28
Le due scadenze eleorali, italiana e inglese degli ulmi giorni hanno por- tato una ventata di novità. Buone o cave lo giudicherà la storia; al mo- mento solamente da rispeare per- ché prodoe dalla libera espressione popolare. Anch’io sono in parte sor- preso ma questo conta nulla. Credo però che sia interessante analizzare i fa a cominciare da quelli italiani. Innanzituo da un punto di vista numerico. Il P.D. perde due cià fon- damentali, la capitale e Torino, tue e due a vantaggio del Movimento 5 stelle e non del centrodestra suo avversario storico. Ma le perde par- tendo da due circostanze pregresse molto diverse. A Roma si proveniva da una situazione pessima del P.D., in sostanza ed in immagine, ovvero da tue le quesoni di “Mafia Capi- tale” e dalla vicenda “Marino” ovve- ro da una conduzione probabilmen- te più onesta di quelle preceden, ma assolutamente insufficiente per affrontare i problemi della cià. Conduzione talmente maldestra da fare dimencare ai romani le vicen- de di pochi anni prima con il sindaco Alemanno a sua volta coinvolto in diverse vicende molto discubili, alcune delle quali sfociate in proce- dimen giudiziari. A Torino invece si proveniva da una sindacatura di Pie- ro Fassino assolutamente posiva, a volte riconosciuta pure dagli avver- sari polici. Questo deve far pensare che il voto sia stato solamente in maniera molto parziale per il giudi- zio che i ciadini avevano riguardo le situazioni pregresse, ma molto influenzato dalla vicenda polica nazionale nel suo complesso. Sta di fao che il parto Democraco ha perso tan vo e ques non sono anda a ciò che sembra il nuovo. Nuovo che va ancora tuo dimostra- to e messo alla prova del mesere di governare, notoriamente molto più duro di quello dell’opposizione. Ma tuo ciò che ha perso il P.D. non è l’unico contributo arrivato a M5S, Volubile o esasperato? La parresia LUGLIO 2016 RESPONSABILE DEL SITO: AMEDEO GARGIULO I CONTRIBUTI NON FIRMA- TI SONO DA ATTRIBUIRE AL RESPONSABILE SOMMARIO: Volubile o esasperato? Pag. 2 Don Loris Pag. 4 Perché dico no! Pag. 6 Charlie Brown Pag. 8 Angelo o diavolo ? Pag. 10 Montagna maestra Pag. 12 Le montagne nella Bibbia Pag. 14 Camminare sulle acque Pag.16 Il realismo educavo Pag.18 Fantasia: musica e cinema Pag.20 Insieme a te non ci sto più Pag.22 Unbroken Pag.24 L’angolo della poesia Pag. 26 Il tuo muro Pag. 27 La poltrona e il camineo Pag. 28 Segue nelle pagine successive La domanda è ovviamente inerente il popolo che va a votare. E mi riferisco sia alla elezioni ammini- strave italiane sia al referendum inglese concluso- si con la Brexit. L’analisi del fenomeno è complessa.

La parresia - Sfogliami · 2016. 10. 18. · stato in qualità di rottamatore e di no Àità, si sia affie Àolità presto, dopo il oom del ð í% alle Europee î ì í ð. Ed è

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Page 1: La parresia - Sfogliami · 2016. 10. 18. · stato in qualità di rottamatore e di no Àità, si sia affie Àolità presto, dopo il oom del ð í% alle Europee î ì í ð. Ed è

Le due scadenze elettorali, italiana e

inglese degli ultimi giorni hanno por-

tato una ventata di novità. Buone o

cattive lo giudicherà la storia; al mo-

mento solamente da rispettare per-

ché prodotte dalla libera espressione

popolare. Anch’io sono in parte sor-

preso ma questo conta nulla. Credo

però che sia interessante analizzare i

fatti a cominciare da quelli italiani.

Innanzitutto da un punto di vista

numerico. Il P.D. perde due città fon-

damentali, la capitale e Torino, tutte

e due a vantaggio del Movimento 5

stelle e non del centrodestra suo

avversario storico. Ma le perde par-

tendo da due circostanze pregresse

molto diverse. A Roma si proveniva

da una situazione pessima del P.D.,

in sostanza ed in immagine, ovvero

da tutte le questioni di “Mafia Capi-

tale” e dalla vicenda “Marino” ovve-

ro da una conduzione probabilmen-

te più onesta di quelle precedenti,

ma assolutamente insufficiente per

affrontare i problemi della città.

Conduzione talmente maldestra da

fare dimenticare ai romani le vicen-

de di pochi anni prima con il sindaco

Alemanno a sua volta coinvolto in

diverse vicende molto discutibili,

alcune delle quali sfociate in proce-

dimenti giudiziari. A Torino invece si

proveniva da una sindacatura di Pie-

ro Fassino assolutamente positiva, a

volte riconosciuta pure dagli avver-

sari politici. Questo deve far pensare

che il voto sia stato solamente in

maniera molto parziale per il giudi-

zio che i cittadini avevano riguardo

le situazioni pregresse, ma molto

influenzato dalla vicenda politica

nazionale nel suo complesso. Sta di

fatto che il partito Democratico ha

perso tanti voti e questi non sono

andati a ciò che sembra il nuovo.

Nuovo che va ancora tutto dimostra-

to e messo alla prova del mestiere di

governare, notoriamente molto più

duro di quello dell’opposizione. Ma

tutto ciò che ha perso il P.D. non è

l’unico contributo arrivato a M5S,

Volubile o esasperato?

La parresia L U G L I O 2 0 1 6

R E S P O N S A B I L E D E L S I T O :

A M E D E O G A R G I U L O

I C O N T R I B U T I N O N F I R M A -

T I S O N O D A A T T R I B U I R E A L

R E S P O N S A B I L E

S O M M A R I O :

Volubile o esasperato? Pag. 2

Don Loris Pag. 4

Perché dico no! Pag. 6

Charlie Brown Pag. 8

Angelo o diavolo ? Pag. 10

Montagna maestra Pag. 12

Le montagne nella Bibbia Pag. 14

Camminare sulle acque Pag.16

Il realismo educativo Pag.18

Fantasia: musica e cinema Pag.20

Insieme a te non ci sto più Pag.22

Unbroken Pag.24

L’angolo della poesia Pag. 26

Il tuo muro Pag. 27

La poltrona e il caminetto Pag. 28

Segue nelle pagine successive

La domanda è ovviamente inerente il popolo che

va a votare. E mi riferisco sia alla elezioni ammini-

strative italiane sia al referendum inglese concluso-

si con la Brexit. L’analisi del fenomeno è complessa.

Page 2: La parresia - Sfogliami · 2016. 10. 18. · stato in qualità di rottamatore e di no Àità, si sia affie Àolità presto, dopo il oom del ð í% alle Europee î ì í ð. Ed è

P A G I N A 2

Segue….Volubile o esasperato?

L A P A R R E S I A

specie nei ballottaggi dove al nuovo

movimento sono arrivati contributi di

molte altre provenienze, assoluta-

mente diverse tra loro, dall’elettora-

to di sinistra a quello della Lega, a

quello della destra; in realtà non c’è

stato nessun apparentamento ma

libere scelte da parte dei cittadini.

Matteo Renzi ha riconosciuto la scon-

fitta, ma lo ha fatto in un modo stra-

no come se fosse del P.D., di quelli che nel

partito gli remano contro e ben poco sua.

Ma questa posizione è indifendibile dopo

che negli ultimi mesi aveva tanto spinto

sul “con me o contro di me” e sul “solo

con le riforme che porto avanti l’Italia

cambierà davvero”. Forse l’Italia sta cam-

biando ad una velocità che neanche lui

pensava ed in una direzione anche ben

diversa. Mi pongo una domanda: ma di

tutta questa situazione non ha forse colpa

anche il Presidente emerito Mario Napoli-

tano? MI riferisco non alla scelta di Renzi

al posto di Enrico Letta ma alla precedente

di Mario Monti al momento della caduta

di Berlusconi. E’ vero che c’erano delle

urgenze, è vero che lo spread aveva tocca-

to livelli insopportabili, è vero che c’era un

esigenza di un governo immediato che

avesse la possibilità di assumere provvedi-

menti impopolari, ma questa fase è durata

qualche mese, poi si doveva andare a vo-

tare e non andare avanti un altro anno

pieno di polemiche verbali ma di fatto ca-

ratterizzato da un consociativismo che, di

fatto e nell’immagine, era assolutamente

contro il popolo in quanto sulle tematiche

sociali principali o si sono fatti provvedi-

menti pesanti (vedi riforma delle pensioni)

o ssono stati ignorati (vedi disoccupazione

giovanile). Se poi ci aggiungiamo che sia il

governo Monti che quello Renzi, dopo una

parentesi leggermente diversa del Gover-

no del Governo Letta, hanno assunto mol-

ti provvedimenti a favore delle banche, ivi

comprese quelle che hanno fatto dei disa-

stri per i risparmiatori, ben si capisce per-

ché le elezioni siano andate in un certo

modo. E si capisce pure come un forma di

fiducia personale che Renzi si era conqui-

stato in qualità di rottamatore e di novità,

si sia affievolità presto, dopo il boom del

41% alle Europee 2014. Ed è proprio l’in-

terpretazione di quel boom il grave errore

politico. Il popolo non aveva votato per

Renzi ma per quello che si pensava potes-

se rappresentare e realizzare, ovvero un

mix di disillusione e di speranza più che di

una reale convinzione. E quindi era un vo-

to per sua natura volubile e non consoli-

dato, che con un soffio se ne è andato da

un’altra parte. Nessuno si può cullare

sull’autosufficienza e sui soccorsi occasio-

nali. In tal senso è bene ricordare qualche

numero: per esempio a Roma nel 2006, al

secondo mandato, con il 61,8% dei voti

vinse Veltroni, appena due anni dopo, nel

2008, vinse Alemanno con il 53,7% dei voti

per poi tornare ad una vittoria del centro-

sinistra nel 2013 con Marino con una per-

centuale del 63,9 % ed infine pochi giorni

fa ha vinto Raggi con 67%. La mobilità dei

voti non ha bisogno di commenti. A margi-

ne qualsiasi considerazione sugli altri par-

titi che sembrano svolgere al momento il

ruolo delle comparse o poco più. Vale

Da un’elezione alla successiva ormai ci possono essere spostamenti di voti massicci e impreve-dibili. La fideizza-zione elettorale non esiste più.

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P A G I N A 3

invece la pena porsi qualche altra domanda sul

meccanismo elettorale e sul metodo del bal-

lottaggio. Innanzitutto un problema di rappre-

sentatività. Giorgia Meloni ha preso al primo

turno circa il 21% dei voti ovvero un successo

comunque significativo con oltre un romano su

cinque che ha votato per lei e il suo partito;

ebbene in consiglio comunale verrà rappresen-

tata solamente da 6 consiglieri su 48, pari al

12,5%. Siamo d’accordo tutti sull’esigenza di

dare al vincitore un premio che garantisca la

governabilità, ma il meccanismo è da rivedere

perchè funziona in maniera non troppo aber-

rante solamente in una situazione bipolare. Ma

il secondo problema connesso al primo, è ben

più complesso e grave. I risultati hanno dimo-

strato che un metodo elettorale con ballottag-

gio ha senso e raggiunge l’obiettivo solamente

con un sistema bipolare; i ballottaggi hanno

portato molti elettori ad orientarsi verso la

stessa scelta pur provenendo da mondi molto

lontani: per esempio a Torino hanno votato

per la candidata Appendino sia i no-tav che la

Lega e il mondo di destra. Potrebbero verificar-

si delle situazioni socialmente esplosive anche

se poi se il vincitore governerà bene probabil-

mente, riuscirà a procedere. Ma se un domani

ci fosse un meccanismo di ballottaggio anche

per le elezioni politiche potrebbero avvenire su

alcune grandi scelte anche situazioni ingover-

nabili. Sarà bene pensarci bene, anzi ripensarci.

Ma voglio dedicare qualche riga anche alla vi-

cenda del referendum inglese sul quale sicura-

mente ha molto inciso l’aspetto dei movimenti

migratori. La Gran Bretagna aveva deciso di

esercitare l’«opt out» in materia di immigrazio-

ne e quindi di non partecipare ad alcuna politi-

ca comune per l’accoglienza degli stranieri che

arrivano in Europa. Si tratta della possibilità, di

cui godono anche Irlanda e Danimarca, di rima-

nere nell’Ue senza impegnarsi su alcuni dos-

sier. La Brexit non avrà dunque conseguenze

pratiche rispetto all’attuazione dell’agenda

Juncker sulla ricollocazione dei profughi, ma

potrebbe avere gravissime ripercussioni politi-

che. Il timore più forte riguarda le prossime

mosse degli Stati contrari a misure assistenzia-

liste nei confronti dei richiedenti asilo. Ma a

questo punto anche la minima collaborazione

già offerta dai paesi come Francia e Spagna

potrebbe venire meno, per rispondere alle ri-

chieste delle opposizioni interne contrarie a

qualsiasi tipo di intervento che preveda l’acco-

glienza di profughi. In sostanza nel voto a pre-

valso la paura e quindi un senso di chiusura e

di isolamento, anche geografico. In qualche

modo stupisce che ciò sia avvenuto in Gran

Bretagna della quale abbiamo una immagine

multietnica e molto aperta a culture diverse,

ma evidentemente questo a inciso a favore del

remain solo nelle classi più giovani fino ai

trent’anni, mentre gli adulti e soprattutto gli

anziani si sono schierati per l’exit, compiendo,

secondo me, un gesto di egoismo nei confronti

delle generazioni future, sperando di avere nel

breve termine dei vantaggi. Non ho seguito i

contenuti della campagna referendario, ma

come nel caso delle amministrative in Italia, mi

sembra che una parte dei votanti si sia espres-

sa pensando ad altro. Queste situazioni mi ob-

bligano ad una riflessione molto ampia sulla

democrazia della quale sono uno strenuo di-

fensore, avendo però la coscienza che è da di-

fendere perché nella storia esperienze diverse

si sono rivelate ben più deludenti se non noci-

ve. Qual è la riflessione? E’ che mancano dei

maestri, dei soggetti autorevoli, delle guide.

Altrimenti il popolo è spesso istintivo e guarda

solo ai pro e i contro del breve termine. Oggi

ce li sogniamo i Churchill, i De Gaulle, i Kenne-

dy, i De Gasperi od anche i più recenti Thatcher

Blair, Aznar, persone di estrazione molto diver-

sa conservatori o progressisti, ma di grande

spessore e dediti al servizio per la propria pa-

tria e per i propri concittadini. Da questo punto

di vista, guardandomi un po’ intorno mi sem-

bra proprio che “mala tempora currunt”. Ma

allora l’elettorato è volubile o esasperato? E’

volubile perché è esasperato, per cui i voti a

chiunque siano andati sono sempre da consi-

derarsi da riconquistarsi ogni volta. Non si vive

più di rendita.

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P A G I N A 4

Don Loris

“Vivo i miei giorni del tramonto assistendo

al rinnovarsi dell’aurora della Chiesa. Ed è

motivo di consolazione. Tantum aurora

est… “. Questa è stata una delle ultime di-

chiarazioni pubbliche di Loris Capovilla. Par-

tendo dal fondo cioè dall’ultimo dei suoi

cento anni di vita si può intuire tanto, forse

tutto, di un uomo straordinario. A conferma

di ciò basta rileggere quello che ha detto

pochissimo tempo fa parlando della sua

morte: “Che bello se potessi trascorrere

quel giorno con i profughi accolti a Sotto il

Monte, a far capire loro l’uomo uscito da

questa terra o con i carcerati, a riflettere sul

Giubileo della misericordia “. E’ stato un

uomo di preghiera, ma anche un uomo di

azione altrimenti non sarebbe potuto stare

al fianco di un uomo come Papa Roncalli.

Ma soprattutto è stato un uomo della con-

cretezza e del dialogo e lo era stato fino alla

fine dei suoi giorni. Se cent’anni autorizza-

no a parlare di una vita sazia, nel suo caso

non è così. Le forze fisiche erano ovviamen-

te diminuite, ma le forze intellettive in lui

continuarono a brillare, tant’è con una luci-

dità sensazionale diceva di se: “Arrivato a

cent’anni non ho avventure strepitose da

raccontare, tranne l’incontro con voi (Papa

Giovanni), che siete stato l’ispiratore del

mio servizio sacerdotale a Venezia, in Vati-

cano, in Abruzzo, nelle Marche e a Berga-

mo. Di nulla mi vanto, non mi sento credi-

tore verso alcuno, sono in debito invece

con voi”. Raccontare la sua vita sarebbe

lungo ma l’aspetto che più mi colpisce è

quello della sua grande versatilità nei con-

fronti di ciò che la vita gli ha posto avanti.

Con grande umiltà è stato disponibile a

L A P A R R E S I A

Monsignor Capovilla, per tutti Don Loris, è morto pochi

giorni fa all’età di 100 anni. E’ un grande uomo di fede ed

un straordinario testimone della vita della chiesa del nove-

cento, in particolare del pontificato di Giovanni XXIII, del

quale è stato il segretario, ma anche qualcosa di più, sia nel

periodo a Venezia quando ne era il patriarca, sia nel perio-

do romano, quando Roncalli salì al soglio di Pietro.

Monsignor Capovilla con Papa Giovanni

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P A G I N A 5

ricominciare anche con cambi di vita radicali. Da gio-

vane prete caratterizzato da un’esperienza molto

semplice di parrocchia di campagna, a supporto

principale di un Papa, senza peraltro mai montarsi la

testa. Il periodo dopo la morte di Papa Giovanni non

fu semplice per lui che tentò in tutti i modi di porta-

re avanti nella chiesa i principi conciliari. Una missio-

ne che non poteva non scontrarsi con l'immobilismo

comodo e la paura pregiudiziale anche di tanti sog-

getti cattolici che erano chiamati a farsi collaboratori

solerti di quanto introdotto dal rinnovo conciliare.

Per lui fu fondamentale la successiva esperienza nel-

le Marche ed in particolare a Loreto, dove si calò in

un ruolo meno appariscente di quello di segretario

di un Papa, ma di grande valore missionario a con-

tatto con la gente e con la straordinaria devozione

popolare che si genera in un luogo come il santuario

di Loreto. Dal 1989, il ritiro fecondo a Sotto il Monte,

cioè nel paese natale di Papa Giovanni, e non nel

suo. A continuato a vivere con entusiasmo nella pre-

ghiera e nell’attività di lasciare più traccia possibile

del pontificato di Papa Giovanni. Mi piace conclude-

re questa memoria ricordando che Loris Capovilla

rivedeva in Papa Francesco molti tratti di Papa Gio-

vanni e ne apprezzava il modo con cui svolge il Ponti-

ficato tant’è che ne ha lasciato traccia in una lettera il

cui contenuto è quello che avrebbe voluto dire al Pa-

pa: “Ce l’avete fatto capire, Santo Padre: non un si-

stema ci occorre, specialmente in tempi di emergen-

za, non un’ideologia, non un computer; ci occorre un

uomo in carne ed ossa, come erano i profeti; uomo

che pensa, prega ed ama; uomo non costruito sul

protocollo, né sulla diplomazia; uomo che ti sorride

con gli occhi; uomo i cui occhi nuotano talora nelle

lacrime senza che si alterino i tratti del volto”.

Monsignor Capovilla, ben 76 anni di sacerdozio,

dal 23 maggio 1940, vescovo dal 1967 su nomi-

na di Papa Paolo VI, è stato creato cardinale da

Papa Francesco il 22 febbraio 2014 a 98 anni,

ricevendo il titolo presbiterale di Santa Maria in

Trastevere e divenendo in tal modo il membro

più anziano del collegio cardinalizio.

“Pensavo fosse uno scherzo. Squilla il telefono, io

rispondo e dall'altra parte dicono: `monsignor Ca-

povilla, sono Papa Francesco´. Aveva fatto lui il nu-

mero, senza passare dal centralino”. Così racconta-

va Don Loris della telefonata con la quale gli veni-

va comunicato che sarebbe stato nominato cardi-

nale. Ed aggiungeva riferendosi a Papa Francesco:

“Al termine della mia vita tocco con mano che al-

cune intuizioni di Papa Giovanni vengono oggi mes-

se sul tappeto da Francesco. Nel discorso agli am-

basciatori che hanno presentato le credenziali

qualche giorno fa, lui ha detto che la Chiesa deve

preoccuparsi in particolar modo degli ultimi. Ha

ripetuto la stessa frase di Papa Giovanni nel radio-

messaggio un mese prima dell'apertura del Conci-

lio, l'11 settembre: `La Chiesa è di tutti e nessuno è

escluso, ma e" particolarmente la Chiesa dei pove-

ri´. Qualcuno ha detto che questa è demagogia ma

dove è la demagogia se tuo fratello muore di fa-

me? È un grande discorso che quelli che si vogliono

chiamare cristiani devono vivificare dentro di loro:

non accontentarsi solo di battere le mani al Papa”.

Monsignor Capovilla

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P A G I N A 6

Perché dico no!

Il reddito di cittadinanza: una trovata populistica

molto preoccupante. Ma qual è la proposta? Quali

sono le possibili conseguenze? Perché piace? Perché

manca tanta informazione sull’argomento?

L A P A R R E S I A

Una iniziativa di questo genere, in Italia,

costerebbe – secondo il governatore della

Banca d’Italia – il 20 per cento del Pil, vale

a dire tra i 400 e i 500 miliardi di euro

all’anno per dare a tutti i cittadini un red-

dito di oltre 1.500 euro mensili a fronte

di nessuna prestazione lavorativa. An-

dremmo a creare dei disoccupati perma-

nenti di Stato, in un paese dove già ades-

so tra lavoro nero ed evasione fiscale sia-

mo “messi bene”! Con una garanzia simi-

le , ben pochi andrebbero a cercare lavo-

ro per dignità, ma si adagerebbero su

questa situazione non pensando alle tan-

te negatività che ne deriverebbero. Pro-

viamo ad individuarle. Il primo aspetto,

essendo il reddito di cittadinanza esente

fiscalmente, ci sarebbe un notevole calo

delle entrate e quindi una grande difficol-

tà a garantire i servizi ed in particolare il

welfare; ma la ricaduta non sarebbe sola-

mente sui soggetti destinatari del reddito

di cittadinanza ma anche su tutti gli altri

che pagano i contributi per garantirsi pre-

videnza e protezione sociale. Inoltre ci

troveremmo con dei cittadini che lavora-

no normalmente ad avere un’entrata

mensile inferiore ai beneficiari di questa

proposta, con conseguenze di tensioni

sociali facilmente immaginabili. Inoltre

questi soggetti, non avendo le ritenute,

dovrebbero garantirsi la propria sanità

con polizze volontarie e private Ma se

questi non lo dovessero fare, comunque

avrebbero diritto, per esempio, ad una

assistenza ospedaliera in caso di bisogno,

il cui onere ricadrebbe sui soliti fessi che

lavorano e pagano. C’è un altro aspetto

inquietante che è l’incentivo al lavoro

nero. Per conservare il diritto al reddito di

cittadinanza si può facilmente immagina-

re le dichiarazioni false che ci sarebbero e

l’incapacità della macchina pubblica a

scoprire certe situazioni. Non scordiamoci

che al momento attuale lo Stato con i suoi

uffici finanziari, Equitalia compresa, è bra-

vissimo a individuare tra i contribuenti

errori o piccole evasioni, e le fa pagare

molto care, ma ben poco fa nei confronti

degli evasori totali, cioè di quelli fiscal-

mente inesistenti. Ma in realtà c’è un

aspetto che mi preoccupa ben di più e

che, volutamente, ho voluto tenere per

ultimo: l’aspetto diseducativo. Ritengo

che uno delle componente fondamentali

dell’educazione che un genitore può dare

ai propri figli sia proprio quello del lavoro,

sia il fatto che sudarsi un po’ le risorse

Nei giorni recenti

il Movimento cin-

que stelle ha as-

sunto la guida di

alcune importanti

città italiane, rac-

cogliendo in alcuni

casi delle eredità

non facili da

affrontare. Vedre-

mo presto gli esiti

di questa nuova

stagione e mi au-

guro per il bene

dell’Italia che go-

vernino bene. Ine-

vitabilmente ri-

tengono di potersi

proporre a breve

per la guida del

Governo naziona-

le. Fermo restando

che i loro parla-

mentari hanno

assunto alcune

iniziative condivi-

sibili, merita un

ampio dibattito un

loro cavallo di

battaglia: il reddi-

to di cittadinanza.

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P A G I N A 7

Il Referendum tenutosi recentemente in Svizzera per il Reddito di Cittadinanza è stato pesantemente boccia-

to. A livello federale la percentuale media del NO è stata pari al 76,9%. Perché passi una proposta è necessa-

rio sia superare il 50% a livello federale, sia che il 50% sia superato nella maggioranza dei cantoni. Nessuno

dei risultati è stato lontanamente avvicinato. In Svizzera ogni cittadino ha immediatamente una conseguen-

za, in termini di più o meno tasse, di ogni sua scelta ed ha chiaro questo legame tra causa ed effetto. In par-

ticolare nel caso specifico, trattandosi peraltro di un paese piccolo, il reddito garantito per tutti, è stato visto

come un disincentivo alla ricerca di un lavoro, peraltro con un pesante “prezzo” in termini di maggiori tasse.

Gli svizzeri si sono chiesti se valeva la pena di pagare più tasse per pagare uno stipendio a tutti, anche a chi

non ha voglia di lavorare, e 3 su 4 abbondanti si sono risposti che non ne vale la pena.

indispensabili a mantenersi sia una circostanza

positiva, di dignità e normalità umana, che ti

insegna a rispettare di più gli altri ed anche se

stessi ma anche ad apprezzare nella giusta mi-

sura ciò che si possiede e che si è conquistati

appunto con il proprio lavoro. Mi ricordo co-

me fosse ieri la soddisfazione di avere ritirato

il mio primo stipendio, di avere messo la ben-

zina ed offerto la pizza alla mia fidanzata non

più con i soldi di papà. Ovviamente le mie con-

siderazioni non vogliono avere nulla di offensi-

vo nei confronti dei disoccupati e di chi ha per-

so il lavoro. Nei confronti di questi ultimi non

c’è dubbio che gli strumenti di garanzia già

esistenti, il sussidio di disoccupazione e la cas-

sa integrazione, vanno mantenuti, difesi ed in

alcune circostanze anche migliorati, ma si de-

ve trattare di una misura transitoria e lo Stato

stesso non si può adagiare su questi strumenti

per non adottare strategie e strumenti più

strutturali e a tempo indeterminato. E qui si

torna al nocciolo della questione, non bisogna

dare un reddito a chi non lavora, ma dargli

appunto occasioni di lavoro. Sicuramente faci-

le a dirsi, meno a farsi. Però ci sono alcuni

settori di servizi che avrebbero un bisogno di-

sperato di risorse umane. Il primo esempio

che mi viene in mente è il settore della pubbli-

ca sicurezza: si reclama tanto una mancanza di

sicurezza per i nostri cittadini ma poi le forze

dell’ordine per presenziare il territorio sono

sempre insufficienti, e di molto. In molti setto-

ri ospedalieri il personale è costretto a turni

doppi massacranti per compensare le carenze

di personale. Molti uffici pubblici, soprattutto

in periferia, sono presenziati in misura a volte

pari ad un decimo rispetto agli organici stabili-

ti. E potrei continuare. Qualcuno potrebbe

obbiettare che si tratta di tutti lavori statali o

più in generale di natura pubblica; il che porta

alle solite polemiche sui fannulloni nelle Am-

ministrazioni pubbliche. C’è un fondo di verità,

o forse c’era. Ora è molto meno vero visto che

è vigente un blocco del turn-over da quasi

vent’anni. E comunque la soluzione del pro-

blema non può essere rinunciare ai servizi

pubblici, ma controllare e renderli efficienti

con valutazioni di tipo privatistico. Ma per

offrire lavoro, si può agire anche in forma indi-

retta, favorendo le assunzioni da parte dei pri-

vati con agevolazioni fiscali e previdenziali.

Con i job acts qualcosa è stato messo in moto

ma serve ben altro ed anche in questo settore

bisogna vigilare perché anche il mondo privato

non è esente da pecche. Concludendo, atten-

zione a ricordarsi bene che negli anni cinquan-

to e sessanta c’erano tante polemiche sulle

grandi infornate di assunzioni nel mondo sta-

tale, perché vigeva il giudizi che quelli più che

posti di lavoro erano stipendi. Con il reddito di

cittadinanza potremmo commettere lo stesso

errore, ma molto, molto più grave.

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P A G I N A 8

Charlie Brown

L A P A R R E S I A

Sa tutto di aquiloni ma non riesce a farli

volare, e così anche un gioco diventa origi-

ne di ansia che poi si cronicizza. Nel base-

ball non gli va meglio: perde ogni partita

che gioca, collezionando figuracce con gli

amici. Eppure, malgrado tutto ciò e tutti i

suoi dubbi, il personaggio Charlie Brown è

un vincente. Le sue famose strisce si sono

diffuse in tutto il mondo e sono state tra-

dotte in 21 lin-

gue diverse. Si

potrebbe defi-

nire un perden-

te di successo.

Si pone tante

domande sulla

vita. Non è

detto che però

tutte trovino

risposta. Lo si

può considera-

re un modello,

capace di ispi-

rare una nuova

idea di società, al ribasso, quasi alla so-

pravvivenza. Lo ha affermato perfino

Matteo Motterlini, neuroeconomista e

professore ordinario di Filosofia della

scienza all’Università di Milano. “Perché

non posso avere un cane normale come

tutti gli altri?”. E’ una delle sue tipiche do-

mande, esasperata e simbologica che ci fa

scoprire tutti un poco egocentrici come

Snoopy, egoisti e malefici come Lucy, insi-

curi e esistenzialisti come Linus, sballottati

da emozioni come Charlie Brown. Scolaro

di quarta elementare, Charlie Brown è sicu-

ramente un perdente, ma capace di infinita

determinazione e testardaggine; è domina-

to dalle sue ansie e dalla convinzione dei

suoi limiti, nonché dai suoi compagni che

approfittano di lui. Le strisce di Peanuts

sono notevoli per l’abile critica sociale,

specialmente se comparata con gli altri fu-

metti ad essa contemporanei negli anni

cinquanta e sessanta. Schulz non denuncia

esplicitamente i problemi legati alla razza,

al genere ed alla disuguaglianza sociale ma

li rende evidenti ad esempio nel disegnare

un personaggio come Piperita Patty, la cui

abilità atletica e la cui forza di carattere

sono date per scontate, stridente con l’im-

Chi della mia generazione, e di molte successive,

non ha letto le strisce dei Peanuts rappresenta una

vera rarità. Ma qual era il segreto attrattivo di un

personaggio così inquieto ed ansioso, al quale non

ne andava bene una? Forse un tipo di sensibilità

rappresentata con ironia ed origine di sorrisi a den-

ti stretti e di un po’ di malinconia.

Benché fosse

cristiano, Schulz

si definiva un

"umanista seco-

lare". Politica-

mente modera-

to, ebbe anche

a fare satira

contro l'estre-

ma destra cri-

stiana, presen-

tandola come

ipocrita ed auto

assolutoria.

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ne delle ragazze simbolo dell'epoca. Schulz, pur

nella ripetitività di impostazione delle sue stri-

sce, toccò nel merito molte tematiche riuscendo

anche ad essere pungente . Nel corso degli anni

spaziò su tutto, dalla guerra del Vietnam ai re-

golamenti sull'abbigliamento scolastico alla

"nuova matematica". Una delle sue sequenze

più premonitrici risale al 1963, quando inserì nel

cast il personaggio di un bambino chiamato "5",

le cui sorelle si chiamano "3" e "4", il cui padre

ha cambiato il cognome della famiglia nel pro-

prio codice postale per protestare su come i nu-

meri vadano a sostituirsi alle identità delle per-

sone. Un'altra sequenza critica l'ossessivo voler

organizzare i giochi dei bambini, tipicamente

americano, quando aderiscono a squadre orga-

nizzate per la realizzazione competitiva di pu-

pazzi di neve e criticano Charlie Brown per il suo

insistere a voler fare il proprio pupazzo di neve

da solo. Le strisce quotidiane dei Peanuts erano

impaginate nel formato "salva-spazio" a 4 vi-

gnette sin dagli anni cinquanta, con rarissime

eccezioni sviluppate su 8 vignette. Nel 1975 lo

spazio fu leggermente accorciato in orizzontale

e nel 1988 Schulz abbandona lo schema classico

iniziando ad utilizzare l'intera lunghezza della

striscia, in parte per combattere le continue ri-

duzioni di spazio, in parte per sperimentare.

Schulz ha disegnato ininterrottamente la striscia

per 50 anni, senza avvalersi di assistenti,

nemmeno per i testi e la colorazione. A

cominciare dai primi anni ottanta il suo

tratto ha cominciato a tremare: il tre-

molio è diventato più visibile nel decen-

nio successivo. Ciononostante ha conti-

nuato a disegnare fino a quando i suoi

problemi di salute sono diventati insor-

montabili. L'ultima striscia è stata dise-

gnata il 3 gennaio 2000 e pubblicata il

giorno dopo la morte di Schulz, avvenu-

ta il 12 febbraio successivo. Molti gior-

nali statunitensi hanno cominciato a

ripubblicare le vecchie strisce, questo in virtù

delle ultime volontà di Schulz che nel suo testa-

mento ha proibito la continuazione della serie

dopo la sua morte. C’è da chiedersi da cosa po-

trà mai derivare tanto successo. Sono strisce

che non fanno ridere, tutt’al più fanno sorridere

e generano tenerezza, sono ironiche e fanno

emergere anche un certo cinismo dei cosiddetti

amici di Charlie Brown che soffre di questa si-

tuazione ma considerando l’amicizia una cosa

sacra, resiste e cerca sempre il perché delle co-

se e delle situazioni dentro se stesso e per se

stesso. E’ qui, secondo me, il segreto del succes-

so: la possibile identificazione di ciascuno di noi

in almeno una delle fobie del personaggio. Fo-

bie che però hanno un risvolto positivo ovvero

pongono delle domande vere sulla vita, sul sen-

so, sul mistero, sui rapporti umani e le difficoltà

che si incontrano. E’ come se si trattasse di un’a-

nalisi gentile ed ironica di se stessi e della vita

con un qualcosa di ansiogeno, per l’insistenza

delle domande stesse e la sensazione che si stia

sempre aspettando qualcuno o qualcosa che

non arriva mai, come in “Aspettando Godot” .

Ma l’attesa è pura e proprio per questo più fati-

cosa ed anche un po’ angosciante. Non c’è dub-

bio che a Charlie Brown la vita sembrerebbe più

semplice senza i silenzi della solitudine (vedi

immagine in basso) ma sarebbe vita?

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Angelo o diavolo ?

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Marco Pannella “convertito”; Marco Pan-

nella, “il mangiapreti che ritrova la fede in

articulo mortis”; Pannella come Renato

Guttuso, Oriana Fallaci, Curzio Malaparte?

Pannella anche da morto suscita grandi

discussioni. E’ stato un personaggio parti-

colare della vita politica italiana, era narci-

so, affabulatore ed istrionico. Era capace di

parlare per un tempo infinito ma anche di

lunghi silenzi imbavagliato pur di eviden-

ziare all’opinione pubblica vicende del no-

stro paese a suo vedere vergognose e non

sufficientemente attenzionate. Quando

parlava era capace di partire da una affer-

mazione e poi divagare in una logica che

solamente lui a volte riusciva a seguire. Mi

ha sempre incuriosito come con grande

disinvoltura aggrediva la chiesa, i Papi, i

valori cattolici per poi definirsi cristiano.

Le sue grandi battaglie civili erano comun-

que spesso sostenute nel metodo e nella

sostanza in linea di bordo. Basta pensare al

fatto che per spingere alla liberalizzazione

delle droghe, le fumava pubblicamente

ostentando il reato e provocando le forze

dell’ordine affinchè lo arrestassero. Ancor

più inquietante quando insieme ad alcuni

suoi compagni radicali provocava gli aborti

clandestini per “salvare le donne”

dal mercato nero dell’aborto. Do-

vete facilmente immaginare che

non abbia mai avuto particolare

simpatia per queste posizioni e

comportamenti però ho avuto sim-

patia per lui in altre circostanze.

Per esempio nel suo modo di esse-

re accogliente con i più derelitti e in

alcune sue battaglie sulla legalità e

sulla situazione dei carcerati. Ma

cerchiamo di scoprire meglio que-

A fine maggio è morto Marco Pannella: un personaggio

molto discusso della politica italiana: certamente molto ha

inciso su alcuni cambiamenti della concezione di vita degli

italiani. Anche chi lo avversava ferocemente doveva rico-

noscere che nelle battaglie che sosteneva ci credeva vera-

mente anche se spesso le sue posizioni erano tutto e il

contrario di tutto, per confusione o per convinzione?

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sto personaggio che con estrema facilità oscilla-

va tra le posizioni prima ricordate e il dichiararsi

cristiano. La sensazione a pelle era quella di pen-

sare ad una evidente provocazione dissacratoria,

tanto da far pensare a lui come la reincarnazione

del diavolo. Però nulla si può dire con certezza,

solamente lui e Dio conoscono la verità. E quin-

di, seppur con molto scetticismo è giusto lasciare

aperta una chance interpretativa. Anche perché

quando ormai aveva capito che gli era rimasto

ben poco da vivere, ha scritto una lettera molto

bella a Papa Francesco, di fianco riportata, dove,

dopo degli apprezzamenti più di

tipo politico, fa un riferimento

molto puntuale alla croce. Ci si

può chiedere tante cose e porre

tante domande; ma, come ci ha

insegnato Papa Francesco, non

sta a noi giudicare.

Come si fa ad escludere una conver-

sione od anche che fin da prima, sep-

pur del tutto a modo suo, non avesse

fede. Non mi va di fare la parte

dell’avvoltoio che approfitta di que-

ste circostanze per rivendicare la

ragione di noi cristiani cattolici, ma

resta il fatto obbiettivo del mistero

che c’è dietro la vita di ogni persona.

Peraltro una serie di amicizie di Pan-

nella sembrerebbero dimostrare che

tanto mangiapreti non lo fosse.

“Al mio funerale

non voglio che si

pianga, voglio che

si rida e che ci sia

musica”. Questo

l’unico auspicio di

Marco» ha detto

Mirella Parachini,

compagna storica

del leader radicale

scomparso.

Qui di fianco il biglietto di Pannella al Papa il cui testo, reso nota da Famiglia Cristia-na ha poi avuto grande riso-nanza su tutti gli organi di co-municazione. La parte più sor-prendente, meno politica e più personale è certamente quella relativa alla croce. «Ho preso in mano la croce che portava mons. Romero, e non riesco a staccarmene» ha scritto Pannella in un post scriptum nella missiva inviata al pontefice, su cui aveva più volte espresso pareri positivi. La croce a cui fa riferimento il leader radicale è quella che era appartenuta a Oscar Ro-mero, arcivescovo di San Sal-vador, ucciso dagli squadroni della morte per le sue ripetu-te denunce delle violenze compiute dalla dittatura mili-tare.

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Montagna maestra “La montagna è una maestra muta che crea discepoli si-

lenziosi“. Così J. W. Goethe amava definire la montagna

con un’intuizione unica e di rispetto della maestosità.

«Queste monta-

gne suscitano nel

cuore il senso

dell'infinito, con il

desiderio di solle-

vare la mente

verso ciò che è

sublime».

Giovanni Paolo II

Siamo abituati nella vita di tutti i giorni

di interpretare ed usare la parola bellez-

za con una certa faciloneria, ma quando

si parla di montagna la situazione è un

po’ diversa perché ammirando si subisce

un fascino talmente diverso ed avvin-

ghiante che la reazione è del tutto scon-

volgente rispetto alle nostre abitudini. Ti

senti infatti portato quasi a cambiare

vita, e ad estrapolare da ciò che si vede

quei valori intrinsechi nascosti, ma ben

presenti. Molti, tendono a rappresentare

la vetta come qualcosa di meraviglioso,

di unico, e lo è, e come una cosa da rag-

giungere. Ma ricordiamoci che la bellezza

sta anche nel momento in cui si tenta

con fatica di raggiungere la cima. Tutto

ciò che rappresenta questo stupendo

percorso lo potremmo chiamare valore,

o forse, più correttamente richiamo ai

valori. Che sono il rispetto, la lealtà il

rapporto con se stessi favorito dal silen-

zio. Ma c’è anche una evidente metafora

sull’amicizia rappresentata dalla corda

che lega più persone e che è molto di

più di un semplice oggetto usato per la

sicurezza, ma è un legame che unisce

persone che hanno un comune scopo, e

che si aiutano per raggiungerlo. In mon-

tagna si impara che ogni salita, sia essa la

più complicata o la più semplice ha

dentro di se delle emozioni, sta nella

nostra sensibilità riuscire a scoprirle

ed a tirarle fuori. C'è un altro aspetto

importante, quello delle difficoltà,

tutto ciò che sudiamo e che raggiun-

giamo con fatica ha un valore, deve

avere un valore. Le emozioni, invece,

fanno parte di tutto: dal sognare una

salita, dal programmarla, dal prepara-

re gli zaini, dal legarsi con un compa-

gno, e dallo spettacolo che solo la

vetta sa regalare. In letteratura, da

sempre il mare è l’elemento domi-

nante. Sinonimo di mistero e indice di

romanticismo, compare in miriadi di

testi letterari e poesie. Ma che dire

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della montagna? In realtà anch’essa è una tematica

presa in seria considerazione dai letterati di tutti i

tempi, una presenza costante, ma più silenziosa e

forse più discreta. I monti si prestano alla meditazio-

ne, presentano uno scenario in grado di mutare in

maniera repentina, e possono creare un legame in-

dissolubile con l’uomo. Anche perché la sua

“vicinanza” al cielo, come pure la consapevolezza

della fatica che si fa a scalarla, ricorda di continuo

all’uomo quali siano i suoi limiti e, soprattutto, di

non essere immortale né divino. Nella letteratura

mitologica gli dei stavano sull’Olimpo ovvero sulla

montagna simbolo dell’antica Grecia; è vero che

c’erano anche alcune divinità marine ma sono sicu-

ramente marginali. In questo escursus è impossibile

non pensare a Dante Alighieri: la sua è una monta-

gna ostica, che mette in comunicazione l’abisso in-

fernale con la dimensione celeste. Da qui la creazio-

ne della montagna del Purgatorio, senza la quale

non avrebbe potuto dare l’idea di una continua

ascesa verso livelli superiori, cioè è simbolo di pas-

saggio, di fatica commisurata alla fatica che ciascu-

no può fare. Alcune montagne particolarmente affa-

scinanti sono divenute oggetto di letteratura specifi-

ca. Basta pensare a Francesco Petrarca che secondo

le fonti sarebbe il vero padre della letteratura di

montagna moderna, per avere descritto in maniera

accurata la salita al “Monte ventoso” (Mont Ven-

toux) in Provenza. L’impresa è avvenuta nel 1336,

un periodo in cui le cime venivano ancora viste co-

me regni misteriosi di creature mitologiche. Petrar-

ca ha capovolto questa credenza, poiché questa sali-

ta e la sua descrizione sono divenute ben presto

una sorta di processo educativo tendente a smorza-

re il suo delirio di vanità. In epoca illuminista, le spe-

dizioni scientifiche spesso sono accompagnate da

letterati o giornalisti e nasce così un nuovo filone

letterario. La conquista della cima del Monte Bianco

(1786) segna la svolta nella storia dell’alpinismo ed

anche della letteratura relativa alla montagna. I

monti infatti non sono più visti come impedimento

al cammino e come luogo del quale avere paura,

bensì come celebrazione della bellezza, delle impre-

se per la conquista delle vette e vanità umana. Vi è

poi quel rapporto particolare che si crea tra l’uomo

e la montagna durante la guerra. In Italia abbiamo

scolpita nella nostra storia la vicenda sulle Alpi del

Nord-est durante la prima

guerra mondiale. I racconti

degli alpini sono significativi

perché la fatica naturale

della montagna si mescola-

va con gli orrori della guer-

ra. Mai, prima di allora, si

erano combattute delle

battaglie ad altitudini così

elevate. Tra le cime del Mas-

siccio dell'Adamello italiani

e austro-ungarici si trovarono uno di fronte all'altro

ad oltre 3000 metri di altezza. In qualche modo era

una guerra diversa, più cavalleresca e in alcuni mo-

menti di tregua i soldati delle due parti erano tal-

mente vicini da vedersi e parlarsi. La cosa più incre-

dibile è che nei racconti e nei diari di chi ha com-

battuto in quei luoghi, nonostante gli stenti e la

drammaticità ci sono ricordi quasi belli e non manca

mai qualche riga descrittiva della bellezza dei luoghi.

«...Sono le grandi catte-

drali della terra, con i

loro portali di roccia, i

mosaici di nubi, i cori dei

torrenti, gli altari di neve,

le volte di porpora scintil-

lanti di stelle...»

John Ruskin

La Storia dell’alpinismo è anche la Storia del Monte

Bianco, dalla prima conquista dei 4810 m del Tetto

d’Europa alle scalate corredate di tutti iu moderni di-

spositivi, il Monte Bianco continua ad essere una meta

straordinaria per tutti gli appassionati di montagna.

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La maestra di cui abbiamo parlato nelle pagi-

ne precedenti, è significativamente presente

anche nella sacra scrittura con metafore sulla

vita, sul cammino umano, sul sacrificio. Fino

al luogo che è il centro di tutto: il Golgota.

Le montagne nella Bibbia

Tre sono i monti nominati nella Bibbia che

hanno un rilievo particolare: Sion, Sinai e

Golgota. Cominciamo dal "monte Sion",

che riassume in sé tutta la tensione verso

il trascendente, attraverso lo sguardo che

si leva verso l'alto e verso il monte, l'unico

che può dare la salvezza. Ma il monte Sion

è stato identificato da parte della tradizio-

ne ebraica e cristiana e poi anche di

quella musulmana, con un altro

monte, che è radicale per tutte e tre

le religioni monoteiste, ovvero il

monte Moria, monte che non è rin-

tracciabile in nessun atlante e quin-

di o è simbologico o è diventato no-

to successivamente con un altro no-

me. Il monte Moria è per eccellenza

il monte della fede. Nel racconto

della Genesi, Abramo si trova di fronte

alla prova più ardua della sua fede ed è

lassù sul monte che si consuma il dramma.

Una delle pagine più drammatiche della

Sacra Scrittura perchè Dio infatti chiede

ad Abramo il sacrificio più tremendo per

un padre che era convinto che quel figlio

fosse un dono di Dio. L’ascesa al monte

rappresenta il paradigma per eccellenza

del vero credere e la presenza della mon-

tagna ha un valore simbolico molto signifi-

cativo. Innanzitutto per la fatica fisica, ma

anche perché la vetta significa avvicinarsi a

Dio. Seconda considerazione a proposito

del monte Sion. Il profeta Isaia rappresen-

ta il monte Sion avvolto di luce mentre

delle tenebre planetarie si stendono su

tutto il mondo. All'interno di questa oscu-

rità si muovono processioni di popoli e

queste processioni hanno come punto di

riferimento questo monte, che certo non è

il più importante della terra. I popoli ven-

gono da regioni diverse, salgono il monte,

il monte della parola di Dio, e una volta

che sono saliti in Sion ecco che lasciano

cadere dalle mani le armi; le spade vengo-

no trasformate in vomeri e le lance in falci.

Sion diventa il luogo nel quale tutti i popo-

li della terra convergono e costruiscono la

pace e un mondo di armonia. Passiamo

ora al secondo monte: il Sinai, monte soli-

tario, monte desolato, arido, attraversato

dal vento, prosciugato dall'incandescenza

del sole, ma anche il luogo della teofania,

della grande manifestazione del Dio miste-

rioso. "Sul far del mattino vi furono tuoni

e lampi, una nube densa sul monte, un

suono fortissimo di tromba, tutto il popolo

che era nell'accampamento fu scosso da

terrore" (Esodo, 19-26). Siamo di fronte

alla celebrazione per eccellenza del tre-

mendum di Dio, è il luogo questo nel quale

Monte di Sion, monte

Sinai e monte Golgota.

Tre luoghi di montagna

che possono sintetizzare i

momenti chiave dell’e-

sperienza cristiana. Ognu-

no con importanza nella

realtà e nella metafora.

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Dio ci fa scoprire tutta l'impotenza dell'uomo.

Ma il Sinai è anche il luogo della teologia, cioè

non solo della manifestazione, ma anche della

parola di Dio. E’ questo il primo luogo della sto-

ria dove fu possibile incontrare la parola di Dio.

E’ infatti qui che Dio detta il Decalogo cioè, nella

sua sintesi, le regole base del cristianesimo,

fatte poi carne nel nuovo testamento con Dio

che si fa uomo attraverso suo figlio Gesù. Ma il

Sinai è anche il luogo dell'intimità di Dio con

l’uomo, infatti non esiste solamente il Dio terri-

bile o il Dio che ti dà la sua parola, ma anche un

Dio che si adatta a te, entrando misteriosamen-

te accanto a te con tenerezza. Nel primo libro

dei Re, Dio non si presenta qui con l'apparato

teofanico. Dio non è vento che spacca la roccia,

non è fulmine, non è terremoto, ma semplice-

mente "un mormorio di vento leggero". Dio di-

venta una voce di silenzio sottile. Dio si adatta

talmente da avvolgerci pacatamente con la

quiete del silenzio. Un'esperienza appunto che

anche il laico, incontrando il silenzio, prova sulla

montagna. L'altro riferimento è ovviamente al

Sinai cristiano, cioè al monte delle Beatitudini.

Attraverso le Beatitudini e il discorso della mon-

tagna, si presenta come il Dio d'amore, della

pienezza, della intimità assoluta. Giungiamo così

al terzo e ultimo monte, quasi inesistente dal

punto di vista orografico, ma punto di riferiime-

nto obbligato per noi cristiani: si tratta del Gol-

gota, in aramaico “cranio”, ovvero del Calvario.

Un monte che di sua natura è irrilevante ed oggi

inglobato nella città di Gerusalemme e, in un

certo senso all'interno della basilica del Santo

Sepolcro. E’ incredibile pensare come questo

luogo abbia inciso sulla storia del mondo, tant’è

vero che anche coloro che non hanno nessuna

fede in Cristo, sanno che cos'è il Calvario e usa-

no questo termine come sinonimo di tanta

sofferenze. Ma non è solamente il monte della

morte ma anche, a ben vedere, il monte della

vita; è il monte della tragedia di un Dio che as-

sume in se la sofferenza e la solitudine dell’uo-

mo, ma è insieme anche il luogo da cui partirà

anche la resurrezione. Il Calvario è già anche il

monte dell'ascensione. Come dicevamo il Golgo-

ta non è una grande montagna che affascina,

non ne ha le dimensioni ne le sembianze, anzi

prevale in un certo senso l’aridità e l’inquietudi-

ne; ma il segno della fatica del cammino della

via crucis è comunque indelebile, quasi a sim-

boleggiare una salita unica al mondo, da riper-

correre oggi con devozione e gratitudine, aspi-

rando sempre ad andare verso l’alto.

Una suggestiva immagine del Golgota

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Treni in tilt, malori e file infinite, conse-

guenza del successo superiore alle attese

del lavoro di Christo sul lago d’Iseo, e il pre-

fetto è costretto a chiudere di notte la pas-

serella sul lago. Stiamo parlando di un per-

corso pedonale provvisorio ad accesso gra-

tuito per un totale di 4,5 chilometri sulle

acque del Lago d'Iseo, in provincia di Bre-

scia, realizzato utilizzando 70.000 metri

quadri di tessuto giallo-arancione, sostenu-

ti da un sistema modulare di pontili galleg-

gianti formato da 200.000 cubi in polietile-

ne ad alta densità. Ecco il progetto 'The

Floating Piers' dell'artista di fama interna-

zionale Christo che nel mese di Giugno ha

reinterpretato per 16 giorni il lago lombar-

do. L'installazione si sviluppa in circolo da

Sulzano a Monteisola (Peschiera Maraglio)

e poi due diramazioni conducono all'isola

privata di San Paolo.

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Camminare sulle acque.

Senza voler evocare Gesù Cristo, ne le più recenti battute

di Beppe Grillo, in questi ultimi giorni è stato possibile

avere la sensazione di camminare sull’acqua grazie alla

realizzazione sul lago d’Iseo del "guru" Christo Vladimirov

Javacheff, artista bulgaro, naturalizzato statunitense, fa-

moso in tutto il mondo per alcune sue originalità.

Nella foto sopra un

immagine d’insieme

dei pontili. A lato

una foto di dettaglio

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Tre chilometri sull’acqua ed un chilometro e

mezzo lungo la strada pedonale che collega

Peschiera Maraglio e Sensole.

I visitatori possono accedere all'opera e cam-

minare ammirando tutti gli angoli più nascosti

dalle montagne intorno al lago, cullati dal mo-

vimento dell'acqua sotto i propri piedi. I ponti-

li sono larghi 16 metri e alti 50 centimetri e al

termine dell’iniziativa la struttura sarà rimossa

e dismessa. Con 'The Floating Piers' Christo

annuncia "Vi farò camminare sulle acque, me-

glio se verrete senza scarpe; sarà una passeg-

giata dove sentirete le onde sotto i vostri pie-

di". È’ stato un dilagare incredibile al grido di

un imperativo categorico: devo andare a vede-

re i Floating Piers. Sembra più un dovere che

un piacere. Alla luce dell’alba del giorno dell’i-

naugurazione centinaia di persone hanno già

preso possesso di marciapiedi e strade e lenta-

mente e festosamente procedono verso il la-

go. La scena ha qualcosa di salvifico, di messia-

nico, forse anche per la suggestione generata

dal nome dell’artista. Anche se non si conosce

la strada, la folla ti trascina verso l’inizio del

percorso sull’acqua, come si trattasse di un

pellegrinaggio laico o un rito zen. Proviamo a

riflettere sull’iniziativa e sul suo successo. In

piena onestà, al netto della tecnologia moder-

na del pontile, l’idea

non mi sembra partico-

larmente originale e mi

ricorda quello che una

volta si chiamava pon-

tile di barche. Non vo-

glio essere particolar-

mente riduttivo, ma

più che arte mi sembra

una intelligente trova-

ta turistica, che vista la

folla arrivata, è stata

sicuramente di succes-

so. Forse non compren-

do io, ma in fondo l’a-

spetto di belleza am-

mirabile coincide con

ciò che si può vedere

girando per il lago con

un battello. A margine,

stupisce che tutti que-

sti visitatori, appassio-

nati di natura, abbiano

in molti posti, lago

compreso, lasciato un

porcile di mondezza:

buste, lattine vuote. Io per amore e rispetto

della natura intendo altro.

Christo Vladimirov Javacheff

Nasce a Gabrovo, in Bulgaria, il 13 giugno 1935, a Sofia dove studierà dal 1953. Nel 1956 termina gli studi e si trasferisce a Praga da dove, l'anno seguente, riesce a scappare dal regime del blocco comunista raggiungendo l'Austria. Da qui si muoverà prima a Vienna, poi a Gi-nevra, per poi raggiungere, nel 1958, Parigi. Considerato apolide, era ai margini della società e si gua-dagnò da vivere compiendo ritratti. Le sue prime opere firmate "Christo" sono dei dipinti astratti e degli impacchettamenti di oggetti (bottiglie, bidoni, cartoni, tavoli ecc.) o di modelli viventi nella tela o nella plastica. Questi lavori susci-tano interesse negli amici del movi-mento Nouveau Réalisme al quale poi aderisce. In Italia è divenuto famoso nel 1968 al Festival dei Due Mondi di Spoleto per l’imballaggio della Fontana di piazza del Mercato e per l’imballaggio di Porta Pincia-na a Roma 1974.

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Don Antonio Livi, sacerdote e storico della

filosofia descrive nei suoi libri l’Illumini-

smo nei diversi paesi europei per poi

soffermarsi a lungo sulla filosofia di Vico,

definito "moderno

Socrate", presen-

tato come l’alter-

nativa metafisica

al razionalismo e

allo scetticismo. La

base della sua po-

sizione rappresen-

ta una pietra ango-

lare della cultura

del nostro paese

ed in particolare

della tradizione

napoletana e con-

siste in una indi-

scutibile concezio-

ne di concretezza

storica. Filosofo,

giurista, professo-

re universitario, fu un uomo di straordinari

tratti, capace di opporsi al dilagare del ra-

zionalismo. Molte delle notizie riguardanti

la vita di Giambattista Vico sono tratte dal-

la sua autobiografia, scritta sul modello

letterario delle Confessioni di sant'Agosti-

no. Da quest'opera Vico cancellò ogni rife-

rimento ai suoi interessi giovanili per le

dottrine atomistiche e per il pensiero carte-

siano, che avevano cominciato a diffonder-

si a Napoli, ma subito repressi dalla censu-

ra delle autorità civili e religiose, che le

consideravano moralmente pericolose. Il

suo intento è di mettere in relazione il

mondo ideale e quello reale, allineando

filosofia(che si occupa della verità) e filolo-

gia(che si occupa della certezza, come me-

todo storico e documentale), alla ricerca

della genesi ideale del mondo civile. Il pun-

to di partenza della filosofia di Vico è la

questione della verità, che per Cartesio era

stata ritenuta accessibile alla conoscenza

umana, nell'ambito di quelle idee chiare e

distinte che risultano evidenti alla ragione.

Vico si oppone fermamente a questa con-

cezione razionalistica, che a suo avviso ina-

ridisce la creatività che è la facoltà più

L A P A R R E S I A

Il realismo educativo

P A G I N A 1 8

« Il primo vero è in Dio, perché Dio è il primo facito-

re (primus Factor); codesto primo vero è infinito, in

quanto facitore di tutte le cose; è compiutissimo,

poiché mette dinanzi a Dio, in quanto li contiene, gli

elementi estrinseci e intrinseci delle cose ». Questa

frase, una sorta di manifesto di Giambattista Vico,

mi ha incuriosito e spinto a scoprire un grande.

Giambattista

Vico

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P A G I N A 1 9

propria dell'uomo. Non la verità, ma solo il verosimile accessibile alla co-

noscenza umana. Secondo una sua celebre affermazione, "Verum et fac-

tum reciprocantur seu convertuntur", cioè il vero e il fatto si convertono

l'uno nell'altro e coincidono. È questo il principio della filosofia vichiana

che stabilisce il nesso fra verità e produzione, secondo il quale l'unica veri-

tà che può essere conosciuta consiste nei risultati dell'azione creatrice,

della produzione. Per questo solo Dio conosce il mondo in quanto lo crea

continuamente, mentre all'uomo è riservato il posto di Demiurgo della sto-

ria e artefice del proprio destino, e la storia e la sua vita sono gli unici og-

getti della sua conoscenza in quanto da lui prodotti. Scrive “i metodi degli

studi del nostro tempo” in cui la politica è vista come scienza e arte di go-

verno, che deve sempre avere come principio base la prudenza, affinchè le

regole che fissiamo siano legate alla realtà e si sforzino di individuare i

principi e le regole che si adattano a un determinato fatto o ad un determi-

nato sentire del popolo riguardo determinate situazioni. Ma, per Vico, le

situazioni non sono altro che il risultato dell’attività umana determinata

dall’arbitrio dell’uomo e caratterizzate dall’incertezza e dal presentarsi con

caratteristiche sempre differenti ed essere sempre nuove. C’è quindi nei

suoi scritti una concezione assolutamente cattolica ma, al contrario di mol-

ti pensatori dell’epoca, non vista come obbligo e doverismo, ma come una

grande occasione per la propria libertà, intesa non come diritto di fare

solo ciò che piace, ma intesa come riconoscimento di ciò che Dio ha

donato, coinvolgendo ciascuno a collaborare alla prosecuzione della

creazione. Quello che stupisce nei suoi scritti è la saggezza che emana-

no, senza nessuna forma di autoritarismo e nessuna pretesa di pres-

sante volontà di insegnamento, ma come testimonianza di ciò che è

vero per lui. Ex malo bonum? Con questo motto Sant'Agostino ci invi-

tava a considerare come dal male assoluto - la condanna, la tortura e

la crocifissione di un innocente - potesse venire un bene universale.

Sembra proprio che Vico abbia preso molto da questa concisa affer-

mazione e che l’abbia declinata su più temi, con tutta la sua opera.

Giambattista Vico (Napoli,1668 – Napoli, 1744) è stato un filosofo, storico e

giurista italiano, noto per il suo concetto di verità come risultato del fare

(verum ipsum factum). L'originalità del suo pensiero è stata molto rivalutata

nel XX secolo grazie a Benedetto Croce. Figlio di un modesto libraio, Vico

studiò diritto presso l'Università di Napoli, dove poi insegnò eloquenza e re-

torica, pur avendo aspirato a una più prestigiosa cattedra di giurisprudenza.

Contribuì notevolmente alla sua formazione il ruolo di precettore che svolse

presso alcune famiglie nobili napoletane. Nella sua Autobiografia Vico cita

come fonte ispiratrice della sua Scienza nuova, la metafisica delle idee plato-

niche, il realismo dello storico da Tacito, il metodo induttivo di Francesco

Bacone , il giurista Ugo Grozio per l'abbinamento fra filosofia e filologia.

Il senso comune è un giudi-

zio comunemente sentito

da tutto un ordine, da

tutto un popolo, da tutta

una nazione o da tutto il

genere umano.

Gianbattista Vico

Scienza nuova

“Paion traversie eppur so-

no opportunità”.

Gianbattista Vico

Frase di una intelligenza

straordinaria ed altamente

educativa

La scienza nuova si pone quindi

come una «teoria civile e ragio-

nata della Provvidenza divina»,

come la dimostrazione cioè di

quell'ordine provvidenziale che

ha condotto gli uomini, mossi

sempre da impulsi e finalità

particolari, fuori del loro origi-

nario stato di primitivi bestioni,

verso le forme della vita civile.

La «città del genere umano» si

costruisce Il senso comune è un

giudizio comunemente sentito

da tutto un ordine, da tutto un

popolo, da tutta una nazione o

da tutto il genere umano.

Gianbattista Vico

Scienza nuova

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Fantasia: musica e cinema

L A P A R R E S I A

Fantasia ovvero le storie che la musica ha generato nella mente di un gruppo di arti-sti particolarmente specializzati nella rap-presentazione e nell’estetica. Fantasia è un film unico nella storia del cinema, noto in tutto il mondo grazie al linguaggio uni-versale della musica e dell’immagine.

Fantasia non ha una trama e non vi sono legami logici tra i vari pezzi musicali sui quali sono impiantate le immagini a car-tone animato. Si ha l’impressione di esse-re davanti ad un libro di novelle con qual-che tratto comune, ma che in realtà fanno ciascuna storia a se. E sono storie molto

diverse l’una dall’altra: alcune sono la rappresentazione di un fatto o un sog-getto molto preciso, l’esempio più evi-dente è quello dell’ “Apprendista strego-ne” impersonato da Topolino. Alcune so-no fortemente legate alla musica e al de-siderio metaforico dell’autore; in questo

caso l’esempio della “Pastorale” è peculiare con tante deliziose immagini di vita agreste. E infine storie di totale fantasia come “La danza delle ore” che peraltro dal punto di vista dell’animazione è il più difficile ma anche la più coin-volgente. Tutto era partito da un topo, ovvero da mickey mouse, quel piccolo per-

sonaggio che tanto aveva aiutato all’ini-zio Walt Disney. La popolarità di Mickey Mouse andava scemando, e per riportarla alla gloria passata, il suo creatore lo rese protagonista di un corto animato, una piccola rielaborazione di un soggetto ideato da Goethe e intitolata l’appren-

Un capolavoro unico nella storia del cinema che

parte da una idea semplice ma molto originale,

una realizzazione di qualità superlativa che ha col-

pito gli spettatori di tutto il mondo, grandi e picci-

ni. Una pellicola sempre giovane dove la fantasia

è valorizzata in tutte le possibili sfaccettature.

L’immagine simbolo

dell’incontro

tra la musica

e l’animazione

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dista stregone. Il resto è storia del cine-ma: ciò che era partito come un piccolo progetto si trasformò in qualcosa di mol-to più grande. Fantasia è un film a episo-di, ma non solo. È un film a tesi, nel qua-le la costante è il dialogo tra immagini e suono, tra concreto e astratto. Otto mo-menti, otto gemme che spaziano dalla mitologia alla storia, dalla religione agli elementi della natura. E’ forse una delle più grandi manifestazioni del pensiero umano che si manifesta in maniera gioiosa e comprensibile a tutti. In termi-ni metaforici la pastorale è straordinaria con una animazione che sfiora la perfe-zione immaginifica: gli animali del bosco, la sim-biosi tra la natura e la fauna, i colori pastello che si integrano con la dolcezza della musica, le movenze di delicata danza degli animali nel bo-sco. Più travolgente risulta l’animazione del bra-no della Danza delle ore. Il ritmo travolgente della musica coinvolge in un vortice incredibile gli animali in una danza sfrenata caratterizzata soprattutto da ippopotami e coccodrilli, in una profondo ironia che sfiora la contraddizione; chi avrebbe mai potuto immaginare questi animali in una danza così vorticosa ippopotami noti per la loro stazza e vita slow che si muovono quasi in maniera delicata e coccodrilli che tutto sem-brano tranne che animali feroci quando assu-mono posizioni di galanteria. La parte finale del film è caratterizzata da un coro che canta l'Ave Maria mentre una fila di monaci con le torce accese cammina attraverso una foresta e nelle rovine di una cattedrale. Non deve stupire che in un contesto fondamentalmente giocoso vi sia anche una scena di questo genere. E’ come se l’autore abbia voluto ricomprendere nell’ambi-to della fantasia anche gli aspetti più ascetici

dell’esistenza. Se vogliamo mi sembra ci possa essere un parallelo con la settima sinfonia di Beethoven dove l’autore, nell’ambito di una musicalità fondamentalmente gioiosa ha volu-to inserire con il secondo movimento, la cosid-detta “marcia funebre”, un momento di rifles-sione sulla vita per una completezza di espe-

Elenco brani musicali del film Fantasia

Episodi Autore

Toccata e fuga in re minore Sebastian Bach

Lo schiaccianoci Cajkovskij

L’apprendista stregone Paul Dukas

La sagra della primavera Igoe Stravinsky

Pastorale Ludwig van Beethoveen

Danza delle ore Amilcare Ponchielli

Una notte sul monte calvo Modest Mussorgsky

Ave Maria Franz Schubert

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Insieme a te non ci sto più

L A P A R R E S I A

Siamo nel ‘68, in pieno regime di canzonette, spesso

un po’ sciatte nei contenuti ma orecchiabili. Ma ci

sono anche delle eccezioni, legate, non a caso, a dei

grandi compositore. “Insieme a te non ci sto più” è

una di queste: Paolo Conte l’autore, Caterina Caselli

splendida interprete e nasce una nuova musica.

L’angolo

della

canzone

Apparentemente, 'Insieme a te non ci sto

più' non fa che guadagnare estimatori man

mano che passa il tempo. Il regista Nanni

Moretti se ne è servito addirittura due vol-

te nei suoi film. La prima volta fu nel 1984

nel film 'Bianca': il brano era in sottofondo

mentre il protagonista manifestava un pa-

radossale

desiderio

di suici-

darsi. La

seconda

volta è

avvenuto

nel 2001,

ne 'La

stanza

del figlio'.

Moretti

ha dichia-

rato:

"Come mi

capita

sempre

quando

faccio un

film, an-

che in questo caso ho scelto le canzoni per

prima cosa. E' buffo perché mi sono ricor-

dato di aver già utilizzato in 'Bianca' la can-

zone della Caselli soltanto dopo averla in-

clusa nella colonna sonora de “La stanza

del figlio”. La canzone gioca un ruolo par-

ticolarmente significativo nel film. Nella

trama del film, infatti, quando la voce di

Caterina Caselli proviene dall’autoradio

della vettura, Moretti e poi tutti gli altri, si

accodano a cantare in una scena di sereni-

tà assoluta che il regista sa cogliere così

bene, quasi un riequilibrio della sua vita da

psicanalista sempre in mezzo a situazioni e

persone molto particolari e quasi mai sere-

ne. La morte del figlio incrinerà tutto ma

questa è un’altra storia. Restiamo alla can-

zone della quale Caterina Caselli, in una

intervista, ha detto: “E' una delle canzoni

che ho amato di più, forse la mia preferita

in assoluto tra quelle che ho interpretato.

Era il settembre '68, e a segnalarmi la can-

zone fu una persona che non era della no-

stra casa discografica, ma era rimasto col-

pito dal pezzo. Capii subito perché: la

ascoltai per sei giorni di fila, non ascoltavo

altro. Non riuscivo a staccarmene, ricordo

che ero chiusa in una stanza, presa, posse-

duta da quella canzone”. Siamo nel ses-

santotto, data che evoca ben altri eventi,

ma è un periodo di grande fermento anche

Caterina Caselli

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P A G I N A 2 3

per la musica. E’ l’anno nel quale i Beatles pub-

blicano “Lady Madonna” e “Hey Jude” e i Rolling

stones hanno un successo enorme con “Simpathy

for the Devil” e in Italia vi è un successo strepitoso

di Adriano Celentano con la canzone “Azzurro”

scritta da Paolo Conte. La maggior parte delle can-

zoni italiane è leggera, molto leggera, con storie

semplici d’amore e musica molto orecchiabile. La

stessa Caterina Caselli che tira fuori almeno due

successi l’anno, fa musica molto semplice con le

chitarre qualche percussione e, a volte, qualche

fiato, il tutto con ritmi di facile presa mnemonica.

“Insieme a te non ci sto più” è decisamente diver-

sa a cominciare dalla melodia di tipo neoromanti-

co e con un testo che parla della fine di un amore e

non un inizio, come tantissime canzoni dell’epoca.

E, guarda caso, come in “Azzurro” c’è la mano arti-

stica di Paolo Conte. La bellezza della canzone non

è tanto per l’amore che finisce, ma per il motivo

per il quale finisce: non una rottura traumatica o

un tradimento, ma la fine di una sintonia, deside-

rata come e più dell’amore stesso. E infatti le pa-

role chiave della prima parte sono “tenerezza che

non ho” e “comprensione che non so trovare in

questo mondo stupido”. E poi la costatazione che

porta alla rottura “Quella persona non sei più….”

ovvero il tradimento vero e profondo. Colpisce poi

il rincrescimento dell’amore che finisce perché

quando lei andrà via: “Non sarà facile, ma sai, si

muore un po' per poter vivere”. E nei jukebox di

quella fine estate era una delle canzoni più getto-

nate, generava un po’ di commozione nelle di-

ciottenni di allora che forse non ne coglievano fino in fondo la profondità di alcune parole, ma

intuivano che era una cosa diversa, non una semplice canzonetta, perché toccava con delicatezza

le corde del mistero che c’è nell’amore anche nel momento che finisce. E i giovani di allora co-

glievano lo strazio tra il voler tagliare un amore che in termini razionali non poteva che finire e la

reazione di cuore per cui non si può volere male ad una persona che si è amata e che continui a

salutare “arrivederci, amore ciao” come se volessi ancora tenere un sottile filo di speranza. In

realtà l’amore è finito, il rapporto è troncato ma misteriosamente resta qualcosa. Ed è incredibi-

le pensare che un’esperienza così che, normalmente genera mutismo ed introversione , si riesce

a trasformare in una deliziosa espressione artistica, come sanno fare solamente i più grandi.

Insieme a te non ci sto più

Insieme a te non ci sto più,

guardo le nuvole lassù

Cercavo in te la tenerezza che non ho

La comprensione che non so trovare

in questo mondo stupido

Quella persona non sei più,

quella persona non sei tu

Finisce qua , chi se ne va che male fa!

Io trascino negli occhi dei torrenti di acqua chiara

Dove io berrò , io cerco boschi per me

E vallate col sole più caldo di te!

Insieme a te non ci sto più

guardo le nuvole lassù

E quando andrò devi sorridermi se puoi

Non sarà facile, ma sai,

si muore un po' per poter vivere

Arrivederci amore ciao le nubi sono già più in là

Finisce qua, chi se ne va che male fa!

E quando andrò devi sorridermi se puoi

non sarà facile, ma sai,

si muore un po' per poter vivere !

arrivederci amore ciao ........

arrivederci amore ciao.........

arrivederci amore ciao........

Paolo Conte e Vito Pallavicini

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Unbroken

L A P A R R E S I A

Integro o continuo: questa la traduzione letterale, si-

gnificativa solamente se si conosce la storia di Louis

Zamperini. Una storia vera, incredibile e commoven-

te di un uomo sopravvissuto alle atrocità della se-

conda guerra mondiale e che poi ha vissuto una se-

conda vita. Decisamente da tutti i punti di vista.

L’angolo

del

cinema

La storia di quest’uomo era già notevol-

mente conosciuta ma ha assunto i contor-

ni della notorietà mondiale quando tutti si

commossero nel 1997 infatti all'età di 80

anni, portò per un tratto la torcia olimpica

in occasione dei Giochi olimpici invernali di

Nagano 1998. Colpì per l’età e per la sim-

bologia connessa all’intreccio tra la sua

storia e il luogo. In-

fatti la sua gioventù

e le sue atroci soffe-

renze erano legate al

Giappone ed in par-

ticolare ad un giap-

ponese, criminale di

guerra. Andiamo in

ordine con la storia.

Il giovane Louis nato

nel 1917, imboccò la

pista d’atletica dopo

essersi allenato, fin

da bambino, all’arte

della fuga per scap-

pare dai malcapitati

che derubava nel

villaggio di Torrance,

sud California. I suoi genitori, immigrati

italiani, e Louis era la peste del paese,

«l’italiano» mano lesta che ben presto

incappò nella vendetta del branco razzista,

i bulli che mal tollerandone origini e lingua

e lo riempivano di calci e pugni. Il fratello

maggiore, Pete, era invece uno studente

modello e per di più atleta di prospettiva.

Ma a 14 anni, nel 1931, avvenne la miraco-

losa metamorfosi: ottimi voti a scuola e

grazie a Pete la scoperta di un nuovo mon-

do: l’atletica. A 16 anni Louis Zamperini

correva il miglio in 4’e 42’’ e i giornali co-

minciarono a titolare: “Il Ragazzo che vo-

la!”. Vince i campionati liceali sulla distan-

za delle due miglia e l’anno dopo, 1934,

stabilisce il nuovo record nazionale scola-

stico. E si presentò la grande occasione: le

Olimpiadi di Berlino 1936. Fu il più giovane

mezzofondista entrato nella squadra olim-

pica degli Stati Uniti. Volava il 7 agosto del

’36 quando affrontò i 5mila metri con l’in-

coscienza dei suoi 19 anni e l’istinto del

talento privo di malizie tattiche. Nella fina-

le arrivò ottavo con una grande rimonta

finale, ma ricevette i complimenti plateali

di Hitler che lo salutò: «Ah, lei è il ragazzo

con il finale veloce ». Fu la sua prima e uni-

ca Olimpiade, perché quella successiva di

quattro anni dopo che si sarebbero dovute

tenere a Tokyo, fu annullata per lo scoppio

della guerra. In Giappone però Zamperini

Louis Zamperini

1943

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Il vero Zamperini, che Angelina Jolie, regista e fi-

nanziatrice del film, ha conosciuto personalmente e

ne è diventato amico, è rimasto vivo fino al com-

pletamento della lavorazione del film. E’ morto

all’età di 97 anni. Colui che è sopravvissuto a 47

giorni di naufragio e due anni di lager giapponese è

vissuto quasi cent’anni. Ha vissuto, come aveva

promesso, una vita dedicata a Dio, che lo salvò dal-

la violenza della natura, dell’uomo e della sua stes-

sa mente, che rischiò di collassare subito dopo la

liberazione.

ci arrivò lo stesso nel maggio del 1943 come

aviere. E sul mare del Giappone fu abbattuto;

l’ex promessa olimpionica precipita con due

compagni di volo in mezzo all’Oceano Pacifico.

Tre uomini, un canotto, l’oceano. E Dio. Sono

questi gli unici elementi del secondo Unbro-

ken: un dialogo esistenziale fra il protagonista,

il compagno più debole e privo di autostima

(che non sopravvive) e il pilota Fred Garrett,

credente. Dialoghi sull’esistenza di un Creato-

re, su quella di un suo disegno e sul senso della

vita. Zamperini inizia a vedere Dio come l’unico

possibile salvatore, giura di dedicargli la vita se

dovesse sopravvivere. E’ solo la prima tappa di

un percorso di conversione. Dopo 47 giorni alla

deriva i due sopravvissuti, ai limiti della loro

sopravvivenza, vengono salvati da un’unità

navale giapponese. Inizia così la parte più

drammatica della sua esperienza di guerra.

Louis restò nelle mani del nemico per oltre due

anni, durante i quali subì violenza, umiliazioni

la fame e sperimentò la tortura. Ma sopravvis-

se anche alla brutalità. Per Louis e il suo amico

seguì il campo di prigionia di Ofuna dove gli

internati «venivano tenuti in isolamento, per-

ché rivelassero segreti militari». Tra i suoi aguz-

zini “morbidi” ritrovò Sasaki, ex studente con

lui alla Southern California, ma in realtà spia al

servizio dell’esercito nipponico. La sua bestia

nera però la trovò nell’“Uccello”, il terribile

caporale Mutsuhiro Watanabe. Il boia che tra

l’altro, dopo giorni di digiuno, lo costringeva a

sfidare nella corsa atleti giapponesi. Zamperini,

ormai uomo formato, inizia non solo a credere,

ma anche a vivere la sua fede. Proprio nel buio

della prigionia più dura, dove gli aguzzini han-

no l’unico obiettivo di spezzarlo fisicamente e

psicologicamente, l’atleta italo-americano tro-

va la forza di sopravvivere, restare umano. E

infine di perdonare i suoi persecutori. Solo una

fede divenuta ormai incrollabile permette

all’ex atleta ateo di diventare un esempio di

resistenza umana e spirituale, capace di non

cedere al demone del tradimento prima e della

vendetta poi, nonostante le tentazioni fossero

fortissime e irresistibili. Il film, fortemente vo-

luto da Angelina Jolie, è duro, crudo e realisti-

co; di fatto è come se fossero tre grandi capito-

li: il prima, il durante e il dopo guerra. Il filo

conduttore è la trasformazione dell’uomo do-

vuta ad una reazione, che neanche il protagoni-

sta poteva immaginare, e che avrebbe potuto

fare indurire ed incattivire il cuore di Louis, che

invece quasi miracolosamente si converte e

perdona e diviene un uomo sorridente. Non

scorda il suo primo amore per l’atletica, e nei

limiti del possibile a causa delle torture e

dell’età, continua l’attività.

Louis Zamperini 2014

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L A P A R R E S I A

L’angolo della poesia

Boris Leonidovič Pasternak (1890-1960), noto in

tutto il mondo per il suo romanzo Il dottor Zivago,

in realtà esordì in campo letterario nel 1914 con

una raccolta di poesie dal titolo “Il gemello delle

nuvole”, per poi dar vita ad altre importanti ope-

re di poesia e di narrativa. Sembrò sempre ricer-

care una semplicità di scrittura ben lontana dalle

esperienze futuristiche a cui lo scrittore fu inizial-

mente vicino. Pasternak è stato anche autore di

mirabili traduzioni di Goethe, Verlaine, di molti

poeti georgiani e di Shakespeare, diffondendo in

Russia la cultura occidentale. Rigidamente con-

trollato dal regime, morì nel suo ritiro di Peredel-

kino nel 1960. In verità, per la Russia, per milioni

di persone, è stato molto di più di un grande poe-

ta, scrittore e premio Nobel. Perché all’epoca l’i-

deologia, era come se avesse chiuso tutti gli spazi,

eppure c’era del nuovo, e i russi vedevano in lui

la speranza, il futuro. Nel pensiero di Tolstoj e nei

fondamenti morali del socialismo ideale, si svela-

va per questa generazione la caratteristica fonda-

mentale dell’epoca, che Pasternak chiama una

«nuova fase del cristianesimo, di straordinaria

freschezza». È un rapporto con Cristo come perso-

na viva, presenza quotidiana e unica veramente

degna di fedeltà e di adorazione. Quindi la grande

intuizione di Pasternak è il superamento di un

certo moralismo di Tolstoj per un sano realismo

frutto anche dell’esperienza della rivoluzione. La

poesia che vi propongo è sintomatica e di grande

attualità in quanto mostra l’inconsistenza dell’ap-

parenza e degli elogi ipocriti. Ma anche la cor-

rettezza dell’accettare i propri limiti anche nel

rapporto con l’ignoto.

Essere rinomati non è bello

Essere rinomati non è bello,

non è così che ci si leva in alto.

Non c'è bisogno di tenere archivi,

di trepidare per i manoscritti.

Scopo della creazione è il restituirsi,

non il clamore, non il gran successo.

È vergognoso, non contando nulla,

essere favola in bocca di tutti.

Ma occorre vivere senza impostura,

viver così da cattivarsi in fine

l'amore dello spazio, da sentire

il lontano richiamo del futuro.

Ed occorre lasciare le lacune

nel destino, non già fra le carte,

annotando sul margine i capitoli

e i luoghi di tutta una vita.

Ed occorre tuffarsi nell'ignoto

e nascondere in esso i propri passi,

come si nasconde nella nebbia

un luogo, quando vi discende il buio.

Altri, seguendo le tue vive tracce,

faranno la tua strada a palmo a palmo,

ma non sei tu che devi sceverare

dalla vittoria tutte le sconfitte.

E non devi recedere d'un solo

briciolo dalla tua persona umana,

ma essere vivo, nient'altro che vivo,

vivo e nient'altro sino alla fine.

Pasternak un giorno disse: “L'uomo è nato per vivere, non

per prepararsi a vivere.” Il manifesto del suo programma

e della sua storia, piena di commovente realismo.

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Il tuo muro

Ma cosa avranno da ridere?

La Merkel per lo meno, rispetto a Renzi ed Hollande, ha una situazione un po’ più solida in ter-

mini di politica interna, ma nonostante ciò la domanda è: ma cosa c’è da ridere di questi tempi

in Europa. La Brexit è una sconfitta di tutti e della mancata capacità di tutti a dare delle risposte

ai bisogni dei cittadini. Non voglio negare che abbiano fatto anche delle cose utili per i loro ri-

spettivi paesi, ma c’è una crisi tutt’altro che finita, c’è povertà e disoccupazione e ciò ha portato

i cittadini inglesi a votare nel referendum esclusivamente in funzione economica ed anche un

po’ egoista. Ma allora cosa c’è da sorridere? Ed inoltre facciamo molta attenzione: qualcuno si

potrebbe sentire deriso da questo atteggiamento che si va ad aggiungere ad alcune politiche che

sembrano essere più attente alle banche ed ai poteri forti che non ai cittadini. Non c’è dubbio

che siamo in un periodo difficilissimo per chi governa, pertanto attenzione anche ai dettagli.

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La poltrona e il caminetto

Una riflessione al giorno toglie il medico di torno

Chiamarla passione sarebbe banale. Il Cioccolato è infatti considerato il piacere sublime per eccellenza, la

consolazione dello sconforto e dei guai, un culto, una gioia, un grande amore. Il Cioccolato attrae perchè

ricco di significati simbolici e perché è la conciliazione di molti opposti. E’ sia solido che liquido, chiaro e

scuro, dolce e amaro. Il cioccolato è una risposta, ma chi se ne frega della domanda. A parte qualsiasi con-

siderazione di carattere psicologico il cioccolato ha anche degli effettivi benefici di carattere sostanziale

sulla salute ed in particolare su quella del cuore e delle arterie. Ma recenti studi hanno dimostrato anche

benefici di altro genere, originariamente sconosciuti. Secondo i ricercatori della Louisiana State University,

sono i sottoprodotti della digestione del

cioccolato, scarsamente assorbiti e dige-

riti, a essere poi trasformati in composti

dall’azione antiossidante. Per poter

affermare questo, i ricercatori hanno

testato 3 diverse polveri di cacao, utiliz-

zando come base un modello di tratto

digestivo che simulava il processo dige-

stivo in vitro. Dopo di che, hanno prele-

vato i composti non digeribili e sottopo-

sto questi alla fermentazione anaerobi-

ca da parte di batteri intestinali. Hanno

così scoperto che ci sono due tipi di mi-

crobi nell’intestino: quelli buoni e quelli

cattivi. I batteri buoni, come Bifidobac-

terium e i fermenti lattici, vanno a nozze

con il cioccolato. Quando si mangia ciocco-

lato fondente, questi crescono e fermenta-

no, producendo composti che sono antin-

fiammatori. Non c’è dubbio che il cioccolato

ci richiama inevitabilmente ai ricordi di in-

fanzia di ciascuno di noi. Basta pensare alle

monete di cioccolato o alle minuscole tavo-

lette della Nestle del costo di 10 lire o all’in-

confondibile Toblerone caratterizzato dall'i-

conica forma piramidale del cioccolato e

dalla relativa forma triangolare della confe-

zione.

La dolcezza del cuore

viene da dolci bevande

nere come la notte,

bianche come il paradiso.

Su queste cioccolate si imbastiscono versi o parlate leggere.

E’ questa l’amicizia che nasce a tavolino

quando tu mi sorridi come la cioccolata.

Alda Merini

Le monete di cioccolato che ci portava la befana