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Il valore della Terra

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di Mario Magro, fantasy

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Mario Magro

IL VALORE DELLA TERRA

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IL VALORE DELLA TERRA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Mario Magro ISBN: 978-88-6307-349-2

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Marzo 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Narrato da Vincenzo, patriarca del clan Gelsi. «Direi che ci siamo tutti» annunciai, vedendo gli ultimi cugini soprag-giungere sui loro calesse con le famiglie al seguito. Fortunatamente quel giorno il sole splendeva in un cielo sgombro da nu-vole, e ci saremmo potuti accomodare nell’aia. La pioggia è una benedi-zione per i campi, ma se avessimo dovuto ammassarci nella sala comune saremmo stati veramente allo stretto. Attesi prima di dare il via al consiglio di famiglia. Il lavoro nei campi, soprattutto nella stagione estiva, non ci consentiva di recarci a visitare frequentemente i parenti. Com’era uso fra le genti delle pianure, il clan era distribuito in una serie più o meno contigua di piccoli insediamenti, le cosiddette “cascine”, ognuna delle quali era composta dalle abitazioni di una mezza dozzina di nuclei famigliari. Vivere in un unico grosso vil-laggio avrebbe comportato tempi troppo lunghi per raggiungere i terreni agricoli posti nelle proprietà più distanti dal centro abitato. Ora che era-vamo riuniti, tutti desideravano scambiarsi saluti, notizie e anche qualche pettegolezzo. Diedi loro il tempo necessario a quello scambio di convenevoli, mentre ricapitolavo mentalmente le ragioni che avrei esposto a sostegno del mio progetto. Ovviamente ne avevo già accennato a molti dei presenti, e in linea di massima si erano dichiarati possibilisti. Ma una decisione del genere richiedeva un consenso pressoché unanime. Mia moglie e Clara, la maggiore delle mie tre figlie, si aggiravano fra i capannelli, chiacchierando e mescendo tè freddo, mentre le altre due le tallonavano reggendo vassoi carichi di biscotti appena sfornati. Matilda non si era mai sentita del tutto a suo agio nel ruolo di consorte del patri-arca, ma aveva sempre fatto ciò che era necessario per sostenermi. Quel-la notte era rimasta sveglia per preparare quei dolci eppure, nonostante non fosse più una ragazzina, appariva fresca e cordiale come sempre.

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L’avevo conosciuta a scuola, quasi quarant’anni addietro. L’affetto fra noi era sbocciato in modo talmente spontaneo che neanche sei mesi do-po, sebbene fossi ancora molto giovane, mi ero presentato al patriarca del suo clan chiedendogli il permesso di organizzare un fidanzamento. «Trovare una buona moglie» mi aveva detto mio padre, quando ero tor-nato a casa esultante per il consenso ricevuto «è la più grande delle be-nedizioni che un uomo possa desiderare. E quella Matilda mi pare una ragazza in gamba.» A distanza di tanti anni, con le nostre figlie già sposate, quattro nipotini e un quinto in arrivo, mi accorgevo di quanto avesse avuto ragione. Natu-ralmente lei era stata la prima persona alla quale avevo esposto la mia idea. Non ne era entusiasta, ma aveva riconosciuto la validità delle mie motivazioni. Si era limitata a pochi e ben ponderati consigli, che mi ave-vano consentito di rivederla in termini più pratici e realistici. Se sono ben affiatate, due teste ragionano meglio di una sola. Mentre ero impegnato in quelle riflessioni i presenti cominciarono ad ac-comodarsi sulle panche. I più anziani presero posto sotto una pergola che avevamo eretto appositamente per loro. Quella struttura, sebbene provvi-soria, avrebbe richiesto parecchio tempo a essere realizzata se me ne fos-si occupato da solo. Ma ovviamente ero stato aiutato dai parenti del vici-nato. «Cari cugini» esordii «sono lieto di trovarvi tutti in buona salute.» «Grazie, grazie…» ansimò il cugino Antonio, mentre si esibiva in osten-tati colpi di tosse e fingeva di essere sul punto di strozzarsi. Molti fra i presenti risero bonariamente. Antonio amava intrattenere la gente con canzoni e storielle divertenti, e quando ci riunivamo si prodi-gava sempre ad allietarci con le sue improvvisate esibizioni. A mio avvi-so avrebbe meritato di venire avviato a una scuola druidica, per diventare un bardo. Ma, per quanto la decisione ci avesse addolorati, io e il consi-glio degli anziani eravamo giunti alla conclusione che il clan non poteva permettersi l’onere di mantenerlo agli studi per il lungo periodo richie-sto. Lui non aveva mai dato segno di esserne dispiaciuto, ma ero certo che in cuor suo avrebbe desiderato di poter intraprendere quella carriera. “D’altronde chi di noi, almeno una volta nella vita, non ha aspirato a qualcosa di diverso da quanto ci ha riservato il destino? Se il mio piano avrà successo le cose cambieranno. Certo, non saremo noi a cogliere i frutti di questa impresa, e probabilmente neanche i no-stri figli. Forse fra due o tre generazioni il clan Gelsi potrà permettersi di far accedere i propri rampolli alle scuole superiori, magari perfino all’Accademia…”

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Mi strappai da quelle fantasie con rammarico. I cugini attendevano che io prendessi la parola, e sapevo che non era sufficiente ottenere la loro approvazione. Mi serviva la loro totale partecipazione, poiché in quel progetto avrebbero dovuto investire il lavoro dei loro anni a venire. Una volta partiti, non sarebbe stato semplice ricredersi e tornare indietro. «Qualcuno di voi si è mai chiesto da quanto tempo il nostro clan è inse-diato su queste terre?» presi a dire. La mia domanda aveva suscitato espressioni di sorpresa sui volti di non pochi dei miei parenti. La risposta che leggevo nei loro occhi era presso-ché univoca. «Da sempre» sussurrò la cugina Piera, dando voce a quanto pensavano anche gli altri. «Certo, da sempre» le fece eco il brusio dei presenti. «Da sempre» confermai «siamo nati qui, i nostri padri sono nati qui e lo stesso vale per i padri dei nostri padri. In questa terra giacciono le ossa dei nostri avi, noi e questa terra siamo una cosa sola.» «Così si usa dire, poiché risponde a verità» mormorarono in coro molti di loro, e io mi resi conto di aver inavvertitamente citato un passo della Preghiera agli Antenati. «Qualcuno ha mai sentito narrare di un tempo in cui la nostra gente sia vissuta in un altro luogo?» ripresi, rivolto ai più anziani; nessuno mi ri-spose e alcuni scossero la testa in segno di diniego. «Viviamo bene qui. La terra è ricca e fertile, il governo garantisce pace e giustizia, il nostro benessere è aumentato con l’avvicendarsi delle gene-razioni. Non abbiamo alcun motivo per desiderare di andarcene altrove.» Nuovamente le mie parole suscitarono sguardi perplessi, soprattutto da parte dei più giovani. Ma i vecchi, da sotto la pergola, mi guardavano con occhi scaltri e accorti. Loro mi conoscevano da quand’ero un ragaz-zino, e già intuivano dove stavo andando a parare. «A meno che, naturalmente, non desideriamo qualcosa di meglio» con-clusi. Per lunghi istanti solo il silenzio fece eco alle mie parole, poi il brusio, poi le voci, poi domande concitate che si sovrapponevano. Il mio ruolo di patriarca suscitava in loro fiducia e rispetto, ciononostante avvertivo una nota ansiosa in quel vociare. «Andarcene? Perché? Dove?» probabilmente nessuno aveva pronunciato quelle tre parole nella medesima frase, eppure era quello il succo del di-scorso. «Andarcene» ripresi quando si furono chetati «sì, è ciò che secondo me sarebbe bene fare.

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«Perché andarcene? Non è facile da spiegare, per cui vi prego di ascol-tarmi molto attentamente.» «La capitale è a due soli giorni di viaggio da qui» proseguii «assorbe da sola le eccedenze agricole di tutta la regione circostante, e questo ha fatto crescere il valore dei generi alimentari. Rispetto i nostri progenitori ab-biamo la possibilità di guadagnare di più, oppure lavorare un po’ di me-no, riuscendo ugualmente a provvedere alle nostre esigenze, e io dico che questo è un bene. «Il valore delle nostre proprietà, di conseguenza, è aumentato, quindi siamo divenuti più ricchi. Ormai una buona fattoria vale quasi quanto una residenza signorile in città. E questo è giusto, perché è dalla terra che si trae il sostentamento, tanto il nostro quanto quello dei nobili, dei bor-ghesi e degli artigiani.» «Infine, il nostro numero cresce più in fretta di quanto avvenisse in pas-sato» conclusi, volgendo nuovamente lo sguardo agli anziani. «È vero» confermò l’ottuagenario ma ancor lucido cugino Giovanni «non è che abbiamo più figli, ma la mortalità infantile è diminuita. Quand’ero giovane, chiamare un taumaturgo per una visita medica non era alla portata di tutte le tasche. Inoltre adesso disponiamo di cibo vario e abbondante, per cui i bambini crescono più sani.» «Benissimo. Come potete constatare, va tutto nel migliore dei modi, al-meno così pare. Eppure io vi dico che le cose non stanno così» valutai per un attimo il silenzio che accolse le mie parole prima di proseguire. «Fra quanto si sposa tuo figlio?» domandai rivolto al nerboruto cugino Adolfo, seduto in prima fila. «Fra sei mesi, con una ragazza del clan Graziani.» «Mirella, vero? Una giovane adorabile e con la testa a posto, sono certo che saranno felici insieme.» «Certo, ma questo cosa c’entra?» «Dove andranno a vivere?» insistetti. «Ne abbiamo già parlato, cugino Vincenzo. Quel podere vicino al fiu-me…» «Esattamente. Il patrimonio del clan coprirà le spese relative all’acquisto del terreno, mentre quello della futura sposa provvederà al corredo e alla costruzione della casa. È bene che questi due giovani possano comincia-re la loro vita assieme senza incertezze economiche, visto che possiamo permetterci di fare questo per loro… almeno per ora.» Le mie ultime parole suscitarono un piccolo putiferio. Solo gli anziani rimasero in silenzio. Loro ricordavano i tempi in cui i giovani, nei primi anni della loro vita matrimoniale, erano obbligati a fare i braccianti fin-

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ché non si fosse reso disponibile uno dei fondi del clan. Sapevano che il benessere non è qualcosa che si possa dare per scontato, e che la fortuna può andare come venire. «Tranquillizzatevi, vi prego. Il nostro patrimonio è in buone mani; il banco Ugolini & soci è uno dei più antichi e prestigiosi, e viene ocula-tamente gestito» precisai. «Tuttavia acquistare terreni agricoli diventa sempre più dispendioso, e il numero dei nostri figli che si trova ad averne bisogno cresce di anno in anno. Prima o poi non saremo più in grado di sostenere questo onere e saremo costretti a indebitarci. Ne ho parlato con il patriarca degli Ugoli-ni, ed è disposto a concederci credito a un tasso assai favorevole. Ma io non penso che questa sarebbe una buona idea. Ho sentito dire che alcuni clan si sono esposti a tal punto che ormai ricorrono a prestiti anche per acquistare le sementi.» Quell’ultimo particolare era frutto della mia fantasia, ma non potevo e-scludere che prima o poi qualcuno potesse veramente giungere a tanto. Eppure le mie parole avevano colto nel segno. Il nostro buonsenso di contadini ci portava a diffidare istintivamente dell’idea di spendere dena-ro che non possedevamo. «In alternativa» incalzai «i nostri giovani dovrebbero andare a lavorare presso qualche grande proprietà nobiliare, fintantoché non si riesca a procurarne una per loro. Per quanto riguarda coloro che sono bambini adesso non dovrebbe trattarsi di più di cinque o sei anni, ma le genera-zioni successive saranno costrette ad adattarsi a periodi più lunghi.» I commenti, che fino a quel momento avevano espresso tuttalpiù una blanda preoccupazione, assunsero d’un tratto un tono scandalizzato. Vidi numerose teste voltarsi verso il frutteto dove i bambini giocavano lieta-mente. I pensieri che in quel momento turbavano le menti dei miei cugini erano i medesimi che inquietavano la mia da diverso tempo. Nessuno di noi era disposto a permettere che in futuro i giovani del clan consumas-sero i loro anni migliori spaccandosi la schiena sulla terra di qualcun al-tro. «Lavoreremo di più» disse Adolfo «possiamo metterci d’accordo con il conte e coltivare le sue proprietà un giorno alla settimana. Accantonere-mo i salari, in modo da provvedere alle doti. So di alcuni clan che già lo fanno.» «È proprio questo il punto. Il conte è un brav’uomo, e se potrà ci verrà incontro. Ma non può assorbire manodopera all’infinito. Prima o poi i salari dei braccianti perderanno valore. Inoltre avremo meno tempo da

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dedicare alla nostra produzione. A lungo andare sarebbe per noi più un danno che una soluzione.» «Potremmo dedicarci a delle coltivazioni più intensive» propose il cugi-no Matteo, un giovane acuto e sensibile, dalla pelle liscia come quella di un ragazzino «questo ci permetterebbe di ridurre l’estensione di ogni singola proprietà, e di suddividerla in un maggior numero di appezza-menti.» «Ho preso in considerazione anche questa possibilità» gli spiegai «ma si tratterebbe di prodotti che i mercanti importano in gran quantità dalle I-sole Australi e dalla Costa Orientale. Attualmente li coltiviamo per il no-stro consumo, ma non saremmo mai in grado di competere con loro se tentassimo di venderli nei mercati. Allo stesso modo non possiamo dedi-carci esclusivamente all’allevamento. I nomadi delle steppe possiedono mandrie enormi, e hanno fatto crollare i prezzi della carne e dei prodotti caseari. In termini realistici, l’unica fonte di reddito sulla quale possiamo contare deriva dalla coltivazione estensiva di cereali, ortaggi e legumi. E per questo serve molta terra. Quindi il problema verte su una questione molto semplice. Dov’è che ce ne possiamo procurare a sufficienza?» La mia domanda rimase senza risposta poiché ve n’era solo una, e com-portava una scelta che nessuno desiderava prendere in considerazione. Io ero il patriarca, il benessere del clan era il fardello del quale mi ero fatto carico il giorno in cui il mio predecessore era andato a raggiungere gli Antenati e gli anziani mi avevano designato a succedergli. Spettava a me pronunciare quelle amare parole. «Come ben sapete, il governo offre terra a chi è disposto a trasferirsi sul-la frontiera. Terra vergine, mai violata da un aratro, gratuita ed esentasse. Tutta la terra che possiamo desiderare, per noi e per chi verrà dopo di noi. Ma per ottenere ciò, ci sono degli impegni da assumere e, ovviamen-te, dovremo abbandonare le nostre case. La scelta spetta a noi. Rimanere qui, sperando che le cose si aggiustino da sole, oppure partire alla ricerca di una soluzione? Io sono il patriarca di questo clan, ma questa non è una decisione che io possa prendere da solo. Voglio sentire, dalle vostre voci, cosa ne pensate.» «Ma vi chiederanno di combattere!» esclamò la cugina Maria, stringendo istintivamente la mano del marito che le era seduto a fianco. «Non è precisamente così» le risposi in tono pacato. «Fortunatamente qui c’è qualcuno che può chiarirci le idee riguardo que-sto punto» aggiunsi, indicando il cugino Roberto.

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Avevo organizzato di proposito il consiglio di famiglia in occasione di una sua licenza. Il nostro parente prestava servizio nell’armata da tredici anni, ed era al corrente della situazione sulla frontiera. «Le cose stanno come tu dici, cara cugina» disse alzandosi in piedi «il governo assegna terre ai coloni, ma in cambio richiede prestazioni di tipo militare.» Un silenzio carico di disagio accolse le sue parole. Nessuno era tanto in-genuo da pensare che ci fosse qualcosa di eroico nell’andare a farsi am-mazzare in qualche landa sconosciuta. Roberto, già da giovane, era sem-pre stato un tipo inquieto, poco propenso ad adattarsi a una vita di duro lavoro, ma nella nostra famiglia rappresentava un’eccezione. «Tuttavia» proseguì in tono rassicurante «sarebbe sbagliato pensare che ciò vi trasformerebbe di fatto in soldati.» «Non ti seguo, cugino» fece Adolfo «dove starebbe la differenza?» «Ecco, agli effetti vi verrebbe richiesto di essere disponibili a combattere in caso di necessità. E comunque solo per quanto riguarda il tratto di frontiera in cui vi insedierete, con compiti prettamente difensivi. Per far-vi un esempio, dov’è stanziato il mio reggimento è stato richiesto l’intervento dei coloni in tre sole occasioni, da quando io sono lì.» «Ne basta anche una sola per rimetterci la pelle. Io sono sposato, non ho nessuna intenzione di lasciar vedova mia moglie e orfani i miei figli.» Un brusio d’approvazione accolse le sue parole. «Lascia che mi spieghi, te ne prego» disse Roberto, e Adolfo, con un cenno delle mani, si scusò per averlo interrotto. «Come dicevo, nel caso in cui il comandante di settore sia costretto a spostare parte delle sue unità, richiama in armi un certo numero di colo-ni, che vengono assegnati come rincalzo ai reparti regolari. In genere si occupano di presidiare strutture fortificate poste lungo i confini. Non si tratta di incarichi pericolosi, come partecipare a scontri campali o pattu-gliare aree a rischio.» «Cosa intendi quando dici che ne viene richiamato “un certo numero”?» intervenne in tono sospettoso Giovanni, che fino a quel momento aveva seguito attentamente la conversazione dall’ombra della pergola. «In genere fino a un quarto degli uomini da ogni singolo clan. Comun-que ciò è specificato dai termini del contratto con il governo. Nei tratti di frontiera più a rischio il limite è di uno su cinque, o anche meno, poiché il compito principale dei coloni, agli effetti, è quello di garantire la sicu-rezza delle proprie case, terre e famiglie. E questa è una cosa per la quale ognuno di voi sarebbe pronto a combattere in ogni caso. Almeno, così mi auguro.»

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«E allora perché il governo concederebbe tante agevolazioni, in cambio di qualcosa che noi faremmo comunque?» «Perché la presenza di insediamenti capaci di autodifendersi rende i con-fini più sicuri e agevola i compiti dei reparti regolari. Inoltre, con il pas-sare degli anni, la frontiera avanza e si consolida. Il vero incarico dei co-loni è quello di trasformare quelle lande deserte in ricche e fertili terre agricole, abitate da gente fidata e ligia alle leggi. Come vedi, il governo ha buoni motivi per favorire chi accetta di trasferirsi laggiù.» «I patti vengono rispettati, quando sono equi» commentò Giovanni, ci-tando un vecchio detto popolare. «Così si usa dire, perché risponde a verità» rispose meccanicamente il soldato. «Comunque» proseguì «quando si prevedono situazioni di pericolo ven-gono richiamati anche reparti di miliziani nomadi. Come ben sapete, a differenza dei coloni, possono venir impiegati in qualunque punto della frontiera, e sono gente avvezza alla guerra.» «Già, loro si divertono a massacrare, e per farlo ricevono pure un bel sussidio pagato con i soldi delle nostre tasse» commentò acidamente Adolfo. La pace regnava ormai da secoli fra la gente delle pianure e il popolo delle steppe, ma la diffidenza era dura a morire. Nei Tempi Remoti, pri-ma che venissero imposte la legge e l’ordine, il loro nome era sinonimo di morte e distruzione, e il conflitto fra le due etnie rappresentava una costante ineluttabile. «I coloni vengono ricompensati con la terra, i miliziani con il denaro. È il Patto a vietare ai nomadi di possedere immobili, e sia noi che loro ob-bediamo alla medesima legge» gli ricordai. «Ho parecchi camerati di origine nomade» rincarò Roberto «sono teste calde, questo è vero, ma coraggiosi e leali. Se tu li conoscessi meglio, non ne parleresti così.» Per la seconda volta Adolfo fece un cenno di scuse e io, conoscendone il carattere, ritenni che avesse ampiamente raggiunto il suo limite, per cui cambiai argomento. «Mi pare che a questo punto abbiamo tutti ben chiaro cosa ci si aspetta da noi, a fronte di quanto ci viene offerto. È un azzardo, certo, ma sap-piamo anche a quali rischi andiamo incontro restando qui. Dobbiamo giungere a una decisione, e prima sarà, meglio è. Tuttavia, come il mio stomaco sta cercando di farmi notare da un po’, è quasi ora di pranzo, e ritengo sarà più facile ragionare a pancia piena.»

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Udii qualche risata sommessa, e i presenti si misero in movimento. Gli uomini approntavano i tavoli e le panche mentre le donne apparecchia-vano. Se, come mi auguravo, la mia idea fosse stata accolta, era necessa-rio che venisse prima ben ponderata. I miei cugini avevano bisogno di scambiarsi le proprie opinioni in proposito, e mangiare insieme era il modo migliore. Dal profumo che avvertii emanare dalle pentole che venivano portate in tavola capii che Matilda aveva preparato pasta e ceci, il suo piatto forte. “Bene, comunque andrà a finire, ci saremo gustati un buon pranzo.”

* * * Tornando dai campi notai il calesse parcheggiato nel cortile dietro a casa mia, e riconobbi i colori dei quali era adornato. La cosa non mi stupiva affatto, ero praticamente certo che avrei ricevuto quella visita. Porsi i miei attrezzi al robusto cugino Daniele, che incedeva accanto a me cam-minando pesantemente sui piedi calzati dai sòcu, e gli chiesi se poteva occuparsi lui di riporli nel magazzino. «È il conte?» mi domandò. «Forse, ma più probabilmente il suo maggiordomo.» «Pensi che l’abbia presa male?» «Be’, non starà certamente facendo i salti di gioia.» «Vuoi che venga anch’io?» «No, è meglio se ci parliamo a quattr’occhi.» Quando entrai in casa scoprii che erano venuti entrambi; il conte, calvo e tracagnotto, e il maggiordomo, alto e allampanato. Due persone che per il contrasto fisico facevano l’effetto di un pugno nell’occhio a chiunque li guardasse. Eppure costituivano una squadra ben affiatata, che gover-nava il feudo con accortezza e moderazione. «Mi scusi se l’ho fatta aspettare» esordii «se avessi saputo del suo arrivo mi sarei reso più presentabile… sa, arrivo adesso dai campi…» «Sono io a domandarle di scusarmi. Avrei dovuto attenderla fuori, ma la sua signora ha insistito perché ci accomodassimo.» Udii mia moglie trafficare in cucina e vidi un’elegante confezione di cioccolatini posta sul ripiano del caminetto. Evidentemente si trattava di un dono per la padrona di casa. Una forma di cortesia abituale da parte del nostro signore, ogniqualvolta si recava in visita a un proprio suddito. La tavola era già imbandita per la cena, e dal numero dei piatti compresi

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che Matilda era riuscita a convincerlo a fermarsi a mangiare. Lei riusciva sempre a capire al volo qual era la cosa giusta da fare. Salii al piano di sopra per cambiarmi e darmi una ripulita. Di regola ce-navamo in compagnia dei cugini, ma non era necessario avvertirli che quella sera non sarei stato presente, Daniele li avrebbe avvisati che avevo un ospite importante. Tornai di sotto giusto in tempo per l’inizio del pa-sto. Il conte intonò la preghiera di ringraziamento per il cibo, dopodiché mangiammo in silenzio. Quando terminammo Matilda disse che l’aspettavano nella sala comune per la consueta partita serale a scacchi. Salutò graziosamente il feudatario e ci lasciò soli. «Suppongo lei possa immaginare il motivo della mia visita» prese a dire il conte. «Naturalmente, mio signore.» «Mi par strano che lei continui a chiamarmi così, quando ha già deciso di abbandonarmi» commentò, e dal suo tono non riuscii a comprendere se fosse irritato o rammaricato. «Ho forse commesso ingiustizie ai danni della sua gente? Vi ho forse mai mancato di rispetto?» aggiunse. «No, mio signore. Il suo casato ha sempre governato attenendosi alla giustizia. Né io, né nessuno dei miei cugini abbiamo motivo di lamentar-ci, ed è con rimpianto che abbandoniamo la terra sulla quale siamo nati. Ma le circostanze ce lo impongono. Col tempo solo i clan più importanti potranno resistere. Prima o poi queste terre finiranno nelle mani dei mer-canti e dei banchieri. Le cose sono mutate dal tempo in cui eravamo gio-vani.» «Emigrando non farà cambiare questo andazzo, semmai ne faciliterà l’avvento. Quando metterete in vendita i vostri fondi, sarà proprio nelle loro mani che andranno a finire, lo capisce?» «Ci saranno molti agricoltori interessati a partecipare alle aste. La popo-lazione cresce, la gente ha bisogno di buona terra già messa a coltura.» «Le aste non le vince chi ne ha più bisogno, ma chi dispone di più dena-ro contante» intervenne il maggiordomo «i clan sono diventati ricchi, ma non del genere di ricchezza che possa entrare in un borsellino.» «Inoltre» aggiunse «la messa all’incanto simultanea di tutti i vostri fondi causerà un temporaneo crollo del valore dei terreni, proprio nel momento in cui voi avrete maggior bisogno di realizzare liquidità.» Nell’udirlo deglutii involontariamente. Era un aspetto della situazione che non avevo considerato. «Potremo sempre venderli un po’ alla volta» bofonchiai.

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«Ma a voi serviranno soldi subito, per poter mettere a coltura le vostre nuove terre» rincarò il conte «e poi non sarà mica così ingenuo da pensa-re che sulla frontiera sia tutto rose e fiori come vogliono far credere quel-li del governo? Se fosse veramente così, che bisogno avrebbero di incen-tivarne la colonizzazione?» «Abbiamo valutato attentamente i rischi ai quali andiamo incontro, mio signore.» «Valutato? Ma se in vita sua non ha mai visto un orchetto o un goblin! Quando verranno a dar fuoco alle vostre fattorie cosa farete? Mostrerete loro il catalogo delle condizioni offerte dal programma per gli insedia-menti convenzionati?» «Non permetteremo a nessuno di fare una cosa del genere, dovranno prima passare sui nostri cadaveri» risposi in tono bellicoso. «E poi» aggiunsi «è meglio correre questo rischio piuttosto che restare qui, al sicuro, sapendo che un giorno i nostri discendenti lavoreranno come servi sulle terre che oggi ci appartengono.» Lui tacque a lungo, come immerso nei propri pensieri. Ora nei suoi occhi leggevo solo delusione, e non potevo fare a meno di comprenderla. Era il rammarico del signore di un feudo, né più grande né più piccolo di tanti altri ma ricco di storia e tradizioni, che vedeva dei sudditi abbandonarlo senza che lui ne avesse alcuna colpa. «Ho ricevuto la sua missiva ieri sera» disse stancamente «in osservanza alla legge, sono tenuto a rinunciare alla mia sovranità sul clan Gelsi.» «Sono spiacente mio signore…» presi a dire, ma lui proseguì come se non mi avesse udito. «Lo sa che il vostro nome è sulle cronache della mia famiglia? Nei Tem-pi Remoti eravate già al nostro fianco. Abbiamo costruito insieme questo presente di pace e ordine. E ora ve ne andate…» «Signor Gelsi» disse l’altro in tono conciliante «se possiamo fare qual-cosa per convincerla a mutare la sua posizione, ce lo dica, la prego. Lei sa che non abbiamo peso sulla politica fiscale, ma possiamo far pressio-ne sul consiglio cittadino affinché vi conceda qualche agevolazione…» «Non saprei neanche cosa chiederle. L’economia di questo paese è cam-biata, tutto è in mano a chi dispone di grandi quantità di denaro. Nelle province periferiche non è ancora così, ma qui, così vicino alla capita-le… temo che la frontiera sia l’unica soluzione che ci rimane per mante-nere i nostri usi e la nostra indipendenza.» «E quando questi cambiamenti giungeranno anche là? Allora, cosa fare-te?» domandò provocatoriamente il conte.

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«Saranno i nostri discendenti ad affrontare questo problema quando si verificherà. Il mio compito, è quello di tutelare la mia gente nel tempo in cui vivo.»

* * * «Mi dispiace cugino, sono veramente mortificato, ma non me la sento proprio. Lo ammetto, la mia è paura, ma non posso farci nulla» disse Adolfo, con un’insolita espressione di timidezza dipinta sul volto rugoso e cotto dal sole. Era venuto da me due giorni dopo la visita del conte, mentre riparavo gli spaventapasseri nei campi ormai rigogliosi di messi. Si trattava di qual-cosa che avevo messo in preventivo, ma fino all’ultimo momento avevo sperato che i miei timori si rivelassero infondati. «Quanti altri?» gli domandai. «Altri? In che senso?» tentò di mentire, ma lo conoscevo da quand’era bambino e sapevo che non ne era capace. «Sergio e Andrea» ammise infine. «Il più vecchio?» insistetti, poiché tre dei cugini portavano quel medesi-mo nome. «Sì. Non avrei dovuto parlarne anche con loro, lo so, ma mi sentivo così confuso…» «Invece hai fatto bene. Devi parlarne con tutti. Chi non se la sente, farà meglio a rendersene conto prima della partenza. E poi nel clan non ci de-vono mai essere segreti, sarebbe un’offesa agli Antenati.» «Allora non sei arrabbiato con me, cugino?» «Be’, se proprio devo dirla tutta, non sono neanche tanto contento. Ma sarebbe stato troppo sperare che alla fin fine saremmo partiti tutti.» Gli feci cenno in direzione del filare di alberi, e andammo a sederci all’ombra. «Prima di partire ti lascerò una procura, in modo che tu possa parlare al consiglio cittadino in mia vece. Tu, e quelli che resteranno qui, dovrete occuparvi di vendere le proprietà del clan un po’ alla volta, in modo che non si svalutino, d’accordo?» «Senz’altro, conta su di me» mi assicurò. «Prenderò accordi con gli Ugolini per il trasferimento dei contanti, man mano che li incasserete. Voglio che tu venda solo e unicamente ad altri

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clan, non accettare offerte da banchi o da commercianti. Niente aste pubbliche, solo trattative private.» «Ma impiegherò più tempo, voi avrete bisogno di soldi subito.» «Ci faremo bastare quelli che abbiamo.» «Inoltre» aggiunsi «dovrete occuparvi dei cugini troppo anziani per met-tersi in viaggio. Conserverete almeno una delle nostre cascine, in cui o-spitarli. Dovrete considerarlo come il vostro compito primario, anche a scapito dei lavori agricoli, è chiaro?» «Certo.» «Se le cose giù alla frontiera andranno per il meglio, ve lo faremo sapere. Potrete sempre raggiungerci in un secondo tempo. Seppur lontani, reste-remo sempre cugini, non dimenticarlo.» Il suo volto si illuminò di riconoscenza e cercò di dire qualcosa, ma bal-bettò per l’emozione. Gli posai una mano sulla spalla per comunicargli il mio affetto, e i suoi occhi luccicarono per un attimo. «Ho deciso di intraprendere questa migrazione per dare una nuova spe-ranza al clan, non per dividerlo» conclusi. Lo guardai allontanarsi nel soleggiato pomeriggio estivo, e dal modo in cui camminava sembrava vent’anni anni più giovane di quando era arri-vato. “La benedizione degli Antenati sia con te, cugino” gli augurai prima di rimettermi al lavoro.

* * * Mi rigirai a lungo la busta fra le mani prima di aprirla. Il corriere del ser-vizio postale l’aveva consegnato a mia moglie nel pomeriggio. Matilda era venuta a cercarmi nei campi per consegnarmela, ma non mi aveva trovato. Non ero dove lei supponeva perché mi ero dovuto recare alla ca-scina del faggeto, ad aiutare i cugini che vivevano là per via di una scro-fa che stava smadrando. Ero tornato a casa quando ormai stava facendo buio, e l’avevo trovata ad attendermi in cucina, con la cena tenuta in cal-do e la busta posata sul caminetto. Mi sentivo le gambe molli e il cuore in gola. Sebbene la mia fosse una decisione maturata da diversi mesi, avevo la sensazione che, fintantoché non avessi aperto quella busta, non sarebbe stata irrevocabile. Trassi un sospiro nel rompere il sigillo, e ne lessi il contenuto.

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La missiva che avevo inviato al governatore provinciale era stata inoltra-ta al legato per gli insediamenti coloniali. Il funzionario governativo, cui facevano capo quel genere di questioni, mi invitava a un colloquio. Nella lettera non era indicato un appuntamento, ma solo i giorni e gli orari nei quali mi avrebbe potuto ricevere. Evidentemente era una persona in gra-do di capire che un agricoltore ha difficoltà a programmare i propri im-pegni, soprattutto d’estate, e ciò mi parve un buon segno. «Quando ci andrai?» mi domandò Matilda dopo che le ebbi letto il con-tenuto. «Prima possibile. Mi metterò d’accordo con Daniele o Francesco affin-ché mi sostituiscano. Se non sorgeranno intoppi, mi ci recherò dopodo-mani.» «Ti tiro fuori il vestito buono.» «Ma non è il caso…» «Quello grigio, e il mantello nuovo. Farai un figurone.» «Ehm… mi stringe sulla vita…» «Ma davvero? Fammi controllare…» «Ehi! Cosa stai facendo?» «E stai un po’ fermo, tontolone» ridacchiò lei, e capii che mi conveniva lasciarla fare.

* * * «Prego, si accomodi» disse il legato, un omone grande e grosso che pa-reva comicamente fuori posto in quell’ufficio, con la livrea governativa che pareva sul punto di strapparsi sul torace «spero di non averla fatta attendere troppo a lungo. Ultimamente le richieste sono aumentate…» «Si figuri, lei sta svolgendo il suo lavoro. La ringrazio per avermi rispo-sto tempestivamente.» Estrasse da un cassetto la richiesta che avevo inviato e la lesse attenta-mente, mentre il mio sguardo veniva attratto da un’ampia mappa appesa al muro. Raffigurava la frontiera, suddivisa in numerosi settori, che sup-posi essere le zone di competenza dei vari reggimenti che vi erano stan-ziati. Numerosi di essi erano segnalati con minuscole bandierine fissate con degli spilli. Tramite l’uso di colori differenti erano evidenziate alcu-ne fasce che, dopo un attimo di incertezza, capii essere zone climatiche; una serie di note, scritte in caratteri minuti, elencavano per ognuna di es-se quali erano le coltivazioni più indicate. Evidentemente era stata dise-

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gnata appositamente per le esigenze di quell’ufficio. Vederla lì mi tra-smise la sensazione di avere a che fare con persone competenti, avvezze ad affrontare e risolvere problemi relativi alla colonizzazione. «Bene» disse infine l’omone «direi che la sua richiesta è formulata in modo ineccepibile. Sa, abbiamo avuto alcuni casi di feudatari che, appel-landosi a questioni di forma, hanno tentato di opporsi legalmente allo svincolo dei propri sudditi.» «Il mio conte non è tipo da fare una cosa del genere» lo rassicurai. «Non ne dubito, ma è sempre meglio andare sul sicuro. Ora passiamo al-le questioni pratiche. Avete qualche preferenza riguardo alla zona sulla quale vi installerete?» «Veramente pensavo che sarebbe stata stabilita dal governo.» «Infatti. E io sono qui per capire dove lei desidera che il governo vi invii. Se non ha ancora un’idea precisa, possiamo ragionarci sopra insieme.» «Gliene sarei grato» dissi, mentre lui si alzava e si avvicinava alla map-pa. «In linea di massima le consiglierei di scegliere una fascia climatica a-datta alle coltivazioni nelle quali siete già pratici.» Mi alzai anch’io, e passammo diversi minuti a esaminare i vari settori. Mi spiegò che le bandierine indicavano la disponibilità di lotti liberi. «Per quanto riguarda l’insediamento di interi clan» precisò «quando in-vece si tratta di singoli nuclei famigliari, riusciamo a inserirli pratica-mente ovunque.» «Mi par strano che un agricoltore abbandoni il proprio clan.» «Agli effetti è insolito, ma talvolta succede. Per quanto possibile, cer-chiamo di mettere insieme persone provenienti dallo stesso feudo. Ma a volte qualcuno richiede esplicitamente di venir destinato a una zona dove non può incontrare conoscenti… sa, magari gente che ha avuto proble-mi… non importa, non si tratta di questioni di nostra competenza.» «È più che comprensibile.» Tornammo a esaminare la mappa, e infine individuai tre settori che mi parevano adatti. Lui mi consigliò quello posto più a Nord, facendomi no-tare che era servito da un fiume navigabile e da una buona rete stradale. «Non basta coltivare, bisogna anche poter commerciare agevolmente le eccedenze» osservò. «Direi che va benissimo.» «Vedo che lei è ben determinato a compiere questo passo. A volte mi tengono qui un bel pezzo prima di decidersi.» «È una cosa che va fatta.»

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«Molto bene. Avete già deciso la data della partenza, e come viaggere-te?» «Inizieremo i preparativi subito dopo il raccolto, dovremmo essere pronti a partire il mese successivo. Viaggeremo sui traghetti di linea fin dove possibile, poi proseguiremo con mezzi nostri fino alla destinazione.» «Più o meno come supponevo. Non si offenda se glielo dico, ma il suo approccio al problema non è corretto.» «In che senso?» «Guardi, le spiego come farei io e, lo ammetterà, ho una certa esperienza in questo campo…» Uscii da quell’ufficio parecchio più tardi. Ero stanco, affamato e carico all’inverosimile di opuscoli, cataloghi e moduli per le richieste più sva-riate. Ma avevo le idee molto più chiare riguardo a quanto andava fatto, e avevo capito quanto ero stato pressapochista nel pianificare la nostra e-migrazione. Nella tasca interna della giubba avevo riposto la mia copia del contratto, controfirmata dal legato, nel quale erano specificate le condizioni e i termini ai quali noi e il governo ci impegnavamo. Ringra-ziai mentalmente gli Antenati per avermi fatto incontrare quella persona competente e disponibile, mentre andavo alla ricerca di una locanda dove mettere qualcosa sotto i denti.

* * * «Ero quasi certo che sarebbe stato lei, fra i primi a compiere questo pas-so. È una decisione assai opportuna, a mio avviso» disse Ovidio, patriar-ca del clan Ugolini. «Uh? Dice sul serio?» «Naturalmente. Non penserà mica che, solo perché gestisco un banco, non capisca i problemi dei contadini? Questa provincia non è più adatta alla tradizionale economia dei clan. Fra due o tre generazioni qui ci sa-ranno solo estese monoculture, gestite da società d’affari. Il fatto che lei abbia deciso di emigrare ora, mentre il vostro patrimonio è ancora so-stanzioso, vi renderà le cose molto più semplici.» «È proprio a questo proposito che…» «Naturalmente, ho già detto a Sara di portare qui i suoi incartamenti… ma dov’è quella pigrona?» Nel momento in cui terminava di parlare, una delle sue cugine entrò nell’ufficio senza bussare, reggendo un fascio di pergamene e cartelle.

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Mi salutò con un cenno della testa e posò il tutto sull’ampia scrivania di legno finemente intagliato. Attese alcuni istanti per accertarsi che il suo patriarca non necessitasse di altro, poi uscì discretamente dalla stanza. «Allora» fece lui «come lei sa, abbiamo investito una parte dei risparmi del suo clan in attività commerciali… l’importazione di cacao dalle Isole Australi si è rivelata particolarmente redditizia… non è andata altrettanto bene con il tabacco, ma nel complesso siamo largamente in attivo… be-ne, bene» continuò per diversi minuti a sfogliare i documenti, borbottan-do sottovoce. «Direi che potremmo liquidare il tutto nel giro di un paio di mesi… certo che è un peccato» concluse. «Ci rimetteremo?» «Rimetterci, sicuramente no, ma vorrebbe dire smettere di guadagnarci sopra. Se riuscissimo a evitarlo, sarebbe senz’altro meglio. Ha già un’idea della quantità di contanti che vi serviranno?» «È difficile dirsi. Parecchi, comunque. A questo proposito, il legato mi ha spiegato che il governo elargisce prestiti senza interessi per i coloni, e che voi siete convenzionati con il banco centrale, anche se, devo ammet-terlo, non ho ben capito come funziona la faccenda…» dissi, mostrando-gli uno dei moduli che avevo prelevato pochi giorni prima. «Ah, certo… bene, bene… in pratica, lei può chiedere che le venga elar-gito un prestito, di entità proporzionale al numero di nuclei famigliari che effettivamente si trasferiranno alla frontiera, direttamente al banco centrale. In alternativa, presso un banco convenzionato, come il nostro, può richiedere l’anticipo della medesima cifra, e il governo coprirà gli interessi e garantirà la restituzione nel caso di una vostra inadempienza, salvo poi rivalersi su di voi nei termini previsti dalla legge.» «Lei sarebbe disponibile?» «Ma naturalmente! Siete nostri clienti da sempre. E mi auguro lo sarete ancora, in futuro. In che zona vi trasferite?» «Presso il basso corso del fiume Ebhn.» «Humm… vediamo…» fece lui, mentre rovistava nei cassetti, ne estrae-va un massiccio atlante dalla copertina riccamente rilegata e cominciava a sfogliarlo. «Ah, ecco! Bene, bene…» «Avete una filiale da quelle parti?» «No.» «Peccato.» «Ma quale peccato?! Questa è un’ottima notizia!» «Mi scusi, ma non la seguo…»

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«Mio caro, il banco deve aprire nuove filiali… sa, la mondializzazio-ne…» «La mondia… cosa?» «L’economia si espande, non è più un fenomeno di interesse regionale. Si producono beni qui» disse, appoggiando a caso il dito su un punto del-la mappa «e poi… ZAC! Si trasportano da un’altra parte per raffinarli, e poi… ZAC! Li si va a vendere in un altro posto ancora.» «Ma non ha senso… a che serve?» commentai mentre cercavo di seguire i movimenti del suo dito, che si agitava sulla carta geografica come se il suo proprietario fosse tarantolato. «A cosa serve? Non lo chieda a me, non l’ho capito neanch’io. Ma ades-so si usa così, ed è talmente interessante questo nuovo modo di fare affa-ri… mi pare di tornar giovane…» «Sono contento per lei, ma intanto siamo noi contadini a dover prendere la valigia di cartone e andarcene alla frontiera.» «Ehm… le chiedo perdono, mi son fatto cogliere dall’entusiasmo.» «Si figuri, non è mica colpa sua.» «Mi ascolti, signor Gelsi. Non si tratta di qualcosa che viene fatto allo scopo di nuocere a quelli come lei. Il mondo cambia, e le attività econo-miche devono adattarsi a questo mutamento. Voi emigrate perché avete deciso di non subirlo passivamente, ma di volgerlo a vostro vantaggio. Pensa forse che le condizioni di favore che vi vengono offerte sarebbero possibili, se non ci fosse ricchezza in eccesso da investire su di voi?» «Suppongo di no. Ma noi viviamo qui da sempre, non è facile lasciare la propria casa.» «Anch’io sono costretto a sparpagliare i miei cugini in giro per il mondo per tutelare gli interessi del banco, e ogni volta è un dolore. Voi almeno resterete tutti insieme. E nel giro di pochi decenni il vostro clan si sarà arricchito. Dia retta a me, per voi contadini la frontiera è il futuro.» «Auguriamoci che sia veramente così.» «Ma certo, andrà tutto bene, sia fiducioso. Siete gente che non si tira in-dietro quando c’è da lavorare, e avrete il mio appoggio… non disinteres-sato, ovviamente, il che mi rende il più affezionato dei vostri sostenitori. Lo sa che, per quanto riguarda l’agricoltura, la colonizzazione rappresen-ta l’investimento mediamente più redditizio? Certo, ci vorrà una decina d’anni prima che la vostra attività cominci a rendere…» «Scusi, cosa intende dire con “mediamente”?» «Be’» disse lui in tono esitante «sarebbe ipocrita da parte mia negare il fatto che gli insediamenti di frontiera siano un tantino… come dire… a rischio, ecco.»

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«Intende dire che possono venir saccheggiati, e i loro abitanti uccisi o rapiti?» «Ehm… sì, intendevo proprio quello. Ma i rischi esistono per tutti. Un pescatore può annegare, un muratore cadere da un’impalcatura… e un banco può venir rapinato. Ho perso due cugini l’anno scorso, uccisi da banditi.» «Mi spiace, non lo sapevo.» «È il nostro lavoro, sono cose che possono succedere. In quanto a voi, siete un clan compatto e numeroso, inoltre verrete addestrati all’uso delle armi da personale militare. Sono certo che non vi farete mettere i piedi in testa da qualche orchetto pulcioso.» «Comunque» proseguì «come le dicevo, il mio clan è interessato ad al-largare la propria attività sulla frontiera. E quale posto migliore, per apri-re una nuova filiale, di quello in cui si hanno già degli ottimi clienti? Cioè voi, naturalmente.» «Non avevo pensato a questo aspetto della situazione.» «Ma è ovvio, mio caro. Se lei è d’accordo, installeremo un ufficio a ri-dosso di uno dei vostri insediamenti, per voi sarà molto più comodo…» «Senza parlare del fatto che, trovandosi nei pressi di un clan di coloni armati, la vostra filiale sarà meglio protetta» commentai con un sorriso sornione. «Oh… bene, bene… adoro parlare con una persona acuta come lei… com’è già che si dice? Scarpe grosse…» «Cervello fino» conclusi per lui «sarò lieto di accontentarla riguardo questo particolare.» «Bene, bene… ma ora vorrei presentarle una persona.» «Uh? Chi sarebbe?» «Ma che domande! È una sorpresa, no?» Mi condusse fuori dal suo ufficio e ci dirigemmo verso l’uscita del pre-stigioso edificio in cui aveva sede il banco. L’ultima cosa che vidi, prima di incamminarmi per le affollate strade cittadine, fu la cugina-scrivana di Ovidio che si cimentava a riordinare i documenti che il suo patriarca, nella foga del discorso, aveva sparpagliato un po’ dappertutto. «Abbiamo finanziato altre colonizzazioni prima d’ora, lo sapeva?» mi stava dicendo lui, mentre ci dirigevamo verso il quartiere degli artigiani. «Non lo sapevo, ma la cosa non mi sorprende» risposi allungando il pas-so. FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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