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La globalizzazione e la diversità dei capitalismi GIORGIO MORGANTI

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La globalizzazione e la diversità dei capitalismi GIORGIO MORGANTI

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La globalizzazione e la diversità dei capitalismi

Se in un primo momento a suscitare l’attenzione degli studiosi sono stati soprattutto i vantaggi delle «economie coordinate di mercato», cioè di un modello di capitalismo più organizzato (es. tedesco o giapponese), rispetto a quelle non coordinate, (di tipo anglosassone), negli ultimi anni, questa immagine è stata rimessa in discussione non solo dai segni di ripresa dell’economia americana e britannica, ma più in generale dall’affermarsi del fenomeno della globalizzazione.

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La globalizzazione e la diversità dei capitalismi

La crescente interdipendenza e integrazione delle economie a livello mondiale sembra, infatti, minacciare gli equilibri dei modelli di capitalismo più organizzato, in cui lo spazio del mercato è maggiormente limitato da altre forme di regolazione.

In questo senso, il capitalismo di tipo anglosassone, che si affida maggiormente al mercato, mostra invece segni di adattarsi meglio, almeno nel breve periodo, a questa nuova situazione.

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I DUE CAPITALISMI Una volta riportata sotto controllo l’inflazione, che nel corso degli anni ’70 costituiva il problema principale per le economie dei paesi sviluppati, l’attenzione si sposta verso un altro aspetto che sembra condizionare sempre di più lo sviluppo economico dei diversi paesi: la capacità di innovazione delle imprese. Per questa strada la political economy comparata tende a incontrarsi con i risultati degli studi sulle trasformazioni del fordismo e i nuovi modelli flessibili

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I DUE CAPITALISMI A partire dagli anni ‘80, poi, i confini delle economie si aprono sempre più, e l’economia di una nazione è maggiormente influenzata da quella delle altre. Una quota crescente della produzione è orientata verso i mercati internazionali, e il reddito di un paese diventa più dipendente dalla capacità delle sue imprese di vincere la concorrenza delle importazioni nei mercati interni e di competere con successo su quelli esteri.

È in questo quadro che, agli inizi degli anni ‘90, una serie di studi cercano di mettere a fuoco la diversità di reazione dei capitalismi nazionali alle nuove sfide dell’ambiente.

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I DUE CAPITALISMI Il problema cruciale non è più soltanto il controllo dell’inflazione, ma la bilancia dei pagamenti. Ciò richiede di non fissare soltanto l’attenzione sulle istituzioni che permettono di contenere i salari, cioè sulle relazioni industriali a livello centrale, come nel modello neocorporativo, da sole non più sufficienti a sostenere l’occupazione. Quest’ultima dipende ora maggiormente dalla capacità delle imprese di innovare, e di mantenere e accrescere quote del mercato internazionale.

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I DUE CAPITALISMI Ciò a sua volta richiede un particolare contesto istituzionale che favorisca lo spostamento verso produzioni flessibili e di qualità, atte a ridurre la competizione di prezzo che viene dai paesi in via di sviluppo, con bassi costi del lavoro.

La variabile dipendente – il problema al centro dell’indagine – non è quindi più il grado di controllo dell’inflazione e della disoccupazione, ma la capacità di innovazione delle imprese, da cui dipende la penetrazione nel mercato interno e internazionale e quindi, in misura crescente, il reddito e l’occupazione di un determinato paese.

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I DUE CAPITALISMI Di conseguenza, cambia anche il quadro dei fattori causali, che si estende alle istituzioni che condizionano l’innovazione delle imprese a livello micro: la finanza, i meccanismi di governo delle imprese, il ruolo del management, la regolazione dei rapporti di lavoro, la formazione della manodopera e i servizi alle imprese. È proprio la diversità dell’ambiente istituzionale che porta a modelli di capitalismo nazionale differenti rispetto alle loro capacità di adattamento al mercato internazionale.

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LA CAPACITÀ DI INNOVAZIONE DELLE IMPRESE

SOSKICE individua cinque condizioni essenziali dalle quali dipende la capacità delle imprese dei paesi più sviluppati di spostarsi verso una produzione flessibile di qualità, in modo da evitare la competizione di prezzo legata al costo del lavoro:

1. Una gestione manageriale orientata a lungo termine (l’innovazione è, infatti, un processo rischioso, che richiede tempo e investimenti a resa non immediata);

2. Elevate competenze professionali – non solo nel management, ma anche nella manodopera – in continuo aggiornamento, dal momento che il miglioramento della qualità dei beni è legato all’innovazione di processo e di prodotto;

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LA CAPACITÀ DI INNOVAZIONE DELLE IMPRESE

3. La capacità di cooperazione tra management e lavoratori, con il superamento delle gerarchie rigide del fordismo e il coinvolgimento attivo dei lavoratori nella realizzazione degli obiettivi aziendali;

4. Un’elevata capacità di cooperazione con i clienti e con i sub–fornitori, che permette di scambiare informazioni e costruire reti fiduciarie che favoriscono l’innovazione, in una situazione in cui i costi per la messa a punto di nuovi prodotti sono elevati e la loro resa sul mercato diventa più breve;

5. Un contenimento salariale rispetto alla crescita della produttività.

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LA CAPACITÀ DI INNOVAZIONE DELLE IMPRESE

Le condizioni sopra elencate non si determinano però per la sola volontà del management delle imprese, ma sono favorite o ostacolate dall’ambiente istituzionale esterno alle imprese. Relativamente alle istituzioni, sono, in particolare, da tenere presenti due aspetti:

• L’origine non solo contrattuale delle istituzioni. Queste ultime si formano sulla base di una comune matrice culturale formatasi in una storia di lunga durata (sono, quindi, path dependency)., che rende il patrimonio istituzionale ereditato dal passato non facilmente plasmabile;

• Il contesto istituzionale nazionale. Ciò non vuoi dire che la dimensione subnazionale – in particolare quella regionale – non possa essere anche importante: essa tende a diventare anche più rilevante con i modelli di organizzazione flessibile (e lo sviluppo dei distretti industriali nelle regioni italiane del centro-nordest è un esempio particolarmente evidente).

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LE CONDIZIONI ISTITUZIONALI DELLA COMPETITIVITÀ

Relativamente all’influenza di diversi contesti istituzionali sulle condizioni che favoriscono l’innovazione delle imprese, la situazione dei paesi più sviluppati può essere ricondotta a due modelli idealtipici:

Le «economie coordinate di mercato», caratterizzate da un sistema di regolazione in cui il ruolo del mercato è più limitato rispetto a quello dello stato, delle associazioni, ma anche di forme di solidarietà a base comunitaria (es. paesi dell’Europa continentale centro–settentrionale).

Le «economie non coordinate di mercato», nelle quali il ruolo di regolazione del mercato resta invece più ampio (comprendono i paesi anglosassoni, es. Stati Uniti e Gran Bretagna).

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LE CONDIZIONI ISTITUZIONALI DELLA COMPETITIVITÀ Di questi due modelli, quello che pare abbia offerto un ambiente istituzionale più favorevole all’innovazione per le imprese sia stato il primo, di cui costituiscono un esempio i capitalismi della Germania e del Giappone degli anni ‘80. Per analizzare il modo in cui le economie coordinate di mercato favoriscono l’innovazione occorre analizzare diverse dimensioni della regolazione istituzionale.

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LA FINANZA E L’ASSETTO PROPRIETARIO DELLE IMPRESE 1. Un primo aspetto riguarda la finanza e l’assetto proprietario delle imprese ed è legato alla gestione manageriale a lungo termine. Nelle economie non coordinate le esigenze di finanziamento delle imprese sono soddisfatte prevalentemente attraverso il reperimento di capitale sul mercato azionario; le imprese, a loro volta, sono quotate in borsa, per cui la proprietà del capitale è condivisa da un insieme di attori diversi (privati, esponenti delle famiglie che detenevano la proprietà originaria…) non vincolati a un rapporto a lungo termine con l’impresa.

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LA FINANZA E L’ASSETTO PROPRIETARIO DELLE IMPRESE

La decisione di tenere o vendere le azioni possedute dipende, infatti, più da valutazioni sulla loro redditività a breve, o da eventuali offerte di acquisizione. Tutto ciò scoraggia il management dal puntare su investimenti a resa più rischiosa e dilazionata nel tempo, e quindi ostacola l’innovazione. I dirigenti sono inoltre più propensi a garantire una redditività a breve, anche con attività di tipo finanziario, per il rischio elevato di acquisizioni ostili dell’impresa in caso di perdita di redditività. Un cambiamento di proprietà comporta, infatti, la possibilità di una sostituzione del management da parte dei nuovi detentori del capitale

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LA FINANZA E L’ASSETTO PROPRIETARIO DELLE IMPRESE

.Nelle economie coordinate di mercato:

Il mercato borsistico è molto meno sviluppato che nei capitalismi anglosassoni;

Le esigenze di finanziamento a lungo termine delle imprese sono soddisfatte principalmente dalle banche;

La proprietà delle imprese, specie quelle più grandi, è detenuta da un ristretto gruppo di azionisti, in cui le banche e altre istituzioni finanziarie hanno un ruolo di rilievo; questi soggetti hanno perciò un rapporto di più lungo periodo con le imprese, e sono per questo in grado di valutare le prospettive di redditività a lungo termine.

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LA FINANZA E L’ASSETTO PROPRIETARIO DELLE IMPRESE In questa situazione il management, meno minacciato dai rischi di acquisizioni ostili, rese oltretutto più difficili dalle regole istituzionali. E’ più incoraggiato a intraprendere investimenti e progetti a più lungo termine, sulla cui resa sono poi valutati dai detentori del capitale. Per contro, un capitale «paziente» può costituire uno stimolo debole per il management, mentre l’«impazienza» del mercato azionario esercita un controllo più stringente sull’efficienza dei dirigenti industriali, anche se ne schiaccia l’azione sulla ricerca di profitti a breve.

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LA FINANZA E L’ASSETTO PROPRIETARIO DELLE IMPRESE

Una differenza tra le due forme di capitalismo, importante per il funzionamento dell’economia, è che

1. In un caso, le regole istituzionali privilegiano la posizione degli shareholders, cioè dei detentori del capitale azionario. Essi hanno un potere determinante sulle strategie dell’impresa e tendono a considerare quest’ultima come una rete di contratti volta a massimizzare il profitto a breve;

2. Nell’altro modello, pesano maggiormente gli interessi degli stakeholders, cioè del management e dei lavoratori, ed è presente l’idea dell’impresa come comunità di appartenenza.

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LA REGOLAZIONE DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE 2. Un secondo aspetto che differenzia i due tipi di capitalismi è la regolazione della formazione professionale. Si tratta di un aspetto che influenza la competizione dei lavoratori, dando loro la possibilità di svolgere compiti diversi e di partecipare più attivamente alla produzione, contribuendo alla flessibilità e alla qualità

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LA REGOLAZIONE DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE

2. Un secondo aspetto che differenzia i due tipi di capitalismi è la regolazione della formazione professionale. Si tratta di un aspetto che influenza la competizione dei lavoratori, dando loro la possibilità di svolgere compiti diversi e di partecipare più attivamente alla produzione, contribuendo alla flessibilità e alla qualità. Nelle economie non coordinate di mercato l’addestramento professionale viene affidato alle imprese per la parte legata al particolare tipo di produzione in cui i lavoratori vengono utilizzati, mentre la professionalità di base che il singolo lavoratore può offrire sul mercato è legata all’investimento che egli è in grado di fare.

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LA REGOLAZIONE DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE

Tutto ciò determina un livello di formazione professionale più limitato rispetto a quello richiesto dalle esigenze dell’innovazione, dal momento che sia le imprese che i singoli individui non saranno portati ad investire in formazione: le prime nel timore che i lavoratori possano poi lasciarle per altre aziende; i secondi, per l’incertezza circa gli esiti.

Nelle economie coordinate di mercato il problema è risolto con un impegno maggiore dello stato nella formazione professionale, offerta come servizio pubblico, e attraverso forme di cooperazione con le imprese e le loro organizzazioni.

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LE RELAZIONI INDUSTRIALI 3. Altra dimensione istituzionale, collegata alla precedente, è quella delle relazioni industriali a livello di impresa, che influisce sulla cooperazione tra management e lavoratori come fattore di innovazione. L’inesistenza o la debolezza delle organizzazioni di rappresentanza sindacale e norme giuridiche che non tutelano il posto di lavoro rafforzano, nelle economie non coordinate, la tendenza verso la redditività a breve, col risultato di spingere le imprese a valersi di un’elevata flessibilità quantitativa o numerica (e questo rende difficile sviluppare un rapporto di cooperazione stabile e di coinvolgimento attivo dei lavoratori). Viene dunque a diminuire la flessibilità funzionale, risorsa essenziale per l’innovazione nell’ambito del sentiero della produzione flessibile e di qualità.

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LE RELAZIONI INDUSTRIALI Nelle economie coordinate il problema viene affrontato con il sistema di regolazione dei rapporti di lavoro, in parte legato alla contrattazione tra sindacati e organizzazioni imprenditoriali nell’ambito delle relazioni industriali, e in parte determinato dalla normativa giuridica. Complessivamente più rigido rispetto all’altro modello, questo sistema scoraggia la flessibilità numerica, ma, al contrario dell’altro modello, favorisce quella funzionale. Le imprese sono così incentivate a investire in formazione per valorizzare le risorse umane (di cui non possono liberarsi facilmente), mentre la maggiore stabilità dell’occupazione incoraggia il coinvolgimento più attivo dei lavoratori e lo sviluppo di forme di lavoro flessibili

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RAPPORTI CLIENTI - FORNITORI 4. Dal punto di vista poi dei rapporti di cooperazione con clienti e fornitori le economie non coordinate di mercato sono, in genere, più povere di reti sociali informali e formali legate all’associazionismo imprenditoriale, che abbiamo visto essere rilevanti per la produzione e la circolazione delle informazioni e della fiducia necessarie per l’innovazione;

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CONTENIMENTO SALARIALE 5. In merito al problema del contenimento salariale rispetto alla crescita della produttilità, l’analisi di Soskice evidenzia come le economie coordinate di mercato si valgono in genere di forme di controllo legate alla contrattazione centralizzata tra sindacati forti, organizzazioni imprenditoriali e governi.

Soskice rileva anche, facendo riferimento soprattutto al caso giapponese, come risultati simili siano raggiungibili anche con relazioni industriali decentrate nelle quali vi siano sindacati di tipo aziendale, orientati a condividere gli obiettivi delle imprese e integrati istituzional¬mente nella loro struttura interna

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CONTENIMENTO SALARIALE Per quel che riguarda invece le economie non coordinate, in cui il ruolo delle organizzazioni sindacali è debole, il contenimento salariale si basa sulla diffusione della disoccupazione come elemento di pressione sulle rivendicazioni salariali dei lavoratori. Ciò crea però dei problemi quando le imprese hanno bisogno di manodopera con qualificazione elevata e specificamente legata ai loro bisogni. In questa situazione è costoso licenziare lavoratori che possiedono tale professionalità specifica e sostituirli con disoccupati che non la posseggono; ne risulta allora rafforzato il potere dei lavoratori occupati anche in presenza di una disoccupazione elevata.

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LE CONDIZIONI ISTITUZIONALI DELLA COMPETITIVITÀ

Da quanto esposto emerge un quadro di sostanziale il vantaggio competitivo del primo modello rispetto a quello fondato sul mercato come meccanismo di regolazione economica e sociale, per la difficoltà del mercato a garantire risultati soddisfacenti in termini sia di equità sociale, sia di efficienza economica, specie quando la sua azione non è sottoposta a vincoli istituzionali che ne limitino il ruolo a favore di altri principi di regolazione (stato, associazioni, reti informali).

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LA RIPRESA DEL CAPITALISMO ANGLOSASSONE Alla fine degli anni ‘80 si è verificata una significativa battuta d’arresto dell’economia di Germania e Giappone, mentre i capitalismi anglosassoni hanno mostrato nuovi segni di dinamismo, specie dal punto di vista occupazionale. Gli sviluppi della globalizzazione, e lo stesso processo di unificazione europea, hanno poi sollevato crescenti interrogativi sulla capacità di resistenza a lungo termine del quadro istituzionale delle economie coordinate rispetto alle sfide poste dalla globalizzazione.

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LA RIPRESA DEL CAPITALISMO ANGLOSASSONE

D’altro canto, occorre precisare che allo stato attuale delle conoscenze non è possibile stabilire quanto la crescita del capitalismo anglosassone e la difficoltà dell’altro modello siano dovuti a fattori di natura congiunturale o, invece, a mutamenti di tipo più strutturale e di lungo periodo .

Per il CASO INGLESE, i risultati, pur di segno positivo negli ultimi anni, sono però di entità modesta, e sempre concentrati nei servizi privati, con un basso livello di capacità innovative nell’industria manifatturiera.

Negli STATI UNITI, invece, nel corso degli anni ‘90 si è invece effettivamente avuta una significativa ristrutturazione industriale: la produttività è tornata a crescere a tassi consistenti e l’occupazione è rimasta stabile, con uno spostamento verso nuovi settori (i servizi) che ha compensato quelli in crisi

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LA RIPRESA DEL CAPITALISMO ANGLOSASSONE

. Anche il caso americano è però di difficile lettura. Sembra, infatti, che molte imprese medio–grandi, sotto la spinta delle pressioni per profitti a breve termine, abbiano preferito seguire la «via bassa» di una riduzione della forza lavoro e del decentramento di fasi o componenti della produzione, spesso all’estero, alla ricerca di costi più bassi. Altre imprese si sono invece impegnate in percorsi di innovazione di più lunga portata, imboccando una «via alta» e adottando soluzioni, nei rapporti con il management e con la manodopera, quali l’impegno nella formazione, flessibilità funzionale, rapporti di cooperazione, ecc..

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LA RIPRESA DEL CAPITALISMO ANGLOSASSONE

Un contributo ancor più consistente alla crescita della produttività è venuto dalla svalutazione del dollaro rispetto al marco tedesco e allo yen giapponese.

In questi termini è difficile stabilire quanto la ripresa americana sia dovuta a fattori congiunturali e quanto a componenti più strutturali, che pure sono presenti.

L’industria americana mostra comunque alcuni punti di forza nel campo dell’alta tecnologia che sembrano essersi ulteriormente consolidati (industria aerospaziale, informatica e delle comunicazioni, biotecnologie, ecc.), soprattutto per l’impegno americano in campo militare, che alimenta consistenti flussi di spesa per !a ricerca e l’innovazione tecnologica in questi settori.

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LA RIPRESA DEL CAPITALISMO ANGLOSASSONE

Particolare importanza ha poi la diffusione di strutture universitarie e di ricerca di elevato livello, con connessioni molto strette con il mondo delle imprese e con frequenti passaggi di personale dal campo della ricerca a quello delle imprese innovative.

Infine, un ruolo di particolare rilievo è svolto dalla presenza di venture capital, istituzioni attrezzate e competenti nel fornire capitale di rischio per il finanziamento di progetti innovativi, spesso portati avanti da piccole imprese.

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LA RIPRESA DEL CAPITALISMO ANGLOSASSONE

Tutto questo spiega sia perché il capitalismo anglosassone, fornisca un ambiente istituzionale più adatto alle innovazioni radicali, sia perché questo stesso contesto è meno in grado di sostenere l’adattamento e l’utilizzazione sul piano della produzione manifatturiera di tali innovazioni, in termini cioè di sviluppo di produzioni flessibili e di qualità.

Il capitalismo anglosassone, soprattutto di quello americano, si profila quindi come un sistema economico con alcune punte molto innovative nell’industria, nei servizi alle imprese e in quelli finanziari; un sistema capace però di creare occupazione soprattutto nel settore dei servizi privati al consumatore, a basso valore aggiunto. La crescita di addetti in tale settore trae vantaggio dalla deregolamentazione dei rapporti di lavoro, e dal sensibile declino della presenza sindacale (oltrechè da un basso valore dei salari reali ).

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LA RIPRESA DEL CAPITALISMO ANGLOSASSONE

È questo un elemento di vantaggio rispetto al capitalismo più organizzato, specie europeo, dove l’esistenza di sistemi di regolazione dei rapporti di lavoro più coordinati centralmente non consente quel grado di riduzione del costo del lavoro e quella flessibilità in entrata e in uscita tali da facilitare l’occupazione nei servizi privati.

Per ovviare a questo problema nei paesi scandinavi si è puntato ad allargare l’occupazione, specie femminile, nel welfare pubblico, mentre nei paesi europei ci si è mossi verso un sistema di protezione sociale di tipo «conservatore-corporativo», basato sui trasferimenti a favore degli occupati (che però ha creato una crescente difficoltà per coloro che sono in cerca di occupazione, in parte tutelati attraverso forme di redistribuzione familiare).

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LA RIPRESA DEL CAPITALISMO ANGLOSASSONE

Entrambe le strategie fanno però lievitare spesa pubblica e pressione fiscale e contributiva, e per questo possono influire negativamente sugli investimenti e sulla creazione di nuova occupazione.

Nel complesso, gli elementi esposti non sono dunque tali da ribaltare le conclusioni alle quali era giunto il neoistituzionalismo nell’analisi della varietà dei capitalismi. Il capitalismo anglosassone non sembra al mo-mento esibire né una netta superiorità economica (se si guarda alla competitività e non solo all’occupazione), né tanto meno una capacità di ridurre le disuguaglianze sociali. Al contrario, queste ultime tendono a crescere in concomitanza con la ripresa economica.

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LA RIPRESA DEL CAPITALISMO ANGLOSASSONE

Sicuramente, però, i segni di dinamismo sul piano economico e occupazionale portano a correggere una certa visione unilaterale della letteratura istituzionalista, la quale arrivava a sostenere che «un’economia potesse essere competitiva solo con il sostegno di una politica benevolente e di una società coesa» .

Il caso americano, in particolare, mostra come la competitività possa essere compatibile con elevati livelli di disuguaglianza sociale.

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CONVERGENZA O DIVERSITÀ? Oltre ad avere maggiori vantaggi competitivi nell’immediato, il capitalismo anglosassone sembrerebbe poter mostrare, a più lungo termine, migliori capacità di adattamento ai vincoli posti dalla globalizzazione rispetto alle istituzioni regolative delle economie coordinate.

Il risultato finale sarebbe una convergenza nel tempo verso il modello istituzionale del capitalismo anglosassone. Come si vede, in questa accezione, il concetto di globalizzazione non si riferisce soltanto alla crescita dell’apertura e dell’interdipendenza delle economie nazionali, ma assume che la globalizzazione implichi anche un’estensione di modelli regolativi basati sul mercato.

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LE COMPONENTI DELLA GLOBALIZZAZIONE

Alla bassa crescita delle economie dei paesi più sviluppati, iniziata nei primi anni 70 e prolungatasi oltre la seconda metà degli anni ’90, si è accompagnato un forte aumento del commercio internazionale. Essendo il PIL mondiale aumentato in misura molto minore dell’ammontare complessivo dei flussi di scambio tra i diversi paesi, ciò ha comportato un aumento sensibile della concorrenza tra i vari paesi per aggiudicarsi fette sempre più ampie di mercato. Cambia anche la geografia della produzione mondiale, con un declino del peso percentuale degli Stati Uniti e dell’Europa e una crescita concentrata soprattutto in Giappone e negli altri paesi dell’Asia .

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LE COMPONENTI DELLA GLOBALIZZAZIONE

Accanto al commercio internazionale, un secondo indicatore della crescente integrazione internazionale dell’economia è dato dagli investimenti diretti all’estero, anche questi in aumento, trainati dalla ricerca da parte delle imprese di localizzazioni più favorevoli, sia per controllare i mercati di sbocco che per godere di condizioni di vantaggio in termini di costi.

Infine, il terzo aspetto che segna in misura ancor più marcata l’interdipendenza tra le diverse economie è costituito dall’integrazione dei mercati finanziari, ovvero la liberalizzazione del movimento dei capitali necessari per finanziare il commercio e gli investimenti, per assicurare contro i rischi valutati, per spostare gli utili ottenuti all’estero, ecc.

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LE COMPONENTI DELLA GLOBALIZZAZIONE

Hanno accelerato questo processo la rottura del sistema monetario internazionale basato sui cambi fissi, avvenuta all’inizio degli anni 70, il diffondersi di nuovi tipi di titoli («derivati finanziari») che vengono anch’essi incontro a una domanda di capitali in cerca di investimento, provenienti in particolare dai paesi produttori di petrolio, ed il miglioramento delle comunicazioni, legato alle nuove tecnologie informatiche, che abbassa nettamente i costi di transazione .

Se si tiene conto congiuntamente di tutti e tre gli indicatori citati – commercio internazionale, investimenti diretti all’estero e movimento dei capitali – si può cogliere, sul piano descrittivo, il fenomeno della GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA intesa come crescita del livello di apertura e insieme di interdipendenza delle diverse economie nazionali.

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI Diversi contributi sono stati raccolti con l’obiettivo duplice di valutare la portata dei processi di globalizzazione sul piano empirico e di discuterne le implicazioni sul piano della regolazione istituzionale. Per quel che riguarda il primo aspetto, vengono fornite molte indicazioni volte a non enfatizzare oltre misura la portata del fenomeno, dal momento che, nonostante l’aumento del commercio internazionale e degli investimenti diretti all’estero, nei paesi più sviluppati – non di piccole dimensioni – circa il 90% della produzione resta ancora rivolto al mercato interno, e lo stesso vale per le origini dei prodotti che sono consumati. Oltretutto, non c’è una significativa convergenza degli indicatori macroeconomici (salvo che per gli otto paesi più sviluppati, ma in misura molto limitata e solo per gli anni più recenti).

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI Le persistenti differenze nei tassi di crescita, in quelli di occupazione, di profitto o di interesse, rimandano all’influenza esercitata dal contesto istituzionale. Infine, è certamente vero che il costo del lavoro sensibilmente più basso di molti paesi in via di sviluppo costituisce una minaccia maggiore soprattutto per le economie coordinate, che puntano alla produzione flessibile e di qualità con più elevate retribuzioni del lavoro. Questa minaccia si accresce nella misura in cui gli sviluppi della tecnologia e delle comunicazioni permettono il decentramento verso queste aree anche di produzioni più complesse. Tuttavia, è anche vero che i capitalismi più organizzati dispongono di un livello di economie esterne e di un complesso istituzionale che le mette in condizione di continuare a controllare i processi di innovazione e le fasi produttive a più elevato valore aggiunto.

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI Resta da vedere se effettivamente tutto ciò porterà alla futura convergenza istituzionale. Ci risponde affermativamente a questa domanda, porta generalmente tre tipi di argomentazioni:

1. La pressione dei mercati e la crescente concorrenza a livello internazionale, che aumentano la spesa pubblica degli stati per la protezione sociale (direttamente con interventi redistributivi che pesano sul fisco e sui contributi sociali e indirettamente, tramite la regolamentazione del mercato del lavoro e il sostegno giuridico alle relazioni industriali e alla contrattazione). Gli stati, poi, non possono applicare forme più incisive di redistribuzione e di regolazione dei rapporti di lavoro, perché potrebbero indurre le imprese a spostarsi altrove. Questo si traduce in una limitazione dell’autonomia degli stati nel definire la propria politica economica, e questo avvantaggia i sistemi che già oggi si basano maggiormente sul mercato;

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI 2. I processi di imitazione di regole istituzionali che danno buoni risultati in termini di rendimento economico, che possono spingere a fenomeni di ibridazione tra forme istituzionali diverse, favorendo per questa la convergenza;

3. L’introduzione contrattata, tramite accordi internazionali, di forme di regolazione simili (ad es. gli accordi internazionali volti ad abbattere le barriere protettive e a introdurre standard comuni, quale quello relativo ai processi di integrazione economica europea).

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI A queste argomentazioni Suzanne Berger ne contrappone altre che gettano invece dubbi sulla portata dei processi di convergenza istituzionale.

I. L’accresciuta concorrenza segnala sì delle esigenze cambiamenti istituzionali, ma non è in grado di imporre una soluzione istituzionale standard. Più facilmente tale soluzione sarà anche frutto dei condizionamenti esercitati sugli attori dal patrimonio istituzionale ereditato dal passato e dai conflitti di interesse tra i sostenitori delle vecchie regole e i fautori del cambiamento. Le scelte saranno cioè path dependent;

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI II. Rispetto ai problemi competitivi, le varie istituzioni (es., l’impresa tedesca, quella di tipo giapponese o i distretti industriali italiani) possono rispondere in modi diversi, che tuttavia si equivalgono come capacità competitiva;

III. Esistono forme specifiche di interdipendenza tra le diverse istituzioni che caratterizzano una determinata realtà nazionale, e che sono legate a una comune matrice culturale maturata storicamente, per cui può risultare difficile cercare di imitare organizzazioni sviluppatesi in altri contesti nazionali.

Come si vede, gli argomenti portati da una parte e dall’altra sono solidi e non si prestano a formulare risposte semplificate agli interrogativi sulle conseguenze istituzionali della globalizzazione.

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI Sembra comunque assodato che la globalizzazione comporterà – e in parte lo sta già facendo – una serie di conseguenze destabilizzanti soprattutto per i modelli di capitalismo più organizzati, ricchi più di istituzioni che di mercato. Non sembra però probabile che tali mutamenti determineranno un’effettiva convergenza. Si può invece ipotizzare una ridefinizione delle economie coordinate di mercato che si accompagni al persistere di equilibri multipli, cioè di sistemi istituzionali caratterizzati da punti di forza e di debolezza differenziati.

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI Sembra comunque assodato che la globalizzazione comporterà – e in parte lo sta già facendo – una serie di conseguenze destabilizzanti soprattutto per i modelli di capitalismo più organizzati, ricchi più di istituzioni che di mercato. Non sembra però probabile che tali mutamenti determineranno un’effettiva convergenza. Si può invece ipotizzare una ridefinizione delle economie coordinate di mercato che si accompagni al persistere di equilibri multipli, cioè di sistemi istituzionali caratterizzati da punti di forza e di debolezza differenziati.

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI Per spiegare questo giudizio può essere utile analizzare più nei dettagli le conseguenze che la globalizzazione sta determinando nell’intervento in campo economico e sociale dello stato.

• La liberalizzazione dei movimenti dei capitali e la crescente integrazione dei mercati finanziari pongono seri limiti all’autonomia degli stati nazionali nella determinazione delle politiche economiche, per cui è sempre più difficile, per uno stato, perseguire politiche macroeconomiche di tipo keynesiano perché, aumentando il deficit ed il debito pubblico, generano aspettative negative e pressioni sfavorevoli sul tasso di cambio della moneta nazionale (con crisi valutarie e svalutazioni).

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI Questi vincoli all’autonomia delle politiche macro–economiche sono poi rinforzati dall’integrazione commerciale e dalla spinta agli investimenti all’estero, per cui una politica espansiva potrebbe comportare una crescita delle importazioni, se l’apparato produttivo nazionale è poco competitivo perché la pressione fiscale o il costo del lavoro sono elevati. Come pure alti tassi di interesse, o un forte carico fiscale, costituiscono uno stimolo per investimenti diretti all’estero.

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI Quanto poi ai paesi coinvolti nel processo di unificazione monetaria ed economica europea, i condizionamenti posti dalla globalizzazione sono rafforzati da quelli derivanti dagli accordi sottoscritti dagli stati stessi (v. Maastricht) che pongono specifici vincoli alla spesa pubblica. In altre parole, vincoli macroeconomici e spinte alla deregolamentazione andrebbero insieme, penalizzando maggiormente quelle economie coordinate che più dipendono dal sostegno statale. Come conseguenza, si determinerebbe effettivamente un indebolimento del capitalismo più organizzato, che si avvicinerebbe a quello più di mercato di tipo anglosassone, anche se con una perdita complessiva di competitività delle economie dei paesi sviluppati e una maggiore disuguaglianza sociale.

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI • Questo processo verrebbe accelerato anche dalla pressione del capitale finanziario sulla corporate governance, cioè sull’assetto proprietario e i meccanismi di governo delle imprese. Effettivamente, la maggiore libertà di movimento del capitale finanziario e la possibilità di cogliere occasioni di profitto a breve sul mercato internazionale, tendono a destabilizzare il rapporto di lungo periodo tra banche e imprese: da un lato, le banche dei capitalismi organizzati si muovono verso le borse internazionali e verso occasioni di investimento in paesi del capitalismo anglosassone; dall’altro, il capitale finanziario anglo–americano penetra in quello delle imprese dei capitalismi più organizzati, in una sorta di «isomorfismo normativo», favorito anche dalle grandi società di consulenza e di valutazione internazionale.

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI • Altre valutazioni, più scettiche circa gli esiti in termini di convergenza attraverso la via della deregolamentazione, sottolineano come gli evidenti vincoli macroeconomici non comprimono però necessariamente gli spazi di autonomia per le politiche regolative o redistributive a livello microeconomico (Cosi, per esempio, si può accrescere la competitività a livello micro grazie alla formazione professionale, alla ricerca e sviluppo, alla regolamentazione dei settori e dei rapporti di lavoro). D’altra parte, se è vero che i vincoli macro alla spesa pubblica incidono sulla necessità di ristrutturare e di limitare il welfare statale, e di rendere più flessibile il mercato del lavoro, le direzioni che il processo di riorganizzazione può prendere sono varie e risentono, come per gli interventi microeconomici, del patrimonio e della logica istituzionali di ciascun paese (non facilmente divisibili).

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI • Cautela richiede anche la valutazione dell’impatto della globalizzazione sui processi di concertazione: un indebolimento delle vecchie forme di concertazione centralizzata, volte a controllare l’inflazione, potrebbe avere come conseguenza nuove forme di concertazione in grado di favorire una riorganizza-ione del welfare e una messa a punto di interventi microeconomici per sostenere la produttività e la crescita di competitività.

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI •In conclusione, alla luce delle considerazioni precedenti ci sono buone ragioni per supporre che le tendenze di globalizzazione si accompagneranno a mutamenti istituzionali significativi e alla ridefinizione dei confini tra i diversi modelli di organizzazione dell’economia. Resteranno, tuttavia, differenze istituzionali per cui, piuttosto che di un unico equilibrio che si afferma gradualmente e inesorabilmente si avranno equilibri multipli, funzione degli specifici contesti istituzionali ereditati dalia storia. Ci potranno cosi essere modi diversi nell’affrontare la competizione economica e combinazioni variabili di efficienza economica ed equità sociale.

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IL FUTURO DEI CAPITALISMI •Il problema che le diverse società si troveranno ad affrontare sarà quello di trovare una regolazione che cerchi di usare al meglio il patrimonio istituzionale ereditato dal passato, non per opporsi alla globalizzazione e ai mercati, ma per rispondere alle sfide nel modo più efficace proprio perché più congruente con i diversi presupposti culturali e di civiltà.