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Le due scadenze elettorali, italiana e
inglese degli ultimi giorni hanno por-
tato una ventata di novità. Buone o
cattive lo giudicherà la storia; al mo-
mento solamente da rispettare per-
ché prodotte dalla libera espressione
popolare. Anch’io sono in parte sor-
preso ma questo conta nulla. Credo
però che sia interessante analizzare i
fatti a cominciare da quelli italiani.
Innanzitutto da un punto di vista
numerico. Il P.D. perde due città fon-
damentali, la capitale e Torino, tutte
e due a vantaggio del Movimento 5
stelle e non del centrodestra suo
avversario storico. Ma le perde par-
tendo da due circostanze pregresse
molto diverse. A Roma si proveniva
da una situazione pessima del P.D.,
in sostanza ed in immagine, ovvero
da tutte le questioni di “Mafia Capi-
tale” e dalla vicenda “Marino” ovve-
ro da una conduzione probabilmen-
te più onesta di quelle precedenti,
ma assolutamente insufficiente per
affrontare i problemi della città.
Conduzione talmente maldestra da
fare dimenticare ai romani le vicen-
de di pochi anni prima con il sindaco
Alemanno a sua volta coinvolto in
diverse vicende molto discutibili,
alcune delle quali sfociate in proce-
dimenti giudiziari. A Torino invece si
proveniva da una sindacatura di Pie-
ro Fassino assolutamente positiva, a
volte riconosciuta pure dagli avver-
sari politici. Questo deve far pensare
che il voto sia stato solamente in
maniera molto parziale per il giudi-
zio che i cittadini avevano riguardo
le situazioni pregresse, ma molto
influenzato dalla vicenda politica
nazionale nel suo complesso. Sta di
fatto che il partito Democratico ha
perso tanti voti e questi non sono
andati a ciò che sembra il nuovo.
Nuovo che va ancora tutto dimostra-
to e messo alla prova del mestiere di
governare, notoriamente molto più
duro di quello dell’opposizione. Ma
tutto ciò che ha perso il P.D. non è
l’unico contributo arrivato a M5S,
Volubile o esasperato?
La parresia L U G L I O 2 0 1 6
R E S P O N S A B I L E D E L S I T O :
A M E D E O G A R G I U L O
I C O N T R I B U T I N O N F I R M A -
T I S O N O D A A T T R I B U I R E A L
R E S P O N S A B I L E
S O M M A R I O :
Volubile o esasperato? Pag. 2
Don Loris Pag. 4
Perché dico no! Pag. 6
Charlie Brown Pag. 8
Angelo o diavolo ? Pag. 10
Montagna maestra Pag. 12
Le montagne nella Bibbia Pag. 14
Camminare sulle acque Pag.16
Il realismo educativo Pag.18
Fantasia: musica e cinema Pag.20
Insieme a te non ci sto più Pag.22
Unbroken Pag.24
L’angolo della poesia Pag. 26
Il tuo muro Pag. 27
La poltrona e il caminetto Pag. 28
Segue nelle pagine successive
La domanda è ovviamente inerente il popolo che
va a votare. E mi riferisco sia alla elezioni ammini-
strative italiane sia al referendum inglese concluso-
si con la Brexit. L’analisi del fenomeno è complessa.
P A G I N A 2
Segue….Volubile o esasperato?
L A P A R R E S I A
specie nei ballottaggi dove al nuovo
movimento sono arrivati contributi di
molte altre provenienze, assoluta-
mente diverse tra loro, dall’elettora-
to di sinistra a quello della Lega, a
quello della destra; in realtà non c’è
stato nessun apparentamento ma
libere scelte da parte dei cittadini.
Matteo Renzi ha riconosciuto la scon-
fitta, ma lo ha fatto in un modo stra-
no come se fosse del P.D., di quelli che nel
partito gli remano contro e ben poco sua.
Ma questa posizione è indifendibile dopo
che negli ultimi mesi aveva tanto spinto
sul “con me o contro di me” e sul “solo
con le riforme che porto avanti l’Italia
cambierà davvero”. Forse l’Italia sta cam-
biando ad una velocità che neanche lui
pensava ed in una direzione anche ben
diversa. Mi pongo una domanda: ma di
tutta questa situazione non ha forse colpa
anche il Presidente emerito Mario Napoli-
tano? MI riferisco non alla scelta di Renzi
al posto di Enrico Letta ma alla precedente
di Mario Monti al momento della caduta
di Berlusconi. E’ vero che c’erano delle
urgenze, è vero che lo spread aveva tocca-
to livelli insopportabili, è vero che c’era un
esigenza di un governo immediato che
avesse la possibilità di assumere provvedi-
menti impopolari, ma questa fase è durata
qualche mese, poi si doveva andare a vo-
tare e non andare avanti un altro anno
pieno di polemiche verbali ma di fatto ca-
ratterizzato da un consociativismo che, di
fatto e nell’immagine, era assolutamente
contro il popolo in quanto sulle tematiche
sociali principali o si sono fatti provvedi-
menti pesanti (vedi riforma delle pensioni)
o ssono stati ignorati (vedi disoccupazione
giovanile). Se poi ci aggiungiamo che sia il
governo Monti che quello Renzi, dopo una
parentesi leggermente diversa del Gover-
no del Governo Letta, hanno assunto mol-
ti provvedimenti a favore delle banche, ivi
comprese quelle che hanno fatto dei disa-
stri per i risparmiatori, ben si capisce per-
ché le elezioni siano andate in un certo
modo. E si capisce pure come un forma di
fiducia personale che Renzi si era conqui-
stato in qualità di rottamatore e di novità,
si sia affievolità presto, dopo il boom del
41% alle Europee 2014. Ed è proprio l’in-
terpretazione di quel boom il grave errore
politico. Il popolo non aveva votato per
Renzi ma per quello che si pensava potes-
se rappresentare e realizzare, ovvero un
mix di disillusione e di speranza più che di
una reale convinzione. E quindi era un vo-
to per sua natura volubile e non consoli-
dato, che con un soffio se ne è andato da
un’altra parte. Nessuno si può cullare
sull’autosufficienza e sui soccorsi occasio-
nali. In tal senso è bene ricordare qualche
numero: per esempio a Roma nel 2006, al
secondo mandato, con il 61,8% dei voti
vinse Veltroni, appena due anni dopo, nel
2008, vinse Alemanno con il 53,7% dei voti
per poi tornare ad una vittoria del centro-
sinistra nel 2013 con Marino con una per-
centuale del 63,9 % ed infine pochi giorni
fa ha vinto Raggi con 67%. La mobilità dei
voti non ha bisogno di commenti. A margi-
ne qualsiasi considerazione sugli altri par-
titi che sembrano svolgere al momento il
ruolo delle comparse o poco più. Vale
Da un’elezione alla successiva ormai ci possono essere spostamenti di voti massicci e impreve-dibili. La fideizza-zione elettorale non esiste più.
P A G I N A 3
invece la pena porsi qualche altra domanda sul
meccanismo elettorale e sul metodo del bal-
lottaggio. Innanzitutto un problema di rappre-
sentatività. Giorgia Meloni ha preso al primo
turno circa il 21% dei voti ovvero un successo
comunque significativo con oltre un romano su
cinque che ha votato per lei e il suo partito;
ebbene in consiglio comunale verrà rappresen-
tata solamente da 6 consiglieri su 48, pari al
12,5%. Siamo d’accordo tutti sull’esigenza di
dare al vincitore un premio che garantisca la
governabilità, ma il meccanismo è da rivedere
perchè funziona in maniera non troppo aber-
rante solamente in una situazione bipolare. Ma
il secondo problema connesso al primo, è ben
più complesso e grave. I risultati hanno dimo-
strato che un metodo elettorale con ballottag-
gio ha senso e raggiunge l’obiettivo solamente
con un sistema bipolare; i ballottaggi hanno
portato molti elettori ad orientarsi verso la
stessa scelta pur provenendo da mondi molto
lontani: per esempio a Torino hanno votato
per la candidata Appendino sia i no-tav che la
Lega e il mondo di destra. Potrebbero verificar-
si delle situazioni socialmente esplosive anche
se poi se il vincitore governerà bene probabil-
mente, riuscirà a procedere. Ma se un domani
ci fosse un meccanismo di ballottaggio anche
per le elezioni politiche potrebbero avvenire su
alcune grandi scelte anche situazioni ingover-
nabili. Sarà bene pensarci bene, anzi ripensarci.
Ma voglio dedicare qualche riga anche alla vi-
cenda del referendum inglese sul quale sicura-
mente ha molto inciso l’aspetto dei movimenti
migratori. La Gran Bretagna aveva deciso di
esercitare l’«opt out» in materia di immigrazio-
ne e quindi di non partecipare ad alcuna politi-
ca comune per l’accoglienza degli stranieri che
arrivano in Europa. Si tratta della possibilità, di
cui godono anche Irlanda e Danimarca, di rima-
nere nell’Ue senza impegnarsi su alcuni dos-
sier. La Brexit non avrà dunque conseguenze
pratiche rispetto all’attuazione dell’agenda
Juncker sulla ricollocazione dei profughi, ma
potrebbe avere gravissime ripercussioni politi-
che. Il timore più forte riguarda le prossime
mosse degli Stati contrari a misure assistenzia-
liste nei confronti dei richiedenti asilo. Ma a
questo punto anche la minima collaborazione
già offerta dai paesi come Francia e Spagna
potrebbe venire meno, per rispondere alle ri-
chieste delle opposizioni interne contrarie a
qualsiasi tipo di intervento che preveda l’acco-
glienza di profughi. In sostanza nel voto a pre-
valso la paura e quindi un senso di chiusura e
di isolamento, anche geografico. In qualche
modo stupisce che ciò sia avvenuto in Gran
Bretagna della quale abbiamo una immagine
multietnica e molto aperta a culture diverse,
ma evidentemente questo a inciso a favore del
remain solo nelle classi più giovani fino ai
trent’anni, mentre gli adulti e soprattutto gli
anziani si sono schierati per l’exit, compiendo,
secondo me, un gesto di egoismo nei confronti
delle generazioni future, sperando di avere nel
breve termine dei vantaggi. Non ho seguito i
contenuti della campagna referendario, ma
come nel caso delle amministrative in Italia, mi
sembra che una parte dei votanti si sia espres-
sa pensando ad altro. Queste situazioni mi ob-
bligano ad una riflessione molto ampia sulla
democrazia della quale sono uno strenuo di-
fensore, avendo però la coscienza che è da di-
fendere perché nella storia esperienze diverse
si sono rivelate ben più deludenti se non noci-
ve. Qual è la riflessione? E’ che mancano dei
maestri, dei soggetti autorevoli, delle guide.
Altrimenti il popolo è spesso istintivo e guarda
solo ai pro e i contro del breve termine. Oggi
ce li sogniamo i Churchill, i De Gaulle, i Kenne-
dy, i De Gasperi od anche i più recenti Thatcher
Blair, Aznar, persone di estrazione molto diver-
sa conservatori o progressisti, ma di grande
spessore e dediti al servizio per la propria pa-
tria e per i propri concittadini. Da questo punto
di vista, guardandomi un po’ intorno mi sem-
bra proprio che “mala tempora currunt”. Ma
allora l’elettorato è volubile o esasperato? E’
volubile perché è esasperato, per cui i voti a
chiunque siano andati sono sempre da consi-
derarsi da riconquistarsi ogni volta. Non si vive
più di rendita.
P A G I N A 4
Don Loris
“Vivo i miei giorni del tramonto assistendo
al rinnovarsi dell’aurora della Chiesa. Ed è
motivo di consolazione. Tantum aurora
est… “. Questa è stata una delle ultime di-
chiarazioni pubbliche di Loris Capovilla. Par-
tendo dal fondo cioè dall’ultimo dei suoi
cento anni di vita si può intuire tanto, forse
tutto, di un uomo straordinario. A conferma
di ciò basta rileggere quello che ha detto
pochissimo tempo fa parlando della sua
morte: “Che bello se potessi trascorrere
quel giorno con i profughi accolti a Sotto il
Monte, a far capire loro l’uomo uscito da
questa terra o con i carcerati, a riflettere sul
Giubileo della misericordia “. E’ stato un
uomo di preghiera, ma anche un uomo di
azione altrimenti non sarebbe potuto stare
al fianco di un uomo come Papa Roncalli.
Ma soprattutto è stato un uomo della con-
cretezza e del dialogo e lo era stato fino alla
fine dei suoi giorni. Se cent’anni autorizza-
no a parlare di una vita sazia, nel suo caso
non è così. Le forze fisiche erano ovviamen-
te diminuite, ma le forze intellettive in lui
continuarono a brillare, tant’è con una luci-
dità sensazionale diceva di se: “Arrivato a
cent’anni non ho avventure strepitose da
raccontare, tranne l’incontro con voi (Papa
Giovanni), che siete stato l’ispiratore del
mio servizio sacerdotale a Venezia, in Vati-
cano, in Abruzzo, nelle Marche e a Berga-
mo. Di nulla mi vanto, non mi sento credi-
tore verso alcuno, sono in debito invece
con voi”. Raccontare la sua vita sarebbe
lungo ma l’aspetto che più mi colpisce è
quello della sua grande versatilità nei con-
fronti di ciò che la vita gli ha posto avanti.
Con grande umiltà è stato disponibile a
L A P A R R E S I A
Monsignor Capovilla, per tutti Don Loris, è morto pochi
giorni fa all’età di 100 anni. E’ un grande uomo di fede ed
un straordinario testimone della vita della chiesa del nove-
cento, in particolare del pontificato di Giovanni XXIII, del
quale è stato il segretario, ma anche qualcosa di più, sia nel
periodo a Venezia quando ne era il patriarca, sia nel perio-
do romano, quando Roncalli salì al soglio di Pietro.
Monsignor Capovilla con Papa Giovanni
P A G I N A 5
ricominciare anche con cambi di vita radicali. Da gio-
vane prete caratterizzato da un’esperienza molto
semplice di parrocchia di campagna, a supporto
principale di un Papa, senza peraltro mai montarsi la
testa. Il periodo dopo la morte di Papa Giovanni non
fu semplice per lui che tentò in tutti i modi di porta-
re avanti nella chiesa i principi conciliari. Una missio-
ne che non poteva non scontrarsi con l'immobilismo
comodo e la paura pregiudiziale anche di tanti sog-
getti cattolici che erano chiamati a farsi collaboratori
solerti di quanto introdotto dal rinnovo conciliare.
Per lui fu fondamentale la successiva esperienza nel-
le Marche ed in particolare a Loreto, dove si calò in
un ruolo meno appariscente di quello di segretario
di un Papa, ma di grande valore missionario a con-
tatto con la gente e con la straordinaria devozione
popolare che si genera in un luogo come il santuario
di Loreto. Dal 1989, il ritiro fecondo a Sotto il Monte,
cioè nel paese natale di Papa Giovanni, e non nel
suo. A continuato a vivere con entusiasmo nella pre-
ghiera e nell’attività di lasciare più traccia possibile
del pontificato di Papa Giovanni. Mi piace conclude-
re questa memoria ricordando che Loris Capovilla
rivedeva in Papa Francesco molti tratti di Papa Gio-
vanni e ne apprezzava il modo con cui svolge il Ponti-
ficato tant’è che ne ha lasciato traccia in una lettera il
cui contenuto è quello che avrebbe voluto dire al Pa-
pa: “Ce l’avete fatto capire, Santo Padre: non un si-
stema ci occorre, specialmente in tempi di emergen-
za, non un’ideologia, non un computer; ci occorre un
uomo in carne ed ossa, come erano i profeti; uomo
che pensa, prega ed ama; uomo non costruito sul
protocollo, né sulla diplomazia; uomo che ti sorride
con gli occhi; uomo i cui occhi nuotano talora nelle
lacrime senza che si alterino i tratti del volto”.
Monsignor Capovilla, ben 76 anni di sacerdozio,
dal 23 maggio 1940, vescovo dal 1967 su nomi-
na di Papa Paolo VI, è stato creato cardinale da
Papa Francesco il 22 febbraio 2014 a 98 anni,
ricevendo il titolo presbiterale di Santa Maria in
Trastevere e divenendo in tal modo il membro
più anziano del collegio cardinalizio.
“Pensavo fosse uno scherzo. Squilla il telefono, io
rispondo e dall'altra parte dicono: `monsignor Ca-
povilla, sono Papa Francesco´. Aveva fatto lui il nu-
mero, senza passare dal centralino”. Così racconta-
va Don Loris della telefonata con la quale gli veni-
va comunicato che sarebbe stato nominato cardi-
nale. Ed aggiungeva riferendosi a Papa Francesco:
“Al termine della mia vita tocco con mano che al-
cune intuizioni di Papa Giovanni vengono oggi mes-
se sul tappeto da Francesco. Nel discorso agli am-
basciatori che hanno presentato le credenziali
qualche giorno fa, lui ha detto che la Chiesa deve
preoccuparsi in particolar modo degli ultimi. Ha
ripetuto la stessa frase di Papa Giovanni nel radio-
messaggio un mese prima dell'apertura del Conci-
lio, l'11 settembre: `La Chiesa è di tutti e nessuno è
escluso, ma e" particolarmente la Chiesa dei pove-
ri´. Qualcuno ha detto che questa è demagogia ma
dove è la demagogia se tuo fratello muore di fa-
me? È un grande discorso che quelli che si vogliono
chiamare cristiani devono vivificare dentro di loro:
non accontentarsi solo di battere le mani al Papa”.
Monsignor Capovilla
P A G I N A 6
Perché dico no!
Il reddito di cittadinanza: una trovata populistica
molto preoccupante. Ma qual è la proposta? Quali
sono le possibili conseguenze? Perché piace? Perché
manca tanta informazione sull’argomento?
L A P A R R E S I A
Una iniziativa di questo genere, in Italia,
costerebbe – secondo il governatore della
Banca d’Italia – il 20 per cento del Pil, vale
a dire tra i 400 e i 500 miliardi di euro
all’anno per dare a tutti i cittadini un red-
dito di oltre 1.500 euro mensili a fronte
di nessuna prestazione lavorativa. An-
dremmo a creare dei disoccupati perma-
nenti di Stato, in un paese dove già ades-
so tra lavoro nero ed evasione fiscale sia-
mo “messi bene”! Con una garanzia simi-
le , ben pochi andrebbero a cercare lavo-
ro per dignità, ma si adagerebbero su
questa situazione non pensando alle tan-
te negatività che ne deriverebbero. Pro-
viamo ad individuarle. Il primo aspetto,
essendo il reddito di cittadinanza esente
fiscalmente, ci sarebbe un notevole calo
delle entrate e quindi una grande difficol-
tà a garantire i servizi ed in particolare il
welfare; ma la ricaduta non sarebbe sola-
mente sui soggetti destinatari del reddito
di cittadinanza ma anche su tutti gli altri
che pagano i contributi per garantirsi pre-
videnza e protezione sociale. Inoltre ci
troveremmo con dei cittadini che lavora-
no normalmente ad avere un’entrata
mensile inferiore ai beneficiari di questa
proposta, con conseguenze di tensioni
sociali facilmente immaginabili. Inoltre
questi soggetti, non avendo le ritenute,
dovrebbero garantirsi la propria sanità
con polizze volontarie e private Ma se
questi non lo dovessero fare, comunque
avrebbero diritto, per esempio, ad una
assistenza ospedaliera in caso di bisogno,
il cui onere ricadrebbe sui soliti fessi che
lavorano e pagano. C’è un altro aspetto
inquietante che è l’incentivo al lavoro
nero. Per conservare il diritto al reddito di
cittadinanza si può facilmente immagina-
re le dichiarazioni false che ci sarebbero e
l’incapacità della macchina pubblica a
scoprire certe situazioni. Non scordiamoci
che al momento attuale lo Stato con i suoi
uffici finanziari, Equitalia compresa, è bra-
vissimo a individuare tra i contribuenti
errori o piccole evasioni, e le fa pagare
molto care, ma ben poco fa nei confronti
degli evasori totali, cioè di quelli fiscal-
mente inesistenti. Ma in realtà c’è un
aspetto che mi preoccupa ben di più e
che, volutamente, ho voluto tenere per
ultimo: l’aspetto diseducativo. Ritengo
che uno delle componente fondamentali
dell’educazione che un genitore può dare
ai propri figli sia proprio quello del lavoro,
sia il fatto che sudarsi un po’ le risorse
Nei giorni recenti
il Movimento cin-
que stelle ha as-
sunto la guida di
alcune importanti
città italiane, rac-
cogliendo in alcuni
casi delle eredità
non facili da
affrontare. Vedre-
mo presto gli esiti
di questa nuova
stagione e mi au-
guro per il bene
dell’Italia che go-
vernino bene. Ine-
vitabilmente ri-
tengono di potersi
proporre a breve
per la guida del
Governo naziona-
le. Fermo restando
che i loro parla-
mentari hanno
assunto alcune
iniziative condivi-
sibili, merita un
ampio dibattito un
loro cavallo di
battaglia: il reddi-
to di cittadinanza.
P A G I N A 7
Il Referendum tenutosi recentemente in Svizzera per il Reddito di Cittadinanza è stato pesantemente boccia-
to. A livello federale la percentuale media del NO è stata pari al 76,9%. Perché passi una proposta è necessa-
rio sia superare il 50% a livello federale, sia che il 50% sia superato nella maggioranza dei cantoni. Nessuno
dei risultati è stato lontanamente avvicinato. In Svizzera ogni cittadino ha immediatamente una conseguen-
za, in termini di più o meno tasse, di ogni sua scelta ed ha chiaro questo legame tra causa ed effetto. In par-
ticolare nel caso specifico, trattandosi peraltro di un paese piccolo, il reddito garantito per tutti, è stato visto
come un disincentivo alla ricerca di un lavoro, peraltro con un pesante “prezzo” in termini di maggiori tasse.
Gli svizzeri si sono chiesti se valeva la pena di pagare più tasse per pagare uno stipendio a tutti, anche a chi
non ha voglia di lavorare, e 3 su 4 abbondanti si sono risposti che non ne vale la pena.
indispensabili a mantenersi sia una circostanza
positiva, di dignità e normalità umana, che ti
insegna a rispettare di più gli altri ed anche se
stessi ma anche ad apprezzare nella giusta mi-
sura ciò che si possiede e che si è conquistati
appunto con il proprio lavoro. Mi ricordo co-
me fosse ieri la soddisfazione di avere ritirato
il mio primo stipendio, di avere messo la ben-
zina ed offerto la pizza alla mia fidanzata non
più con i soldi di papà. Ovviamente le mie con-
siderazioni non vogliono avere nulla di offensi-
vo nei confronti dei disoccupati e di chi ha per-
so il lavoro. Nei confronti di questi ultimi non
c’è dubbio che gli strumenti di garanzia già
esistenti, il sussidio di disoccupazione e la cas-
sa integrazione, vanno mantenuti, difesi ed in
alcune circostanze anche migliorati, ma si de-
ve trattare di una misura transitoria e lo Stato
stesso non si può adagiare su questi strumenti
per non adottare strategie e strumenti più
strutturali e a tempo indeterminato. E qui si
torna al nocciolo della questione, non bisogna
dare un reddito a chi non lavora, ma dargli
appunto occasioni di lavoro. Sicuramente faci-
le a dirsi, meno a farsi. Però ci sono alcuni
settori di servizi che avrebbero un bisogno di-
sperato di risorse umane. Il primo esempio
che mi viene in mente è il settore della pubbli-
ca sicurezza: si reclama tanto una mancanza di
sicurezza per i nostri cittadini ma poi le forze
dell’ordine per presenziare il territorio sono
sempre insufficienti, e di molto. In molti setto-
ri ospedalieri il personale è costretto a turni
doppi massacranti per compensare le carenze
di personale. Molti uffici pubblici, soprattutto
in periferia, sono presenziati in misura a volte
pari ad un decimo rispetto agli organici stabili-
ti. E potrei continuare. Qualcuno potrebbe
obbiettare che si tratta di tutti lavori statali o
più in generale di natura pubblica; il che porta
alle solite polemiche sui fannulloni nelle Am-
ministrazioni pubbliche. C’è un fondo di verità,
o forse c’era. Ora è molto meno vero visto che
è vigente un blocco del turn-over da quasi
vent’anni. E comunque la soluzione del pro-
blema non può essere rinunciare ai servizi
pubblici, ma controllare e renderli efficienti
con valutazioni di tipo privatistico. Ma per
offrire lavoro, si può agire anche in forma indi-
retta, favorendo le assunzioni da parte dei pri-
vati con agevolazioni fiscali e previdenziali.
Con i job acts qualcosa è stato messo in moto
ma serve ben altro ed anche in questo settore
bisogna vigilare perché anche il mondo privato
non è esente da pecche. Concludendo, atten-
zione a ricordarsi bene che negli anni cinquan-
to e sessanta c’erano tante polemiche sulle
grandi infornate di assunzioni nel mondo sta-
tale, perché vigeva il giudizi che quelli più che
posti di lavoro erano stipendi. Con il reddito di
cittadinanza potremmo commettere lo stesso
errore, ma molto, molto più grave.
P A G I N A 8
Charlie Brown
L A P A R R E S I A
Sa tutto di aquiloni ma non riesce a farli
volare, e così anche un gioco diventa origi-
ne di ansia che poi si cronicizza. Nel base-
ball non gli va meglio: perde ogni partita
che gioca, collezionando figuracce con gli
amici. Eppure, malgrado tutto ciò e tutti i
suoi dubbi, il personaggio Charlie Brown è
un vincente. Le sue famose strisce si sono
diffuse in tutto il mondo e sono state tra-
dotte in 21 lin-
gue diverse. Si
potrebbe defi-
nire un perden-
te di successo.
Si pone tante
domande sulla
vita. Non è
detto che però
tutte trovino
risposta. Lo si
può considera-
re un modello,
capace di ispi-
rare una nuova
idea di società, al ribasso, quasi alla so-
pravvivenza. Lo ha affermato perfino
Matteo Motterlini, neuroeconomista e
professore ordinario di Filosofia della
scienza all’Università di Milano. “Perché
non posso avere un cane normale come
tutti gli altri?”. E’ una delle sue tipiche do-
mande, esasperata e simbologica che ci fa
scoprire tutti un poco egocentrici come
Snoopy, egoisti e malefici come Lucy, insi-
curi e esistenzialisti come Linus, sballottati
da emozioni come Charlie Brown. Scolaro
di quarta elementare, Charlie Brown è sicu-
ramente un perdente, ma capace di infinita
determinazione e testardaggine; è domina-
to dalle sue ansie e dalla convinzione dei
suoi limiti, nonché dai suoi compagni che
approfittano di lui. Le strisce di Peanuts
sono notevoli per l’abile critica sociale,
specialmente se comparata con gli altri fu-
metti ad essa contemporanei negli anni
cinquanta e sessanta. Schulz non denuncia
esplicitamente i problemi legati alla razza,
al genere ed alla disuguaglianza sociale ma
li rende evidenti ad esempio nel disegnare
un personaggio come Piperita Patty, la cui
abilità atletica e la cui forza di carattere
sono date per scontate, stridente con l’im-
Chi della mia generazione, e di molte successive,
non ha letto le strisce dei Peanuts rappresenta una
vera rarità. Ma qual era il segreto attrattivo di un
personaggio così inquieto ed ansioso, al quale non
ne andava bene una? Forse un tipo di sensibilità
rappresentata con ironia ed origine di sorrisi a den-
ti stretti e di un po’ di malinconia.
Benché fosse
cristiano, Schulz
si definiva un
"umanista seco-
lare". Politica-
mente modera-
to, ebbe anche
a fare satira
contro l'estre-
ma destra cri-
stiana, presen-
tandola come
ipocrita ed auto
assolutoria.
P A G I N A 9
ne delle ragazze simbolo dell'epoca. Schulz, pur
nella ripetitività di impostazione delle sue stri-
sce, toccò nel merito molte tematiche riuscendo
anche ad essere pungente . Nel corso degli anni
spaziò su tutto, dalla guerra del Vietnam ai re-
golamenti sull'abbigliamento scolastico alla
"nuova matematica". Una delle sue sequenze
più premonitrici risale al 1963, quando inserì nel
cast il personaggio di un bambino chiamato "5",
le cui sorelle si chiamano "3" e "4", il cui padre
ha cambiato il cognome della famiglia nel pro-
prio codice postale per protestare su come i nu-
meri vadano a sostituirsi alle identità delle per-
sone. Un'altra sequenza critica l'ossessivo voler
organizzare i giochi dei bambini, tipicamente
americano, quando aderiscono a squadre orga-
nizzate per la realizzazione competitiva di pu-
pazzi di neve e criticano Charlie Brown per il suo
insistere a voler fare il proprio pupazzo di neve
da solo. Le strisce quotidiane dei Peanuts erano
impaginate nel formato "salva-spazio" a 4 vi-
gnette sin dagli anni cinquanta, con rarissime
eccezioni sviluppate su 8 vignette. Nel 1975 lo
spazio fu leggermente accorciato in orizzontale
e nel 1988 Schulz abbandona lo schema classico
iniziando ad utilizzare l'intera lunghezza della
striscia, in parte per combattere le continue ri-
duzioni di spazio, in parte per sperimentare.
Schulz ha disegnato ininterrottamente la striscia
per 50 anni, senza avvalersi di assistenti,
nemmeno per i testi e la colorazione. A
cominciare dai primi anni ottanta il suo
tratto ha cominciato a tremare: il tre-
molio è diventato più visibile nel decen-
nio successivo. Ciononostante ha conti-
nuato a disegnare fino a quando i suoi
problemi di salute sono diventati insor-
montabili. L'ultima striscia è stata dise-
gnata il 3 gennaio 2000 e pubblicata il
giorno dopo la morte di Schulz, avvenu-
ta il 12 febbraio successivo. Molti gior-
nali statunitensi hanno cominciato a
ripubblicare le vecchie strisce, questo in virtù
delle ultime volontà di Schulz che nel suo testa-
mento ha proibito la continuazione della serie
dopo la sua morte. C’è da chiedersi da cosa po-
trà mai derivare tanto successo. Sono strisce
che non fanno ridere, tutt’al più fanno sorridere
e generano tenerezza, sono ironiche e fanno
emergere anche un certo cinismo dei cosiddetti
amici di Charlie Brown che soffre di questa si-
tuazione ma considerando l’amicizia una cosa
sacra, resiste e cerca sempre il perché delle co-
se e delle situazioni dentro se stesso e per se
stesso. E’ qui, secondo me, il segreto del succes-
so: la possibile identificazione di ciascuno di noi
in almeno una delle fobie del personaggio. Fo-
bie che però hanno un risvolto positivo ovvero
pongono delle domande vere sulla vita, sul sen-
so, sul mistero, sui rapporti umani e le difficoltà
che si incontrano. E’ come se si trattasse di un’a-
nalisi gentile ed ironica di se stessi e della vita
con un qualcosa di ansiogeno, per l’insistenza
delle domande stesse e la sensazione che si stia
sempre aspettando qualcuno o qualcosa che
non arriva mai, come in “Aspettando Godot” .
Ma l’attesa è pura e proprio per questo più fati-
cosa ed anche un po’ angosciante. Non c’è dub-
bio che a Charlie Brown la vita sembrerebbe più
semplice senza i silenzi della solitudine (vedi
immagine in basso) ma sarebbe vita?
P A G I N A 1 0
Angelo o diavolo ?
L A P A R R E S I A
Marco Pannella “convertito”; Marco Pan-
nella, “il mangiapreti che ritrova la fede in
articulo mortis”; Pannella come Renato
Guttuso, Oriana Fallaci, Curzio Malaparte?
Pannella anche da morto suscita grandi
discussioni. E’ stato un personaggio parti-
colare della vita politica italiana, era narci-
so, affabulatore ed istrionico. Era capace di
parlare per un tempo infinito ma anche di
lunghi silenzi imbavagliato pur di eviden-
ziare all’opinione pubblica vicende del no-
stro paese a suo vedere vergognose e non
sufficientemente attenzionate. Quando
parlava era capace di partire da una affer-
mazione e poi divagare in una logica che
solamente lui a volte riusciva a seguire. Mi
ha sempre incuriosito come con grande
disinvoltura aggrediva la chiesa, i Papi, i
valori cattolici per poi definirsi cristiano.
Le sue grandi battaglie civili erano comun-
que spesso sostenute nel metodo e nella
sostanza in linea di bordo. Basta pensare al
fatto che per spingere alla liberalizzazione
delle droghe, le fumava pubblicamente
ostentando il reato e provocando le forze
dell’ordine affinchè lo arrestassero. Ancor
più inquietante quando insieme ad alcuni
suoi compagni radicali provocava gli aborti
clandestini per “salvare le donne”
dal mercato nero dell’aborto. Do-
vete facilmente immaginare che
non abbia mai avuto particolare
simpatia per queste posizioni e
comportamenti però ho avuto sim-
patia per lui in altre circostanze.
Per esempio nel suo modo di esse-
re accogliente con i più derelitti e in
alcune sue battaglie sulla legalità e
sulla situazione dei carcerati. Ma
cerchiamo di scoprire meglio que-
A fine maggio è morto Marco Pannella: un personaggio
molto discusso della politica italiana: certamente molto ha
inciso su alcuni cambiamenti della concezione di vita degli
italiani. Anche chi lo avversava ferocemente doveva rico-
noscere che nelle battaglie che sosteneva ci credeva vera-
mente anche se spesso le sue posizioni erano tutto e il
contrario di tutto, per confusione o per convinzione?
P A G I N A 1 1
sto personaggio che con estrema facilità oscilla-
va tra le posizioni prima ricordate e il dichiararsi
cristiano. La sensazione a pelle era quella di pen-
sare ad una evidente provocazione dissacratoria,
tanto da far pensare a lui come la reincarnazione
del diavolo. Però nulla si può dire con certezza,
solamente lui e Dio conoscono la verità. E quin-
di, seppur con molto scetticismo è giusto lasciare
aperta una chance interpretativa. Anche perché
quando ormai aveva capito che gli era rimasto
ben poco da vivere, ha scritto una lettera molto
bella a Papa Francesco, di fianco riportata, dove,
dopo degli apprezzamenti più di
tipo politico, fa un riferimento
molto puntuale alla croce. Ci si
può chiedere tante cose e porre
tante domande; ma, come ci ha
insegnato Papa Francesco, non
sta a noi giudicare.
Come si fa ad escludere una conver-
sione od anche che fin da prima, sep-
pur del tutto a modo suo, non avesse
fede. Non mi va di fare la parte
dell’avvoltoio che approfitta di que-
ste circostanze per rivendicare la
ragione di noi cristiani cattolici, ma
resta il fatto obbiettivo del mistero
che c’è dietro la vita di ogni persona.
Peraltro una serie di amicizie di Pan-
nella sembrerebbero dimostrare che
tanto mangiapreti non lo fosse.
“Al mio funerale
non voglio che si
pianga, voglio che
si rida e che ci sia
musica”. Questo
l’unico auspicio di
Marco» ha detto
Mirella Parachini,
compagna storica
del leader radicale
scomparso.
Qui di fianco il biglietto di Pannella al Papa il cui testo, reso nota da Famiglia Cristia-na ha poi avuto grande riso-nanza su tutti gli organi di co-municazione. La parte più sor-prendente, meno politica e più personale è certamente quella relativa alla croce. «Ho preso in mano la croce che portava mons. Romero, e non riesco a staccarmene» ha scritto Pannella in un post scriptum nella missiva inviata al pontefice, su cui aveva più volte espresso pareri positivi. La croce a cui fa riferimento il leader radicale è quella che era appartenuta a Oscar Ro-mero, arcivescovo di San Sal-vador, ucciso dagli squadroni della morte per le sue ripetu-te denunce delle violenze compiute dalla dittatura mili-tare.
L A P A R R E S I A
P A G I N A 1 2
Montagna maestra “La montagna è una maestra muta che crea discepoli si-
lenziosi“. Così J. W. Goethe amava definire la montagna
con un’intuizione unica e di rispetto della maestosità.
«Queste monta-
gne suscitano nel
cuore il senso
dell'infinito, con il
desiderio di solle-
vare la mente
verso ciò che è
sublime».
Giovanni Paolo II
Siamo abituati nella vita di tutti i giorni
di interpretare ed usare la parola bellez-
za con una certa faciloneria, ma quando
si parla di montagna la situazione è un
po’ diversa perché ammirando si subisce
un fascino talmente diverso ed avvin-
ghiante che la reazione è del tutto scon-
volgente rispetto alle nostre abitudini. Ti
senti infatti portato quasi a cambiare
vita, e ad estrapolare da ciò che si vede
quei valori intrinsechi nascosti, ma ben
presenti. Molti, tendono a rappresentare
la vetta come qualcosa di meraviglioso,
di unico, e lo è, e come una cosa da rag-
giungere. Ma ricordiamoci che la bellezza
sta anche nel momento in cui si tenta
con fatica di raggiungere la cima. Tutto
ciò che rappresenta questo stupendo
percorso lo potremmo chiamare valore,
o forse, più correttamente richiamo ai
valori. Che sono il rispetto, la lealtà il
rapporto con se stessi favorito dal silen-
zio. Ma c’è anche una evidente metafora
sull’amicizia rappresentata dalla corda
che lega più persone e che è molto di
più di un semplice oggetto usato per la
sicurezza, ma è un legame che unisce
persone che hanno un comune scopo, e
che si aiutano per raggiungerlo. In mon-
tagna si impara che ogni salita, sia essa la
più complicata o la più semplice ha
dentro di se delle emozioni, sta nella
nostra sensibilità riuscire a scoprirle
ed a tirarle fuori. C'è un altro aspetto
importante, quello delle difficoltà,
tutto ciò che sudiamo e che raggiun-
giamo con fatica ha un valore, deve
avere un valore. Le emozioni, invece,
fanno parte di tutto: dal sognare una
salita, dal programmarla, dal prepara-
re gli zaini, dal legarsi con un compa-
gno, e dallo spettacolo che solo la
vetta sa regalare. In letteratura, da
sempre il mare è l’elemento domi-
nante. Sinonimo di mistero e indice di
romanticismo, compare in miriadi di
testi letterari e poesie. Ma che dire
P A G I N A 1 3
della montagna? In realtà anch’essa è una tematica
presa in seria considerazione dai letterati di tutti i
tempi, una presenza costante, ma più silenziosa e
forse più discreta. I monti si prestano alla meditazio-
ne, presentano uno scenario in grado di mutare in
maniera repentina, e possono creare un legame in-
dissolubile con l’uomo. Anche perché la sua
“vicinanza” al cielo, come pure la consapevolezza
della fatica che si fa a scalarla, ricorda di continuo
all’uomo quali siano i suoi limiti e, soprattutto, di
non essere immortale né divino. Nella letteratura
mitologica gli dei stavano sull’Olimpo ovvero sulla
montagna simbolo dell’antica Grecia; è vero che
c’erano anche alcune divinità marine ma sono sicu-
ramente marginali. In questo escursus è impossibile
non pensare a Dante Alighieri: la sua è una monta-
gna ostica, che mette in comunicazione l’abisso in-
fernale con la dimensione celeste. Da qui la creazio-
ne della montagna del Purgatorio, senza la quale
non avrebbe potuto dare l’idea di una continua
ascesa verso livelli superiori, cioè è simbolo di pas-
saggio, di fatica commisurata alla fatica che ciascu-
no può fare. Alcune montagne particolarmente affa-
scinanti sono divenute oggetto di letteratura specifi-
ca. Basta pensare a Francesco Petrarca che secondo
le fonti sarebbe il vero padre della letteratura di
montagna moderna, per avere descritto in maniera
accurata la salita al “Monte ventoso” (Mont Ven-
toux) in Provenza. L’impresa è avvenuta nel 1336,
un periodo in cui le cime venivano ancora viste co-
me regni misteriosi di creature mitologiche. Petrar-
ca ha capovolto questa credenza, poiché questa sali-
ta e la sua descrizione sono divenute ben presto
una sorta di processo educativo tendente a smorza-
re il suo delirio di vanità. In epoca illuminista, le spe-
dizioni scientifiche spesso sono accompagnate da
letterati o giornalisti e nasce così un nuovo filone
letterario. La conquista della cima del Monte Bianco
(1786) segna la svolta nella storia dell’alpinismo ed
anche della letteratura relativa alla montagna. I
monti infatti non sono più visti come impedimento
al cammino e come luogo del quale avere paura,
bensì come celebrazione della bellezza, delle impre-
se per la conquista delle vette e vanità umana. Vi è
poi quel rapporto particolare che si crea tra l’uomo
e la montagna durante la guerra. In Italia abbiamo
scolpita nella nostra storia la vicenda sulle Alpi del
Nord-est durante la prima
guerra mondiale. I racconti
degli alpini sono significativi
perché la fatica naturale
della montagna si mescola-
va con gli orrori della guer-
ra. Mai, prima di allora, si
erano combattute delle
battaglie ad altitudini così
elevate. Tra le cime del Mas-
siccio dell'Adamello italiani
e austro-ungarici si trovarono uno di fronte all'altro
ad oltre 3000 metri di altezza. In qualche modo era
una guerra diversa, più cavalleresca e in alcuni mo-
menti di tregua i soldati delle due parti erano tal-
mente vicini da vedersi e parlarsi. La cosa più incre-
dibile è che nei racconti e nei diari di chi ha com-
battuto in quei luoghi, nonostante gli stenti e la
drammaticità ci sono ricordi quasi belli e non manca
mai qualche riga descrittiva della bellezza dei luoghi.
«...Sono le grandi catte-
drali della terra, con i
loro portali di roccia, i
mosaici di nubi, i cori dei
torrenti, gli altari di neve,
le volte di porpora scintil-
lanti di stelle...»
John Ruskin
La Storia dell’alpinismo è anche la Storia del Monte
Bianco, dalla prima conquista dei 4810 m del Tetto
d’Europa alle scalate corredate di tutti iu moderni di-
spositivi, il Monte Bianco continua ad essere una meta
straordinaria per tutti gli appassionati di montagna.
P A G I N A 1 4
L A P A R R E S I A
La maestra di cui abbiamo parlato nelle pagi-
ne precedenti, è significativamente presente
anche nella sacra scrittura con metafore sulla
vita, sul cammino umano, sul sacrificio. Fino
al luogo che è il centro di tutto: il Golgota.
Le montagne nella Bibbia
Tre sono i monti nominati nella Bibbia che
hanno un rilievo particolare: Sion, Sinai e
Golgota. Cominciamo dal "monte Sion",
che riassume in sé tutta la tensione verso
il trascendente, attraverso lo sguardo che
si leva verso l'alto e verso il monte, l'unico
che può dare la salvezza. Ma il monte Sion
è stato identificato da parte della tradizio-
ne ebraica e cristiana e poi anche di
quella musulmana, con un altro
monte, che è radicale per tutte e tre
le religioni monoteiste, ovvero il
monte Moria, monte che non è rin-
tracciabile in nessun atlante e quin-
di o è simbologico o è diventato no-
to successivamente con un altro no-
me. Il monte Moria è per eccellenza
il monte della fede. Nel racconto
della Genesi, Abramo si trova di fronte
alla prova più ardua della sua fede ed è
lassù sul monte che si consuma il dramma.
Una delle pagine più drammatiche della
Sacra Scrittura perchè Dio infatti chiede
ad Abramo il sacrificio più tremendo per
un padre che era convinto che quel figlio
fosse un dono di Dio. L’ascesa al monte
rappresenta il paradigma per eccellenza
del vero credere e la presenza della mon-
tagna ha un valore simbolico molto signifi-
cativo. Innanzitutto per la fatica fisica, ma
anche perché la vetta significa avvicinarsi a
Dio. Seconda considerazione a proposito
del monte Sion. Il profeta Isaia rappresen-
ta il monte Sion avvolto di luce mentre
delle tenebre planetarie si stendono su
tutto il mondo. All'interno di questa oscu-
rità si muovono processioni di popoli e
queste processioni hanno come punto di
riferimento questo monte, che certo non è
il più importante della terra. I popoli ven-
gono da regioni diverse, salgono il monte,
il monte della parola di Dio, e una volta
che sono saliti in Sion ecco che lasciano
cadere dalle mani le armi; le spade vengo-
no trasformate in vomeri e le lance in falci.
Sion diventa il luogo nel quale tutti i popo-
li della terra convergono e costruiscono la
pace e un mondo di armonia. Passiamo
ora al secondo monte: il Sinai, monte soli-
tario, monte desolato, arido, attraversato
dal vento, prosciugato dall'incandescenza
del sole, ma anche il luogo della teofania,
della grande manifestazione del Dio miste-
rioso. "Sul far del mattino vi furono tuoni
e lampi, una nube densa sul monte, un
suono fortissimo di tromba, tutto il popolo
che era nell'accampamento fu scosso da
terrore" (Esodo, 19-26). Siamo di fronte
alla celebrazione per eccellenza del tre-
mendum di Dio, è il luogo questo nel quale
Monte di Sion, monte
Sinai e monte Golgota.
Tre luoghi di montagna
che possono sintetizzare i
momenti chiave dell’e-
sperienza cristiana. Ognu-
no con importanza nella
realtà e nella metafora.
P A G I N A 1 5
Dio ci fa scoprire tutta l'impotenza dell'uomo.
Ma il Sinai è anche il luogo della teologia, cioè
non solo della manifestazione, ma anche della
parola di Dio. E’ questo il primo luogo della sto-
ria dove fu possibile incontrare la parola di Dio.
E’ infatti qui che Dio detta il Decalogo cioè, nella
sua sintesi, le regole base del cristianesimo,
fatte poi carne nel nuovo testamento con Dio
che si fa uomo attraverso suo figlio Gesù. Ma il
Sinai è anche il luogo dell'intimità di Dio con
l’uomo, infatti non esiste solamente il Dio terri-
bile o il Dio che ti dà la sua parola, ma anche un
Dio che si adatta a te, entrando misteriosamen-
te accanto a te con tenerezza. Nel primo libro
dei Re, Dio non si presenta qui con l'apparato
teofanico. Dio non è vento che spacca la roccia,
non è fulmine, non è terremoto, ma semplice-
mente "un mormorio di vento leggero". Dio di-
venta una voce di silenzio sottile. Dio si adatta
talmente da avvolgerci pacatamente con la
quiete del silenzio. Un'esperienza appunto che
anche il laico, incontrando il silenzio, prova sulla
montagna. L'altro riferimento è ovviamente al
Sinai cristiano, cioè al monte delle Beatitudini.
Attraverso le Beatitudini e il discorso della mon-
tagna, si presenta come il Dio d'amore, della
pienezza, della intimità assoluta. Giungiamo così
al terzo e ultimo monte, quasi inesistente dal
punto di vista orografico, ma punto di riferiime-
nto obbligato per noi cristiani: si tratta del Gol-
gota, in aramaico “cranio”, ovvero del Calvario.
Un monte che di sua natura è irrilevante ed oggi
inglobato nella città di Gerusalemme e, in un
certo senso all'interno della basilica del Santo
Sepolcro. E’ incredibile pensare come questo
luogo abbia inciso sulla storia del mondo, tant’è
vero che anche coloro che non hanno nessuna
fede in Cristo, sanno che cos'è il Calvario e usa-
no questo termine come sinonimo di tanta
sofferenze. Ma non è solamente il monte della
morte ma anche, a ben vedere, il monte della
vita; è il monte della tragedia di un Dio che as-
sume in se la sofferenza e la solitudine dell’uo-
mo, ma è insieme anche il luogo da cui partirà
anche la resurrezione. Il Calvario è già anche il
monte dell'ascensione. Come dicevamo il Golgo-
ta non è una grande montagna che affascina,
non ne ha le dimensioni ne le sembianze, anzi
prevale in un certo senso l’aridità e l’inquietudi-
ne; ma il segno della fatica del cammino della
via crucis è comunque indelebile, quasi a sim-
boleggiare una salita unica al mondo, da riper-
correre oggi con devozione e gratitudine, aspi-
rando sempre ad andare verso l’alto.
Una suggestiva immagine del Golgota
P A G I N A 1 6
Treni in tilt, malori e file infinite, conse-
guenza del successo superiore alle attese
del lavoro di Christo sul lago d’Iseo, e il pre-
fetto è costretto a chiudere di notte la pas-
serella sul lago. Stiamo parlando di un per-
corso pedonale provvisorio ad accesso gra-
tuito per un totale di 4,5 chilometri sulle
acque del Lago d'Iseo, in provincia di Bre-
scia, realizzato utilizzando 70.000 metri
quadri di tessuto giallo-arancione, sostenu-
ti da un sistema modulare di pontili galleg-
gianti formato da 200.000 cubi in polietile-
ne ad alta densità. Ecco il progetto 'The
Floating Piers' dell'artista di fama interna-
zionale Christo che nel mese di Giugno ha
reinterpretato per 16 giorni il lago lombar-
do. L'installazione si sviluppa in circolo da
Sulzano a Monteisola (Peschiera Maraglio)
e poi due diramazioni conducono all'isola
privata di San Paolo.
L A P A R R E S I A
Camminare sulle acque.
Senza voler evocare Gesù Cristo, ne le più recenti battute
di Beppe Grillo, in questi ultimi giorni è stato possibile
avere la sensazione di camminare sull’acqua grazie alla
realizzazione sul lago d’Iseo del "guru" Christo Vladimirov
Javacheff, artista bulgaro, naturalizzato statunitense, fa-
moso in tutto il mondo per alcune sue originalità.
Nella foto sopra un
immagine d’insieme
dei pontili. A lato
una foto di dettaglio
P A G I N A 1 7
Tre chilometri sull’acqua ed un chilometro e
mezzo lungo la strada pedonale che collega
Peschiera Maraglio e Sensole.
I visitatori possono accedere all'opera e cam-
minare ammirando tutti gli angoli più nascosti
dalle montagne intorno al lago, cullati dal mo-
vimento dell'acqua sotto i propri piedi. I ponti-
li sono larghi 16 metri e alti 50 centimetri e al
termine dell’iniziativa la struttura sarà rimossa
e dismessa. Con 'The Floating Piers' Christo
annuncia "Vi farò camminare sulle acque, me-
glio se verrete senza scarpe; sarà una passeg-
giata dove sentirete le onde sotto i vostri pie-
di". È’ stato un dilagare incredibile al grido di
un imperativo categorico: devo andare a vede-
re i Floating Piers. Sembra più un dovere che
un piacere. Alla luce dell’alba del giorno dell’i-
naugurazione centinaia di persone hanno già
preso possesso di marciapiedi e strade e lenta-
mente e festosamente procedono verso il la-
go. La scena ha qualcosa di salvifico, di messia-
nico, forse anche per la suggestione generata
dal nome dell’artista. Anche se non si conosce
la strada, la folla ti trascina verso l’inizio del
percorso sull’acqua, come si trattasse di un
pellegrinaggio laico o un rito zen. Proviamo a
riflettere sull’iniziativa e sul suo successo. In
piena onestà, al netto della tecnologia moder-
na del pontile, l’idea
non mi sembra partico-
larmente originale e mi
ricorda quello che una
volta si chiamava pon-
tile di barche. Non vo-
glio essere particolar-
mente riduttivo, ma
più che arte mi sembra
una intelligente trova-
ta turistica, che vista la
folla arrivata, è stata
sicuramente di succes-
so. Forse non compren-
do io, ma in fondo l’a-
spetto di belleza am-
mirabile coincide con
ciò che si può vedere
girando per il lago con
un battello. A margine,
stupisce che tutti que-
sti visitatori, appassio-
nati di natura, abbiano
in molti posti, lago
compreso, lasciato un
porcile di mondezza:
buste, lattine vuote. Io per amore e rispetto
della natura intendo altro.
Christo Vladimirov Javacheff
Nasce a Gabrovo, in Bulgaria, il 13 giugno 1935, a Sofia dove studierà dal 1953. Nel 1956 termina gli studi e si trasferisce a Praga da dove, l'anno seguente, riesce a scappare dal regime del blocco comunista raggiungendo l'Austria. Da qui si muoverà prima a Vienna, poi a Gi-nevra, per poi raggiungere, nel 1958, Parigi. Considerato apolide, era ai margini della società e si gua-dagnò da vivere compiendo ritratti. Le sue prime opere firmate "Christo" sono dei dipinti astratti e degli impacchettamenti di oggetti (bottiglie, bidoni, cartoni, tavoli ecc.) o di modelli viventi nella tela o nella plastica. Questi lavori susci-tano interesse negli amici del movi-mento Nouveau Réalisme al quale poi aderisce. In Italia è divenuto famoso nel 1968 al Festival dei Due Mondi di Spoleto per l’imballaggio della Fontana di piazza del Mercato e per l’imballaggio di Porta Pincia-na a Roma 1974.
Don Antonio Livi, sacerdote e storico della
filosofia descrive nei suoi libri l’Illumini-
smo nei diversi paesi europei per poi
soffermarsi a lungo sulla filosofia di Vico,
definito "moderno
Socrate", presen-
tato come l’alter-
nativa metafisica
al razionalismo e
allo scetticismo. La
base della sua po-
sizione rappresen-
ta una pietra ango-
lare della cultura
del nostro paese
ed in particolare
della tradizione
napoletana e con-
siste in una indi-
scutibile concezio-
ne di concretezza
storica. Filosofo,
giurista, professo-
re universitario, fu un uomo di straordinari
tratti, capace di opporsi al dilagare del ra-
zionalismo. Molte delle notizie riguardanti
la vita di Giambattista Vico sono tratte dal-
la sua autobiografia, scritta sul modello
letterario delle Confessioni di sant'Agosti-
no. Da quest'opera Vico cancellò ogni rife-
rimento ai suoi interessi giovanili per le
dottrine atomistiche e per il pensiero carte-
siano, che avevano cominciato a diffonder-
si a Napoli, ma subito repressi dalla censu-
ra delle autorità civili e religiose, che le
consideravano moralmente pericolose. Il
suo intento è di mettere in relazione il
mondo ideale e quello reale, allineando
filosofia(che si occupa della verità) e filolo-
gia(che si occupa della certezza, come me-
todo storico e documentale), alla ricerca
della genesi ideale del mondo civile. Il pun-
to di partenza della filosofia di Vico è la
questione della verità, che per Cartesio era
stata ritenuta accessibile alla conoscenza
umana, nell'ambito di quelle idee chiare e
distinte che risultano evidenti alla ragione.
Vico si oppone fermamente a questa con-
cezione razionalistica, che a suo avviso ina-
ridisce la creatività che è la facoltà più
L A P A R R E S I A
Il realismo educativo
P A G I N A 1 8
« Il primo vero è in Dio, perché Dio è il primo facito-
re (primus Factor); codesto primo vero è infinito, in
quanto facitore di tutte le cose; è compiutissimo,
poiché mette dinanzi a Dio, in quanto li contiene, gli
elementi estrinseci e intrinseci delle cose ». Questa
frase, una sorta di manifesto di Giambattista Vico,
mi ha incuriosito e spinto a scoprire un grande.
Giambattista
Vico
P A G I N A 1 9
propria dell'uomo. Non la verità, ma solo il verosimile accessibile alla co-
noscenza umana. Secondo una sua celebre affermazione, "Verum et fac-
tum reciprocantur seu convertuntur", cioè il vero e il fatto si convertono
l'uno nell'altro e coincidono. È questo il principio della filosofia vichiana
che stabilisce il nesso fra verità e produzione, secondo il quale l'unica veri-
tà che può essere conosciuta consiste nei risultati dell'azione creatrice,
della produzione. Per questo solo Dio conosce il mondo in quanto lo crea
continuamente, mentre all'uomo è riservato il posto di Demiurgo della sto-
ria e artefice del proprio destino, e la storia e la sua vita sono gli unici og-
getti della sua conoscenza in quanto da lui prodotti. Scrive “i metodi degli
studi del nostro tempo” in cui la politica è vista come scienza e arte di go-
verno, che deve sempre avere come principio base la prudenza, affinchè le
regole che fissiamo siano legate alla realtà e si sforzino di individuare i
principi e le regole che si adattano a un determinato fatto o ad un determi-
nato sentire del popolo riguardo determinate situazioni. Ma, per Vico, le
situazioni non sono altro che il risultato dell’attività umana determinata
dall’arbitrio dell’uomo e caratterizzate dall’incertezza e dal presentarsi con
caratteristiche sempre differenti ed essere sempre nuove. C’è quindi nei
suoi scritti una concezione assolutamente cattolica ma, al contrario di mol-
ti pensatori dell’epoca, non vista come obbligo e doverismo, ma come una
grande occasione per la propria libertà, intesa non come diritto di fare
solo ciò che piace, ma intesa come riconoscimento di ciò che Dio ha
donato, coinvolgendo ciascuno a collaborare alla prosecuzione della
creazione. Quello che stupisce nei suoi scritti è la saggezza che emana-
no, senza nessuna forma di autoritarismo e nessuna pretesa di pres-
sante volontà di insegnamento, ma come testimonianza di ciò che è
vero per lui. Ex malo bonum? Con questo motto Sant'Agostino ci invi-
tava a considerare come dal male assoluto - la condanna, la tortura e
la crocifissione di un innocente - potesse venire un bene universale.
Sembra proprio che Vico abbia preso molto da questa concisa affer-
mazione e che l’abbia declinata su più temi, con tutta la sua opera.
Giambattista Vico (Napoli,1668 – Napoli, 1744) è stato un filosofo, storico e
giurista italiano, noto per il suo concetto di verità come risultato del fare
(verum ipsum factum). L'originalità del suo pensiero è stata molto rivalutata
nel XX secolo grazie a Benedetto Croce. Figlio di un modesto libraio, Vico
studiò diritto presso l'Università di Napoli, dove poi insegnò eloquenza e re-
torica, pur avendo aspirato a una più prestigiosa cattedra di giurisprudenza.
Contribuì notevolmente alla sua formazione il ruolo di precettore che svolse
presso alcune famiglie nobili napoletane. Nella sua Autobiografia Vico cita
come fonte ispiratrice della sua Scienza nuova, la metafisica delle idee plato-
niche, il realismo dello storico da Tacito, il metodo induttivo di Francesco
Bacone , il giurista Ugo Grozio per l'abbinamento fra filosofia e filologia.
Il senso comune è un giudi-
zio comunemente sentito
da tutto un ordine, da
tutto un popolo, da tutta
una nazione o da tutto il
genere umano.
Gianbattista Vico
Scienza nuova
“Paion traversie eppur so-
no opportunità”.
Gianbattista Vico
Frase di una intelligenza
straordinaria ed altamente
educativa
La scienza nuova si pone quindi
come una «teoria civile e ragio-
nata della Provvidenza divina»,
come la dimostrazione cioè di
quell'ordine provvidenziale che
ha condotto gli uomini, mossi
sempre da impulsi e finalità
particolari, fuori del loro origi-
nario stato di primitivi bestioni,
verso le forme della vita civile.
La «città del genere umano» si
costruisce Il senso comune è un
giudizio comunemente sentito
da tutto un ordine, da tutto un
popolo, da tutta una nazione o
da tutto il genere umano.
Gianbattista Vico
Scienza nuova
P A G I N A 2 0
Fantasia: musica e cinema
L A P A R R E S I A
Fantasia ovvero le storie che la musica ha generato nella mente di un gruppo di arti-sti particolarmente specializzati nella rap-presentazione e nell’estetica. Fantasia è un film unico nella storia del cinema, noto in tutto il mondo grazie al linguaggio uni-versale della musica e dell’immagine.
Fantasia non ha una trama e non vi sono legami logici tra i vari pezzi musicali sui quali sono impiantate le immagini a car-tone animato. Si ha l’impressione di esse-re davanti ad un libro di novelle con qual-che tratto comune, ma che in realtà fanno ciascuna storia a se. E sono storie molto
diverse l’una dall’altra: alcune sono la rappresentazione di un fatto o un sog-getto molto preciso, l’esempio più evi-dente è quello dell’ “Apprendista strego-ne” impersonato da Topolino. Alcune so-no fortemente legate alla musica e al de-siderio metaforico dell’autore; in questo
caso l’esempio della “Pastorale” è peculiare con tante deliziose immagini di vita agreste. E infine storie di totale fantasia come “La danza delle ore” che peraltro dal punto di vista dell’animazione è il più difficile ma anche la più coin-volgente. Tutto era partito da un topo, ovvero da mickey mouse, quel piccolo per-
sonaggio che tanto aveva aiutato all’ini-zio Walt Disney. La popolarità di Mickey Mouse andava scemando, e per riportarla alla gloria passata, il suo creatore lo rese protagonista di un corto animato, una piccola rielaborazione di un soggetto ideato da Goethe e intitolata l’appren-
Un capolavoro unico nella storia del cinema che
parte da una idea semplice ma molto originale,
una realizzazione di qualità superlativa che ha col-
pito gli spettatori di tutto il mondo, grandi e picci-
ni. Una pellicola sempre giovane dove la fantasia
è valorizzata in tutte le possibili sfaccettature.
L’immagine simbolo
dell’incontro
tra la musica
e l’animazione
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dista stregone. Il resto è storia del cine-ma: ciò che era partito come un piccolo progetto si trasformò in qualcosa di mol-to più grande. Fantasia è un film a episo-di, ma non solo. È un film a tesi, nel qua-le la costante è il dialogo tra immagini e suono, tra concreto e astratto. Otto mo-menti, otto gemme che spaziano dalla mitologia alla storia, dalla religione agli elementi della natura. E’ forse una delle più grandi manifestazioni del pensiero umano che si manifesta in maniera gioiosa e comprensibile a tutti. In termi-ni metaforici la pastorale è straordinaria con una animazione che sfiora la perfe-zione immaginifica: gli animali del bosco, la sim-biosi tra la natura e la fauna, i colori pastello che si integrano con la dolcezza della musica, le movenze di delicata danza degli animali nel bo-sco. Più travolgente risulta l’animazione del bra-no della Danza delle ore. Il ritmo travolgente della musica coinvolge in un vortice incredibile gli animali in una danza sfrenata caratterizzata soprattutto da ippopotami e coccodrilli, in una profondo ironia che sfiora la contraddizione; chi avrebbe mai potuto immaginare questi animali in una danza così vorticosa ippopotami noti per la loro stazza e vita slow che si muovono quasi in maniera delicata e coccodrilli che tutto sem-brano tranne che animali feroci quando assu-mono posizioni di galanteria. La parte finale del film è caratterizzata da un coro che canta l'Ave Maria mentre una fila di monaci con le torce accese cammina attraverso una foresta e nelle rovine di una cattedrale. Non deve stupire che in un contesto fondamentalmente giocoso vi sia anche una scena di questo genere. E’ come se l’autore abbia voluto ricomprendere nell’ambi-to della fantasia anche gli aspetti più ascetici
dell’esistenza. Se vogliamo mi sembra ci possa essere un parallelo con la settima sinfonia di Beethoven dove l’autore, nell’ambito di una musicalità fondamentalmente gioiosa ha volu-to inserire con il secondo movimento, la cosid-detta “marcia funebre”, un momento di rifles-sione sulla vita per una completezza di espe-
Elenco brani musicali del film Fantasia
Episodi Autore
Toccata e fuga in re minore Sebastian Bach
Lo schiaccianoci Cajkovskij
L’apprendista stregone Paul Dukas
La sagra della primavera Igoe Stravinsky
Pastorale Ludwig van Beethoveen
Danza delle ore Amilcare Ponchielli
Una notte sul monte calvo Modest Mussorgsky
Ave Maria Franz Schubert
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Insieme a te non ci sto più
L A P A R R E S I A
Siamo nel ‘68, in pieno regime di canzonette, spesso
un po’ sciatte nei contenuti ma orecchiabili. Ma ci
sono anche delle eccezioni, legate, non a caso, a dei
grandi compositore. “Insieme a te non ci sto più” è
una di queste: Paolo Conte l’autore, Caterina Caselli
splendida interprete e nasce una nuova musica.
L’angolo
della
canzone
Apparentemente, 'Insieme a te non ci sto
più' non fa che guadagnare estimatori man
mano che passa il tempo. Il regista Nanni
Moretti se ne è servito addirittura due vol-
te nei suoi film. La prima volta fu nel 1984
nel film 'Bianca': il brano era in sottofondo
mentre il protagonista manifestava un pa-
radossale
desiderio
di suici-
darsi. La
seconda
volta è
avvenuto
nel 2001,
ne 'La
stanza
del figlio'.
Moretti
ha dichia-
rato:
"Come mi
capita
sempre
quando
faccio un
film, an-
che in questo caso ho scelto le canzoni per
prima cosa. E' buffo perché mi sono ricor-
dato di aver già utilizzato in 'Bianca' la can-
zone della Caselli soltanto dopo averla in-
clusa nella colonna sonora de “La stanza
del figlio”. La canzone gioca un ruolo par-
ticolarmente significativo nel film. Nella
trama del film, infatti, quando la voce di
Caterina Caselli proviene dall’autoradio
della vettura, Moretti e poi tutti gli altri, si
accodano a cantare in una scena di sereni-
tà assoluta che il regista sa cogliere così
bene, quasi un riequilibrio della sua vita da
psicanalista sempre in mezzo a situazioni e
persone molto particolari e quasi mai sere-
ne. La morte del figlio incrinerà tutto ma
questa è un’altra storia. Restiamo alla can-
zone della quale Caterina Caselli, in una
intervista, ha detto: “E' una delle canzoni
che ho amato di più, forse la mia preferita
in assoluto tra quelle che ho interpretato.
Era il settembre '68, e a segnalarmi la can-
zone fu una persona che non era della no-
stra casa discografica, ma era rimasto col-
pito dal pezzo. Capii subito perché: la
ascoltai per sei giorni di fila, non ascoltavo
altro. Non riuscivo a staccarmene, ricordo
che ero chiusa in una stanza, presa, posse-
duta da quella canzone”. Siamo nel ses-
santotto, data che evoca ben altri eventi,
ma è un periodo di grande fermento anche
Caterina Caselli
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per la musica. E’ l’anno nel quale i Beatles pub-
blicano “Lady Madonna” e “Hey Jude” e i Rolling
stones hanno un successo enorme con “Simpathy
for the Devil” e in Italia vi è un successo strepitoso
di Adriano Celentano con la canzone “Azzurro”
scritta da Paolo Conte. La maggior parte delle can-
zoni italiane è leggera, molto leggera, con storie
semplici d’amore e musica molto orecchiabile. La
stessa Caterina Caselli che tira fuori almeno due
successi l’anno, fa musica molto semplice con le
chitarre qualche percussione e, a volte, qualche
fiato, il tutto con ritmi di facile presa mnemonica.
“Insieme a te non ci sto più” è decisamente diver-
sa a cominciare dalla melodia di tipo neoromanti-
co e con un testo che parla della fine di un amore e
non un inizio, come tantissime canzoni dell’epoca.
E, guarda caso, come in “Azzurro” c’è la mano arti-
stica di Paolo Conte. La bellezza della canzone non
è tanto per l’amore che finisce, ma per il motivo
per il quale finisce: non una rottura traumatica o
un tradimento, ma la fine di una sintonia, deside-
rata come e più dell’amore stesso. E infatti le pa-
role chiave della prima parte sono “tenerezza che
non ho” e “comprensione che non so trovare in
questo mondo stupido”. E poi la costatazione che
porta alla rottura “Quella persona non sei più….”
ovvero il tradimento vero e profondo. Colpisce poi
il rincrescimento dell’amore che finisce perché
quando lei andrà via: “Non sarà facile, ma sai, si
muore un po' per poter vivere”. E nei jukebox di
quella fine estate era una delle canzoni più getto-
nate, generava un po’ di commozione nelle di-
ciottenni di allora che forse non ne coglievano fino in fondo la profondità di alcune parole, ma
intuivano che era una cosa diversa, non una semplice canzonetta, perché toccava con delicatezza
le corde del mistero che c’è nell’amore anche nel momento che finisce. E i giovani di allora co-
glievano lo strazio tra il voler tagliare un amore che in termini razionali non poteva che finire e la
reazione di cuore per cui non si può volere male ad una persona che si è amata e che continui a
salutare “arrivederci, amore ciao” come se volessi ancora tenere un sottile filo di speranza. In
realtà l’amore è finito, il rapporto è troncato ma misteriosamente resta qualcosa. Ed è incredibi-
le pensare che un’esperienza così che, normalmente genera mutismo ed introversione , si riesce
a trasformare in una deliziosa espressione artistica, come sanno fare solamente i più grandi.
Insieme a te non ci sto più
Insieme a te non ci sto più,
guardo le nuvole lassù
Cercavo in te la tenerezza che non ho
La comprensione che non so trovare
in questo mondo stupido
Quella persona non sei più,
quella persona non sei tu
Finisce qua , chi se ne va che male fa!
Io trascino negli occhi dei torrenti di acqua chiara
Dove io berrò , io cerco boschi per me
E vallate col sole più caldo di te!
Insieme a te non ci sto più
guardo le nuvole lassù
E quando andrò devi sorridermi se puoi
Non sarà facile, ma sai,
si muore un po' per poter vivere
Arrivederci amore ciao le nubi sono già più in là
Finisce qua, chi se ne va che male fa!
E quando andrò devi sorridermi se puoi
non sarà facile, ma sai,
si muore un po' per poter vivere !
arrivederci amore ciao ........
arrivederci amore ciao.........
arrivederci amore ciao........
Paolo Conte e Vito Pallavicini
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Unbroken
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Integro o continuo: questa la traduzione letterale, si-
gnificativa solamente se si conosce la storia di Louis
Zamperini. Una storia vera, incredibile e commoven-
te di un uomo sopravvissuto alle atrocità della se-
conda guerra mondiale e che poi ha vissuto una se-
conda vita. Decisamente da tutti i punti di vista.
L’angolo
del
cinema
La storia di quest’uomo era già notevol-
mente conosciuta ma ha assunto i contor-
ni della notorietà mondiale quando tutti si
commossero nel 1997 infatti all'età di 80
anni, portò per un tratto la torcia olimpica
in occasione dei Giochi olimpici invernali di
Nagano 1998. Colpì per l’età e per la sim-
bologia connessa all’intreccio tra la sua
storia e il luogo. In-
fatti la sua gioventù
e le sue atroci soffe-
renze erano legate al
Giappone ed in par-
ticolare ad un giap-
ponese, criminale di
guerra. Andiamo in
ordine con la storia.
Il giovane Louis nato
nel 1917, imboccò la
pista d’atletica dopo
essersi allenato, fin
da bambino, all’arte
della fuga per scap-
pare dai malcapitati
che derubava nel
villaggio di Torrance,
sud California. I suoi genitori, immigrati
italiani, e Louis era la peste del paese,
«l’italiano» mano lesta che ben presto
incappò nella vendetta del branco razzista,
i bulli che mal tollerandone origini e lingua
e lo riempivano di calci e pugni. Il fratello
maggiore, Pete, era invece uno studente
modello e per di più atleta di prospettiva.
Ma a 14 anni, nel 1931, avvenne la miraco-
losa metamorfosi: ottimi voti a scuola e
grazie a Pete la scoperta di un nuovo mon-
do: l’atletica. A 16 anni Louis Zamperini
correva il miglio in 4’e 42’’ e i giornali co-
minciarono a titolare: “Il Ragazzo che vo-
la!”. Vince i campionati liceali sulla distan-
za delle due miglia e l’anno dopo, 1934,
stabilisce il nuovo record nazionale scola-
stico. E si presentò la grande occasione: le
Olimpiadi di Berlino 1936. Fu il più giovane
mezzofondista entrato nella squadra olim-
pica degli Stati Uniti. Volava il 7 agosto del
’36 quando affrontò i 5mila metri con l’in-
coscienza dei suoi 19 anni e l’istinto del
talento privo di malizie tattiche. Nella fina-
le arrivò ottavo con una grande rimonta
finale, ma ricevette i complimenti plateali
di Hitler che lo salutò: «Ah, lei è il ragazzo
con il finale veloce ». Fu la sua prima e uni-
ca Olimpiade, perché quella successiva di
quattro anni dopo che si sarebbero dovute
tenere a Tokyo, fu annullata per lo scoppio
della guerra. In Giappone però Zamperini
Louis Zamperini
1943
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Il vero Zamperini, che Angelina Jolie, regista e fi-
nanziatrice del film, ha conosciuto personalmente e
ne è diventato amico, è rimasto vivo fino al com-
pletamento della lavorazione del film. E’ morto
all’età di 97 anni. Colui che è sopravvissuto a 47
giorni di naufragio e due anni di lager giapponese è
vissuto quasi cent’anni. Ha vissuto, come aveva
promesso, una vita dedicata a Dio, che lo salvò dal-
la violenza della natura, dell’uomo e della sua stes-
sa mente, che rischiò di collassare subito dopo la
liberazione.
ci arrivò lo stesso nel maggio del 1943 come
aviere. E sul mare del Giappone fu abbattuto;
l’ex promessa olimpionica precipita con due
compagni di volo in mezzo all’Oceano Pacifico.
Tre uomini, un canotto, l’oceano. E Dio. Sono
questi gli unici elementi del secondo Unbro-
ken: un dialogo esistenziale fra il protagonista,
il compagno più debole e privo di autostima
(che non sopravvive) e il pilota Fred Garrett,
credente. Dialoghi sull’esistenza di un Creato-
re, su quella di un suo disegno e sul senso della
vita. Zamperini inizia a vedere Dio come l’unico
possibile salvatore, giura di dedicargli la vita se
dovesse sopravvivere. E’ solo la prima tappa di
un percorso di conversione. Dopo 47 giorni alla
deriva i due sopravvissuti, ai limiti della loro
sopravvivenza, vengono salvati da un’unità
navale giapponese. Inizia così la parte più
drammatica della sua esperienza di guerra.
Louis restò nelle mani del nemico per oltre due
anni, durante i quali subì violenza, umiliazioni
la fame e sperimentò la tortura. Ma sopravvis-
se anche alla brutalità. Per Louis e il suo amico
seguì il campo di prigionia di Ofuna dove gli
internati «venivano tenuti in isolamento, per-
ché rivelassero segreti militari». Tra i suoi aguz-
zini “morbidi” ritrovò Sasaki, ex studente con
lui alla Southern California, ma in realtà spia al
servizio dell’esercito nipponico. La sua bestia
nera però la trovò nell’“Uccello”, il terribile
caporale Mutsuhiro Watanabe. Il boia che tra
l’altro, dopo giorni di digiuno, lo costringeva a
sfidare nella corsa atleti giapponesi. Zamperini,
ormai uomo formato, inizia non solo a credere,
ma anche a vivere la sua fede. Proprio nel buio
della prigionia più dura, dove gli aguzzini han-
no l’unico obiettivo di spezzarlo fisicamente e
psicologicamente, l’atleta italo-americano tro-
va la forza di sopravvivere, restare umano. E
infine di perdonare i suoi persecutori. Solo una
fede divenuta ormai incrollabile permette
all’ex atleta ateo di diventare un esempio di
resistenza umana e spirituale, capace di non
cedere al demone del tradimento prima e della
vendetta poi, nonostante le tentazioni fossero
fortissime e irresistibili. Il film, fortemente vo-
luto da Angelina Jolie, è duro, crudo e realisti-
co; di fatto è come se fossero tre grandi capito-
li: il prima, il durante e il dopo guerra. Il filo
conduttore è la trasformazione dell’uomo do-
vuta ad una reazione, che neanche il protagoni-
sta poteva immaginare, e che avrebbe potuto
fare indurire ed incattivire il cuore di Louis, che
invece quasi miracolosamente si converte e
perdona e diviene un uomo sorridente. Non
scorda il suo primo amore per l’atletica, e nei
limiti del possibile a causa delle torture e
dell’età, continua l’attività.
Louis Zamperini 2014
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L A P A R R E S I A
L’angolo della poesia
Boris Leonidovič Pasternak (1890-1960), noto in
tutto il mondo per il suo romanzo Il dottor Zivago,
in realtà esordì in campo letterario nel 1914 con
una raccolta di poesie dal titolo “Il gemello delle
nuvole”, per poi dar vita ad altre importanti ope-
re di poesia e di narrativa. Sembrò sempre ricer-
care una semplicità di scrittura ben lontana dalle
esperienze futuristiche a cui lo scrittore fu inizial-
mente vicino. Pasternak è stato anche autore di
mirabili traduzioni di Goethe, Verlaine, di molti
poeti georgiani e di Shakespeare, diffondendo in
Russia la cultura occidentale. Rigidamente con-
trollato dal regime, morì nel suo ritiro di Peredel-
kino nel 1960. In verità, per la Russia, per milioni
di persone, è stato molto di più di un grande poe-
ta, scrittore e premio Nobel. Perché all’epoca l’i-
deologia, era come se avesse chiuso tutti gli spazi,
eppure c’era del nuovo, e i russi vedevano in lui
la speranza, il futuro. Nel pensiero di Tolstoj e nei
fondamenti morali del socialismo ideale, si svela-
va per questa generazione la caratteristica fonda-
mentale dell’epoca, che Pasternak chiama una
«nuova fase del cristianesimo, di straordinaria
freschezza». È un rapporto con Cristo come perso-
na viva, presenza quotidiana e unica veramente
degna di fedeltà e di adorazione. Quindi la grande
intuizione di Pasternak è il superamento di un
certo moralismo di Tolstoj per un sano realismo
frutto anche dell’esperienza della rivoluzione. La
poesia che vi propongo è sintomatica e di grande
attualità in quanto mostra l’inconsistenza dell’ap-
parenza e degli elogi ipocriti. Ma anche la cor-
rettezza dell’accettare i propri limiti anche nel
rapporto con l’ignoto.
Essere rinomati non è bello
Essere rinomati non è bello,
non è così che ci si leva in alto.
Non c'è bisogno di tenere archivi,
di trepidare per i manoscritti.
Scopo della creazione è il restituirsi,
non il clamore, non il gran successo.
È vergognoso, non contando nulla,
essere favola in bocca di tutti.
Ma occorre vivere senza impostura,
viver così da cattivarsi in fine
l'amore dello spazio, da sentire
il lontano richiamo del futuro.
Ed occorre lasciare le lacune
nel destino, non già fra le carte,
annotando sul margine i capitoli
e i luoghi di tutta una vita.
Ed occorre tuffarsi nell'ignoto
e nascondere in esso i propri passi,
come si nasconde nella nebbia
un luogo, quando vi discende il buio.
Altri, seguendo le tue vive tracce,
faranno la tua strada a palmo a palmo,
ma non sei tu che devi sceverare
dalla vittoria tutte le sconfitte.
E non devi recedere d'un solo
briciolo dalla tua persona umana,
ma essere vivo, nient'altro che vivo,
vivo e nient'altro sino alla fine.
Pasternak un giorno disse: “L'uomo è nato per vivere, non
per prepararsi a vivere.” Il manifesto del suo programma
e della sua storia, piena di commovente realismo.
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Il tuo muro
Ma cosa avranno da ridere?
La Merkel per lo meno, rispetto a Renzi ed Hollande, ha una situazione un po’ più solida in ter-
mini di politica interna, ma nonostante ciò la domanda è: ma cosa c’è da ridere di questi tempi
in Europa. La Brexit è una sconfitta di tutti e della mancata capacità di tutti a dare delle risposte
ai bisogni dei cittadini. Non voglio negare che abbiano fatto anche delle cose utili per i loro ri-
spettivi paesi, ma c’è una crisi tutt’altro che finita, c’è povertà e disoccupazione e ciò ha portato
i cittadini inglesi a votare nel referendum esclusivamente in funzione economica ed anche un
po’ egoista. Ma allora cosa c’è da sorridere? Ed inoltre facciamo molta attenzione: qualcuno si
potrebbe sentire deriso da questo atteggiamento che si va ad aggiungere ad alcune politiche che
sembrano essere più attente alle banche ed ai poteri forti che non ai cittadini. Non c’è dubbio
che siamo in un periodo difficilissimo per chi governa, pertanto attenzione anche ai dettagli.
La poltrona e il caminetto
Una riflessione al giorno toglie il medico di torno
Chiamarla passione sarebbe banale. Il Cioccolato è infatti considerato il piacere sublime per eccellenza, la
consolazione dello sconforto e dei guai, un culto, una gioia, un grande amore. Il Cioccolato attrae perchè
ricco di significati simbolici e perché è la conciliazione di molti opposti. E’ sia solido che liquido, chiaro e
scuro, dolce e amaro. Il cioccolato è una risposta, ma chi se ne frega della domanda. A parte qualsiasi con-
siderazione di carattere psicologico il cioccolato ha anche degli effettivi benefici di carattere sostanziale
sulla salute ed in particolare su quella del cuore e delle arterie. Ma recenti studi hanno dimostrato anche
benefici di altro genere, originariamente sconosciuti. Secondo i ricercatori della Louisiana State University,
sono i sottoprodotti della digestione del
cioccolato, scarsamente assorbiti e dige-
riti, a essere poi trasformati in composti
dall’azione antiossidante. Per poter
affermare questo, i ricercatori hanno
testato 3 diverse polveri di cacao, utiliz-
zando come base un modello di tratto
digestivo che simulava il processo dige-
stivo in vitro. Dopo di che, hanno prele-
vato i composti non digeribili e sottopo-
sto questi alla fermentazione anaerobi-
ca da parte di batteri intestinali. Hanno
così scoperto che ci sono due tipi di mi-
crobi nell’intestino: quelli buoni e quelli
cattivi. I batteri buoni, come Bifidobac-
terium e i fermenti lattici, vanno a nozze
con il cioccolato. Quando si mangia ciocco-
lato fondente, questi crescono e fermenta-
no, producendo composti che sono antin-
fiammatori. Non c’è dubbio che il cioccolato
ci richiama inevitabilmente ai ricordi di in-
fanzia di ciascuno di noi. Basta pensare alle
monete di cioccolato o alle minuscole tavo-
lette della Nestle del costo di 10 lire o all’in-
confondibile Toblerone caratterizzato dall'i-
conica forma piramidale del cioccolato e
dalla relativa forma triangolare della confe-
zione.
La dolcezza del cuore
viene da dolci bevande
nere come la notte,
bianche come il paradiso.
Su queste cioccolate si imbastiscono versi o parlate leggere.
E’ questa l’amicizia che nasce a tavolino
quando tu mi sorridi come la cioccolata.
Alda Merini
Le monete di cioccolato che ci portava la befana