di ospiti, la donna è relegata al ruolo di “servitrice”. Ruolo che pe-raltro è considerato un onore, ma anche lì il mondo, anche se a piccoli passi,sta cambiando. La donna riveste spesso in Africa un ruolo di fondamentale im-portanza per il sostentamento della famiglia, è lei che si occupa della casa, del-la legna che serve per scaldare e cucinare, dell’acqua, dei figli. Abbiamo man-giato pollo accompagnato da una pietanza locale a base di patate, spinaci,pinoli, noci e nocciole, naturalmente in religioso silenzio. In Africa c’è untempo per ogni cosa: se si mangia si mangia e non si chiacchiera…! Di PandaMiti porto il ricordo di un cinquantenne africano con un grande amore per lasua terra, un uomo che ha capito che la salvezza dell’Africa passa dall’impe-gno personale per il mantenimento del territorio e della cultura dei padri.

Portarsi dentro l’Africa

La tisana accompagna le nostre chiacchiere serali. Don Gabriele ci leggequalche brano scritto da don Milani o ci racconta l’Africa. Una sera, fra altrecose, ci ha detto che non bisogna farsi prendere troppo dall’Africa. Forse nonbisogna farsi coinvolgere troppo perché per aiutare questa gente bisogna es-sere realisti, e non si può pensare di salvare l’Africa senza gli africani. Però èdifficile non farsi prendere dai poveri di Maina, dalla storia di John e della suafamiglia, da un bambino che nasce per morire. Una cosa è certa. Abbiamo an-che noi delle responsabilità su ciò che accade al di là e al di qua dell’equato-re e perciò anche a noi spetta il compito di prendercene cura. ■

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ri, messaggi chiari, semplici, persone che vendendo alberi guadagnano dena-ro per nutrire le loro famiglie. I vicoli di questa cittadina d’Africa sono orapieni di scritte: “Panda miti” “Panda minghi”, parole che in kiswahili signifi-cano “pianta alberi”, “pianta molto”.

Il 16 maggio c’è stata l’inaugurazione a Nyahururu di uno di questi mu-rales dipinto da Alberto Barbieri, un noto artista di Pavia, che ha realizzatouno stupendo lavoro in collaborazione con artisti locali. È stata una delle pri-me manifestazioni a cui ho partecipato. Sono seguite due Feste dell’Albero(Tree party) con più di mille studenti e visite ai vivai, incontri con chi nei vil-laggi si occupa di riforestazione e con qualche artista locale che ha partecipa-to al progetto. Il lavoro che “Tree is life” ha svolto per combattere la defore-stazione è importante e sempre più persone si lasciano coinvolgere. Èdell’ultima ora la notizia che alcune Agenzie ONU vogliono estendere l’ideadei murales di Nyahururu su altre tematiche come l’AIDS o l’istruzione.

Ho affrontato a Nyahururu un problema che non avevo mai preso seria-mente in considerazione, abituato come sono a vivere immerso nel verde, atrovare i boschi a pochi minuti dalla città e a considerare normale il rispettoper l’ambiente e l’utilizzo responsabile delle risorse. Forse però anche nellanostra terra questo rispetto non è affatto scontato e quindi il lavoro che Netta-re, l’Associazione partner di “Tree is life” in Trentino, sta svolgendo nellescuole diventa molto importante anche per il nostro futuro.

Panda Miti, l’uomo degli alberi

Avete presente L’uomo che piantava gli alberi? Ne ho conosciuto uno.Anche lui pastore. Il piantare alberi gli ha portato una discreta ricchezza. Èuno di quegli africani che riescono ad investire per il futuro e a darsi davveroda fare per migliorare la sua vita e quella dei suoi concittadini. Abita sui pen-dii della Rift Valley, a trenta chilometri da Nyahururu. Vive con la sua fami-glia in una casa di legno costruita vicino alla scuola dove insegna agraria, edove instilla l’amore per gli alberi e per l’ambiente a centinaia di ragazzi e ra-gazze. E oltre a insegnare, pianta alberi e cura la sua foresta. È riuscito a co-struire tre enormi cisterne per raccogliere l’acqua e poter così irrigare con re-golarità i suoi campi. Quando lo abbiamo incontrato ci ha accompagnato,dopo averci offerto una tazza di chai (bevanda tipica del Kenya fatta con lattee the), a vedere i suoi boschi, i suoi vivai. Pianta soprattutto eucalipti che cre-scono anche cinque metri l’anno: con una simile crescita bastano davvero po-chi anni per moltiplicare un piccolo investimento e trasformare una piccola

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La maggior parte di loro apparteneva al partito socialdemocratico (SPD)e al partito comunista (KPD), alcuni al più piccolo partito socialdemocraticopiù radicale (USPD), alcuni ai partiti cattolici, il Zentrum e il partito popola-re della Baviera (BVP).

Questo monumento è una lezione di storia, più eloquente di tanti libri e ditanti film. Ricorda agli smemorati il debito di sangue pagato dalla Germaniademocratica per l’avvento al potere di Hitler. Ricorda che, se tanti si adegua-rono, tanti furono perseguitati ed uccisi, anche tra i parlamentari. Ricorda chela presa del potere da parte di Hitler fu violenta e non fu un tranquillo proces-so democratico come certa pubblicistica vuol far apparire e come spesso lenuove generazioni immaginano. Anche se ebbero le loro responsabilità i parti-ti di quella che era chiamata la Repubblica di Weimar, dal nome della cittadi-na dove si riunì nel 1919 l’assemblea costituente che pose le basi della primae infelice repubblica germanica spazzata via nel ’33 dal nazionalsocialismo.

Presi nota anche di qualche nome di quei parlamentari uccisi quando vi-sitai Berlino alla metà degli anni ’90. Mi sembrava che fosse giusto conserva-re anche nel taccuino insignificante di un passante il ricordo dell’altra Ger-mania, quella che non partecipò o si oppose all’orrore incombente, allacatastrofe che sarebbe sopravvenuta e che i più attenti e lungimiranti colseroin tutta la sua disumana portata fin dall’inizio.

Alcuni di questi parlamentari furono uccisi, così, a casa loro, per strada,in carcere. Semplicemente ammazzati sul posto. Tanti morirono nei campi diconcentramento.

La sequenza dei nomi sul bordo superiore delle lastre di ferro del sobriomonumento lo ricorda: Julius Adler 1894-1945, KZ Bergen Belsen, KPD; Anton Bias 1876-1945, KZ Dachau, SPD; Conrad Brosswitz 1881-1945, KZDachau (SPD); Rudolf Hennig 1895-1945, KZ Sachsenhausen (KPD); WalterStoecker 1891-1939, KZ Buchenwald (USPD, KPD); Otto Gerig 1885-1944KZ Buchenwald (Zentrum); Lotte Zinkl 1891-1944, KZ Ravensbruck (KPD);Franz Herbert 1885-1945, KZ Mauthausen (BVP); …

Così, qualche nome dei 96 deputati tedeschi con la loro destinazione fi-nale, quella anche di sei milioni di ebrei, tedeschi, italiani, polacchi, olandesi,cechi, ungheresi, e di tanti altri perseguitati.

Fare memoria, anche modesta, può essere un altro modo per riparare alleoffese del nostro capo del governo, così infelicemente, e questa volta senza i fil-tri dei maghi perversi della comunicazione, approdato alla guida dell’UnioneEuropea. ■

Pubblicato su “L’Adige”, 4 luglio 2003

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Appunti

In memoria dei resistentiVINCENZO PASSERINI

V icino al Reichstag di Berlino, alla sede storica del parlamento nazio-nale, sul bordo della strada che vi scorre accanto, c’è uno strano mo-numento. I turisti quasi sempre lo ignorano, vi passano accanto an-

dando al Tiergarten, ma non se ne accorgono tanto è appartato, sobrio emodesto. Ma è geniale ed emozionante per chi lo scopre e non si fa distrarredall’immenso parco verde del Tiergarten dove schiere di giovani di tutto ilmondo vanno a divertirsi e ad ascoltare ottima musica.

È il monumento a ricordo dei 96 deputati del parlamento nazionale tede-sco uccisi dai nazisti. La sobrietà anche geniale di tanti monumenti a ricordodelle vittime del nazismo che si incontrano in Germania colpisce, perché èesattamente l’opposto della magniloquenza retorica dei monumenti impostidal nazismo (e poi anche dal comunismo nella DDR, nella parte di Germaniaal di là della cortina di ferro. che durò fino al 1989).

Il ricordo di quel monumento m’è tornato prepotentemente in testa in que-ste ore. Chi ha nel cuore e nella mente le storie di quei tedeschi che resistette-ro a Hitler e da lui furono politicamente e fisicamente eliminati sente di non po-ter tacere di fronte alle inaudite parole del capo del governo Silvio Berlusconiscagliate contro Martin Schulz, capogruppo dei socialisti tedeschi al parla-mento europeo di Strasburgo nella seduta inaugurale del semestre di presiden-za italiano dell’Unione Europea (“Signor Schulz, so che in Italia c’è un pro-duttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti: lasuggerirò per il ruolo di kapò, lei è perfetto”).

Chi ha nel cuore e nella mente queste storie sente il dovere, per quello chepuò, di fare memoria e di chiedere anche scusa agli amici tedeschi per l’offesa in-qualificabile che il nostro capo del governo ha lanciato contro gli eredi politici diquel partito socialdemocratico che Hitler mise al bando, perseguitò e decimò.

Il monumento ai 96 parlamentari tedeschi uccisi dai nazisti fu eretto nel1992. È fatto di 96 lastre di ferro accostate l’una all’altra. Hanno la lunghezzadi un metro, l’altezza di circa settanta centimetri e lo spessore di tre. Il tutto as-somiglia a un insieme di grandi lastre di porfido in attesa di essere collocate. Sulbordo superiore di ogni lastra sono impressi il nome del parlamentare, la data dinascita, la data e il luogo della morte, la sigla del partito di appartenenza.

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no Bello (aprile ’93) a don Italo Mancini (’94) ad Alex Langer (luglio ’95) adon Giuseppe Dossetti (ottobre ’96).

Il vuoto e la deriva della ragione

È inutile continuare a dire che Ernesto Balducci ci manca. E ci manca mol-tissimo in questo tempo in cui la guerra non solo è stata riabilitata dal punto divista politico e giuridico, ma è diventata una struttura permanente del sistema-mondo.

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad una rivoluzione in negativo del-la comunità internazionale, una involuzione terrificante nella storia del dirittointernazionale, della cultura e dell’etica umana. Una involuzione con la qualeBalducci aveva appena fatto in tempo a misurarsi durante la prima guerra delGolfo e che fino al giorno prima dello scatenamento della “Tempesta nel De-serto” egli non voleva assolutamente considerare, tant’è che fino all’ultimo mi-nuto Balducci disse e scrisse che la guerra non ci sarebbe stata perché sull’im-pulso di thanatos, di morte, di distruzione rappresentato dalla volontà dipotenza degli eserciti angloamericani, avrebbe prevalso la ragione del dirittoche con la Carta dell’Onu aveva chiaramente messo fine al ricorso della guer-ra come soluzione per le controversie fra i popoli.

Balducci parlò di un “vagito della comunità mondiale” quando pareva an-cora che l’Onu potesse avere la forza di bloccare la guerra.

Oggi Raniero La Valle, in un bellissimo libro appena uscito, ricorda il fal-limento dell’analisi razionale di Balducci:

“Quello che padre Balducci non aveva voluto ammettere era che la ragione potes-se contraddirsi, che l’alternativa non fosse solo tra razionale e irrazionale, ma tradiverse e opposte razionalità, che la guerra, esauriti i vecchi argomenti di ragione,poteva sempre inventarsene di nuovi, che la ragione non genera solo figli illumi-nati, ma genera anche mostri. Con la ragione si poteva restare nella guerra; comein effetti un’altra ragione c’era nella guerra del Golfo, nella guerra jugoslava, comeuna ragione c’è nell’attuale guerra globale” 2.

Poi, una volta che i cacciabombardieri avevano cominciato a bombardareBaghdad, Balducci tuonò ancora – con la forza straordinaria della parola chene faceva forse l’oratore più fine e ruggente che abbiamo avuto in Italia nel No-

2 R. La Valle, Prima che l’amore finisca, Ponte delle Grazie, Milano 2003, p. 229.

Testimoni

La pace, realismo di un’utopia

FRANCESCO COMINA

Testo tratto da una conferenza tenuta a Cles (TN) il 6 giugno2003 per il ciclo organizzato dall’associazione “Korogocho edintorni” sul tema “Maestri di pace”.

S ono passati undici anni dalla morte di Padre Ernesto Balducci. Im-provvisa, imprevista. Un colpo di sonno al volante in un incrocio vici-no a Cesena. L’uscita da uno stop, l’impatto con un’altra macchina e il

buio. Balducci è rimasto in coma per una giornata, poi è calato lo smarrimentototale in tutti noi che l’abbiamo seguito, l’abbiamo conosciuto, l’abbiamo po-sto nel nostro orizzonte di fede come uno dei punti di riferimento importanti.Proprio in quei giorni mi arrivò il suo biglietto d’auguri pasquali e la comuni-cazione del nostro incontro per parlare di Panikkar su cui mi stavo concentran-do per la tesi di laurea. Dovevamo vederci il primo maggio a Fiesole. Balduc-ci aveva appena pubblicato, nelle sue Edizioni cultura della pace, La torre diBabele di Panikkar e aveva iniziato un percorso di recupero del suo pensierodopo una lunga e reciproca incomprensione su alcuni temi di fondo come l’i-dea dell’“uomo planetario” che Panikkar considerava una nuova forma di uni-versalismo. Ma in realtà la consonanza fra le due traiettorie di pensiero era mol-to più profonda di quanto apparisse dai dibattiti. E fu proprio Panikkar achiarirla in una bellissima lettera all’amico scomparso: “Credo che in questianni tu abbia detto e scritto, molto meglio di me, ciò che da decenni mi sta acuore” 1.

La morte di Balducci, imprevista e improvvisa, si situa in quell’apocalis-se della profezia che nell’arco di pochi anni ha fatto deserto della testimonian-za di pace e di fede nel nostro Paese. Uno dietro l’altro morirono i grandi mae-stri del cattolicesimo per la pace e per il dialogo fra le fedi e le culture, da PadreDavid Maria Turoldo (febbraio ’92) a padre Balducci (aprile ’92) a don Toni-

1 R. Panikkar, Lettera a Ernesto Balducci, in La pace sfida le religioni, Altrapagina, Città diCastello 1993.

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Balducci scrive un libro in cui immagina come potrebbe essere la storia seal posto di Colombo fosse venuto Montezuma in Europa a scoprire le nostreterre. E indaga, cerca di capire come è stato possibile il mancato incontro congli indios. Rilegge il dibattito culturale del tempo dove affiora lo spirito razzi-sta che ha messo in moto la prassi coloniale dei secoli seguenti. La sindromedell’eurocentrismo non ammala solo l’anima avventuriera di Colombo al sol-do di Isabella di Castiglia, non colpisce solo gli uomini del diritto, come di-mostra bene il dibattito intorno alla vera natura degli indigeni, se essi siano uo-mini a tutti gli effetti o una sottospecie umana da schiavizzare senzatentennamenti. La malattia razzista colpisce fortemente anche la Chiesa, chedeve dare sostanza alla sua teologia universalistica e giustificare ideologica-mente la conquista. E così spuntano i teologi alla Josè de Acosta, che suggeri-sce moderazione alle spade dei conquistadores, perché “gli Indi sono intellet-tualmente deboli come dei bambini o delle femminucce, o piuttosto dellebestie, e quindi non bisogna vendicarsi contro di essi più di quanto è necessa-rio per punirli o spaventarli, ne è da usare tanto la spada quanto la minaccia del-la frusta, così che imparino a temere e obbedire”.

Ecco da dove sono nati, secondo Balducci, i germi infausti della “civiltà” oc-cidentale che hanno condotto alla seconda guerra mondiale e alla costruzione del-la bomba atomica: “Quando Truman pose agli scienziati che avevano preparato labomba atomica la questione se, a loro giudizio, fosse conforme alla legge moralefarne uso, essi risposero che era lecito usarla contro il Giappone pur di salvare viteamericane”. Ecco come nacque l’epoca moderna ed ecco come – nel ritrovare lecoordinate dell’incontro con la ricchezza della diversità mancata – diventa possi-bile uscire da questa logica ed aprire una fase nuova nel cammino dell’uomo.

In un altro di quei dialoghi fatti durante la guerra del Golfo, questa voltacon il teologo brasiliano Leonardo Boff, Balducci invoca l’arrivo salvifico del-le Caravelle dall’America Latina. Questo è uno dei passaggi più passionali e li-rici dei discorsi balducciani. Ecco come egli immagina la fine dell’egemoniz-zazione dell’Occidente sul mondo:

“Verranno gli indios, verranno gli ignudi di un tempo, verranno i poveri con le loroculture custodite nelle loro anfore coperte di ragnatele a spezzare le anfore e a far-ci sentire liquori che non conosciamo. Sembra un linguaggio lirico, ma chiunquesi è accostato, anche nelle aree metropolitane dove oggi infuria la violenza con glialtri, e ha parlato con un altro, con un senegalese, con un magrebino, con un lati-noamericano, ha sentito lo stupore che è in noi, che siamo rattrappiti dalla presun-zione di aver realizzato il modello di umanità. Se appena si spezza questa crosta diinibizione risorge in noi questa parentela ontologica con le umanità diverse. Soloquesto è il pertugio per il futuro. O riconoscere la legittimità delle alterità umane,

vecento – contro l’irrazionalità di una guerra di conquista e contro il fallimen-to delle grandi istituzioni che per lui rappresentavano una sorta di preludio del-la civiltà planetaria.

Mentre la guerra infuriava Balducci teneva una serie di dialoghi per la Raicon alcune grandi personalità nel campo giuridico, antropologico, scientifico efilosofico. E lì esplodeva, proprio mentre le lingue di fuoco americane faceva-no deserto nel deserto iracheno, la prostrazione per l’ottimismo negato dallarealtà nefasta della guerra. In un dialogo con Antonio Papisca, padre Balduccimetteva a fuoco la sua perdita di orientamento analitico:

“Ho visto crollare l’affermazione – che per me è un punto forte della nuova storiache abbiamo cominciato a vivere – del ripudio della guerra come strumento nonpiù legittimabile dalla ragione umana. Su questo c’era, lo ritenevo, un universaleconsenso. Pensavo che in nessun ambito di responsabilità politica suprema nem-meno la parola guerra sarebbe stata pronunciata. Invece ne abbiamo avuto una in-flazione! Pensavo che ci sarebbe stata una reazione della cultura, che ritenevo, aldi là delle appartenenze ideologiche, al livello delle conquiste giuridiche realizza-te dall’umanità a partire dalla Carta Atlantica in poi. Anche qui sono rimasto de-luso. Anzi, ho notato uno scarto gravissimo, che ha superato ogni previsione tra lavoce della cultura e i livelli delle conquiste giuridiche su cui si batte l’utopia fi-nalmente entrata negli spessori concreti della vita effettuale”.

La fine dell’Occidente e il ritorno delle Caravelle

Ma quell’accadimento funesto, se da una parte ha rappresentato la cadu-ta a picco dei grandi ideali sui quali si è abbeverato l’“ottimismo tragico” diPadre Balducci, dall’altra ha dato pure forza e fiato alla sua etica planetariache sarebbe nata, secondo la sua analisi, dalle rovine della modernità occi-dentale.

Per Balducci il 12 ottobre del 1492 – giorno in cui Colombo approda conle sue Caravelle armate nell’isola di Hispaniola, attuale Haiti – è una data-sim-bolo per rileggere la storia occidentale sotto una prospettiva critica. Quelladata segna l’inizio del più spaventoso genocidio della storia con 70 milioni diindios uccisi in vario modo dai conquistadores fedelissimi ai cattolicissimi respagnoli. Culture floridissime furono annientate e inizia il cammino sangui-noso dell’universalismo eurocentrico. Messo di fronte all’alterità più radica-le, l’occidentale non ha saputo far altro che annientarla. Non è riuscito ad in-contrarsi con l’altro perché il suo presupposto era lo sterminio, la conquista,la distruzione.

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dosso il destino degli Altri. Mentre parlo, ho dinanzi agli occhi innumerevoli pre-senze di uomini che vivono così. Ma chi ne parla? Le nostre cronache parlano dibizzarrie altolocate. Ma di questi uomini chi ne parla? È giusto che sia così? Ma inquesto vangelo segreto che continua ad essere scritto, è nascosto il mistero del-l’uomo e, insieme, è nascosto il mistero di Dio” 4.

Uomo edito e uomo inedito

Ma per andare fino in fondo alla scoperta dell’altro diventa importante –nell’analisi di Balducci – anche il recupero dell’altro che è in noi, perché ogniindividuo porta in sé una dialettica fra l’homo editus e l’homo absconditus, fraun uomo totalmente conforme alla cultura data e un uomo che trascende i mo-delli codificati della società corrente per farsi interprete di un senso umano, eti-co e sociale che dorme nel profondo. Balducci parla diffusamente nei suoi librie nelle sue conferenze di questa dialettica fra homo absconditus ed editus, cheegli riprende dalle analisi di Ernst Bloch.

La guerra moderna che poi ha prodotto – nel suo volo nefasto verso la con-sapevolezza tecnologica – Auschwitz e Hiroshima, altro non è che la vittoriadell’homo editus sull’homo absconditus e, sul piano religioso, la vittoria delDio edito, funzionale al sistema, sul Dio nascosto, il Dio dei poveri e degli iner-mi, il Dio dei costruttori di Pace e il Dio dei nonviolenti; il Dio dei grandi mae-stri su cui Balducci si trattiene in meravigliosi saggi: il Dio di San Francesco edi Gandhi, il Dio di papa Giovanni e Giorgio La Pira, il Dio di Romero e deimartiri dell’America Latina.

È il Dio della croce che rivela la sua natura nonviolenta nell’atto del sacri-ficio d’amore impotente. Non onnipotente, ma impotente. Perché Dio sulla cro-ce è presente nell’assenza, è presente nell’amore del Padre, ma non ha il poteredi difendere il Figlio ucciso dalla mano armata dell’homo editus. È “l’abissod’amore fra le due parti” di cui parla Simone Weil, “che avvicina il Padre al Fi-glio e il Figlio al Padre senza che ci siano segni tangibili o miracoli visibili”.

La ragione armata

Per entrare in comunicazione con questo Dio bisogna – secondo Balducci –spogliarsi di tutta l’armatura della cultura corrente e tornare ad essere puri comei bambini. Balducci riprendeva spesso una immagine di Raimon Panikkar, che in-

4 E. Balducci, L’Altro, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1996, p. 72.

o ripiegarci in un declino disastroso. La speranza ha una via indicata. I poveri cela portano in mano. Le caravelle ritornano” 3.

La nostalgia dell’Altro

La riscoperta dell’Altro che l’Occidente, nel suo volo egemonico sulle alidell’universalismo etnocentrico, ha sempre negato, è un altro passaggio alla ci-viltà planetaria. Riprendendo il percorso intellettuale del filosofo francese Em-manuel Levinas, Padre Balducci torna all’idea che l’avvenire dell’uomo ha comesuo presupposto “l’epifania dell’altro”. Di più: Balducci invoca una retrospettivastorica per recuperare un senso di “nostalgia dell’altro” che ci consente di rico-struire una antropologia segnata dalla menomazione umana dovuta alla mancan-za di relazione con le diversità che hanno accompagnato il cammino umano. Eper recuperare questa nostalgia dell’altro, Balducci individua tre momenti signi-ficativi. Un primo momento è caratterizzato dall’esplodere del fenomeno france-scano. Il bacio di Francesco al lebbroso – origine della sua rivoluzione episte-mologica – rappresenta un momento importante nella scoperta dell’altro. Conquel gesto Francesco sposta il punto di osservazione del mondo dalla realtà degliinclusi a quella degli esclusi. Il mondo non si può più guardare solo attraverso ilpunto di vista dell’ordine, ma si può e si deve guardarlo anche dalle periferie di-sordinate dove vivono, muoiono e sperano gli ultimi, gli oppressi, i rifiutati, gli“altri”. Un altro momento in cui si rivelò un sentimento di nostalgia dell’altro,Balducci lo coglie nella battaglia al fianco degli indios contro i conquistadoresdel frate “convertito” Bartolomè de Las Casas. Da religioso organico alla con-quista egli divenne il più grande difensore degli indios quando scoprì il volto del-l’altro e capì che quel volto negato era una emanazione del volto del totalmenteAltro. E si convertì agli indios, li difese, li protesse perché essi erano uomini an-cora immuni dal peccato originale. E il terzo momento, per padre Balducci, è rap-presentato dall’Utopia di Tommaso Moro, che si è fatto portatore di un’alternati-va di pace, di tolleranza e di solidarietà in un’Europa in cui spiravano i ventiminacciosi della guerra e della distruzione di altre civiltà.

Il recupero di un sentimento di profonda nostalgia dell’altro è necessario piùche mai oggi,

“perché siamo chiamati da una pressante necessità della stessa sopravvivenza delgenere umano a sperimentare una forma di amore che arrivi fino ad assumersi ad-

3 E. Balducci, Le Tribù della Terra. Orizzonte 2000, Edizioni cultura della pace, S. Domeni-co di Fiesole 1991, p. 174.

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Nagasaki. Il fungo atomico è il segnale, l’ultima frontiera, il baratro che con-duce all’apocalisse.

Da allora l’umanità sa di essere mortale. Nessuno può salvarsi. Come scri-veva il frate scienziato Teilhard de Chardin in quegli anni:

“Non si tratta più di una semplice manomissione di ciò che esisteva già, pronto eservito nel mondo. Questa volta siamo di fronte a una porta definitivamente forza-ta, che dà accesso a un altro compartimento, ritenuto inviolabile, dell’universo.L’uomo si serviva della materia. Adesso è riuscito ad afferrare le leve che coman-dano la stessa genesi di tale materia”.

In questa tragedia, in questa biforcazione ultima della vicenda umana,Balducci vedeva il trionfo della ragione, che mai e poi mai avrebbe scelto diimboccare la strada del suicidio cosmico:

“La lezione che ci viene dalla specie umana è che, messa di fronte ai dilemmiestremi – e oramai il dilemma è fra vita e morte – essa è in grado di rivelare inso-spettate risorse creative. La novità è affidata alle viscere della necessità. Che suipassaggi cruciali della sua nascita ci sia buio non deve far meraviglia. Come scris-se Ernst Bloch, ai piedi del faro, non c’è luce” 5.

Balducci ha vissuto fino all’ultimo respiro questa consapevolezza chel’uomo abbia risorse in sé per superare i suoi limiti, che la ragione abbia la for-za sufficiente per battere l’istinto preistorico della violenza contro gli altri, chesulla soglia atomica significa il suicidio della Madre Terra. Perché la sua testi-monianza di fede era messianica. Le sue omelie domenicali, alla badia fiesola-na, erano caratterizzate da questo, ossia che nonostante la guerra, nonostantegli eccidi, nonostante lo spettacolo desolante dell’ingiustizia planetaria, nono-stante tutto questo “peccato” che trasuda dalle pareti della terra governata da-gli uomini, si sente in lontananza il respiro di una nuova vita che sta nascendo,la vita di un mondo possibile: “Dobbiamo crederci. Dobbiamo forzare l’auro-ra e nascere”. ■

5 E. Balducci, La Terra del tramonto, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole, p. 214.

vitava gli intellettuali a liberarsi dalla corona della loro “ragione armata”. “La ra-gione – sostiene Panikkar – spesso diventa un impedimento alla conoscenza del-l’altro perché si carica di tutto un armamentario di dogmi intellettivi che impedi-scono alle altre ragioni di fecondare la propria. E così si impone come un’armache uccide”.

Balducci invitava i teologi a togliersi di torno la ragione armata

“perché noi siamo armati come Schwarzkopf – urlò una volta in un convegno allaCittadella di Assisi – noi abbiamo l’intelligenza armata che ci porta continuamen-te a fare le guerre in nome di una presunta superiorità religiosa di un credo suglialtri. Ma il comandamento del Signore è quello di tornare bambini inermi. Ancheda un punto di vista religioso noi dobbiamo eliminare i nostri paludamenti dottri-nali che ci impediscono di entrare in relazione con le altre grandi religioni dell’u-manità. Per comprendere gli altri bisogna tornare puri come i bambini. Così feceFrancesco quando, liberatosi dall’intelligenza armata, poteva penetrare nel profon-do dei segreti delle cose”.

La coscienza planetaria

Questo spogliamento non è solo un fatto della coscienza individuale, ma èun obbligo che ci viene dalla mutazione antropologica che le religioni vivononel tempo della possibile apocalisse atomica. L’evento aurorale di Assisi del1986, con la convocazione da parte del Papa di tutti i responsabili delle grandireligioni dell’umanità, venne letto da Balducci come la trasformazione del-l’impossibile nel possibile, come la presa di coscienza del primato della vitasulle spinte dell’apocalisse cosmica. Nel finale del suo L’uomo planetario, Bal-ducci legge quell’evento come un “crepuscolo” capace di fare cadere per sem-pre le grandi ideologie che hanno guidato la storia dell’Occidente:

“Il Papa ha chiamato sé e i rappresentanti delle grandi tradizioni religiose dell’u-manità a confrontarsi con chi? Nemmeno con Dio. Ma con l’uomo minacciato diestinzione. Una conversione antropologica è in atto perché invece di misurarsi sul-l’asse verticale delle proprie certezze dogmatiche, le religioni si sono disposte sul-l’asse orizzontale del futuro dell’uomo”.

Il realismo dell’utopia

Perché la pace nasce da un profondo realismo, da una forte presa di co-scienza del limite invalicabile nel quale l’umanità si è spinta con Hiroshima e

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te uno stato in quanto comprende in sé un aspetto dinamico che lo caratteriz-za sostanzialmente. Ed è quest’ultimo l’oggetto di questo scritto. Ci interessaanalizzare gli aspetti dell’avvicinarsi dell’uomo contemporaneo alla propriamorte e verificare se questo abbia delle caratteristiche capaci di renderlo unasituazione affatto peculiare dei nostri giorni e se, anche, questo modo attualedi morire non condizioni la disposizione con la quale l’uomo oggi muore.

La ricerca dovrà partire e prendere spunto da un confronto con le epochepassate, cercando di capire come ci si confrontasse con la morte, ovvero, piùcorrettamente, come si morisse più addietro nel tempo. Non volendo essereesaustivi, tenteremo solo un breve sunto delle valutazioni più accreditate sul-l’argomento. Ma occorre porre delle condizioni che consentano di affrontarele situazioni più comuni e diffuse per le epoche che si andranno ad analizzare,pena un disperdersi inconcludente in rivoli di casi particolari. A noi interessasoprattutto studiare come la gente comune, in altre epoche, si disponesse allapropria dipartita da questa vita. Non dovremo quindi considerare particolaricongiunture storiche quali le guerre (in passato la frequenza dei conflitti era sìelevatissima, anche se nella sostanza interessava più frequentemente solo iguerrieri e non, almeno direttamente, la popolazione comune che, invece, su-biva un incrudimento delle condizioni di vita), né dovremo descrivere dellemorti eroiche che, proprio perché così definibili, costituivano un’eccezione.

Il morire comune nella storia

Una sostanziosa fonte per questa nostra ricerca, così impostata, è costi-tuita dal materiale raccolto in approfonditi studi da Philippe Ariès 1. L’autore cipropone un percorso dall’epoca medievale sino ai nostri giorni centrato sulrapporto con la morte dei nostri avi nel mondo occidentale.

Senza dilungarci nell’esposizione particolareggiata delle ricerche diAriès, e rimandando quindi i più interessati ad una lettura diretta dei testi,riassumiamo in poche battute le conclusioni che l’autore riporta relativamen-te ai cambiamenti dell’atteggiamento dell’uomo verso la propria morte.Schematicamente egli distingue e raggruppa periodi nei quali si possono ri-scontrare degli atteggiamenti condivisi e diffusi verso la morte. Ne individuaquattro.

1 P. Ariès, L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi, Mondadori, Milano, 1992.2 Ariès, L’uomo e la morte, p. 6 e seg.

Bioetica

I luoghi del morireRiflessioni sul morire dell’uomo occidentaleSTEFANO VISINTAINER

I n questi ultimi tempi un animo attento e predisposto non può evitare di co-gliere un incalzante crescendo d’attenzione verso un tema centrale dellavita. Presso un pubblico sempre più vasto la riflessione peculiarmente

umana sulla propria morte si fa strada, uscendo dagli ambiti consueti e preci-samente definiti nei quali sino ad oggi era confinata. Ma non solo.

Ponendo attenzione si nota che argomenti sino ad ora ristretti (o costret-ti?) all’interno della discussione filosofica e religiosa vanno espandendosi, su-perando i limiti nei quali siamo stati da lungo tempo abituati a rintracciarli. Ge-neralizzando, parrebbe esserci un rinnovato interesse su tematiche antagonisteil materialismo individualista al quale siamo abituati ad assistere da tempo eper il quale pensavamo non ci sarebbero stati più impedimenti all’universalediffusione. Che forse la misura sia colma?

Sarà il tempo, speriamo breve, a dirci se queste nuove (ed antiche) atten-zioni siano solo fuochi fatui o fondamenta per la ripresa dell’indagine dell’uo-mo su sé stesso. Rischiamo di divagare. Al contrario il tema di questo articoloè estremamente centrato e definito. Necessariamente, come si vedrà.

L’attenzione verso la morte e la conseguente analisi e riflessione rischia-no subito di essere dispersive. Molto infatti si può discettare su questo tema emolti possono essere gli approcci. Discutendo della morte possiamo valutarecosa essa significhi come momento finale o di passaggio della nostra esisten-za, oppure che valore abbia o dia alla prospettiva della nostra vita, oppure sevi sia la necessità d’avere fede in un’altra vita, oppure se la morte incombentepermetta un ravvedimento o, al contrario, un indurimento del carattere, ed an-cora così, a lungo. Inoltre si potrebbe applicare un taglio d’indagine decisa-mente filosofico o, altrimenti, inquadrare il tema all’interno di un’ottica teolo-gica.

Qui invece esporremo un punto d’osservazione estremamente peculiare,ma che crediamo possa essere utile per delle ulteriori successive (e necessarie)valutazioni in qualsiasi delle prospettive sopra accennate. Innanzitutto il nostrointeresse si concentra non sulla morte in sé bensì sul periodo che precede l’e-vento definitivo. Periodo che definiamo “morire”. Il morire non è propriamen-

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congiunti. Ciò che varia è la qualità delle disposizioni che sono conferite ai so-pravviventi, intese, come detto, soprattutto a garantire un passaggio indennenell’al di là. Quindi un morire ed una morte accettati anche qui, ma affrontaticon un desiderio potentissimo di non perdersi completamente.

Questa individualizzazione si potenzia ulteriormente nel passare del tem-po sino a giungere all’Ottocento, ove si assiste ad una riduzione notevole delledisposizioni post mortem a fini salvifici, ma aumenta esponenzialmente il de-siderio degli accoliti di mantenere viva oltre il decesso la persona legata da unvincolo affettivo profondissimo. La valorizzazione della persona nella sua in-dividualità accresce ulteriormente la propria energia, ma si basa ora su un’inti-mità ed intensità di sentimenti e relazioni interpersonali potentissime. Il mo-rente è considerato e tenuto per unico. Si sarebbe disposti ad ogni tentativo purdi mantenere “vivo” il legame. Qui come nel passato, e forse più, il sostegno almorente e l’accompagnamento verso la morte sono dati dalle persone ad egliunite da un legame affettivo fortissimo. Il morente è anche qui accudito fre-quentemente, sino all’ultimo respiro, nel proprio letto.

Il morire comune e noi

Possiamo ora fare alcune considerazioni riassuntive. Fino a quest’ultimaepoca descritta, per altro non molto lontana dai nostri giorni, abbiamo potutoconstatare variazioni non sostanziali lungo il percorso del morire. Ancora aiprimi del Novecento era normalissimo e frequentissimo che il morente spiras-se nel proprio letto e altrettanto normale e frequente era l’assistenza offerta daipiù intimi. Possiamo anche concludere che incontrare una persona morente nel-le comunità d’un tempo, quando la vita media era decisamente più bassa del-l’attuale, era certamente nelle più normali possibilità di un uomo. Confrontar-si con la morte di un proprio congiunto (un genitore, un fratello, un parente) eranell’ordine delle cose.

Con queste affermazioni non si vuole certo concludere che il rapporto del-l’uomo con la morte, la propria soprattutto, fosse diverso per qualità dall’at-tuale. Non è questo il punto verso il quale abbiamo orientato questa riflessio-ne. Qui interessa una situazione aderente, ma diversa, al rapporto con la morte,la fine della propria esistenza. È il percorso verso la soglia ultima l’oggetto del-la nostra analisi e su di questo ci volgiamo.

Dalle descrizioni appena esposte si può trarre, più coerentemente e realisti-camente, che la persona morente disponeva di un supporto d’attenzioni e di ca-lore umano che ci paiono molto difficili da riscontrarsi nei modi attuali di mori-

Un primo momento viene definito della “morte addomesticata” 2, ed èun’epoca che si può ben inquadrare nel medioevo. Allora la morte era ritenutauna necessità della vita. Morire, benché non desiderato, non costituiva un ac-cidente imprevisto. Faceva parte profondamente delle necessità della vita.Ogni uomo era preparato da sempre a confrontarsi con persone che morivano(la mortalità infantile era altissima e la vita media decisamente breve, rispettoalla nostra). Ma il fattore più importante per la nostra analisi sta nel fatto cheogni persona era inserita sin dalla nascita in una comunità che condivideva conlui l’esistenza ed alla quale egli si sentiva strettamente solidale. Infatti in que-sto periodo il modo più comune di morire era tra le mura di casa propria, nelproprio letto, accudito dai familiari che sino all’ultimo respiro attendevano allenecessità del morente: sia perché queste erano ben conosciute, sia perché eraassolutamente comune, come si diceva, confrontarsi con persone in procinto dimorire. Il morente non era quindi rifiutato o evitato. Poteva condividere con lepersone più care gli ultimi momenti della propria vita predisponendo con i suoicari la gestione dei momenti successivi la propria dipartita. Una morte appun-to “addomesticata” da un legame forte di una persona e della sua comunità nel-la quale si riconosceva completamente.

Il periodo descritto come seguente è caratterizzato da una individualizza-zione sostanziale dell’uomo, che accentra sulla propria persona, quasi egoisti-camente, ogni attenzione presente e futura 3. In quest’epoca, che poi sarà anchecomprensiva dell’Umanesimo, nella maggior parte dei casi – benché le situa-zioni oggettive di vita non siano cambiate sostanzialmente – l’uomo si sogget-tivizza maggiormente e ritiene la propria vita estremamente preziosa. Se scon-figgere la morte non è pensabile, almeno mantenere la propria individualitàanche dopo è assolutamente necessario. E se l’individualità post-mortem è de-siderata fortemente allora sarà anche meglio che nell’al di là non ci sia ad at-tendere il terribile inferno. Si moltiplicano così in questo periodo, a confermadi quanto detto, i manuali per la buona morte (ars moriendi). Diviene comu-nissimo che sulle lapidi o sulle tombe vi siano iscrizioni esortative a preghiereper il defunto, atte a facilitargli il percorso attraverso il Purgatorio e a garantir-gli un’eternità paradisiaca nel più breve tempo. Ma nella sostanza in questo pe-riodo l’atteggiamento verso la morte ed il morire non subiscono una trasfor-mazione, piuttosto un cambio lieve di prospettiva con un’accentuarsiimportante della persona nella sua singolarità. Comunque il morente si trovaancora con altissima frequenza nella propria casa e l’assistenza è garantita dai

3 Ariès, L’uomo e la morte, p. 32 e seg.

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Medicina e techné

Sin dal Seicento, con l’introduzione del metodo scientifico in medicina, unnuovo modo di confrontarsi con ogni tipo di malattia ha fondato definitivamenteil rapporto dell’uomo con ogni aggressione esterna o interna destinata a causarela propria morte. Il processo avviato, inizialmente lento, ha subito un’accelera-zione con i primi anni del secolo scorso.

Il metodo scientifico ha introdotto quale strumento fondamentale l’oggetti-vazione delle malattie. Inoltre, con un procedimento analitico di scomposizione,ha applicato le tecniche d’indagine ad ogni parte dell’evoluzione di un processonocivo. L’analisi dettagliata delle malattie con una crescente progressione di precisione dei meccanismi biologici d’esplicazione, attraverso le sempre più so-fisticate applicazioni dell’indagine scientificamente basata, ha consentito di co-noscere gli intimi meccanismi di numerosissimi processi patologici e, conse-guentemente, ha consentito l’approntamento di strumenti idonei a combattere ocontrollare il progresso delle varie malattie, come mai prima poteva essere spe-rato. Malattie mortali un secolo fa sono divenute banali indisposizioni. La con-seguenza di questa potenza esplicata dalla medicina tecnico-fondata ha alteratolentamente ed inesorabilmente la percezione di noi tutti verso alcuni punti foca-li della vita dei nostri antenati. Confrontandoci con le descrizioni fatte più soprapossiamo cogliere facilmente alcune importanti differenze.

L’incremento della vita media 5 ha ridotto di molto la possibilità di confron-tarsi con una persona morente. La pressoché scongiurata presenza di epidemie haallontanato, probabilmente per sempre, la possibilità per l’uomo occidentale diincontrare sulla propria strada un morente. Inoltre, ed è qui il punto che ci premesottolineare, la potenza della medicina indirizzata alla guarigione, alla cura, hatrovato come inevitabile sede, luogo elettivo, l’ospedale. Nell’ospedale sono in-fatti concentrati tutti gli armamentari tecnologici in grado di supportare le richie-ste e le possibilità della medicina contemporanea. Ma l’ospedale, con un proces-so che accompagna l’evoluzione della potenza curativa della medicina, èdiventato da luogo ove si tenta la cura della malattia il luogo ove il medico si con-fronta con ogni tipo di patologia che accorcia la vita.

In sintesi, lentamente, l’ospedale è divenuto il luogo principale ove l’uomosi confronta con la morte, tentando con l’aiuto del medico di sconfiggerla 6. Que-sto è infatti il segreto desiderio di ogni uomo ed oggi sembra che nell’intimo del-

5 Cfr. ISTAT, Popolazione 2001, http://www.istat.it.6 I. Illich, Nemesi medica, Mondadori, Milano, 1977, p. 117.

re (tale sensazione è, infatti, ciò che ci ha mosso in questa indagine). Rispetto aitempi passati, ma non da molto, come si è visto, si sono inserite lungo questo per-corso alcune innovative condizioni che ne hanno cambiato in profondità le carat-teristiche. Cercheremo di individuare quali.

Innanzitutto va introdotto subito un fattore determinante e fondamentaleche distingue nettamente il porsi dell’uomo nel mondo oggi rispetto al passa-to. Coi primi del secolo scorso la techné 4 è entrata di prepotenza e stabilmentein ogni ambito della nostra vita. Se prima la tecnica poteva essere intesa (sola-mente) come strumento o, meglio, come una serie di strumenti o metodiche in-dirizzate al raggiungimento di uno scopo che altrimenti sarebbe stato difficileo addirittura impossibile, oggi la tecnica fa parte così profondamente della no-stra quotidianità che per noi, uomini occidentali, pare difficile immaginare unmondo ove gli apparati tecnologici ai quali siamo abituati non ci supportino piùnel nostro confronto con la vita di ogni giorno.

Altri hanno avviato una specifica riflessione sull’influenza della tecnica.Nel nostro caso però dobbiamo evidenziare se, ed eventualmente dove e come,la potenza tecnica abbia modificato alcune caratteristiche d’atteggiamento del-l’uomo verso il morire. Innanzitutto dobbiamo rapidamente ricordare come l’a-bitudine agli strumenti tecnologici che ci facilitano la fruizione dell’ambientenaturale ci abbia portato in un modo affatto nuovo rispetto al passato. Oggi sia-mo inclini senza difficoltà a considerare possibile gestire la natura in moltepli-ci aspetti delle sue manifestazioni.

Riflettiamo ad esempio sul controllo esercitato sui tempi ciclici della na-tura nell’agricoltura tramite la selezione delle sementi e la trasformazione del-le procedure di accesso ai prodotti della terra, con superamento delle limita-zioni territoriali e climatiche. Pensiamo anche a come ogni innovazione tecnicaintrodotta nella nostra vita ne abbia modificato sostanzialmente il fluire ed ilritmo e forse anche le aspettative. La luce elettrica (banale esempio ma effica-ce) ha inserito sin dai primi del secolo scorso un cuneo disgregativo nel ritmonotte-giorno, alterando e modificando per tutti noi il significato di giorno-ope-rosità nel più essenziale (e produttivo) luce-operatività. Sono solo spunti; por-tiamo l’attenzione nel merito del nostro discorso, quindi sull’azione della tec-nica nella medicina. Perché è qui che gli effetti sul morire contemporaneotrovano la loro più importante origine.

4 Cfr. U. Galimberti, Psiche e Techne, Feltrinelli, Milano, 1999.

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Purtroppo, che ogni uomo possa essere curato per ogni malattia non corri-sponde a realtà e le conseguenze di tale convinzione sono pagate per intero da co-loro che si avvicinano alla morte e sono trattati come malati in terapia intensiva.

In queste situazioni i rapporti relazionali ad ogni livello sono spesso moltodifficili. I congiunti si trovano a dover sottostare ai ritmi del reparto. L’équipeospedaliera, identificando sino alle estreme conseguenze il morente con un am-malato, ha difficoltà a recepire le istanze di attenzione che, in questi casi, sono leprime se non le uniche e vere esigenze da essere soddisfatte 11. Inoltre il sistemadiagnostico terapeutico così impostato facilita un processo di depersonalizzazio-ne dell’ammalato che viene ridotto alla patologia portata 12. Inoltre non va di-menticata un’altra particolare situazione che in ambito ospedaliero trova fertileterreno.

Come si è detto l’intera struttura è studiata con lo scopo preciso di guarire ilmaggior numero di malati (malattie) possibile; con facilità quindi la morte di unpaziente potrà essere percepita dallo staff come una sconfitta 13. Questa è ancorauna conseguenza dell’impostazione tecnico-scientifica della medicina che ana-lizza il problema malattia sino alle sue più infinitesimali particolarità per co-glierne i meccanismi nascosti ed approntare dei rimedi.

Purtroppo, il processo porta con sé anche la destrutturazione della personaammalata.

Il morente e i luoghi del morire

Non si vuole qui criticare o condannare l’attività nell’ospedale; si sottolineacome delle condizioni ambientali particolari enfatizzino le difficoltà, che co-munque rimangono sempre elevate, nel confrontarsi con una persona morente.Ma anche verso i congiunti che sono chiamati, o almeno si sentono chiamati, adare assistenza, l’ambiente ospedaliero produce delle difficoltà. Innanzitutto nonva dimenticato il subdolo pericolo che si avvii un processo di delega dell’assi-stenza al morente da parte dei congiunti stessi 14.

Inoltre, se è possibile che questi da un lato si sentano ostacolati dai ritmiospedalieri fin nelle relazionalità più semplici, da un altro è facile che percepi-scano una propria, e comprensibile, impreparazione a confrontarsi con un loro

11 Cfr. E. Kubler-Ross, La morte ed il morire, Cittadella Editore, Assisi, 1976. 12 Cfr. J.Q. Benolil, in H. Feifel, The new meaning of death, Mc Graw Hill, N.Y., p. 126.13 Cfr. C.A. Garfield, in The new meaning of death, p. 147.14 R. Kalish, in The new meaning of death, p. 218.

la nostra coscienza ognuno di noi, confidando nella potenza della medicina, ab-bia nascosto l’inconfessabile desiderio di questa possibilità 7. Ma quali sono leconseguenze, nell’ottica che abbiamo impostato?

Nella delega, che nel corso di ogni malattia si fa all’ospedale ed alla sua organizzazione di uomini e mezzi, si nasconde un’importante incrinatura del rap-porto tra uomini e ciò accade probabilmente proprio nel momento in cui un soli-do legame umano sarebbe più necessario ed utile. L’organizzazione dell’ospeda-le, improntata sull’obiettivo, molto spesso raggiungibile, di curare dalle malattie,di guarire, opera volgendo l’attenzione – proprio a seguito dell’impostazioneanalitico-scientifica delle proprie capacità – molto più frequentemente alla ma-lattia, al suo procedere, che al malato, all’uomo ammalato. Questo modo d’agirenei fatti ha consentito risultati efficaci nello sconfiggere gran parte dei malanniche hanno afflitto gli uomini occidentali nei tempi passati ma, d’altra parte (pro-prio per i risultati raggiunti e per le aspettative che il progresso in medicina ge-nera ed incita) ha stimolato quel germe che è nel fondo d’ogni uomo ovvero lapossibilità che sconfiggendo le malattie, tutte le malattie, sarà possibile sconfig-gere la morte 8.

Con un desiderio ed una speranza non apertamente confessabili l’uomo oc-cidentale si rivolge all’ospedale, santuario della medicina onnipotente, con l’at-tesa di veder risolvere il proprio decadimento mortale. Ma questo è soltanto unaspetto, una sfaccettatura dell’argomento di nostro interesse.

L’ambiente ospedaliero, proprio per la necessaria organizzazione, studiataed applicata per la massima efficienza, impone dei ritmi quotidiani e delle esi-genze operative che spessissimo sono in conflitto con le richieste anche più ba-nali degli assistiti e dei loro congiunti. Se, però, per una persona ammalata condelle solide prospettive di guarigione, tale situazione può essere ancora soppor-tabile, al contrario, per delle persone ricoverate ma in fin di vita, questa frenesiaè molto spesso d’ostacolo per un’ideale assistenza. Questo è il punto. Perché di-verso è in realtà il loro bisogno. Qui gioca appunto un ruolo importante l’aspettoche abbiamo già discusso più sopra (la convinzione che la medicina, entro brevetempo, possa sconfiggere se non la morte almeno tutte le malattie 9). Il ricovera-to in ospedale è considerato sempre un ammalato 10, ovvero una persona con del-le possibilità di guarigione. Perché è questo lo scopo dell’ospedale.

7 W. Batzell, The dying patient, in “Arch. Of Int. Med.”, CXXVII, gen. 1971, p. 106 e seg.8 I. Illich, Nemesi medica, p. 117.9 “New England Journal of Medicine”, 2000, n. 342, pp. 654-656.10 Cfr. P. Ariès, L’uomo e la morte, p. 689.

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Si accennava prima all’incalzante attività, ai ritmi stabiliti e precisi in qua-si ogni reparto ospedaliero, determinati dalla necessità di ottenere la massimaefficacia nel curare la malattia. In vista d’un fine di guarigione, infatti, la de-personalizzazione implicita nell’attività che abbiamo descritto può essere unprezzo che una persona è disposta a sostenere 18. Al contrario, quando le terapiesono inefficaci, questa non considerazione della persona nel suo intero com-plesso è un limite forte, che rischia però d’essere sopportato tutto e solamentedalla persona morente.

Questa situazione di disagio è stata finalmente presa in seria considera-zione ed ha stimolato studi e verifiche sul campo sempre più numerose e det-tagliate. Come si è detto ad oggi le conclusioni dei vari studi effettuati (sia constudi diretti sia con interviste d’operatori sanitari 19) sono orientate a considera-re l’ospedale un luogo ostile alle necessità di una persona morente. Necessitàche richiedono obbligatoriamente delle risposte ma che sono comunque moltodifferenti da quelle che un ospedale può offrire.

Tra le richieste più urgenti di una persona morente sta la possibilità di ave-re e mantenere (ma a volte anche di creare o riprendere) un contatto relaziona-le umano con delle persone care. Persino questa semplice e comprensibilissi-ma richiesta in ospedale trova, come abbiamo illustrato, degli ostacoli a volteinsuperabili ad essere soddisfatta. Si consideri che, nonostante la volontà di as-sistere al meglio un proprio caro, questo compito comporta una fatica psichicaed anche fisica 20 di per sé e questa ulteriore difficoltà può far cadere il suppor-to proprio nei momenti più cruciali. Inoltre, come per primo lo studio della Ku-bler-Ross ha evidenziato, il percorso del morente verso l’ultima soglia non èpiano ed uniforme ma, al contrario, presenta delle situazioni cangianti: dallareattività astiosa all’angoscia, alla depressione ed alla rassegnazione 21.

Se veramente si desidera essere con una persona morente occorre impara-re a seguire questi multiformi aspetti. Ma non è certo in una struttura così or-ganizzata che si potrà disporre delle condizioni ideali per attivarsi e disporsi aquesto compito.

Recentemente si sono sperimentati dei programmi formativi rivolti alleéquipes ospedaliere per consentire un adeguato raffrontarsi con il morente. Que-sto può essere un primo passo, ma il parere più diffuso si volge a stimolare la ri-cerca di luoghi alternativi all’ospedale.

18 I. Illich, Nemesi medica, p. 117.19 L.P. White, in The new meaning of death, p. 100.20 A. Cartwright, Life before death, Routledge, London, 1973, p. 28.21 E. Kubler-Ross, La morte ed il morire, p. 65 e seg.

caro in punto di morte. Veniamo ora al protagonista assoluto, suo malgrado, diquesta esposizione.

Il morente che oggi è accolto nella struttura ospedaliera vi entra quasi sem-pre come un ammalato richiedente delle cure. Ma la fiducia nella medicina scien-tifica conduce anche la persona che è già in parte cosciente del proprio stato ir-reversibile ad affidarsi comunque all’ambiente ospedaliero. In realtà questastruttura è efficace e produce egregiamente risultati validi sino ad un certo punto– ovvero quando sussista una concreta possibilità di guarigione – oltre il qualequesta si rivela una gabbia, all’interno della quale il morente è intrappolato. In unmomento della vita in cui avrebbe bisogno più che mai del sostegno di personeattente alle sue esigenze più interiori.

Va precisato (per non incorrere in fraintendimenti, in questo campo ben fa-cili) che in questa esposizione quando ci si riferisce ad un morente si fa riferi-mento ad una persona che abbia mantenuto ancora delle sufficienti capacità direlazionarsi compiutamente con l’esterno e non ai casi cui la coscienza non èpresente o, comunque, non è più in grado di porsi in contatto con il mondo. Re-stringiamo quindi arbitrariamente il campo d’osservazione entro un orizzontecerto, onde non perderci qui in valutazioni che meriterebbero pagine ad hoc.Come si capisce, in ogni caso, anche così ridotto, l’approccio è sufficiente-mente complesso.

Il morente è stato oggetto di attentissime valutazioni. Le indagini più strut-turate prendono origine dal lavoro di Elisabeth Kubler-Ross che per prima hastudiato il comportamento, con le ansie e le speranze, dei morenti ospitati nel-la struttura ospedaliera 15. Le conclusioni di questi primi lavori e di quelli suc-cessivi, condotti da altri studiosi di varia formazione professionale 16, sono pres-soché concordi nel definire l’ospedale come la struttura meno adatta asoddisfare le esigenze particolari che richiede una persona morente. Inverosembra esserci un confine netto tra la persona che ha possibilità di guarigioneed una ormai entrata nella categoria del morente. Ma questo confine, pur nettostando agli studi ed alle esperienze citate, nella pratica non è facilmente collo-cabile. Anzi in ospedale, forse anche per la particolare disposizione degli ope-ratori a tentare sempre il tutto per tutto nelle terapie (e abbiamo visto anche pernon affrontare un fallimento della propria attività 17), questo confine non vienecolto nei tempi utili alla persona morente. Purtroppo le esigenze del morente edella persona curabile sono estremamente diverse.

15 E. Kubler-Ross, La morte ed il morire.16 R. Kastembaum, Death, society and human experiences, Maximillian, New York, 1991.17 C.A. Garfield, in The new meanings of death, p. 147.

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Storia

Lo sbarco della scienzaIl pensiero scientifico arabo-islamico e l’Occidente

SILVIO MENGOTTO

L a modernità dell’Occidente si coniuga sia con il dominio dell’econo-mia, sia con straordinari progressi scientifici e tecnologici. Modernitàche tende sempre ad imporsi come unico modello per l’intero pianeta.

Il mondo arabo-islamico vive questa espansione della modernità occidentalecome minaccia, specie dopo la guerra nel Golfo. In particolar modo si sente mi-nacciato dai volti più secolarizzati e consumistici della modernizzazione. Ciòha rafforzato la difesa della identità e della cultura arabo-islamica, e ha dato ul-teriori elementi speculativi, strumentali, alle correnti più fanatiche e terroristi-che dell’Islam. Quando il mondo culturale arabo-islamico scopre che le radici,l’humus della scienza dell’Occidente, sono debitrici di un vasto patrimonioscientifico esportato nell’Europa (VIII-XII secolo), vive questa situazione conun senso di impotenza, frustrazione, diffidenza, misti ad un complesso di infe-riorità e tradimento. Queste brevi note storiche tentano di recuperare quelle ra-dici per comprendere meglio la complessità dell’oggi.

L’incontro con la cultura ellenica

Secondo lo storico Stephen F. Mason, “prima ancora del sorgere dell’I-slam, esistevano fra gli arabi persone dotate di cultura, fattore questo che do-veva più tardi facilitare l’assimilazione della scienza greca da parte dei musul-mani” 1. Un primo fatto importante, e propedeutico, fu la traduzione delle operegreche, comprese quelle filosofiche. Lavoro ciclopico e di grande impegno cherichiese più di due secoli di intenso lavoro. Il luogo dove si concentrò, e si or-ganizzò, questa gigantesca operazione di promozione culturale fu Baghdad,che ne divenne anche la capitale.

1 S.F. Mason, Storia delle scienze della natura, I, Milano 1971, p. 92.

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Un primo esempio è senz’altro l’hospice 22. Questo luogo alternativo nascesull’esperienza di una struttura nata a Londra nella metà del secolo scorso su ini-ziativa privata. Tentava di offrire un’accoglienza alle persone ormai giudicate nonreattive alle terapie disponibili in ospedale. In questo luogo si tentava di ricreareun ambiente famigliare ove la persona ospitata potesse, per quanto le sue condi-zioni lo rendessero possibile, proseguire una esistenza più impostata al manteni-mento delle relazionalità. Le esperienze successive hanno contribuito a modifi-care alcuni aspetti dell’hospice, cercando di evitare che questa strutturaprendesse un aspetto burocratizzato che avrebbe riproposto di nuovo in altra ve-ste le stesse difficoltà riscontrabili in ospedale.

Ma le esperienze così maturate ed il contributo di operatori di varia forma-zione hanno imposto di cercare altre ancora più efficaci soluzioni. Si è così pen-sato di riportare il morente nella propria casa. Un tentativo di recuperare quindiil modo antico di morire ed il luogo principe degli avvenimenti di passaggio del-la vita d’un tempo, quando la morte era ancora addomesticata.

L’esperienza così avviata, in modi e tempi differenti nei diversi paesi nelmondo occidentale, sta dando positive soddisfazioni. In Italia è ancora ai primipassi 23. Vi sono, d’altra parte, delle difficoltà quotidiane che devono essere af-frontate. Vari sono gli ostacoli. Innanzitutto l’impegno, costante e coordinato, af-finché questa esperienza sia fattiva di risultati concreti per la persona morentenon è di piccolo conto. Vanno inoltre utilizzate tutte le risorse disponibili: umanee tecnologiche. Ambedue necessitano di un’educazione, di un rodaggio. Ma sel’équipe d’operatori potrà procedere su d’un percorso formativo e migliorativodelle proprie disponibilità ed attenzioni, pare urgente, e forse ancora più fonda-mentale, affrontare e risolvere nel migliore dei modi il sostegno per i congiuntiche si caricano dell’assistenza. Queste persone probabilmente sono alla loro pri-ma esperienza nel confronto con un morente. Ed un morente, spesso, importan-tissimo affettivamente. Se lasciati soli, nel percorso verso l’ultima meta del lorocaro, potranno incontrare delle difficoltà che riterranno – privi d’esperienza e disostegno – insormontabili; magari annullando così, con un rapido declino di for-ze ed energie, l’unica àncora di relazionalità disponibile per il morente 24.

Molto lavoro, dunque, si prospetta. Ma i vissuti raccontati da coloro chehanno partecipato in prima persona a questi momenti confortano. La strada sem-bra quella giusta. Un ritorno a casa è possibile. ■

22 Cfr. C. Sauders, in The new meanings of death, p. 161 e seg.23 Cfr. “Panorama della Sanità”, n. 11, giugno 2002, p. 47.24 Cfr. Comitato Etico Fondazione Floriani, Carta dei diritti del morente, Fondazione Floria-

ni, Milano, 1999.

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espansione geografica (Africa del Nord, Spagna, Sicilia, Bisanzio e Balcani)assimila le conoscenze greche riconoscendo loro un valore di immediata utilità.Gli arabi “rivolsero pertanto il loro interesse alle discipline pratiche, quali lamatematica, la medicina, l’alchimia, la geografia, l’astronomia, le scienze na-turali e la filosofia, scartando radicalmente le opere di contenuto letterario equasi tutte quelle di carattere religioso” 5. Sotto questo profilo il processo di as-similazione degli arabi della scienza greca ci appare più naturale e comprensi-bile, paradossalmente impregnata di un pragmatico bisogno utilitaristico da ap-plicare alla vita quotidiana e sociale. Del resto le varie discipline scientifiche,nel corso della storia, hanno avuto una facile diffusione, sia per la loro eviden-te utilità, “sia per la loro natura essenzialmente ‘incolore’ che non coinvolge enon urta necessariamente l’anima di un popolo, le sue credenze e i suoi valoriideali e morali. Ci appare pertanto facilmente comprensibile che i califfi nonabbiano esitato a servirsi dell’opera di medici cristiani o di matematici ed astro-nomi non musulmani” 6.

Un tratto peculiare della scienza araba è il suo intenso richiamo al mondodell’irrazionale, del magico, dell’immaginario. Nella cultura araba la dimen-sione del “fantastico” è un tratto peculiare perché parte integrante di un mododi sentire e di vivere. L’orientale pensa e scrive in modo profondamente diffe-rente da un occidentale. In Oriente è consuetudine il raccontare. Il racconto saràtanto più bello quanto più fantastico, irreale al punto che un occidentale, nellasua mentalità razionale, potrebbe sollevare giuste obiezioni sulla veridicità delracconto; per lui il valore di una storia dipende dal fatto che si sia verificata nelmodo descritto, altrimenti il racconto perde di valore. Nella mentalità orienta-le è l’esatto contrario: in un racconto interessa il senso, il significato profondo,indipendentemente dalla veridicità del medesimo. Le opere meccaniche deifratelli Banu-Musà e al-Jazari, come vedremo, non sono proprio autentici trat-tati di meccanica, ma “opere che descrivono macchine e congegni complessi,che colpirono l’immaginazione dei musulmani per il loro carattere inconsuetodi soggetti che, nella grande maggioranza, si collocano fuori dalle normalipreoccupazioni dell’uomo” 7. Le macchine di al-Jazari erano di uso pratico, mala maggior parte avevano un evidente scopo ludico (automi in miniatura, mo-dellini di imbarcazioni che navigavano in piscina ecc.), un passatempo gioiosoper principi e califfi:

5 G. Finazzo, I musulmani e il cristianesimo, p. 85.6 G. Finazzo, I musulmani e il cristianesimo, pp. 92-93.7 M.G. Losano, Storie di automi. Dalla Grecia classica alla Belle Epoque, Torino 1991, pp. 8-9.

“Fondata dal secondo califfo abasside al-Mansour nel 763, la città divenne per vo-lontà del califfo al-Mamun anche la capitale culturale dell’impero. Egli vi fece co-struire la Bayt al Hikma o ‘Casa della sapienza’, nella quale alloggiava ed opera-va una moltitudine di dotti convocati dalle diverse regioni dell’impero. La Bayt alHikma fu un vero opificio dove si traduceva, si correggeva, si confrontavano leopere tradotte e si provvedeva alla loro conservazione. Questo immenso lavoro fucondotto in modo organico sotto l’egida dei califfi abassidi, che inviavano missio-ni di ricercatori di antichi testi anche a Costantinopoli e in India” 2.

Inizia un periodo storico propedeutico all’incontro, allo sviluppo, delle di-verse discipline scientifiche, nel quale si configurano tre tendenze: (a) la con-taminazione conoscitiva della cultura greca e cristiana con quella arabo-mu-sulmana avviene per mediazione; (b) la regione geografica maggiore doveavviene la contaminazione è la Siria; (c) le due culture si incontrarono ma sen-za formulare una nuova sintesi. Fu un incontro pragmatico e, in un certo senso,strumentale che generò un trasferimento indolore di idee appartenenti ad altreciviltà. Per parte musulmana: “non vi fu alcuna intenzione di comprendere laciviltà greca” 3. Appurata la strumentalità dell’incontro con la cultura greca, lacultura arabo-islamica limitò, e penalizzò, l’approfondimento, non lo sviluppodella scienza stessa che, nei secoli successivi, ottenne risultati d’avanguardia esviluppò acute intuizioni.

Assimilazione greca

In Grecia nasce la scienza. Nella cultura ellenica si forma la convinzioneche l’arte, l’amore e la scienza sono dimensioni differenti ma appartenenti adun medesimo moto dell’anima che aspira al supremo bene trascendente. Per Si-mone Weil la scienza greca non aspira al possesso, ma tende “a contemplarenelle apparenze sensibili un’immagine del bene … tutta la nostra cultura, sen-za escludere il marxismo, poggia sul miracolo greco, su di una civiltà, cioè, chepur avendo fatto meravigliose scoperte teoriche, è rimasta affatto sterile perquel che riguarda la tecnica” 4. Questo “miracolo greco” è sbarcato in Europatramite la mediazione culturale arabo-musulmana che, in piena rinascenza ed

2 G. Finazzo, I musulmani e il cristianesimo. Alle origini del pensiero islamico (sec. VII-X),Roma 1980, p. 85.

3 G. Finazzo, I musulmani e il cristianesimo, pp. 109-110.4 S. Weil, Sulla scienza, Torino 1971, p. 122.

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nosciuti. Le carte geografiche realizzate da al-Idrisi si sono conservate sino aigiorni nostri e ci hanno restituito il mappamondo del tempo: un’autentica ra-rità. Ruggero II non era un sovrano stravagante:

“Si era rivolto a un dotto arabo perché all’epoca tutto ciò che sapeva di scienza sivergava in caratteri arabi. Filosofia, astronomia, alchimia, matematica (algebra ealgoritmo sono termini mutuati dall’arabo) e via elencando fino alla geografia dicui si dilettava il sovrano normanno. I geografi arabi, prima ancora che Marco Polopuntasse ad Oriente, avevano già notizie relativamente precise del mondo di allo-ra, percorso da viaggiatori instancabili e mercanti curiosi che si spingevano al dilà dei confini mutevoli dell’Islam fino in Estremo Oriente” 11.

Nel secolo VIII gli arabi, imparando da greci e indiani, apprendono lascienza dell’astronomia. Nell’828 a Baghdad viene costruito il primo osserva-torio. Nell’anno Mille astronomi e astrologi conoscono le longitudini e i calen-dari. Le prime osservazioni astronomiche portano il nome di al-Farghani e ven-gono continuate da Thabit ibn Qurra e al-Battani. Questi astronomi vivevano:

“ad Harran in Mesopotamia, dove l’antica religione babilonese, con la sua astro-logia e il culto delle stelle, sopravviveva nella forma della setta pagana dei Sabia-ni, che era stata tollerata da tutti i successivi conquistatori della Mesopotamia finoal XIII secolo, allorché i Sabiani furono annientati dai Mongoli. Al-Battani otten-ne valori per l’obliquità dell’eclisse e la precessione degli equinozi che erano piùaccurati di quelli di Tolomeo, e scoperse che l’eccentricità del sole era mutevole –in termini moderni che l’orbita della Terra è un’ellisse instabile. Verso quest’epo-ca, al Khoworizmi introdusse nel mondo musulmano la numerazione indiana e imetodi indiani di calcolo” 12.

Al Khoworizmi scrisse la prima opera di algebra che venne tradotta in la-tino con il titolo Liber Algorismi, una latinizzazione del nome del matematicoarabo, dal quale deriva l’attuale termine matematico “algoritmo”. I calcoli de-gli astronomi, come quelli degli studiosi di scienze ottiche, furono possibiligrazie allo sviluppo delle scienze matematiche. È merito degli arabi l’aver resopossibile “il nostro usuale calcolo posizionale con l’invenzione dello zero e, in-troducendo i numeri indiani, da noi detti arabi, riprendendo le prime intuizionidi Diofanto Alessandrino” 13.

11 A. Arioli, Mirabile Occidente, in “Arancia Blù”, II, n. 2-3 (marzo 1991).12 S.F. Mason, Storia delle scienze della natura, Milano 1971, p. 93.13 S. Moranti, Nell’ottica di Allah, in “Arancia Blù”, II, n. 2-3 (marzo 1991), p. 46.

“Il carattere gioioso o magico è di fondamentale importanza per comprendere l’e-voluzione della scienza islamica e la sua differenza rispetto alla scienza occiden-tale che si andrà sviluppando dal ’600 in poi… alcune invenzioni anticiparono con-cezioni tecnologiche moderne, ma è proprio questo tipo di tecnologia che imusulmani non considereranno mai seriamente come un possibile strumento permutare la propria vita economica ed i propri mezzi di produzione” 8.

Non possiamo tralasciare l’influenza determinante della religione e dellamentalità semitica nei confronti della ricerca scientifica. L’Islam, nella suaconcezione geocentrica dell’Universo, esprime un carattere progressivo al di-venire dell’Universo stesso, come si evince dalle sure coraniche sulla creazio-ne (XXII,47; XLI,9-12; LXX,4). Questa visione ha avuto ripercussioni sullascienza araba perché ha reso il musulmano consapevole di non potersi sostitui-re al volere di Allah nel governo stesso del mondo. Tale convinzione ha rallen-tato, o limitato, un certo appetito, o fame, di conoscenza e di intraprendenzaspeculativa. Questa subordinazione della ragione alla fede ha privato la scien-za araba di evolversi in autonomia. Per questo la scienza araba: “non venne maisecolarizzata, ma continuò a vedere ogni elemento della natura come parte d’ununiverso governato dalla fede islamica. Il perseguimento d’una tecnologia di-versa avrebbe costituito la perdita di quell’equilibrio rispetto alla natura, che ècosì importante per la mentalità islamica” 9. Nell’Islam c’è una continua, im-perativa, distinzione irrefutabile tra assoluto e relativo. Una convinzione ripe-tuta quotidianamente per cinque volte al giorno nelle preghiere recitate daimuezzin dall’alto dei minareti. Preghiere che ricordano ai fedeli che la vita èimpregnata: “di una presenza sacra che è ricordo della Realtà divina rispettoalla quale il mondo terreno è solo distrazione e gioco, secondo l’espressionecoranica. Questo contribuisce a mantenere nelle popolazioni musulmane unacerta coscienza dell’evanescenza di tutte le cose, poco in armonia con il sensomoderno dell’efficienza che costituisce la forza delle società industriali” 10.

Splendore di una scienza d’avanguardia

Re Ruggero II, crociato controvoglia per ragioni di schieramento politico,in pieno conflitto ospita nella corte palermitana il dotto arabo al-Idrisi. Il re cri-stiano desiderava avere da lui un planisfero dei luoghi della terra sino allora co-

8 M.G. Losano, Storie di automi, p. 9.9 M.G. Losano, Storie di automi, p. 9.10 R. Du Pasquier, Il risveglio dell’Islam, Milano 1991, p. 42.

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Sina, noto come Avicenna, fu tradotto in latino e insegnato per secoli nelleuniversità occidentali: si tratta di uno dei testi ristampati con frequenza nel Ri-nascimento. L’importanza della medicina araba non riguardò solamente fon-damentali intuizioni, come l’esistenza dei microbi, ma anche l’insegnamentodella medicina clinica negli ospedali e il peculiare metodo di fare scienza me-dica che, ancora oggi, influenza la conoscenza islamica. Per S. Hassein Nasr,autore di Scienza e civiltà nell’Islam, “si tratta di una medicina psicosomati-ca, attenta alla fisiologia, come dimostrano le innumerevoli scoperte anatomi-che, ma anche all’interazione fra corpo e mente … una scienza che accettò unacerta limitazione al fine di preservare la libertà d’espansione e di realizzazio-ne nel campo spirituale”. Nelle discipline meccaniche e idrauliche si possonocogliere delle specificità creative nella scienza araba sulle quali vale la penasoffermarsi. L’orologio meccanico dai greci passò ai romani, poi agli arabi epoi ai conventi e chiese medievali. Per H. Diels “non avremmo un’idea chiaradi questo meccanismo, se gli arabi non avessero ripreso e arricchito i modelligreci ed i loro manuali tecnici, lasciandoci descrizioni e disegni di orologimeccanici” 16.

Nel IX secolo una terna di autori compilò a Baghdad un libro titolato Ki-tab al-Hiyal (“Sui meccanismi ingegnosi”), che si ispirava alla Pneumatica diErone di Alessandria. In questi manoscritti sono illustrate, con ricchezza didettagli, molte invenzioni meccaniche, idrauliche, valvole di regolazione, au-tomi (gli antenati dei moderni robot). Gli autori erano i tre fratelli Banu Musa,alti funzionari alla corte dei califfi Abbasidi, che avevano compiuto i loro stu-di nell’accademia di Baghdad nota come “Casa della saggezza” studiandogeometria, meccanica, musica e astronomia. I loro congegni aggiunsero per-fezionamenti a quelli realizzati dai Greci; la loro opera conobbe una vasta for-tuna nel mondo arabo sino al XIV secolo. Tra le numerose invenzioni ne ri-cordiamo tre, importanti per il loro successivo sviluppo in Europa: ilregolatore a galleggiante, la valvola conica, la manovella a gomito. Il regola-tore a galleggiante fu applicato per la regolazione del flusso d’acqua necessa-rio per abbeverare gli animali. Questo meccanismo: “ispirò alcune delle piùsuperbe conquiste della tecnologia islamica nel periodo precedente il Me-dioevo. Gli artigiani musulmani costruirono monumentali orologi ad acqua incui i congegni complessi e spettacolari, mossi da automi, scandivano il tem-po”. All’inizio del XIII secolo, la valvola galleggiante esce di scena per ri-comparire in Inghilterra “da inventori che, apparentemente, erano all’oscuro

16 M.G. Losano, Storie di automi, pp. 18-20.

Un particolare sviluppo delle scienze arabe si rivolse allo studio dell’otti-ca. Nomi come Hunain Ibn Ishaq e al-Razi furono determinanti per lo svilup-po dell’ottica e la diffusione in Occidente di Euclide e Tolomeo. Altro impor-tante studioso di ottica è al-Haitham (965-1038), detto dai latini al-Hazen:correla complicati trattati matematici a modelli fisici, insieme ad accurate spe-rimentazioni, contribuendo ad un’efficace svolta empirica all’indagine scienti-fica che verrà recepita dall’Occidente dopo cinque secoli. Criticò Euclide, To-lomeo e altri antichi, che sostenevano fosse l’occhio a emettere raggi di luceper vedere gli oggetti. Per Al-Haitham “è dell’oggetto visto che vengono i rag-gi di luce, e che questa si diffondeva sfericamente da qualsiasi fonte. Nei suoistudi sperimentali sulle lenti d’ingrandimento egli si avvicinò alla teoria mo-derna delle lenti convesse” 14.

L’alchimia fu un altro settore nelle scienze arabe. Questa particolare “di-sciplina” si affermò nell’Islam nel IX secolo. In Oriente l’alchimia ha sempreavuto un aspetto “inufficiale”, collegata con le correnti mistiche da un lato econ la chimica dall’altro. Nell’Islam questa connessione era più accentuata chealtrove. Tra le sette ufficiali della religione islamica più radicali dei Sufi, quel-la dei Qarmati sosteneva che tutti gli uomini erano uguali, tentando di

“conferire parità ai loro membri attraverso attività educative, come la fondazione discuole e la redazione di enciclopedie. Essi istituirono anche scuole di ‘Fratelli puri’in varie città dell’Islam perché contribuissero alla diffusione delle loro idee. I ‘Fra-telli della Purezza’ scrissero la maggior parte delle opere islamiche di alchimia. Leloro opere erano soltanto una parte di una enciclopedia da loro redatta, la quale com-prendeva cinquantadue trattati, di cui diciassette erano dedicati ad argomenti scien-tifici. L’opera fu dichiarata eretica e bruciata dai Sunniti ortodossi di Baghdad” 15.

Sotto il profilo pratico, gli alchimisti islamici furono importanti per averepraticato e diffuso l’uso della bilancia e lo studio quantitativo delle operazionichimiche. Conobbero e praticarono prodotti chimici sconosciuti ai greci comegli acidi minerali, il salnitro.

Altro campo d’avanguardia fu la medicina. Gli arabi conoscevano alcunitesti greci, in particolare quelli della scuola ippocratica e di Galeno, perduti inEuropa. Ar-Razi (865-925), uno dei primi studiosi di medicina, operò a Bagh-dad e scrisse più di cento opere. La più famosa abbraccia l’intera medicinagreca, indiana e medio-orientale allora conosciuta. Il Canon medicinae di Ibn

14 S.F. Mason, Storia delle scienze della natura, p. 96.15 S.F. Mason, Storia delle scienze della natura, p. 94.

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Associazione Rosa Bianca

“Governare il mondo: un’utopia possibile”23ª Scuola della Rosa BiancaTriuggio, 5-6-7 settembre 2003

Programma

venerdì 5 settembre (in serata): arrivi

sabato 6 settembre

9.00 Introduzione (Giovanni Colombo, presidente della Rosa Bianca)

9.30 Lo stato del pianeta (Giuliana Martirani, docente di Geografia politi-ca e economica, Università Federico II di Napoli)Le prospettive politiche e istituzionali (Guido Formigoni, docente diStoria contemporanea, Università Iulm di Milano)

15.00 Le dinamiche sociali (Mauro Magatti, docente di Sociologia, Univer-sità Cattolica di Milano)I rapporti tra Nord e Sud (Marco Missaglia, docente di Politiche perlo sviluppo, Università di Pavia)

21.00 Assemblea nazionale della Rosa Bianca. Rinnovo delle cariche

domenica 7 settembre

9.00 Il ruolo dell’Italia e dell’Europa. Tavola rotonda con Rosi Bindi, En-rico Letta, Gianni Kessler, Franco Monaco, Giorgio Tonini. CoordinaMarco Damilano, giornalista de “L’Espresso”

della sua carriera precedente” 17. La valvola conica, più volte menzionata nel-le opere dei fratelli Banu Musa, si diffuse in Europa sulla base di un disegnoleonardesco e fu ripresa definitivamente dal Ramelli nel XVII secolo. La manovella a gomito (cramk) anticipa di cinque secoli l’albero a gomito usatonei motori tradizionali: autocarri, camions, automobili. Tra il 1204 e il 1206al-Jazari scrisse il Libro della conoscenza dei meccanismi ingegnosi. L’operaè considerata universalmente come l’apice della meccanica araba medievale.Per G. Sarton il trattato jazariano: “è il più elaborato del suo genere e può es-sere considerato il punto culminante di questo filone di pensiero musulmano”.

A conclusione di questa panoramica storica è interessante ricordare che gliarabi eccelsero anche nella musica, specie quando l’espansione araba diede l’op-portunità di conoscere quella persiana e bizantina. Tra gli studiosi più importan-ti al-Kindi (796-873) fu di straordinaria personalità, operò a Kufa, Basra e Ba-ghdad. Una peculiarità, che gli valse l’accusa di eresia, fu il suo tentativo dioperare una distinzione, non separazione, tra la scienza divina e quella umana,assegnando alla filosofia il ruolo di ancella della teologia. In questa distinzioneal-Kindi interpretava la natura come attività del divenire e dei mutamenti e, quin-di, potenzialmente ricca di risorse autonome nel suo sviluppo. Questo pensiero,derivato dal razionalismo greco, è alla radice dell’empirismo nella filosofia mu-sulmana, cioè dell’introduzione di un atteggiamento speculativo che rispondeva

“all’esigenza di conoscere l’universo sensibile e di trovare in esso la riprova delvalore universale, e quindi della veridicità, della parola rivelata. L’indagine di al-Kindi si estese pertanto all’astronomia, alla matematica, alla geometria, allescienze naturali e alla musica. Della sua vasta produzione restano pochissimeopere, delle quali alcune ci sono pervenute nella traduzione latina di Gerardo daCremona (1114-1187). Ma ciò basta per confermare che al-Kindi fu uno spiritouniversale”18. ■

17 O. Mayer, Le origini del controllo a retroazione, in “Le Scienze”, IV, n. 29 (gennaio 1971),pp. 65-66.

18 G. Finazzo, I musulmani e il cristianesimo, p. 137.

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12.30 Presentazione del libro Persona e Comunità - La proposta della RosaBianca per una nuova politica

13.30 Conclusioni

Note organizzative

La sede dell’incontro è presso la Villa Sacro Cuore, via Sacro Cuore 7, 20050Triuggio (Milano); tel. 0362 919322.

Per chi arriva in treno: linea Milano-Monza-Molteno (fermata Macherio-Ca-nonica, poi telefonare).Per chi arriva in auto: autostrada Milano-Venezia/Tangenziale Est uscita Agra-te; seguire per Lesmo-Peregallo-Canonica-Triuggio.

Iscrizione: euro 10.Quota giornaliera: euro 42.

Prenotazioni: Fabio Caneri (348 4526033 - [email protected]);Giovanni Colombo (333 4692777 - [email protected]). ■