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PACINI EDITORE MEDICINA Periodico trimestrale POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv.in L.27/02/2004 n°46 art.1, comma 1, DCB PISA Aut. Trib. di Milano n. 130 del 17/03/1971 - Stampa a tariffa ridotta - tassa pagata - Aut. Dirpostel Pisa n. 1/36131/4/1 del 10/09/1993 - Taxe perçue - Italia Vol. 43 • N. 169 Gennaio-Marzo 2013 Attualità e novità in infettivologia neonatale Strategie diagnostiche delle infezioni sistemiche neonatali La prevenzione delle infezioni fungine in neonatologia Farmacogenetica e farmacogenomica in pediatria: stato dell’arte e prospettive future Attuali orientamenti nel trattamento dell’ipospadia Gestione pre- e postnatale dei pazienti con idronefrosi da ostruzione del giunto pieloureterale Reflusso vescicoureterale primitivo in età evolutiva: cosa avviene dalla nascita all’adolescenza? UROLOGIA PEDIATRICA (a cura di Ciro Esposito) INFETTIVOLOGIA NEONATALE (a cura di Mauro Stronati) FRONTIERE (a cura di Roberta Russo, Mario Capasso, Achille Iolascon) TAVOLA ROTONDA (a cura di Fabio Sereni) Ricerca traslazionale e ricerca clinica in pediatria

infettivologia neonatale (a cura di Mauro Stronati) · Pacini EditorE MEdicina Periodico trimestrale POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv.in

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Periodico trimestrale POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv.in L.27/02/2004 n°46 art.1, comma 1, DCB PISA Aut. Trib. di Milano n. 130 del 17/03/1971 - Stampa a tariffa ridotta - tassa pagata - Aut. Dirpostel Pisa n. 1/36131/4/1 del 10/09/1993 - Taxe perçue - Italia

Vol. 43 • N. 169 Gennaio-Marzo 2013

Attualità e novità in infettivologia neonataleStrategie diagnostiche delle infezioni sistemiche neonatali

La prevenzione delle infezioni fungine in neonatologia

Farmacogenetica e farmacogenomica in pediatria: stato dell’arte e prospettive future

Attuali orientamenti nel trattamento dell’ipospadiaGestione pre- e postnatale dei pazienti con idronefrosi da ostruzione del giunto pieloureterale

Reflusso vescicoureterale primitivo in età evolutiva: cosa avviene dalla nascita all’adolescenza?

Urologia pediatrica (a cura di Ciro Esposito)

infettivologia neonatale (a cura di Mauro Stronati)

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frontiere (a cura di Roberta Russo, Mario Capasso, Achille Iolascon)

tavola rotonda (a cura di Fabio Sereni)

Ricerca traslazionale e ricerca clinica in pediatria

Indirizzo mail: [email protected]

DirettoreGeneroso Andria, Napoli

Redattore CapoFrancesca Santamaria, Napoli

Comitato di DirezioneAndrea Biondi, MonzaGiovanni Cioni, PisaGiovanni Corsello, PalermoAlberto Martini, GenovaPierpaolo Mastroiacovo, RomaLuigi Daniele Notarangelo, BostonLuca Ramenghi, MilanoFabio Sereni, MilanoRiccardo Troncone, Napoli

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Vol. 43 • N. 169Gennaio-Marzo 2013

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© Copyright by Pacini Editore S.p.A.

Direttore Responsabile: Patrizia Alma Pacini

Rivista stampata su carta TCF (Total Chlorine Free) e verniciata idro.

INDICE numero 169 Gennaio-Marzo 2013

UroloGIa pEDIatrICa (a cura di Ciro Esposito)

Presentazione

attuali orientamenti nel trattamento dell’ipospadiaCiro Esposito, Antonio Savanelli, Ida Giurin, Maria Escolino, Alessandro Settimi ..................................................................................... 3

Gestione pre- e postnatale dei pazienti con idronefrosi da ostruzione del giunto pieloureteraleMarco Castagnetti, Elisa Benetti, Franco Bui, Pietro Zucchetta, Luisa Murer, Waifro Rigamonti .............................................................. 9

reflusso vescicoureterale primitivo in età evolutiva: cosa avviene dalla nascita all’adolescenza?Simona Gerocarni Nappo, Alessandra Farina, Maria Luisa Guidotti, Paolo Caione ................................................................................. 15

INfEttIvoloGIa NEoNatalE (a cura di Mauro Stronati)

Presentazione

attualità e novità in infettivologia neonataleMauro Stronati, Alessandro Borghesi, Giuseppina Lombardi .................................................................................................................. 25

Strategie diagnostiche delle infezioni sistemiche neonataliGaetano Chirico, Fabio Russo, Cristina Loda .......................................................................................................................................... 31

la prevenzione delle infezioni fungine in neonatologiaPaolo Manzoni, Martina Luparia, Elena Tavella, Daniele Farina ............................................................................................................. 36

froNtIErE (a cura di Roberta Russo, Mario Capasso, Achille Iolascon)

farmacogenetica e farmacogenomica in pediatria: stato dell’arte e prospettive futureRoberta Russo, Mario Capasso, Achille Iolascon .................................................................................................................................... 43

tavola rotoNDa (a cura di Fabio Sereni)

ricerca traslazionale e ricerca clinica in pediatriaFabio Sereni ............................................................................................................................................................................................ 51

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L’urologia pediatrica, disciplina tra le più affascinanti in ambito chirurgico pediatrico, è senza dubbio una branca in rapida evoluzione grazie allo sviluppo tecnologico che si è affermato in questi ultimi anni.Essa s’interessa del trattamento chirurgico delle patologie del rene e delle vie urinarie inferiori e superiori e copre circa 1/3 delle patologie infantili di interesse chirurgico. In rapporto a questa frequenza la diagnostica in questo campo si è gradualmente sviluppata, tanto che oggi è possibile fare la diagnosi della maggior parte delle patologie urinarie già in epoca prenatale. Questo consente di verificarne alla nascita le caratteristiche anatomo-fisiologiche e ciò si traduce nella messa a punto di protocolli terapeutici che hanno notevolmente migliorato la pro-gnosi e nella maggior parte delle patologie ha consentito la loro guarigione completa e definitiva. Altre malformazioni invece si presentano in modo evidente all’ispezione clinica subito dopo la nascita e queste riguardano soprattutto le malformazioni dell’asta e dei genitali esterni. Le malformazioni urinarie, come già detto, interessano il rene, le vie urinarie superiori e le vie urinarie inferiori. Le patologie più importanti, che in assenza di un precoce trattamento rischiano di compromettere la funzione renale con l’insorgere di un’insufficienza renale acuta o cronica, sono rappresentate dalla stenosi della giunzione pielo-ureterale o idronefrosi congenita, dal reflusso vescico- ureterale e dalle valvola dell’uretra posteriore.Per quanto concerne le malformazioni che si possono definire di immediato riscontro, esse sono rappresentate in ordine di gravità dalla estrofia vescicale, dalla epispadia e dalla ipospadia, che comportano tecniche ricostruttive di vario grado di difficoltà in rapporto alle varie forme anatomiche con cui esse si presentano. Per quanto concerne la terapia delle varie forme di patologia genitale, essa si è avvalsa negli ultimi anni di strumentario che ne consente con precisione il trattamento, come si verifica ad esempio con l’utilizzo del cistoscopio operativo, oppure di tecniche mininvasive quali la la-paroscopia e la retroperitoneoscopia, che, come è noto, vengono effettuate con l’uso di piccole cannule chiamate trocars inserite in addome e nel retroperitoneo attraverso dei piccoli fori che consentono degli ottimi risultati estetici, soprattutto la riduzione dei dolori postoperatori e, nella maggior parte dei casi, una degenza molto ridotta rispetto a quella del trattamento tradizionale per via laparotomica. Dovendo scegliere alcune malformazioni urologiche di interesse pediatrico, in cui negli ultimi anni si sono avute maggiori novità sia nel campo della diagnostica che nella terapia, abbiamo scelto tre tra le affezioni più frequenti: l’ipospadia, la stenosi del giunto pielo-ureterale e il reflusso vescico-ureterale. In tutte e 3 le patologie negli ultimi anni si sono avute importanti novità diagnostiche, ma soprattutto terapeutiche, grazie allo sviluppo di trattamenti mini-invasivi.

Ciro EspositoDipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università di Napoli Federico II

Area Funzionale di Chirurgia Pediatrica

Urologia pediatrica

Gennaio-Marzo 2013 • Vol. 43 • N. 169 • pp. 3-8 Urologia pediatrica

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Metodologia della ricerca bibliografica effettuata

I lavori cui faremo riferimento derivano da una ricerca condotta utilizzando come motore di ricerca PubMed con le seguenti parole chiave: hypospadias OR fistulas repair OR urethroplasty. Sono stati applicati i seguenti limiti: all child: 0-18, lingua inglese.

Eziopatogenesi

Recenti studi hanno dimostrato, attraverso l’analisi delle associa-zioni di fattori ambientali e genetici con l’ipospadia, importanti aree di indagine, anche se la nostra comprensione del loro contributo al rischio di ipospadia negli esseri umani è attualmente limitata (Car-michael et al., 2012).L’ereditarietà è probabilmente di tipo poligenico (Kalfa et al., 2009). I principali meccanismi in causa sono:Fattori genetici ed endocrini – Studi di associazione di polimorfismi a singolo nucleotide nei geni che codificano per la 5-alfareduttasi (SR-D5A2), i recettori per gli estrogeni 1 e 2 (ERF-1, ERF-2), e il fattore di trascrizione attivante 3 (ATF3) sono stati effettuati recentemente. In particolare, sono state studiate le interazioni gene-ambiente per 4 polimorfismi a singolo nucleotide dei suddetti 4 geni in correlazio-ne con esposizione ad estrogeni, citochine o fumo di sigaretta, parto plurimo, ipertensione materna o preeclampsia, alto indice di massa

corporea o primiparità. Interazioni gene-ambiente sono stati identifi-cati in SRD5A2 per esposizione agli estrogeni e ipertensione materna o preeclampsia, nonché in ATF3 per esposizione a citochine. Entrambi i polimorfismi a singolo nucleotide sembrano influenzare il rischio di ipospadia solo nei casi esposti (van der Zanden et al., 2012).Una diminuzione degli androgeni o l’incapacità di utilizzarli ade-guatamente può essere responsabile della comparsa del fenotipo ipospadico. In uno studio del 1997 di Aaronson et al., nel 66% dei pazienti con ipospadia lieve e nel 40% di quelli con ipospadia grave è stato riscontrato un difetto nella biosintesi del testosterone testi-colare e specificamente mutazioni dell’enzima 5-alfa reduttasi, che converte il testosterone (T) nel più potente diidrotestosterone (DHT) (Aaronson et al., 1997). Nel 1999 Silver et al. hanno dimostrato che nel 10% circa dei pazienti con ipospadia isolata si ha una mutazione di almeno uno degli alleli che codifica per la 5-alfa reduttasi (Sil-ver et al., 1999). I bambini nati mediante fecondazione in vitro (IVF) presentano un rischio 5 volte maggiore di presentare un’ipospadia. Ciò potrebbe dipendere dalla esposizione materna al progesterone ad alte dosi, comunemente somministrato nei protocolli IVF. Infatti il progesterone è un substrato per la 5-alfa reduttasi e agisce come un inibitore competitivo della conversione del testosterone in diidro-testosterone.Recentemente è stata studiata l’interazione tra il gene ZEB1 e il re-cettore per gli androgeni (AR). È stato ipotizzato che ZEB1 regoli la

attuali orientamenti nel trattamento dell’ipospadia

Ciro Esposito, Antonio Savanelli, Ida Giurin, Maria Escolino, Alessandro SettimiDipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Area Funzionale di Chirurgia Pediatrica, Università di Napoli “Federico II”, Napoli

SommarioL’ipospadia è una delle più comuni malformazioni congenite dell’apparato genito-urinario. Talora si inserisce nel complesso quadro dei disordini della diffe-renziazione sessuale (DSD), campo difficile soprattutto se l’ambiguità genitale è grave. Diversi fattori genetici e ambientali sono stati studiati come determi-nanti nell’eziopatogenesi della malformazione. Recentemente è stata studiata l’associazione tra fattori endocrini e nutrizionali e l’insorgenza dell’ipospadia.In letteratura sono state descritte oltre 300 differenti procedure chirurgiche per la correzione dell’ipospadia. La tecnica chirurgica maggiormente utilizzata per le forme distali e medie è la tubulizzazione della doccia uretrale o TIPU descritta da Snodgrass. Nelle forme più gravi con il meato uretrale in posizione perineale o scrotale, per ricostruire l’uretra vengono utilizzati lembi prepuziali o innesti prelevati dalla mucosa buccale o linguale. La moderna strumen-tazione microchirurgica, le micro-suture, i materiali per la medicazione come l’utilizzo di colla dermica a base di cianoacrilato hanno migliorato i risultati clinici e ridotto l’incidenza delle complicanze post-operatorie. La prospettiva futura è fondata sull’utilizzo dell’ingegneria tissutale e della tecnologia delle cellule staminali, come promettente risorsa terapeutica per la ricostruzione del tessuto uretrale.

SummaryHypospadias is the most common malformation of the penis. Sometimes it fits into the overall scheme of disorders of sexual differentiation (DSD), field difficult, especially if the genital ambiguity is serious. Several genetic and environmental factors have been studied as determinants in the etiopathogenesis of the malformation. In the international literature more than 300 surgical techniques adopted for hypospadias correction can be found. In distal hypospadias, the TIPU repair according to Snodgrass is the preferred technique. In proximal hypospadias the use of flaps or buccal and lingual graft are most commonly adopted.Modern microsurgical instrumentation, micro-sutures, materials for the dressing such as the recent use of glue based on cyanoacrylate have improved clinical outcomes and reduced the incidence of post-operative complications.The future perspective is based on the use of tissue engineering and stem cell technology as a promising therapeutic resource for the reconstruction of urethral tissue.

C. Esposito, A. Savanelli, I. Giurin, M. Escolino, A. Settimi

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trascrizione di AR durante la fase di sviluppo del pene e che la via di segnalazione ZEB1 media gli effetti degli estrogeni sul pene in via di sviluppo, che potrebbe essere importante nella patogenesi di ipospadia. È stato osservato che AR risulta iperespresso in pazienti con ipospadia grave. Composti estrogenici ambientali possono au-mentare il rischio di ipospadia, facilitando l’interazione tra ZEB1 e AR (Qiao et al., 2012).Fattori nutrizionali – È stato proposto che l’ipospadia potesse es-sere associata con diversi aspetti della dieta, tra cui l’assunzione di prodotti di origine animale, l’assunzione di sostanze nutritive e gruppi alimentari legati ad una dieta vegetariana e al metabolismo degli estrogeni, e la qualità della dieta. La frequenza di assunzione di prodotti di origine animale a base di carne non è stato associato ad ipospadia, né l’assunzione di ferro o di diversi nutrienti che sono po-tenzialmente correlati al metabolismo estrogenico. Anche la qualità della dieta non è risultata correlabile con l’insorgenza di ipospadia (Carmichael et al., 2012).

Disordini della differenziazione sessuale (DSD)

I pazienti con sindrome da insensibilità parziale agli androge-ni rappresentano un campo difficile, soprattutto se l’ambiguità genitale è grave. È bene ricordare a questo punto che il sem-plice aspetto dei genitali esterni, nelle forme di ipospadia più gravi, non consente una sicura attribuzione al sesso maschi-le.  L’ambiguità sessuale deve essere sospettata di fronte ad un’ipospadia importante, anche in presenza di gonadi palpabili nella borsa scrotale, in caso di criptorchidismo associato a una qualunque forma di ipospadia o ancora di fronte a un micrope-ne. In tali circostanze si impone uno studio più accurato alla ricerca di un possibile pseudoermafroditismo femminile, che deve essere differenziato dalle forme di pseudoermafroditismo maschile, causa di grave ipospadia. Le indagini consigliate in questi casi sono: il cariotipo, dosaggi ormonali (cortisolemia, 17-ß chetosteroidi, 17-ß estradiolo, testosterone, FSH, LH), l’e-cografia renale ed addominale, la cistografia minzionale e la cistoscopia.In un recente studio, è stato riscontrato che la maggior parte dei pazienti affetti da 46,XY DSD sono stati soddisfatti dei risultati a lungo termine della genitoplastica mascolinizzante, anche se con limitata insoddisfazione sulla lunghezza del pene, l’attività sessuale e i sintomi urinari.Gli obiettivi della terapia sono un risultato chirurgico con un buon aspetto estetico e funzionale e la possibilità di rapporti sessuali con sensibilità sufficiente e tempi di risposta soddisfacenti (Lee et al., 2012).

Classificazione

La classificazione dell’ipospadia dipende dalla posizione del me-ato uretrale anomalo. La maggior parte degli urologi utilizza la classificazione che è stata proposta da Barcat e modificata da Duckett, che descrive la posizione del meato dopo la correzione della eventuale curvatura associata: l’ipospadia è anteriore se il meato è nel glande o nel solco coronale, media se il mea-to uretrale è penieno distale, medio o prossimale, e posteriore quando il meato è penoscrotale, scrotale o perineale. L’ipospadia è anteriore nel 50% dei casi, media nel 20%, e posteriore nel 30%. La posizione coronale del meato uretrale è in assoluto la più comune. (Figg. 1-2)

L’altra tipica caratteristica associata all’ipospadia è la presenza di schisi del prepuzio, ovvero l’aplasia della sua porzione ventrale; quest’aspetto conferisce alla cute prepuziale una conformazione particolare “a ventaglio”, denominata prepuzio a scialle, spesso con evidenti “occhi di Ombredanne”.Si associa in genere una chorda penis: si tratta di un anomalo incurva-mento ventrale del pene, che normalmente è più marcato quanto più bassa è la posizione del meato ipospadico. Il recurvatum in genere è maggiormente visibile durante l’erezione. La gravità della chorda pe-nis condiziona il grado reale di ipospadia: infatti, la correzione chirur-gica con raddrizzamento dell’asta porta ad un allontanamento del me-ato dall’apice glandulare, con aggravamento della patologia iniziale. L’ipospadia prossimale è comunemente associata ad uno scroto bifido e alla trasposizione penoscrotale, in cui la cute dello scroto inizia lateralmente al pene, piuttosto che nella sua origine normale posteriore.

figura 1.Classificazione dell’ipospadia in base alla posizione del meato uretrale.

figura 2.I diversi tipi di ipospadia, dalla forma glandulare alla forma perineale.

Attuali orientamenti nel trattamento dell’ipospadia

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IncidenzaL’ipospadia ha un’incidenza di 1 su 150-200 nati vivi di sesso ma-schile e può associasi ad altre malformazioni dei genitali, come la criptorchidia, o ad alterazioni dell’apparato urinario, come il reflus-so vescico-ureterale (Paulozzi et al., 1999). A tal proposito, è sem-pre importante effettuare, in particolare nelle ipospadie prossimali, un’ecografia delle vie urinarie per escludere la presenza di anomalie associate. In molti paesi occidentali l’incidenza di ipospadia appare in aumento (Loane et al., 2011). È stato suggerito che l’incidenza maggiore sia, in realtà, dovuta all’aumento della segnalazione di casi di ipospadia di minor grado. Tuttavia, l’aumento della sorve-glianza dei sistemi sanitari non spiegherebbe da sola il raddoppio dell’incidenza (Fisch et al., 2010). Le alterazioni endocrine da agenti ambientali stanno guadagnando popolarità come eziologia possibile dell’ipospadia e come spiegazione della sua crescente incidenza. Sostanze ambientali con significativa attività estrogenica sono pre-senti nella società industrializzata e sono ingeriti come pesticidi su frutta e verdura, estrogeni contenuti nei vegetali o nel latte vaccino, sostanze tossiche presenti nei rivestimenti in plastica, nelle lattine di metallo e nei prodotti farmaceutici (Rocheleau et al., 2009; Jaikri-shan et al., 2013).

Trattamento Il trattamento dell’ipospadia è esclusivamente chirurgico. L’ipospa-dia è generalmente corretta, sia per motivi funzionali che estetici. L’indicazione all’intervento correttivo si pone, oggi, in tutti i casi di ipospadia, essendo assoluta nelle forme gravi, prossimali ed inter-medie e solo facoltativa, ma fortemente consigliata, nelle forme distali, tenuto conto delle ripercussioni psicologiche che possono eventualmente scaturire dal confronto con i coetanei già all’asilo, a scuola o in palestra. È questo un aspetto preso in considerazione del tutto recentemente; fino a 20-30 anni fa, infatti, i pazienti che presentavano un meato glandulare o coronale, venivano considerati normali sul piano funzionale e quindi non necessitanti di correzione chirurgica. I disturbi sulla sfera psichica riguardano i comprensibili disagi che l’adolescente affetto prova nella vita di relazione e, più tardi, nei confronti dell’altro sesso, potendo innescare stati di ansia o depressione e in alcuni casi, incapacità nei rapporti sessuali. Infatti, questa malformazione, soprattutto nelle forme medie e prossimali, determina impotentia generandi, poiché lo sperma non è espulso all’apice, ma lateralmente e quindi è impedita l’eiaculazione in vagi-na e la capacità di fecondare la donna. Nel caso di associazione con grave incurvamento dell’asta può esserci un’impotentia coeundi; infatti, durante l’erezione, il pene può assumere una curvatura tale da determinare difficoltà o impossibilità alla penetrazione in vagina (Schönbucher et al., 2008). In generale, più prossimale è la posizione del meato uretrale ectopi-co, più è probabile che il flusso urinario sia deviato verso il basso, il che può richiedere di urinare in posizione seduta. Anche se le forme più lievi di ipospadia hanno un impatto minimo dal punto di vista funzionale, è da considerare che possono comunque richiedere la correzione chirurgica per il potenziale stress psicologico determina-to dalla presenza di un’anomalia genitale.La correzione è chirurgica e deve essere realizzata tra il 1° ed il 2° anno di vita, possibilmente in un unico tempo operatorio. Dal punto di vista tecnico, l’intervento chirurgico consiste nella ricostruzione del tratto uretrale mancante fino all’apice del glande e nella corre-zione delle eventuali alterazioni anatomiche associate, quali la cur-vatura, la rotazione dell’asta e la schisi del prepuzio.

La stenosi del meato, qualora serrata, deve essere corretta molto precocemente.Essenzialmente le tecniche chirurgiche possono essere classificate in procedure basate su tecniche di avanzamento, procedure basate su tecniche di tubulizzazione e procedure basate sull’uso di innesti e lembi.

Trattamento delle forme distali e prossimali

Le forme distali possono essere trattate con una tecnica più sem-plice, l’avanzamento uretrale distale, in un unico tempo operatorio, che richiede una degenza media di pochi giorni, con o senza cate-terizzazione vescicale.Le uretroplastiche sono riservate alle forme medie e prossimali, possono essere affrontate quasi sempre in un solo tempo operatorio e richiedono un’ospedalizzazione più lunga.Per quanto riguarda l’ipospadia coronale, che rappresenta la for-ma in assoluto più comune, essa viene trattata con una tecnica or-mai standardizzata definita TIPU, ovvero Tubularized Incised Plate Urethroplasty, descritta da Snodgrass nel 1994, ma che negli ultimi anni ha conosciuto alcune variazioni tecniche, come il confeziona-mento di lembi di provenienza dartoica ventrale o dorsale allo scopo di coprire la neo-uretra e quindi di ridurre l’incidenza di fistole post-operatorie (Snodgrass et al., 1994; Savanelli et al., 2007) (Fig. 3).Durante l’intervento viene inoltre effettuata la correzione delle al-tre alterazioni associate all’ectopia meatale, ovvero la presenza di eventuale recurvatum penieno, valutabile con la prova di erezione intraoperatoria, o di rotazione dell’asta. Le tecniche di correzione di queste due ultime anomalie prevedono la sutura orizzontale di inci-sioni verticali praticate sul versante dorsale dell’asta o la semplice plicatura della tunica albuginea. In ogni caso sarà di estrema importanza personalizzare il tipo di ricostruzione uretrale, scegliendo la tecnica più adatta in base alle condizioni anatomiche di base e al tipo di malformazioni associate.La maggior parte delle procedure chirurgiche per la correzione dell’ipospadia comportano l’impiego del prepuzio per una corre-zione adeguata del difetto uretrale, risultando pertanto in un pene circonciso. Tuttavia, noi riteniamo che l’uretroplastica possa essere associata con la ricostruzione del prepuzio, soprattutto in casi se-lezionati con minima o nessuna curvatura ventrale che spesso è presente nella ipospadia distale e in assenza di imponenti “occhi di Ombredanne”, con l’intento di ripristinare un pene con l’aspetto più naturale possibile e senza aumentare il rischio di complicanze post-operatorie (Savanelli et al., 2009; Snodgrass et al., 2012).

Trattamento delle forme complesse

Le forme più prossimali e complesse richiedono complessi interven-ti ricostruttivi, realizzabili in uno o due tempi. Tali forme sono gravate

figura 3.Le diverse fasi della tecnica TIPU (Tubularized Incised Plate Urethroplasty).

C. Esposito, A. Savanelli, I. Giurin, M. Escolino, A. Settimi

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da un tasso maggiore di complicanze, con aumentata incidenza di reinterventi. È possibile utilizzare dei lembi peduncolati di tessuto cutaneo-prepuziale (lembi ad isola) per la ricostruzione di lunghi tratti di uretra, o quando questo non sia possibile, di lembi liberi prelevati dalla faccia interna del labbro superiore e/o inferiore. Negli ultimi anni la mucosa orale è emersa come un tessuto donatore affi-dabile per la sostituzione uretrale o per il trattamento delle recidive. Tuttavia, gli innesti di mucosa buccale, raccolta dalla guancia, non è esente da complicazioni del sito donatore, come intorpidimento, senso di costrizione alla bocca, cambiamenti nella salivazione, defi-cit motori, cicatrici e deviazione o retrazione delle labbra. Recente applicazione ha trovato l’utilizzo di innesti prelevati dalla mucosa linguale per l’uretroplastica nelle ipospadie complesse, con risultati chirurgici paragonabili alle forme complesse corrette con l’ausilio di lembi buccali. È stato osservato che rispetto alla mucosa buccale, gli innesti di mucosa linguale sono più semplici da prele-vare, con complicazioni minime del sito donatore. (Maarouf et al., 2012).Nei casi più gravi di ipospadia o in quelli che siano stati più volte operati con esito fallimentare, e che hanno quindi la necessità di una completa ricostruzione uretrale, in assenza di tessuto cutaneo penieno o prepuziale disponibile, può essere utilizzato per l’uretro-plastica un lembo di mucosa vescicale, tecnica descritta per la pri-ma volta da Memmelaar nel 1947. L’attecchimento del lembo libero per neoangiogenesi dai tessuti limitrofi ben vascolarizzati è di solito soddisfacente. La percentuale di complicazioni, principalmente fi-stole, è alta, almeno del 40%; tuttavia l’esito finale è eccellente in gran parte dei casi. 

La gestione del decorso post-operatorio

La sorveglianza del decorso post-operatorio è fondamentale quanto l’intervento chirurgico nella correzione dell’ipospadia. Per tale mo-tivo la degenza dei piccoli pazienti, assistiti da un genitore, è com-presa tra pochi giorni e alcune settimane, a seconda della gravità dell’ipospadia. Per tutta la durata dell’ospedalizzazione, fino alla completa cica-trizzazione delle ferite, viene lasciato in sede un catetere vescica-le morbido in silicone e vengono praticate delle medicazioni ogni 24-48 ore. Nei casi più severi, in cui la qualità del tessuto uretrale utilizzato per la ricostruzione sia non ottimale, è preferibile apporre una derivazione sovrapubica, che assicura l’emissione delle urine proteggendo la neouretra nelle prime delicate fasi di cicatrizzazione (Fig. 4).Una medicazione compressiva copre la ferita e immobilizza il pene per le prime 24-48 ore, allo scopo di ridurre l’edema post-operatorio. Per ridurre le complicanze legate al catetere vescicale ed alla even-tuale derivazione sovrapubica, si evita di utilizzare delle buste di raccolta, preferendo il posizionamento degli stessi nel doppio pan-nolino, artifizio che offre inoltre alla madre un maggior comfort nella gestione dei cambi di pannolino (Fig. 5).Per tutto il periodo di permanenza del catetere vescicale viene som-ministrata una terapia antibiotica al fine di prevenire l’insorgenza di infezioni urinarie o della ferita chirurgica e una terapia antalgica in maniera sistematica per i primi 3 giorni postoperatori ed in seguito secondo necessità.La valutazione dei risultati della correzione dell’ipospadia deve essere effettuata a distanza di tempo. I criteri usati per definire il successo dell’intervento chirurgico sono: funzione, risultato esteti-co (aspetto del meato uretrale come una fessura verticale situata all’apice del glande; aspetto normale del pene), presenza di un mitto urinario unico e valido, assente necessità di un re-intervento.

I risultati sono buoni, con un meato in posizione ortotopica ed un buon aspetto estetico, in oltre il 90% dei casi (Fig. 6).

Complicanze dell’uretroplastica e novità nella loro gestione

Le complicanze dell’intervento hanno un’incidenza variabile dal 10 al 30% dei casi (Aigrain et al., 2010). Più grave è la malformazione, maggiore è il tratto uretrale da ricostruire e più probabili sono le complicanze. Quelle immediate avvengono nel periodo post-opera-torio, quelle tardive a distanza di settimane o mesi.Le complicanze post-chirurgiche immediate sono le comuni compli-canze di tutti gli interventi chirurgici: il sanguinamento o la flogosi della ferita chirurgica, gli ematomi e le infezioni circoscritte o diffuse.

figura 4.Derivazioni urinarie post-operatorie (catetere vescicale e derivazione sovrapubica).

figura 5.Il “doppio pannolino” è usato per la gestione ottimale del catetere vescicale.

Attuali orientamenti nel trattamento dell’ipospadia

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* In questo lavoro gli autori rivedono l’evidenza epidemiologica dei determinanti genetici ed ambientali nell’eziopatogenesi dell’ipospadia.

Le complicanze tardive sono le stenosi, le fistole, la deiscenza par-ziale o totale del prepuzio e la recidiva dell’incurvamento.La fistola uretrale è un piccolo foro lungo la superficie ventrale del pene, che mette in comunicazione la neo-uretra con la cute; durante la minzione l’urina fuoriesce, oltre che dal meato all’apice, anche dall’orifizio fistoloso. Questa complicanza richiede un nuovo inter-vento chirurgico di riparazione a distanza di almeno sei mesi dal primo.Recentemente è stato introdotto l’uso di colla a base di cianoacrila-to per la medicazione post-operatoria. Il cianoacrilato è una resina acrilica, che polimerizza rapidamente in presenza di acqua, è im-permeabile all’acqua e ai batteri, e non è facilmente rimovibile. Dà una pressione adeguata per l’emostasi, se applicato in più strati. Diversi studi hanno utilizzato una combinazione di una sutura sot-tocutanea in acido poliglicolico rinforzata dal cianoacrilato applicato sulla superficie cutanea, per ridurre il tasso di formazione di fistole uretrocutanee dopo uretroplastica. Inoltre, è stato dimostrato come, disponendo diversi strati di questa colla, si riesca a ridurre in modo più efficace l’edema e la formazione di ematomi e si riesca ad otte-nere un’emostasi più accurata di quella garantita dalla medicazione convenzionale (Hosseini et al., 2012).Talvolta, la ricorrenza delle fistole uretrocutanee rimane un proble-ma. Recentemente è stato sperimentato l’utilizzo di piastrine ricche di fibrina (PRF) per la riparazione di fistole uretrocutanee ricorrenti. PRF è una nuova generazione di concentrati piastrinici ed è noto come una fonte autologa di fattori di crescita ottenuti dal siero del paziente. PRF supporta la sintesi di collagene e la riparazione dei tessuti e accelera la guarigione delle ferite. PRF può essere usato

come una nuova alternativa nella riparazione delle fistole uretrocu-tanee ricorrenti, sebbene ulteriori studi sperimentali e ampi studi clinici siano necessari per confermare tale evidenza (Soyer et al., 2012).Inoltre, è stato provato che la riparazione uretrale con l’utilizzo di una matrice di collagene è un sicuro ed utile complemento che im-pedisce in modo efficace ulteriori recidive (Springer et al., 2012).La stenosi è il restringimento della neouretra che crea un ostacolo alla fuoriuscita dell’urina. A volte la stenosi è la causa responsabile dell’insorgenza della fistola. Il trattamento richiede progressive di-latazioni fino alla scomparsa del restringimento. Oltre al controllo clinico “visivo” del mitto urinario, sarà talora necessario effettuare una valutazione strumentale, al fine di determinare la presenza ed il grado di ostruzione all’efflusso urinario con un esame uroflussome-trico (González et al., 2011).La deiscenza della prepuzioplastica può essere parziale e richie-dere in alcuni casi una “redo-prepuzioplastica” totale ed, in tale evenienza, è preferibile praticare la circoncisione. Quando viene effettuata la prepuzioplastica, la retrazione post-operatoria del prepuzio deve avvenire mediamente 4-6  settimane dopo l’in-tervento. Alcuni pazienti possono avere un prepuzio iporetrattile per la formazione di aderenze balano-prepuziali; in questi casi, viene prescritta una terapia topica steroidea che risulta risolutiva nel 97% dei casi.È bene che i genitori siano correttamente informati riguardo la pos-sibilità di comparsa di complicanze post-operatorie. Troppo spesso l’importanza e la complessità della correzione chirurgica dell’ipo-spadia viene sottovalutata, sia dai medici che seguono il bambino, sia dagli stessi genitori. A tal proposito risulta di fondamentale importanza un accurato fol-low-up con controlli programmati a 1, 3, 6, 12 mesi dopo l’intervento e poi annualmente fino allo sviluppo puberale, per la valutazione dell’aspetto estetico e funzionale e il riscontro di eventuali compli-canze (Spinoit et al., 2013).

Ingegneria tissutale e uretroplastica

L’ingegneria tissutale e la tecnologia delle cellule staminali costitui-scono la nuova promessa terapeutica per la ricostruzione dell’uretra. Negli ultimi anni vi è stato un notevole interesse a sviluppare tessuti ingegnerizzati da materiali autologhi, come cellule mature vescicali, midollo osseo, cellule staminali e tessuto adiposo. Idealmente, un tessuto ingegnerizzato dovrebbe ripristinare o mantenere la norma-le funzione dell’organo. Inoltre, il tessuto ingegnerizzato non deve essere immunogenico per minimizzare le reazioni di rigetto (Kollhoff et al., 2011).Due strategie terapeutiche sono disponibili per la ricostruzione ure-trale utilizzando l’ingegneria tissutale: scaffold di matrice acellulare e scaffold cellulari. Il modello di bioscaffold acellulare è già stato utilizzato con successo in clinica e lo scaffold cellulare sta facendo il suo passaggio dal laboratorio al letto del paziente.Le cellule staminali possono essere utilizzate per l’ingegneria tissu-tale urologica, ma molte ricerche sono ancora necessarie prima di una loro possibile applicazione clinica (Fu et al., 2012).

figura 6.Aspetto estetico finale dell’uretroplastica associata alla prepuzioplastica.

C. Esposito, A. Savanelli, I. Giurin, M. Escolino, A. Settimi

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Fisch H, Hyun G, Hensle T. Rising hypospadias rates: disproving a myth. J Pediatr Urol 2010;6:37-9.

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* In questo lavoro vengono riportate le possibili ed auspicabili applicazioni dell’ingegneria tissutale nella ricostruzione uretrale.

González R, Ludwikowski BM. Importance of urinary flow studies after hypospa-dias repair: a systematic review. Int J Urol 2011;18:757-61.

Hosseini SM, Rasekhi AR, Zarenezhad M, et al. Cyanoacrylate glue dressing for hypospadias surgery. N Am J Med Sci 2012;4:320-2.

* In questo lavoro viene dimostrata l’efficacia e l’applicabilità della colla di cia-noacrilato per la prevenzione delle fistole uretrocutanee.

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** Questo lavoro è incentrato principalmente sui risvolti psico-sessuali in età adulta della correzione chirurgica delle ambiguità genitali nei DSD.

Loane M, Dolk H, Kelly A, et al. EUROCAT Working Group.Paper 4: EUROCAT sta-tistical monitoring: identification and investigation of ten year trends of con-genital anomalies in Europe. Birth Defects Res A Clin Mol Teratol 2011;91:31-43.

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** Questo lavoro evidenzia la superiorità dell’innesto di mucosa linguale rispetto a quello buccale per la facilità di prelievo e il minor tasso di complicanze del sito donatore.

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** Questo lavoro descrive per la prima volta l’utilizzo del lembo di copertura dartoico ventrale per la prevenzione delle fistole uretrocutanee, offrendo la pos-sibilità di poter associare l’uretroplastica con la conservazione e la ricostruzione del prepuzio senza un aumento significativo delle complicanze.

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** Tale lavoro pone in risalto la sicurezza, l’efficacia e la fattibilità della prepuzio-plastica con l’intento di ripristinare un pene con l’aspetto più naturale possibile.

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Cosa si faceva prima e cosa si fa tuttoraLa terapia dell’ipospadia è esclusivamente chirurgica. In passato spesso erano necessari interventi in due o più tempi, specie per le forme più severe, che frequentemente erano gravati da un alto tasso di complicanze. La moderna strumentazione microchirurgica, le micro-suture, i materiali usati per la medicazione e la standardizzazione delle tecniche chirurgiche hanno migliorato i risultati clinici, consentendo in molti casi la riparazione del difetto in un unico tempo anche nelle forme più severe.

Cosa c’è di nuovoNotevole importanza viene attribuita recentemente a fattori endocrini, genetici, ambientali e persino nutrizionali nel determinismo di tale malforma-zione. La genitoplastica mascolinizzante delle ambiguità genitali complesse presenti nei disordini della differenziazione sessuale (DSD) è possibile attualmente grazie all’utilizzo di lembi autologhi ed innesti di mucosa buccale e linguale con un minimo tasso di complicanze del sito donatore.Anche la prevenzione delle complicanze post-operatorie, in particolare delle fistole uretrocutanee, ha raggiunto notevoli progressi con il recente utilizzo di un adesivo cutaneo a base di cianoacrilato che migliora la cicatrizzazione tissutale. Recentemente è stato sperimentato l’utilizzo di piastrine ricche di fibrina (PRF) per la riparazione di fistole uretrocutanee ricorrenti e per il trattamento delle forme recidive.

Cosa ci aspettiamo nei prossimi anniVi è un notevole interesse nello sviluppo di tessuti ingegnerizzati come scaffold cellulari e scaffold con matrice acellulare per la riparazione dei tessuti genitali maschili. I recenti progressi suggeriscono che i tessuti ingegnerizzati urologici potrebbero presto avere applicabilità clinica.

Box di orientamento

Ciro Esposito, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Area Funzionale di Chirurgia Pediatrica, Università di Napoli “Federico II”, Via Pansini 5, 80131 Napoli. Tel. + 39 081 7463377. Fax + 39 081 7463361. E-mail: [email protected].

Corrispondenza

Gennaio-Marzo 2013 • Vol. 43 • N. 169 • pp. 9-14 Urologia pediatrica

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IntroduzioneL’idronefrosi (IDN) è la forma più comune di dilatazione delle vie escre-trici superiori. Distinguiamo due principali quadri clinici, l’IDN asinto-matica e l’IDN sintomatica. La maggior parte dei casi è oggi diagnosti-cata all’ecografia prenatale ed è quindi congenita asintomatica.L’elevato numero di soggetti con riscontro ecografico incidentale di IDN ha reso evidente che dilatazione non è sempre sinonimo di

ostruzione. Molte dilatazioni vanno incontro a risoluzione sponta-nea o non si associano a deterioramento della funzionalità renale: in tal caso si parla di IDN non ostruttive. Sono definite come ostrut-tive, invece, quelle dilatazioni secondarie ad un ostacolo, organico o funzionale, al deflusso urinario che, se non trattato, determina un deterioramento progressivo della funzione renale o limita le po-tenzialità funzionali del rene in via di sviluppo (Fig. 1) (Al-Shibli et al., 2009).

Gestione pre- e postnatale dei pazienti con idronefrosi da ostruzione del giunto pieloureterale

Marco Castagnetti1, Elisa Benetti2, Franco Bui3, Pietro Zucchetta3, Luisa Murer2, Waifro Rigamonti11 Urologia Pediatrica, Azienda Ospedaliera di Padova, Padova 2 Nefrologia Pediatrica, Dialisi e Trapianto, Dipartimento Salute della Donna e del Bambino, Azienda Ospedaliera di Padova, Padova 3 Medicina Nucleare, Azienda Ospedaliera di Padova, Padova

Sommario

L’idronefrosi (IDN) è una dilatazione della pelvi renale e dei calici. L’ostruzione del giunto pielo-ureterale ne è la causa più comune. Nella maggior parte dei casi, la dilatazione è diagnosticata in epoca prenatale, e l’ostruzione è di tipo funzionale ed intrinseca alla giunzione. L’ostruzione estrinseca da vaso polare accessorio è invece la causa più frequente nel bambino più grande ed è tipicamente sintomatica. Nei casi con diagnosi prenatale, non sono praticamente mai indicati interventi prenatali o modificazioni della gestione ostetrica. L’IDN prenatale è sostan-zialmente una condizione benigna e la storia naturale della malattia è verso la guarigione spontanea nel 50-75% dei casi.La diagnosi di ostruzione nei pazienti con IDN si basa su una combinazione di clinica, ecografia e scintigrafia. Frequentemente è necessario valutare l’evoluzione del quadro nel tempo. Per il futuro, grande speranza è riposta nell’identificazione di marcatori di danno renale valutabili su campione urinario. La pieloureteroplastica è il trattamento di scelta dell’IDN ostruttiva. L’intervento ha un tasso di successo superiore al 95% anche dopo controlli a lungo termine. Le maggiori innovazioni nel trattamento riguardano l’approccio per eseguire l’intervento. La pieloplastica a cielo aperto con approccio muscle-sparing rimane il trattamento di scelta nel lattante, l’approccio laparoscopico e quello robot-assistito sono sempre più frequentemente utilizzati nel bambino più grande.Dopo intervento, il miglioramento della dilatazione rappresenta un segno certo di successo, ma la dilatazione può richiedere tempo per migliorare; pertanto la scintigrafia viene spesso ripetuta tra 3 e 12 mesi dopo l’intervento. Marcatori urinari di danno renale potrebbero essere preziosi anche per i controlli a lungo termine.

SummaryHydronephrosis (HN) is defined as a dilatation of renal pelvis and calices. The uretero-pelvic junction obstruction is the most common underlying cause. In the majority of patients, the HN is diagnosed antenatally and the obstruction is intrinsic to the junction and functional. Conversely, an extrinsic obstruction due to a crossing vessel is more common in older children and is most often symptomatic. Antenatal decompressive procedures are seldom required as well as changes in the obstetric management. The antenatal HN is a benign condition and the natural history is towards a spontaneous resolution of the dilatation in 50 to 75% of cases. The diagnosis of obstruction in patients with HN is based on a combination of clinical assessment, ultrasound scan and diuretic renography. In most of the cases, multiple evaluations are required to make the final diagnosis. Urinary biomarkers of renal damage might become useful diagnostic tools in the future. Pyeloplasty is the gold standard in the treatment of obstructive HN. The success rate of the procedure is above 95% and is stable also after long-term follow-up. The open approach remains the gold standard in infants, whereas minimally invasive surgery by a laparoscopic or robotic-assisted approach is increasingly used in older patients. After surgery, an improvement of the dilatation on ultrasound scan is a certain marker of success, but such improvement might require time to occur. Therefore, a follow-up diuretic renography is generally recommended between 3 and 12 months after surgery. Urinary biomarkers of renal damage might become useful diagnostic tools also for the follow-up of these patients.

M. Castagnetti, E. Benetti, F. Bui, P. Zucchetta, L. Murer, W. Rigamonti

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L’aspetto di rilievo non è il rallentamento del flusso urinario, quanto le conseguenze sullo sviluppo e la funzione parenchimale.Nei casi in cui l’ostruzione si associ a danno renale, l’entità ed il tipo di danno dipende dal grado dell’ostruzione, dalla sua durata e dal momento dello sviluppo embriologico in cui essa insorge. Ostru-zioni ad insorgenza precoce nello sviluppo fetale (primo trimestre) e di grado marcato determinano un anomalo sviluppo del rene con conseguente displasia. Ostruzioni di grado meno marcato, ma so-prattutto ad insorgenza più tardiva, determinano invece un danno renale noto come nefropatia ostruttiva. Essa riguarda tutti i comparti del nefrone (vascolare, glomerulare, tubulo-interstiziale) ed è carat-terizzata da: persistenza di un pattern vascolare di tipo fetale ad alte resistenze, sclerosi glomerulare, atrofia tubulare e fibrosi interstizia-le. Un ruolo centrale nello sviluppo di tale danno sembra svolto dalla cellula epiteliale tubulare (Taha et al., 2007). Questa, stirata dall’au-mento di pressioni endo-tubulari, comincerebbe a rilasciare diver-se ammine vasoattive (responsabili delle alte resistenze vascolari e quindi di un danno ischemico a livello glomerulare), perderebbe contatto con le cellule vicine causando l’atrofia tubulare, ed, infine, migrerebbe nell’interstizio, dove, dopo trasformazione in fibroblasto (transizione epitelio-mesenchimale), comincerebbe a secernere col-lagene, causando la fibrosi d’organo. Varie molecole interagiscono nel complesso meccanismo responsabile di questo processo (Pohl et al., 2002).Sia alla displasia congenita che alla nefropatia ostruttiva può poi so-vrapporsi un danno secondario alle infezioni, che presentano un’in-cidenza di circa il 19% (Lee et al., 2008).Nella presente revisione abbiamo riassunto le evidenze della lette-ratura più recente sulla gestione pre- e post-natale dei pazienti con idronefrosi da ostruzione del giunto pieloureterale.

Metodologia della ricerca bibliografica effettuata

I lavori cui faremo riferimento derivano da una ricerca condotta sul-la banca bibliografica Medline, utilizzando come motore di ricerca PubMed con le seguenti stringhe: hydronephrosis [Mesh] OR pye-loplasty. Sono stati applicati i seguenti limiti: all child: 0-18, lingua inglese, ultimi 10 anni di pubblicazione (al fine di analizzare un nu-mero di studi maggiore, di fronte allo scarso numero di lavori pub-blicati negli ultimi 3 anni).

L’IDN congenita asintomatica

Numerosi studi hanno cercato di definire il criterio di valutazione più accurato per stabilire quali dilatazioni prenatali possano essere se-condarie ad un’uropatia. Dal punto di vista pratico, ogni dilatazione prenatale meriterebbe una rivalutazione ecografica postnatale. Un diametro anteroposteriore della pelvi ≥ 7 mm durante il terzo trimestre di gravidanza è un fattore di rischio per uropatia (Oktar et al., 2012).In ogni caso, l’ecografia prenatale non può permettere in nessun caso una diagnosi definitiva, necessitando sempre della valutazione postnatale.L’aspetto di maggior rilievo prognostico è lo stato del rene controla-terale. In presenza di un rene normale non dilatato, ci si può attende-re una funzione renale perfettamente normale alla nascita.

Gestione prenatale e counselingNon vi è evidenza che alcun intervento prenatale o una modificazio-ne della gestione ostetrica porti a dei vantaggi clinici, in termini di preservazione della funzionalità renale. L’insorgenza del danno re-nale è sempre molto più precoce rispetto all’epoca in cui la diagnosi ecografica è possibile (Chevalier, 2004). Le casistiche sulla storia naturale della malattia hanno mostrato che nei casi di dilatazione monolaterale, con rene controlaterale norma-le, dal 50 al 75% dei casi non si richiede alcun intervento (Barbosa et al., 2012). Quando necessario, l’intervento correttivo è molto ef-ficace, con un tasso di successo superiore al 95%. La funzionalità renale può essere completamente normale anche con un solo rene normale. Se la patologia è bilaterale, la prognosi può essere molto severa (Al-Shibli et al., 2009).

Inquadramento diagnostico postnatale

I cardini della diagnostica post-natale sono l’ecografia e l’angioscinti-grafia con renogramma diuretico. Nella figura 2 è riportata una flow-chart che riassume i principi su cui si basa il percorso diagnostico.

Ecografia postnatale

Ogni diagnosi prenatale di dilatazione necessita sempre di una con-ferma e rivalutazione ecografica postnatale. Quest’ultima va ese-

figura 1.Possibili quadri dell’idronefrosi congenita.

figura 2.Management postnatale dell’IDN congenita.CUM: Cistouretrografia minzionaleRVU: Reflusso vescico-ureteraleSGPU: Sindrome del giunto pielo-ureteraleVUP: Valvola dell’uretra posteriore

Gestione pre- e postnatale dei pazienti con idronefrosi da ostruzione del giunto pieloureterale

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guita a 3-7 giorni di vita e solo dopo che la fase di disidratazione conseguente alla perdita del supporto placentare e l’adattamento del rene alla vita extra-uterina siano avvenuti. L’ecografia postnatale consente di confermare la presenza della dilatazione, di indicarne l’entità e di valutare il rene controlaterale (Barbosa et al., 2012).Esistono due principali sistemi di stadiazione della dilatazione: quel-lo della Società di Urologia Fetale che differenzia 4  gradi di gra-vità crescente in base alla dilatazione del bacinetto e dei calici, e la misurazione del diametro antero-posteriore della pelvi sul piano trasverso. Quest’ultimo è il sistema di misurazione più utilizzato in Europa. Entrambi i sistemi hanno una certa correlazione con la pos-sibilità di un danno renale parenchimale associato alla dilatazione e, di conseguenza, con il rischio chirurgico per il paziente. Si considera che pelvi di diametro inferiore a 15 mm raramente vadano incontro a scadimento funzionale, mentre quasi il 100% dei casi >40 mm richiedano un intervento (Nguyen et al., 2010). Altri aspetti ecografici di rilievo prognostico sono il grado di differenziazione cortico-midol-lare e lo spessore della corticale renale. Quest’ultimo è un parame-tro alquanto variabile, perché dipendente dallo stato di idratazione del paziente e di replezione vescicale. Molto importante la valutazio-ne ecografica del rene controlaterale. Quest’ultimo va incontro ad ipertrofia in modo direttamente proporzionale alla compromissione funzionale del rene affetto. Inoltre, anch’esso può essere sede di patologia ed in primo luogo di displasia multicistica (espressione di una disembriopatia che colpisce in tempi diversi entrambi i reni).L’utilizzo dell’eco-Doppler permette di valutare anche le resistenze vascolari intra-renali, il resistive index, che risultano aumentate in presenza di ostruzione.

Angioscintigrafia con renogramma diuretico

Per quanto riguarda l’angioscintigrafia con renogramma diuretico sono da preferire i radiofarmaci ad escrezione tubulare, in partico-lare il 99mTc-MAG3, che fornisce immagini più definite e meglio in-terpretabili, soprattutto in presenza di reni funzionalmente immaturi, come accade fisiologicamente nel lattante. Inoltre, la concentrazione attiva tramite escrezione tubulare delinea meglio l’apparato escreto-re, anche nelle IDN di grado elevato.L’indagine, generalmente eseguita dopo il primo mese di vita, non richiede una preparazione particolare (ad es. la sedazione), eccezion fatta per una buona idratazione, a meno di quesiti clinici specifici, come la contemporanea ricerca di reflusso vescico-ureterale, che può essere valutato in modo indiretto o diretto, quest’ultimo me-diante riempimento vescicale attraverso catetere. L’uso del catetere vescicale è da riservare quindi ad una minoranza di casi selezionati, usualmente durante i controlli a distanza, quando si voglia eliminare l’interferenza del riempimento vescicale sullo svuotamento.L’acquisizione delle immagini avviene subito dopo l’infusione endo-venosa del radiofarmaco, estratto dal rene e escreto con le urine, e dura circa 30’-40’, a seconda che si somministri lo stimolo diuretico (furosemide endovena) subito dopo la somministrazione del radio-farmaco (protocollo veloce F0) o circa 20’ dopo (protocollo classico F+20). (Sfakianakis et al., 2009; Piepsz et al., 2011).L’indagine consente di valutare la captazione del radiotracciante nel parenchima, espressione della funzionalità renale, e la sua pro-gressione fino alla vescica. Una corretta valutazione del drenaggio richiede sempre il completamento dell’indagine con una o più im-magini acquisite dopo svuotamento vescicale e stazione eretta per alcuni minuti. Queste manovre sono in grado di modificare netta-mente lo scarico delle vie urinarie superiori anche in caso di dilata-zione della sola pelvi renale e sono essenziali nelle dilatazioni di alto

grado, quando i fenomeni di redistribuzione del radiofarmaco nella pelvi dilatata possono falsare l’interpretazione delle sole immagini in clinostatismo.L’interpretazione dell’indagine si basa sull’analisi di tutte le immagi-ni (Fig. 3), con particolare attenzione al confronto fra quelle ottenute prima e dopo svuotamento vescicale, sul calcolo della funzione re-nale separata (normalmente il 50% per rene), in base all’estrazione renale del 99mTc-MAG3 in un preciso intervallo di tempo. La funzionalità renale separata viene oggi considerato il parametro più importante, mentre minor affidamento viene fatto sull’andamen-to della curva radionefrografica dopo diuretico, che può presentare, specialmente nelle dilatazioni di alto grado, una morfologia falsa-mente “ostruttiva” in fase di escrezione, legata ai fenomeni di ri-mescolamento del tracciante con l’urina non marcata presente nel sistema dilatato (Bao et al., 2011).Sono generalmente considerate indicazioni all’intervento chirurgico una funzione differenziale <40% od uno scadimento >10% tra due esami successivi. Reni con funzione differenziale <10% vanno con-siderati funzionalmente muti (Piepsz et al., 2010). La proposta dell’angioscintigrafia al captopril, quale test aggiuntivo si basa sull’assunto che l’ACE inibitore consentirebbe di individuare i casi in cui la filtrazione renale, a seguito dell’ostruzione, sia mante-nuta attraverso una vasocostrizione dell’arteriola efferente mediata dall’angiotensina. In questi casi alla somministrazione dell’ACE ini-bitore conseguirebbe una riduzione nell’estrazione renale del radio-farmaco. In realtà la situazione a livello recettoriale è sicuramente più complessa e ulteriori studi sono necessari per determinare le potenzialità di questa tecnica.

Cistografia minzionale

Un tempo considerata parte integrante dell’inquadramento diagno-stico di tutti i casi di IDN prenatali asintomatiche, il suo ruolo è oggi stato molto ridimensionato, perché serie cliniche hanno dimostrato che, in casi di IDN unilaterale senza dilatazione associata dell’urete-re, la prevalenza del reflusso vescico-ureterale è bassa (circa 15%), e solitamente si tratta di reflussi di basso grado che tendono a re-stare asintomatici ed a risolversi spontaneamente. La cistografia an-drebbe invece sempre considerata in presenza di infezioni urinarie o di una dilatazione ureterale (Nguyen et al., 2010).

figura 3.Idronefrosi destra con dilatazione prevalentemente pielica e funzionalità conservata. Netto rallentamento del deflusso a destra dopo diuretico (protocollo F0) ma svuotamento completo dopo minzione (box in basso a destra).

M. Castagnetti, E. Benetti, F. Bui, P. Zucchetta, L. Murer, W. Rigamonti

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Ulteriori indagini diagnostiche

L’urografia endovenosa ha progressivamente perso l’importanza attri-buitale in passato, perché gravata da una elevata dose radiante. Quando un’accurata definizione anatomica si rende necessaria, ad esempio nel sospetto di una duplicità pielo-ureterale, l’uro-risonanza magnetica è oggi l’esame di scelta. Essa offre un ottimo dettaglio anatomico e con-sente anche una valutazione funzionale. Trova i suoi limiti negli alti costi e soprattutto nella necessità di collaborazione da parte del paziente.

Potenziali biomarkers di nefropatia ostruttiva

Attualmente non vi sono indagini non invasive che permettano di definire la severità dell’eventuale danno parenchimale associato ad ostruzione. Vari studi stanno tentando di identificare biomarcatori di nefropatia ostrut-tiva attraverso l’individuazione ed il dosaggio nelle urine di mediatori nel processo che porta allo sviluppo della nefropatia ostruttiva (Chevalier et al., 2004). Sono stati oggetto di preliminari studi clinici la beta-2-micro-globulina, il transforming growth factor-beta 1, l’epidermal growth factor, il monocyte chemotactic peptide-1, la N-acetil-beta-D-glucosaminidasi, l’endotelina-1, i RANTES (regulated on activation normal T-cell espressed and secreted), l’interferon-gamma-induced protein-1, alcune interleuchi-ne (es. IL6 e IL8), e la cistatina C (Madsen et al., 2012). Si tratta di molecole coinvolte nei processi di differenziazione tubulare o di sviluppo della fibro-si interstiziale. Gli studi clinici preliminari hanno mostrato livelli renali ed espressione tissutale significativamente differenti nei soggetti candidati a correzione chirurgica rispetto ai controlli normali (Chevalier et al., 2004). Mancano però studi su popolazioni ampie e non vi sono dati per le IDN di grado intermedio. Inoltre, nessuno di questi marcatori si è dimostrato specifico esclusivamente di nefropatia ostruttiva, poiché possono essere aumentati anche in presenza di patologie nefrologiche o sistemiche, come l’insufficienza renale acuta, la nefropatia diabetica, la sindrome nefritica, la nefrite interstiziale e la nefropatia a IgA. Le molecole attualmente di maggiore interesse come potenziali biomar-catori sono il kidney injury molecule-1 (KIM1) e il neutrophil gelatinase-associated lipocalin (NGAL). I livelli urinari di KIM1 (uKIM1), proteina espressa ad alto livello nella membrana apicale dei tubuli prossimali, risultano particolarmente elevati in pazienti con stenosi del giunto non ancora sottoposti a pieloplastica e si riducono dopo l’intervento, pur re-stando più alti rispetto ai controlli con IDN non ostruttiva. Inoltre, i livelli di uKIM1 correlano negativamente con la funzione renale separata alla scintigrafia, suggerendo che l’espressione di questa proteina correli con la severità del danno renale. Nei bambini con IDN ostruttiva, la con-centrazione urinaria di NGAL (uNGAL) è 10 volte più elevata nelle urine prelevate dalla vescica e 16 volte più elevata nelle urine prelevate dalla pelvi del rene ostruito rispetto ai controlli sani. Inoltre, uNGAL correla direttamente con uKIM ed inversamente con la funzione separata alla scintigrafia renale; infine, i livelli di entrambe le proteine correlano con il peggioramento dell’ostruzione (Wasilewska et al., 2011).Dai dati finora disponibili in letteratura, si può tuttavia supporre che non vi sia una molecola che possa funzionare da sola da marcatore diagno-stico e prognostico e che l’approccio più promettente sia quindi quello della proteomica, ossia dell’individuazione di un set di proteine urinarie, espresso unicamente nell’IDN ostruttiva, e correlato sia con il quadro istologico che con parametri clinici (es. funzione separata alla scintigra-fia renale dinamica) (Taha et al., 2007).

Ruolo della profilassi antibiotica e derivazione urinaria nei casi a diagnosi prenatale

Pazienti con una IDN prenatale asintomatica richiedono spes-so un periodo di osservazione prima dell’intervento o comunque

fino al completamento dell’inquadramento diagnostico. Potreb-be sembrare opportuno somministrare una profilassi antibiotica durante tale periodo. In verità, l’evidenza scientifica su questo argomento è abbastanza carente. La letteratura disponibile mo-stra che il rischio di sviluppare infezioni cresce con l’aumentare del grado dell’IDN. Pazienti con un’IDN di I-II grado o un diametro antero-posteriore della pelvi <20  mm hanno lo stesso rischio infettivo della popolazione generale. Pazienti con IDN più severe hanno un rischio aumentato (Lee et al., 2008). Non esiste, tut-tavia, evidenza alcuna che la profilassi aiuti a ridurre l’incidenza delle infezioni urinarie. Di certo ogni manovra invasiva, come il cateterismo, aumenta il rischio di infezioni; pertanto almeno una profilassi a breve termine va presa in considerazione in questi casi (Castagnetti et al., 2012).Il posizionamento per via percutanea di una nefrostomia è una ma-novra potenzialmente utile e rapida per decomprimere la via urina-ria. Pertanto, tale manovra potrebbe sembrare un utile espediente nei neonati con dilatazioni particolarmente severe o con evoluzione più rapida. Di fatto, anche questa manovra sembra influire poco sul potenziale recupero funzionale del rene e il suo impiego sembra op-portuno solo su base clinica, ad esempio in caso di alterazione della funzionalità renale (Bayne et al., 2011).

L’IDN sintomatica

L’idronefrosi sintomatica rappresenta un’entità a sé stante. Spes-so si presenta nel bambino più grande e solitamente è dovuta alla presenza di un’ostruzione estrinseca al giunto pielo-ureterale da un vaso polare accessorio che irrora il polo inferiore del rene. Quando la pelvi si dilata in condizioni di iperdiuresi, la giunzione pielo-ureterale si trova compressa (e angolata) fra la pelvi e il vaso anomalo. Segue una riduzione della diuresi, che provoca generalmente la detensione della pelvi. Ciò spiega il ripetersi di coliche renali ed il reperto eco-grafico di una IDN ondulante, che peggiora durante le crisi dolorose. Di conseguenza, l’ecografia eseguita in acuto è spesso un’indagine chiave per la diagnosi, mentre la scintigrafia renale può risultare del tutto normale. La patologia è spesso subdola e ciò può portare ad una diagnosi tardiva; in questo caso possono anche essere presenti significative perdite funzionali del rene affetto. La correzione chirur-gica è sempre indicata.

IDN in anomalie renali

Tre quadri peculiari di IDN sono: l’IDN in rene a ferro di cavallo, l’IDN in rene ectopico, e l’IDN in doppio distretto. Si tratta di forme di idronefrosi con una base anatomica, che non è passibile del me-desimo tasso di risoluzione spontanea che si riscontra nelle IDN su rene normale, e che quindi più spesso necessitano di una correzione chirurgica.Per quanto riguarda l’IDN in rene a ferro di cavallo, essa è spesso dovuta alla presenza di anomalie vascolari compressive. La compo-nente compressiva dovuta all’istmo in cui si fondono i due reni, è oggi considerata meno importante e, pertanto, la sezione dell’istmo non è più raccomandata. L’IDN nel rene ectopico pone problemi soprattutto per quanto riguarda l’approccio chirurgico, che va scelto in base alla posizione del rene.L’ostruzione in doppio distretto riguarda quasi esclusivamente il di-stretto inferiore. Le cause più comuni sono l’ostruzione estrinseca da vaso polare o un’ipoplasia della congiunzione ad Y nei doppi di-stretti incompleti.

Gestione pre- e postnatale dei pazienti con idronefrosi da ostruzione del giunto pieloureterale

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Trattamento

L’intervento consiste in una pielo-ureteroplastica con exeresi della giunzione pielo-ureterale e confezionamento di una pielo-ureteroa-nastomosi in un tratto ureterale a valle del giunto. Può essere ese-guito a cielo aperto (per via retro-peritoneale), laparoscopico sia per via trans-peritoneale che retro-peritoneale, con un approccio robot-assistito. L’intervento a cielo aperto rimane il trattamento di scelta nel bambino al di sotto dell’anno di vita, mentre approcci mini-inva-sivi divengono sempre più utilizzati nel bambino di età maggiore per prevenire la necessità di incisioni ampie con sezione dei muscoli. I risultati finali sono analoghi indipendentemente dall’approccio uti-lizzato. Sebbene la pieloureteroplastica possa essere eseguita senza al-cun drenaggio, la maggior parte dei chirurghi preferisce utilizzare un drenaggio urinario per ottimizzare la guarigione delle suture. I drenaggi possono essere interni (doppio J) o esterni (splint trans-anastomotici) (Bayne et al., 2011) (Castagnetti et al., 2010).Trattamenti alternativi con dilatazione o incisione endoscopica della

giunzione non sono ad oggi accettati nel bambino, in quanto sem-brano non dare risultati duraturi nel tempo.

Follow-up post-operatorioI risultati della chirurgia possono essere valutati clinicamente, nei casi sintomatici, e con la ripetizione degli stessi esami preoperatori: l’ecografia e la scintigrafia renale dinamica. Il miglioramento della dilatazione all’ecografia è un importante se-gno predittivo positivo di successo dell’intervento, ma la dilatazio-ne può richiedere anche anni per migliorare (Romao et al., 2012). Pertanto, la ripetizione della scintigrafia renale dinamica è spesso raccomandata. (Castagnetti et al., 2008; Chertin et al., 2009). L’e-secuzione della scintigrafia a 6 mesi dall’intervento sembra il com-promesso più ragionevole per evitare risultati falsi negativi per la presenza dei processi di guarigione (Almodhen et al., 2010). Per quanto riguarda l’eventuale compromissione funzionale preoperato-ria, la correzione chirurgica non determina solitamente significativi miglioramenti funzionali.

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Che cosa si sapeva primaUna dilatazione pielica può essere dovuta sia ad un rallentato scarico dalle alte vie che ad un reflusso vescico-ureterale. Dilatazione non coincide con ostruzione ed un quadro ostruttivo alla renoscintigrafia diuretica non corrisponde sempre un’ostruzione clinicamente significativa. La profilassi antibio-tica può aiutare a ridurre le infezioni delle vie urinarie in pazienti con IDN trattati conservativamente.

Cosa sappiamo oggiL’acquisizione di immagini post-ortostatismo e minzione possono aiutare ad escludere un’ostruzione alla scintigrafia dinamica con renogramma diure-tico. Marcatori biologici di nefropatia ostruttiva dosati su campioni urinari potrebbero ulteriormente contribuire alla diagnosi di ostruzione in un futuro prossimo. Pazienti con IDN severe hanno un rischio infettivo aumentato. Non esiste, tuttavia, evidenza alcuna che la profilassi aiuti a ridurre l’incidenza delle infezioni urinarie. La pieloplastica a cielo aperto rimane il trattamento di scelta nel lattante, approcci mini-invasivi stanno diventando più diffusi nel bambino di età maggiore. Non vi sono comunque differenze nel tasso di successo dell’intervento, che è comunque superiore al 95%.

Quali ricadute sulla pratica clinicaImmagini post-ortostatismo e minzione dovrebbero essere sempre incluse nella scintigrafia dinamica con renogramma diuretico. La cistografia minzio-nale può essere evitata in pazienti asintomatici con dilatazione monolaterale e senza evidenza di dilatazione ureterale all’ecografia. La profilassi anti-biotica non dovrebbe essere routinariamente prescritta in pazienti con IDN congenita seguiti conservativamente. Trattamenti mini-invasivi potrebbero essere preferiti in bambini più grandi di 1-2 anni.

Box di orientamento

M. Castagnetti, E. Benetti, F. Bui, P. Zucchetta, L. Murer, W. Rigamonti

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Marco Castagnetti, Sezione di Urologia Pediatrica, Unità di Urologia, Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova, Monoblocco Ospedaliero, Via Giustiniani 2, 35128 Padova. Tel. +39 049 8212737, Fax +39 049 8212721. E-mail: [email protected].

Corrispondenza

Gennaio-Marzo 2013 • Vol. 43 • N. 169 • pp. 15-21 Urologia pediatrica

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IntroduzioneIl reflusso vescicoureterale (RVU) è un evento dinamico: il flusso retrogrado di urine dalla vescica nell’uretere e nella pelvi renale. È considerato patologico nella specie umana e strettamente correlato alla presenza di infezioni delle vie urinarie (IVU) e di danno renale. Si calcola che dal 30 al 50% dei bambini con IVU sia affetto da RVU. Una quota elevata di RVU va incontro spontaneamente a risoluzio-ne senza lasciare reliquati. Tuttavia in un’altra quota di bambini, il RVU si associa ad elevata morbidità per la comparsa di pielonefriti ricorrenti nei primi anni di vita, e la nefropatia può evolvere verso l’insufficienza renale cronica e l’ipertensione arteriosa. Tuttavia nel-la pratica clinica non è possibile correlare strettamente il grado del reflusso con la probabilità di avere IVU, in virtù dell’ampia variabilità clinica.A partire dagli anni Sessanta, nessun argomento è stato oggetto di tanta discussione come il reflusso e il danno renale ad esso asso-ciato. Tuttavia alcune delle problematiche relative alla associazione tra reflusso, infezioni e nefropatia non sono ancora state comple-tamente comprese, e nella recente letteratura è ancora aperto il dibattito.

ObiettiviObiettivo dell’articolo è presentare le più attuali conoscenze di fi-siopatologia del RVU, e discutere dei conseguenti orientamenti dia-gnostici e terapeutici nella pratica clinica, anche alla luce delle più recenti linee guida presentate dalle società scientifiche internazio-

nali. Una particolare attenzione sarà rivolta alle conseguenze a lungo termine del RVU, e al follow-up nell’età adolescenziale ed evolutiva.

Metodologia della ricerca bibliografica effettuataUn’estesa ricerca bibliografica è stata condotta su Medline e Co-chrane Database of Systematic Review sulla letteratura dal 2000 ad oggi, utilizzando come parola chiave i termini vesicoureteral reflux, urinary tract infection e reflux nephropathy, tutti limitati da pediatric, child o children. Sono state preferenzialmente presi in considerazio-ne i lavori pubblicati negli anni 2010-2012, le review e le linee gui-da di società scientifiche: la European Association of Urology (EUA)/ European Society for Pediatric Urology (ESPU) (Tekgul et al., 2012), la American Urological Association (AUA) (Peters, 2010; Skoog et al, 2010), l’American Academy of Pediatrics (AAP) (Subcommittee on UTI, 1999; Roberts, 2011; Finnell et al., 2011), il National Institute for Health and Clincal Excellence (NICE) (www.nice.uk.org), la Society of Fetal Urology (SFU) (Nguyen et al., 2010), la Società Italiana di Nefrologia Pediatrica (SINP) (Ammenti et al., 2011). Il lavoro si focalizza sul reflusso vescicoureterale primitivo, esclu-dendo pertanto dalla trattazione il reflusso secondario a patologie anatomiche o funzionali vescicali (valvole uretrali, vescica neuroge-na, ureterocele).

La diagnosticaL’ecografia renale e vescicale è la prima indagine diagnostica da eseguire nel sospetto di uropatia: oltre alla presenza di dilatazione

reflusso vescicoureterale primitivo in età evolutiva: cosa avviene dalla nascita all’adolescenza?

Simona Gerocarni Nappo, Alessandra Farina, Maria Luisa Guidotti, Paolo Caione U.O.C. Chirurgia Urologica, Dipartimento Nefrologia-Urologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma

Sommario

Il reflusso vescicoureterale (RVU) è un problema che il pediatra si trova ad affrontare di frequente, interessando l’1% dei bambini. A partire dagli anni Ses-santa, il fenomeno del RVU è stato considerato non fisiologico e strettamente associato alla comparsa di pielonefriti e di cicatrici renali. Gli studi di fisio-patologia degli ultimi anni hanno tuttavia modificato drasticamente le nostre conoscenze sul RVU, mostrando che esiste un danno renale congenito dovuto ad ipodisplasia, che vi è una stretta correlazione tra RVU e disfunzioni del basso apparato urinario e che la suscettibilità alle infezioni urinarie (IVU) e alle cicatrici renali è geneticamente determinata. Molte delle questioni riguardanti il RVU sono ancor aperte: Come trattarlo? Quando e in quali pazienti trattarlo? È possibile con il trattamento del RVU prevenire le IVU? E il trattamento è in grado di modificare il rischio di danno renale? E ancora: il RVU che vediamo nel lattante quale evoluzione avrà nell’età scolare e nella adolescenza? Quali pazienti sono a rischio di evoluzione verso l’insufficienza renale cronica? Tali domande non trovano ancora una risposta esaustiva e sono al momento oggetto di un vasto dibattito. Cercheremo di rispondere ad alcuni di questi quesiti.

SummaryVesicoureteral reflux (VUR) is a problem that pediatricians often have to face, since it involves 1% of children. VUR has been traditionally linked to urinary tract infections (UTI) and renal scars. Recent studies, however, showed the existence of congenital renal damage, probably more important than acquired scars, a close relationship among UTI, VUR and lower urinary tract dysfunctions (LUTD), and genetic predisposition to UTIs and renal scars. Many questions about VUT are not answered yet: How to treat? Can we prevent UTI? Can we prevent renal scars? Are there parameters that can predict the evolution of VUR and renal function in a specific patient? The debate is still open. Recent advances in the field of physiology, diagnosis and treatment of VUR will be presented as well as published guidelines. Special attention will be devoted to the evolution of VUR from infancy to adolescence.

S. Gerocarni Nappo, A. Farina, M.L. Guidotti, P. Caione

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delle alte vie escretrici, consente di valutare le dimensioni, il profilo e la ecogenicità renale, la dilatazione dell’uretere, modifiche della entità della dilatazione delle vie escretrici nel corso dell’esame e la morfologia vescicale. Tuttavia l’ecografia ha scarsa sensibilità (30%) e specificità (84%) nella diagnosi del RVU (Sorkhi et al., 2012).La cistouretrografia retrograda fluoroscopica è ancora oggi l’in-dagine di prima scelta nella diagnosi del RVU. Il grado del reflusso viene universalmente classificato secondo l’International Reflux Stu-dy Committee in cinque gradi (Fig. 1) (Lebowitz et al., 1985). Tuttavia la cistouretrografia è un esame invasivo, che richiede la cateteriz-zazione trans-uretrale ed espone il paziente a radiazioni ionizzanti. La cistografia sonicata utilizza l’instillazione endovescicale di un eco-contrasto (albumina sonicata, Levovist ®, Sonovue®) per iden-tificare il flusso retrogrado di urina verso il rene. L’esame tuttavia è altamente operatore dipendente e ha definizione anatomica limitata (Piaggio et al., 2003). La cistoscintigrafia diretta utilizza un radio-tracciante (Tc99DTPA): a fronte di una dose di radiazioni ridotta, ha assente definizione anatomica e meno precisa classificazione del reflusso in gradi “lieve”, “moderato” e “severo”. La cistoscintigrafia indiretta invece utilizza la fase minzionale della scintigrafia renale dinamica con MAG3. L’esame evita la cateterizzazione trans-uretra-le ma può essere effettuato solo in bambini che abbiano acquisito il controllo minzionale. Tutti gli esami descritti sono nella nostra opi-nione da preferire nel follow-up dei bambini. La cistografia in riso-nanza magnetica, priva di radiazioni ionizzanti e che consente una ottimale definizione anatomica anche dell’eventuale danno renale associato, è per adesso limitata a situazioni sperimentali.

Altri esami diagnostici

In accordo con le recenti linee guida dell’AUA (Peters et al., 2010), i sintomi indicativi di disfunzione vescicale devono essere accurata-mente ricercati nei bambini affetti da RVU mediante studi urodina-mici non invasivi (diario minzionale e uroflussometria con residuo postminzionale), riservando l’urodinamica invasiva (cistomanome-tria o videourodinamica) a casi selezioni di RVU complesso. Esistono markers sierici o urinari predittivi di RVU? Negli ultimi anni la microalbuminuria, la beta2 microglobulina, l’n-acetil-gluco-sammina (NAG), i livelli urinari di interleukine, la procalcitonina e la molecola di adesione endoteliale dei leucociti 1-ELAM1 sono stati dimostrati elevati nei pazienti con RVU rispetto ai controlli, ma pur dimostrando elevata sensibilità hanno scarsa specificità. In prospet-

tiva la ricerca di marcatori non invasivi che ci consenta di identificare precocemente i pazienti affetti da RVU e/o da nefropatia ipodispla-sica appare affascinante, ma ad oggi ha solo un ruolo sperimentale.

Danno renale congenito e danno acquisito

Il termine “nefropatia da reflusso” fu coniato negli anni Settanta per definire la stretta relazione tra il reflusso e le cicatrici renali, in pre-cedenza definite come “pielonefrite cronica”, ma è caduto oggi in disuso alla luce delle recenti ipotesi sulla coesistenza di un danno renale congenito di natura ipodisplasica, indipendente dalle infezioni urinarie. La presenza di ipodisplasia renale viene di routine inve-stigata mediante scintigrafia renale con DMSA, che ha una ele-vata sensibilità nel documentare sia l’interessamento parenchimale in corso di pielonefrite acuta che la successiva evoluzione verso la cicatrice permanente. Le lesioni postpielonefritiche hanno l’aspetto caratteristico di aree focali di ipocaptazione, diffuse e più evidenti in sede polare. Il recupero funzionale da parte di queste aree di deficit focale di captazione corticale viene ritenuto possibile fino a sei mesi dopo un episodio pielonefritico. Fino al 50% dei neonati maschi con reflusso di alto grado, in assenza di episodi di infezione urinaria, presenta danno renale congenito alla scintigrafia DMSA: in questi casi il rene appare piccolo, con ipocaptazione diffusa ed eventuali deficit focali associati.

RVU, infezioni urinarie e danno renale

Classicamente il RVU viene diagnosticato in seguito a uno o più epi-sodi di IVU. Dal 30 al 50% dei pazienti con IVU risulta affetto da RVU. L’assunto su cui si è basata la gestione dei pazienti con RVU negli ultimi 50 anni è che il RVU conduca alle pielonefriti, le quali portano al danno renale. In realtà l’interazione tra reflusso, infezioni urinarie e nefropatia è apparsa negli ultimi anni più complessa. I bambini con RVU sono sicuramente a rischio di sviluppare pielonefrite (rischio relativo 1,5) e danno renale (rischio relativo 2,6) rispetto ai bambini senza RVU (Shaik et al., 2010) e i bambini con RVU di grado ≥ III hanno un maggiore rischio di sviluppare nefropatia rispetto a quelli con RVU di I-II  grado. Anomalie renali sono riportate globalmente nel 21,8% dei pazienti con RVU (range 2-63%), con una media del 6.2% in RVU di I-II grado e del 47,9% nei RVU di IV-V grado (Skoog et al., 2010). Il danno renale postpielonefritico è più frequente in presenza di RVU (Peters et al., 2010) ed aumenta con l’aumentare degli episodi pielonefritici. Tuttavia si è osservato che un ruolo maggiore viene svolto anche dalla disfunzione vescicale (LUTD): elevate pressioni endovescicali in fase di riempimento o in fase di svuotamento per mancato rilasciamento dello sfintere uretrale da incoordinazione possono determinare RVU ed espongono il rene al rischio di danno anche in presenza di urine sterili. Fino al 60% delle bambine con reflusso e infezione presenta iperattività vescicale, caratterizzata clinicamente dalla presenza di urgenza, frequenza minzionale e “urge incontinence”. Altri bambini presentano invece incoordinazione vescico-sfinterica, presenza di residuo postminzionale e stipsi (cosiddetta Dysfunctional elimination syndrome). In pazienti con RVU la LUTD vescicale aumenta il rischio di IVU ricorrenti, ritarda la guarigione spontanea del RVU e riduce il suc-cesso dopo trattamento endoscopico/chirurgico. L’AUA raccomanda di investigare la presenza di disfunzione vescicale in tutti i pazienti affetti da RVU che abbiano raggiunto il controllo minzionale (Peters, 2010). Inoltre non è chiaro se nella eziopatogenesi della nefropatia il RVU abbia effettivamente un ruolo principale, o se non sia piuttosto do-minante la nefropatia congenita da ipodisplasia (Lee et al., 2012; Zaffanello et al., 2011).

figura 1.Classificazione del reflusso vescico-ureterale (International Reflux Stu-dy Commettee – 1981).

Reflusso vescicoureterale primitivo in età evolutiva: cosa avviene dalla nascita all’adolescenza?

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Quando eseguire la cistografia dopo infezione? L’approccio bottom-up e quello top-down

Oggi vi è ampio dibattito su quando e con quali indagini diagnostiche investigare i pazienti a rischio di reflusso vescicoureterale (Koyle et al., 2012). Le linee guida dell’AAP del 1999 raccomandavano l’esecuzione di cistografia nei bambini di età compresa tra i 2 e i 24 mesi dopo il primo episodio di infezione urinaria febbrile, con successiva esecuzio-ne di scintigrafia DMSA in caso di cistografia positiva per RVU (Sub-committee on UTI, 1999) (Fig. 2) (Tab. I). Questo approccio diagnostico tradizionale, definito come bottom-up, è stato recentemente messo in discussione. L’oggetto maggiore del contendere è sul ruolo del reflus-so nella eziopatogenesi della nefropatia dopo infezione e se sia impor-tante diagnosticare il RVU o non piuttosto la nefropatia. Da una visione “nefrocentrica” e non più “vescicocentrica” è nato recentemente l’ approccio cosiddetto top-down volto ad identificare l’interessamento renale in corso di pielonefrite acuta, la displasia renale o la lesione renale acquisita. I propositori dell’approccio top-down raccomandano l’esecuzione della ecografia e della scintigrafia renale DMSA nelle fase acuta o nelle prime settimane dopo l’infezione urinaria, riservando la cistouretrografia ad un secondo momento, solo in caso di lesioni re-nali scintigraficamente dimostrate o di anomalie ecografiche (Paintsil,

2012) (Tabb. II e III). All’estremo, le linee guida del NICE scoraggiano l’impiego routinario di tecniche di diagnostica per immagini dopo il primo episodio di infezione urinaria e consigliano l’esecuzione della ecografia solo dopo infezioni urinarie ricorrenti o atipiche o nei lattanti di età < 6 mesi dopo il primo episodio infettivo, e della scintigrafia DMSA in bambini di età < 3 anni con infezioni urinarie ricorrenti o ati-piche. Il RVU in assenza di nefropatia non merita terapia e nemmeno di essere diagnosticato (Schroeder, 2011). Tuttavia recente metanalisi (Mantadakis et al., 2011) riporta una sensibilità e una specificità della scintigrafia DMSA per la diagnosi dei RVU pari rispettivamente al 79 e al 53%. L’approccio top-down rischierebbe di non diagnosticare una quota significativa di reflussi, anche di alto grado, potenzialmente a rischio di pielonefriti ricorrenti e di significativa morbidità. Personalmente concordiamo con l’esigenza di ridurre l’esposizione dei bambini a radiazioni ionizzanti e in accordo con le linee guida dell’AUA (Peters, 2012) riteniamo comunque sempre necessaria una valutazio-ne ecografica dell’apparato urinario dopo IVU al fine di valutare una eventuale alterazione delle corticale renale, anche in considerazione della scarsa invasività e della assenza di radiazioni ionizzanti.

figura 2.Cistografia e Scintigrafia renale DMSA in lattante di 4 mesi con se-gnalazione prenatale di idronefrosi e pielonefrite acuta neonatale. Alla cistografia RVU bilaterale di V grado, alla scintigrafia aree di ipocapta-zione diffuse bilateralmente.

Tabella I. Linee guida alle indagini per immagini in bambini con sospetto RVU.

Organizzazione Indagine diagnostica iniziale Indicazione a Cistografia Indicazione a DMSA

European Association of Urology/European Society for Pediatric Urology

Ecografia e CUM/DMSA Prima IVU febbrile (maschi), IVU ricorrenti (femmine)

Prima IVU febbrile

American Academy of Pediatrics

Ecografia IVU ricorrenti, ectasia ureterale, idronefrosi, cicatrici renali

Non raccomandata

National Institute for Health and Clincal Excellence

Ecografia (IVU atipica o età < 6 m) Se evidenza di scar a DMSAEtà < 6 m: IVU ricorrenti Età 6 m-3a: IVU atipiche, idronefrosi o idroureteronefrosi, familiaritàEtà > 3 anni: nessuna

Prima IVU febbrileEtà < 3 a: IVU ricorrenti o atipicaEtà > 3 a: IVU ricorrenti

Society of Fetal Urology Ecografia neonatale (2-4 sett)

Idronefrosi moderata-severa persistente in epoca neonatale

Da: Practice parameter: the diagnosis, treatment, and evaluation of the initial urinary tract infection in febrile infants and young children. American Academy of Pediatrics. Committee on Quality Improvement. Subcommittee on Urinary Tract Infection. Pediatrics 1999;103:843-52.

Tabella II. Flow-chart approccio Bottom-up dopo IVU.

IVU febbrile

Ecografia

Cistografia

Normali Patologiche

RVU IdronefrosiFollow-up clinico

DMSA MAG3

S. Gerocarni Nappo, A. Farina, M.L. Guidotti, P. Caione

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Reflusso vescicoureterale e idronefrosi prenatale

L’1-5% dei feti presenta idronefrosi alle ecografie di screening prena-tale, potenzialmente legata a RVU. Una metanalisi della letteratura ri-porta una incidenza media di RVU in neonati con idronefrosi prenatale del 16,5% (range 7-35%) (Skoog et al., 2010). L’assenza di dilatazioni alla ecografia postnatale non esclude la presenza di RVU anche di alto grado, a causa della fisiologica oliguria neonatale e al carattere inter-mittente del RVU stesso. Il RVU neonatale appare diverso rispetto al RVU nel bambino più grande: nell’80% dei casi avviene nel maschio, è di alto grado, associato a displasia nel 50% dei casi. Questi RVU hanno una elevata percentuale di guarigione spontanea (30-40% dei RVU di IV- V grado entro i 2-6 anni), tuttavia il rischio di pielonefriti acute nei primi mesi di vita è elevato, così come il rischio di ipertensione arterio-sa ed insufficienza renale cronica, dipendenti dalla ipodisplasia renale congenita. Una creatininemia > 0,6 mg/dl e una clearance creatininica basale < 40 ml/min sono significativamente correlata ad evoluzione verso la compromissione della funzionalità renale (Ardissino et al., 2004; Caione et al., 2004). Sia la SFU che la AUA raccomandano la esecuzione della cistografia nei neonati con segnalazione prenatale di idronefrosi di grado elevato, idroureteronefrosi o idronefrosi associata ad anomalie vescicali (Nguyen et al., 2010).

Il reflusso vescicoureterale familiare

Il RVU ha una trasmissione dominante poligenica (Puri et al, 2011). Seb-bene sia presente solo nell’1-2% della popolazione generale, una recen-te metanalisi (Skoog et al., 2010) dimostra una incidenza del 27,4% nei fratelli dei probandi (100% nei gemelli monozigoti) e del 35,7% nei figli. La severità del reflusso e della nefropatia sono estremamente variabi-li all’interno di una singola famiglia, con espressioni fenotipiche molto diverse. Non vi sono al momento raccomandazioni specifiche sulle mo-dalità di controllo dei fratelli, sebbene le linee guida raccomandino che i genitori siano informati del rischio di RVU familiare. L’AUA consiglia che una ecografia renovescicale sia offerta ai fratelli e che la cistografia sia eseguita in caso di anomalie ecografiche (Skoog et al., 2010).

Il trattamento del reflusso

Gli obiettivi del trattamento del RVU sono: 1) la prevenzione delle

infezioni urinarie febbrili; 2) la prevenzione (se possibile) del danno renale; 3) la riduzione della morbidità del trattamento.

Antibioticoprofilassi continuativa

Per 50 anni l’antibioticoprofilassi è stata il cardine della strategia te-rapeutica del RVU. La risoluzione spontanea può raggiungere l’80% nel RVU di I-II grado e il 30-50% nel RVU di III-IV grado ad un follow-up di 4-5 anni, ma è solo del 20% nei RVU di V grado (Elder et al., 1997). Nei bambini più grandi la percentuale di risoluzione dipende dal grado iniziale del reflusso, dal sesso, dall’età, ed anche dalla presenza di LUTD e di danno renale.Lavori recenti hanno messo in dubbio la validità della antibioticoprofi-lassi nel ridurre il rischio di pielonefriti acute e cicatrici renali rispetto alla semplice osservazione (Pennesi et al., 2008). Un approccio accet-tabile e sicuro, in casi selezionati, può essere la semplice osservazio-ne clinica. La profilassi antibiotica continuativa ha inoltre diversi limiti: è meno efficace nel prevenire le infezioni urinarie di quanto presunto in passato, anche per scarsa collaborazione familiare, induce antibio-ticoresistenza e richiede negli anni la ripetizione di esami invasivi.La antibioticoprofilassi continuativa viene raccomandata nei bambi-ni di età inferiore a 1 anno con RVU e pregressa infezione e nei RVU di III-V grado diagnosticato in seguito a screening, mentre in quelli con reflusso di basso grado (I-II) è considerata opzionale. Alla profi-lassi antibiotica si raccomanda di associare il trattamento dei LUTD mediante terapia urofarmacologica e /o riabilitativa (Peters, 2010).

Trattamento chirurgico del reflusso

La terapia chirurgica del RVU è volta a ricostruire il meccanismo val-volare alla giunzione ureterovescicale. Il successo della chirurgia open supera il 95%. L’IRSC nel 1997 riportò una riduzione della incidenza di pielonefriti acute dopo intervento chirurgico rispetto alla profilassi antibiotica, ma nessuna differenza in termini di incidenza di cicatrici renali. Numerose tecniche antireflusso sono state descritte, sia per via intravescicale (sec. Cohen, sec. Leadbetter-Politano, sec. Glenn-Anderson) che per via extravescicale (sec Lich-Gregoir). (Fig. 3) Nono-stante elevate percentuali di successo, la terapia chirurgica del RVU comporta elevata morbidità, lunga degenza ospedaliera/convalescen-za a domicilio, rischio di complicanze non trascurabile e modifica la anatomia della giunzione uretero-vescicale rendendo difficili succes-

Tabella III. Flow-chart approccio Top-down dopo IVU.

IVU febbrile

DMSA

Difetto corticale/Rene piccolo

Area fotopenica centrale (idronefrosi)

Normale

EcografiaIVU ricorrenti

Cistografia

No indagini

Cistografia

figura 3.Schema e fotografia intraoperatoria dell’intervento chirurgico open di ureteroneocistostomia trans trigonale sec Cohen.

Reflusso vescicoureterale primitivo in età evolutiva: cosa avviene dalla nascita all’adolescenza?

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sive procedure endoscopiche sulla alta via escretrice (Fonsec et al., 2012). Allo scopo di ridurre la morbidità della chirurgia a cielo aperto, è stata recentemente descritta la correzione chirurgica del reflusso per via laparoscopica, sia con tecnica extravescicale che con tecni-ca intravescicale (pneumocystium) (Valla et al., 2009). La difficoltà di esecuzione, i lunghi tempi operatori, la necessità di elevata esperienza laparoscopica e la maggiore invasività rispetto al trattamento endo-scopico ne hanno limitato la diffusione.

Trattamento endoscopico del reflusso

Il trattamento endoscopico prevede la ricostruzione di un meccanismo valvolare antireflusso mediante iniezione endoscopica in sede sub ureterale di un bulking agent, in grado elevare il tratto terminale dell’u-retere. Descritto per la prima volta nel 1984 da Puri e O’Donnell, è di-ventato rapidamente popolare. Il materiale iniettabile ideale dovrebbe essere sicuro, facilmente iniettabile, stabile nella sede di iniezione, di lunga durata, biocompatibile, non antigenico e non cancerogeno. Di-versi materiali sono stati utilizzati nel tempo e poi abbandonati: il PTFE (Teflon), il Macroplastique (polidimetilsilossano), il collagene bovino, condrociti, grasso autologo, coaptite, silicone. Negli ultimi 15 anni il materiale principalmente utilizzato per il trattamento è stato il copoli-mero di destranomero in acido ialuronico (DxHA- Deflux ®), approvato nel 2001 anche dalla Food and Drug Administration (FDA). Sono state descritte anche diverse tecniche di iniezione endoscopica (sting, hit, double hit) senza che questo modifichi sostanzialmente le percentuali di successo della procedura. (Figg. 4-5) In una metanalisi che include 5527 pazienti e 8101 unità renali, il successo dopo una singola inie-zione era rispettivamente del 78,5% nel I-II grado, 72% nel III, 63% nel IV e 51% nel V grado; iniezioni successive portavano il successo globale all’85% (Elder et al., 2006). Nel recente studio prospettico randomizzato svedese volto a para-gonare i tre bracci terapeutici di trattamento endoscopico, profilas-

si antibiotica e osservazione clinica senza profilassi, il trattamento endoscopico del RVU di III-IV  grado a 1-2  anni di età ha dato la più elevata percentuale di guarigione del RVU (71%) versus  39% e 42% degli altri bracci. Inoltre infezioni febbrili e nuove cicatrici sono occorse più frequentemente nel gruppo in osservazione clinica (Brandstrom et al., 2011).Il trattamento endoscopico ha modificato in maniera radicale la ge-stione del RVU negli ultimi 20 anni. Sebbene non sia stata dimostrata la superiorità di una strategia terapeutica rispetto alle altre nel pre-venire il danno renale postpielonefritico, il trattamento endoscopico presenta indiscussi vantaggi: è una tecnica di correzione rapida, con minima morbidità, elevato successo, eseguibile in regime ambulato-riale o di day-surgery, non modifica l’anatomia della giunzione e non inficia una eventuale successiva chirurgia ed i materiali iniettabili attuali sono sicuri e non allergenici (Tab. IV). Nella nostra esperienza riteniamo che debba essere considerato il trattamento di prima linea nei RVU di II-III grado sintomatici di infezioni ricorrenti o recidivanti e nei RVU di grado maggiore, in alternativa sia alla profilassi antibioti-ca che alla chirurgia (Capozza et al., 2007). Infine, il coinvolgimento della famiglia nella decisione sul programma terapeutico del reflus-so vescicoureterale è un fattore critico.

Tabella IV.Trattamento endoscopico: vantaggi.

Risultato immediato

Morbidità minima

Procedura in regime di day-surgery

Elevata percentuale di successo

Non modifica l’anatomia della giunzione uretero-vescicale

Non complica successivo intervento open

Materiali iniettabili sicuri, non migranti, non allergenici e non cancerogeni

figura 4.Schema del trattamento endoscopico: l’iniezione del materiale in sede sub ureterale allunga il tunnel sottomucoso rinforzando il meccanismo valvolare antireflusso.

figura 5.Aspetto in cistoscopia degli osti ureterali prima e dopo il trattamento endoscopico. Osti refluenti e beanti (sopra), ben chiusi e sollevati dopo l’iniezione sub ureterale (sotto).

S. Gerocarni Nappo, A. Farina, M.L. Guidotti, P. Caione

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Le conseguenze a lungo termine del RVULe complicanze a lungo termine del RVU e della nefropatia che si ac-compagna a reflusso sono ben note ma spesso sottostimate, in quanto ad esordio insidioso e a lenta evoluzione. Esse includono l’ipertensio-ne arteriosa, la proteinuria, l’acidosi, la poliuria, l’insufficienza renale cronica evolutiva fino all’insufficienza renale terminale. L’ipertensione arteriosa è riportata nel 17-30% dei pazienti pediatrici con nefropatia e nel 34-38% degli adulti. A lungo termine il 13% dei pazienti con nefropatia che si accompagna a reflusso sviluppa ipertensione tra i 15 ed i 30 anni. La proteinuria è riportata nel 21% degli adulti con ne-fropatia che si accompagna a reflusso e la microalbuminuria nel 50% dei bambini con nefropatia (età media 9,8%). Da non sottovalutare inoltre le potenziali complicanze della nefropatia che si accompagna a reflusso in gravidanza: infezioni urinarie (22%), ipertensione arteriosa (4,3%), preeclampsia (10,4%), interruzione spontanea (10,2%), parto pretermine (24,2%) e progressione della insufficienza renale. Infine, la nefropatia che si accompagna a reflusso è la causa di insufficienza renale in età pediatrica dal 12 al 24% dei casi (Mattoo, 2011). Il danno renale è causa di insufficienza renale cronica nel 12-21% dei pazienti pediatrici (Chantler et al., 1980; Deleau et al., 1994).

Follow-up a lungo termine

I pazienti necessitano anche dopo risoluzione del RVU di un follow-up a lungo termine. Gli scarsi dati a disposizione dimostrano infatti un incremento delle complicanze al protrarsi del follow-up nella vita adulta. In assenza di sicuri fattori predittivi, la famiglia ed il paziente devono essere informati dei rischi. Le linee guida dell’AUA racco-mandano una valutazione generale con monitorizzazione di peso, altezza, pressione arteriosa, esame urine per proteine e infezione,

annualmente per tutta l’adolescenza in presenza di nefropatia mono o bilaterale; raccomandano che in caso di infezioni urinarie recidive siano investigati eventuali LUTD o sia ricercato un RVU recidivo, e che la famiglia sia resa edotta dei potenziali problemi a lungo termi-ne, quali la comparsa di ipertensione arteriosa (specie in gravidan-za), il deterioramento della funzione renale e la possibilità di ricor-renza del RVU nei fratelli o nei discendenti (Peters, 2010).

Conclusioni e prospettive future

Al momento attuale in letteratura esistono grandi controversie circa il RVU. Le linee guida pubblicate sono contraddittorie e divergenti nella loro raccomandazioni circa la diagnostica per immagini, le mo-dalità di screening dei gruppi a rischio e le opzioni terapeutiche. Il RVU appare non necessario né sufficiente a causare pielonefriti acu-te e nefropatia, tuttavia rimane strettamente associato con entram-be. È ipotizzabile che fattori genetici siano coinvolti nella suscetti-bilità individuale alle infezioni e alla nefropatia, e che il RVU sia solo un elemento del quadro. Obiettivo della ricerca nel prossimo futuro dovrà essere lo studio di fattori che ci consentano di identificare e distinguere precocemente i pazienti a rischio di morbidità correlata al RVU da quelli in cui la terapia o addirittura la diagnosi di RVU possano essere un eccesso di zelo. È altresì necessario sempre più che il follow-up dei pazienti pediatrici seguiti per RVU prosegua nella vita adulta, per fornirci le chiavi corrette di interpretazione di quanto succede nell’infanzia. In attesa che tanti aspetti si chiariscano l’al-goritmo diagnostico e terapeutico del bambino con RVU deve essere al momento modellato sul singolo paziente, sulle raccomandazioni delle attuali linee guida.

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Cosa sapevamo Il reflusso vescicoureterale era considerato la causa principale di pielonefriti ricorrenti e danno renale.

Cosa sappiamo adessoIl reflusso vescicoureterale è solo uno degli elementi coinvolti nella eziopatogenesi delle infezioni urinarie febbrili e del danno renale. A fronte di pazienti a rischio di morbidità da pielonefriti e insufficienza renale cronica, ve ne sono altri che meritano la semplice osservazione clinica.

I risvolti clinici L’iter diagnostico e terapeutico del bambino con RVU deve essere individualizzato e modulato sulla base delle linee guida pubblicate.

Box di orientamento

Reflusso vescicoureterale primitivo in età evolutiva: cosa avviene dalla nascita all’adolescenza?

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** Review delle attuali conoscenze sulla genetic del RVU.

Robert KB. Urinary tract infection: clinical practical guideline for the diagnosis and initial management of the initial UTI in febrile infants and children 2 to 24 months. Pediatrics 2011;128:595-610.

** Attuali line guida dell’AAP sulle IBU. Modificano le precedent del 1999.

Routh JC, Bogaert GA, Keafer M, et al. Vesicoureteral reflux: current trends in diagnosis, screening and treatment. European Urology 2012;61:773-82.

** Revisione critica multicentrica europea sull’attuale management del RVU.

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Tekgul S, Riedmiller H, Hoebeke P, et al. EAU guidelines on vesicoureteral reflux in children. Eur Urol 2012;62:534-42.

** Linee guida dell’EAU/ESPU sul RVU.

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Simona Gerocarni-Nappo, Dipartimento di Urologia Pediatrica, Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, Piazza Sant’Onofrio 4, 00165 Roma. E-mail:[email protected].

Corrispondenza

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In nessun altro periodo della vita l’essere umano è così esposto al rischio di contrarre un’infezione come in epoca neonatale, in particolar modo se la nascita si è verificata prematuramente o se il piccolo paziente richiede cure intensive. Le gravi infezioni costituiscono la più importante causa di morte nei primi trenta giorni di vita; infatti ogni anno nel mondo oltre un milione di neonati decede a causa di una patologia infettiva, e nei neonati di peso <1500 g la mortalità per sepsi non ha mostrato miglioramenti significativi negli ultimi trenta anni. Tutto questo ha portato ad un particolare “fervore” nella ricerca neonatologica per individuare soluzioni che possano limitare i danni, a volte devastanti, causati dalle infezioni.Il primo dei tre articoli che proponiamo prende in considerazione alcune novità sugli herpes virus e la prevenzione delle infezioni nosoco-miali. Le decadi passate hanno visto la possibilità di prevenire o trattare determinate infezioni del complesso TORCH (rosolia e toxopla-smosi), ma rimane ancora aperto il problema di come prevenire o ridurre la morbilità legata alle infezioni congenite da citomegalovirus e da herpes simplex virus, delle quali si riportano le più recenti acquisizioni in tema di prevenzione, diagnosi e terapia. Per quanto riguarda la prevenzione delle infezioni nosocomiali viene sottolineato, come il non corretto uso degli antibiotici possa provocare non solo fenomeni di multiresistenza, ma anche patologie gravi come l’enterocolite necrotizzante e la sepsi ad esordio tardivo (a comparsa dopo le prime 48-72 ore di vita). Infine vengono prese in considerazione le possibilità che offrono i nuovi biomateriali utilizzati per i cateteri vascolari e l’uso preventivo delle immunoglobuline.Gaetano Chirico affronta il problema della diagnosi di laboratorio, la cui tempestività risulta essere determinante nell’efficacia della terapia e quindi nella prognosi. Vengono descritte non solo le tecniche che si possono definire classiche (gli esami ematologici, gli indici di flogosi e le indagini microbiologiche) ma anche le nuove ricerche diagnostiche di biologia molecolare (la polymerase chain reaction per la ricerca degli acidi nucleici dei microrganismi), le metodiche –omics e il ruolo del patrimonio genetico sulla risposta sistemica all’infezione. Benché non ancora applicate di routine nella pratica clinica, tali tecniche potrebbero portare, in futuro, ad un miglioramento dell’approccio terapeutico alle infezioni neonatali, rendendolo più rapido, più specifico, e più individualizzato. Paolo Manzoni prende in considerazione gli aspetti salienti delle infezioni neonatali sistemiche fungine con particolare riguardo alla preven-zione e alla terapia. La diagnosi non sempre facile a causa della sintomatologia inizialmente aspecifica, e non sempre chiaramente riferibile ad una infezione fungina, ritarda spesso l’inizio del trattamento ed aumenta la morbilità, i tempi di degenza, ed il rischio di gravi sequele neurosensoriali e neurocomportamentali. Queste infezioni hanno costituito un problema emergente, che è stato ridimensionato notevolmen-te grazie anche alle nuove strategie preventive basate sull’uso del fluconazolo e, più recentemente, della lattoferrina.L’infettivologia neonatale rappresenta attualmente uno dei campi di ricerca più attivi con numerosi risultati che tutti meriterebbero di essere menzionati; pertanto l’obiettivo che ci siamo prefissi è quello di fornire ai colleghi un quadro, anche se parziale, di quelle novità che hanno, a nostro avviso, più caratterizzato il progresso fatto nel campo dell’infettivologia neonatale negli ultimi anni.

Mauro StronatiNeonatologia e Terapia Intensiva Neonatale

Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia

Infettivologia neonatale

Gennaio-Marzo 2013 • Vol. 43 • N. 169 • pp. 25-30 InfettIvologIa neonatale

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IntroduzioneLe infezioni gravi sono una delle principali cause di mortalità e mor-bilità in epoca neonatale e sono responsabili di oltre un milione di decessi ogni anno nel mondo (Lawn et al., 2005). Sia il feto che il ne-onato possono essere esposti ad eventi infettivi e la sintomatologia associata può esprimersi già in epoca feto-neonatale o manifestarsi tardivamente con sequele spesso gravi ed invalidanti. Assume pertanto sempre più importanza la ricerca di strategie che possano limitare le gravi conseguenze delle patologie infettive.

Obiettivo della revisioneNella presente revisione prenderemo in esame alcune novità sulle infezioni fetali e neonatali. In particolare, verranno trattate:• la prevenzione delle recidive dell’infezione neonatale da herpes

simplex virus (HSV) e la diagnosi e il trattamento dell’infezione congenita da citomegalovirus (CMV);

• le nuove strategie preventive delle infezioni nosocomiali. Saranno oggetto di trattazione a parte, in due articoli pubblicati nella presente sezione di “novità in infettivologia neonatale”, le strategie diagnostiche delle infezioni sistemiche neonatali e le strategie pre-ventive e terapeutiche delle infezioni fungine in neonatologia.

Metodologia della ricerca bibliografica effettuataI lavori a cui faremo riferimento derivano da una ricerca condotta sulla banca bibliografica Medline, utilizzando come motore di ricerca PubMed con le seguenti stringhe: (herpes simplex [MeSH Term] AND (“infant, newborn”[MeSH Terms]); (cytomegalovirus [MeSH Term] AND (“infant, newborn”[MeSH Terms] AND (congenital infection [Text Word]); (Sepsis [MeSH Term] AND (“infant, newborn”[MeSH Terms]); (antibiotic [Text Word] AND (“infant, newborn”[MeSH Terms]); (“catheters”[MeSH Terms] AND (“infection”[MeSH Terms] AND (“infant, newborn”[MeSH Terms]).

Infezione neonatale da herpes simplex virus (hSV): novità L’infezione neonatale da HSV viene trasmessa nella maggior parte dei casi durante il parto. Clinicamente si può presentare come infe-zione a livello di cute, occhi, bocca (skin, eyes, mouth – SEM – dise-ase) o come encefalite o come infezione disseminata, caratterizzata o meno da coinvolgimento del sistema nervoso centrale. Dal 2001 la terapia di scelta è costituita da aciclovir e.v. ad alte dosi (60 mg/kg/die in 3 somministrazioni per 21 giorni, o per 14 gior-ni in caso di SEM disease). Tale terapia ha ridotto la mortalità e la morbilità della patologia, anche se le ricorrenze dell’infezione sono

attualità e novità in infettivologia neonatale

Mauro Stronati, Alessandro Borghesi, Giuseppina Lombardi Neonatologia, Patologia Neonatale e Terapia Intensiva, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia

SommarioLe infezioni rappresentano una delle principali cause di mortalità e morbilità in epoca neonatale. Possono colpire sia il feto che il neonato e la sintomatologia associata può esprimersi già in epoca feto-neonatale o manifestarsi tardivamente con sequele spesso gravi ed invalidanti. Nella presente revisione prenderemo in esame alcune delle più recenti novità in tema di infezioni fetali e neonatali con particolare riferimento a: i) infezione neonatale da herpes simplex virus (HSV), ii) infezione congenita da citomegalovirus (CMV), e iii) infezioni nosocomiali. Le novità per l’infezione da HSV riguardano soprattutto la possibilità di prevenire le recidive, dopo il trattamento della fase acuta, prolungando la terapia antivirale per ulteriori 6 mesi. Le novità per l’infezione da CMV riguardano sia la diagnostica (utilizzo di polymerase chain reaction per isolare il DNA virale da urine e saliva) che la prevenzione/terapia (prevenzione della trasmissione materno-fetale con immunoglobuline specifiche anti-CMV; terapia del neonato sintomatico con valganciclovir). Le novità in ambito di prevenzione delle infezioni nosocomiali sono: i) l’evidenza che un uso giudizioso degli antibiotici riduce i gravi effetti avversi legati ad un loro utilizzo inappropriato; ii) possibilità future di ridurre le infezioni correlate all’uso dei cateteri venosi centrali mediante lo sviluppo di nuovi biomateriali; iii) nuove evidenze sulle immunoglobuline e.v. per il trattamento o la prevenzione delle infezioni neonatali (IgG polivalenti o Ig specifiche anti-stafilococco).

SummaryInfections are one of the main causes of neonatal mortality and morbidity. They may affect both the fetus and the neonate, and signs may be apparent early in life, or appear as severe sequelae later on. In the present review we will consider some of the most novel evidences on fetal and neonatal infections, with focus on: i) neonatal herpes simplex virus (HSV) infection, ii) congenital cytomegalovirus (CMV) infection, and iii) nosocomial infections. New findings for HSV infection support a longer treatment with acyclovir (for six months, following the conventional 14/21-days-course treatment with acyclovir for the acute phase of infection), in order to reduce relapsing infection of the skin and central nervous system and improve neurocognitive outcome. New findings on con-genital CMV infection concern diagnosis (identification, by polymerase chain reaction, of viral DNA in urine and saliva) and treatment (prevention of mother-to-child transmission of infection with specific anti-CMV immunoglobulins; treatment of the symptomatic newborn infant with valgancyclovir). New studies on nosocomial infections report: i) the evidence that the judicious use of antibiotics reduces the severe side effects of inappropriate antibiotic treatment; ii) the future possibility of preventing central venous catheter infections with the use of newly developed biomaterials; iii) new evidences on intravenous immunoglobulins for the prevention or treatment of neonatal infections (polyvalent IgG immunoglobulins, or anti-staphylococcal specific immunoglobulins).

M. Stronati, A. Borghesi, G. Lombardi

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frequenti, soprattutto nel 1° anno di vita e le sequele neurologiche rimangono gravi.Nell’ipotesi che le recidive dell’infezione possano peggiorare la pro-gnosi Kimberlin et al. (2011) hanno effettuato uno studio nel quale, al termine della terapia della fase acuta con aciclovir e.v., i pazienti venivano assegnati ad un trattamento (con l’obiettivo di prevenire le recidive) con aciclovir per os alla dose di 300 mg/m2 per 3 volte al giorno per 6 mesi o a placebo. I pazienti con infezione neonatale e coinvolgimento del sistema nervoso centrale sottoposti al trat-tamento prolungato con aciclovir presentavano, a 6 e 12 mesi, un miglior sviluppo neurocognitivo ed i bambini con SEM disease pre-sentavano una riduzione delle ricorrenze cutanee rispetto al gruppo placebo. Tali risultati supportano l’utilizzo di una terapia prolungata con aciclovir, mentre è ancora oggetto di discussione se la durata debba essere di 6 mesi o di almeno 1 anno (Bargiela et al., 2012).Recentemente sono state pubblicate le linee guida per la gestione del nato asintomatico da madre con herpes genitale e lesioni attive al mo-mento del parto. Il rischio di trasmissione verticale dell’HSV è correlato al tipo di infezione genitale della madre (primaria, non primaria, ricor-rente): l’algoritmo proposto dagli autori valuta l’infezione materna, gli esami virologici e sierologici del neonato e propone, a seconda del rischio stimato, un approccio terapeutico, una terapia preventiva, o un atteggiamento di vigile attesa (Kimberlin et al., 2013).

Infezione congenita da citomegalovirus (CMV): novità

L’infezione congenita da CMV è la più frequente infezione conge-nita virale con una prevalenza pari allo 0,6-0,7% dei nati nei paesi industrializzati. I nati infetti sono nell’85-90% dei casi asintomatici alla nascita, e solo nel rimanente 10-15% dei casi si presentano sintomatici. Tutti, indipendentemente dalla sintomatologia alla na-scita, sono a rischio di sequele (circa il 20-30% di tutti i neonati con infezione congenita). Importanti novità sull’infezione congenita da CMV riguardano la dia-gnostica. In passato la diagnosi di infezione congenita da CMV si basava sull’identificazione nelle urine dell’antigene virale su colture di fibroblasti (shell vials). Tale metodica è sempre meno utilizzata ed è stata sostituita dall’identificazione di DNA virale mediante polyme-rase chain reaction per il CMV (PCR-CMV) in liquidi biologici (urine, saliva e sangue) (Kadambari et al., 2011). Le urine, in particolare, sono il materiale di scelta per la diagnosi di infe-zione congenita da CMV. Tuttavia la raccolta delle urine è spesso difficol-tosa, richiede tempo, e non è sempre agevole per la diagnosi di routine. Studi recenti hanno confermato che la PCR su saliva (che si ottiene rapidamente, può essere stoccata e trasportata con facilità in la-boratorio), sia liquida che secca, ha elevate sensibilità e specificità (Boppana et al., 2011), e potrà essere considerata in futuro la meto-dica più semplice e affidabile per la diagnosi di infezione congenita e per programmi di screening neonatale. Si dovrà comunque porre particolare attenzione al momento della raccolta della saliva, che dovrà essere lontano dalla poppata per la possibile contaminazione con latte materno infetto. L’indagine PCR-CMV su sangue (che può presentare una carica vira-le bassa) ha una sensibilità diagnostica inferiore con una specificità del 100%; pertanto la positività dell’esame è indicativa d’infezione congenita, mentre l’eventuale negatività dovrebbe essere verificata su urine o saliva in caso di fondato sospetto. Un’altra importante novità sull’infezione da CMV riguarda la terapia dei neonati infetti sintomatici.

In letteratura vi è un’ampia discussione sulle indicazioni alla terapia nel nato infetto sintomatico: vi è accordo sulla terapia nel sintoma-tico con coinvolgimento del sistema nervoso centrale (microcefa-lia, anomalie alla neuroimaging, corioretinite, sordità), ma anche nel sintomatico “in pericolo di vita”. Secondo alcuni autori si può prevedere una terapia in caso di malattia severa di alcuni apparati (epatite, gravi alterazioni della linea cellulare midollare, coliti, pol-moniti); secondo altri autori si può considerare la terapia in caso di infezione disseminata con petecchie o trombocitopenia o alta carica virale (Gandhi et al., 2010, Kadambari et al., 2011). La terapia prevede l’uso di ganciclovir, farmaco virostatico, iniziato entro il 1° mese di vita, alla dose di 12 mg/kg/die in 2 sommini-strazioni per via endovenosa per 6 settimane, che si è dimostrato capace di migliorare o stabilizzare il danno uditivo e migliorare l’ac-quisizione delle tappe neurologiche a test predefiniti a 6-12 mesi nei pazienti trattati rispetto ai non trattati (Kimberlin et al., 2003, Oliver et al., 2009). Il valganciclovir, pro-farmaco del ganciclovir, con elevata biodisponibilità (60%), dopo somministrazione per via orale al dosaggio di 16 mg/kg risulta paragonabile a una dose di ganci-clovir e.v. di 6 mg/kg (Kimberlin et al., 2008, Lombardi et al., 2009, Stronati et al., 2012). Data la maneggevolezza anche a domicilio del farmaco, è stato possibile proporre tempi più lunghi di terapia (6-12  mesi) nell’ipotesi che un prolungato controllo della replica-zione virale migliori l’outcome; il Collaborative Antiviral Study Group (CASG) ha in corso uno studio clinico controllato in doppio cieco di terapia con valganciclovir somministrato per 6  settimane versus 6 mesi (CASG112). Rimane aperta la questione dell’utilizzo di terapia antivirale dopo il primo mese di vita in caso di comparsa di sequele: in letteratura ci sono due segnalazioni di terapia effettuata in lattanti per la compar-sa di ipoacusia, con buoni risultati (Hilgendorff et al., 2009, Stronati et al., 2011). In attesa di un vaccino efficace, la prevenzione della trasmissione dell’infezione in gravidanza si è focalizzata sull’utilizzo di IgG ipe-rimmuni antiCMV nelle gravide con infezione primaria. Nigro et al. (2005), riportano che le IgG riducono il rischio di infezione congenita da 40% al 16%.Per verificare l’efficacia di questa pratica è stato effettuato uno stu-dio multicentrico in doppio cieco, farmaco versus placebo, di fase IIB (CHIP Trial). Le gravide con prima infezione da CMV ad un’età gestazionale compresa tra 5 e 26 settimane ricevevano IgG iperim-muni o placebo mensilmente fino a 36 settimane. La differenza di trasmissione nei due bracci di trattamento non risultava statistica-mente significativa, ma si evidenziava un trend di ridotta trasmis-sione dell’infezione nelle pazienti che avevano ricevuto il farmaco. Il dato dovrà essere verificato in un trial ulteriore di fase  III, che definirà meglio anche il ruolo protettivo degli anticorpi materni (in particolare quelli diretti contro gli antigeni proteici virali codificati dal gene UL128-131, fondamentali per l’infettività del virus) sulla trasmissione dell’infezione (Revello, 2012).

Prevenzione delle infezioni nosocomiali: novità Nelle unità di terapia intensiva neonatale (UTIN) le infezioni hanno un’in-cidenza compresa tra il 7 ed il 24,5% e complicano il ricovero prolun-gandone la durata, richiedendo cure intensive in fase acuta, causando sequele a lungo termine e comportando un importante incremento della spesa sanitaria (Borghesi et al., 2008). Le infezioni neonatali vengono definite “a insorgenza precoce” (early-onset) quando compaiono nelle prime 48-72 ore di vita e “a insorgenza tardiva (late-onset) quando la loro comparsa si manifesta oltre tale limite temporale.

Attualità e novità in infettivologia neonatale

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Negli ultimi anni gli sforzi di molti gruppi di ricerca si sono foca-lizzati sullo sviluppo di nuove strategie per ridurre ulteriormente l’incidenza di infezioni nelle UTIN. Tali misure di prevenzione in-cludono: • uso giudizioso degli antibiotici; • nuove tecnologie per la prevenzione delle infezioni associate a

catetere venoso centrale (CVC);• immunoprofilassi ed immunoterapia con immunoglobuline (spe-

cifiche e/o polivalenti);

Uso giudizioso degli antibiotici

Antibioticoterapia empirica prolungata: rischio di enterocolite necro-tizzante (NEC), mortalità ed altri outcome avversiGli antibiotici sono l’arma più efficace a nostra disposizione contro gli effetti, a volte devastanti, delle infezioni, ma la loro somministrazio-ne empirica prolungata o inappropriata può comportare la selezione di ceppi batterici resistenti e favorire l’insorgenza di infezioni fungine (Isaacs, 2006). Accanto a tali ben noti effetti indesiderati, recentissimi studi hanno riportato ulteriori effetti negativi ed inattesi, dimostrando come una durata prolungata dell’antibioticoterapia empirica aumenti il rischio di mortalità ed il rischio di sviluppare enterocolite necrotizzante (NEC) (Alexander et al., 2011, Cotten et al., 2009, Kuppala et al., 2011).Cotten et al. (2009), in uno studio retrospettivo condotto su 4039 ne-onati di peso estremamente basso, hanno dimostrato che l’utilizzo prolungato (≥ 5 giorni) dell’antibioticoterapia empirica (con emocol-tura negativa), si associa ad un aumentato rischio di mortalità o di outcome composito di mortalità e NEC; inoltre nel loro studio ogni giorno di trattamento empirico si associava ad un aumentato rischio del 16% circa di mortalità, del 7% circa di NEC, e del 4% circa di outcome composito di mortalità e NEC.Alexander et al. (2011) hanno dimostrato come, tra i neonati che sviluppano una sepsi, l’utilizzo dell’antibioticoterapia sia protettivo nei confronti della NEC (con una diminuzione del rischio di NEC con l’aumentare dei giorni di antibioticoterapia precedenti all’episodio di NEC); al contrario, tra i neonati che non avevano sviluppato una sepsi, un’antibioticoterapia empirica sembrava favorire l’insorgenza di NEC, con un rischio di NEC che aumentava con l’aumentare dei giorni di antibioticoterapia precedenti all’episodio di NEC. Gli autori dimostrano così come la terapia inappropriata, e non quella mirata alla sepsi, si associ ad un aumentato rischio di NEC.Infine, Kuppala et al. (2011) evidenziano, in uno studio retrospettivo di coorte su 365 neonati di peso molto basso alla nascita (VLBW), che la terapia antibiotica empirica (con emocoltura negativa) di du-rata ≥ 5 giorni si associava ad un rischio significativamente aumen-tato di sepsi late-onset (OR: 2,45, IC al 95% 1,28-4,67), o ad un ri-

schio aumentato di outcome avverso composito di sepsi late-onset, NEC o decesso (OR: 2,66, IC al 95% 1,12-6,3).

Rischio di antibioticoresistenza in UTINLe UTIN rappresentano un ambiente particolarmente in grado di fa-vorire la selezione e la trasmissione di ceppi batterici multi resistenti (Cipolla et al., 2011, Russell et al., 2012).Per quanto riguarda i Gram-positivi sono emerse resistenze ai gli-copeptidi da parte di Stafilococchi coagulasi negativi, Stafilococchi meticillino-resistenti ed Enterococchi; tuttavia la maggior parte dei ceppi di patogeni Gram-positivi che causano infezione nelle UTIN sono sensibili alla vancomicina; inoltre, nuovi farmaci (linezolid, daptomicina) sono già in commercio. Tra i batteri Gram-negativi fenomeni di multi-resistenza (definita come resistenza ad almeno tre antibiotici a cui il battere è normal-mente sensibile) sono segnalati tra le Enterobacteriacee, dovuti a ceppi produttori di β-lattamasi (extended-spectrum β-lactamase) che conferiscono resistenza alle cefalosporine e a ceppi produttori di carbapenemasi, che conferiscono resistenza ai carbapenemici. Sono segnalati inoltre fenomeni di multi-resistenza anche in batteri come Acinetobacter spp. e Pseudomonas aeruginosa. Lo sviluppo di nuovi antibiotici ci rassicura nei confronti delle infezioni sostenute da Gram-positivi, ma il margine di sicurezza si assottiglia nei confronti dei Gram-negativi per il limitato sviluppo di nuovi farmaci.

Strategie per promuovere l’utilizzo giudizioso degli antibioticiMuller-Pebody et al. (2010) hanno condotto uno studio osservazionale su scala nazionale (Inghilterra e Galles) volto a determinare se i pato-geni responsabili di batteriemia in epoca neonatale siano sensibili ai regimi di terapia antibiotica raccomandati. Più del 94% dei patogeni isolati in corso di sepsi early-onset erano sensibili alla penicillina in associazione a gentamicina o amoxicillina, amoxicillina associata a cefotaxime, o cefotaxime in monoterapia; inoltre più del 95% dei pato-geni isolati in corso di sepsi late-onset erano suscettibili alla gentami-cina in associazione a flucloxacillina o amoxicillina, o ad amoxicillina associata a cefotaxime, ma solo il 79% erano suscettibili alla monote-rapia con cefotaxime. Gli autori concludono che le attuali linee guida per il trattamento empirico della sepsi nei neonati sono appropriate e che terapie antibiotiche basate sulla gentamicina dovrebbero essere preferite rispetto a quelle basate sul cefotaxime (a causa della minor suscettibilità dei patogeni isolati e al fine di ridurre la pressione di selezione sulle resistenze) (Muller-Pebody et al., 2010).Le good practices dell’uso dell’antibioticoterapia sono state ben discusse in passato da Isaacs (2006), che suggerisce dieci punti da osservare per ridurre l’antibiotico-resistenza nelle UTIN (Tab. I); l’istituzione di una antibiotic stewardship (che potremmo definire

Tabella I. Dieci regole per ridurre l’antibioticoresistenza.

1. Eseguire sempre esami colturali (sangue, liquor, ecc.) prima di iniziare una terapia antibiotica2. Usare sempre antibiotici a spettro più ristretto possibile (penicillina + aminoglicoside)3. Come regola generale non iniziare terapie empiriche con una cefalosporina di terza generazione o un carbapenemico4. Mettere in atto strategie mirate a ridurre l’uso di antibiotici ad ampio spettro5. Avere fiducia nei risultati degli esami colturali del proprio laboratorio6. Test aspecifici, come l’aumento della PCR, non danno la certezza che il neonato sia affetto da sepsi7. Se le colture sono negative dopo 2 o 3 giorni, è generalmente opportuno e sicuro sospendere gli antibiotici8. Evitare di utilizzare antibiotici per lunghi periodi9. Trattare la sepsi, non la colonizzazione10. Fare tutto il possibile per prevenire le infezioni nosocomiali, migliorare le strategie di prevenzione, in modo particolare l’igiene delle mani

Modificato da Isaacs, Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed 2006.

M. Stronati, A. Borghesi, G. Lombardi

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come “gestione coordinata” dell’uso degli antibiotici) nelle UTIN può ulteriormente rafforzare l’implementazione di tali misure (Tab.  II) (Russell et al., 2012). Un punto centrale rimane sempre la sospensione della antibioticote-rapia empirica non necessaria. È prudente e doveroso limitare la du-rata dell’antibioticoterapia empirica a meno di tre giorni, in pazienti asintomatici e con esami colturali negativi.Ulteriori indicazioni sulle terapie empiriche di prima scelta suggerite per le sepsi neonatali – early - e late-onset – sono riportate in ta-bella III. Di particolare importanza infine è la gestione delle infezioni da microrganismi resistenti, per le quali un suggerimento di indi-cazione, che andrebbe comunque valutato per ogni singolo caso, è riportato in tabella III (Gray et al., 2011).

Prevenzione delle infezioni correlate al catetere venoso centrale (CVC)

I CVC costituiscono un presidio essenziale nella gestione del neo-nato critico, ma nello stesso tempo sono un fattore importante di rischio infettivologico. L’utilizzo dell’eparina “legata” al CVC o nelle infusioni di nutrizione parenterale è stato preso in considerazione come possibile stru-mento per la prevenzione delle infezioni dovute all’uso dei CVC. In

uno studio randomizzato controllato condotto da Pierce et al. (2000), l’utilizzo in UTIN di cateteri impregnati con eparina ha significati-vamente ridotto l’incidenza di infezioni (4% vs 33%; P<0,0005). In un successivo studio condotto da Birch et al. (2010), randomizzato, controllato e condotto in un singolo centro (Heparin in Long Line To-tal Parenteral Nutrition (HILLTOP) trial), l’uso dell’eparina a 0,5 UI/ml nella soluzione di nutrizione parenterale ha portato ad una riduzione statisticamente significativa dell’incidenza di sepsi CVC-correlate (P=0,04; RR 0,57, 95% IC 0,32-0,98). Studi su una più ampia ca-sistica di pazienti, possibilmente multicentrici, sono necessari per confermare tali dati. Al fine di ridurre le complicanze legate all’uso di CVC senza dover utilizzare farmaci attivi come l’eparina, Smith et al. (2012) hanno modificato la composizione di un CVC con la sulfobetaina polime-rica (polySB), che coordina le molecole d’acqua sulla superficie del catetere. Rispetto a quanto avviene nei CVC in commercio, la superficie modificata ha significativamente ridotto, in vitro ed in vivo, l’adesione di proteine e la formazione di trombi, l’adesione e l’attivazione di cellule (piastrine, monociti, neutrofili), e l’adesio-ne sia sulla superficie interna che su quella esterna di un ampio spettro di microrganismi (C. albicans, S. aureus, E. coli) (Smith et al., 2012).

Tabella II.Misure da prendere per la messa in atto di una antibiotic stewardship.

1. Istituire un sistema di sorveglianza delle sepsi microbiologicamente accertate sia a livello locale che in rete con altri centri2. Spirito di collaborazione tra neonatologi, microbiologi e farmacisti3. Utilizzare antibiotici a più ristretto spettro possibile nella terapia empirica4. Sospendere gli antibiotici quando l’emocoltura è negativa5. Continuare la terapia empirica nei casi sospetti con emocoltura negativa solo dopo una documentata giustificazione6. L’antibioticoterapia deve essere proseguita per il tempo previsto per quella specifica infezione; ogni ulteriore prolungamento deve essere una nuova

prescrizione7. Utilizzare antibiotici a più ristretto spettro possibile nelle infezioni microbiologicamente accertate8. Identificare dei medici che valutino l’uso corretto degli antibiotici

Modificato da Russell et al., Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed 2012.

Tabella III. Antibiotici di scelta nelle infezioni neonatali.

Tipo di infezione Scelta di antibiotici

Sepsi precoce Prima scelta: penicillina + gentamicina • se L. monocytogenes: amoxicillina + gentamicina • se S. aureus: oxacillina + gentamicina

Sepsi tardiva Prima scelta: oxacillina + gentamicina Seconda scelta: • vancomicina + gentamicina • vancomicina + piperacillina/tazobactam Terza scelta: Meropenem, ciprofloxacina

Meningite Prima scelta: cefotaxime + amoxicillina ± gentamicina Seconda scelta: meropenem

Patogeni Gram + multiresistenti • Attualmente: glicopeptidi rimangono gli antibiotici di scelta, in particolare la vancomicina; in caso di necessità linezolid, clindamicina, rifampicina e daptomicina possono essere delle alternative

• In futuro: nuove cefalosporine sono il ceftaroline e il ceftobiprole; nuovi lipoglicopeptidi sono l’oritavacin e il dalbavancin; il telavancin approvato negli USA per l’adulto

Patogeni Gram - multiresistenti • Attualmente: aminoglicosidi e cefalosporine sono gli antibiotici di scelta; carbapenemici, colistina, co-trimoxazolo e ticarcillina-acido clavulanico possono essere delle alternative; fluorochinolonici, ciprofloxacina, tigeciclina e tetracicline possono essere presi in considerazione in casi estremi

• In futuro: nei prossimi anni le possibilità terapeutiche saranno molto limitate

Modificato da: Russell et al., Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed 2012; e Gray, Arch Dis Child Educ Pract 2011.

Attualità e novità in infettivologia neonatale

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Immunoprofilassi ed immunoterapia con immunoglobuline

Immunoglobuline e.v. polivalentiL’utilizzo delle immunoglobuline (Ig) polivalenti come tratta-mento “aggiuntivo” per la sepsi neonatale sospetta o accertata microbiologicamente è stato ampiamente studiato in passato. Una meta-analisi Cochrane del 2010 sull’utilizzo delle Ig per via endovenosa (e.v.) sottolineava come non fosse possibile, sulla base degli studi disponibili in letteratura, trarre conclusioni per supportare la somministrazione di routine di Ig e.v. per preveni-re la mortalità in neonati con sepsi sospetta o successivamente accertata microbiologicamente, e sottolineava come i risultati di un trial clinico allora in corso (International Neonatal Immuno-therapy Study – INIS trial) avrebbero potuto stabilire l’utilità delle Ig e.v.I risultati dell’INIS trial, randomizzato, condotto in 113 ospedali di 9 paesi su 3493 neonati che ricevevano antibiotici per sepsi sospet-ta o accertata sono stati pubblicati nel 2011. I neonati sono stati assegnati a ricevere 2 infusioni di immunoglobuline IgG polivalenti (500 mg/kg) o placebo. Non vi sono state differenze significative tra i due gruppi per l’outcome primario (decesso o disabilità maggiore a due anni) né per gli outcome secondari (incidenza di successivi episodi di sepsi, frequenza di disabilità maggiori o minori a 2 anni, o eventi avversi). Gli autori concludono che la terapia con Ig e.v. non ha avuto, nel loro trial, effetto sugli outcome della sepsi sospetta o accertata (Brocklehurst et al., 2011).

Immunoglobuline specifiche anti-stafilococcoPoiché nei neonati VLBW gli stafilococchi, soprattutto quelli coagu-lasi negativi (CONS), sono responsabili di oltre la metà delle sepsi

tardive, alcuni trial clinici hanno valutato l’efficacia e la sicurez-za dell’utilizzo a scopo preventivo di immunoglobuline specifiche anti-stafilococco (anticorpi policlonali iperimmuni o monoclonali). Gli anticorpi policlonali iperimmuni antistafilococco comprendono: INH-A21 ed Altastaph. Una revisione sistematica sull’uso di anticor-pi antistafilococco non ha mostrato differenze in termini di sepsi, mortalità o altri eventi avversi relativa all’uso del INH-A21 vs pla-cebo (N=2488) (RR 1,07 (95% IC, 0,94 a 1,22) e di Altastaph vs placebo (N=206) (RR 0,86 (95% IC, 0,32-2,28). Pertanto non sono raccomandati nella prevenzione della sepsi stafilococcica (Shah et al., 2009). Allo stesso modo, anche anticorpi monoclonali antistafilococco quali il tefimazumab non si sono dimostrati efficaci (Weems et al., 2006), mentre una iniziale evidenza potrebbe supportare futuri studi sull’u-so del pagibaximab per la prevenzione della sepsi stafilococcica nei neonati pretermine (Weisman et al., 2011); tuttavia dati preliminari da uno studio di efficacia, randomizzato, controllato, multicentrico, suggeriscono che il pagibaximab non riduca significativamente le sepsi stafilococciche.

Note conclusive

Nonostante l’avanzamento nelle cure neonatali, le infezioni feto-neonatali continuano a rappresentare una delle principali cause di morbilità neonatale, con sequele che possono protrarsi fino all’età adulta. Le recenti acquisizioni della letteratura ci sottolineano da un lato l’importanza di sviluppare nuovi strumenti e nuove tec-nologie per diagnosticare, prevenire, e curare i neonati affetti da infezioni, e dall’altro la necessità di utilizzare in maniera giudiziosa e sostenibile le risorse attualmente a disposizione.

Infezione neonatale da herpes simplex virus (HSV)Il trattamento convenzionale dell’infezione neonatale da HSV prevede la somministrazione di aciclovir e.v. ad alte dosi (60 mg/kg/die in 3 somministrazioni) per 21 giorni (14 giorni in caso di SEM disease); un nuovo studio suggerisce che la prosecuzione per os del trattamento antivirale per 6 mesi alla dose di 300 mg/m2 per 3 volte al giorno possa prevenire le recidive dell’infezione e migliorare l’outcome neurologico nei neonati che avevano presentato un coinvolgimento del sistema nervoso centrale.

Infezione congenita da citomegalovirus (CMV)Diagnosi: i) l’isolamento del DNA virale mediante polymerase chain reaction (PCR) è la metodica di scelta per la diagnosi di infezione congenita da CMV, da preferire all’isolamento virale mediante la metodica classica shell vials; ii) il gold standard per la diagnosi di infezione congenita da CMV è l’isolamento del DNA virale mediante PCR su un campione di urine; iii) la diagnosi può altresì essere effettuata su un campione di saliva, che mostra altrettanta sensibilità e specificità dell’isolamento dalle urine.Terapia: i) il trattamento antivirale classico dell’infezione congenita da CMV si basa sul ganciclovir e.v.. Il valganciclovir, che viene idrolizzato a ganciclovir a livello intestinale, è più maneggevole, si somministra per os, presenta un’elevata biodisponibilità e può essere utilizzato anche a domicilio; rappresenta pertanto una valida alternativa nel trattamento dei neonati sintomatici, ed è in fase di studio un suo utilizzo prolungato (6 mesi invece di 6 settimane) nell’i-potesi che protraendo la terapia si possa controllare meglio la replicazione virale e migliorare l’outcome; ii) la prevenzione della trasmissione materno-fetale dell’infezione da CMV con immunoglobuline specifiche somministrate alla gravida è stata valutata in passato in un piccolo trial clinico ed è attualmente oggetto di uno studio di fase II B (CHIP Trial) i cui risultati sono in fase di pubblicazione.

Infezioni nosocomialiAntibiotici. In passato era noto che l’uso inappropriato degli antibiotici può facilitare l’insorgenza di infezioni fungine e di resistenze batteriche. Recenti stu-di dimostrano un’associazione tra antibioticoterapia empirica prolungata ed enterocolite necrotizzante (NEC), sepsi late-onset (LOS) e mortalità in neonati ricoverati in terapia intensiva neonatale (UTIN). L’utilizzo degli antibiotici in UTIN va limitato a 48-72 ore di terapia empirica. Dopo tale limite temporale gli antibiotici devono essere sospesi se le colture sono negative. Cateteri venosi centrali (CVC). Non vi è attualmente indicazione certa all’utilizzo di CVC impregnati con sostanze attive (eparina, antibiotici) o alla sommini-strazione di tali farmaci nelle soluzioni parenterali per la prevenzione delle infezioni correlate all’uso di CVC. In un prossimo futuro lo sviluppo di biomateriali con ridotta capacità di legare proteine, cellule umane e microrganismi potrà ridurre l’incidenza delle complicanze infettive legate all’uso dei CVC. Immunoglobuline (Ig) l’utilità della somministrazione di lg e. v. polivalenti per il trattamento della sepsi sospetta o accertata in epoca neonatale è sempre stata oggetto di pareri non unanimi, supportati da studi con risultati controversi. Un recente studio randomizzato multicentrico (INIS trial) sembra chiarire definitivamente che le lg e.v. polivalenti non hanno effetto sulle sequele della sepsi ed in particolare sulla mortalità e sull’outcome neurocognitivo a 2 anni di età. L’utilizzo di diverse classi di immunoglobuline specifiche anti-stafilococco, valutato in diversi trial clinici, non si è mostrato efficace nel ridurre le sepsi stafilococciche in terapia intensiva neonatale; è ancora in fase di valutazione l’utilità di un anticorpo monoclonale (pagibaximab), anche se dati preliminari da uno studio di efficacia suggeriscono che non riduca significativamente le sepsi stafilococciche.

Box di orientamento

M. Stronati, A. Borghesi, G. Lombardi

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** Prima dimostrazione che la saliva è un liquido biologico in cui la ricerca del CMV può essere altrettanto accurata che sulle urine.

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** Revisione completa e accurata della gestione delle infezioni da batteri mul-tiresistenti in UTIN.

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** Studio che si può già considerare una pietra miliare nella promozione dell’uso giudizioso degli antibiotici.

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* Studio che suggerisce come una terapia antivirale con aciclovir di 6 mesi possa ridurre le recidive, ed in particolare quelle al sistema nervoso centrale, miglio-rando l’outcome.

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** Revisione sistematica sull’utilità delle immunoglobuline antistafilococciche per la prevenzione della sepsi stafilococcica in UTIN.

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* Possibili applicazioni future dello sviluppo di nuovi biomateriali a bassa capaci-tà adesiva di proteine, cellule e batteri per i cateteri venosi centrali.

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Mauro Stronati, Neonatologia, Patologia Neonatale e Terapia Intensiva, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Piazzale Golgi 19, 27100 Pavia. Tel. +39-0382-502085. Fax. +39-0382-502802. Email: [email protected].

Corrispondenza

Gennaio-Marzo 2013 • Vol. 43 • N. 169 • pp. 31-35 InfettIvologIa neonatale

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Metodologia della ricerca bibliografica effettuataI lavori a cui faremo riferimento derivano da una ricerca condotta sulla banca bibliografica Medline, utilizzando come motore di ri-cerca PubMed con le seguenti stringhe: (“infection”[MeSH Terms] AND “infant, newborn”[MeSH Terms]); (sepsis [MeSH Term] AND “infant, newborn”[MeSH Terms]); (“diagnosis”[MeSH Terms] AND “infection”[MeSH Terms] AND (“infant, newborn”[MeSH Terms]); (“genomics”[MeSH Terms] AND “infection”[MeSH Terms] AND “in-fant, newborn”[MeSH Terms]); (“biologic marker”[MeSH Terms] AND “infection”[MeSH Terms] AND “infant, newborn”[MeSH Terms]);

IntroduzioneL’elevata incidenza e la gravità delle infezioni sistemiche neonatali, nonostante i continui progressi nell’assistenza neonatale e la dispo-nibilità di nuovi antibiotici, sono da attribuire all’influenza reciproca di più fattori, quali l’immaturità dei meccanismi di difesa immunitari, particolarmente compromessi nel pretermine (Wynn et al., 2010), e la complessa interazione tra il patogeno infettante e l’ospite (Chirico et al., 2007, Chirico et al., 2005). La sepsi, infatti, rappresenta una condizione clinica innescata dai microrganismi infettanti e indotta dai mediatori della flogosi, che provocano l’alterazione dell’equilibrio immunitario, infiammatorio e coagulativo. Lo sviluppo della malattia e dei sintomi clinici dipende da un complesso e delicato equilibrio tra fattori proinfiammatori ed antiinfiammatori. Le citochine infiam-

matorie (TNF-a, IL-1b, IL-6, IL-8, IL-15, IL-18, MIF) ed i fattori di crescita (IL-3, CSFs), così come i loro mediatori secondari, compre-so l’ossido nitrico, i trombossani, i leucotrieni, il fattore attivante le piastrine, le prostaglandine e il complemento, causano l’attivazio-ne della cascata coagulativa, del complemento, e la produzione di prostaglandine, leucotrieni, proteasi ed ossidanti. La maggior parte delle complicanze a breve termine (dalla sindrome da risposta in-fiammatoria sistemica –SIRS alla coagulazione intravascolare dis-seminata - DIC, allo shock settico ed alla multiple organ dysfunction syndrome - MODS), e a lungo termine (a carico dell’apparato respi-ratorio e le sequele sulla crescita e neurologiche) sono strettamente associate agli effetti di questi mediatori, non controbilanciati da una adeguata sintesi di citochine antiinfiammatorie come TNFsr, IL-1ra, IL-1rII, IL-10, TGF-b2 (Russel, 2006). L’evoluzione del quadro clinico può di conseguenza essere parti-colarmente tumultuoso, e l’efficacia del trattamento delle infezioni neonatali è strettamente legata alla tempestività dell’intervento. Ri-sulta pertanto necessario poter disporre di mezzi diagnostici rapidi oltre che accurati (Mishra et al., 2006).

Caratteristiche dei test diagnosticiRicordiamo le principali caratteristiche dei test diagnostici:Sensibilità: la percentuale di test positivi nei pazienti con infezione (Test Positivo / Diagnosi Positiva);

Strategie diagnostiche delle infezioni sistemiche neonatali

Gaetano Chirico, Fabio Russo, Cristina LodaNeonatologia e Terapia Intensiva Neonatale, Spedali Civili, Brescia

SommarioL’efficacia del trattamento delle infezioni neonatali è strettamente legata alla tempestività dell’intervento. Risulta pertanto necessario poter disporre di mezzi diagnostici rapidi oltre che accurati. Gli indici ad elevata (~100%) sensibilità e valore predittivo negativo sono da preferire per la diagnosi d’infezione neonatale. Se l’infezione è presente il risultato dovrebbe essere sempre positivo; se l’esito è negativo, l’infezione dovrebbe essere sempre assente. Spe-cificità e valore predittivo positivo ridotti sono accettabili nel senso che è da preferire l’eccesso di trattamento sulla base di un falso positivo al mancato trattamento provocato da un falso negativo. La revisione prenderà in considerazione le caratteristiche delle principali metodiche utilizzate per la diagnosi di infezione sistemica neonatale, con partico-lare riferimento a indagini microbiologiche ed esami colturali per l’isolamento del patogeno dai campioni biologici, indagini ematologiche, indici di flogosi, proteine della fase acuta, dosaggio delle citochine o dei loro recettori, diagnosi molecolare (es. Polymerase chain reaction, Real-time PCR), tecnologie “-omics” e polimorfismi genetici, pannelli di screening, che prevedono la valutazione contemporanea di diversi indici d’infezione.

SummaryAn early diagnosis of infection is the necessary condition to develop a specific effective treatment for a successful outcome. Diagnostic tests with maximal (100%) sensitivity and negative predictive value are desirable for diagnosis of neonatal sepsis. In other words, if infection is present, the result would always be abnormal; if the result is normal, infection would always be absent. The reduced specificity and positive predictive value are usually acceptable because over treatment with antibiotics on the basis of a false-positive result is likely to be of limited harm compared with withholding therapy on the basis of a false-negative result.In the present review we will discuss about the most frequently used laboratory investigations able to identify septic neonates, with particular regard to the isolation of microorganisms from biologic fluids, haematological investigations, levels of acute-phase reactants and cytokines. In addition to the standard procedures the science of metabolomics, proteomics and genomics is being applied to the search for biomarkers, production of protein profiles and genetic polymorphisms that may possibly help the prediction, early diagnosis, and treatment of neonatal infections.

G. Chirico, F. Russo, C. Loda

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Specificità: la percentuale di test negativi nei pazienti senza infezio-ne (Test Negativo / Diagnosi Negativa);Valore predittivo positivo: la percentuale di diagnosi d’infezione confermata nei soggetti con test positivo (Diagnosi Positiva / Test Positivo);Valore predittivo negativo: la percentuale di diagnosi d’infezione non confermata nei soggetti con test negativo (Diagnosi Negativa / Test Negativo);Accuratezza: valutata mediante le “curve ROC” (Receiver Operating Characteristic) che combinano graficamente la sensibilità con l’in-verso della specificità, variando la soglia del test diagnostico. L’area sotto la curva ROC rappresenta la misura dell’accuratezza, che ri-sulta tanto maggiore quanto più da vicino la curva segue i margini sinistro e superiore.

Gli indici ad elevata sensibilità (prossima al 100%) e valore predittivo negativo sono da preferire per la diagnosi d’infezione neonatale. Se l’infezione è presente il risultato dovrebbe essere sempre positivo; se l’esito è negativo, l’infezione dovrebbe essere sempre assente. Specificità e valore predittivo positivo ridotti sono accettabili nel senso che è da preferire l’eccesso di trattamento sulla base di un falso positivo al mancato trattamento provocato da un falso nega-tivo. È comunque da ricercare il perfezionamento delle indagini diagno-stiche, data l’importanza di ridurre l’esposizione dei neonati sani a terapie inutili, e di contenere i costi ed il rischio di selezione di pato-geni resistenti (Weinberg et al., 2006).

Indagini microbiologiche

L’isolamento del patogeno dai campioni biologici, quali sangue, li-quor o urine, consente la diagnosi definitiva e la terapia antibiotica mirata; tuttavia i tempi richiesti per l’esame colturale sono lunghi ed inoltre un trattamento antibiotico concomitante, o il ridotto volume del campione, oppure la bassa carica batterica tendono a ridurre significativamente la sensibilità. Il tempo medio richiesto per la posi-tivizzazione è di circa 22 ore e risulta più breve per i Gram-negativi. Se l’emocoltura è negativa dopo 48  ore si può ragionevolmente escludere una sepsi da Gram-negativi, o da Gram-positivi dopo 72 ore (Guerti et al., 2011).

Indagini ematologiche

I test di laboratorio indiretti rimangono comunque i mezzi maggior-mente utilizzati per la diagnosi ed il trattamento delle infezioni neo-natali (Benitz, 2010) (Tab. I). Le indagini ematologiche, quali conta leucocitaria totale, morfologia leucocitaria, conta leucocitaria differenziale, conta dei neutrofili totali (neutrofilia o neutropenia), conta dei neutrofili non segmentati, forme immature (rapporto I:M o I:T), conta delle piastrine, presentano ampi intervalli di sensibilità (dal 17 al 90%) e specificità (dal 31 al 100%), a causa dei tempi relativamente prolungati necessari per la loro atti-vazione (Newman et al., 2010) e della possibile interferenza di fattori aspecifici. Tuttavia l’aumento del rapporto tra neutrofili immaturi e to-tali (I/T > 0,2) è l’indice con più elevata sensibilità e valore predittivo negativo, anche se la sua valutazione è operatore-dipendente.Molto promettente appare la tecnologia basata sulla capacità di va-lutare le caratteristiche fisiche (volume, conduttività, e scatter: VCS) delle sottopopolazioni dei neutrofili applicata al normale emocromo. (Raimondi et al., 2010, Celik et al., 2012).

Proteine della fase acuta

Proteina C reattiva (CRP)

Nell’ambito dello studio delle proteine della fase acuta, l’indice mag-giormente studiato è la proteina C reattiva (CRP). È una globulina che forma un precipitato combinandosi col polisaccaride C dello Strepto-coccus pneumoniae. Viene sintetizzata 6-8 ore dopo lo stimolo, con picco a 24 ore, ed emivita di 19 ore. La valutazione quantitativa, anche mediante test rapidi, della CRP pre-senta una buona specificità; la sensibilità, tuttavia, rimane bassa nelle prime 12-24 ore dall’insorgenza dell’infezione. Le determinazioni seria-te della CRP aumentano l’accuratezza diagnostica e consentono di valu-tare la risposta al trattamento. Due controlli negativi a distanza di 24 ore della CRP raggiungono un valore predittivo negativo del 99%. Nonostan-te la bassa sensibilità precoce, la CRP rimane tra i marker d’infezione meglio conosciuti e maggiormente utilizzati nelle TIN (Hofer et al., 2012).

Procalcitonina

La procalcitonina (PCT), un propeptide della calcitonina, viene rila-sciata 3-6 ore dopo stimolo endotossinico, il picco si ha dopo 8-24 ore, e l’emivita è di 25-30 ore; l’aumento non si correla con i livelli di calcitonina e si verifica anche nei pazienti tiroidectomizzati.Nel neonato con infezione batterica i livelli aumentano significati-vamente e la precoce riduzione indica l’efficacia del trattamento antibiotico, ma sono state riportate variazioni spontanee nei neonati sani, con un picco a 1-2 giorni di vita, seguito dal ritorno a valori normali (Mussap et al., 2007, Chiesa et al., 2011).Rispetto alla CRP, la procalcitonina presenta il vantaggio dell’incre-mento più precoce, tuttavia a causa delle significative variazioni dei

Tabella I. Indagini di laboratorio per la diagnosi di sepsi neonatale.

• Indagini microbiologiche: - Esami colturali (sangue, liquor, urine…)

• Indagini ematologiche ed indici di flogosi: - Conte leucocitarie, rapporto I:T, conta piastrinica - PCR, Procalcitonina, Amiloide sierico, Aptoglobina,

Lattoferrina, Neopterina, Inter-alpha-Inhibitor proteins (IaIps), Lipopolysaccharide-binding Protein (LBP), C5a, C5L2, Immunoglobuline …

- Citochine e recettori: IL-1b, IL4, IL5, L-6, IL-8, IL-10, IL2, IL-1ra, IL-2rs, TNF-a, IFN-g, G-CSF, CSF1, MIP1-a, sCD14, sCD14-ST, sIL2R, 11sTNFR-p55, 12sTNFR-p75, E-selectina, L-selectina, sICAM-1, VCAM-1, CD3, CD11b, CD11c, CD13, CD15, CD19, CD25, CD26, CD33, CD64, CD69, CD66b, CD71, CD45RO, HLA-DR, Triggering Receptor Expressed on Myeloid Cells-1

• Diagnosi molecolare: - Polymerase chain reaction (amplificazione del DNA batterico, es.

16S rDNA), real time PCR (SEPSI FAST 40 patogeni, MAGICPLEX 90 patogeni), NASBA, FISH, NAAT

- Tecnologie “-omiche” - Genomica - Farmacogenomica - Trascrittomica - Proteomica - Metabolomica

- Polimorfismi genetici

Strategie diagnostiche delle infezioni sistemiche neonatali

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livelli basali dopo la nascita, e della necessità di utilizzare diversi li-velli soglia, la procalcitonina va considerata una indagine aggiuntiva, piuttosto che sostitutiva della CRP in Neonatologia.

Siero Amiloide-A

Il Siero Amiloide-A (SAA), assieme a CRP e PCT, rappresenta un accurato indice per la diagnosi di enterocolite necrotizzante (NEC), in aggiunta al quadro clinico e radiologico. Livelli particolarmente elevati di SAA correlano con gli stadi più avanzati di NEC, e le misu-razioni seriate del marker consentono di seguire l’andamento della NEC (Cetinkaya et al., 2011).

Velocità di eritrosedimentazione (VES) e micro-VES

VES e micro-VES sono abbastanza specifiche, anche se possono es-sere influenzate da emolisi, iperbilirubinemia, coagulazione intravasale disseminata (CID), anemia, policitemia. I valori normali aumentano gra-dualmente nel corso delle prime due settimane dalla nascita, e posso-no essere calcolati aggiungendo 2 al giorno di vita del neonato. Tuttavia la sensibilità è bassa, perché l’aumento è ritardato ed è necessario un tempo molto lungo per la normalizzazione dopo la guarigione. Per que-sti motivi VES e micro-VES sono considerati di utilità limitata sia nella diagnosi sia nel monitoraggio dell’infezione nel neonato.

Citochine e recettoriRisulta comunque evidente come gli indici di flogosi tradizionali pre-sentino precisi limiti nella sensibilità (ritardo di diverse ore o giorni nella positivizzazione) e specificità, per la possibile interferenza di numerosi fattori aspecifici perinatali, come ipertensione materna, modalità del parto, asfissia, distress respiratorio, emorragia cere-brale, inalazione di meconio, pianto prolungato, malattia emolitica, intervento chirurgico, od età cronologica (Chirico et al., 2011). La cascata degli eventi innescati dall’infezione batterica inizia soli-tamente con l’attivazione dei macrofagi che rilasciano le citochine infiammatorie primarie, anche dette “citochine d’allarme” (TNF-a, IL-1b, IL-6), ed i fattori di crescita (IL-3, CSFs). Questi, a loro volta, attivano la reazione infiammatoria, con la sintesi delle proteine della fase acuta da parte del fegato e la stimolazione della proliferazione leucocitaria e l’attivazione dei neutrofili. L’incremento dei livelli sie-rici è, pertanto, molto più rapido rispetto a quello degli indici ema-tologici (Fig. 1).È stato pertanto proposto il dosaggio delle citochine o dei loro re-cettori: IL-1b, IL4, IL5, L-6, IL-8, IL-10, IL2, IL-1ra, IL-2rs, TNF-a, IFN-g, G-CSF, CSF1, MIP1-a, sCD14, sCD14-ST, sIL2R, 11sTNFR-p55, 12sTNFR-p75, E-selectina, L-selectina, sICAM-1, VCAM-1, CD3, CD11b, CD11c, CD13, CD15, CD19, CD25, CD26, CD33, CD64, CD69, CD66b, CD71, CD45RO, HLA-DR, Triggering Receptor Expres-sed on Myeloid Cells-1 (Romagnoli et al., 2001, Kafetsis et al., 2005, Ng et al., 2010, Mazzucchelli et al., 2013, Mussap et al., 2013).

lnterleuchina-6

Particolare interesse riveste il dosaggio di IL-6, una citochina pleio-tropica in grado di svolgere molte funzioni sul sistema immunitario. Può essere sintetizzata da monociti, cellule endoteliali e fibroblasti a seguito di stimolazione da parte di TNF e IL-1. È il maggior induttore epatico della sintesi dei mediatori della flogosi, come CRP e fibrino-geno. I livelli aumentano rapidamente in corso di sepsi, diverse ore prima della comparsa delle proteine della fase acuta, ed altrettan-to rapidamente, entro 24 ore, tornano a valori indosabili. La ridotta emivita dell’IL-6 è provocata dal legame alle proteine plasmatiche, come a

2-macroglobulina, rapida clearance epatica ed inibizione da

parte delle altre citochine. Presenta buona sensibilità e specificità per la diagnosi precoce d’infezione, anche uno-due giorni prima del-la comparsa dei sintomi (Kuster et al., 1998).La breve emivita rappresenta tuttavia un limite importante delle citochine, con possibilità di falsi negativi. Il problema può essere ovviato dall’associazione del dosaggio di IL-6 (o IL-8) e CRP (o PCT), che tendono a positivizzarsi a distanza di 12-48 ore dopo l’infezione, quando i livelli di IL-6 tendono invece a negativizzar-si; questo consentirebbe di ottenere elevati indici di sensibilità e specificità nella diagnosi precoce d’infezione del neonato (Hotoura et al., 2012).

Pannelli di screeningNessuno dei test aggiuntivi presi in considerazione è dotato di sensibilità o specificità sufficienti per escludere o confermare con certezza la diagnosi di sepsi neonatale. Sono stati pertanto presi in considerazione i pannelli di screening (screening panels o sepsis screen), che prevedono la valutazione contemporanea di diversi in-dici d’infezione. Al momento la migliore combinazione di marker per la diagnosi di sepsi consiste nel dosare l’IL-6 e l’IL-1ra immediata-mente all’esordio dei sintomi, l’IL-6 (o IL-8, CD11b, CD64), la CRP, la procalcitonina, e gli indici ematologici il giorno 0, e la CRP, gli indici ematologici e la procalcitonina nei giorni successivi per monitorare la risposta alla terapia.Complessivamente, i risultati di questi studi hanno mostrato un si-gnificativo incremento del valore predittivo negativo, con il vantag-gio di favorire la riduzione dell’utilizzo di antibiotici. Vengono inoltre attenuati gli svantaggi delle rapide variazioni dei livelli dei diversi marker, che richiedono di differenziare significativamente il cut-off in base all’età cronologica (es. PCT) oppure all’epoca d’insorgenza dei sintomi (es IL-6) (Chiesa et al., 2003).Va tuttavia sottolineato che le indagini di laboratorio hanno lo scopo di migliorare il sospetto clinico. Quando le indicazioni fornite dall’a-namnesi e dall’esame obiettivo contrastano con gli esiti negativi dei test, è comunque necessario intraprendere il trattamento nell’attesa del chiarimento diagnostico. Tra i sintomi suggestivi di uno stato infettivo, non va dimenticato che le alterazioni della temperatura (febbre, ipotermia, instabilità termi-ca), pur se poco sensibili, mantengono una elevata specificità (Hofer et al., 2012).

figura 1.La reazione infiammatoria nella sepsi.

G. Chirico, F. Russo, C. Loda

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Tecniche di biologia molecolare

La moderne applicazioni della biologia molecolare abbracciano varie discipline (Srinivasan et al., 2012): genomica (sequenziamento del DNA), transcrittomica (identificazione dell’mRNA), proteomica (iden-tificazione delle proteine), metabolomica (studio dei metaboliti nei campioni biologici) (Fanos et al., 2013) e farmacogenomica (studio di come i geni influiscono sull’azione dei farmaci). La proteomica è stata applicata alla ricerca di biomarker e alla produzione di profili proteici che possano rapidamente aiutare nel prevedere, diagnosticare precocemente e trattare malattie dell’uo-mo, compresa, ad esempio, la risposta infiammatoria intrauterina e fetale alla infezione intra-amniotica (Buhimschi et al., 2010).

Polymerase Chain Reaction (PCR)

Tra i diversi approcci molecolari alla diagnosi di infezione neonatale (es. Nucleic acid sequence-based amplification - NASBA, Nucleic Acid Amplification Tests - NAAT, Non amplification-based fluore-scence in situ hybridization - FISH), particolare interesse sta susci-tando la PCR (Polymerase Chain Reaction, amplificazione del DNA batterico), utilizzata per la diagnosi di differenti infezioni batteriche, virali e da funghi o protozoi. Ricordiamo in particolare i test di real time PCR, che consentono di valutare in 2-4 ore con discreta sensi-bilità pannelli di oltre 40 (Sepsi Fast) e fino a 90 (Magicplex Sepsis) patogeni (Lucignano et al., 2011). La presenza di frammenti di DNA batterici o virali è causa talora di false positività. I costi sono re-lativamente elevati, ma possono essere ridotti limitando l’indagine ai germi maggiormente responsabili delle sepsi precoci (es. GBS, E. Coli, Klebsiella, L. Monocytogenes, enterococchi, Haemophilus), o tardive (es. Staphylococcus epidermidis, Staphilococcus aureus, Candida albicans, P. aeruginosa, E. Coli, Klebsiella, Serratia).La sensibilità e la specificità della real time PCR, ad esempio, in un recente studio che identificava diversi 16S rDNA, è risultata rispetti-vamente del 67% e 87% (Reier-Nilsen et al., 2009). Una tecnica basata sulla PCR per amplificare il gene cfb diretta-mente dai tamponi, per identificare accuratamente la colonizzazione da Streptococco di gruppo B, con risultati ottenibili entro 1-2 ore, è stata recentemente approvata sia per l’utilizzo sia prepartum sia intrapartum dalla Food and Drug Administration (FDA), mentre il test intrapartum di amplificazione degli acidi nucleici NAAT per l’identi-ficazione perinatale dello Streptococco di Gruppo B è stato preso in considerazione nelle linee guida più recenti del CDC (CDC 2010). Tuttavia al momento nessun test ha mostrato sensibilità e specificità sufficienti a sostituire le tecniche standard di emocoltura, le uniche che possono fornire l’antibiogramma.

Polimorfismo genetico

Recenti dimostrazioni che il patrimonio genetico dell’ospite influisce sulla risposta sistemica all’infezione hanno generato un notevole in-

teresse nella valutazione della suscettibilità genetica alla sepsi, in particolare per quanto riguarda i fattori della risposta immune pre-coce innata, come i Toll-like receptors (TLRs), la mannose-binding lectin (MBL), il nucleotide-binding oligomerization domain (NODs) e le citochine (Del Vecchio et al., 2006). Una meta-analisi recente ha appurato la presenza di un’associazio-ne tra il polimorfismo della IL-6 (-174C) (guanidina - > citosina alla posizione 174 -nucleotidi relativi al sito di inizio della trascrizione nel gene della interleuchina 6) con il rischio di sepsi in neonati VLBW. I risultati di sei studi di coorte, che hanno incluso un totale di 323 neonati VLBW non hanno trovato una significativa associazione tra la condizione di portatore del polimorfismo IL-6 (-174C) e la sepsi: rischio relativo congiunto 0.90 (95% CI 0.62 a 1.31). I dati non sup-portano lo screening dei neonati per questo allele, al fine di effet-tuare una profilassi antimicrobica selettiva (Chauhan et al., 2008).Poiché la cascata infiammatoria delle citochine è implicata nella patogenesi della enterocolite necrotizzante (NEC), l’associazione tra le comuni varianti dei geni delle citochine pro-infiammatori e la NEC in neonati pretermine è stata analizzata in una meta-analisi. Sono stati genotipizzati dieci polimorfismi per un singolo nucleotide in geni di citochine precedentemente associate ad infezione o in-fiammazione: TNF (2308A), TNF (2238A), IL-1 (231G), IL-1 (2511T), IL-4R (+1902G), IL-6 (2174C), IL-8 (2251A), IL-10 (21082G), IL-18 (2137C), IL-18 (2607A). I risultati hanno suggerito che i dati dispo-nibili dimostrano solo una modesta associazione tra queste varianti alleliche delle chitochine studiate e la NEC in neonati pretermine (Henderson et al., 2009).Uno studio ha confrontato la prevalenza dei polimorfismi del TNF-α e dell’IL-10 in neonati pretermine con sepsi tardiva, con un grup-po di riferimento non infetto. Nei neonati settici, i polimorfismi 308G-TNF-α e 1082-IL-10 sono risultati, nella forma omozigote ed eterozigote, più frequenti in maniera statisticamente significativa. Gli autori, comunque, hanno concluso come fosse necessaria l’a-nalisi di un gruppo più ampio di soggetti per confermare questi dati (Del Vecchio et al., 2004).Di recente è stata descritta una associazione significativa tra il poli-morfismo genetico in omozigosi di IL-6-174CC e IL-10-1082GG ed un rischio incrementato di mortalità. Inoltre i genotipi studiati erano significativamente più frequenti nei neonati che richiedevano sup-porto con inotropi ed in quelli che sviluppavano coagulazione intra-vascolare disseminata (Abdel-Hady et al., 2009). Complessivamente questi studi preliminari tendono a confermare che le varianti genetiche ed i polimorfismi di un singolo nucleotide, implicati nella difesa immunitaria contro le infezioni, sono signifi-cativamente coinvolti nella patogenesi della sepsi e ne possono in-fluenzare l’esito. I dati disponibili tuttavia sono ancora insufficienti per poter considerare questi fattori utili nella valutazione del rischio di sepsi o per poterli includere nei pannelli di screening attualmente utilizzati per la diagnosi precoce, o per fornire indicazioni per il trat-tamento dell’infezione nel neonato (Chirico et al., 2009).

Strategie diagnostiche delle infezioni sistemiche neonatali

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Che cosa si sapeva primaL’efficacia del trattamento delle infezioni neonatali è strettamente legata alla tempestività dell’intervento. Risulta pertanto necessario poter disporre di mezzi diagnostici rapidi, oltre che ad elevata sensibilità e valore predittivo negativo. Le indagini microbiologiche consentono la diagnosi definitiva e la terapia antibiotica mirata; tuttavia i tempi richiesti per l’esame colturale sono lunghi ed inoltre la sensibilità è bassa. I marker ematologici e gli indici di flogosi contribuiscono a migliorare la precocità del sospetto diagnostico e, soprattutto, a monitorare la risposta al trattamento antibiotico.

Cosa sappiamo adessoNumerosi nuovi marker sono stati validati nella diagnosi d’infezione, ed alcune metodiche di biologia molecolare, in particolare la real time PCR, sono entrati a far parte della pratica clinica, mentre sono allo studio nuove metodiche, tra cui le tecnologie –omiche ed i polimorfismi genetici.

Quali ricadute sulla pratica clinicaL’affiancamento dei nuovi marker, quali citochine o recettori, a quelli classici, quali proteina C reattiva, procalcitonina ed indici ematologici, e l’uso dei pannelli di screening sono in grado di aumentare l’accuratezza e la tempestività della diagnosi, mentre i test di biologia molecolare possono consentire l’identificazione precoce del patogeno.

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Corrispondenza

Gennaio-Marzo 2013 • Vol. 43 • N. 169 • pp. 36-42 InfettIvologIa neonatale

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IntroduzioneI progressi nelle cure neonatali hanno determinato un incremento della sopravvivenza dei neonati pretermine e quindi della necessità di cure vieppiù intensive nelle Unità di Terapia Intensiva Neonatale (TIN). Sia la nascita pretermine, sia i difetti dell’immunità associati alla prematurità concorrono a determinare un aumentato rischio specifi-co per lo sviluppo di colonizzazione da funghi e susseguente infezio-ne fungina sistemica (Systemic fungal infection, SFI). L’incidenza di tale quadro è aumentata negli anni ’90 e 2000, grazie allo sviluppo di capacità assistenziali anche per neonati che prima non venivano trattati o non avevano speranza di sopravvivere (Stoll et al., 2002), e permane importante nell’ultima decade, pur in una epoca in cui la profilassi antifungina routinaria si è sempre più diffusa. Il rischio di SFI è tanto maggiore quanto minore è l’età gestazionale e più basso il peso alla nascita (Johnson et al., 2004), perché nell’in-terazione tra ospite e microorganismo tipica della SFI, l’ospite (in questo caso, il neonato gravemente prematuro ed immaturo) gioca un ruolo de cisivo (Kaufman et al., 2004).

È utile ricordare che, contrariamente ad altri pazienti ad alto ri-schio, nei neonati pretermine la condizione di rischio per le infe-zioni fungine è destinata a risolversi con il susseguirsi dei giorni di permanenza in TIN. Inoltre, il latte fresco della madre fornisce difese innate che possono essere utili per superare la finestra temporale di maggior rischio, soprattutto nei neonati pretermine. Per contro, la necessità di mantenere un accesso vascolare (Cate-tere venoso centrale CVC) per lunghi periodi può favorire la coloniz-zazione del catetere stesso, e di conseguenza la genesi di trombi settici e biofilm fungini, che possono essere serbatoio per la diffu-sione sistemica.Il burden complessivo delle infezioni neonatali da funghi è ingente, anche se vi è una grande variabilità di incidenza tra Centri diversi (Fridkin et al., 2006). Ciò dipende dai limiti epidemiologico-metodo-logici dei vari studi, dal case mismatch nei differenti Centri, dall’u-tilizzo o meno di profilassi, e infine dalla proporzione di neonati con patologie complicate, ad esempio chirurgiche, nei differenti Centri (Stoll et al., 2002, Kaufman et al., 2004).

la prevenzione delle infezioni fungine in neonatologia

Paolo Manzoni, Martina Luparia, Elena Tavella, Daniele FarinaSC Neonatologia e TIN, Ospedale Sant’Anna, Azienda Città della Salute e della Scienza, Torino

Sommario

Le infezioni fungine, principalmente da Candida spp, rappresentano un’importante causa di mortalità e morbilità in epoca neonatale, in particolar modo nei pretermine e nei neonati affetti da complicanze chirurgiche. La diagnosi è spesso difficile, in quanto il neonato presenta una sintomatologia talora subdola con esordio non sempre chiaramente individuabile. Il problema è acuito dal fatto che tali infezioni sono associate con frequenza a localizzazioni d’organo secondarie alla candidemia e a sequele a lungo termine spesso gravi ed invalidanti dal punto di vista neurosensoriale e neurocomportamentale. Nella presente revisione prenderemo in esame le aree più importanti in relazione alle infezioni fungine neonatali, in particolare il burden complessivo delle infezioni da funghi in epoca neonatale (dati numerici, trend storico, impatto clinico, costi ospedalieri, outcome a breve e lungo termine), le problematiche inerenti alla diagnosi e alla terapia, l’impatto delle criticità diagnostiche sulla morbidità complessiva e sulla mortalità (generale e attribuibile), quali sono i fattori di rischio per infezione da funghi nel neonato pretermine (fattori aspecifici e specifici, fattori modificabili ed immodificabili), includendo il più importante di tutti, cioè la colonizzazione, la possibilità di monitorare lo status di colonizzazione e l’individuazione delle strategie da adottare nei pazienti colonizzati.Nella seconda parte verranno discusse le problematiche inerenti alla nutrizione e alla maturazione intestinale, il ruolo della lattoferrina e dei probiotici nei confronti della colonizzazione enterica, e quali sono le possibili strategie preventive, partendo da un intervento sui fattori di rischio modificabili, e poi rivedendo la letteratura sul fluconazolo e sui farmaci antifungini (polieni e echinocandine) utilizzabili nel neonato.

SummaryFungal infections, mainly Candida spp, are a growing and important cause of mortality and morbidity in the neonatal period, especially in preterm in-fants with surgical complications. The diagnosis is often difficult because the baby has symptoms sometimes subtle with an onset that not always is clearly identifiable. The problem is exacerbated by the fact that the infection is associated with frequent end-organ localizations, secondary to blood-stream dissemination, and with long-term sequelae that often are severe and disabling from the neuro-sensory and neuro-behavioral point of view. In this review we will examine the most important areas related to neonatal fungal infections, including the overall burden of fungal infec-tions in the neonatal period (numeric data, historical trends, clinical impact, hospital costs, outcomes in the short and long term), the issues related to diagnosis and treatment, the impact of the diagnostic difficulties on the overall morbidity and mortality, the risk factors for fungal infec-tion in preterm infants (non-specific and specific factors, modifiable and unchangeable factors), and among them the most important one being colonization, and how we can monitor the status of colonization to target the risk of progression to systemic infection in the colonized infants. The second part will discuss the issues related to nutrition and intestinal maturation, the role of lactoferrin and probiotics in enhancing enteric colonization, and the possible preventive strategies, starting from an intervention on modifiable risk factors. Finally we will review the existing literature on fluconazole and antifungal drugs (polyenes and echinocandins) for use in the nurseries.

La prevenzione delle infezioni fungine in neonatologia

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La morbidità e la mortalità (attribuibile o indiretta) sono elevate, e gravi sono le frequenti sequele a carico dello sviluppo neurologico. Una diffusione sistemica dell’infezione fungina può colpire ogni or-gano bersaglio, ed il rischio di coinvolgimento neurologico è elevato data la permeabilità della barriera emato-encefalica del neonato. La localizzazione al SNC è pertanto non rara e determina un incremento esponenziale del rischio di sequele tardive a carico del SNC, della vista e dello sviluppo cognitivo, come si evince da dati del NICHD statunitense che calcolano nel  57% circa la percentuale di neo-nati pretermine ELBW affetti da Candidemia che sono destinati a un outcome nurocognitivo o neurosensoriale non ottimale all’età di 18 mesi (Benjamin et al.,, 2006).

Problematiche inerenti alla diagnosi e terapia

Le SFI neonatali sono tipica mente infezioni late-onset (tardive), con solo rari casi classificabili come early-onset (precoci) a trasmissio-ne verticale. La maggioranza delle SFI deriva da ac quisizione no-socomiale, e da un primo contatto con il fungo che, avvenuto nei primi giorni di permanenza nella TIN, evolve rapidamente verso una colonizzazio ne e quindi – in casi selezionati – verso la disseminazio-ne sistemica e l’infezione (Benjamin et al., 2006).Numerose sono le problematiche inerenti alla diagnosi delle SFI ne-onatali, e ogni ritardo diagnostico produce un aumentato rischio di outcome negativi a lungo termine.Il 90% delle SFI neonatali avviene nei prematuri: il neonato a termine ne è praticamente esen te a meno di situazioni peculiari. La gran par-te delle SFI sono causate da Candida spp, raramente da altri funghi (quali Aspergillus spp, Zygomices spp, etc). Tra le varie Candida spp, le C. albicans sono le predominanti (58%) e le più aggressive, la C. parapsilosis ha un ruolo importante (34%), mentre le altre hanno un ruolo decisamente più limitato [Kaufman et al., 2006). L’emocoltura è imprescindibile per la diagnosi, ma non può essere il gold standard in neonatologia, perché spesso dà un esito negativo a causa di difficoltà tecniche insormontabili legate al timing di esecu-zione (il neonato non ha la febbre) ed alla difficoltà di ottenere quan-titativi adeguati di sangue (per una ottimale sensibilità sarebbero necessari addirittura 6 ml di sangue, cosa impossibile in un neonato di 1.000 g (Manzoni et al., 2004).

I fattori di rischio per infezione da funghi nel neonato pretermine

I fattori di rischio per SFI sono molteplici e sono in gran parte asso-ciati alla condizione di prematurità e di necessità di cure intensive del neonato pretermine. In letteratura, tutte le seguenti condizioni sono state associate ad un rischio aumentato di colonizzazione e/o di disseminazione sistemica dei funghi (Saiman et al., 2001; El-Masry et al., 2002; Farmaki et al., 2007; Feja et al., 2005; Cotten et al., 2006; Wynn et al., 2012):

• Sesso maschile • Età gestazionale < 32 settimane • Aumentati tassi di sopravvivenza di neonati con peso molto bas-

so alla nascita • Aumentata degenza in terapia intensiva neonatale • Colonizzazione da parte di Candida spp in siti periferici• Colonizzazione da parte di Candida spp nel tratto gastroenterico• Candiduria• Dermatite fungina invasiva

• Funzione danneggiata della barriera cutanea• Neutropenia• Cateteri venosi centrali posizionati• Intubazione e ventilazione meccanica• Uso prolungato di antibiotici ad ampio spettro (es. cefalosporine

di III generazione)• Uso di steroidi sistemici• Uso di teofillina• Uso di H2-antagonisti• Nutrizione parenterale totale e lipidi e.v. per lunghi periodi; as-

senza di alimentazione enterale• Iperglicemia

Di tutti questi fattori, la colonizzazione è sicuramente il più importan-te ed imprescindibile; praticamente non esiste infezione senza una pregressa, anche limitata, colonizzazione fungina. La progressione dalla colonizzazione all’infezione avviene in relazione a fattori speci-fici di rischio ulteriore, che includono condizioni correlate al paziente (APACHE, CRIB, APGAR score; intervento chirurgico concomitante; lesioni-ferite della pelle o delle mucose; interruzione della barriera intestinale; presenza di devices meccanici o di manovre invasive), ed altre correlate invece all’organismo fungino colonizzante (il sito ana-tomico di colonizzazione; la intensità della colonizzazione espressa come numero di siti colonizzati concomitantemente; il timing della colonizzazione stessa, e la subspecies fungina coinvolta) (León et al., 2006; Charles et al., 2005; Kaufman et al., 2006; Manzoni et al., 2007; Manzoni et al., 2006).Un concetto fondamentale in tema di colonizzazione e rischio ad essa legato è quello dei biofilm: la colonizzazione in sedi dove non si formi un bio film è gestibile, mentre la colonizzazione in sedi in cui c’è il ri-schio che si formi un biofilm diventa pericolosa e molto importante da monitorare. Il biofilm si forma essenzialmente sull’endotelio (es. nelle valvole cardiache o laddove ci siano anomalie anatomiche dell’albero vascolare), ma soprattutto nei device, cioè negli strumenti prostetici (es. catetere, drenaggi, ecc.) a contatto con il torrente circolatorio o con il liquido peritoneale o pleurico (Cateau et al., 2008).Stante l’affidabilità limitata dell’emocoltura, e la non ancora comple-ta validazione in neonatologia di marker antigenici precoci, quali il beta-glucano o il mannano sierico, il laboratorio ci può orientare nel-la diagnosi tramite qualche parametro suggestivo per SFI: l’ipergli-cemia (Manzoni et al., 2006) e la piastrinopenia (Guida et al., 2003) sono nel neonato pretermine tipicamente correlabili con la infezione da funghi, piuttosto che da altri patogeni. Nella pratica clinica, comunque, la diagnosi è nella maggior parte dei casi tipicamente deduttiva: bisogna sospettare un’infezio ne da Candida sulla base della presenza di segni clinici di infezione o sepsi con grave scadimento clinico, e/o di alterazioni di esami di laboratorio (PCR elevata e/o leucocitosi neutrofila e/o leuco-penia e/o iperglicemia e/o piastrinopenia), in un paziente con pregressa colonizzazione da funghi (cioè isolamento di funghi in esami colturali da sedi di colonizzazione non profonde e/o da fluidi corporei sterili e/o presenza di funghi in colture da materiali meccanici non da sedi profonde, cioè da sedi che sono a rischio (Benjamin et al., 2000).

La colonizzazione come principale fattore di rischio: la monitorizzazione dello status di colonizzazione

Come si è detto, la colonizzazione è sicuramente il più importante ed imprescindibile fattore di rischio per SFI, dato che è molto raro

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che si verifichi una SFI breakthrough, cioè un’infezione senza una pregressa, financo limitata, colonizzazione fungina.Alcuni studi hanno anche cercato di identificare quali siano le tipo-logie di colonizzazione con maggior “peso” specifico o predittività di rischio evolutivo di progressione dalla colonizzazione all’infezione. Ad esempio, pa zienti adulti in terapia intensiva medica e chirurgica possono venire identificati come “a rischio di SFI”, tramite il cosid-detto “punteggio di colonizzazione” (Candida score), calcolato sulla base dei siti colonizzati e dell’intensità della colonizzazione stessa. Score superiori ad un determinato cut-off suggeriscono al clinico il passaggio ad una terapia antifungina sistemica pre-emptive (Pittet et al., 1994; Charles et al., 2006). Nella neonatologia, pur non essendo ancora giunti ad un simile li-vello di standardizzazione diagnostica in tema di colonizzazione e relativo grading, si sono però fatti alcuni progressi in tema d’identi-ficazione delle varie tipologie di colonizzazione e del rischio legato a esse, e si è giunti a quan tificare il rischio di progressione legata alla colonizzazione di un certo tipo di device o di sito: l’isolamento di una Candida da un CVC, dalle urine, o da più di tre siti periferici nello stesso tempo, rendono il paziente a rischio elevatissimo di sviluppa-re una SFI a breve termine (Manzoni et al., 2006; Wynn et al., 2013; Mahieu et al., 2010).

Le strategie preventive e di profilassi farmacologicaDa quanto esposto finora, risulta chiaro che la miglior strategia in tema di SFI neonatali è la prevenzione. La morbidità da SFI è grave e potenzialmente tutti gli organi e apparati possono essere interessati, determinando esiti a distanza severi con disabilità residua e dimi-nuite performance neuro-sensoriali (Stoll et al., 2004; Noyola et al., 2001; Zaoutis et al., 2007; Manzoni et al., 2006).Purtuttavia, l’elenco dei fattori di rischio per SFI in prematuri è tal-mente lungo che è quasi impossibile evitarli tutti. Si può però agire là dove si può e promuovere – ad esempio – l’alimentazione enterale con latte materno, l’eumicrobismo intestinale, l’uso ragionevole e cauto degli antibiotici ad ampio spettro e degli H2-antagonisti, etc. (Kaufman et al., 2010).Nella figura 1 vengono rappresentate graficamente le varie opzioni strategiche applicabili per gestire una SFI: profilassi, terapia empirica, terapia pre-emptive e terapia mirata. Ognuna di queste strategie si basa su un variabile rapporto costo/beneficio e sul number needed to treat (NNT). In caso di profilassi c’è la possibilità di interrompere la progressione verso la malattia prima che la stessa si verifichi, ma bisogna trattare moltissimi pazienti per avere meno eventi. In caso di terapia empirica, pre-emptive o mirata, si restringe gradualmente il numero dei pazienti trattati, cioè solo quelli che rivestono particola-ri caratteristiche di rischio, ma con la possibilità che l’infetto possa sfuggire. È quindi una scelta strategica, e si basa – in caso di mancata profilassi – sull’indicazione ad eseguire il trattamento con il più po-tente antifungino disponibile, al fine di ridurre al minimo il rischio che eventuali focolai settici sfuggano al trattamento e possano determina-re una diffusione d’organo. In questa prospettiva, i farmaci preferibili devono avere una significativa attività contro i biofilm, così come una ottimale attività contro la C. glabrata, C. tropicalis e C. krusei, ossia le specie che possono sopravvivere alla profilassi con fluconazolo.Nel neonato, al momento non esistono studi prospettici controllati sull’efficacia dell’approccio pre-emptive o empirico, e quindi – an-che in considerazione dell’elevata incidenza di sequele neurocom-portamentali in neonati sopravvissuti a una SFI – la migliore solu-zione per diminuire il burden della malattia è di evitarla con una profilassi specifica.

Lattoferrina

La lattoferrina è la proteina più importante del latte materno, e ha un’omologia del 77% con la lattoferrina bovina, condividendo si-milarità di azioni ed internalizzazione per via intestinale, in quanto sopravvive in larga parte al passaggio attraverso lo stomaco dopo somministrazione orale (Lonnerdal et al., 2003).È presente in concentrazioni più elevate nel colostro rispetto al latte maturo, ma nella mamma di un nato pretermine tali livelli rimangono elevati più a lungo, finché il bambino non giunge a termine (36-37 settimane), suggerendo quindi l’importanza delle funzioni biologiche svolte dalla lattoferrina sia nei primi giorni, sia nelle prime settima-ne di vita. Tali funzioni sono prevalentemente di tipo antiinfettivo ed immunomodulatorio: azioni antibiotic-like dirette contro Gram-ne-gativi, Gram-positivi e Candida; azioni di tipo immunomodulatorio; modulazione funzionale sulla proliferazione delle cellule intestinali nascenti; azione bifidogenica promuovendo l’eumicrobismo enteri-co; azioni anti-infiammatorie e di inibizione della formazione di spe-cie reattive dell’ossigeno (ROS).Uno studio su neonati VLBW provenienti da 11 diverse TIN italiane ha dimostrato recentemente che la somministrazione di 100  mg/die di lattoferrina bovina, da sola o in associazione a Lactobacillus GG rispetto a un placebo diminuisce l’incidenza di sepsi late-onset – da qualsiasi patogeno causale – indipendentemente dall’aggiunta o meno del probiotico. Questo succe de anche a livello delle sepsi da Candida, che da 5,4% nel gruppo placebo passavano a 0,7%, quindi con una potenza di riduzione praticamente pari a quella del fluconazolo (Manzoni et al., 2009). Questi dati suggeriscono che la lattoferrina sia uno strumento di profilassi potenzialmente importan-te, e maggiormente quando si aggiungeranno dati ulteriori dai vari trial randomizzati controllati (RCT) attualmente in corso in varie parti del mondo (Turchia, Australia, UK, USA, Italia).

Probiotici

I probiotici prevengono la colonizzazione da funghi nel tratto genito-urinario femminile o nel cavo orale in pazienti che usino delle protesi dentarie. Alcuni gruppi, specialmente in Italia, partendo da questi presupposti, hanno provato a verificare se simili proprietà potessero essere presenti anche nel setting neonatale.Un primo studio RCT (Manzoni et al., 2006) dimostrò che, dopo un mese di somministrazione di Lactobacillus GG, i neonati VLBW che manifestavano colonizzazione da Candida spp nel tratto gastroen-terico erano la metà rispetto a quelli che invece non assumevano fin dalla nascita il probiotico. Conferme ulteriori sono recentemente giunte anche per un altro ceppo, il Lactobacillus reuteri, da parte di un altro gruppo italiano (Romeo et al., 2011). La gestione del rischio

figura 1.Le varie opzioni strategiche di gestione della SFI: profilassi, terapia em-pirica, terapia pre-emptive e terapia mirata.

La prevenzione delle infezioni fungine in neonatologia

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SFI in Terapia Intensiva Neonatale non può quindi prescindere dal prendere in considerazione la somministrazione, per il primo mese di vita almeno, di uno dei due ceppi probiotici di cui sopra.

Fluconazolo

Il fluconazolo possiede una fortissima evidenza di efficacia preventiva nel setting neonatale, basata su moltissimi studi retrospettivi, storici di coorte, e soprattutto su ben 4 studi randomizzati prospettici.Il primo di questi (Kaufman et al., 2001) dimostrò nel 2001 una di-minuzione dal 20% allo 0% delle SFI nei neonati ELBW randomizzati a fluconazolo vs. placebo. Successivamente, nel 2007, il Gruppo di Infettivologia Neonatale della SIN condusse il primo studio RCT multicentrico (Manzoni et al., 2007), nel quale si dimostrò che sia il dosaggio a 6 mg/kg, sia il dosaggio a 3 mg/kg a giorni alterni era-no egualmente efficaci nel ri durre la colonizzazione da Candida (dal 29% all’8%), ma soprattutto le infezioni sistemiche da Candida (dal 13% al 3%) in neonati VLBW.In entrambi gli studi non si produssero né si rilevarono cambiamenti ecologici, sia in termini di selezione di ceppi resistenti, sia in termini di proliferazione di sottospecie di Candida che sono intrinsecamente resistenti.Analizzando meta-analiticamente i risultati presenti in letteratura (Kaufman et al., 2010), il fluconazolo riduce dell’80-85% le SFI in neonati VLBW e ELBW, e riduce anche significativamente la mortalità complessiva dal 16% all’11% (p = 0,01), azzerando quella attribui-bile a funghi. Si è quindi nella condizione per poter dire che questa profilassi è ormai obbligatoria come strategia di gestione del rischio fungino: l’u nica considerazione da fare è a quali pazienti e in quali setting somministrarla.Dal punto di vista ecologico è molto importante notare che, laddove il fluconazolo si è usato per più di 10-12 anni, come succede nel centro di Kaufman, nessun tipo di resistenza è emersa. Evidente-mente dosaggi relativamente bassi (3 mg/kg ogni due giorni o addi-rittura ogni tre giorni) e per di più una per sonalizzazione della som-ministrazione di fluconazolo solo ai bambini più a rischio possono evitare l’in sorgenza di problemi di resistenza, che invece negli adulti o anche in altre popolazioni è stata rilevata.La profilassi con fluconazolo va iniziata precocemente, appena il neonato entra in reparto, anche per le difficoltà farmacocinetiche di raggiungere una copertura sierica ottimale nei primi giorni, ed è consigliata mediamente per una durata di 30  giorni nei VLBW (45 giorni negli ELBW) (Burwell et al., 2006).

Le strategie terapeutichePurtroppo al momento attuale non esiste uno studio RCT su neonati pretermine che in maniera prospettica dimostri la superiorità di un antifungino nei confronti di un altro. Gli unici dati parziali sull’effica-cia di alcuni di questi prodotti derivano dall’analisi di sottopopolazio-ni di soggetti in età pediatrica di diverse fasce di età arruolati in trial pediatrici. Mancano dati sull’outcome a distanza, cioè sulla capacità del farmaco antifungino somministrato al momento della diagnosi di prevenire o limitare le sequele neuro-evolutive e neurocomporta-mentali che gravano in maniera pesante su oltre il 50% dei neonati pretermine sopravvissuti ad una SFI neonatale (Stoll et al., 2002; Noyola et al., 2001). Il vero indicatore dell’efficacia di un antifungino per uso neonatale sarà in un prossimo futuro proprio questo: i trial che si stanno ora iniziando in pazienti neonatali, sia per il fluco-nazolo sia per la micafungina, prevedono proprio la valutazione di questo endpoint, onde valutare appieno l’efficacia complessiva delle specifica molecola.

Storicamente, le prime opzioni nel trattamento della SFI neonata-le sono state il fluconazolo e l’amfotericina B. Tuttavia, questi due farmaci presentano delle limitazioni sia di efficacia che di tossicità attribuibile.Il fluconazolo è scarsamente attivo contro alcuni ceppi di Candida spp, che spesso colonizzano i neonati pretermine (ad esempio, C. glabrata e C. krusei) e che potrebbero essere quelli predominanti in setting ove si utilizzi il fluconazolo in profilassi. Utilizzare pertanto in terapia un farmaco che ha delle limitazioni nell’attività verso alcune specie fungine appare pertanto un rischio (Manzoni et al., 2009), e se lo si fa, questo deve avvenire solo in reparti in cui non lo si usa come profilassi, usando un dosaggio ottimalizzato di 12 mg/die in dose unica/die, con una dose di carico di 25 mg/kg il primo giorno (Wade et al., 2008). Anche per l’amfotericina B (sia deossicolato, sia liposomiale) non ci sono studi clinici randomizzati prospettici ad hoc sui neo nati, e ciò è grave dato che la amfotericina B liposomiale è stata, almeno nell’ultimo decennio, il farmaco antifungino più usato nei neonati (Scarcella et al., 1998). I dosaggi raccomandati sono di 3-5 mg/kg/die per la liposomiale.Le echinocandine sono una nuova classe di farmaci antifungini con caratteristiche che potrebbero meglio soddisfare le esigenze dei pazienti neonatali. Inibiscono in maniera non competitiva la sintesi dell’1,3-beta-D-glucano, enzima di membrana essenziale del cell wall fungino, rompendo pertanto i legami di membrana e facilitando quindi la necrosi cellulare (Watt et al., 2011). Questa via enzimatica non è presente nelle pareti cellulari dei mammiferi, né nelle cellule umane, né in quelle embrionali,e non è usata da nessun altro farma-co di utilizzo neonatale. Tutto ciò suggeriisce una probabile assenza di tossicità cellulare di questa categoria di farmaci, nonché l’assen-za di interferenze farmacologiche in vivo, e la bassa probabilità che insorga una resistenza acquisita.Tutte le echinocandine sono molto ben tollerate a livello renale, mentre possono determinare un aumento transitorio dei valori sie-rici degli enzimi epatici durante il trattamento, pur se reversibili con completa risoluzione dopo la cessazione del trattamento. Le tre echinocandine attualmente disponibili sono caspofungina, micafungina, e anidulafungina. Tutte hanno uno spettro ottimale di attività contro le diverse subspecies di Candida spp.La caspofungina (CSP) ha una licenza per uso pediatrico basata su dati provenienti da 171 pazienti in età pediatrica, ma i dati di far-macocinetica disponibili nel neonato sono scarsi e forniscono indi-cazioni interlocutorie. Sembra comunque che un dosaggio in base al peso (1 mg/kg/die) non sia ottimale (Odio et al., 2004) e che sia preferibile un regime basato sulla superficie corporea con dosaggi di 25-50 mg/m2/die, talora preceduti da una loading dose di 70 mg/m2 (Saez-Llorens et al., 2009; Castagnola et al., 2007).In letteratura, l’uso di caspofungina in età neonatale ha risolto casi difficili di candidemia persistente (Wertz et al., 2004), infezioni lega-te a CVC oppure determinate da Candida spp resistenti agli azolici (Mondello et al., 2009). Con tutte le limitazioni inerenti al disegno di questi studi (si tratta infatti di case reports o case series), CSP po-trebbe essere efficace anche in casi di localizzazioni d’organo quali il fegato o i polmoni (Natale et al., 2009; Filippi et al., 2009).L’uso di caspofungina è stato spesso associato ad importanti, anche se reversibili, aumenti dei livelli sierici degli enzimi epa-tici, così come ad ipercalcemia. Non sono attualmente dispo-nibili dati sulla safety di CSP proveniente da una sistematica sorveglianza prospettica di neonati sottoposti a trattamento. La micafungina (MICA) ha una licenza d’uso pediatrica basata sui dati degli studi clinici da 296 pazienti in età pediatrica, ed è

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Diagnosi dell’infezione neonatale da Candida sppL’emocoltura rimane il gold standard ma è purtroppo poco sensibile per quanto altamente specifica. La sensibilità è legata ai volumi di sangue pre-levato, al timing, ed alla fungemia, piuttosto che alla localizzazione d’organo. La positività per Candida spp di una urinocoltura eseguita sterilmente è stata recentemente equiparata come predittività a quella di un’emocoltura. Molti casi di meningite da Candida possono presentare liquor positivo con concomitante emocoltura negativa. In nessun caso una emocoltura positiva per Candida può essere considerata sinonimo di contaminazione. Il ruolo dei markers sierici antigenici (quali il beta-glucano o il mannano) va ulteriormente chiarito, e va soprattutto individuato un cut-off quantitativo che sia predittivo di infezione.

Terapia dell’infezione neonatale da Candida sppIl trattamento convenzionale dell’infezione neonatale da Candida spp prevede la somministrazione di polieni (amfotericina B o derivati liposomiali con dosaggio di 3-5 mg/kg/die), di echinocandine (micafungina a 4-7 mg/kg/die, o caspofungina a 50 mg/m2/die), o di fluconazolo (a 12 mg/kg/die nei soggetti non in profilassi con lo stesso farmaco). I cicli terapeutici devono essere di almeno 14 giorni in caso di candidemia, di 4 settimane in caso di localizzazione meningea, e di 4-8 settimane in caso di localizzazione d’organo.

Profilassi dell’infezione neonatale da Candida sppLa strategia classica si basa sul fluconazolo, un azolico ben tollerato e con buona attività candidicidica, ma scarsamente attivo sul alcune subspecies quali la C. krusei e la C. glabrata. I cicli di profilassi prevedono la somministrazione di 3-6 mg/kg a giorni alterni, o 2 volte la settimana, a partire dalle prime ore di vita e per almeno 30 giorni (nei neonati <1500 g alla nascita) o per 45 giorni (nei neonati <1000 g alla nascita). Oltre al fluconazolo, è utile associare strategie nutrizionali (latte materno fresco, limitazione ove possibile della nutrizione parenterale totale, utilizzo di probiotici, quali il Lac-tobacillus rhamnosus GG o il Lactobacillus Reuterii) e applicare una elevata stewardship medica (cioè una ottimale gestione responsabile delle risorse limitando l’uso di steroidi, di antibiotici a ampio spettro, di H2-antagonisti, ecc).

Gestione degli AntibioticiIn passato era già noto che l’uso inappropriato degli antibiotici può facilitare l’insorgenza di infezioni fungine oltre che di resistenze batteriche. Recenti studi dimostrano un’associazione tra l’utilizzo prolungato di cefalosporine di III generazione e di carbapenemici e l’insorgenza di infezione fungina in neonati pretermine in TIN. L’utilizzo di tali antibiotici in TIN va pertanto limitato allo stretto indispensabile e va sempre monitorato, in caso di loro utilizzo, il rischio di insorgenza di infezioni fungine sistemiche.

Gestione dei Cateteri venosi centrali (CVC)In caso di emocoltura positiva per Candida, è fortemente indicato rimuovere con urgenza il CVC e riposizionarlo non immediatamente (se possibile) ed in una sede diversa. Un ritardo nel rimuovere il CVC in tali situazioni è associato ad un significativo e drammatico aumento della mortalità. Il ruolo della lock-therapy (soluzioni-tappo impregnate di antifungino da immettere nel raccordo per sterilizzarlo) è ancora da chiarire in neonatologia. L’utilizzo sempre più frequente di farmaci di nuova generazione, quali le echinocandine, potrebbe aprire spiragli verso una gestione diversa del CVC in corso di infezione sistemica da funghi, data la spiccata attività sui biofilm di questi farmaci.

Box di orientamento

indicata per l’uso nei bambini, inclusi neonati. L’autorizzazione per uso neonatale concessa dall’EMA ne fa l’unico antifungino il cui uso autorizzato in neonati (nati pretermine e non) è at-tualmente non off-label, a differenza di tutti gli altri disponibili. Anche se è stata ampiamente studiata in pazienti di età pedia-trica e neonatale, non esistono finora chiare indicazioni per il dosaggio, specialmente nei neonati (Zhao et al., 2012). Gli studi disponibili descrivono una vasta gamma di schedule di dosaggio giornaliero (0.75, 1.4, 3, 5, 10 e 15 mg/kg al dì) che sono dif-ficilmente comparabili (Hope et al., 2008). Gli studi più recenti, tuttavia, dimostrano che dosaggi di MICA pari a 7 e 10 mg/kg/die sono ben tollerati, e garantiscono livelli di esposizione al farmaco che sono simili a quelli che, in modelli animali, sono adeguati per la protezione del SNC (Benjamin et al., 2013). Un ambizioso studio prospettico RCT multicentrico internazionale di farmaco-cinetica ed efficacia della micafungina in neonati è attualmente in corso di svolgimento.È fondamentale sottolineare che MICA è molto attiva contro i biofilm (Cateau et al., 2011), che sono serbatoi importanti di infezioni bat-teriche e fungine in pazienti, come ad esempio i neonati pretermine, che richiedono il posizionamento di cateteri e altri impianti per lun-ghi periodi. La anidulafungina, infine, non è attualmente registrata e licenziata per uso pediatrico, per quanto studi di farmacocinetica in popolazio-

ni pediatriche ed anche neonatali siano già stati condotti e lascino presagire che negli anni futuri vi saranno opportunità di impiego anche per questa echinocandina in ambito pediatrico e neonatale.

ConclusioniLe SFI sono un problema importante nelle TIN e costituiscono una vera sfida diagnostico-terapeutica per il neonatologo. L’outcome del neonato affetto da SFI può essere severamente condizionato da una mancata diagnosi, da una mancata profilassi, da un ritardo nell’ini-zio della terapia, o dall’utilizzo di un farmaco sbagliato o poco attivo. Occorre scegliere tra una profilassi estesa a tutti i soggetti a rischio, ed una terapia empirica iniziata sulla base di sospetto clinico e mi-crobiologico, ma che è tanto più efficace quanto più è precoce (Mor-rell et al., 2005). Il CVC va rimosso tassativamente al momento della diagnosi (Karlowicz et al., 2001), e va sorvegliata l’ecologia fungina di reparto metodicamente nel caso si attui una profilassi con fluco-nazolo (Blot et al., 2006).I nuovi antifungini a disposizione quali le echinocandine potrebbero modificare gli scenari attuali e andranno valutati nel tempo in base alla loro capacità non tanto di sterilizzare le emocolture e risolve-re l’episodio acuto, quanto di prevenire i deficit neurosensoriali a distanza che costituiscono, al giorno d’oggi, il problema più grave nella gestione di tali pazienti.

La prevenzione delle infezioni fungine in neonatologia

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Paolo Manzoni, SC Neonatologia e TIN, Azienda ospedaliera Città della Salute e della Scienza, Ospedale Sant’Anna, Corso Spezia 60, 10126 Torino. Tel. +39 011 3131580. Fax. +39 011 3134888. E-mail: [email protected].

Corrispondenza

Gennaio-Marzo 2013 • Vol. 43 • N. 169 • pp. 43-50 frontiere

43

Introduzione

Nell’era della genomica è sempre più evidente la necessità di consi-derare lo stato genomico dell’individuo come fattore essenziale per la scelta di un farmaco e del suo dosaggio. Le differenze genetiche interindividuali sono in grado di spiegare, in parte, la variabilità del-la farmacocinetica, dell’efficacia e della tossicità di alcuni farmaci. Esistono numerosi esempi di differenze nella risposta farmacologica determinate da polimorfismi genetici o alterazioni dell’espressione di geni del metabolismo dei farmaci, ma la maggior parte di questi studi sono condotti su popolazioni di individui adulti. Ben pochi sono i lavori in tale ambito condotti su popolazioni pediatriche.Questa review si propone di descrivere le principali differenze bio-logiche del metabolismo dei farmaci tra bambini e adulti, allo scopo di fornire una panoramica sui campi di ricerca farmacogenetica e -genomica in rapida evoluzione; si propone, inoltre, di illustrare l’im-patto che questi studi possono avere sullo sviluppo della medicina personalizzata, soprattutto nei pazienti pediatrici.

Farmacogenomica e Farmacogenetica

Il termine farmacogenomica (PGx) si riferisce allo studio di geni che modulano la risposta farmacologica; la farmacogenetica (PGt) è un sottoinsieme della PGx, definita come l’influenza di variazioni nella se-quenza del DNA sulla risposta al farmaco. In entrambe le definizioni,

il termine “risposta al farmaco” include i concetti di biodisponibilità e di effetto dello stesso. La PGx è perlopiù finalizzata alla ricerca e identificazione di nuovi bersagli terapeutici, allo sviluppo di farmaci e allo studio della risposta ad essi correlata. La PGt si occupa, invece, di studiare la variabilità di risposta a un farmaco dovuta a fattori genetici allo scopo di correlarla al dosaggio farmacologico e al rischio di inte-razioni farmaco-farmaco clinicamente rilevanti (Krekels et al., 2007).I farmaci possono avere diverse azioni sugli individui, adulti e bam-bini, a causa di polimorfismi genetici, ovvero differenze di sequen-za del DNA tra diversi soggetti. Esistono diversi tipi di alterazioni genetiche, polimorfismi di singolo nucleotide (SNP), variazioni del numero di copie (CNV) e del numero di ripetizioni in tandem (VNTR), microsatelliti e riarrangiamenti citogenetici.Sono stati descritti effetti avversi ai farmaci (ADR), anche letali, attribuibili a polimorfismi genetici in geni coinvolti nel metabo-lismo e nella distribuzione dei farmaci, che inducono alterazioni della loro concentrazione e dei loro metaboliti attivi. In particolare, i polimorfismi possono influenzare la variabilità farmacocinetica e la biodisponibilità modulando l’attività di enzimi metabolizzanti (drug metabolizing enzyme, DME), di proteine di trasporto (drug transport protein, DTP), di proteine sieriche di legame e di fat-tori di trascrizione (Katz et al., 2008). Uno dei DME più studiati nell’ambito della PGt è il citocromo P450 (CYP)2D6, responsabile del metabolismo del 25% dei farmaci presenti sul mercato (Teh et al., 2012). Il gene CYP2D6 è altamente polimorfico, con più di 80

farmacogenetica e farmacogenomica in pediatria: stato dell’arte e prospettive future

Roberta Russo1,2, Mario Capasso1,2, Achille Iolascon1,2

1Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Napoli 2CEINGE Biotecnologie Avanzate, Napoli

Riassunto La variabilità genetica interindividuale è in grado di spiegare la notevole diversità di effetti osservata durante un trattamento farmacologico. La diversa risposta ai farmaci è stata correlata alle differenze genetiche tra gli individui in numerosi studi; la maggior parte di questi, tuttavia, è stata condotta su popolazioni adulte. Di contro, poca attenzione è stata riservata alla popolazione pediatrica. I pazienti pediatrici costituiscono un gruppo particolarmente vulnerabile riguardo al trattamento farmacologico, poiché essi presentano un ulteriore grado di variabilità derivante dalle varie fasi dello sviluppo. Ad oggi, pochi passi sono stati fatti nell’ambito della farmacogenomica dello sviluppo.Questa review si propone di descrivere le principali differenze nella risposta farmacologica tra adulti e bambini, nonché di fornire alcuni esempi di applica-zione di studi di farmacogenetica condotti nell’ambito di trattamenti farmacologici di alcune delle condizioni infantili più comuni. Scopo ulteriore è quello di offrire una panoramica sulle implicazioni e l’importanza delle scienze “omiche”, genomica, trascrittomica, miRnomica, proteomica e metabonomica negli studi di farmacogenetica e farmacogenomica.

SummaryGenetic variability among individuals explains the remarkable diversity of the effects observed during pharmacological treatment. Nevertheless, most studies in this field have been conducted in adults, and little attention has been paid to the pediatric population. Children are particularly vulnerable with respect to the pharmacological treatment, since they may have different stages of development. Until now, few studies have been published in the field of the developmental pharmacogenomics.This review aims to describe the main differences in the drug response between adults and children, as well as to provide some paradigmatic examples of pharmacogenetic studies conducted as part of the pharmacological treatment of a group of extremely common childhood disorders. An additional objective is to provide an overview of the implications and importance of “omics” sciences, genomics, transcriptomics, miRnomics, proteomics and metabonomics in pharmacogenetics and pharmacogenomics studies.

R. Russo, M. Capasso, A. Iolascon

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varianti alleliche descritte ad oggi (http://www.imm.ki.se/cypalle-les/cyp2d6.htm). In particolare, alterazioni dell’attività enzimatica sono state associate a variazioni del numero di copie del gene (Fig. 1). Un esempio, è quello, descritto nel 2006, dell’avvelena-mento da morfina (metabolita attivo della codeina) di un neonato allattato da madre sottoposta a trattamento con codeina, classi-ficata poi come metabolizzatrice ultra-rapida per il CYP2D6, in quanto eterozigote per l’allele CYP2D6*2A con duplicazione del gene. Dato che la frequenza di tale variante è piuttosto elevata in alcune popolazioni (10% in Grecia e Portogallo, 29% in Etiopia), tale polimorfismo è da considerarsi clinicamente rilevante (Koren et al., 2006). L’esempio fornito dal CYP2D6 dimostra come definire

il genotipo di enzimi metabolizzanti possa essere utile nel preve-nire sovradosaggi, con conseguenti ADR, o dosaggi sub terapeutici (Kirchheiner et al., 2005) (Fig. 1).Esistono evidenze a sostegno dell’introduzione della PGt nella pre-scrizione dei farmaci come elemento per migliorare sensibilmente la sicurezza e l’efficacia della terapia (Stanulla et al., 2005). Tuttavia, attualmente poche linee guida collegano i risultati dei test di PGt a specifiche raccomandazioni terapeutiche. A tale scopo, è stato re-centemente istituito un Gruppo di Lavoro della farmacogenetica che ha provveduto a sviluppare raccomandazioni per più di 50 farmaci associati a geni che codificano per numerose proteine coinvolte nel loro metabolismo (Swen et al., 2011).

figura 1. Regolazione del dosaggio in relazione all’attività enzimatica geneticamente predetta.La figura illustra il potenziale beneficio della modulazione del dosaggio in relazione al genotipo dell’enzima metabolizzante. L’esempio qui presen-tato è quello del polimorfismo CNV del CYP2D6, ma il principio può essere trasferito a qualsiasi enzima metabolizzante o trasportatore genetica-mente polimorfico.Le curve tempo-concentrazione a dosi standard risultano in un livello di esposizione basso (espresso come AUC, area sotto la curva) nei metabo-lizzatori estensivi (EM) e ultra-rapidi (UM), portatori di un genotipo con due alleli e di uno con duplicazione del gene, rispettivamente; al contrario, i metabolizzatori intermedi (IM) e lenti (PM), portatori di un genotipo con delezione di un solo allele o di entrambi rispettivamente, hanno una curva AUC aumentata, con conseguente incremento di effetti avversi. Questo è tipico della relazione lineare tra il numero di alleli attivi di un gene del me-tabolismo dei farmaci e la misura della clearance del farmaco stesso. c, concentrazione di farmaco; t, tempo (Adattata da Kirchheiner et al., 2005).

Farmacogenetica e farmacogenomica in pediatria: stato dell’arte e prospettive future

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Risposta farmacologica in adulti e bambini: cosa cambia?La prima considerazione da fare nel campo della ricerca pediatrica è che lo sviluppo umano, dal periodo prenatale fino alla adolescenza, è un processo dinamico. Neonati e bambini vanno incontro rapidamen-te a fasi di crescita e mostrano un’ampia variabilità nella risposta ai farmaci e nella capacità di metabolizzarli (Leeder, 2003). Si presume che gli effetti dei farmaci siano differenti nei bambini, ma l’origine di questa percezione deriva dalla mancanza di uno studio adeguato nella popolazione pediatrica a differenti età e in diversi stati patologici (Stephenson, 2005). Mentre è noto il ruolo dei polimorfismi genetici, ben poca attenzione è rivolta alla farmacogenomica dello sviluppo. Alcuni geni sono espressi molto più nelle fasi precoci della vita che negli adulti e tale switching genetico può dare origine ad una situa-zione in cui un farmaco è efficace in una età ma non in un’altra. Uno degli esempi di tale situazione è rappresentato dai geni dalla fami-glia CYP3A. L’attività totale della proteina CYP3A per l’intero periodo di sviluppo rimane costante, bilanciandosi tra le isoforme CYP3A7 e CYP3A4: tuttavia, differenze nella capacità metabolica durante lo svi-luppo possono essere osservate, dal momento che le due isoforme presentano diverse specificità di substrato ed efficacia catalitica (La-croix et al., 1997) (Fig. 2). La maggior parte dei DME è meno svilup-pata nei bambini. Un esempio è l’UDP glucuronosiltransferasi (UGT), enzima essenziale per l’eliminazione di sostanze xenobiotiche nonché endogene, come la bilirubina. Alla nascita è presente solo l’1% del normale livello di attività epatica dell’UGT dell’adulto. La maturazione post-natale vede un progressivo e rapido aumento di attività enzimati-ca fino al raggiungimento dei livelli adulti entro 14 settimane (Kawade et al., 1981), probabilmente in relazione allo stato di metilazione e acetilazione del locus genico dell’enzima.

Studi di farmacogenetica in patologie dell’infanzia

Il numero di associazioni farmacogenetiche è aumentato nel corso degli anni. Dati per oltre 2000 geni coinvolti nella risposta ai farmaci sono stati annotati nel database PharmGKB (Tabb.  I-II). Presentia-mo, di seguito, una panoramica di studi di PGt condotti nell’ambito di trattamenti farmacologici di alcune delle condizioni infantili più comuni.

Disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADhD)

L’ADHD è un disordine multifattoriale caratterizzato da iperattivi-tà fisica e disinibizione comportamentale che emerge, in genere, durante infanzia o adolescenza e spesso persiste in età adulta. Il trattamento farmacologico più comune è la somministrazione di metilfenidato (MPH), con un tasso di risposta del 70% (Spencer et al., 1996). La PGt dell’ADHD è stata in gran parte orientata all’inda-gine sui geni del sistema delle catecolamine, bersagli farmacologi-ci dell’MPH. Come mostrato in Tabella I, diversi sono i polimorfismi genetici associati ad un’alterata risposta farmacologica. Tuttavia, nonostante l’elevato numero di studi in questo ambito, una de-finizione conclusiva non può essere ancora fornita. Una recente meta-analisi della letteratura ha mostrato che la maggior parte dei risultati ottenuti fino ad ora sono ingannevoli. L’unico dato po-sitivo è quello relativo al polimorfismo VNTR del gene DAT1, tra-sportatore della dopamina (Contini et al., 2012). Anche su questo punto, tuttavia, esistono risultati contrastanti. Alcuni autori hanno dimostrato una scarsa risposta all’MPH in individui omozigoti per l’allele con 10 ripetizioni (480 bp) del gene (Roman et al., 2002); altri riferiscono, per lo stesso allele, un miglior esito clinico (Kirley et al., 2003) o l’assenza di effetto sulla risposta al medesimo trat-tamento farmacologico (Langley et al., 2005).

figura 2. Regolazione dell’attività enzimatica del CYP3A durante l’ontogenesi.Le isoforme enzimatiche CYP3A4 e CYP3A7 hanno diverse specificità di substrato e ciò ha consentito il monitoraggio della loro attività durante l’ontogenesi. Il pannello A mostra l’attività del CYP3A4 valutata misurando l’idrossilazione 6β del testosterone. Il grafico mostra un livello di attività estremamente basso nel fegato fetale (meno del 10% dell’attività dell’adulto) con incremento progressivo dalla nascita, con valori pari al 30-40% di quelli riscontrati negli adulti in neonati di età compresa tra 8 giorni e 12 mesi. I livelli di attività degli adulti vengono raggiunti dopo 1 anno di età.Il pannello B mostra l’attività del CYP3A7 valutata misurando l’idrossilazione 16α deidroepiandrosterone. L’enzima CYP3A7 ha un livello di attività enzimatica rilevabile già a 50-60 giorni di età gestazionale; la sua attività comincia a declinare progres-sivamente dopo la prima settimana dalla nascita, raggiungendo livelli molto bassi (10 volte inferiore a quella del fegato fetale) negli adulti entro il primo anno di età (Adattata da Lacroix et al., 1997).

R. Russo, M. Capasso, A. Iolascon

46

Tabella I. Polimorfismi genetici in alcune condizioni comuni dell’infanzia.Gene PharmGKB

IDPolimorfismo

genetico

‡hGVS ID Localizzazione e funzione del polimorfismo

Effetti biochimici e clinici

§PMID

Disturbo da deficit di attenzione/ iperattività (ADHD)DRD4 PA27480 VNTR

(2-11 repeats)– regione codificante (48 bp

sequence)Gli alleli più corti (2-4 ripetizioni) hanno una riduzione della risposta alla dopamina

1319557; 17979513; 19336242

DAT1 PA311 VNTR(3, 9-10 repeats)

– 3’UTR (40 bp sequence)

L’omozigosità per allele di 480 bp (10 ripetizioni) è associata con scarsa risposta al MPH

10596245; 12172219; 18563707;

77174105-HTT PA312 DIP

(rs12720056) – promotore

(da -1212 a -1255)La delezione di 44 bp riduce i livelli di espressione del gene

11425009; 18200432;

8632190SNAP-25 PA35980 SNP

(rs3746544)NM_003081.2: c.*239G>T NM_130811.1: c.*239G>T

3’UTR(1065 T>G)

L’allele T migliora la risposta alla dose standard di MPH

15950004; 17023870

COMT PA117 SNP (rs4680) NM_000754.2: c.472G>A regione codificante (Val158Met) L’allele Val o il genotipo Val/Val esibisce una risposta migliora al MPH

18214865

ADRA2A PA35 SNP (rs1800544)

NT_030059.12: g.31585029G>C

promotore (-1291 dall’ATG) L’allele G migliora gli effetti del MPH su sintomi di disattenzione dopo 1 mese di trattamento

17283289; 18200436

AsmaADRB2 PA39 SNP

(rs1042713) NM_000024.4: c.46G>A regione codificante (Arg16Gly) L’allele Arg migliora la risposta all’albuterolo 9399966;

10340917SNP (rs1042714)

NM_000024.4: c.79G>C regione codificante (Gln27Glu) Nessuna associazione con la risposta all’albuterolo

AC9 PA30 SNP (rs2230739)

NM_001116.2: c.2316A>G

regione codificante (Ile772Met) L’allele Met migliora la risposta all’albuterolo 15879435

CRHR1 PA26874 SNP (rs242941) NM_004382.3: c.122-1310C>A

introne L’allele G migliora la funzione polmonare in risposta ai corticosteroidi inalati

15128701; 19210659

TBX21 PA36362 SNP (rs2240017)

NM_013351.1: c.99C>G regione codificante (His33Gln) L’allele Gln potenzia gli effetti dei corticosteroidi per via inalatoria sulla reattività delle vie aeree

15604153

LTC4S PA235 SNP (rs730012) NT_023133.12: g.24030224A>C

promotore (-444 dall’ATG) All’allele C si associa una riduzione del rischio di esacerbazione dell’asma

10992553; 14520724

CYSLTR1 PA38453 SNP (rs320995) NM_006639.2: c.927C>T regione codificante (Phe309Phe) L’allele C è associato ad asma persistente nei maschi

19080797

ALOX5 PA46 DIP (rs71921156)

– 5’ a monte del gene (-/GGGCGG) L’omozigosità per gli alleli mutanti (3,4,6 ripetizioni in tandem) riduce la risposta di funzionalità polmonare al trattamento con ABT-761 che significa?

10369259; 12911785; 10369259

ORMDL3 PA32821 rs7216389 NM_001042471.1: c.236-1199G>A

locus che controlla l’espressione genica

L’allele T è associato al rischio di esacerbazioni dell’asma

17611496; 18395550

Leucemia linfoblastica acuta (ALL)TPMT PA356 SNP

(rs1800462) NM_000367.2: c.238G>C regione codificante (Ala80Pro) Gli alleli TPMT*2, TPMT*3A e TPMT*3C hanno

bassa o intermedia attività enzimatica con conseguente alto rischio di grave tossicità ematopoietica dopo trattamento con tiopurine

1973780; 9103127; 16491071SNP

(rs1800460) NM_000367.2: c.460G>A regione codificante (Ala154Thr)

SNP (rs1142345)

NM_000367.2: c.719A>G regione codificante (Tyr240Cys)

GSTT1 PA183 GSTT1*0 – Deletion Perdita di attività enzimatica 9298582GSTM1 PA182 GSTM1*0 – Deletion Perdita di attività enzimatica 9298582;

9057653GSTP1 PA29028 SNP (rs1695) NM_000852.3: c.313A>G regione codificante (Ile105Val) L’allele Ile determina elevata clearance degli

etoposidi negli Afro-Americani trattati con steroidi

15862746; 12969965

MTHFR PA245 SNP (rs1801133)

NM_005957.3: c.665C>T regione codificante (Ala222Val) L’allele Val è una variante a ridotta funzione (30%), associata ad aumentata epatotossicità in seguito a trattamento con MTX

7647779; 10536004; 11418485; 11274424 SNP

(rs1801131)NM_005957.3: c.1286A>C

regione codificante (Glu429Ala) L’allele Ala è una variante a ridotta attività, che tuttavia non altera gli effetti del MTX

GGH PA432 SNP (rs115450789)

NM_003878.1: c.452C>T regione codificante (Thr151Ile) L’allele Ile si associa ad una ridotta attività catalitica (67%)

16491071

Deficit dell’ormone della crescita (GHD)GHR PA28674 GHRfl

(NM_000163)– isoforma full lenght All’isoforma GHRd3 è associata una velocità

di crescita maggiore nel primo anno di terapia sostitutiva con hGH

10764769; 15208626; 16291702

GHRd3 (AF210633)

– isoforma deleta dell’esone 3

SNP, polimorfismo di singolo nucleotide; DIP, polimorfismo di delezione/inserzion; VNTR, variazione del numero di copie in tandemMPH, metilfenidato; MTX, metotrexato; hGH, GH ricombinante umano, ABT-761, inibitore di seconda generazione della 5-lipossigenasi‡ Numero identificativo del database Human Genetic Variation Society§ Numero identificativo del database Pubmed

Farmacogenetica e farmacogenomica in pediatria: stato dell’arte e prospettive future

47

Deficit dell’ormone della crescita (GhD)

La terapia sostitutiva con l’ormone della crescita (GH) è la terapia standard per i bambini con bassa statura da deficit di GH (GHD). Il trat-tamento usuale è effettuato con dose fissa di GH ricombinante umano (hGH), normalizzata per peso o superficie corporea (Jorge et al., 2006). Nell’uomo, le due isoforme più comuni di recettore del GH (GHR) sono generate dalla ritenzione (GHRfl) o dalla delezione dell’esone 3 (GHRd3). Queste isoforme sono ampiamente distribuite nell’uomo, con una frequenza del 68-75% per la forma GHRfl e 25-32% per GHRd3 (Pantel et al., 2000). Nel 2004, uno studio condotto su due gruppi di 76 e 96 bambini di origine europea, con bassa statura idiopatica o nati piccoli per l’età gestazionale, ha dimostrato che pazienti con almeno un allele GHRd3 presentano un incremento della crescita, indotta da hGH, di 1.7-2 volte in più rispetto a pazienti omozigoti per l’isofor-ma GHRfl (Dos Santos et al., 2004). Queste osservazioni sono state confermate in alcuni ma non in tutti gli studi, quindi non è chiaro al momento se l’isoforma GHRd3 di fatto comporti una maggiore rispo-sta al GH. È stato anche dimostrato un migliore outcome nei pazienti portatori dell’allele GHRd3 nel trattamento a lungo termine con hGH; questo rappresenta un buon esempio nell’ambito degli studi di PGt, dal momento che pochi sono i dati in letteratura su effetti di varianti genetiche nei trattamenti a lungo termine.

Leucemia linfoblastica acuta (ALL)

La medicina personalizzata è un campo particolarmente appealing per gli oncologi a causa della gravità degli eventi avversi o del ri-schio di mortalità associato alla non-risposta ai chemioterapici. Gli agenti antitumorali dovrebbero essere somministrati a dosi ottimali per aver la maggior possibilità di cura; tuttavia, spesso sono som-ministrati a dosi prossime ai livelli di tossicità e mostrano ampia variabilità di biodisponibilità e di effetti tra i pazienti. Il cancro è la principale causa di morte per malattia nei bambini tra 1 e 15 anni (Cheok, 2006). L’ALL rappresenta circa il 25% di tutti i tumori pe-diatrici. Nonostante i significativi progressi nel trattamento, il tasso di sopravvivenza, libera da eventi, a lungo termine è attualmente l’80%, con il 20% dei pazienti non rispondente alla terapia standard. Uno degli esempi più studiati nella PGt della ALL è quello dei poli-morfismi della tiopurina metiltransferasi (TPMT) associati a tossicità della mercaptopurina. Anche se ben 23 varianti alleliche sono state identificate nel gene TPMT (Ujiie et al., 2008), 3 tra esse rappresen-tano il 95% di alleli a bassa o intermedia attività enzimatica (Tab. I): pazienti con ridotta attività enzimatica sono a rischio elevato di gra-ve tossicità ematopoietica, se trattati con dosi convenzionali di tio-purine, necessitando di una riduzione della dose di più del 90%; gli eterozigoti, invece, hanno un rischio intermedio e potrebbe essere necessaria una riduzione minore della dose (35-50%) (Cheok et al., 2006). Altri geni coinvolti nella terapia dell’ALL sono quelli codifican-ti gli enzimi della famiglia glutatione-S-transferasi (GST), i cui poli-morfismi sono stati associati ad aumentata tossicità. I polimorfismi degli enzimi GSTM1, GSTT1 e GSTP1, riassunti in Tabella I, spaziano da delezioni geniche, con conseguente perdita di attività enzimatica, a sostituzioni nucleotidiche che ne riducono l’attività. Il metotrexato (MTX) è un altro chemioterapico ampiamente usato nel trattamento dell’ALL, metabolizzato dall’enzima metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR). Circa il 10% dei caucasici esibisce una variante genetica dell’MTHFR (Ala222Val), che codifica per una proteina con ridotta attività enzimatica (30%), correlata ad epatotossicità dopo tratta-mento. Al contrario, la variante Glu429Ala esita in un enzima a ri-dotta funzione, che tuttavia non sembra avere effetti sulla risposta al MTX (Tab. I).

Asma

L’asma è la malattia cronica più comune tra i bambini. Nel 2002, il numero di affetti è stato stimato intorno a 30 milioni negli Stati Uniti, tra cui 122/1000 bambini (Mattke et al., 2009). I farmaci agonisti del recettore adrenergico b2 (ADRB2) sono i più utilizzati nel trattamen-to dell’asma: è stato dimostrato che un comune polimorfismo nella regione codificante del gene ADRB2 influenza la risposta alla tera-pia con albuterolo (Tab. I). Bleecker e colleghi hanno recentemente testato l’effetto di questo polimorfismo sulla risposta alla terapia in due studi randomizzati, su 2250 e 405 asmatici, rispettivamente. I risultati hanno mostrato assenza dell’effetto farmacogenetico della variante in pazienti trattati con corticosteroidi e β2-agonisti (Blee-cker et al., 2007). Questo è uno dei pochi esempi di applicazione della PGt negli studi clinici su popolazione infantile, e sottolinea il problema delle piccole dimensioni del campione negli studi di as-sociazione caso-controllo, che porta spesso a risultati falsi positi-vi o negativi. Le altre due modalità di trattamento dell’asma sono i corticosteroidi e gli antagonisti dei leucotrieni e polimorfismi dei geni (CRHR1, LTC4, ALOX5) coinvolti nel loro regolazione sono stati descritti (Tab. I). Tuttavia, anche in questo campo sono stati riportati risultati contraddittori. Per esempio, il polimorfismo del promotore del gene LTC4S (-444 A>C) è stato associato, in alcuni studi, ad un ridotto rischio di riacutizzazioni rispetto a individui omozigoti per l’allele wild type (Tab. I), laddove in altri studi questa osservazione non è stata confermata (Kedda et al., 2004).

Il mondo “omico”: genomica, trascrittomica, mIRnomica, proteomica e metabonomica negli studi di farmacogenetica e farmacogenomicaLa comprensione della multifattorialità della risposta ai farmaci ha aper-to la strada agli studi di genomica, ovvero l’analisi del genoma in termini di struttura, contenuto, funzione ed evoluzione. La disponibilità di tec-nologie high throughput di analisi del DNA, SNP-array in primis e NGS (next-generation sequencing) più di recente, ha consentito di sviluppare banche dati pubbliche, quali il progetto HapMap e 1000 Genomes ri-spettivamente, contenenti informazioni sulle variazioni di sequenza del DNA (Tab.  II). La creazione di questi database ha fornito a genetisti e clinici un potente ed efficace strumento per identificare varianti del DNA che contribuiscono all’espressione fenotipica e alla variabilità interindi-viduale. Gli studi di PGx attuali sono stati progettati per identificare va-rianti genetiche comuni, specialmente SNP, a basso impatto sulla deter-minazione del fenotipo, pur rappresentando il 30-50% della variabilità interindividuale osservata nella risposta ai farmaci. Una valutazione più approfondita del contributo di varianti genetiche sulla risposta ai farma-ci potrebbe essere realizzata utilizzando i dati genotipici più completi forniti dal progetto 1000 Genomi. In particolare, data la dimensione del campione in esame, questi dati potrebbero permettere l’identificazione di alcune varianti rare ma ad alta penetranza, ovvero con effetti fenotipi-ci importanti (Zhang et al., 2010).La trascrittomica si riferisce allo studio di tutti i trascritti genici, analiz-zati mediante microarray di espressione. Tali studi, basati su approcci di analisi globale, consentono da un lato di valutare geni modulati du-rante i trattamenti farmacologici, portando così all’identificazione di nuovi bersagli terapeutici, dall’altro possono determinare l’aumento di falsi positivi (cioè, geni poco rilevanti, identificati per caso). La limi-tazione principale degli studi microarray è la disponibilità della fonte appropriata di campione biologico, sangue, escreti o tessuti in cui si-ano espressi i trascritti pertinenti, nonché il limite etico connesso allo studio su tessuti di individui sani.

R. Russo, M. Capasso, A. Iolascon

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L’analisi del trascrittoma è complementare alla genomica, portando all’identificazione di SNP che modulano l’espressione di geni corre-lati alla risposta farmacologica. Questa idea ha portato alla costru-zione di banche dati pubbliche, come SNPexp, che correla i dati dei polimorfismi genetici annotati in HapMap con l’espressione genica relativa (Tab II).Lo studio dei profili di espressione dell’intero spettro di microRNA in un dato genoma è definito miRNoma. I microRNA (miRNA) sono piccoli RNA non codificanti, evolutivamente ben conservati, definiti “micro-managers dell’espressione genica”; esplicano la loro fun-zione di inibitori della traduzione proteica e di destabilizzazione degli RNA messaggeri (mRNA), legandosi alla 3’-UTR dei loro mRNA ber-saglio (Selbach et al., 2008).La PGx dei miRNA rappresenta un nuovo e promettente campo di ricerca scientifica per lo sviluppo della medicina personaliz-zata ed è definita come lo studio di polimorfismi che interfe-riscono con la funzione dei miRNA con conseguente perdita di regolazione di geni target farmacologici, conferendo resistenza ai trattamenti terapeutici (Mishra et al., 2009). La PGx dei miRNA ha forti implicazioni cliniche, soprattutto nell’ambito dei tumori, poiché i miRNA sono differenzialmente espressi nelle cellule ma-ligne e regolano l’espressione di molte proteine importanti per la funzione cellulare. L’interesse crescente per questo ambito di ricerca ha portato allo sviluppo di banche dati come PolymiRTS, un database di SNP che alterano putativi siti di legame miRNA-mRNA (Tab II).

La proteomica, ovvero lo studio di tutte le proteine codificate dal genoma, ha avuto successo in diversi settori della ricerca di base. Sebbene sia stata stimata una media di circa 3 proteine umane per ciascun gene (Xing et al., 2004), il numero reale sembra essere mol-to più elevato. La proteomica, come la trascrittomica, presenta gli stessi limiti di disponibilità di campione da analizzare. Da questo punto di vista, diversa è la situazione delle analisi condotte sul me-tabonoma.La metabonomica si riferisce allo studio del profilo dei metaboliti (Plumb et al., 2002). Il metabonoma rappresenta un sistema integra-to di risposta, in tempo reale, a tutti gli stimoli endogeni ed esogeni e potrebbe fornire un mezzo estremamente sensibile per seguire il fenotipo di un singolo paziente in funzione dell’età, stato nutrizionale, corso della malattia o terapia, in particolare nei bambini, poiché la capacità di risposta ai farmaci può essere diversa a seconda dell’età. Questa tecnica offre grandi promesse nella terapia farmacologica per-sonalizzata. La metabonomica potrebbe essere considerata analoga ad un’analisi del “profilo epatico” in patologia clinica, fatta eccezione per la maggiore sensibilità che la caratterizza, avendo la capacità di misurare metaboliti presenti a concentrazioni molto basse.

Conclusioni

Farmacogenetica e farmacogenomica rappresentano ambiti di stu-dio promettenti per la terapia farmacologica individualizzata. La loro traslazione nella pratica clinica è piuttosto lenta, sia per le malattie

Tabella II. Banche dati per l’annotazione di polimorfismi genetici e interazioni farmacologiche.

Database Contenuti PMID

HapMap Progetto internazionale che ha come scopo l’identificazione e la catalogazione dei polimorfismi genetici in diverse popolazioni del globo. Tali informazioni, contenute in un dominio pubblico, sono di supporto per l’identificazione di geni-malattia o coinvolti in risposte individuali ai farmaci.http://hapmap.ncbi.nlm.nih.gov/

20811451

1000 Genomes Il primo progetto di sequenziamento dell’intero genoma di un gran numero di individui (1092), nato allo scopo di fornire una risorsa completa sulle variazioni genetiche umane. L’obiettivo principale del progetto è stato quello di identificare varianti genetiche rare (al di sotto dell’1%) in diverse popolazioni. Tale progetto si è avvalso delle recenti tecnologie di Next Generation Sequencing (NGS) cosa vuol dire questa abbreviazione?http://www.1000genomes.org/home

23128226

SNPexp Rappresenta uno strumento per calcolare e visualizzare la correlazione tra i genotipi di polimorfismi, annotati in HapMap, e i livelli di espressione genica associati ad essi, annotati nel database GENEVAR.http://app3.titan.uio.no/biotools/tool.php?app=snpexp

21167019

PolymiRTS Si tratta di una banca dati di SNP che cadono in siti di legame di miRNA, predetti o identificati sperimentalmente, andando ad alterare l’espressione del gene miRNA-mediata.http://compbio.uthsc.edu/miRSNP/

22080514

PharmGKB Si tratta di una fonte di annotazioni nell’ambito della PGx e PGt, tra cui indicazioni per il dosaggio farmacologico, associazion gene-farmaco e relazioni genotipo-fenotipo. PharmGKB raccoglie, cura e diffonde la conoscenza circa l’impatto della variabilità genetica umana sulla risposta ai farmaci.http://www.pharmgkb.org/

11908751

PACdb Database di farmacogenomica cellulare, che rende disponibili le relazioni tra SNP, espressione genica e sensibi-lità cellulare a diversi farmaci in modelli cellulari, per aiutare a determinare le varianti genetiche associate alla risposta ai farmaci.http://www.pacdb.org/

20216476

DTome Si tratta di un network finalizzato allo studio della relazione tra farmaci, interazioni avverse, bersagli farmacologici, proteine e geni che interagiscono con i target farmacologici.http://bioinfo.mc.vanderbilt.edu/DTome/

22901092

SNP, polimorfismo di singolo nucleotideNGS, sequenziamento di nuova generazionePGx, farmacogenomicaPGt, farmacogenetica

Farmacogenetica e farmacogenomica in pediatria: stato dell’arte e prospettive future

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dell’età adulta che per quelle infantili. Gli studi di PGt e PGx mo-strano spesso risultati contraddittori, che riflettono metodi di ricerca incoerenti, campioni di piccole dimensioni, assenza di studi-replica e di misure standardizzate dei risultati o scarsa considerazione di potenziali covariate come la co-morbilità. La creazioni di databa-se pubblici (Tab II) potrebbe portare all’identificazione di nuovi geni nonché di determinanti poligenici della risposta ai farmaci.L’applicazione di approcci di PGt e PGx per il trattamento di malattie pediatriche richiede un’attenta valutazione dei cambiamenti dina-mici dell’espressione genica che accompagnano le fasi di crescita. Se da un lato la PGt può essere considerata simile negli adulti e nei bambini, dall’altro la definizione di “farmacogenomica” come studio di interazioni tra geni che contribuiscono a determinare la risposta ai farmaci è particolarmente interessante nel contesto pediatrico,

poiché questa definizione coglie l’essenza dei processi evolutivi che caratterizzano lo sviluppo, dalla nascita fino alla età adulta. I pro-gressi in questo campo sono, tuttavia, piuttosto lenti dal momento che gli studi clinici nella popolazione pediatrica sono complicati dal-la disponibilità di un numero limitato di pazienti, da restrizioni sul volume del campione biologico da prelevare, nonché da problemi etici connessi con il consenso allo studio. La mancanza di dati nei bambini, congiuntamente alle ben note differenze nella farmacoci-netica e nella farmacodinamica rispetto agli adulti, rende la scelta di adeguati regimi di dosaggio alquanto empirica.L’ambizione per il futuro è che le innovazioni apportate nel campo della PGt e della PGx possano essere traslate nella pra-tica clinica mediante la realizzazione di trials clinici randomiz-zati controllati.

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** Questo case report è uno degli esempi di reazione avversa ai farmaci letale dovuta ad un polimorfismo, molto frequente in alcune popolazioni, dell’enzima metabolizzatore CYP2D6.

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* Questa review illustra, in maniera esaustiva, i metodi di indagine farmacoge-netica, i suoi limiti e i suoi vantaggi, ponendo l’accento sullo sviluppo di farmaci in ambito pediatrico.

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Che cosa si sapeva primaLa risposta ai trattamenti farmacologici, misurata in termini di efficacia della terapia o dell’insorgenza di eventi avversi, risulta variabile da un individuo all’altro.La risposta al trattamento farmacologico è condizionata, in maniera analoga a tutti i fenotipi complessi, da una serie di aspetti, quali ambiente, dieta, età, sesso, stile di vita, stato socio-economico. Oltre ai fattori non-genetici, essa risente dell’influenza di molti geni “predisponenti”: è in tal senso un tratto multifattoriale.L’attività di diversi enzimi metabolizzatori varia durante lo sviluppo e ciò spiega le differenze farmaco-cinetiche e -dinamiche tra adulti e bambini.

Cosa sappiamo adessoUn numero sempre crescente di studi di farmacogenetica e farmacogenomica ha correlato la variabilità della risposta farmacologica a polimorfismi genetici in geni coinvolti nel metabolismo dei farmaci.Tuttavia, tali studi mostrano spesso risultati contraddittori, sottolineando ancora l’inadeguatezza di talune ricerche in questo settore.La maggior parte degli studi di PGt e PGx è condotta su popolazioni adulte. Di contro, poca attenzione è stata riservata alla popolazione pediatrica.

Quali ricadute sulla pratica clinicaLa conoscenza approfondita del background genetico di un individuo potrebbe essere la chiave per la realizzazione della medicina personalizzata, che mira a massimizzare l’efficacia di un farmaco riducendone al minimo gli eventi avversi.Sono ancora pochi gli studi di PGt che hanno una ricaduta nella pratica clinica; l’ambizione per il futuro è che le innovazioni apportate in questo ambito vengano traslate nella pratica mediante la realizzazione di trials clinici randomizzati controllati.

Box di orientamento

R. Russo, M. Capasso, A. Iolascon

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Achille Iolascon, CEINGE - Biotecnologie Avanzate, Via Gaetano Salvatore 486, 80145 Napoli. Tel. +39 081 3737898. Fax +39 081 3737804. Email: [email protected]

Corrispondenza

Gennaio-Marzo 2013 • Vol. 43 • N. 169 • pp. 51-59 tavola rotonda

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Fabio Sereni (Milano): Desidero aprire questa Tavola Rotonda con una considerazione non solo necessaria e doverosa, ma anche affettuosa.Moderatore ideale di questa Tavola Rotonda sarebbe stato il professor Antonio Cao, che voi tutti sapete è mancato pochi mesi orsono. Antonio Cao è stato, infatti, il vero precursore, in Italia, della necessità di un collegamento organico, in pediatria,tra ricerca di base e ricerca clinica. Appena nominato Direttore, nella sua Sardegna, di una Clinica Pediatrica Universitaria ha creato intra-moenia un laboratorio di ricerca di base e, extra-moenia, una ricerca CNR strettamente collegata alla clinica. Antonio Cao era fermamente convinto che nella formazione culturale del pediatra moderno fossero essenziali le nozioni che sono alla base dei meccanismi patogenetici.Infine Antonio Cao ha creato e diretto, per più di 25 anni, la rubrica di Prospettive in Pediatria denominata Frontiere, che ha sempre voluto essere una necessaria fonte di infor-

mazione per i pediatri dei progressi in ricerca traslazionale. Questa Tavola Rotonda vuole quindi anche essere un omaggio alla sua memoria e al suo modo di concepire la cultura pediatrica.Ringrazio i relatori che hanno accettato di partecipare, anche perché davvero rappresentano la eccellenza nella ricerca pediatrica italiana, ognuno nel suo campo. E ringrazio anche il numeroso pubblico in sala, con tanti giovani ricercatori. Molti importanti aspetti del rapporto tra ricerca di base e ricerca clinica dovranno oggi essere discussi.Chiedo quindi ai relatori il massimo di concisione e concretezza, per potere giungere a conclusioni valide sul piano della politica della ricerca, e anche della formazione dei pediatri del futuro.Sono qui presenti due Direttori della Ricerca di due importanti istituzioni, e cioè Maria Grazia Roncarolo del San Raffaele e Bruno Dallapiccola del Bambino Gesù, istituzioni nelle quali ricerca di base e ricerca clinica pediatrica da tempo coesistono e hanno prodotto molto bene, secondo ogni obiettiva valutazione. Chiederei a loro di inquadrare il problema, e anche di rispondere alla domanda di come vedono la possibilità che ricerca pediatrica avanzata possa essere condotta anche in quelle istituzioni che non hanno le stesse grandi potenzialità di laboratorio, di strumentazioni e di competenze simili a quelle che loro oggi dirigono.

La parola, per prima a Maria Grazia Roncarolo.

Maria Grazia Roncarolo (Milano): Desidero ini-ziare il mio intervento con una breve premessa. Affinché oggi una istituzione possa svolgere ricerca biomedica eccellente sono necessari: a) una massa critica di ricercatori con com-petenze complementari che garantiscano co-stanti interazioni, discussioni, interscambi di idee e di cultura (la cross-fertilization dei saperi); b) le strutture dedicate alla ricerca che permettono ai singoli istituti/università di essere competitivi

ed in grado di “attrarre cervelli”. c) le risorse finanziarie adeguate. Non vi è dubbio che su questo ultimo punto il nostro Paese appare in chiara difficoltà. Infatti, a fronte di un numero di ricercatori più che adeguato ed a una produttività scientifica di tutto rispetto, l’Italia non ha finanziamenti sufficienti. Infatti è tra gli ultimi paesi europei dell’OCSE in termini di finanziamenti a ricerca e sviluppo con un in-vestimento inferiore all’’1% del prodotto interno lordo (solo la Grecia e il Messico destinano alla ricerca meno fondi di noi).Soddisfatti questi preliminari requisiti è però anche necessario che i medici ricercatori siano motivati e che sia chiaro il focus della ricerca.

La motivazione del medico pediatra ad intraprendere la carriera del ricercatore è il primo grande problema, oggi, in Italia. Io credo for-temente che i ricercatori italiani abbiano una marcia in più rispetto a molti stranieri, nonostante le palesi carenze organizzative e strut-turali, ma manca loro la certezza che verranno valutati in rapporto ai risultati ottenuti e che la loro competenza di medici ricercatori verrà valorizzata dal sistema. Inoltre, in Italia manca la creazione e la definizione di un iter di formazione e di carriera per i medici ricercatori. Penso in particolare alla necessità di unificare il percor-so dottorato di ricerca e specializzazione clinica post-laurea al fine di formare dei physician scientists in grado di dedicarsi a ricerche traslazionali che hanno come obiettivo primario la messa a punto di nuove approcci diagnostici e terapeutici basati sui risultati della ricerca di laboratorio. Vi è infine la necessità che sia sempre chiaro il focus della ricerca. In particolare per le istituzioni di medie e piccole dimensioni è fonda-mentale specializzarsi e focalizzarsi su tematiche precise, creando al proprio interno tutte le competenze necessarie per alimentare la filiera della ricerca traslazione: dal letto del malato al bancone del laboratorio per ritornare al letto del malato.

ricerca traslazionale e ricerca clinica in pediatria tavola rotondaGiornate “Giovani” di pediatria (Napoli, 10 dicembre 2012)

a cura di Fabio Sereni

Professore Emerito di Pediatria, Università degli Studi di Milano

Università Vita-Salute San Raffaele, Milano

a cura di Fabio Sereni

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Fabio Sereni: Grazie, Maria Grazia. hai esposto con grande lucidità le premesse necessarie affinché una moderna ricer-ca, che parta dalla fisiopatologia e arrivi alla clinica possa essere condotta. Ma io ti avevo anche chiesto di dirci se a tuo avviso, possa essere possibile fare ricerca pediatrica avanzata anche in strutture di minori dimensioni, rispetto, ad esempio al San Raffaele ove tu operi.

Maria Grazia Roncarolo: È chiaro che chi lavora in grandi isti-tuti scientifici come il San Raffaele ha molti vantaggi non solo perché l’istituzione fornisce gli elementi di cui sopra, ma anche perché può accedere a tecnologie di avanguardia che danno al ricercatore tutti gli strumenti necessari per svolgere il proprio lavoro. L’Istituto scientifico San Raffaele è il primo istituto in Italia in termini di pubblicazioni medico-scientifiche e studi clinici speri-mentali: grazie alla sua struttura multidisciplinare, alle tecnologie disponibili e all’interazione continua tra i ricercatori e i clinici delle diverse aree mediche è diventato negli anni un punto di riferimento, anche oltre i confini nazionali, per la cura di diverse patologie pedia-triche, tra cui le malattie genetiche, le malattie neurodegenerative e il diabete. Allo studio e cura di queste patologie si dedicano in ma-niera specifica l’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (HSR-TIGET), l’Istituto di Neurologia Sperimentale (INSPE), e l’Istituto di Ricerca sul Diabete (DRI), esempi di strutture mirate alla ricerca traslazione riconosciute a livello internazionale.L’HSR-TIGET, rappresenta un centro di eccellenza per la ricerca di base e clinica in terapia genica e cellulare. I ricercatori sono impe-gnati nella scoperta delle cause genetiche delle malattie rare e nel-lo sviluppo di nuove strategie di cura, che comprendono la terapia genica, l’utilizzo di cellule staminali, e la modulazione del sistema immunitario. Il lavoro al HSR-TIGET si focalizza in particolare sulle malattie genetiche del sangue, del sistema immune e del sistema lisosomiale.Un successo del HSR-TIGET, che è stato portato ad esempio in tutto il mondo, è lo studio clinico di terapia genica per i bambini malati di ADA-SCID, i cosiddetti “bambini bolla”. Le cellule staminali del san-gue del paziente sono state corrette in laboratorio con il gene sano e successivamente trapiantate nel piccolo malato, portando alla cura definitiva. I bambini così trattati oggi vanno a scuola e fanno una vita normale. L’INSPE, si occupa di malattie neurologiche infiammatorie, degene-rative e vascolari. Un team di neurologi, genetisti, patologi e biologi è appositamente dedicato alle malattie neuromuscolari rare che col-piscono la popolazione pediatrica. Le specifiche competenze per-mettono un approccio integrato per la diagnosi, la caratterizzazione clinica e il supporto terapeutico ai pazienti, anche nelle forme più rare. L’attività di ricerca ha lo scopo di identificare le cause delle neuropatie genetiche e di mettere a punto terapie innovative. È in corso uno studio clinico, il primo al mondo, con cellule staminali adulte generate in laboratorio che ha lo scopo di rigenerare i muscoli nei bambini affetti da distrofia muscolare di Duchenne. Il DRI studia i meccanismi responsabili del diabete di tipo 1 e si oc-cupa della messa a punto di terapie avanzate in grado di ripristinare la tolleranza immunologica. Inoltre, ha un programma di trapianto di isole tra i primi al mondo in termine di numero di pazienti trattati ed efficacia della cura.La domanda se il medico ricercatore che opera in strutture mol-to più piccole del San Raffaele e non dotate di tutte le infrastrut-ture, possa ottenere gli stessi risultati ed essere efficace nella sua ricerca è quindi molto pertinente. Infatti, dobbiamo ricono-scere che oggi non è più possibile svolgere la propria ricerca in

isolamento, in un piccolo laboratorio artigianale come succede-va 50-60 anni fa. Con la completa decodificazione del genoma gli scienziati hanno avuto a disposizione, quasi da un giorno all’altro, un numero enorme di informazioni genetiche, una moltitudine di dati da analizzare e da interpretare. Questo evento storico ci ha costretto a voltare pagina, a trovare una nuova metodologia per affrontare i problemi scientifici in modo più complesso e quindi più completo: non più un gene, ma una moltitudine di geni che determinano la firma molecolare (molecular signature) di un tessuto biologico, di un organo o di un individuo, non più una singola proteina ma una cascata (pathway) di proteine che regolano interi sistemi biologici. Questa new wave della ricerca biomedica richiede attività su scala molto più ampia rispetto al passato, perché deve basarsi sulla uti-lizzazione di tecnologie avanzate e di approcci complessi, quali ad esempio lo studio dell’intera struttura genetica (wide genome scree-ning), l’analisi complessiva delle proteine (proteomica), l’utilizzo di piccoli RNA prodotti dalle cellule per regolare l’espressione delle proteine (microRNAs), l’imaging in vivo delle cellule e dei tessuti, la bioinformatica, le nanotecnologie, i modelli sperimentali per l’accen-sione o spegnimento regolato di un singolo gene (modelli knock-in e knock-out) etc. È quindi necessario un approccio multidisciplinare e un vero gioco di squadra, in cui i ricercatori di base devono lavorare fianco a fianco con i ricercatori clinici, ma anche con gli statistici, i fisici, etc.L’obiettivo finale non è solo l’avanzamento delle conoscenze, ma anche la realizzazione della medicina personalizzata. La figura del medico ricercatore, ponte tra la ricerca e la clinica, e la ricerca traslazionale, ponte tra il letto del malato e il bancone del labo-ratorio, sono sempre più centrali in questo approccio multidi-sciplinare, che necessita della costante interazione e confronto tra modelli sperimentali e modelli umani di malattia. Sulla base di questa visione, nei prossimi anni i piccoli centri o laboratori basati sull’eccellenza dei singoli e l’iniziativa individua-le dovranno fare scelte strategiche mirate. Dovranno attrezzarsi e organizzarsi in networks su tematiche specifiche. Dovranno fare sistema e gioco di squadra. Solo così potranno rimanere produttivi e contribuire alla ricerca biomedica di eccellenza.

F.S.: Grazie, professoressa. Il tuo argomentare è stato soprat-tutto, a mio modo di vedere, un invito ai giovani ricercatori che non operano in grandi strutture, a lavorare “in rete”Sentiamo ora sulle stesse problematiche, Bruno Dallapiccola, Direttore Scientifico del Bambino Gesù.

Bruno Dallapiccola (Roma): Vorrei tentare di rispondere al quesito posto dal moderatore ricor-dando due recenti episodi. Il primo riguarda un’audizione dei mesi scorsi presso il Senato dove, insieme ad altri colleghi, siamo stati chiamati a discutere una proposta di legge di una senatrice della Lega, che ipotizza-va di creare in ogni regione italiana un centro di farmacogenetica, gestito dai farmacologi. L’altro episodio, più recente, riguarda una presa di po-

sizione del Parlamento francese, che ha ipotizzato di creare su tut-to il territorio nazionale due centri per le analisi genomiche. Questi due modelli di splitting (suddivisione) e di lumping (accorpamento), esemplificano modi antitetici di non razionalizzare o di razionalizzare e di non economizzare o di economizzare le risorse nella traslazione nella pratica clinica alcune delle più significative tecnologie “-omi-che”.

Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma

Tavola roTonda

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Ho il privilegio di lavorare presso il più grosso Ospedale pediatrico italiano, che è classificato come Istituto di Ricovero e Cura a Carat-tere Scientifico (IRCCS), e che, di conseguenza, è chiamato ad assol-vere alla missione istituzionale di offrire eccellenza nella assistenza e nella ricerca traslazionale. All’interno del nostro complesso progetto di ricerca gli interessi ap-paiono specificamente focalizzati verso la genetica. Infatti, alcuni rilievi statistici suggeriscono che addirittura il 71% dei pazienti che accedono ai policlinici pediatrici siano affetti da una patologia gene-ticamente determinata o a larga componente genetica (McCandless et al., 2004). Partendo da questa premessa, vorrei tentare di rispondere al quesito che mi è stato posto, richiamando una mia recente presentazione tenuta presso il Centro internazionale di studi e formazione dell’Isti-tuto Gaslini, che ho provocatoriamente intitolato “Al di qua e al di là del genoma”. Viviamo, da medici e ricercatori, un momento particolarmente sti-molante del progresso scientifico, quello della “rivoluzione geneti-ca”, avviata dal sequenziamento del genoma umano, e dobbiamo riuscire a coglierne le potenziali ricadute sulla diagnosi, sul controllo e il trattamento delle malattie e, in generale, sulla capacità di inci-dere sul benessere e sulla qualità della vita delle persone. Indipen-dentemente dallo specifico ruolo e dalla posizione che occupiamo, per il solo fatto di essere medici abbiamo l’obbligo di comprendere le tendenze della ricerca, non rinunciando, ognuno per la propria competenza, a prendere parte attiva al dibattito collegato a questo processo di trasformazione, destinato ad investire traslazionalmente la salute e l’economia, con riflessi di tipo legale, sociale ed etico. Tuttavia, questa proiezione verso il futuro non può non tenere conto dei traguardi dai quali ci muoviamo, per evitare che l’attenzione, eccessivamente orientata verso gli obiettivi non ancora raggiunti o non ancora validati, faccia perdere di vista alcuni capisaldi della professione medica. In questo contesto credo non sia difficile rispondere al quesito del moderatore e identificare il ruolo, per nulla marginale, che compete ai ricercatori pediatri che lavorano presso strutture che non offrono le stesse potenzialità delle istituzioni più grandi, come quella presso la quale svolgo la mia attività. In particolare, ritengo che esistano almeno tre ambiti principali nei quali essi possono svolgere un ruolo di impatto. Il primo è quello clinico; il secondo è quello “di nicchia”; il terzo, forse, il più importante, è quello delle alleanze strategiche. Per questo, anche a fronte della eccitazione che producono gli ap-procci altamente innovativi all’analisi genomica e agli aspetti ad essa collegati, non possiamo non partire dalla clinica, che è il fonda-mento da cui si muove tutto il progresso scientifico della medicina, anche quello più sofisticato ed avanzato, e che continua a recla-mare il bisogno di uno spazio autonomo di ricerca. Alcuni ambiti della pediatria, come quello delle malattie rare e della dismorfologia, documentano il ruolo centrale della semeiotica nell’inquadramento dei pazienti e la necessità di sviluppare ricerche in ambito clinico, dalla scoperta di nuove malattie, allo studio della loro storia natu-rale, alla condivisione di linee-guida per la loro presa in carico ed il loro trattamento. Nello specifico, circa l’80% delle 7.000-8.000 malattie rare sono di interesse pediatrico e, sebbene il 70% di esse abbia un’origine ereditaria, al momento sono disponibi-li test genetici solo per circa 3.500 malattie, a sottolineare il ruolo centrale della clinica nella loro diagnosi (www.orpha.net). Inoltre, circa il 50% dei pazienti affetti da sindromi dismorfiche non viene al momento inquadrata, neppure presso i centri di compe-tenza. Questo ha giustificato la creazione di reti di esperti, come illustrano le esperienze del progetto Europeo DYSCERNE (Griffiths

et al., 2010) e del progetto italiano RDDR (Dentici et al., 2012), che documentano la possibilità di ottenere un consenso diagnostico in circa il 23% dei casi, in precedenza privi di un inquadramento. D’al-tro canto, la clinica fornisce il materiale biologico indispensabile alla ricerca genetica, con la quale concorre a scoprire nuove malattie, a ridefinirne la nosologia e a identificarne le basi biologiche. Un clini-co bene formato e orientato alla ricerca, anche disponendo di dotazioni limitate, può diventare il protagonista di ricerche che si rivolgono ad aree di nicchia, all’interno delle quali il clinico può occupare ruoli di rilievo. Per avere successo in questa direzione è necessario un sostanziale cambio della mentalità, ancora diffusa nel nostro Paese, che spesso crea barriere alla condivisione e freni alle alle-anze e alla formazione di reti.Questo modello può aiutare il pediatra a guardare i problemi di ogni paziente utilizzando un approccio di system medicine (medicina di si-stema), che fa riferimento alla superconvergenza dei dati clinici e -omici della persona (Topol, 2012). Questo schema può essere traslato alla Pediatria, nell’ottica di una “pediatria di sistema”. Secondo Hood e Flo-res (2012) un modello di riferimento potrebbe essere quello della Medicina 4P, acronimo di Preventiva, Predittiva, Personalizzata e Partecipativa. La medicina delle 4P promuove il coinvolgimento dei singoli nella gestione della propria salute, con un’informazione completa, accurata e trasparente, in modo da permettere scelte consapevoli e partecipate, in un’ottica di empowerment.Seguendo questo ragionamento, possiamo fare nostro il “manifesto” lanciato da Thomas Boat (2007) in un articolo dedicato alla ricerca pe-diatrica, che ne prevede un futuro brillante, a condizione che si sappiano riconoscere e si diano risposte ad una serie di opportunità emergenti. Le scoperte della biomedicina e la loro traslazione in nuove conoscen-ze e strumenti a vantaggio della diagnosi e della terapia richiedono la formazione di un maggior numero di pediatri-scienziati, l’adozione di nuove tecnologie, l’aumento delle risorse dedicate alla ricerca e alla formazione e la disseminazione delle attività di ricerca nella comunità dei pediatri. I pediatri dovranno perciò essere educati a diventare protagonisti nella ricerca, non solo quella tradizionale, ma anche quella prefigurata dalla rivoluzione post-genomica, ed ognuno di essi deve trovare il proprio spazio, all’interno di questo percorso, assecondando le proprie capacità e le opportunità.

Fabio Sereni: Grazie Maria Grazia e grazie Bruno.Credo proprio che questa Tavola Rotonda non avrebbe potuto avere migliore apertura, con due vere e proprie “microrelazio-ni” di due illustri ricercatori-pediatri, che ci hanno indicato non solo le condizioni necessarie affinchè una ricerca “avanzata” possa essere condotta, ma anche, e direi soprattutto, hanno sottolineato la possibilità, o meglio la necessità che tale ricerca non sia prerogativa elitaria di pediatri che hanno la ventura di operare in grandi centri dotati di competenze e strumentazioni sofisticate, ma sia opportuna e utile anche da parte di pediatri-ricercatori che lavorano in strutture minori. Gli interventi della Roncarolo e di Dallapiccola hanno implicitamente anticipato quanto dovremo discutere nella seconda parte della Tavola Ro-tonda, e cioè della necessaria pianificazione di una formazione specifica per giovani ricercatori.A questo punto della discussione passiamo dai ricercatori-cli-nici ai clinici-ricercatori.La parola spetta per primo a Andrea Biondi cui chiedo:Tu che sei essenzialmente un clinico-oncologo e che hai creato nella struttura che dirigi un laboratorio avanzato di ricerca, po-tresti fare anche di più se il tuo laboratorio fosse inserito in un contesto più ampio di ricerca “traslazionale”?

a cura di Fabio Sereni

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Andrea Biondi (Milano): Il mio punto di par-tenza come ricercatore, diversamente da quan-to suppongo sia stato per la Roncarolo e per Dallapiccola, è stato clinico, ed è stato un re-parto ospedaliero di riferimento per la diagnosi e cura dei bambini con malattie emato-onco-logiche (leucemie e linfomi), che nella realtà milanese si colloca all’interno di un ospedale (Monza) ad alta specializzazione e di insegna-mento (Università di Milano-Bicocca), ma non

pediatrico. Il progetto di costruire un Centro di ricerca dedi-cato alle leucemie del bambino (Centro M.  Tettamanti) è stato inizialmente fortemente voluto dai genitori consapevoli che di fronte a malattie per le quali non è possibile ancora la guarigione in tutti i casi, è necessario investire nella ricerca come unica risposta seria per migliorare il futuro.Una struttura di ricerca con un forte collegamento con la clini-ca e le sue domande può avere successo ad alcune condizioni:1. Focalizzazione rispetto ai progetti. La clinica sugge-risce continuamente nuove domande, ma è necessario con-tenerle per evitare la dispersione. Si riesce ad essere compe-titivi se si riescono a coniugare la capacità di porre domande rilevanti per la clinica con quella di avere accesso a modelli e strumenti in grado di poterle affrontare in modo competitivo alla rapidissima evoluzione tecnologica.2. Collegamento funzionale e di collaborazione a livello nazio-nale ed internazionale con istituzioni/gruppi di ricerca in ambito affine per supplire alle dimensioni di una massa critica limitata. Que-sto aspetto è divenuto particolarmente rilevante negli anni recenti per l’impatto della genetica-molecolare, della bioinformatica, della modellistica animale, in ogni ambito della ricerca biomedica. La ra-pidissima evoluzione in campo tecnologico necessita di investimenti di persone e risorse che non sono economicamente compatibili con la dimensione di un singolo laboratorio di ricerca.Non ci sono dubbi che essere inseriti in un contesto più ampio (istituzione di ricerca di un ospedale pediatrico o più in generale di ricerca in campo biomedico) offrirebbe vantaggi sia sul piano di investimenti comuni nelle core facilities che per l’integrazione con gruppi di ricerca con competenze complementari. Al contrario una struttura più piccola è certamente più agile e flessibile ad esigenze nuove che nel tempo vengono considerate strategiche.Un ultimo aspetto che vorrei sottolineare riguarda il contenuto “trasla-zionale”. Essere a contatto con i problemi della leucemia del bambino, ha guidato e fortemente influenzato le priorità. La rivoluzione della genetica molecolare è stata rapidamente “trasferita al letto del mala-to” perché è stato facile comprendere che gli strumenti e conoscenze utilizzate per un progetto di ricerca anche di base sarebbero entrate rapidamente nella “normalità” dell’approccio diagnostico e nel mo-nitoraggio della leucemia. Essere a diretto contatto con la clinica ed avere medici con una formazione di ricercatore (Medical scientists) ha reso il processo possibile. Oggi in tutto il mondo occidentale sta divenendo sempre più complessa la formazione di Medical scientists, requisito indispensabile ad una vera ricerca “traslazionale”.

Fabio Sereni: Dopo Andrea Biondi un altro pediatra-ricer-catore di chiara fama internazionale, Alberto Martini, cui chiedo:Tu che hai creato una efficiente rete internazionale di ri-cerche cliniche in reumatologia pediatrica giudichi neces-sario, o comunque giovevole, una connessione organica “intra-moenia” con la ricerca di base?

Alberto Martini (Genova): il ruolo del pediatra nel processo traslazionale è essenziale e va dalla creazione, mediante studi in laboratorio, dei pre-supposti teorici dell’efficacia potenziale di una nuova terapia fino a rendere fattibile, una volta disponibile il farmaco, la conduzione di studi cli-nici controllati che ne dimostrino la sicurezza e l’efficacia. Sia l’FDA (U.S.A.) che l’EMA (Comunità Europea) hanno varato di recente la cosiddetta regola pediatrica, secondo la quale ogni industria

che intende registrare un nuovo farmaco per uso nell’adulto deve for-nire dati sulla sua sicurezza ed efficacia anche nel bambino, se, in età pediatrica, esiste una malattia equivalente a quella per cui viene chiesta la registrazione nell’adulto. A fronte di questo impegno l’indu-stria riceve dei benefici economicim il più importante dei quali è un prolungamento di 6 mesi del brevetto. Tuttavia, fare studi controllati in malattie rare, quali sono la maggioranza di quelle del bam-bino, non è facile per vari motivi. Occorre radunare in un tempo ragionevole un numero sufficiente di pazienti (e questo è possibi-le solo attraverso la creazione di vaste reti internazionali) e definire criteri affidabili e validati attraverso cui giudicare in maniera at-tendibile l’effetto dei farmaci (spesso i criteri in uso nell’adulto non sono applicabili al bambino). La reumatologia pediatrica è stata, tra le specialità pediatriche, quella che per prima ha tratto vantaggio dalla regola pediatrica grazie all’esistenza di due grandi reti che agiscono in stretta collaborazione PRINTO (Pediatric rheumatology International trial organization), che fondammo 16 anni fa, che ha sede al Gaslini e che raduna tutti i centri di reumatologia pediatrica del mondo con l’eccezione del Nord America che è invece coordinato dall’altra rete il PRCSG (Pediatric rheumatology collaborative study group). Entrambe queste reti, ancor prima che venisse varata la regola pediatrica, ave-vano definito e validato i criteri con cui giudicare l’efficacia dei farmaci nelle malattie reumatiche del bambino. Tramite la collaborazione di queste reti è stato possibile effettuare gli studi che hanno portato alla registrazione di tutti i nuovi farmaci biologici attualmente impiegati nella terapia dell’artrite idiopatica giovanile.La presenza di un laboratorio che fornisca i presupposti scientifici per il successivo impiego di un farmaco in clini-ca è perciò essenziale, ma non esaurisce il contributo che il pediatra ricercatore può dare al processo traslazionale necessario per portare il farmaco fino al letto del malato.

Fabio Sereni: Siamo quasi giunti alla fine di questo primo giro di interventi. Non ci resta che sentire l’altra faccia della medaglia e cioè come vivono il rapporto della pediatria clinica due giovani scienziati da anni impegnati con successo, full-time, in ricerca tra-slazionale. La parola, per primo, ad Alberto Auricchio, professore a Napoli di Genetica Clinica e “Principal Investigator” al TIGEM. Interverrà subito dopo Maria Pia Rastaldi, direttore del Laboratorio di Nefrologia Sperimentale della Fondazione D’Amico di Milano.

Alberto Auricchio (Napoli): Nella mia carriera scientifica, da ricercatore che ha focalizzato la propria attenzione su malattie pediatriche, l’interazione con la clinica è stata e con-tinua ad essere fondamentale. Per esempio, l’identificazione di geni responsabili per for-me mendeliane di disordini della motilità in-testinale è partita dalla osservazione clinica di pazienti con queste rare malattie e dallo studio dei loro geni. Quindi il lavoro di ricerca in la-

boratorio è nato dalla osservazione clinica. In tempi più recenti mi

Direttore Clinica Pediatrica, Università Milano-Bicocca

Istituto Gaslini, Università di Genova

TIGEM, NapoliUniversità Federico II di Napoli

Tavola roTonda

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sono occupato di sviluppare tecniche di terapia genica per ma-lattie rare di interesse pediatrico, come le malattie da accumulo lisosomiale. In questo caso il lavoro è partito in laboratorio per approdare poi al test nel paziente.La ricerca attuale, con le relative possibilità di finanziamento e di formazione per giovani ricercatori, tende ad essere sempre più “traslazionale” cioè ad avere ricadute dirette sulla salute dei pazienti. Chiaramente questa ricerca è legato a doppio filo con la clinica, in maniera simile gli esempi di esperienza personale che vi ho riportato. La Comunità europea offre molte di queste opportunità di finanziamento e anche in Italia ci si sta muoven-do in questo senso. Pertanto questo è un momento particolar-mente favorevole, perché un giovane pediatra possa investire in ricerca, sia essa clinica che di base.Il mio personale consiglio ad un giovane laureando in Medicina o specializzando in Pediatria che ha interesse verso la ricerca e che vuole intraprendere un percorso formativo in questo senso è quello di passare un periodo più o meno lungo in un laboratorio di ricerca di base applicata a tematiche di inte-resse pediatrico. Questo laboratorio dovrebbe essere cutting edge in termini di ricerca sviluppata e con un track record di pubblicazioni scientifiche di alto livello. Sarebbe auspicabile che questo laboratorio fosse all’estero, per rendere l’esperienza il più formativa possibile anche dal punto di vista del contatto con realtà di eccellenza straniere e per l’apprendimento della lingua inglese. Nella mia personale opinione un’esperienza di questo tipo non solo rappresenta un passaggio fondamentale per chi della ricer-ca (anche clinica) vuole fare la sua professione, ma anche per quei giovani che dopo quest’esperienza dovessero decidere di investire in una carriera più prettamente assistenziale.

Maria Pia Rastaldi (Milano): Per chi si occu-pa di ricerca di base, credo che uno stabile rapporto di inter-relazione con la clinica ga-rantisca almeno due vantaggi fondamentali: il primo riguarda la possibilità di tenere in con-siderazione le priorità e le urgenze dal punto di vista dei pazienti; il secondo è la possibilità di verifica immediata della valenza dei risultati della ricerca di base nell’uomo.In ambito nefrologico, soprattutto nefrologico

pediatrico, si può affermare con certezza che esiste una do-manda urgente di terapie specifiche. La maggior parte delle malattie glomerulari viene trattata ancora oggi in modo aspe-cifico perché le conoscenze eziologiche e patogenetiche non sono complete. Il nostro laboratorio, attraverso lo studio della barriera di filtrazione, e in particolare della cellula podocitaria, sta cercando di capire aspetti fisiopatologici che possano condur-re al miglioramento diagnostico e quindi anche terapeutico delle patologie proteinuriche. Il passaggio delle conoscenze dal la-boratorio ad applicazioni pratiche, diagnostiche e terapeutiche, non è ovviamente immediato. I clinici ci ricordano questi aspetti quotidianamente, con le problematiche che sorgono per i loro pazienti, e la loro collaborazione è fondamentale per la traslazione dei risultati.Il secondo aspetto, cioè la possibilità di verificare su materiale biologico umano se le scoperte della ricerca di base sono rile-vanti nelle patologie umane, costituisce un vantaggio irrinun-ciabile. Consente per esempio di verificare se molecole o vie di segnale, studiate in vitro e nei modelli sperimentali, siano coinvolte specificamente, da un punto di vista sia spaziale che

temporale, in una determinata malattia, oppure facciano parte di meccanismi patogenetici comuni a patologie diverse.Per quanto concerne la possibilità di un rapporto più organico e anche meno “locale” con la clinica, credo che questo sia re-sponsabilità del ricercatore. Sappiamo che oggi la clinica, al-meno nel contesto italiano attuale, soffre di carenze di personale e di una serie di incombenze amministrative che riducono il tempo a disposizione degli operatori. Quindi, è compito del ricercatore riuscire a far passare il messaggio che quanto si sta facendo è utile al clinico, e può influenzare nel medio e lungo periodo, proprio la pratica quotidiana. È necessario organizzare riunioni periodiche, e soprattutto essere capaci di coinvolgere i clinici non solo nei progetti di ricerca e nelle riunioni di laboratorio, ma anche nelle richieste di finanziamento, in modo che parte dei finanziamenti possa essere utilizzato per l’acquisizione di per-sonale che possa lavorare “a ponte” tra laboratorio e reparto.Infine, desidero sottolineare l’importanza che hanno in questi processi le fondazioni e le associazioni che operano a sostegno dei pazienti. Le organizzazioni no-profit hanno un’importanza strategica fondamentale, di supporto e di comunicazione e van-no sensibilizzate e coinvolte sui temi della ricerca. Da questo punto di vista, ancora una volta il parere del clinico e la sua collaborazione sono indispensabili ad instaurare un solido ed efficace rapporto con il mondo del no-profit.

Fabio Sereni: Qui termina la prima parte della Tavola Rotonda.La seconda parte sarà dedicata al possibile ruolo delle So-cietà scientifiche pediatriche nel sostenere la ricerca, che abbiamo definito avanzata e che, con una certa semplifica-zione, si può definire come caratterizzata da una interfaccia operativa tra ricerca di base (traslazionale) e ricerca clinica.Ma prima di dare la parola ad Armido Rubino, Francesco Chia-relli e Giovanni Corsello è opportuno dedicare un breve tempo a domande e commenti da parte del pubblico presente.ha alzato per primo la mano Riccardo Troncone, cui spetta quindi subito la parola, ma subito dopo interverranno altri che vedo desiderosi di interloquire.

Riccardo Troncone (Napoli): Desidero sottolineare che è ne-cessario distinguere due diverse professionalità: quella del cli-nico che fa ricerca e quella del clinico che partecipa alla ricerca in un progetto “esterno”. Penso inoltre che sia particolarmente importante discutere del percorso di formazione alla ricerca dei giovani specializzandi. La concomitanza tra specializzazione e dottorato è una realtà nella nostra facoltà, così come il soggiorno all’estero di specializzandi impegnati nella ricerca.

Alberto Martini: Come Collegio dei professori universitari abbiamo presentato la proposta di possibile commistione dottorato e spe-cializzazione, proposta che è stata inclusa nella legge Gelmini. Ma manca ancora, per essere effettiva, la legge di riordino del dottorato.

Francesco Chiarelli (Chieti): Secondo l’attuale normativa è possibile che uno specializzando trascorra dodici mesi all’estero anche per essere formato nella ricerca.

Andrea Lo Vecchio (Napoli): Sono un dottorando al primo anno, che ha già avuto un’esperienza di lavoro all’estero, ove ho avuto modo di osservare e di apprezzare notevoli differenze rispetto all’Italia. Il problema fondamentale per me resta quello dei pos-sibili sbocchi professionali per un giovane che vuole fare ricerca.

Fondazione D’Amico, Milano

a cura di Fabio Sereni

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Sergio Maddaluno (Napoli): La mia domanda, come specializ-zando, è la seguente: se volessi dedicarmi e intraprendere un percorso nel campo della ricerca, quale sbocco professionale posso attendermi?

Bruno Dallapiccola: Mi sentirei un fallito se non consigliassi a giovani che hanno questa intenzione di insistere nella loro voca-zione. In primis è necessario un tutor o un gruppo di riferimento. Il pediatra ricercatore del futuro è un pediatra che impara la ri-cerca e fa meglio la clinica. È necessaria la creazione di un siste-ma che accolga “i nuovi professionisti”. Posso citare l’esempio dell’Ospedale pediatrico “Bambino Gesù”, che ogni anno offre ai giovani circa 200 contratti di ricerca, con fondi disponibili nei budget dei progetti di ricerca in corso.

Alberto Martini: Ed io vorrei aggiungere: se fosse pienamente accolta la nostra proposta di fusione dottorato-specializzazione si potrebbe diventare dottore in ricerca in una determinata spe-cialità pediatrica (ad esempio in gastroenterologia pediatrica) e si potrebbero così meglio determinare sbocchi professionali.

Alfredo Guarino (Napoli): La buona ricerca è basata su passione, rigore, capacità intellettuale. Il ricercatore non sarà mai ricco, la pas-sione è il driver della ricerca. Il modello delle malattie rare e della ri-cerca di laboratorio traslazionale non è l’unico modello. Il laboratorio rimane un (toll) per la ricerca clinica. I modelli cambiano velocemen-te, ma il fondamento, perché siano seri, è la selezione onesta. Finora, in Italia, il metodo della selezione onesta è stato tradito.

Salvatore Auricchio (Napoli): A questo punto della discussione vorrei porre l’accento sull’importanza del rapporto tra ricerca nelle specialità pediatriche e ricerca nelle analoghe specialità dell’adulto. È ovvio che per fare una buona clinica vi deve essere alla base la ricerca, e la ricerca, per essere competitiva, deve raggiungere una massa critica. Per le specialità pediatriche (parlo per la gastroente-rologia che è il mio settore di competenza) esiste oggi un gap enor-me tra la qualità della ricerca pediatrica e quella dell’adulto. Credo quindi che alla base debba essere ripensato il nostro rapporto con le specialità dell’adulto.

Generoso Andria (Napoli): Due brevi considerazioni su alcu-ni punti finora discussi. La prima sul concetto di massa critica. La massa critica può anche essere creata dal nulla, se esiste una forte personalità in grado di crearla. Questo è l’esempio che ci ha lasciato Antonio Cao, che è riuscito a fondare, partendo da zero, un grande centro di ricerca di base e traslazionale in Sardegna. Massa critica, poi, non significa che coloro che sono interessati ad un certo tipo di ricerca scientifica debbano fisicamente risiedere nello stesso posto. Gli eccellenti risultati ottenuti da Alberto Martini e dal suo gruppo confermano che è possibile produrre ad altissimi livelli con una ricerca puramente clinica di sperimentazione farmacologica, che utilizza la comunità scientifica internazionale,diffusa in un mondo ormai globalizzato. Un secondo commento riguarda la possibilità di sbocchi occupazionali per giovani pediatri che si siano dedicati alla ricerca. Quali sono le istituzioni in cui è possibile assorbire pedia-tri con una formazione in ricerca? Penso che ci si debba limitare ai dipartimenti universitari di pediatria e a 3-4 istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, in quanto la maggior parte dei cosid-detti ospedali pediatrici non è molto produttiva in campo scientifico. Fino a qualche anno fa avrei detto che le possibilità di occupazione per giovani ricercatori di estrazione pediatrica erano molto limitati

nell’ambito universitario, a causa di una gerontocrazia che aveva accumulato nei ruoli universitari un gran numero di docenti anziani. Da qualche anno il grosso di questi docenti è uscito dai ruoli e quindi ha creato spazio per personale più giovane. D’altra parte la cosid-detta riforma Gelmini ha previsto nuovi posti di ricercatore a tempo determinato, che dovrebbero idealmente essere banditi quando le università sono in grado di garantire con fondi dedicati la progres-sione di carriera a professore associato, ovviamente per le persone meritevoli. Ecco perché per i giovani motivati è questo il momento di seguire la propria vocazione, formarsi in centri qualificati e scom-mettere sul futuro.

Fabio Sereni: Siamo così giunti alla parte conclusiva di questa Tavola Rotonda.La parola, ora, ai rappresentanti delle società scientifiche, cui spetta il compito istituzionale di favorire lo sviluppo di una ri-cerca pediatrica di alto livello qualitativo in Italia. Do per primi la parola ad Armido Rubino, fondatore e primo presidente del-la Società Italiana di Ricerca Pediatrica (SIRP), e subito dopo a Francesco Chiarelli, attuale presidente della stessa Società.Ad Armido Rubino chiedo:Quali sono stati i principali motivi che ti hanno spinto a fondare la Società Italiana di Ricerca Pediatrica?

Armido Rubino (Napoli): Preciso che motivi hanno spinto non solo me ma anche i numero-si colleghi che hanno voluto la fondazione della SIRP. Due cose erano intollerabili e ci spingevano a reagire: la vergognosa scarsità di attenzione, in generale e in particolare per il sostegno finanzia-rio alla ricerca scientifica, con l’Italia confinata al fondo delle relative classifiche fra i paesi euro-pei. Ciò avviene malgrado l’ottima qualità della ricerca pediatrica italiana che, dopo un lungo cammino di ripresa da pesanti ritardi, gode or-

mai di posizioni e riconoscimenti notevoli nel quadro internazionale nei campi di numerose specialità pediatriche; la ben nota e inaccet-tabile condizione dei giovani, in particolare i talenti impegnati nella ricerca pediatrica universitaria ed extrauniversitaria: si tratta di una straordinaria miniera di risorse umane per le quali il futuro resta pro-blematico, anche a causa della scarsa attenzione a razionali collega-menti tra formazione e lavoro. Come è noto si tratta di un gravissimo problema del Paese, fatta eccezione per pochi fortunati peraltro in un sistema generale poco meritocratico.Siamo convinti che una situazione generale così grave richiede, tra l’altro, un forte impegno da parte di una società che ponga la ri-cerca scientifica al centro dei propri obiettivi e conseguenti azioni. Si tratta, tra l’altro, di correggere una vera e propria anomalia generale nel campo delle discipline cliniche nel nostro Paese: la confusione fra società scientifiche nel senso più stretto della parola (cioè operanti per la promozione e l’attuazione di ricerca scientifica, con compagini societarie costituite da soggetti per i quali la ricerca costituisce attività principale e prioritaria) e società la cui composizione e conseguenti obiettivi si avvicina di più a quella delle associazioni tra professionisti. Guardando ai paesi scientificamente più evoluti, per esempio gli Stati Uniti, le “So-cietà di ricerca scientifica” sono distinte da quelle che accolgono più in generale i professionisti operanti nel corrispondente settore. An-che in Italia, se guardiamo all’ambito generale del Sapere non medi-co, ma anche al sapere biomedico nelle sue varie articolazioni delle discipline di base, cogliamo l’esistenza di società specificamente e

Fondatore e primo presidente della Società Italiana di Ricerca Pediatrica (SIRP)

Tavola roTonda

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interamente devolute alla ricerca scientifica, distinte da quelle che accolgono tutti coloro che, in possesso delle corrispondenti lauree e/o specializzazioni, svolgono le rispettive attività professionali. Nasceva così, circa quattro anni orsono, la Società Italiana di Ricerca Pediatrica con precisi connotati statutari:• una compagine societaria costituita da soggetti selezionati e

accettati sulla base di comprovata attività scientifica svolta nel-la comunità nazionale, ma nel quadro di collegamenti e ricono-scimenti internazionali;

• apertura a presenze di ricercatori anche non pediatri – o anche non medici  – nella consapevolezza del crescente ruolo della ricerca prodotta anche da non pediatri, tuttavia finalizzata al progresso delle conoscenze con ricadute sulla salute in infanzia e adolescenza. Da qui l’obiettivo di promuovere rapporti tra pe-diatri e non pediatri verso comuni obiettivi di potenziali ricadute per la “ricerca di interesse pediatrico”.

Le azioni messe in campo comprendono: progetti di ricerca SIRP; corsi di formazione alla ricerca scientifica; attivazione di gruppi per la formulazione di posizioni societarie su questioni controver-se; attività di comunicazione attraverso il sito web; attività edi-toriali anche online di tipo divulgativo destinate alla popolazione generale. Desidero commentare più in dettaglio i “Progetti di ricerca SIRP”. Si tratterà di progetti di ricerca programmati e condotti da uno o più Soci, i quali sottopongono alla Società i progetti medesimi per eventuale patrocinio e finanziamento (in relazione alle risorse di-sponibili e/o a quelle specificamente acquisite per il progetto mede-simo, attraverso l’azione di fund raising). I progetti potranno essere spontaneamente proposti, ovvero sollecitati con appositi bandi SIRP riferiti a determinati ambiti di ricerca scientifica di interesse pedia-trico. Il principal investigator (autore della proposta e/o titolare della partecipazione al bando) è Socio SIRP con la più ampia possibilità di collaborazioni con altri ricercatori o gruppi. È vivamente raccoman-data la presenza, tra i collaboratori, di almeno un socio SIRP Junior.Il progetto è sottoposto a una valutazione qualitativa attuata da ap-posita Commissione, nominata dal Consiglio Direttivo, che si avvarrà anche di qualificate competenze di reviewers esterni alla Società. Il giudizio è basato sulle caratteristiche intrinseche del progetto, i curri-cula del principal investigator e degli altri partecipanti, le caratteristi-che della (o delle) struttura(e) in cui il progetto dovrà essere realizzato.Sono adottati criteri di valutazione che mirano a garantire sia la qua-lità scientifica dei progetti approvati che la loro coerenza e perti-nenza con le finalità della Società: contenuti innovativi; originalità e rilevanza della ricerca proposta; importanza dei “risultati attesi” per i potenziali effetti sulla salute in età evolutiva; metodi e strategia di sviluppo del progetto; congruità economica; eventuale disponibilità di fondi in cofinanziamento; caratteristiche della struttura ospitan-te e facilities a disposizione per la ricerca; eventuali collaborazioni scientifiche, con relative certificazioni di disponibilità dei collabora-tori. A seguito di valutazione positiva del progetto, la SIRP si fa carico del relativo finanziamento o anche solo cofinanziamento. Per la promozione delle varie attività societarie sono operative Com-missioni riguardanti specifici ambiti: “sperimentazione farmaci e trials clinici”; “ricerca in neonatologia”; “ricerca in Neuroscienze e sviluppo in età evolutiva”; “ricerca sui determinanti ambientali della salute infantile”; “ricerca in adolescentologia”; “ricerca in nutrizio-ne”. Altri ambiti potranno essere individuati.Altre Commissioni sono operative con finalità più generali: promo-zione della ricerca scientifica; ricadute della ricerca scientifica sulla promozione della salute in età evolutiva; rapporti con altre società scientifiche e con fondazioni; comunicazione e informazione; for-

mazione dei giovani alla ricerca scientifica; internazionalizzazione; promozione e coordinamento dei gruppi di lavoro. Intendiamo inoltre promuovere e attuare opera di divulgazione, de-stinata alla popolazione generale e in particolare alle famiglie, sia attraverso attività editoriali sia online, su temi di educazione alla salute in età infantile e adolescenziale. Concludo richiamando tre aspetti generali che caratterizzano l’intera attività societaria.In primo luogo: la cura dei collegamenti con la comunità scientifica internazionale, con particolare attenzione alla costruzione di rapporti con specifici Centri di ricerca, sia per favorire permanenze prolunga-te di giovani per attività di formazione alla ricerca, sia per costruire collaborazioni su specifici progetti.In secondo luogo: impegno all’interazione con le culture scientifi-che non pediatriche ma comunque riguardanti la salute in infanzia e adolescenza.Last but not least: forte impegno, anche attraverso l’attribuzione di specifiche funzioni a singoli soci, nella cura dei rapporti collaborativi con tutte le società scientifiche di area pediatrica in primis la Società Italiana di Pediatria.Ho tentato di rispondere alla domanda “perché avete fondato la SIRP?”. È appena il caso di aggiungere che, ove la domanda fosse stata “in che misura sono realizzati gli obiettivi?”. La risposta sarebbe stata tutt’altro che trionfalistica. La Società è neonata, nata peraltro in un periodo di grave crisi finanziaria nel Paese. Azioni e risultati sono ovviamente connessi alle risorse finanziarie disponibili. Altrettanto ov-viamente le risorse vanno acquisite con modalità eticamente irrepren-sibili. Da qui alcune recenti modifiche statutarie, tra cui l’introduzione della figura del “Socio sostenitore” e la stessa trasformazione in SIRP-Onlus. L’auspicio è che la macchina messa in campo possa costituire, soprattutto per i più giovani, un utile strumento per la ricerca scientifi-ca di interesse pediatrico nel nostro Paese.

Fabio Sereni: A Franco Chiarelli chiederei:ha la SIRP, un progetto per formare giovani ricercatori di base che abbiano cultura e interessi pediatrici? Quali possibili mo-dalità?

Francesco Chiarelli (Chieti): La Società Italiana di Ricerca Pediatrica (SIRP) ha nel suo Statuto il preciso obiettivo di “Tutela, promozione e valo-rizzazione, in ambito nazionale e internazionale, degli investimenti a sostegno dello sviluppo di nuove conoscenze che abbiano potenziali po-sitive ricadute sulla salute dei bambini”; inoltre, di “svolgere azione divulgativa, di informazione e sensibilizzazione verso la pubblica opinione, la politica, la società, le pubbliche amministrazioni sulle questioni che attengono alle attività di ri-cerca scientifica” con particolare riferimento alla

formazione dei giovani alla ricerca scientifica; infine, la SIRP prevede la figura dei Soci Junior, cioè di soci di età inferiore a 35 anni che sono “documentatamente impegnati in attività di formazione alla ricerca scientifica di interesse pediatrico”. Inoltre, la SIRP ha di già organizzato ed intende organizzare in futuro corsi di formazione alla ricerca scientifica dedicati a giovani ricer-catori, dove essi possano conoscere ed imparare le nuove frontie-re della ricerca, le nuove metodologie, come scrivere e rivedere un lavoro scientifico, come presentare a meeting internazionali, come eseguire e come interpretare una revisione sistematica della let-teratura, come utilizzare le nuove tecnologie informatiche (tablet e smartphone) per la ricerca scientifica, ecc.

Presidente della Società Italiana di Ricerca Pediatrica (SIRP) - Università di Chieti

a cura di Fabio Sereni

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La SIRP ha anche dato, insieme al Collegio dei Professori Universi-tari di Pediatria (Co.P.U.Pe) ed al Coordinamento dei Direttori delle Scuole di Specializzazione in Pediatria, un contributo sostanziale al riconoscimento di un anno della Scuola di Specializzazione in Pe-diatria da spendere per il successivo Dottorato di Ricerca in Scienze Pediatriche; ciò consentirebbe di abbreviare il Dottorato di Ricerca a 2 anni anziché a 3 anni. L’obiettivo successivo che SIRP si pro-pone di perseguire è la possibilità che il Dottorato di Ricerca venga retribuito in modo migliore, allineandosi ai paesi del Nord Europa. Si avrà anche l’obiettivo di rendere omogenei i Dottorati di Ricerca in Pediatria, in termini di criteri per l’ottenimento del titolo di Dottore di Ricerca (ad esempio, numero di lavori pubblicati a primo nome, stage in prestigiosi Istituti internazionali, acquisizione e padronanza documentata di metodiche di ricerca avanzata, ecc.).Non appena le condizioni finanziarie della SIRP lo consentiranno, la nostra Società intende, inoltre, istituire una Borsa di Studio, intitolata ad Antonio Cao, per permettere ad un giovane ricercatore italiano di trascorrere un anno in un prestigioso istituto di ricerca.

Fabio Sereni: E a Chiarelli chiederei anche:ha la SIRP in cantiere qualche progetto per incentivare la cultu-ra dei clinici ai problemi scientifici di “base”?

Francesco Chiarelli: La SIRP è estremamente impegnata in questo settore e persegue questo obiettivo attraverso la pianificazione e realizzazione di sessioni congiunte, dedicate alla ricerca scientifica ed alle ricadute di essa sulla attività clinica pediatrica, durante il Congresso Nazionale della Società Italiana di Pediatria (SIP) e del-le Società affiliate. Nel  2013 sono previste sessioni dedicate alla ricerca scientifica nel Congresso Nazionale della SIP, della Società Italiana di Malattie Respiratorie Infantili (SIMRI), della Società Italiana di Infettivologia Pediatrica (SITIP), della Società Italiana di Endocri-nologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP) e della Società Italiana di Neurologia Pediatrica (SINP).La SIRP, inoltre, ha sul suo sito web (www.sirped.it) sessioni e rubri-che che hanno lo scopo di diffondere le più recenti ed autorevoli ac-quisizioni nella ricerca scientifica che abbiano rilevanti implicazioni e ricadute per la attività clinica rivolta ai bambini: la SIRP fa notizia pubblica sul sito recenti lavori di Soci della SIRP; la SIRP sulla notizia include commenti di un socio SIRP ad un recente lavoro di grande rilevanza di ricerca di base o clinica, che insieme alle News dalla Letteratura Scientifica ha lo scopo di aggiornare rapidamente ed in modo autorevole i pediatri italiani; infine, la SIRP, in collaborazione ed in accordo con prestigiose società scientifiche internazionali (ad esempio ESPGHAN, ESPE, ecc.) pubblica Consensus Statements e Linee Guida su importanti temi di pediatria, in modo da offrire ai pediatri italiani quanto di meglio e di più aggiornato vi sia in circo-lazione, in modo da offrire ai bambini italiani una sempre migliore qualità delle cure. La SIRP si impegnerà molto nei prossimi anni in modo proattivo nel garantire che gli eventi formativi per la formazione continua del medico pediatra siano ispirati sempre più al rigore scientifico e condotti con una metodologia internazionalmente riconosciuta.

Fabio Sereni: Conclude la serie di interventi Giovanni Corsello, non solo neopresidente della Società Italiana di Pediatria, ma anche professore universitario.La mia domanda è la seguente:Cosa pensi che l’Università potrebbe fare (e non fa) per formare giovani pediatri (o anche biologi e biotecnologi) alla ricerca di interesse pediatrico?

Giovanni Corsello (Palermo): Nel corso de-gli anni si è assistito ad un progressivo allon-tanamento dei laureati in medicina e chirurgia dall’addestramento alla ricerca scientifica dovu-to a cause diverse tra cui:

• La difficoltà di una pratica in tal senso du-rante il corso di laurea e in parte anche durante i corsi di specializzazione, per un prevalente addestramento di ordine professionalizzante;

• Carenza di proposte metodologiche strutturate verso la ricerca nelle Università e nelle scuole di specializzazione;

• Carenza di dottorati veramente orientati alla ricerca in area pe-diatrica (esperienze limitate per numeri e tipologia).

Nello stesso tempo l’attività di ricerca è diventata uno degli indicato-ri di qualità del sistema più diffusi e accettati. Ricerca e innovazione sono le leve principali per la crescita e lo sviluppo di un paese mo-derno, pur nella difficoltà di reperire risorse dedicate.Nelle Università diventa necessario e strategico definire model-li organizzativi e aree funzionali a supporto della ricerca, come viene diffusamente fatto per la didattica. Sono necessari non solo i manager per la didattica, ma anche per la ricerca nelle diverse aree. Spesso i ricercatori di area biomedica e clinica sono autodidatti e devono gestire sia le attività organizzative di ricerca, che gli aspetti relativi alla tutela intellettuale e alla valorizzazione dei risultati della propria ricerca. È necessario reclutare il personale universitario in modo coerente con gli obiettivi di promuovere la ricerca e non utilizzarlo a scopi prevalentemente didattici o assistenziali, pur nella condivisione che la ricerca nelle disci-pline cliniche non può essere sganciata da una utile integrazio-ne delle competenze. La pari dignità tra attività di ricerca e attività assistenziale va sancita ai vari livelli istituzionali.Per quanto riguarda nello specifico la pediatria, bisogna valorizzare di più le ricerche multidisciplinari, che includono anche le aree biologi-che e le attività traslazionali, nonché i settori specialistici dell’adulto. Interazione e integrazione diventano fondamentali in questo ambito. Altro aspetto da curare, in parte collegato al precedente, è quello della internazionalizzazione, da attuare favorendo gli scambi e i con-tatti dei giovani ricercatori con le istituzioni di ricerca estere.

Fabio Sereni: La SIP ha in programma progetti per educare i pediatri a comprendere meglio che la ricerca è presupposto per la buona assistenza?

Giovanni Corsello: La SIP deve farsi carico di un messaggio a tutti i pediatri che senza una buona attività di ricerca non si possono garantire né buona formazione né buona assistenza.Promuovere indagini sullo stato attuale della ricerca pediatrica in Italia e diffonderli attraverso i suoi strumenti editoriali (Prospettive in Pediatria; Italian Journal of Pediatrics; Pediatria, sito WEB);Favorire attività multidisciplinari mettendo in rete gruppi di studio e società affiliate, nonché società di medicina dell’adulto;Promozione della ricerca tra i giovani, con un approccio di forma-zione metodologico a comprendere i risultati della ricerca e a “fare” ricerca;Internazionalizzazione attraverso studi e iniziative condivise con al-tre società scientifiche di area pediatrica europee ed internazionali (premi e soggiorni di ricerca all’estero).

Fabio Sereni: Grazie Presidente. hai concluso molto puntual-mente ed esaurientemente questa Tavola Rotonda.

Presidente SIP, Università di Palermo

Tavola roTonda

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Abbiamo trascorso più di due lunghe ore ascoltando il punto di vista, sugli attuali problemi della ricerca pediatrica italiana, di molte autorevole personalità con diverse competenze. A me spettano solo alcune considerazioni conclusive.Se il futuro della ricerca pediatrica italiana dipendesse in maniera predominante dalla presenza, nel nostro Paese, di valenti ricer-catori, di base e clinici, e di strutture efficienti, e anche se vi fosse ragionevole certezza che le buone intenzioni programmatiche degli attuali responsabili della politica culturale delle due più importanti società scientifiche fossero attuate, io credo che sarebbe lecito, alla fine di questa Tavola Rotonda, essere moderatamente ottimisti.Abbiamo infatti inteso con quale giustificata soddisfazione Maria Grazia Roncarolo e Bruno Dallapiccola ci hanno parlato della ricerca traslazionale e clinica dei due grandi centri di ricerca che dirigono, abbiamo anche saputo che ogni anno, solamente al Bambin Gesù, vengono assegnati circa 200 contratti di ricerca per giovani ricercatori. E poi Andrea Biondi e Alberto Martini ci hanno fatto partecipi di ricerche che, nelle istituzioni che attualmente dirigono, sono sicuramente di livello molto elevato, secondo ogni standard internazionale. E infine, Alberto Auricchio e Maria Pia Rastaldi, due giovani e affermati ricercatori di base, ci hanno testimoniato come il loro raggiunto successo sia dovuto alla collaborazione con una pediatria italiana di alto livello, e cioè a un ben stabilito e fruttuoso rapporto tra ricerca traslazionale e ricerca clinica.Se ciò non bastasse abbiamo anche avuto assicurazione da Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria, e da Francesco Chiarelli, Presidente della Società Italiana di Ricerca Pediatrica, che saranno programmati nel prossimo futuro corsi di formazione per giovani ricercatori e saranno proposte nuove normative volte a creare legittimi sbocchi di lavoro ai giovani ricercatori italiani.Per riassumere con poche parole quanto abbiamo inteso, si può quindi dire che in Italia esistono oggi aspetti positivi per la ricerca pediatrica avanzata, traslazionale e clinica.Ma purtroppo tutto questo non basta a giustificare il cauto ottimismo cui ho accennato più sopra. Non esiste infatti futuro, per la ricerca biomedica avanzata, senza adeguati fondi che garantiscano la possibilità di costante sviluppo e innovazione, e senza un reclutamento consistente e continuo di giovani ricercatori, cui sia possibile dare ragionevoli certezze di sbocchi carrieristici. L’attuale crisi economica e la lecita incertezza sulle priorità delle future politiche culturali del nostro paese non inducono certo all’ottimismo.Io credo, per concludere, che bene abbia fatto la Direzione di Prospettive a organizzare questa Tavola Rotonda, come contributo alla conoscenza dei problemi attuali e come stimolo per i responsabili a un impegno urgente ed efficace per assicurare la conti-nuità e lo sviluppo di una ricerca avanzata pediatrica nel nostro paese.

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La prevenzione delle infezioni fungine in neonatologia

Farmacogenetica e farmacogenomica in pediatria: stato dell’arte e prospettive future

Attuali orientamenti nel trattamento dell’ipospadia

Gestione pre- e postnatale dei pazienti con idronefrosi da ostruzione del giunto pieloureterale

Reflusso vescicoureterale primitivo in età evolutiva: cosa avviene dalla nascita all’adolescenza?

Urologia pediatrica (a cura di Ciro Esposito)

infettivologia neonatale (a cura di Mauro Stronati)

Gennaio

-Marz

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• V

ol.

43 •

N. 16

9 •

pp

. 1-

60

frontiere (a cura di Roberta Russo, Mario Capasso, Achille Iolascon)

tavola rotonda (a cura di Fabio Sereni)

ISSN 0301-3642

Ricerca traslazionale e ricerca clinica in pediatria