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CAPITOLO 1 La scienza delle finanze e l’attività economica pubblica Definizione e relazioni con altre discipline La scienza delle finanze è la disciplina che si occupa di gran parte delle implicazioni di tipo economico connesse con l’esistenza e l’attività dello stato e degli altri enti dotati di potere coattivo. Si caratterizza per la sua attenzione alla formazione e agli effetti delle scelte collettive. I contenuti attuali della disciplina sono condizionati dalle diverse tradizioni accademiche e dalle varie vicende della storia economica e civile; un generale punto di riferimento, è la triplice tipologia dei problemi oggetto di studio, introdotta circa mezzo secolo fa da R. Musgrave. Si tratta di una mera organizzazione logica dei compiti economici dello stato. Secondo R. Musgrave i problemi dell’attività economica pubblica possono essere approssimativamente ricondotti a tre ambiti: - di tipo allocativo, ossia che concerne l’attribuzione delle risorse economiche a diversi possibili utilizzi; - di tipo distributivo, ossia connesso con la possibilità e l’opportunità che lo stato interferisca direttamente nella distribuzione della titolarità delle risorse (flussi di reddito e stock di patrimonio) tra gli individui, anche in connessione con i territori, i settori, le funzioni; - della gestione macroeconomica, ossia connessi con l’utilizzo delle varie parti del bilancio pubblico e del debito pubblico al fine di influenzare l’evoluzione delle grandezze macroeconomiche, non solo nel breve periodo (fluttuazioni cicliche), ma anche nel lungo periodo (tasso e tipo di crescita del sistema economico). Va chiarito che l’analisi economica delle scelte collettive si pone spesso in termini di relazioni tra strumenti (quelle grandezze la cui misura quantitativa può essere stabilita attraverso un processo di decisione collettiva) e obiettivi. Di conseguenza si suole distinguere tra analisi normativa e analisi positiva degli assetti politico – economici. Con la prima si fa riferimento alla ricerca di regole che consentano attraverso la scelta di assetti strutturali, ovvero l’utilizzo di strumenti specifici (ad esempio la variazione di certe aliquote delle imposte), di ottenere (o almeno avvicinare) obiettivi desiderati (in termini di indicatori di situazione economica, come il reddito, l’utilità, ecc.). Con la seconda si indica, invece, la possibilità di trovare spiegazioni rigorose dell’andamento concreto delle relazioni tra grandezze economiche, rilevanti per le decisioni di tipo collettivo, indipendentemente dal rapporto strumenti – obiettivi. L’evoluzione del contenuto dell’attività economica pubblica e la scienza delle finanze L’antichità, il medioevo, l’età moderna L’antichità e il medioevo non ignoravano certo l’importanza che le buone finanze hanno per la prosperità dello stato, ma loro mancava coscienza dei principi

La Scienza Delle Finanze

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CAPITOLO 1La scienza delle finanze e l’attività economica pubblica

Definizione e relazioni con altre discipline

La scienza delle finanze è la disciplina che si occupa di gran parte delle implicazioni di tipo economico connesse con l’esistenza e l’attività dello stato e degli altri enti dotati di potere coattivo. Si caratterizza per la sua attenzione alla formazione e agli effetti delle scelte collettive.I contenuti attuali della disciplina sono condizionati dalle diverse tradizioni accademiche e dalle varie vicende della storia economica e civile; un generale punto di riferimento, è la triplice tipologia dei problemi oggetto di studio, introdotta circa mezzo secolo fa da R. Musgrave. Si tratta di una mera organizzazione logica dei compiti economici dello stato. Secondo R. Musgrave i problemi dell’attività economica pubblica possono essere approssimativamente ricondotti a tre ambiti:- di tipo allocativo, ossia che concerne l’attribuzione delle risorse economiche a diversi possibili

utilizzi;- di tipo distributivo, ossia connesso con la possibilità e l’opportunità che lo stato interferisca

direttamente nella distribuzione della titolarità delle risorse (flussi di reddito e stock di patrimonio) tra gli individui, anche in connessione con i territori, i settori, le funzioni;

- della gestione macroeconomica, ossia connessi con l’utilizzo delle varie parti del bilancio pubblico e del debito pubblico al fine di influenzare l’evoluzione delle grandezze macroeconomiche, non solo nel breve periodo (fluttuazioni cicliche), ma anche nel lungo periodo (tasso e tipo di crescita del sistema economico).

Va chiarito che l’analisi economica delle scelte collettive si pone spesso in termini di relazioni tra strumenti (quelle grandezze la cui misura quantitativa può essere stabilita attraverso un processo di decisione collettiva) e obiettivi. Di conseguenza si suole distinguere tra analisi normativa e analisi positiva degli assetti politico – economici.Con la prima si fa riferimento alla ricerca di regole che consentano attraverso la scelta di assetti strutturali, ovvero l’utilizzo di strumenti specifici (ad esempio la variazione di certe aliquote delle imposte), di ottenere (o almeno avvicinare) obiettivi desiderati (in termini di indicatori di situazione economica, come il reddito, l’utilità, ecc.). Con la seconda si indica, invece, la possibilità di trovare spiegazioni rigorose dell’andamento concreto delle relazioni tra grandezze economiche, rilevanti per le decisioni di tipo collettivo, indipendentemente dal rapporto strumenti – obiettivi.

L’evoluzione del contenuto dell’attività economica pubblica e la scienza delle finanze

L’antichità, il medioevo, l’età moderna

L’antichità e il medioevo non ignoravano certo l’importanza che le buone finanze hanno per la prosperità dello stato, ma loro mancava coscienza dei principi economici. Questa osservazione sintetizza efficacemente l’inesistenza di una scienza delle finanze, come in generale di una scienza economica, nel periodo precedente la rivoluzione industriale e le riforme politiche di quell’epoca. Gli scritti concernenti la finanza pubblica consistevano in riflessioni di studiosi che spesso rivestivano anche la veste di “consiglieri del principe” e che si sforzavano di ricercare regole di buona finanza che consentissero di ottenere dai sudditi le risorse necessarie a realizzare gli obiettivi del principe, minimizzando le loro reazioni. Di qui la prevalenza delle riflessioni sul prelievo (imposte, redditi patrimoniali, ecc.) rispetto alle spese. Per l’antichità è interessante ricordare le spese cui provvedevano le finanze pubbliche ateniesi, perché ciò consente di individuare compiti che lo stato ha continuato a svolgere con diversa intensità e sotto diverse forme di governo nei secoli successivi. A parte le spese straordinarie, identificate come quelle belliche, le spese pubbliche ordinarie nella repubblica ateniese erano connesse con i seguenti compiti:- pubbliche costruzioni, templi, strade, ponti, fortificazioni, portici, ginnasi, ecc..- polizia (costituita da schiavi pubblici e arcieri);

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- pubbliche feste e sacrifici;- distribuzioni pubbliche di grano, di terre, di prodotti delle miniere, e di “denaro per gli

spettacoli”;- salari dell’assemblea del popolo e retribuzioni del senato;- paghe dei tribunali;- paghe degli ambasciatori, degli amministratori, degli ispettori delle scuole, dei medici, degli

artisti, ecc..- soccorsi ai poveri e agli infermi e mantenimento fino a 18 anni di età dei figli dei morti in

guerra;- ricompense pubbliche a uomini benemeriti, e a coloro che scoprivano gli autori di certi reati;- mantenimento dei depositi di armi, costruzione e mantenimento di navi, mantenimento in

tempo di pace di un corpo di cavalieri.Le entrate necessarie a finanziare quelle spese erano sia di tipo patrimoniale (proventi delle proprietà pubbliche, come le miniere, ecc.), sia, in misura minore, di tipo impositivo sugli ateniesi (relativamente al commercio interno ed estero), ma le entrate principali erano assicurate da tributi sui popoli alleati e su quelli soggetti.L’avvento dell’industrializzazione modifica la struttura economica dei paesi più potenti e apre la strada a una nuova scienza economica conseguenze sulla scienza delle finanze.

Lo stato nell’epoca dell’industrializzazione e il pensiero dei classici

La nascita dell’analisi del sistema economico come scienza viene fatta risalire alla più famosa opera di A. Smith “La ricchezza delle nazioni”, scritta con l’intento di individuare le cause della formazione e della crescita della ricchezza stessa, nel contesto di un sistema produttivo che sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche, delle modifiche della struttura sociale, dell’ampliamento dei traffici internazionali, abbandona la tradizionale prevalenza dell’attività agricola dominata dagli interesse dei “landlords”. Il sistema produttivo sembra mostrare, tra l’altro, una grande capacità di autoregolazione, orientata alla crescita dei beni materiali scambiabili sui mercati. Il coordinamento delle azioni individuali avviene attraverso il mercato, in cui i prezzi riflettono le preferenze individuali e le convenienze allo scambio. Anche il sovrano autocratico, ha un interesse a tutelare e sviluppare gli inventivi individuali alla produzione, in quanto la formazione e la crescita della ricchezza privata possono assicurare all’autocrate la disponibilità crescente di risorse, attraverso il potere di prelievo coattivo (tributi di vario tipo). Secondo Smith: “il sovrano ha soli tre doveri cui attendere:- il primo di proteggere la società dalla violenza e dall’invasione di altre società indipendenti;- il secondo, di proteggere fin dove è possibile ogni membro della società dall’ingiustizia o

dall’aggressione di ogni altro membro, ossia il dovere di instaurare una esatta amministrazione della giustizia;

- il terzo, il dovere di erigere e mantenere certe opere pubbliche e certe pubbliche istituzioni.L’opportuno adempimento di questi doveri del sovrano, presuppone necessariamente una certa spesa; e questa a sua volta richiede una certa entrata per essere sostenuta.La teoria classica della finanza pubblica prevede alcuni compiti pubblici necessari, dal punto di vista economico, per il corretto funzionamento del mercato: la difesa, la giustizia, l’ordine pubblicoÈ interessante rilevare che l’elenco dei compiti pubblici è tassativo. Individuati i compiti, quante risorse debbono essere destinate al loro adempimento? È necessario ricordare la distinzione tra utilizzi produttivi e improduttivi delle risorse:- sono produttivi gli impieghi in attività che consentono di ottenere, attraverso un processo

produttivo, un ammontare di risorse materiali maggiore di quello in esso utilizzato.- La spesa pubblica, concerne impieghi improduttivi delle risorse, ancorchè utili o addirittura

necessari; la possibilità di finanziarla dipende, inoltre, dalla produzione dei beni materiali, dalla quale si possono prelevare i mezzi necessari (tributi). Ogni risorsa destinata alla spesa pubblica è improduttiva e riduce la possibilità di accumulazione e crescita della ricchezza, e quindi l’entità del bilancio pubblico va minimizzata, ossia le risorse impiegate nell’attività pubblica tipica (giustizia, difesa,…) non debbono eccedere l’indispensabile.

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Poiché, come rileva lo stesso Smith, “gli uomini amano mietere dove non hanno seminato” e tra quelli v’è lo stesso sovrano, sarebbe difficile che un autocrate si limitasse a prelevare dai sudditi l’ammontare di risorse appena indispensabile all’esecuzione dei compiti indicati.Lo stato borghese richiede che il potere di prelevare risorse per destinarle ai compiti pubblici (ivi compreso il mantenimento del sovrano stesso, non più titolare di un potere diretto sulle risorse) spetti ad assemblee rappresentative dei cittadini che organizzano anche il controllo del loro corretto utilizzo. L’origine occasionale della rivolta dei coloni americani contro il re di Inghilterra fu il mancato rispetto del principio “No taxation without representation”. Solo il parlamento può decidere di imporre tributi sui cittadini.Il principio economico generale da seguire nell’attività tributaria è lo stesso visto per la spesa pubblica: il prelievo deve interferire in misura minima nell’accumulazione e nella crescita della ricchezza, misurata in termini di prodotto materiale. Ricardo, aveva, stabilito alcune massime o principi, in materia di tassazione non strettamente vincolate al modello classico di funzionamento dell’economia. Si tratta di quattro massime, concernenti: l’equità fra i contribuenti; la legalità del prelievo; la struttura dei tributi; l’accertamento e l’evasione degli stessi. Il primo principio, guida alla ripartizione dei tributi sembra comprendere in un unico criterio, quelli che, sono i due principali criteri alternativi di distribuzione delle imposte: quello della capacità contributiva (o sacrificio) e quello del beneficio. Per Ricardo la distribuzione del sovrappiù prodotto dal sistema economico è cruciale per la massima crescita della ricchezza, obiettivo che si raggiunge attraverso la destinazione massima delle risorse all’accumulazione (investimenti). L’investimento produttivo è attuato dai capitalisti – imprenditori, che a quest’attività destinano tutto il reddito di cui sono proprietari (tolta la parte rivolta al consumo personale). Altra categoria fondamentale di reddito il cui ruolo è approfondito da Ricardo, è la rendita fondiaria, che origina, com’è noto, da diversi gradi di fertilità della terra: i proprietari dei terreni non marginali possono percepire un reddito. Nel modello semplificato di Ricardo, i capitalisti sono i soli in grado di risparmiare e reinvestire il reddito ottenuto (profitto), i lavoratori destinano la retribuzione al consumo di sopravvivenza, i “rentier”, (i membri dell’aristocrazia fondiaria del tempo) si dedicano a consumi improduttivi (e superflui). Per Ricardo, il prelievo tributario ottimo sarebbe quello interamente gravante sulle rendite; si sottrarrebbero cosi risorse ai consumi improduttivi e non verrebbe intaccato il meccanismo di accumulazione, interamente fondato su profitti. Un corollario dell’analisi classica è la necessità che il bilancio dello stato sia sempre in pareggio (a parte l’eccezione del finanziamento delle guerre). Marx rimuove una delle ipotesi che Smith pone a base del vantaggio reciproco dello scambio, quello dell’uguaglianza dei soggetti partecipanti; lo sfruttamento dei lavoratori da parte di chi compra il fattore lavoro, consente la generazione di plusvalore a favore del capitalista, e, quindi, di un sovra-profitto.

Lo stato, la “sovranità del consumatore” e il pensiero neo - classico

Nella seconda metà dell’ottocento, almeno nei paesi di prima e più intensa industrializzazione (Gran Bretagna, Francia, Germania), le condizioni economiche della generalità della popolazione migliorano elevandosi al di sopra della pura sopravvivenza. L’ottica degli economisti, comincia ad attribuire rilevanza alla domanda dei beni. L’attenzione si sposta sulle conseguenze delle scelte dei consumatori sull’allocazione delle risorse, per perseguire la massima felicità del maggior numero possibile, anzi del totale del genere umano, come sosteneva Mill. Le leggi naturali che governano l’economia si basano sull’interesse personale. Ciascuno cerca di raggiungere il proprio benessere e, ammesso che egli sia il migliore giudice dei propri interessi, il principio di libertà è il complemento necessario dell’individualismo. Per Mill, quindi, la ricchezza è ogni cosa utile e dilettevole che abbia un valore di scambio. Mill, si distacca, però, dai classici nell’analisi delle leggi della distribuzione delle risorse. In questo campo le leggi naturali e immutevoli cedono il posto di fronte alle leggi umane e sociali e gli uomini possono influire sulla ripartizione e provocare dei mutamenti nella distribuzione del reddito per mezzo delle leggi umane.Mill sostiene la supremazia dei principi della libertà e del laissez – faire, ma ammette alcuni casi in cui l’interferenza dello stato può essere conveniente. Si tratta di compiti ordinari e di compiti

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eventuali. Tra i primi rientrano la definizione di un sistema legale che assicura la vita e la proprietà, una scurezza senza la quale non vi può essere il sistema del laissez – faire. L’interferenza pubblica è ammissibile:- se gli individui sono incapaci di valutare l’utilità di certi beni (è il caso dell’istruzione per i

minori, ad esempio);- se gli individui, per miopia, sottoscrivono contratti irrevocabili dannosi e necessitano, quindi,

di essere tutelati.È importante osservare che non solo era stato riconosciuto allo stato un ruolo sia pur limitato (a parte il caso di guerra in cui tutte le risorse dovevano essere vincolate all’obiettivo pubblico della difesa) nella fornitura di beni, ma veniva giustificata una interferenza pubblica nella distribuzione delle risorse.L’allocazione delle risorse viene principalmente orientata dalle sensazioni dei consumatori che, attraverso i prezzi di mercato, segnalano le loro preferenze, che cosi contribuiscono a determinare, insieme ai costi medi e marginali di produzione (connessi con le tecnologie disponibili), le quantità prodotte e scambiate dei vari beni.Alla fine del secolo 19°, nella scienza economica italiana, ma in gran parte anche in quella tedesca, prevale, il marginalismo. L’analisi marginalista in Italia, a differenza di quanto accade nei paesi di origine, prima che allo studio del comportamento dei soggetti economici privati, viene applicata allo studio del comportamento dello stato. Fondamentalmente il criterio per individuare i compiti dell’economia pubblica è ora equivalente a quello che regola l’allocazione dei beni sul mercato: è l’utilità del consumatore a guidare l’orientamento delle risorse (si parla di sovranità del consumatore) e la massimizzazione dell’utilità richiede anche la fornitura di beni che il mercato non è in grado di offrire (beni pubblici puri) ovvero che può solo offrire in quantità non efficiente e che lo stato deve quindi fornire. L’inesistenza di un mercato dei beni pubblici comporta che la determinazione della quantità di beni (difesa, giustizia, ecc.) da produrre avvenga attraverso un processo politico che, in democrazia, è caratterizzato dal voto degli elettori. Lo sviluppo dell’approccio neo – classico (e marginalista), che ha consentito un poderoso sviluppo della disciplina, fu contrastato specialmente in Germania, dove ha resistito molto a lungo la visione del Communal State.L’approccio neo – classico ai problemi della finanza pubblica, favorito dallo sviluppo dell’analisi marginalista del sistema economico, forniva una chiave interpretativa unitaria: ciascun individuo raggiunge, attraverso le attività dello stato, il massimo di utilità consentito dai vincoli, cosi come lo realizza in modo diretto attraverso le scelte individuali e, questa ipotesi ha preso, nella storia del pensiero finanziario, il nome di teoria volontarista della finanza pubblica. Il modello volontarista viene utilizzato per vari scopi:- come strumento interpretativo della condotta economica collettiva (approccio positivo);- come suggerimento di politica economica (approccio normativo)- semplicemente come astratto teorema che definisce una possibile condizione di ottima

allocazione delle risorse in un sistema di ipotesi e vincoli.Sotto il primo punto di vista, il modello volontarista fu subito contestato da economisti di diversa impostazione metodologia e ideologica. Anche molti economisti marginalisti non accettavano l’estensione della sovranità del consumatore all’attività economico – pubblica. Il modello volontarista ha consentito una visione delle scelte collettive risultanti dal comportamento di un “dittatore benevolente”, interessato a massimizzare il benessere (utilità) dei cittadini.

La diversificazione degli interessi nelle scelte collettive e la reazione alla metodologia della “sovranità del consumatore”

Le scelte collettive non riflettono le preferenze individuali dei cittadini che votano, ma quelle di gruppi o classi dominanti, a seconda che gli autori siano di cultura borghese o socialista. In questo schema logico, le spese pubbliche hanno due ruoli alternativi: sono strumenti più o meno necessari alla classe governante per i suoi scopi di sfruttamento, fornendo ad essa la forza fisica (esercito, polizia) o la forza politica (illusioni, che inducono la classe governata a ritenere che i governanti agiscono per il maggior bene della comunità, costituzioni di clientele personali o di

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gruppo, ecc) necessarie ai suoi fini; oppure costituiscono lo scopo ultimo dell’attività finanziaria, raggiungendosi per loro mezzo la soddisfazione di quei bisogni che la classe governante avverte come propri e desidera soddisfare. Il modello neo – classico si basa sostanzialmente su un’analogia tra il mercato (per gli impieghi privati delle risorse) e il sistema politico (per quelli pubblici); la corrispondenza tra preferenze individuali e allocazione realizzata avviene attraverso il meccanismo dei prezzi nel primo caso, attraverso il voto (in un regime democratico) nell’altro caso. Il sistema del voto non consente esattamente gli stessi esiti di quello del prezzo, almeno di quello che si forma in condizioni di perfetta concorrenza.

La crescita della spesa pubblica e la Public Choice

La ricordata forte crescita della quota di risorse che passa attraverso i bilanci pubblici che, quindi, è soggetta in vario modo a criteri di scelta economica di tipo collettivo, è una delle ragioni che ha portato più decisamente l’attenzione della teoria e della pratica della finanza pubblica ai meccanismi di decisione collettiva, dando luogo a un approccio significativamente diverso da quello dei fallimenti del mercato, che si è affermato con il termine Public Choice. La Public Choice condivide l’individualismo metodologico dei neo – classici (gli individui, e i loro bisogni, sono l’oggetto dell’analisi economica; essi sono i migliori giudici del proprio benessere; le valutazioni degli individui sono quelle da prendere a base per ogni giudizio normativo), estendendolo agli agenti interni alla pubblica amministrazione (burocrati, politici, ecc.) che cercherebbero, anch’essi di massimizzare (attraverso il potere sull’uso delle risorse pubbliche) il proprio benessere (utilità).- la Public Choice ricerca l’efficienza nei processi decisionali piuttosto che nei risultati dell’equilibrio economico generale, perché in un mondo di incertezza e di informazione imperfetta è sul primo piano che possono cercarsi regole.- La public Choice, anche se giunge spesso a suggerire regole di condotta è meno normativa

della tradizionale finanza pubblica neo – classica; la domanda che si pone più spesso è di tipo positivo

- Una maggiore fiducia nei meccanismi del mercato rispetto a quelli pubblici- Le figure (burocrati, politici, imprenditori, ecc.) interessate alle decisioni collettive sono

dominate dal rent – seeking, la ricerca dei vantaggi tipici della contrattazione privata, utilizzando però anche le caratteristiche delle votazioni in un regime democratico, governato secondo le indicazioni della maggioranza.

- Nell’approccio di public choice, non si può utilizzare la funzione del benessere sociale… a causa della mancanza di accordo sul metodo per aggregare le utilità individuali;

Sembra significativo lo stimolo ad una rinnovata attenzione ai meccanismi di decisione collettiva (maggioranze, regole costituzionali in materia di finanza pubblica.Un merito indiscutibile della Public Choice è stato quelli di aver ridato rilievo al ruolo delle istituzioni nell’ambito delle scelte economiche collettive.

L’emergere dei problemi macroeconomici e i compiti della finanza pubblica

L’attività economico – pubblica ha sempre influenzato l’andamento complessivo del sistema economico, ma un’analisi specifica delle relazioni tra finanza pubblica e grandezze aggregate dell’economia si sviluppa solo con l’emergere della grave crisi economica degli anni trenta del ‘900 e la nascita della macroeconomia, che trova il suo riferimento culturale originario in Keynes. La crescita del prodotto complessivo del sistema economico (p.i.l.) dipende, come sempre, dalla disponibilità dei fattori e dalla loro produttività.Alla possibilità di abbandonare, per obiettivi macroeconomici di breve periodo, il principio del pareggio del bilancio pubblico sono state attribuite alcune importanti conseguenze pratiche:- una entità di disavanzi, e di conseguenza un accumulo del debito pubblico, senza precedenti,

se si escludono i periodi bellici;

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- una parte della forte crescita della spesa pubblica nei recenti decenni non si sarebbe potuta, in molti casi, realizzare se non si fosse abbandonato il vincolo del pareggio di bilancio.

Lo stato e i problemi dello sviluppo economico

Nel corso dell’ultimo secolo i compiti attribuiti alla finanza pubblica sono enormemente cresciuti; in particolare in connessione con la grande crisi del terzo – quarto decennio del novecento, non è stato solamente attribuito allo stato il ruolo di stabilizzare l’andamento complessivo del sistema economico, ma spesso, nei paesi industrializzati, lo stato è stato coinvolto direttamente nella gestione delle imprese. In Italia questo fenomeno ha assunto un’importanza particolare: le partecipazioni statali, ossia quelle imprese la cui proprietà era di holding interamente possedute e finanziate dallo stato (IRI, ENI, EFIM, ecc.) hanno rappresentato fino agli anni ottanta una quota molto elevata dell’attività produttiva. Le giustificazioni moderne di questo accresciuto ruolo economico dello stato erano di varia natura: la minimizzazione dei danni causati da crisi (di breve e di lungo periodo) concentrate in determinati settori produttivi (l’acciaio, le banche, ecc.) l’esigenza di favorire la nascita di grandi imprese, per le quali non era possibile reperire sufficienti capitali sul mercato; la necessità di avviare o accelerare lo sviluppo di aree territoriali arretrate (come il mezzogiorno).Bisogna distinguere tra la crescita di lungo periodo delle economie più ricche (in inglese, growth) e quella dei paese arretrati (development). Per le prime è più semplice fare affidamento su mercati articolati e sviluppati. Per approfondire le relazioni tra le scelte economiche collettive e lo sviluppo (dei paesi ricchi, ma ancor di più dei poveri) si fa talvolta riferimento all’analisi economica delle relazioni tra la dinamica della ricchezza e le caratteristiche delle istituzioni. Secondo Olson (un’economista della Public Choice), i governanti (ammesso che non si tratti di predatori di passaggio, roving bandits) hanno sempre un interesse a che il reddito della nazione cresca, perché è da esso che possono trarre principalmente attraverso i tributi, le risorse che possono utilizzare per i propri scopo. In questo senso, vi sarebbe un crescendo di interesse, dall’autocrate fino ai governanti delle democrazie. In queste, coloro che governano hanno un forte interesse nella maggioranza che li può mantenere nelle posizioni di potere: di conseguenza debbono cercare la prosperità di molti. Da questo interesse (egoistico) del gruppo dominante nasce l’incentivo a fornire beni pubblici.Dal punto di vista dello sviluppo, la differenza principale tra paesi poveri e paese ricchi sta, secondo Olson. Nel fatto che nei primi i mercati non mancano, ma funzionano male. Per soddisfare i bisogni di risorse di una piccola minoranza può bastare il prelievo coattivo sulla ricchezza di una comunità povera.

II ° CAPITOLOLa fornitura dei beni pubblici “puri” nell’analisi tradizionale

I connotati e la pseudo domanda dei beni pubblici

L’allocazione delle risorse a compiti pubblici si giustifica per beni che come tutti gli altri sono caratterizzati dalla capacità di essere utili ai consumatori, dall’impossibilità per il mercato di

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svolgere in questi casi, la sua funzione. Questo significa che esistono impieghi delle risorse per i quali il mercato non riesce ad operare come quella mano invisibile che assicura l’ottima allocazione delle risorse, ossia quell’assetto di equilibrio dal quale non è possibile muoversi per migliorare il livello di utilità goduta da qualche consumatore senza peggiorare quello di almeno un altro consumatore.I beni elencati da Smith e dai classici come compiti del sovrano, ossia la difesa esterna, l’ordine pubblico, il sistema giuridico e l’apparato giudiziario, sono destinati a soddisfare anch’essi bisogni avvertiti individualmente.Per dirla con Samuelson, il bene pubblico è quello di cui tutti godono in comune nel senso che il consumo da parte di ciascun individuo non implica alcuna sottrazione al consumo di quello stesso bene da parte di ogni altro individuo, mentre i beni privati possono essere divisi tra diversi individui. Questa caratteristica dei beni privati è diefinita rivalità nel consumo e si dice, quindi, che i beni pubblici sono caratterizzati dalla non rivalità- si pensi alla difesa del territorio nazionale: la corrispondente spesa pubblica assicura un bene la cui utilità è avvertita da tutti i residenti del territorio difeso. Diverso è il caso di un bene privato, ad esempio un vestito: quel particolare versito può essere indossato da una sola persona e non può essere utilizzato simultaneamente da altra persona. Se si suppone che esistono due solo consumatori (A e B), il consumo complessivo del bene privato X risulta da: XpediceC = XpediceA + XpediceBMentre il consumo del bene pubblico S è dato da: SpediceC = SpediceA = SpediceBLa non rivalità nel consumo si accoppia di solito, ma non sempre, ad un’altra caratteristica, la non escludibilità dal consumo di chi non dispone di un diritto formale di appropriazione del bene, procurato normalmente mediante il pagamento del suo prezzo sul mercato.Un vestito non può essere acquisito se non se ne paga il prezzo di vendita sul mercato e, quindi, chi non è disposto a pagare tale prezzo viene escluso dal consumo del bene. Nel caso della difesa, invece, tutti coloro che si trovano nel territorio protetto utilizzano il bene, che siano o meno disposti, individualmente, a sopportarne il costo: non vige, quindi, il principio di esclusione. La non escludibilità può derivare da impossibilità tecniche (il caso della difesa) ovvero dalla necessità di evitare inefficienze allocative.Per meglio comprendere l’analogia del principio allocativo del bene pubblico e del bene privato, si fa abitualmente ricorso al seguente grafico (II.1). Nella prima parte viene riportato l’equilibrio parziale (tra domanda e offerta di un bene privato), con la domanda complessiva che risulta, come è noto, dalla somma orizzontale della domanda di ogni consumatore. La curva di offerta consenta di individuare il pinto di equilibrio (E) caratterizzato dal prezzo p e dalla quantità complessiva qpedicea+b. Al prezzo p, il consumatore A consuma qpedicea, il consumatore B, qpediceb, la cui somma fornisce appunto qpedicea+b. Il prezzo p euaglia in E il costo marginale (sintetizzato dalla retta S) e, quindi, questo equilibrio parziale potrebbe rappresentare anche (se le altre condizioni concorrono) un ottimo paretiano. In ogni caso il grafico mostra che in E: MCpediceX = PpediceX = MBpedicea = MBpediceb, ossia il costo marginale è pari al medesimo beneficio marginale derivato dal diverso consumo del bene X da parte di A e da parte di B. la pseudo – domanda complessiva, Dpedicea+b risulta dall’aggregazione verticale delle pseudo domanda di A e di B. Questa operazione risulta dal seguente ragionamento: poiché per la non rivalità la quantità consumata è identica per tutti i consumatori, se si suppone di conoscere le preferenze individuali, si potrebbe individuare, per ogni livello di consumo, la disponibilità a pagare da parte di ognuno. Sommando queste disponibilità, in corrispondenza di ogni quantità (asse delle ascisse) si ottiene sull’asse delle ordinate lo pseudo – prezzo, rappresentato in sintesi dalla retta D’pedicea+b. Se OS’ rappresenta la curva d’offerta (costi marginali) che, in prima approssimazione, non v’è ragione di supporre, diversa da quella dei beni privati, il punto E’ individua un punto di equilibrio con quantità q’, congiuntamente utilizzata, e pseudo – prezzi (tributi) di diversa entità, tpedicea e tpediceb che insieme permettono di coprire il costo del bene pubblico. In sintesi, per la quantità q’: MCpediceS = MB pedicea + MBpediceb = (tpedicea + tpediceb).Ogni individuo paga uno pseudo – prezzo uguale al beneficio marginale che ricava dal bene; socialmente, il costo marginale è uguale al prezzo pagato (somma dei tributi).

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Come si può notare, la ripartizione tra i cittadini dei tributi necessari a finanziare la spesa per il bene pubblico deve rispettare le preferenze individuali, ossia corrispondere al beneficio individualmente ricavato dall’utilizzo del bene. Questo criterio, come si definisce appunto “Principio del Beneficio” nella tassazione.

I beni pubblici e l’equilibrio economico generale

I beni pubblici sono compatibili con l’esistenza dell’equilibrio generale. Il box (scatola) di Edgeworth, che sintetizza le scelte di consumo di due soggetti tra due beni: soggetti le cui preferenze sono espresse da curve di indifferenza. Le condizioni necessarie e sufficienti per l’esistenza di un efficiente allocazione delle risorse, sono:- l’equilibrio deve risultare da una combinazione produttiva collocata sulla frontiera della

possibilità produttive- il saggio marginale di sostituzione tra i due beni deve essere uguale per tutti i consumatori:

pediceA(SMS)pediceX,Y = pediceB(SMS)pediceX,Y (in cui A e B sono i consumatori ed X e Y i beni privati);

- il saggio marginale di sostituzione (consumo) deve essere uguale al sagegio marginale di trasformazione (produzione): SMSpediceX,Y = SMTpediceX,Y. Queste condizioni assicurano l’esistenza di ottimi paretiani, come è noto mentre la scelta tra i diversi possibili ottimi paretiani richiede altre condizioni. Si prescinde ora, da qualificazioni e limiti di questo approccia e si pone in evidenza come gli ottimi siano possibili se si suppone che i due beni, tra i quali le preferenze di A e B si dividono, sono un bene privato (X) e un bene pubblico (S).

La parte (a) del grafico (II.2) esprime la curva di trasformazione (possibilità di combinazioni produttive) tra il bene privato (X) e il bene pubblico (S): la curva TT’ indica la “frontiera produttiva” (con rendimenti decrescenti). Le parti (b) e (c) indicano le preferenze di A e di B rispettivamente sui beni X e S. poiché l’obiettivo è quello di individuare la possibilità di ottimi paretiani, e l’ottimalità paretiana richiede che l’economa operi in un punto in cui è impossibile migliorare la posizione di un individuo senza peggiorare quella di un altro, l’approccio di Samuelson consiste nel decidere un livello di soddisfazione di un soggetto e quindi cercare la combinazione di bene privato e bene pubblico che permette la migliore situazione possibile per l’altro individuo”. Di conseguenza nella parte (b) del grafico si sceglie il livello di utilità di A espresso dalla curva di indifferenza Ipedicea2. Se il consumo di bene pubblico dovesse essere g, per A deve corrispondere un consumo di bene privato pari a g1. Per il livello g di consumo di bene pubblico, comune con B, è possibile, in aggregato, un consumo g2. Se g1 è consumato da A, g2 – g1 = g3 è il consumo compatibile di B, riportato nella parte (c) del grafico. Se si ripete questa operazione muovendosi lungo la curva di indifferenza Ipedicea2 (di A), si ottengono molte altre combinazioni riassumibili, nella parte (c ), dalla curva CC’, che rappresenta l’insieme delle possibilità di consumo di B se si mantiene A sulla curva di indifferenza Ipedicea2 ottenuta sottraendo Ipedicea2 da TT’ si tratta ora di trovare quale combinazione di X e S (dato il livello di utilità di A) massimizza l’utilità di B. questo punto nel grafico (c ) è rappresentato dalla tangenza della curva CC’ con la più alta curva di indifferenza di B, la Ipediceb3. La combinazione Og di bene pubblico e g2 di bene privato rappresenta quindi un ottimo paretiano.Poiché il punto 3 individua l’incontro tra il saggio marginale di sostituzione tra X e S per B, e la curva CC’, per come è costruita, implica che la sua inclinazione sia pari al saggio marginale di trasformazione (parte (a) del grafico) meno il saggio marginale di sostituzione per A, si può scrivere:pediceB MRSpediceX,S = MRT pediceX,S pediceAMRSpediceX,S ossia pediceA MRS pedice X,S + pediceB MRSpediceX,S = MRT pediceX,SQuesta condizione insieme a quella che stabilisce che le combinazioni produttive debbono trovarsi sulla frontiera della produzione(TT’) rappresentano i requisiti per l’esistenza, nelle condizioni ipotizzate, di un ottimo paretiano in un’economia con beni privati e pubblici. In linea di principio sarebbe, quindi, possibile fronteggiare gli effetti del fallimento del mercato causato dai beni pubblici.

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La fornitura di beni pubblici in due casi particolari: il numero esiguo di beneficiari, i beni di club

I beni pubblici con pochi beneficiari

Il caso di beni pubblici con un numero esiguo di utenti, per i quali cioè è possibile una contrattazione diretta, è molto interessante in quanto consente di rilevare come si giunge allo stesso risultato sia con l’analisi tradizionale sia con un approccio di public choice. Secondo quest’ultimo il livello ottimo di bene pubblico è quello che esaurisce i guadagni potenziali da contrattazione, che nel caso dei “piccoli numeri” prevede la possibilità che anche i “tributi” necessari per il finanziamento del bene pubblico scaturiscano da un accordo consensuale. Fig II3 in essa la parte (a) del grafico sintetizza le preferenza di A per un bene pubblico (DpediceA) e il costo marginale di produzione dello stesso (MC). Nella parte (b), DpediceB esprime la domanda di B, ipotizzata, per semplicità, identica a quella di A ed MC è ancora il costo marginale.Le differenze tra MC e DpediceA nella parte (a) del grafico sono tracciate come SpediceA nella parte (b) che rappresenta, per ogni “dose” del bene, quanto A richiede a B di contribuire per accordarsi sul finanziamento del bene stesso. Nel punto E, per la quantità q’ di bene pubblico, B è disposto a pagare t’’pediceB (quello che A richiede). I due soggetti convengono di aver esaurito i guadagni da contrattazione nel finanziamento delle diverse “dosi” del bene e q’ rappresenta il livello concordato di fornitura del bene. Allo stesso risultato si giunge se nella parte (b) della figura II3, alla domanda DpediceB si somma verticalmente la curva di domanda DpediceA. La domanda complessiva DpediceA+B taglia la retta del costo marginale nel punto corrispondente alal quantità q’ che rappresenta, quindi, un punto di equilibrio, potenzialmente un “ottimo paretiano”, data l’uguaglianza tra la somma dei benefici marginali e il costo marginale. In sintesi:a) la quantità oq’, se si parte da quantità diverse rappresenta un “miglioramento paretiano”

(migliora la posizione di qualcuno senza che peggiori quella di altri);b) la stessa quantità oq’ è accettata perché entrambi i soggetti trovano un guadagno nella

trattativa su finanziamento e forniture, rispetto ad altre quantità.nel caso b) è possibile quindi, in linea di principio, un accordo volontario sulla ripartizione della tassazione necessaria a coprire il costo del bene, basato sulla ricerca dei vantaggi di ognuno dei contraenti.

I beni di club

La rivelazione delle preferenze è possibile anche nel caso di quei beni pubblici definiti, per le loro caratteristiche, beni di club. I beni in questione sono caratterizzati da non rivalità nel consumo, ma dalla possibilità di applicare il principio di esclusione. L’esempio classico è quello di un club che gestisce una piscina il utilizzo, entro un certo limite di affollamento, è non rivale. Il club può assicurare la fornitura di un bene collettivo che sfrutta le economie di scala e consente di ripartire il finanziamento tra tutti gli utenti.Si consideri la fig. II 4. Nella parte (a) Cpedice1 rappresenta il costo medio unitario decrescente (per le economie di scale) in funzione del numero di soci – utenti della piscina di una particolare dimensione. Bpedice1 rappresenta il corrispondente beneficio unitario, che può inizialmente crescere (si possono fare giochi di squadra in acqua, ad esempio), ma poi descresce con l’aumentare dell’affollamento. Il numero SpediceI di soci rappresenta quello ottimo (in quanto si massimizza la differenza tra beneficio unitario e costo), per quella data dimensione della piscina. Se si considera una dimensione maggiore, i benefici e i costi unitari possono essere rappresentati da Bpediceh e Cpedice h e una diversa numerosità societaria ottima può essere individuata, come differenza massima tra Bpediceh e Cpediceh; in questo caso Spediceh. I diversi livelli ottimi di partecipanti ai clubs in funzione della dimensione del servizio (Q) possono essere riportati nella parte (c) della Fig. II4, dando luogo alla retta Npediceopt.Nella parte (b) del diagramma si parte da un numero prederminato di soci. Ad esempio, Cpedice1 può esprimere il costo, per un club formato da un solo socio, di dimensioni crescenti della piscina (Q); se Bpedice1 rappresenta il beneficio per quello stesso utente delle dimensioni

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crescenti del servizio, non è possibile trovare un vantaggio seppur minimo nella fornitura del servizio. Se però, si considerano numeri maggiori di soci (ad esempio K), BpediceK e CpediceK possono esprimere i benefici e i costi unitari crescenti al crescere dell’entità del servizio e QpediceK rappresenta un ottimo, in quanto individua la dimensione che massimizza la differenza tra i benefici e i costi unitari per una dato numero di soci. Ripentendo l’esercizio si possono riportare i livelli di Q in funzione di N nella parte (c) del grafico, con l’indicazione della retta Qpediceopt. Il punto E consente di individuare simultaneamente l’ottimo numero di soci e l’ottima dimensione del servizio. Si massimizza cosi l’utilità dei soci del club e, con le solite assunzioni circa la razionalità degli agenti economici, il bene collettivo verrà assicurato dalla volontaria rivelazione delle preferenze dei soci, i quali altrimenti verrebbero esclusi dall’utilizzo del bene.

Minore rilevanza del free – riding

In entrambi i casi considerati, il problema del free riding viene ridimensionato e, quindi, l’intervento pubblico nella fornitura dei beni può non essere considerato indispensabile. Se non è necessario il ricorso alla coazione. I criteri effettivi di scelta tra l’intervento pubblico di vario tipo (fornitura diretta, sussidi, ecc.) e quello lasciato alla pura contrattazione possono essere diversi da quelli dell’efficienza paretiana.

Beni pubblici “misti”, esternalità, teorema di CoaseI beni pubblici misti

A parte i casi in cui il principio di esclusione si presenta attenuato (i piccoli numeri, i beni di club), v’è la constatazione che spesso l’utilizzo “privato” di certi beni si associa necessariamente un uso “pubblico” (non rivale e non escludibile). Si pensi al caso di certi vaccini contro malattie epidemiche: l’individuo che acquista e consuma il vaccino ha un beneficio “rivale” su quella dose di vaccino e ne paga il prezzo, ma simultaneamente l’utilizzo esteso riduce le possibilità di epidemia e, quindi, produce benefici anche per soggetti non vaccinati e che non hanno acquistato quel bene.Si consideri ora la fig. II5:essa può rappresentare il caso dell’istruzione: la retta DpediceP indica la domanda privata di istruzione (ottenuta attraverso la somma orizzontale della domanda dei singoli individui), con u benefici che gli studenti ritengono di trarre individualmente dall’accesso al mercato del bene – istruzione. La retta Dpedicee indica, invece, i benefici “pubblici” (esternalità) associati alla produzione privati di istruzione. Se l’offerta viene rappresentata, per semplicità, a costi marginali costanti (P – MC), l’equilibrio “privato” tra domanda e offerta si raggiunge in corrispondenza della quantità qpedicep, che, se si considerano i benefici complessivi (privati e pubblici) aggregati nella retta MSB, attraverso la somma verticale di Dpedicep e Dpedicee, risulta inferiore a quella corrispondente all’equilibrio tra costi marginali e benefici marginali sociali (qpedices). La retta Dpedicee esprime, infatti, i benefici (economie esterne) derivanti alla collettività nel suo complesso in connessione con la prestazione dei servizi di istruzione agli utenti diretti (studenti).Nel caso dell’istruzione i benefici per i cittadini diversi dagli utenti diretti sono, ad esempio, connessi con: a) le ricadute dell’attività di ricerca svolta nelle universitàb) il più elevato livello culturale generale e civile della popolazionec) l’agevolazione che l’istruzione consente alla scelta e alla valutazione nel mercato del lavoro.Naturalmente, il livello culturale generalmente prevalente può essere considerato un bene pubblico in senso stretto, non rivale e non escludibile, per il quale in nessun modo può essere immaginata un’internalizzazione nel mercato.La soluzione proposta dal tradizionale approccio ai “fallimenti del mercato” oscilla tra l’offerta interamente pubblica e l’utilizzo di sussidi e imposte che portino l’equilibrio di mercato a tenere conto delle esternalità (attraverso imposte e sussidi), la scelta potendo essere connessa con il peso relativo di benefici privati e benefici pubblici. Maggiori sono gli effetti da bene pubblico, minori sono le possibilità per le organizzazioni di finanziarsi attraverso le vendite, poiché non

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esistono diritti di proprietà specifici sui beni che possono essere utilizzati in assenza della escludibilità.

Beni pubblici e teorema di Coase

Alle attività private (di consumo e di produzione) possono essere connessi sia benefici (economie esterne) sia danni (diseconomie esterne) per altri soggetti; se queste “esternalità” riguardano due o più persone, esse sono “necessariamente anche un bene pubblico o collettivo o un danno pubblico”.Le esternalità rappresentano effetti che il comportamento di un soggetto ha su variabili rilevanti per gli obiettivi di altre soggetti; nel caso più semplice di esternalità di consumo, il consumo di tabacco, ad esempio, sul benessere utilità) di altri individui. Ciò che rileva, ai nostri fini, è che si tratta di “un’interdipendenza che si manifesta al di fuori del meccanismo dei prezzi di mercato”. Esiste, ciè un “bene” o un “danno” che non hanno un prezzo di mercato, perché non è possibile ottenere un pagamento da chi riceve il “bene” né costringere chi produce un “danno” a pagare i danneggiati, attraverso semplici relazioni di mercato, e questo comporta equilibri inefficienti. La soluzione neoclassica (che è denominata “pigouviana” consiste nell’impiego di strumenti di finanza pubblica, cui è affidato il compito di compensare (internalizzare) l’effetto esterno. Gli strumenti sono essenzialmente sussidi pagati al soggetto la cui scelta determina l’economia esterna e sono correlati all’entità di questo effetto, da finanziare con prelievi coattivi sui beneficiari dell’esternalità. Nel caso di diseconomie esterne, lo strumento pigouviano assume la forma di un tributo (ad esempio su un’attività inquinante) il cui gettito va destinato ai soggetti danneggiati. In molti casi è possibile cercare l’efficienza paretiana attraverso l’imposizione di una scelta “ottima” (dal punto di vista del “pianificatore benevolente”) al soggetto (cosiddetti “controlli diretti”), invece che mediante imposte e sussidi. La visione “pigouviana” delle eternalità è stata scossa dalle fondamenta dal cosiddetto “teorema di Coase”; secondo Coase, infatti, è possibile che le esternalità vengano internalizzate spontaneamente dalla contrazione tra le parti interessate, se si definiscono adeguatamente i diritti di proprietà e purchè concorrano altre condizioni.Per comprendere questa tesi, si consideri la fig. II.6: essa può rappresentare gli effetti delle diseconomie esterne (nella forma di inquinamento acustico e dell’aria) arrecate agli abitanti di un’area prossima a un’acciaieria.

I BENI MERITORI

Esistono beni per i quali è applicabile l’esclusione, ma ciò nonostante sono forniti attraverso il meccanismo politico delle scelte collettive e finanziati mediante il bilancio pubblico. Si ricordi il caso dell’istruzione; essa può essere considerata sotto diversi punti di vista. Si è detto in precedenza che si stratta di un bene pubblico misto in quanto i benefici sono in parte privati, e in parte utilizzati dai beneficiari delle rilevanti esternalità ad essa connesse. Si consideri, però, che spesso l’istruzione è obbligatoriamente impartita ai minori, anche a quelli che non ne apprezzano i benefici. Da questo punto di vista l’istruzione obbligatoria (impartita direttamente o, comunque, finanziata attraverso il bilancio pubblico) viene definita bene meritorio. Simmetricamente alcuni consumi possono essere vietati o scoraggiati (ad esempio: gli stupefacenti, il tabacco, l’alcool) e vengono individuati come beni non meritori (demerit goods). Musgrave, in un approfondimento del concetto originario di bene di merito, ha cercato di legare la fornitura pubblica di questi beni alla soddisfazione dei communal wants (o preferenza di comunità). Non si tratta di una visione organica dello stato: i bisogni sarebbero sentiti dagli individui, ma come risultato di un processo storico di interazione tra gli individui che ha condotto alla formulazione di valori o di preferenze comuni che si trasmetto nel tempo. Secondo alcuni, le scelte di fornire i beni meritori (o di vietare quelli non meritori) sarebbero da ricondurre a uno schema di “meta preferenze” (o preferenze individuali che si manifestano nel processo politico,

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contrapposte a quelle di mercato), che consentirebbe di perseguire l’interesse individuale più correttamente individuato, specialmente per quanto riguarda la valutazione delle conseguenze future dell’utilizzo del bene in questione. Secondo Littlechild e Wiseman (1986), le diverse opinioni sulla questione possono essere raggruppate in tre approcci:- quello dei fallimenti di mercato, che però non può considerare adeguatamente l’idea che le

preferenze individuali, possono essere sbagliate sulla questione di cosa comprendere nei diritti individuali.

- L’approccio paternalista basato in parte sui difetti di informazione e sull’incompetenza delle decisioni individuali, che porterebbero a preferenze errate (da correggere per rispettare “meta preferenze”, ecc.)

- Quello libertario, che non ammette atteggiamenti “tutori”, ma consente che qualunque restrizione alla libertà di scelta individuale da parte dello stato possa essere ammessa solo se derivante dalla regola comunemente accettata per le decisioni collettive (ad esempio, l’unanimità).

Se i cittadini accettano che il processo di decisione collettiva (che porta alla fornitura dei beni di merito) sia giusto saranno allora disposti ad accettare la possibilità che siano attuate politiche contrarie ai loro interessi, perché questo è il prezzo da pagare per ottenere dagli altri l’accordo sulle politiche che preferiscono.Poiché manca un accordo sui connotati del bene meritorio, di solito se ne forniscono esempi tratti dall’esperienza concreta. Musgrave elenca alcune situazioni di interferenza accettabile delle decisioni collettive nelle scelte individuali:- la guida dei minori e dei disabili;- l’istruzione, tendente a migliorare l’informazione ai fini delle scelte dei cittadini, con l’impegno

che l’interferenza con le scelte individuali verrà meno una volta raggiunto l’obiettivo;- la correzione di scelte di consumo orientate da pubblicità ingannevoli;- le decisioni a maggioranza, che comportano sacrificio delle preferenze delle minoranze;- i sussidi pubblici ai beni con esternalità rilevanti, che consentono di ottenere una scelta

individuale più efficienti.

I beni pubblici nella pratica: osservazioni sommarie

Si comprende che l’importanza della fornitura pubblica dei beni nell’ambito dei diversi sistemi economici può variare in relazione a diversi elementi. Si pensi, ad esempio, ai benefici di un bene pubblico non escludibile come le dighe, in un paese come l’Olanda che ha caratteristiche morfologiche particolari (la maggior parte del territorio è situato al di sotto del livello del mare): la loro costruzione e il loro mantenimento efficiente ha sempre assorbito una notevole quantità di risorse gestite attraverso il bilancio pubblico. Ma certamente altri elementi contribuiscono a caratterizzare l’area della fornitura pubblica e ad averne segnato una certa evoluzione.Se si prescinde anche da fattori colturali, politici, sociali, un elemento tecnico che rendo non controversa la fornitura dei beni pubblici è l’esistenza del free – riding. È anche attorno alla possibilità di eliminare, o almeno ridurre, la sua estensione che si cerca di ottenere la riduzione dell’impegno collettivo nella fornitura dei beni,secondo alcuni gli individui non adotterebbero estesi atteggiamenti di free – riding; secondo altri, invece esperimenti impostati correttamente dimostrerebbero una evidenza diffusa di free – riding. Le più recenti rilevazioni della contabilità nazionale consentono, il distinguere i consumi collettivi e le spese per consumi individuali sostenute dalle amministrazioni pubbliche: ai primi corrispondono approssimativamente i beni pubblici “puri”, ai secondi quelli misti e i beni meritori.

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III CAPITOLOL’ESPANSIONE DELLE FINANZE PUBBLICHE

È nel periodo successivo ad A. Smith che i compiti pubblici (e, quindi, la spesa pubblica che ne rappresenta il connotato finanziario) vanno stabiliti, nella tipologia e nell’estensione sulla base delle preferenze dei consumatori, individuate attraverso i meccanismo della democrazia (e dati i vincoli tecnologici, ecc.). Dimensione “ottima” delle finanze pubbliche, dipende dalle preferenze individuali e dalla loro aggregazione e, in termini dinamici, dall’evoluzione delle preferenze combinata con quella degli altri elementi del sistema economico. Né una dimensione “ottima” della spesa pubblica può

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essere individuata a priori nell’ambito distributivo, in quanto dipende dalla distribuzione primaria delle risorse e dall’entità della ridistribuzione richiesta (se ci limitiamo, ad esempio, agli individui) dalla adesione ai criteri di equità scelti dalla comunità. Questo approccio non prevede che l’utilizzo delle risorse possa essere di diversa efficienza nell’utilizzo collettivo rispetto a quello nella produzione per il mercato.

LE SPIEGAZIONI “SINTETICHE” DELLA CRESCITA DELLA SPESA PUBBLICA

LE OSSERVAZIONI DI NITTI E LA LEGGI DI WAGNER

I precursori delle analisi moderne della dinamica della spesa pubblica possono essere considerati Nitti e Wagner. Il primo, notava che l’aumento della spesa pubblica nei paesi allora sviluppati dell’Europa andava scisso in una parte apparente (legato alle modifiche nel valore della moneta) e in una parte effettiva. Per quanto concerne l’aumento effettivo del peso della spesa pubblica, Nitti ne cercava le cause in:- l’aumento continuo e incessante delle spese militari- i grandi lavori pubblici- l’aumento dei debiti pubblici- la partecipazione sempre crescente delle classi popolari alla vita pubblicaLa spiegazione indicata per ultima anticipa le odierne analisi della Public Choice, e fa riferimento all’estensione del suffragio elettorale e, quindi, all’abbassamento del livello di reddito corrispondente all’elettore mediano, le cui preferenze dovrebbero esercitare un forte influsso sulle scelte di finanza pubblica.Ma è Wagner che cerca una spiegazione più approfondita, e allo stesso tempo sintetica della crescita di lungo periodo della spesa (legge di Wagner o, con le sue parole, legge della crescente espansione delle attività pubbliche, e in particolare statali). Le cause della crescita di lungo periodo delle spesa pubblica sono individuate da Wagner in tre ordini:- la sostituzione di attività private, derivante dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione- l’esistenza, tra i beni pubblici, di beni superiori ossia ad elasticità – reddito elevata (istruzione,

cultura), la cui domanda aumenta in misura più che proporzionale rispetto al reddito- l’orizzonte temporale in cui si misura la convenienza di certi investimenti (ad esempio,

ferrovie) che richiede un intervento pubblico crescente, cosi come l’esistenza di monopoli naturali.

La legge di Wagner, in termini di linguaggio economico moderno essa può essere efficacemente riportata all’osservazione secondo cui l’elasticità reddito di un numero significativo di beni pubblici eccede l’unità. E quindi il rapporto tra la spesa pubblica (non militare) e il reddito nazionale tende a crescere con il reddito pro – capite.

L’effetto di spiazzamento di Peacock e Wiseman

L’altra tradizionale spiegazione sintetica della dinamica della quota della spesa pubblica è il cosiddetto displacement effect legato ai nomi di Peacock e Wiseman. Secondo questi autori, il peso della spesa pubblica (in una delle versione possibili: quota del PIL, spesa pro – capite) subisce un salto verso l’alto in corrispondenza di eventi eccezionali (guerre, ma anche profonde trasformazioni sociali) che giustificano l’accettazione, da parte dei cittadini di una democrazia, di un corrispondete forte aumento della pressione tributaria. Quando l’evento eccezionale (ad esempio, la guerra) finisce, il peso della spesa pubblica si riduce, ma non torna al livello iniziale: si è verificato uno spostamento (displacement) definitivo nel peso della finanza pubblica. La domanda di maggiore spesa pubblica (che è sempre superiore a zero) può essere soddisfatta in misura maggiore perché il suo finanziamento (mediante maggiori tributi) si è n parte consolidato.La figura III.1 rappresenta l’abituale illustrazione dell’effetto spiazzamento: il trend di lungo periodo del peso della spesa pubblica (ad esempio, il rapporto spesa pubblica / p.i.l.) si muove sul segmento AB. Un evento eccezionale (una guerra) innalza il rapporto da B a C nel periodo t1

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e t2. Alla fine della guerra (cessata la disponibilità dei cittadini a sopportare un peso delle imposte dettato dall’eccezionalità dei tempi), l’indicatore considerato scende da D a E ed EF rappresenta il nuovo trend, che può anche avere lo stesso ritmo di crescita precedente, ma partendo da un livello superiore a quello che si sarebbe avuto in assenza dell’evento eccezionale (gli autori fanno principalmente riferimento alle due guerre mondiali), per esempio GH.

Le verifiche empiriche della legge di Wagner e dell’effetto spiazzamento

La versione formale della legge che sembra più accettata è la seguente: G / PIL = PIL / N con f ‘ > 0 ossia la quota di spesa rispetto al p.i.l. è funzione (crescente, con elasticità superiore all’unità) del prodotto pro – capite (N è il numero di abitanti del paese considerato). Quanto ai dati, i primo problema concerne la scelta tra dati espressi a prezzi correnti e dati deflazionati. La relazione da sottoporre a verifica è sostanzialmente quella tra prodotto pro capite e qualche rapporto tra spesa pubblica (totale, per consumo, ecc.) e prodotto complessivo. Il nesso di causalità viene spesso implicitamente accettato: è la crescita del reddito pro capite a determinare la dinamica della quota della spesa pubblica. Si può ricordare quanto concludono Diamond e Tait dopo aver passato in rassegna i vari test econometrici della leggi di Wagner (allora disponibili):- verifiche approfondite (anche con test di causalità) su dati di più paesi sembrano mostrare

che modelli differenti si possono applicare ai dati di paesi diversi, escludendo cosi l’universalità della leggi di Wagner;

- in molti test econometrici l’adattamento (fit) dei dati alle stime appare molto modesto, mentre risulta econometricamente molto significativo il trend.

Il tentativo più sofisticato di verificare la validità empirica della legge di Wagner è stato effettuato da Henrekson su dati della Svezia. Egli sceglie la ricordata forma funzionale (tra rapporto spesa pubblica / p.i.l. e reddito pro – capite) escludendo la spesa militare e i trasferimenti, e utilizza dati che vanno dal 1861 al 1988. Dopo aver opportunamente trattato i dati, le verifiche empiriche portano alla conclusione che anche se sia il reddito pro capite sia la quota della spesa pubblica sul prodotto sono cresciuti enormemente in Svezia tra il 1861 e il 1988.È quindi, molto improbabile che la crescita del reddito reale pro capite spieghi da sola l’aumento della spesa pubblica svedese; per questo paese bisogna allora cercare altre spiegazioni dell’espansione delle finanze pubbliche, specialmente dopo la seconda guerra mondiale, in quanto essa non può essere considerata il solo effetto dello sviluppo del reddito reale pro – capite.In definitiva, sembra emergere la conclusione che non sia possibile, in generale cercare di spiegare la dinamica di lungo periodo della spesa (della spese) pubblica (che) con il semplice ricorso a indicatori sintetici, quali il reddito pro capite, o il verificarsi di eventi eccezionali che rendono sopportabili aumenti in parte permanenti della pressione tributaria.

LE MOLTEPLICI CAUSE DELLA CRESCITA DELLA SPESA PUBBLICA

Vi è una distinzione politicamente rilevante, effettuata dalla scuola di Public Choice, tra responsive government ed excessive government, ossia tra spesa pubblica giustificata dalle preferenze individuali degli elettori e spesa pubblica connessa, invece, ad altre determinanti (in particolare riconducibili agli interessi dei burocrati, dei politici, dei gruppi di interesse, ovvero a fattori “tecnici”.

I FATTORI DI DOMANDA NELLA CRESCITA DELLA SPESA PER BENI PUBBLICI

Se si accetta un approccio caratterizzato dall’individualismo metodologico, bisogna anzitutto chiarire che in un sistema economico caratterizzato dalla “sovranità del consumatore”, nel quale cioè, dati i vincoli tecnologici, ecc.., l’allocazione delle risorse è fondamentalmente il risultato

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delle preferenze degli individui, anche per i consumi di beni pubblici si otterrà un livello corrispondente a tali preferenze. Non vi è ragione, quindi, se si accetta questo approccio, di pensare che la spesa per beni pubblici possa rivelarsi eccessiva ovvero, al contrario, insufficiente.Se non vi è possibilità di definire a priori e in maniera permanente il livello “ottimo” di spesa, non è possibile immaginarne livelli “eccessivi”, purchè le preferenze individuali siano rispettate.Se ci manteniamo all’interno del paradigma dell’individualismo metodologico, va ricordato che l’approccio neo classico tradizionale e quello di Public Choice differiscono nell’ammettere la possibilità che le preferenze degli individui possano essere distorte, in una prefissata direzione, nella definizione delle scelte collettive in materia di spesa pubblica. Per l’approccio tradizionale non esiste necessariamente una distorsione verso l’eccesso di spesa, per la scuola di Public Choice questa distorsione sarebbe, invece incorporata nel meccanismo di aggregazione delle preferenze e richiederebbe, per essere contrastata, regole cosi “forti” da dovere essere considerate vincoli inclusi nella normale attività di definizione delle decisioni di finanza pubblica.Più in generale, se si vuole allora spiegare la dinamica di lungo periodo delle dimensioni delle finanze pubbliche, bisogna osservare:a) come evolve la formazione delle preferenze in materia di beni pubblici (e, anche di

ridistribuzione del reddito);b) come tali preferenze si manifestano e, eventualmente, vengono distorte nel processo politico

che svolge funzioni analoghe a quelle del mercato per i beni privati;c) come rispondono gli agenti preposti all’offerta dei beni pubblici.Sotto il primo punto di vista, nel lungo periodo l’assunzione di costanza delle preferenze individuale non può essere accettata.

rilevare nella storia degli USA una successione di culture cui si possono legare le modifiche nella domanda per diverse dimensioni del budget pubblico.D. North, per contro, pone in evidenza come la dinamica delia domanda di spesa pubblica sia connessa con i cambiamenti tecnologici che “hanno comportato un enorme aumento nella specializzazione e nella divisione del lavoro, e quindi un mutamento profondo nei prezzi relativi che hanno alterato la struttura tradizionale della famiglia, dell’organizzazione politica, dell’organizzazione economica. La diversificazione di gruppi di interesse, risultante dalla maggiore divisione del lavoro, ha condotto al pluralismo politico. La domanda per nuove forme istituzionali di organizzazione, in sostituzione delle funzioni in precedenza svolte dalle famiglie e dalle tradizionali forme di organizzazione economica, non poteva essere soddisfatta completamente da organizzazioni volontarie, a causa del moral hazard, della selezione avversa, e della domanda per beni pubblici”.

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La dinamica della domanda per la ridistribuzione

L’approccio tradizionale della finanza pubblica non può fornire una spiegazione necessaria della crescita della ridistribuzione al crescere del reddito pro-capite; analogamente a quanto si è detto in tema principalmente di beni pubblici, anche per queste spese non è possibile individuare regole teoriche di dinamica della spesa. Come ricorda Musgrave133, questa attività deriva dalla combinazione della distribuzione primaria delle risorse (ossia la distribuzione che scaturisce “spontaneamente” dal sistema produttivo) con la scelta di un criterio di equità applicabile principalmente (ma non solo) agli individui.Da entrambi gli elementi deriva la “domanda” per ridistribuzione, oltre che, dal modo in cui si aggregano le preferenze individuali in materia, se si accetta il voto a maggioranza per la definizione delle scelte collettive. Un tentativo di fornire una spiegazione “positiva” all’evoluzione della attività ridistributiva della Finanza pubblica, identificandola con la spesa per “protezione sociale”, è stato compiuto da Lindbeck.

Egli imposta, anzitutto, uno schema analitico nel quale inquadrare, in maniera più generale possibile, l’evoluzione delle politiche ridistributive. A questo scopo, è necessario distinguere le dinamiche:a) dei fattori che definiscono il quadro di fondo (condizioni demografiche e tecnologiche); b) b) delle driving forces (standard di vita e distribuzione dei poteri politici).Questi elementi interagiscono con le motivazioni delle politiche, che possono essere distinte in tre grandi categorie: 1) il cosiddetto narrow self-interest, ossia l’utilizzo del potere coattivo dello Stato da parte di vari soggetti, per perseguire il proprio interesse; 2) l’”altruismo” (welfare altruism), ossia l’atteggiamento comprensivo verso le condizioni di vita dei più sfortunati; 3) la reazione alle consequential externalities (ad esempio, la povertà non colpisce solamente perché si sente solidarietà verso il povero, ma anche perché se ne possono percepire anche per se stessi conseguenze negative: instabilità sociale, criminalità, degrado urbano, ecc.).Dalla mutevole interazione di questi elementi nascono gli obiettivi (target) e gli strumenti concreti delle politiche ridistributive. Lindbeck individua quattro tipi di obiettivi:1) ridistribuzioni orizzontali di grande portata;2) ridistribuzioni lungo il ciclo di vita e di tipo assicurativo, per i singoli individui;3) ridistribuzioni verticali del reddito;4) ridistribuzioni orizzontali frammentarie, tra un vasto numero di gruppi di minoranza, in paesi con struttura socio-economica molto articolata.Il secondo tipo di ridistribuzione è quello che nasce con il consolidamento dell’industrializzazione, ed è richiesto dall’abbandono del sistema di assicurazione determinato dalla condivisione del reddito all’interno della famiglia multigenerazionale e dalla preferenza dei cittadini per la sicurezza economica basata su prestazioni impersonali ed automatiche. Inoltre, bisogna considerare il costo marginale quasi nullo dell’acquisizione di nuovi membri al sistema obbligatorio e la necessità di evitare le conseguenze sociali negative della mancata partecipazione all’eventuale assicurazione volontaria.

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Le ridistribuzioni del secondo e del terzo tipo sarebbero state sostituite, negli ultimi decenni, dall’ultimo tipo (fragmented horizontal redistribution).In conclusione, Lindbeck trova una dinamica della spesa che è cresciuta prima per il passaggio dalla ridistribuzione Intergenerazionale (ma intra familiare) a quella attraverso la Finanza pubblica di più generale sostegno del reddito (generalmente ricordata sotto il termine welfare state) e, successivamente, per l’esplodere di distribuzioni orizzontali frammentate, in conseguenza dell’emergere di una struttura socio-economica fortemente diversificata. DI conseguenza l’originario welfare state, destinato principalmente a fornire una sicurezza economica di base, si è gradualmente evoluto in una concorrenza di tutti per ottenere favori dallo Stato, con i politici che cercano corrispondentemente di ottenere voti da chiunque.

L’ excess bias nella domanda di spesa pubblica

Secondo la scuola di Public Choice il voto a maggioranza incorporerebbe una distorsione (bias) a favore dell’espansione della spesa pubblica. La scuola tradizionale della finanza pubblica ritiene, invece, che questo meccanismo non esiste e che, in definitiva, l'aggregazione delle preferenze individuali attraverso il voto a maggioranza possa risultare in un “ottimo” ma anche in un “eccesso” ovvero in una “deficienza” di spesa pubblica.L’argomento fondamentale è fornito dal principio della prevalenza delle preferenze dell’elettore mediano. La Fig. III.2 aiuta a comprendere il principio della prevalenza dell’elettore mediano, in termini estremamente semplificati e con riferimento alla fornitura di un bene pubblico.Sull’asse delle ascisse si riporta la quantità di bene pubblico richiesta da ognuno dei cinque cittadini (A, B, C, D, E) che compongono la collettività. Sull’asse delle ordinate il costo marginale (costante per semplicità) totale (MC) e la sua equaripartizione tra i cinque individui (ognuno si confronta con un costo di MC/5). Se si suppone che si debba votare (a maggioranza), l’elettore A dovrebbe preferire l’output q pedice a, l’elettore B l’output qb, etc. E’ evidente che una maggioranza è possibile per l’output qC: tutti accettano almeno q pedice a, quattro accettano almeno qb tre su cinque accettano q pedice c (CD, E), solo due su cinque accetterebbero q pediced e uno solo q pedice e: “il livello di output è allora determinato attraverso il meccanismo del voto a maggioranza in q pedicec , e la posizione preferita dell’elettore mediano è quella vincente. Se il costo fosse coperto dalla somma verticale di D pedice c, Dpediced e D pedice e, l’equilibrio così raggiunto potrebbe essere un ottimo paretiano. Di conseguenza, invece, un eccesso e una deficienza di fornitura (rispetto a questo risultato) dovrebbero essere attribuiti alla distribuzione relativa delle preferenze, ma dal punto di vista della finanza pubblica tradizionale non vi può essere una presunzione a priori per una tendenza sistematica all’eccesso di spesa pubblica.L ragioni a favore di questo “excess bias” sono avanzate da autori della scuola di Public Choice. Quella principale concerne l’asimmetria tra la distribuzione dei benefici della spesa pubblica e quella del suo costo (attraverso il prelievo tributario): in estrema sintesi, la teoria della prevalenza dell’elettore mediano, come spiegazione della dinamica della spesa, è legata alla sproporzione tra benefìci dell’aumento della spesa, concentrabili a proprio vantaggio, e sacrifici imposti dal correlativo aumento tributario (o dal finanziamento in disavanzo), diffusi sulla generalità dei contribuenti.Nel lungo periodo sarebbe stato l’operare congiunto di questa distorsione e dell’estensione progressiva del suffragio universale a spingere la domanda di aumento della spesa: il reddito dell’elettore mediano si è mantenuto per lungo tempo al di sotto del reddito medio, rafforzando la spinta alle spese pubbliche di ridistribuzione dei reddito.Dal punto di vista della ridistribuzione si fa anche riferimento al concetto di “tirannide della maggioranza”: non si tratta solo della maggioranza che riesce a far pagare (attraverso la tassazione) alla minoranza una parte del costo della spesa a suo favore, ma più in generale essa riuscirebbe a far funzionare una ridistribuzione diretta a spese della minoranza, almeno fino a quando il reddito dell’elettore mediano si è mantenuto al di sotto di quello medio della popolazione.Altri argomenti che rafforzerebbero queste tendenze sono connessi con la crescita degli elettori-

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dipendenti pubblici che spingono verso un’ulteriore espansione della spesa, e l’illusione finanziaria che può far sottovalutare la percezione del “prezzo” relativo dei beni pubblici rispetto a quelli dei beni privati.

I fattori di offerta nella crescita della spesa pubblica: l ’effetto Baumol

Tra le cause di crescita della spesa pubblica classificabili come di “offerta”, certamente la più appropriata è quella nota come Baumol’s desease (male di Baumol). Baumol analizza i divari di andamento della produttività in diversi settori del sistema economico; in particolare la distinzione che gli interessa è quella tra i settori dinamici (ad alta intensità di capitale, che beneficiano degli effetti della innovazioni tecnologiche e di forte accumulazione del capitale) e i settori stagnanti (nei quali l’intensità del fattore lavoro è preminente e sono scarsi gli effetti del progresso tecnologico). Al primo tipo appartengono certamente le produzioni che hanno avviato la rivoluzione industriale e quelle che caratterizzano attualmente molte attività dell’industria e parte di quelle dei servizi. Le produzioni “stagnanti” sono sicuramente quelle che usano prevalentemente il fattore lavoro (istruzione, assistenza sanitaria, esercizio della giustizia, sport, spettacolo, ecc.), in cui gli aumenti di produttività sono limitati ad aspetti secondari (anche se molto importanti). Per chiarire con un esempio: per fabbricare un paio di scarpe era richiesta, duecento anni fa, un’intera giornata del lavoro di un operaio; oggi ne bastano pochi minuti. Al contrario, per spiegare la filosofia greca sono probabilmente necessarie le stesse ore di lezione oggi come duecento anni fa. La retribuzione del lavoro varia, specialmente nel lungo periodo, in stretta connessione con la produttività, di conseguenza, la retribuzione di un operaio dell’industria calzaturiera è aumentato, in due secoli, enormemente (anche in termini di potere di acquisto). La crescita della produttività dipende, com’è noto, dall’accumulazione del capitale e dalle innovazioni tecnologiche.Se q=f (K, L) è la funzione di produzione, la produzione unitaria risulta:Q/L =g (K/L, I)in cui L rappresenta la quantità di lavoro(ad esempio, espressa in ore lavorate)Come si vede (Q/L) dipende dall’accumulazione (K/L). L’innovazione tecnologica può essere variamente presa in considerazione ma, a parità di K/L, determina un “salto” in Q/L. Se la retribuzione di un settore dinamico (wp) varia al variare di Q/L:delta wpedicep= A (Q/L)essa incorpora gli aumenti di produttività.Consideriamo, invece, il caso estremo di un settore il cui prodotto, definito G, sia solamente frutto del lavoro direttamente impiegato in quel processo produttivo (istruzione, arte, ecc.)G= f(L)e, inoltre, G/L= costante.La produttività è costante e non può subire incrementi. Se la retribuzione dei lavoratori è pari a wpediceg, essa non dovrebbe variare nel tempo.In realtà, osserva Baumol, la dinamica delle retribuzioni nel settore ad alta intensità di lavoro segue quella delle retribuzioni del settore a forti incrementi di produttività:delta w pedice g= delta w pedice p

perché altrimenti i lavoratori del secondo settore si dovrebbero spostare o sparirebbero insieme alla attività.Il costo del lavoro (approssimativamente uguale al costo totale) dei settori a basso incremento di produttività cresce notevolmente e, di conseguenza, alcune attività spariscono dal mercato, mentre, nel caso dei beni pubblici, questo implica un aumento della spesa pubblica destinata al loro finanziamento: Cpediceg = Wpediceg Lpedicegin cui L pedice g è la quantità di lavoro impiegata nella produzione dei beni pubblici.In termini di variazioni infinitesime: d Cpediceg = dw pedice g Lg + W pedice g d L pedice g ma sappiamo che d w pedice g d w pedice p e di conseguenza:

-l'aumento della spesa pubblica che finanzia attività ad alta intensità di lavoro è connesso con la forte crescita di produttività nelle attività industriali;

-tale aumento del costo del lavoro nel settore pubblico, modificando i prezzi relativi (a

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sfavore di quelli dei beni pubblici) può avere per contro effetti di freno della dinamica della domanda di beni pubblici.

E’ importante osservare, d’altro canto, che l’effetto Baumol è presente nella produzione di servizi e può contribuire a spiegare l'aumento di spesa pubblica per beni pubblici ma non quello, storicamente più rilevante dei trasferimenti pubblici connessi con un “processo produttivo” a basso costo e a bassa intensità di lavoro.

Burocrati, gruppi di interesse, illusione finanziaria, formazione e struttura dei governi e crescita della spesa

Altri elementi di spiegazione della crescita della spesa sono classificabili come “di offerta”, sempre con qualche semplificazione.Uno di questi deriva dal comportamento dei “burocrati”. Secondo l’economia della burocrazia, i dirigenti pubblici tenderebbero a massimizzare (dati certi vincoli) le dimensioni del proprio “ufficio” (direzione, settore, ecc.), influenzando così la crescita della spesa, possibilità legata, tra l’altro, all’esistenza di asimmetrie informative che non consentendo ai politici di rendersi pienamente conto dei costi “efficienti” dell’offerta dei servizi dell’”ufficio”, li portano ad accettare crescite “ingiustificate” del budget. Naturalmente, se i dipendenti pubblici rappresentano anche una quota rilevante di elettori, la loro influenza viene rafforzata, dal lato della domanda di spesa pubblica.Similmente» una certa responsabilità nella crescita della spesa è stata attribuita all’attività dei gruppi di interesse (“special interest groups”) che tenderebbero ad avvantaggiarsi di spese ponendo a carico della collettività il costo, anche attraverso “scambi” e il ricorso all’illusione finanziaria (che tende a far sottovalutare i costi dell’incremento del budget e a fame sopravalutare i benefici). In questo contesto si possono anche far rientrare gli effetti attribuibili alla formazione di coalizioni tra eletti (che determinano logrolling, ossia aumenti derivanti da appoggi reciproci nel voto parlamentare sulla spesa) e, secondo alcuni, alle diverse articolazioni dei livelli di governo.Nel complesso gli elementi di offerta sono stati enfatizzati dalla scuola di Public Choice.

Altre motivazioni

Sia l’approccio tradizionale sia quello di public choice condividono l’individualismo metodologico e cercano, quindi, di trovare spiegazioni nella dinamica delle preferenze individuali e/o nelle distorsioni nella loro formazione, trasmissione e manifestazione (eventualmente ad opera di vari agenti interessati). Di conseguenza era inevitabile che la discussione si concentrasse su distinzioni del tipo excessive government o responsive government.Altra è l’analisi (anche ex-ante) se diversa è la visione del funzionamento del sistema economico, con conseguenze sulle scelte economiche a carattere collettivo. In particolare, sulla crescita della spesa pubblica nei paesi industrializzati si sono anche soffermati economisti marxiani. Un’analisi relativamente recente è quella di J.O’Connor che connette lo sviluppo (in disavanzo) della spesa pubblica negli USA alla necessità dello Stato di assolvere, in sostegno del sistema capitalista, due funzioni tra loro contradditorie (in termini finanziari): il sostegno della finanza pubblica all’accumulazione realizzata dal settore “monopolistico” dell’economia, settore che espelle forza-lavoro che trova in parte “rifugio” nel settore competitivo, a bassa tecnologia (diversi servizi, tra cui il commercio), e in parte trova sostegno in un welfare state a costi crescenti. La necessità di svolgere la seconda funzione, quella di legittimare (attraverso la conquista dei consenso democratico) il meccanismo capitalista, richiede crescenti quote di spesa che diventerebbe impossibile coprire permanentemente con aumenti di imposte. Di qui la “crisi fiscale dello Stato, che deriverebbe dalla necessità dì assicurare, anche attraverso la crescita della domanda per consumi, lo sbocco ai prodotti del sistema produttivo.

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LE VERIFICHE EMPIRICHE DELLA RILEVANZA DELLE DIVERSE CAUSE DI AUMENTO DELLA SPESA

Alcune analisi relative a singoli paesi

E’ Borcherding che esplicitamente formula un modello dì domanda.Con evidenti richiami all’elettore mediano stima una funzione di domanda di variazione di spesa pubblica per gli USA nel periodo 1900-76; sua analisi econometrica mostrerebbe che la domanda riesce a “spiegare” meno del 50 per pento del tasso di crescita della spesa nel periodo ponderato. Di conseguenza negli USA il tasso di crescita della spesa sarebbe in misura notevole imputabile a un excessive government.Hamlin raggruppa diversi modelli di verifica della dinamica della spesa pubblica a seconda delle influenze considerate prevalenti in:a) modelli a dinamica prevalentemente politica; .b) modelli a dinamica prevalentemente economica.I primi possono essere classificati in: modelli dell’elettore mediano, dei gruppi di pressione e modelli supply-side.Un rilievo particolare viene attribuito alle analisi di M. Olson che osserva come nel corso del tempo l’attività dei gruppi di pressione tende a determinare una crescita del settore pubblico (incoraggiata da attività di log-rolling e di rent-seeking) principalmente attraverso funzioni di ridistribuzione. Ma la generalità di questa analisi può essere contestata se si osservano società in cui l’eredità dei gruppi di pressione è debole (a causa di shock politici o sociali, come le guerre), per cui sarebbe possibile una crescita del reddito con una dinamica relativamente limitata del settore pubblico.I modelli supply-side sono caratterizzati dall’individuazione del rapporto tra i cittadini elettori e il governo come una relazione principal - agent, con gli agenti che approfittano del loro potere discrezionale per estendere la dimensione del settore pubblico (e del loro potere). Tuttavia, a parte la difficoltà di individuare le variabili quantitative necessarie per un’utile verifica empirica, in via di principio bisognerebbe spiegare perché il ricordato potere discrezionale dei politici (o dei burocrati) dovrebbe crescere nel tempo.Le dinamiche essenzialmente economiche, nell’ambito di un approccio sostanzialmente di Public Choice, non possono che partire di nuovo dal modello dell’elettore mediano funzionante in maniera corretta, ossia come veicolo delle vere preferenze degli elettori. Si ammette, però, che la variabilità dei prezzi relativi (dei beni pubblici rispetto ai beni privati) può comportare una crescita del valore della spesa pubblica se la domanda di beni pubblici è anelastica. A sua volta l’aumento dei prezzi relativi è attribuibile alla tecnologia, ma anche a possibili inefficienze nell’offerta (del tipo inefficienza “X”).Per quanto concerne la burocrazia, un modello è stimato da Cullis e Jones; questi autori ricordano che nell’ambito dell’approccio di Public Choice si lascia credere che la crescita di spesa non spiegata dalla domanda (dell’elettore mediano) deve essere attribuita all’azione della burocrazia, guidata dalla sua funzione di utilità. La difficoltà principale è quella di provare l’esistenza di un nesso di causalità. Gli autori utilizzano i dati inglesi sulle spese della pubblica amministrazione e sul prodotto interno lordo.

Un modello di crescita in disequilibrio della spesa pubblica

Una stima della spiegazione della crescita della quota di spesa pubblica in Svezia nel periodo 1950 1987 è effettuata da Henrekson che, separando diverse categorie di spesa pubblica, prova anzitutto a soffermarsi solo su variabili che quantificano cause di domanda.Il risultato mostra che i tassi di crescita della spesa per consumi pubblici, per trasferimenti in generale e per trasferimenti alle famiglie non vengono sufficientemente “catturati” da modelli di domanda: contro tassi medi di crescita osservati, nel periodo 1950-87, del 4,1 del 6 e del 5,4 per cento, i modelli utilizzati “spiegano” solamente il 3,2 il 3,5 e il 3,1 per cento. Di conseguenza l’autore prova a sottoporre a verifica econometrica un modello in cui alle

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preferenze dell’elettore mediano” si aggiunge l’effetto Baumol nella spesa per consumi pubblici e il risultato migliora notevolmente.Per cercare di quantificare più esattamente le spiegazioni della crescita di spesa pubblica, Henrekson formula un modello di disequilibrio dinamico di domanda e spesa pubblica. Se GpediceD è la funzione di domanda di spesa pubblica e G quella di offerta, la spesa pubblica effettiva (G) dovrebbe risultare da:G= max (GpediceD; Gpedices)poiché, non essendovi un mercato, non è possibile quanto avviene per ì beni privati in cui i prezzi agiscono da meccanismo riequilibratore.Le funzioni di domanda e offerta con qualche semplificazione possono essere sintetizzate come segue:GpeidceD =f (t, p, N,alpha, mpedicei, y, k)in cui:t è la quota di imposte dovute dall'elettore mediano rispetto al costo totale della spesa pubblica;p è il costo unitario del bene pubblico in termini del prezzo dei beni privati; N è la popolazione;alpha è il grado di “pubblicità” dei beni pubblici, con alpha =0 che indica il bene pubblico “puro” e alpha = ! il bene privato “puro”;mpedicei sono variabili di tipo politicoy prodotto interno lordo pro-capite, in termini reali.k è il rapporto tra reddito mediano e reddito medio della popolazione.La funzione viene adattata alla necessità di stimare i tassi di crescita della domanda di spesa in funzione dei tassi di crescita delle variabili indicate.Analogamente per l’offerta:Gpedices =g (Vpedicei)in cui le variabili di offerta utilizzate (Vpedicei) sono principalmente: il rapporto tra il deflatore implicito delle diverse categorie di spesa (consumi pubblici, trasferimenti, ecc.) e il deflatore implicito del PIL; la quota di occupati nella pubblica amministrazione sul totale degli occupati; dummies per il “colore” politico dei governi (1=socialdemocratici; 0=conservatori.) e per la sua composizione (1 = governo di coalizione all’interno di un blocco; 2= govemo di coalizione traversale; 0 =non coalizione); la quota di imposte prelevate dal governo centrale sul gettito tributario totale; una variabile che consente di misurare un’espressione disoccupazione, in quanto include i pensionati inferiori età, il cui pensionamento anticipato sia stato determinata da cause attinenti al funzionamento del mercato del lavoro.La stima della sola funzione di domanda si dimostra, in termini di tassi di sviluppo, insoddisfacente; ne sono suddisfacenti i risultati della stima di sole funzioni di offerta. In realtà è il modello di disequilibrio quello più idoneo a spiegare l’andamento effettivo della spesa pubblica svedese.Un notevole sviluppo dei consumi pubblici sembra attribuibile alla combinazione dell’effetto Baumol con una bassa elasticità prezzo della domanda di beni pubblici. Per i consumi pubblici le variabili di offerta sembrano avere maggiore efficacia di quelle di domanda: l’effetto Baumol, i prezzi relativi, e la quota dell’occupazione pubblica mostrano coefficienti sicuramente significativi e con il segno atteso. Risulta, rilevante la variazione della quota di gettito tributario prelevata dalla finanza locale, specialmente nelle stime della crescita dei consumi pubblici. Dal lato della domanda, l’effetto principale è quello che deriva dalla variabile costruita come quota (sul totale della popolazione) dell’insieme di ultra sessantacinquenni e persone non ancora entrate nel mercato del lavoro; l’elasticità della spesa rispetto al PIL risulta superiore all’unità, mentre il rapporto reddito mediano/reddito medio mostra il previsto segno negativo.Per quanto concerne i trasferimenti, sembrano importanti sia i fattori di domanda sia i fattori di offerta. La variabile “disoccupazione estesa” ha segno positivo e alta significatività, così come la quota di occupazione femminile che determina anche una elevata elasticità della spesa. Dal lato della domanda è importante la variabile che tende a “catturare” l’influenza dei gruppi di interesse (il grado di indicizzazione della forza lavoro) e ancora di più, dal punto di vista dell’entità del coefficiente, la percentuale non attiva di popolazione, mentre l’elasticità rispetto al reddito reale non è significativamente diversa da zero.

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LA CRESCITA DELLA SPESA PUBBLICA IN ITALIA: UN RICHIAMO DELLE ANALISI PIÙ RILEVANTI

In un volume del 1993, Daniele Franco sviluppa un’analisi della crescita della spesa pubblica italiana nel trentennio 1960-90 e passa anche in rassegna i lavori che nel nostro Paese se ne sono occupati, nel corso degli anni Settanta e Ottanta.In sintesi, si tratta di studi che solo in alcuni casi utilizzano tecniche econometriche, mentre più spesso confrontano semplicemente i trend di diversi insiemi di dati e talvolta le osservazioni sono di tipo sostanzialmente qualitativoQuanto ai risultati e alle conclusioni di questi studi, per quanto concerne le determinanti “strutturali”:a) sembra rilevante l’effetto prezzi relativi (o Baumol): i costi dei beni pubblici crescono

maggiormente di quelli dei beni privati;b) l’elasticità reddito della spesa pubblica risulterebbe inferiore all’unità;c) l’elasticità della spesa rispetto alla popolazione sembrerebbe maggiore di uno.“Nel complesso, la variazione dei prezzi pubblici, l’aumento del reddito e l’espansione della popolazione sembrerebbero spiegare una parte rilevante (circa il 60 per cento) della crescita della spesa pubblica in termini reali registrata negli ultimi decenni”.Da altre analisi del caso italiano sembra particolarmente importante la possibilità di finanziare in disavanzo la crescita della spesa pubblica (con i connessi processi di illusione finanziaria).Il costo dei servizi (effetto Baumol) sembra, invece, nell’ambito considerato (spesa sociale), aver avuto un effetto opposto, a causa principalmente degli aumenti di produttività nella sanità e al ridimensionamento delle retribuzioni degli insegnanti.La variazione della quantità reale dei servizi resi ha pesato per 5 punti e mezzo circa, mentre la crescita del reddito complessivo sembra aver indotto una contrazione del rapporto per circa 2 punti del PIL.Nel complesso, quindi, la crescita del rapporto tra spesa sociale e PIL è risultata correlata a fattori con andamenti differenziati, talvolta contrastanti.Nel corso di questo secolo, le tendenze effettive delle economie e delle finanze pubbliche dei paesi sviluppati sembravano in prima approssimazione avvalorare la validità di tale legge. In realtà le analisi sempre più articolate del fenomeno della crescita della spesa pubblica, hanno portato a smentire sia la legge di Wagner sia altre spiegazioni “sintetiche” del fenomeno (sostanzialmente quelle legate di Peacock e Wiseman).Dal punto di vista metodologico, bisogna attribuire alla scuola di Public Choice il merito di aver favorito analisi molto più articolate del problema. La separazione delle cause di aumento della spesa attribuibili a spinte provenienti dalla domanda dei cittadini-elettori da quelle originate nell’offerta, ha consentito di articolare più precisamente anche le stime econometriche. I risultati di questi studi hanno scosso profondamente le fondamenta delle “leggi” di crescita della spesa pubblica. Il ruolo economico dello Stato si modifica nel corso della storia, e non necessariamente seguendo una direzione costante. Nelle relazioni con il sistema produttivo, la dinamica del coinvolgimento pubblico sembra più vicina a quella del pendolo: massima espansione con il mercantilismo, riduzione con il laissez-faire, nuova crescita con il welfare-state nuova riduzione con le privatizzazioni.

INTRODUZIONE ALL’ECONOMIA DEI TRIBUTIPREMESSA

Ogni attività produttiva richiede mezzi di finanziamento per realizzare i risultati perseguiti. L’organizzazione della produzione per il mercato prevede che le imprese si finanzino fondamentalmente con i proventi della vendita dei prodotti, integrati dai mezzi assicurati dal funzionamento del sistema bancario e del mercato finanziario (che forniscono anche quelli necessari per l’espansione della dimensione dell’impresa). L’attività economica pubblica genera solo in minima parte ricavi, essendo appunto caratterizzata dalla fornitura di beni pubblici e da

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altre attività (ridistributive, ecc..) che non comportano la vendita di prodotti. L’evoluzione delle funzioni dello Stato si è mossa, verso una finanza basata sul prelievo coattivo, relegando in posizione marginale i ricavi della vendita dei beni e servizi derivanti dalla proprietà pubblica.

PREZZI PRIVATI, PREZZI PUBBLICI, IMPOSTE

L’analogia tra il prezzo di mercato e l’entrata coattiva è alla base dell’analisi economica neoclassica dei beni pubblici, ma le analogie e le differenze con il prezzo di mercato rappresentano anche il criterio originariamente adottato da Luigi Einaudi per classificare i diversi tipi di entrate pubbliche.Questa classificazione sembra ancora utile per mettere in luce le diverse caratteristiche economiche delle entrate pubbliche e quindi in grado di agevolare le analisi economico-tributarie. La classificazione einaudiana prevede le seguenti tipologie di entrate pubbliche:a) Prezzo privato (e quasi privato), connesso con l’entrata derivante dalla vendita sul mercato di beni e servizi posseduti dallo Stato (o altro ente pubblico), eventualmente in conseguenza di un processo produttivo condotto dallo stesso ente. In passato l’esempio rilevante era rappresentato dalla vendita del legname delle foreste demaniali, che lo Stato vende come qualunque altro soggetto privato e alle condizioni che vengono stabilite dal funzionamento del mercato. Tuttavia Einaudi preferisce, nell’esempio citato, parlare di prezzo quasi-privato, perché se è vero che “trattasi di un prezzo che si determina liberamente sul mercato”, è anche vero che lo Stato in questa attività persegue anche un fine diverso dalla massimizzazione del beneficio della vendita “che deriva dall’utilità della conservazione delle foreste, nell’interesse pubblico” (ad. esempio, per la difesa dei suolo).b) Prezzo pubblico, ricavato dalla vendita di servizi diversi dai beni pubblici puri, e in conseguenza di attività di impresa svolte in regime di monopolio pubblico (ferrovie, poste, trasporti locali, elettricità, acqua, ecc.). Si può considerare, ad esempio, il corrispettivo del beneficio individuale del servizio di trasporto urbano. In questo caso il prezzo, se non sono troppo elevate le esternalità positive, potrebbe essere efficientemente fissato ad un livello tale che i ricavi complessivi coprano i costi totali (senza consentire margini di profitto). Quando il prezzo (o meglio la struttura dei prezzi) è stabilito in modo tale da non consentire che i ricavi coprano i costi totali si adotta la definizione di prezzo politico. In genere il prezzo pagato per l’acquisto di beni e servizi che presentano vario grado di rivalità nel consumo e sono forniti dallo Stato (o da altro ente pubblico), anche attraverso un’organizzazione di impresa, viene definito tariffa.c) Tassa e contributo speciale II termine tassa si applica al corrispettivo pagato all’ente pubblico per la prestazione di un servizio che procura un beneficio individuale (rivale), in connessione con il quale il destinatario esprime una domanda individuale allo stesso ente fornitore: tuttavia il beneficio più generale (non rivale) prodotto dalla prestazione del servizio è più rilevante di quello individuale e, quindi, gli incassi della tassa coprono solo un frazione non elevata del costo complessivo. Esempi significativi sono le tasse scolastiche, le tasse universitarie, le tasse per il rilascio di certi documenti (passaporto, permessi di guida, atti giudiziari, ecc.).Diverso dalla tassa è il contributo speciale, che è dovuto dai consumatori (o utenti) per il beneficio particolare (e indipendente dalla loro richiesta) conseguito con l’offerta di certi beni pubblici: ad esempio il contributo di miglioria dovuto per l’incremento di valore delle aree interessate da opere di bonifica, idrauliche, stradali, ferroviarie, eco,.Nei casi finora considerati è evidente che le entrate dell’ente pubblico sono connesse con attività per le quali esiste (in varia misura) qualche collegamento tra il beneficio individuale originato dalla stessa attività e il suo costo di produzione. La parte quantitativamente più rilevante delle entrate dei bilanci pubblici è però rappresentata da tributi per i quali questa connessione non esiste e sono quindi interamente fondati sulla forza di coazione dello Stato. Il gettito è, attualmente, principalmente assicurato dalle:Imposte. L’imposta può essere definita in generale come il prelievo coattivo effettuato secondo criteri politici. E’ la forma di entrata pubblica più lontana dal prezzo privato e in cui è più stretta la connessione con i benefici generali (non rivali e non escludibili) dall’attività economica pubblica, oltre che con l’attività ridistributiva delle amministrazioni pubbliche. Assimilabili sotto molti aspetti alle imposte sono i contributi sociali, destinati alla copertura dei costi della sicurezza sociale. In

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questo caso la coattività è simile a quella delle imposte, e la connessione con i benefici è valida prevalentemente solo per gruppi, ma così grandi da coincidere con gran parte della collettività, mentre è specifico lo scopo cui il gettito è destinato.

LA CLASSIFICAZIONE DEI TRIBUTI

I bilanci pubblici presentati per l’approvazione da parte delle assemblee elettive (Parlamenti nazionali, assemblee regionali, ecc.) classificano le entrate secondo regole stabilite dalle leggi di contabilità pubblica. Analogamente la contabilità nazionale adotta le classificazioni previste da convenzioni interazionali, che concernono anche le entrate delle pubbliche amministrazioni.Quale che sia la classificazione specificamente adottata, in tutti i bilanci pubblici il posto preminente è occupato dalle entrate tributarie che comprendono tutte le entrate diverse da quelle c.d. extra-tributarie (utili di imprese possedute dall’ente pubblico, proventi di beni demaniali, ecc.) e dalle accensioni di prestiti.Le entrate tributarie possono essere variamente classificate; la contabilità nazionale utilizza tre raggruppamenti: imposte dirette, imposte indirette e contributi sociali. Se si escludono questi ultimi (prelevati principalmente dagli Enti previdenziali), le entrate tributarie dello Stato e degli altri enti sovrani sub-nazionali sono costituite dai due gruppi delle imposte dirette e delle imposte indirette.

La classificazione delle imposte

Le imposte possono essere classificate utilizzando vari criteri. Da un punto di vista economico, i criteri normalmente impiegati sono due: quello basato sulla possibilità che l’onere dell’imposta si trasferisca o meno, e quello basato sugli indici di capacità contributiva cui l’imposta si commisura.Secondo il primo di questi criteri, sono imposte dirette quelle che non si trasferiscono, quelle cioè che rimangono a carico di chi è obbligato dalla legge a pagarle e quindi non provocano una variazione dei prezzi dei prodotti o dei fattori, mentre sono imposte indirette quelle che si trasferiscono da chi è tenuto a pagarle per legge ad altri soggetti. Tale distinzione si avvicina a quella considerata nella contabilità nazionale tra le imposte che comportano un divario tra prezzi netti per il produttore e prezzi pagati dal consumatore e quelle che invece non lo determinano. Essa si basa su un aspetto formale, di natura contabile: dice soltanto se si crea o meno un divario tra i prezzi ricevuti dal produttore e i prezzi pagati dal consumatore, ma non dà alcuna indicazione di come tale divario viene a ripartirsi effettivamente tra produttori e consumatori. Le indicazioni sul modo in cui l’onere di un’imposta si distribuisce di fatto (e non solo secondo le indicazioni contenute nelle disposizioni legislative) tra produttori e consumatori possono essere fomite dalle analisi degli effetti delle imposte, che però non consentono di norma di stabilire con sicurezza come il carico di una certa imposta si ripartisce tra colui che è tenuto a pagarla per legge e gli altri con i quali ha rapporti di natura economica.In base al secondo dei due criteri indicati, sono considerate imposte dirette quelle che si commisurano a manifestazioni immediate della capacità contributiva, quali il reddito e il patrimonio, mentre sono definite indirette quelle che colpiscono manifestazioni mediate della capacità contributiva, quali il trasferimento o il consumo di beni. Una formulazione più precisa di tale criterio si basa sulla distinzione tra il soggetto (chi è tenuto a pagare l’imposta), l’oggetto (il bene a cui si commisura l’imposta o il fatto che ne determina il nascere) e la fonte dell’imposta (ricchezza con la quale si provvede a pagare l’imposta). In base à questa distinzione si considerano imposte dirette quelle in cui la fonte coincide con l’oggetto (per esempio l’imposta che si commisura al reddito e viene pagata con il reddito).Ma, ciò che è più importante, tale criterio sembra in definitiva ridursi a considerare come imposte dirette quelle commisurate al possesso di un reddito o di un patrimonio e indirette tutte le altre, che colpiscono la produzione, il trasferimento o il consumo dei beni.

DEFINIZIONI TECNICO-TRIBUTARIE

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Preliminare a ogni analisi economica dei tributi è anche l’introduzione di alcune definizioni connesse con la tecnica di imposizione che sono diffusamente adottate e consentono un comune linguaggio.Cominciamo con il definire gli elementi del debito d’imposta. Essi sono: il presupposto dell’imposta, cioè quella particolare situazione di fatto (come, ad esempio, il possesso di un reddito o il trasferimento di un bene), alla quale la legge ricollega il sorgere del debito d’imposta; l'imponibile (detto anche base imponibile), che non è altro che la riduzione del presupposto d’imposta in termini quantitativi in modo da poter rendere applicabile il terzo elemento, e cioè l’aliquota dell’imposta. Quindi, l’ammontare d’imposta si determina, una volta che si sia verificato il presupposto previsto dalla legge, applicando alla base imponibile l’aliquota d 'imposta.La determinazione del debito d’imposta normalmente è un processo che richiede diverse operazioni. L’accertamento dell’imposta è il complesso delle ricerche e valutazioni relative alla specifica situazione di fatto dirette a determinare, in base all’applicazione della legge, l’ammontare d’imposta corrispondente a tale situazione. L’accertamento può aver luogo mediante un’attività autonoma del contribuente, quando questi determina da solo l’ammontare d’imposta dovuto (auto-accertamento), e provvede al suo pagamento (autotassazione), al verificarsi del presupposto. Oppure, l’accertamento può aver luogo mediante un’attività autonoma dell’amministrazione finanziaria, senza partecipazione del contribuente, quando l’amministrazione provvede, al verificarsi del presupposto dell’imposta* a determinare l’ammontare e a prelevarla. E’ anche molto diffusa la prassi di utilizzare i sostituti di imposta (datori di lavoro per le ritenute sui redditi dei dipendenti ecc.). Il modo di accertamento canonico è quello che ha luogo mediante la collaborazione dell’amministrazione finanziaria e del contribuente (sulla base, ad esempio, di dichiarazioni del contribuente controllate dagli uffici finanziari).In base alle relazioni tra l’aliquota e l’imponibile, le imposte si distinguono in proporzionali, progressive e regressive. Definiti t l’aliquota nominale, Y l’imponibile, T il debito d’imposta:T= tY inoltre: tpedicem = T / Y è l’aliquota effettiva media dell’imposta, che nel caso più semplice coincide con quella nominale.Un’imposta è proporzionale quando l’aliquota è costante, per esempio è sempre il 10% qualunque sia il valore della base imponibile. E’ progressiva quando al crescere della base imponibile l’aliquota media aumenta ad esempio per una base imponibile di 100 è pari al 10% (e quindi l’ammontare dovuto d’imposta è 10) mentre per una base imponibile di 300 è pari al 15% (e quindi l’ammontare dovuto d’imposta è 45); è, infine, regressiva quando al crescere della base imponibile, per esempio da 100 a 300, l’aliquota decresce dal 10 al 5% (e quindi il debito d’imposta passa da 10 a 15, cioè cresce in proporzione minore della base imponibile).La progressività di un’imposta può èssere attuata, tecnicamente, secondo sistemi diversi:a) Progressività per detrazione: si ha quando si colpisce con un’aliquota costante la base imponibile, dopo aver detratto da questa un ammontare fisso; per esempio, se l’aliquota è pari al 20% e la detrazione ammessa è uguale a 100, una base imponibile inferiore a 100 non pagherà imposta, mentre una base imponibile di 200 pagherà 20 d’imposta cioè il 20% di 100 (-200- 100), una di 400 pagherà 60 cioè 20% di 300 (=400-100) e così via. in questo modo l’aliquota media effettiva sarà crescente, passando da 0 per una base imponibile inferiore a 100 al 10% per una base imponibile di 200, al 15% per una di 400, e così via. Tale sistema ha il vantaggio amministrativo di richiedere l’applicazione di wf aliquota costante; esso, tuttavia, realizza una progressività elevata soltanto per le prime classi colpite mentre tende a diminuire rapidamente per basi imponibili molto alte tendendo asintoticamente all’aliquota proporzionale (20%) al crescere deli5imponibile verso valori infiniti.In sintesi, l’aliquota media (se D è la detrazione dall’imponibile) risulta da:tpedicem = T / Y = t(Y – D) / Y

Accanto alla progressività attuata prevedendo la detrazione di una somma fìssa dalla base imponibile, si può avere una progressività attraverso la detrazione di una somma fissa dalia imposta calcolata applicando l’aliquota nominale al reddito imponibile.In sintesi (se d è la detrazione dall’imposta):tpedicem = T / Y = tY – D / Y

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b) Progressività per classi: si ha quando ad ogni classe di imponibile corrisponde un’aliquota costante, che cresce passando da una classe ad un’altra più alta; ad esempio, se agli imponibili fino a 100 si applica {’aliquota del 5%, a quelli da 101 a 200 l’aliquota del 6%, e cosi via. L’inconveniente di tale sistema è che per imponibili al confine tra due classi (per esempio 99 a 101) l’imponibile appartenente alla classe superiore può divenire, al netto di imposta, minore di quello appartenente alla classe inferiore,c) Progressività per scaglioni: si ha quando per ogni classe di imponibile è prevista una aliquota che si applica soltanto allo scaglione di imponibile compreso in quella classe; ad esempio, agli imponibili fino a 100 si applica l’aliquota del 5%, agii imponibili di 200 si applica per i primi 100 sempre l’aliquota del 5%, mentre per i rimanenti 100 si applica l’aliquota del 6%, e così via. In questo modo si evitano gli inconvenienti della progressività per classi, ed è questo il metodo più diffusamente adottato, in congiunzione con l’uso di detrazioni, dalle imposte personali sul reddito.

d) Progressività continua: si ha quando l’aliquota aumenta in maniera continua all’aumentare della base imponibile; in tal caso il rapporto tra variazione di aliquota e variazione dell’imponibile è espresso mediante una funzione matematica.

Una utile suddivisione delle imposte è quella tra le imposte reali e quelle personali. Sono dette imposte reali quelle che si riferiscono in modo esclusivo ad un oggetto imponibile, come ad esempio l’imposta sul reddito dei terreni che colpisce tale reddito senza tener conto della situazione economica del contribuente; mentre si dicono imposte personali quelle che colpiscono non un oggetto imponibile in quanto tale, ma riferendolo alla situazione personale del contribuente, come ad esempio l’imposta sul reddito “complessivo” del contribuente, che tiene conto della sua situazione di famiglia e di altre caratteristiche della sua attività e della sua condizione.Dal punto di vista della loro applicazione concreta, le imposte reali, a differenza di quelle personali, sono in generale proporzionali e non progressive, perché ciò creerebbe un trattamento sperequato tra soggetti che abbiano lo stesso ammontare di reddito ma proveniente in proporzioni diverse da varie fonti (e avrebbero l’effetto di spingere i contribuenti a distribuire uniformemente la propria attività tra diversi tipi di reddito); inoltre, le imposte personali consentono più facilmente di considerare l’eventuale diverso carico di famiglia e in generale le differenti condizioni di ogni contribuente. Il vantaggio principale delle imposte reali è rappresentato dalla loro facilità di amministrazione.

LA DETERMINAZIONE DEL DEBITO DI IMPOSTA

L’individuazione del contribuente tenuto al pagamento dell’imposta avviene secondo le norme giuridiche previste per l’esercizio del potere coattivo di prelievo. Inoltre, la determinazione dell’importo dovuto e del contribuente de jure, che nella tradizione italiana di Scienza delle finanze viene definita percussione dell’imposta, rappresenta la premessa per lo studio degli effetti economici del tributo, che ne consente di individuare l’incidenza effettiva (e il contribuente de facto).Il “power to tax” è stato al . centro dell’evoluzione democratica degli stati moderni; il suo esercizio, per le implicazioni economiche, politiche e sociali, è sottoposto a rigide regole giuridiche. La Costituzione della Repubblica italiana contiene alcune norme fondamentali in materia tributaria.L’art. 23 stabilisce la riserva di legge in questa materia, sancendo il principio della “legalità” dei tributi, che trova la sua origine nella fondazione delle democrazie moderne e richiede l’approvazione delle norme tributarie da parte delle assemblee elettive, rappresentative di tutti i cittadini. Il significato attuale dell’art. 23, ogni imposta deve essere introdotta soltanto mediante una legge, la quale ne indichi i caratteri essenziali e i principali criteri di applicazione, in modo da evitare arbitrii da parte dell’organo impositore. L’art 53 afferma che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva; e aggiunge che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. La prima affermazione contenuta nell’art 53 esprime il c.d. principio di “universalità” dell’imposta, che non vuol dire che tutti debbano pagare le imposte, ma che nessuno può essere dichiarato

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permanentemente esente da qualsiasi imposta, e che, oltre ai cittadini italiani, anche gli stranieri che svolgono una attività economica sul territorio nazionale sono tenuti in linea generale al pagamento delle imposte. Al criterio della “capacità contributiva”, in base al quale ciascuno dovrebbe contribuire al finanziamento delle spese pubbliche, non si può attribuire un significato preciso dal punto di vista economico: gli elementi che di volta in volta saranno considerati indici di capacità contributiva costituiranno espressione dell’opinione prevalente circa il contenuto della equità tributaria. Anche il secondo comma dell’art. 53 presenta notevoli difficoltà interpretative. Innanzitutto, la norma prescrive soltanto, e opportunamente, la progressività generica del sistema tributario, senza indicare il grado di progressività, che può quindi essere molto diverso. In secondo luogo, la norma riferisce la progressività all’intero sistema tributario e non alle singole imposte che lo compongono, ponendo così due difficili problemi: che cosa si debba intendere per sistema tributario, come vada esattamente definito il grado di progressività richiesto. Sul primo punto, si ritiene che la norma costituzionale si riferisca non solo al sistema tributario statale, ma a tutti i prelievi effettuati a tutti i livelli dalla pubblica amministrazione (compresi quindi i tributi locali, i contributi previdenziali, ecc.). Il secondo punto riguarda la difficoltà tecnica di calcolare il grado di progressività (o regressività) di un sistema tributario così ampio e complesso, e le ipotesi spesso irrealistiche che occorre fare per giungere a quantificarlo.

CRITERI DI RIPARTIZIONE DEL PRELIEVO TRIBUTARIO

La Costituzione della Repubblica italiana indica, all’art. 53, un criterio per la ripartizione dei tributi tra i cittadini, la “capacità contributiva”, oltre a fare esplicito riferimento alla progressività del sistema tributario. Secondo Smith “i sudditi di ogni stato dovrebbero contribuire al mantenimento del governo in proporzione alle loro capacità, ossia in proporzione al reddito di cui rispettivamente godono sotto la protezione dello Stato... La osservanza o la non osservanza di questa massima costituisce ciò che si chiama l’uguaglianza o la disuguaglianza delle imposte”. E’ importante osservare che si fa qui riferimento all’aspetto equitativo delia ripartizione dei tributi, ripartizione che va considerata diversamente se si ricercano invece migliori assetti allocativi. Le indicazioni di Smith sono tradizionalmente considerate ambigue, in quanto sembrano far coincidere due criteri ritenuti contrapposti: quello del beneficio e quello della capacità contributiva.Dal punto di vista dell’equità il principio del beneficio ritiene che i tributi siano equamente distribuiti quando sono commisurati ai benefici che ogni contribuente ritrae dalla spesa pubblica (la “protezione” indicata da Smith) mentre l’altro principio, quello della capacità contributiva rompe la connessione tra prelievo e spesa pubblica e commisura il primo a caratteristiche che rispecchiano le possibilità economiche dei diversi cittadini contribuenti.L’equità tributaria assume due diverse connotazioni: a) equità orizzontale, secondo la quale i contribuenti che si trovano nelie stesse condizioni, rilevanti a fini tributari, devono pagare Io stesso tributo;b) equità verticale, secondo cui i contribuenti che si trovano in condizioni diverse (in base a qualche criterio prescelto) devono pagare un diverso tributo.

UNA SINTESI DEI PRINCIPI DI EQUITÀ DISTRIBUTIVA UTILIZZATI NELL’ANALISI ECONOMICA PUBBLICA

I principi di equità distributiva si applicano non solo alla tassazione, ma alla complessiva attività ridistributiva della finanza pubblica che, si è sviluppata sistematicamente in tempi più recenti rispetto ai compiti attribuiti allo Stato democratico delle origini.Senza andare troppo indietro, il principio del beneficio nella tassazione può essere ricondotto alla visione della giustizia distributiva di J. Locke, secondo il quale si può sostenere (tralasciando altri aspetti molto importanti, ma non essenziali) che ogni individuo hà il diritto naturale (entitlement) ai risultato del proprio lavoro, guadagnato attraverso il corretto operare del mercato e dei diritti di proprietà. Perché ciò avvenga è necessario che la società si organizzi per assicurare la protezione della proprietà; di conseguenza:

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a) non è ammissibile una estesa attività ridistributiva eseguita dallo Stato: b) la tassazione deve essere ripartita secondo il diverso beneficio assicurato ai cittadini dalla spesa pubblica rivolta alla protezione dell’attività.Si è ricordato che A, Smith fa riferimento, nei criteri distributivi dei tributi, alla protezione assicurata dal governo; si è visto come i compiti attribuiti da Smith allo Stato siano circoscritti (ordine pubblico, difesa, giustizia, livello di base dell’istruzione, certe opere pubbliche) e non prevedano interventi significativi nella ridistribuzione delle risorse, anzi egli in diverse occasioni cerca di dimostrare l’utilità generale della diseguaglianza (legandola agli esiti “produttivistici” dell’attività economica guidata dal self interest), anche se il suo approccio si può considerare ancora legato all’entitlement. In questo contesto si spiega la sua visione della distribuzione del prelievo tributario; infatti le sue preferenze in tema di finanziamento della spesa pubblica vanno alle “tariffe” (per le quali l’elemento beneficio è, fortemente presente).Secondo Musgrave anche la preferenza di Smith per un’imposizione proporzionale dimostrerebbe la sua adesione al principio del beneficio. Musgrave propone di conciliare la contraddizione definendo quello di Smith un principio di fair taking un compromesso tra il beneficio e il sacrificio giustificato dalla scelta del reddito come indicatore della “capacità” e dal prelievo proporzionale come applicazione del “beneficio”.Si è detto che l’utilità dei beni economici inizia a occupare un posto di rilievo nell’analisi economica con J.S. Mill ed è questo autore che formula principi distributivi basati sull5utilità,, ma l’approccio utilitarista applicato anche alla giustizia distributiva ha le sue radici in J. Bentham.Questo autore, oltre a fornire le basi della futura analisi marginalista del consumo, espone quei principi “ottimi” della distribuzione delle risorse all’origine di tutta l’impostazione che verrà definita “utilitarista”. Secondo Bentham: “(1) la felicità di una persona cresce con la sua ricchezza; (2) il guadagno di felicità diminuisce con i successivi incrementi di ricchezza; (3) la felicità totale cresce con l’eguaglianza nel possesso delia ricchezza’'. Lo stesso autore si rende conto che se tutta la proprietà fosse divisa egualitariamente la conseguenza estrema potrebbe essere che non vi sarebbero più risorse da dividere e, quindi, il principio egualitario non può essere applicato rigidamente, sicché la diseguaglianza può essere ridotta, ma non eliminata. Per quanto concerne la tassazione egli respinge il principio del beneficio, e sostiene che l’equità richiede “l’imposizione di un sacrificio uguale”, sacrificio uguale ottenibile con la tassazione proporzionale: evidentemente Mill non condivide il principio dell’utilità marginale decrescente di Bentham, che avrebbe richiesto l’imposta progressiva. In una fase successiva, però, Mill accetta il principio della “massima totale felicità” raggiungibile attraverso l’eguaglianza nella distribuzione della ricchezza, ma non in base al principio dell’utilità marginale decrescente, limitata dalle conseguenze possibili sul sistema produttivo. In questo filone si colloca anche Edgeworth, secondo cui il sacrificio minimo, derivato dall’utilitarismo, deve essere il principio sovrano della tassazione: esso deve comportare un tendenziale livellamento dei redditi nella distribuzione del gettito tributario, principio da applicare entro i limiti in cui il perseguimento dell’equità non vada a detrimento della produzione delle stesse risorse. Con Pigou l’utilitarismo tradizionale, basato (adesso esplicitamente) sulla possibilità del confronto interpersonale dell’utilità ritratta dai diversi individui attraverso l’uso delle risorse, stabilisce rigorosamente il principio del tendenziale livellamento dei redditi attraverso la distribuzione dei tributi; si accetta, infatti, l’utilità marginale decrescente e si osserva che, anche dal punto di vista dell’utilità (welfare) complessiva della società, il livellamento determina un sacrifìcio minimo in termini di disutilità della tassazione. Visioni più recenti della giustizia distributiva, di tipo normativo come quelle precedenti, sono caratterizzate dalla considerazione delle condizioni di incertezza nelle decisioni degli agenti economici.Un primo approccio è quello legato principalmente ad Harsanvi e si può definire “neo-utilitarista”; esso rientra nella più vasta categoria dei modelli accomunati dall’analisì delle scelte condizionate dal “velo di ignoranza” degli individui (circa le proprie future capacità di guadagno e il proprio possibile reddito dopo l’eventuale ridistribuzione). Se si ipotizza che il contratto sociale venga stretto tra individui che condividono detto “velo di ignoranza” e si suppone inoltre che essi decidano in base a funzioni di utilità simili (caratterizzate da avversione al rischio), tra le diverse

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alternative distributive dovrebbe essere preferita quella che massimizza la somma delle utilità individuali e, se le risorse complessive sono fisse, il risultato è una distribuzione egualitaria. Se invece l’elasticità-prezzo dell’offerta di lavoro è significativamente diversa da zero, la tassazione implica una riduzione delle risorse disponibili per la distribuzione e, quindi, la massimizzazione dell’utilità non comporterà una distribuzione egualitaria.Nell’ambito del “velo di ignoranza’' si colloca anche il principio distributivo di Rawls: con avversione assoluta al rischio gli individui scelgono quel principio distributivo che assicurerebbe loro in futuro la migliore situazione possibile se si dovessero trovare nelle condizioni peggiori. La politica ridistributiva dovrebbe di conseguenza consentire di realizzare il maximin, ossìa il massimo nella situazione peggiore (minima). E’ evidente che esso dovrebbe comportare una politica ridistributiva tendente a “dare il massimo possibile al più povero”. Anche in questo caso non è auspicabile una rigorosa soluzione egualitaria, perché una tassazione disegnata secondo questo criterio può ridurre le risorse da distribuire.

TASSAZIONE ED EQUITÀ VERTICALE

L’evoluzione, sommariamente tracciata, dei principi distributivi (di tipo normativo) adottati dalla Scienza delle finanze è alla base dei diversi criteri utilizzati per tentare di fornire un contenuto al rispetto dell’equità verticale (ossia al diverso trattamento tributario dei contribuenti che si trovano in situazioni differenti, dal punto di vista delle grandezze economiche indicate come rilevanti). Poiché, le imposte dirette sono quelle che fanno riferimento alla situazione economica complessiva dei contribuenti, è in connessione con questi tributi che i problemi di equità vengono principalmente affrontati, anche se gli aspetti distributivi degli altri tipi di tributi sono anch’essi rilevanti: per esempio, la nostra Costituzione fa riferimento alla progressività del sistema tributario nel suo complesso (art. 53).Si è visto che l’accettazione del principio di giustizia economica dei “classici”, quello definito dell’etitlement (diritto) alle risorse ottenute con la propria attività, sotto la protezione dell’organizzazione collettiva (lo Stato), comporta l’applicazione del principio del benefìcio nella ripartizione del carico tributario. Questo criterio, deriva anche, ma per ragioni di efficienza allocativa (non di equità), dall’approccio normativo (di economia del benessere) alla fornitura dei beni pubblici. E’ difficile misurare il beneficio della spesa pubblica per ogni individuo: anzitutto va attribuito al termine beneficio un contenuto economico. Se si ipotizza che l’imposta si debba commisurare al reddito degli individui, si può tentare dì cercare una relazione tra l’andamento dell’utilità della spesa per beni pubblici e l’andamento dei redditi individuali e su di essa basare un’equa distribuzione del prelievo secondo il principio del beneficio. Se si potessero in qualche modo misurare le preferenze degli utenti della spesa pubblica e si escludesse che i beni pubblici appartengano alla categoria dei beni economici “inferiori”, la domanda di spesa pubblica dovrebbe aumentare al crescere del reddito. D’altro canto, se si trattasse di beni “normali”, la loro domanda verrebbe contratta dall’aumento del prezzo-imposta. E’ evidente, quindi, che la relazione tra beneficio (sentito dai contribuenti) e livello del reddito dipende sia dall’elasticità reddito sia dall’elasticità prezzo della domanda di beni pubblici. Più precisamente l’imposta-prezzo(ossia la somma che il contribuente è disposto a pagare per un aumento di spesa pubblica) aumenta al crescere del reddito se P elasticità-reddito dei beni pubblici è elevata, mentre un’alta elasticità-prezzo indica una limitata preferenza e quindi una contrazione sensibile della domanda alla variazione dell’imposta-prezzo. In sintesi, se:Epedicep= deltaQ/Q/deltaP/Pè l’elasticità-prezzo dei beni pubblici

Epedicey= deltaQ/Q/deltaY/YÈ l’elasticità reddito degli stessi beni.l’imposta che rispetta le preferenze dei consumatori dovrebbe essere progressiva, proporzionale o regressiva rispetto al reddito a seconda che: Epedicey / Epedicep= delta P/P/deltaY/Y maggiore minore = 1

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In realtà è arbitrario individuare i gruppi cui riferire le classi di reddito e la stessa misurazione delle elasticità presenta enormi difficoltà e possibili arbitrarietà, per cui l’applicazione del principio del beneficio è in pratica limitato a quei casi in cui è possibile individuare vantaggi indidivduali specifici che danno luogo ad alcuni dei tipi di entrate (prezzi pubblici, tasse, ecc). Esempi di questo tipo sono la struttura di base delle tasse per la raccolta dei rifiuti solidi urbani, delle tasse scolastiche e principalmente le tariffe di molti servizi di pubblica utilità (acqua, ecc..). particolarmente adatta all’utilizzo del criterio del beneficio è la spesa per la costruzione e la gestione delle autostrade in cui la tariffa può distribuire l’intero costo in relazione a qualche misura del beneficio degli utenti. La separazione dei criteri di distribuzione del prelievo dalle caratteristiche della spesa pubblica, avviene con l’adozione del principio della capacità contributiva (ability to pay), che fa ovviamente riferimento principalmente al reddito e al patrimonio posseduti dagli individui, ma che per la ricerca di una precisa definizione economica considera il sacrificio (in termini di utilità) che l’imposta arreca al contribuente (indipendentemente dai benefici che questi può ritrarre dalla spesa pubblica).È con J.S.Mill che l’analisi dell’equità dei tributi viene affrontata in termini pienamente utilitaristici con confronti interpersonali e misurazioni “cardinali” di utilità. La regola del sacrificio (trascurando i diversi effetti di disincentivo alla produzione delle risorse) ha tre possibili accezioni:a) eguale sacrificio assoluto;b) eguale sacrificio proporzionale;c) eguale sacrificio marginale.

Per meglio chiarire queste definizione e valutarne le implicazioni per la distribuzione del prelievo, si consideri la figura V.I che ipotizza una funzione decrescente dell’utilità marginale del reddito (assunto sull’asse delle ascisse come la grandezza economica cui riferire la commisurazione dell’imposta) identica per i due ipotetici contribuenti tra i quali il prelievo coattivo va distribuito (MUpediceA = MUpediceB).Siano A il contribuente “ricco”, con reddito YpediceA, e B il contribuente “povero”, con reddito YpediceB. La regola a) comporta che l’utilità totale sottratta con il prelievo del reddito sia uguale per i due contribuenti; nel grafico l’ammontare totale di imposta T=TpediceA+TpediceB = (YpediceA-Y’pediceA) + (YpediceB – Y’pediceB) deve essere distribuito in modo da rispettare la condizione: YPEDICEA 12Y’PEDICEA = YPEDICEB 96 Y’PEDICEB poiché le due aree sottese alle curve dell’utilità marginale rappresentano l’utilità totale del reddito.

Se le curve dell’utilità marginale fossero costanti (non decrescenti) l’uguaglianza delle aree 12Y’pediceA YpediceA e 69Y’pediceB YpediceB comporterebbe (YPEDICEA- YPEDICEA)’ = (YPEDICE – YPEDICEb)’ e l’imposta dovrebbe essere uguale in valore assoluto (imposta “capitaria”). Nel caso, invece, di utilità marginale decrescente (come nella Fig, V.l), l’eguaglianza di sacrifìcio assoluto comporta che TpediceA=(YpediceA - Y’pediceA) >TpediceB = (YpediceB - Y’pediceB), ma il modo in cui Tpedicei deve crescere all’aumentare di Ypedicei dipende dalle caratteristiche della funzione MU, più precisamente dall’elasticità di MU rispetto al reddito (EpediceMu)A seconda che:EPEDICEMU ><= 1l’imposta dovrà essere progressiva, proporzionale o regressiva rispetto all’imponibile (nell’esempio il reddito).La regola b) significa che la proporzione di utilità totale sottratta dall’imposta ai contribuenti deve essere eguale.Nella figura V.1 poiché OYpediceA15 è l’utilità totale del reddito iniziale del contribuente A e OYpediceB95 è quella del contribuente B, l’imposta totale T= TPEDICEA+TPEDICEB sarà data da (YpediceA-Y”pediceA) + (YpediceB - Y”pediceB) in cui Y”pediceA ed Y”pediceB sono individuati sulla base della condizione:YpediceA 13Y’’pediceA / OYpediceA15 = YpediceB 97 Y’’pediceB / OYpediceB 95.

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In questo caso, se l’utilità marginale fosse costante (MU una parallela all’asse delle ascisse) l’imposta dovrebbe essere proporzionale e, questo è il caso che aveva probabilmente in mente J.S.Mill nel periodo in cui sosteneva l’equità dell’imposta proporzionale. Se la MU ha un andamento rettilineo e decrescente, questa regola richiede un’imposizione progressiva. Nel caso più generale l’andamento del tributo rispetto all’imponibile dipende dalla forma della MU, dal suo livello e dalla distribuzione iniziale del reddito. La regola di cui sub c) implica che l’utilità marginale del reddito al netto dell’imposta deve essere eguale per tutti i contribuenti.Nella figura V.l, l’imposta totale è data da (YpediceA - Y”’pediceA) + (YpediceB - Y’”pediceB) e rispecchia la condizione Y’”PEDICEA4 = Y”’PEDICEB8. Purché la curva dell'utilità marginale sia decrescente, l’imposta dev’essere progressiva.

I tre criteri del sacrificio possono essere sintetizzati come segue:Schema sacrifico ipod

La regola dell’eguaglianza dell’utilità marginale dell’imponibile netto discende, oltre che dall’ultima versione dell’eguaglianza del sacrificio, anche dal principio del sacrificio minimo complessivo per la collettività dei contribuenti, valutato sempre in termini di utilità. Si tratta dell’applicazione ai tributi del principio della “massima totale felicità” di Bentham che, spinge in linea di principio verso una distribuzione egualitaria delle risorse, principio sostenuto da tutta la scuola utilitarista. In realtà, il principio del sacrificio minimo viene, dopo Mill, proposto più come principio di efficienza allocativa che di equità; da questo secondo punto di vista esso comporta una soluzione egualitaria e, quindi, una tassazione che inizi a prelevare dai più ricchi (la cui utilità, per il principio dell’utilità marginale decrescente, “vale” di meno) per arrivare, attraverso il tendenziale livellamento dei redditi, ad intaccare quello dei più “poveri”.Gii ultimi fautori dell’approccio “cardinale” dell’utilità hanno però dato molto rilievo agli effetti disincentivanti della progressività del prelievo sulla produzione del reddito, attenuando fortemente l’idea dell’utilizzo dei tributi per il perseguimento della soluzione egualitaria nella distribuzione delle risorse.L’approccio di optimal taxation, fornisce, attraverso la minimizzazione vincolata della perdita di utilità causata dalla tassazione (in presenza di reazioni sull’offerta di lavoro e, quindi, sul reddito prodotto), una distribuzione ottimale del prelievo, che, però, non può tenere conto del processo di formazione delle preferenze dei soggetti che partecipano alla definizione dei diversi obiettivi della politica tributaria, né della possibilità che le scelte vengano prese in condizioni di razionalità limitata.In termini di relazioni tra prelievo e risorse individuali, l’approccio normativo di optimal taxation limita, comunque, la tendenza all’egualitarismo (e, quindi, alla progressività dell’imposizione) dell5approccio utilitarista che non valuta le reazioni nell’offerta.

TASSAZIONE ED EQUITÀ ORIZZONTALE

L’equità orizzontale (l’eguale trattamento dei contribuenti che si trovano nelle stesso condizioni) può essere considerata semplicemente l’implicazione tributaria dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Questo principio generale di “correttezza” non è messo in discussione negli stati democratici, ma dal punto di vista economico non è così semplice attribuire un contenuto a questo principio. Se, per semplicità, ci si limita ad alcune considerazioni che riguardano le imposte dirette (quelle che comportano, per definizione, confronti tra le situazioni economiche di diversi individui), si pongono almeno i seguenti problemi:a) la scelta della base imponibile cui commisurare l’imposta e rispetto alla quale definire le

“stesse condizioni” (reddito-entrata, reddito-prodotto, reddito-speso, patrimonio), che sarà discussa in seguito;

b) il riferimento temporale dell’imponibile, in parte connesso con la scelta precedente, che può consistere nell’abituale periodo di imposta (il reddito di un anno) ovvero concernere l’intera vita del contribuente (life-cycle income);

c) se si sceglie un approccio “utilitarista” (nelle varie accezioni) all’equità tributaria» si deve spostare l’enfasi sull’utilità ritratta dai diversi individui o gruppi di individui e, eventualmente,

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sulla forma della funzione del benessere sociale;d) restano, comunque, da considerare altre circostanze (che possiamo definire accessorie

rispetto, ad esempio, al reddito guadagnato) rilevanti per l’individuazione delle ‘‘stesse condizioni” (carichi familiari, ecc.).

CENNI SULL’UTILIZZO DELL’APPROCCIO DI PUBLIC CHOICE NELL’ANALISI DELLE CARATTERISTICHE GENERALI DEL SISTEMA TRIBUTARIO

I criteri per la distribuzione equa del carico tributario sono tradizionalmente raggruppati nelle due categorie del beneficio e della capacità contributiva. L’evoluzione di questi criteri, consente soluzioni “normative” (e in via di pura astrazione) basate anche sull’esigenza di minimizzare le distorsioni che il prelievo arreca al l’attività di mercato (distorsioni generalmente definite in termini di utilità sottratta al complesso delle risorse disponibili per il consumo). L’approccio della scuola di public choice, viene talvolta e imprecisamente (ma efficacemente) indicato come di “fallimento dello Stato” opposto a quello dei “fallimenti del mercato”, che connota Paralisi neo-classica tradizionale. Proprio per questo il criterio essenziale per organizzare il prelievo dovrebbe essere quello di “scegliere i tributi che minimizzano le distorsioni delle decisioni pubbliche” in contrapposizione alla “minimizzazione delle distorsioni provocate al settore privato”.La forza che guida coloro che partecipano alia formazione delle scelte collettive (la cui attività è dominata dal “self-interest” come quella degli agenti privati) è la ricerca dell’utilità individuale, nei limiti consentiti dai vincoli istituzionali alla loro azione. In generale, secondo Brennan e Buchanan, l’attività dello Stato per la public choice può essere sintetizzata dalla ricerca della massimizzazione del gettito tributario, come risultato dell’interesse di chi influenza (o effettua) le decisioni pubbliche (politici, burocrati, lobbisti, etc.). Da questa visione discende la raccomandazione di stabilire regole costituzionali di limitazione della possibilità di prelevare tributi, poiché altrimenti, attraverso le reciproche influenze e gli accordi tra gli interessati, si realizzano aumenti delle risorse amministrate dal settore pubblico, ma non nell’interesse della generalità dei cittadini. Questo non significa che Buchanan e la sua scuola siano ancorati allo Stato minimo (che prevede solo poco più della protezione dell’attività privata). Di recente Buchanan, che in precedenza sosteneva il principio del “beneficio”, ha chiarito che ritiene opportuno avere imposte generali su “una ben definita base imponibile correlata alla capacità contributiva individuale, misurata con le grandezze tradizionali”.

GLI EFFETTI ECONOMICI DEI TRIBUTI: DEFINIZIONI INTRODUTTIVE

L’imposizione dei tributi (necessaria a finanziare le spese pubbliche) determina effetti economici, la cui conoscenza è indispensabile per valutare le implicazioni dell’attività economica pubblica sull’allocazione e la distribuzione delle risorse e sull’andamento macroeconomico. Inoltre la conoscenza ex ante di questi effetti serve a congegnare opportunamente le politiche tributarie (sia allocative sia distributive) e quelle macroeconomiche.I tributi vengono prelevati in base alla legge; se, per semplicità, facciamo riferimento alle imposte (che non richiedono un’iniziativa del contribuente per utilizzare un determinato servizio pubblico), la legge stabilisce come il tributo vada prelevato (ad esempio, in maniera diversa per le imposte dirette e per quelle indirette) e quali contribuenti siano tenuti a versare materialmente il gettito allo Stato. Questi contribuenti (che, ad esempio, nel caso di un’imposta annua sul reddito sono i possessori di certi redditi annui, mentre per le imposte sugli scambi possono essere i venditori o i compratori delle merci indicate) possono cercare di evitare il pagamento del tributo. In questo caso l’effetto dell’imposta dà luogo ad evasione (se attuata violando la legge, ad esempio occultando tutto o parte dell’imponibile) ovvero ad elusione (se realizzato in maniera lecita, attraverso artifici legali che consentono di eliminare o mitigare il debito di imposta, ad esempio distribuendo utili sotto forma di guadagni di capitale invece che sotto forma di dividendi, se i primi sono esenti o tassati con un’aliquota minore). Nella misura in cui l’imposta non viene evitata, il contribuente tenuto al versamento subisce la

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percussione del tributo (o incidenza di diritto); il contribuente percosso è quello che corrisponde all’individuazione fatta dalla legge e per gli ammontari e le altre modalità dalla legge previsti.Il contribuente percosso può reagire all’imposizione, in particolare nell’ambito delle relazioni economiche intrattenute con altri soggetti. Non è naturalmente da escludere che l’onere dell’imposta resti sullo stesso contribuente percosso, che così coincide con quello che ne subisce l’incidenza (o incidenza di fatto). Se invece, l’onere può essere trasferito mediante variazioni dei prezzi (dei prodotti o dei fattori di produzione) si dice che si sono determinati effetti di traslazione dei tributi; poiché ciò avviene attraverso lo scambio, se l’onere dell’imposta nel passare dal percosso all’inciso (cioè verso chi subisce il processo di traslazione) segue il percorso che va dalla produzione all’utilizzo finale del bene (attraverso il ciclo produttivo e distributivo dei beni) si dice che sì tratta di traslazione in avanti; se il fenomeno avviene nella direzione opposta si parla di traslazione all’indietro. È evidente l’importanza della conoscenza di questi effetti: ad esempio, se si considerano i criteri per un'equa distribuzione del carico tributario è evidente che è l’incidenza (non la percussione) la grandezza rilevante, mentre i dibattiti di politica economica sull’argomento si svolgono normalmente su dati riguardanti la percussione, anche perché si tratta spesso delle sole statistiche rilevate e disponibili.Importante è anche la rimozione dell'imposta, che consiste negli effetti dell’imposta sull’offerta di lavoro. Si parla di rimozione positiva, in caso di aumento dell’offerta di lavoro in seguito all’imposizione, negativa e nulla negli altri casi. In un contesto metodologico di tipo neo-classico, si vedrà come la rimozione possa essere nulla, positiva o negativa in relazione al prevalere o meno dell’effetto sostituzione rispetto all’effetto reddito dell’aumento di prezzo connesso con il tributo, date certe preferenze dei consumatore lavoratore.Altro effetto è il cd. ammortamento o capitalizzazione dell’imposta, che concerne la tassazione dei redditi da capitale e consiste nella variazione che il tributo induce nel valore del cespite i cui frutti sono colpiti.

L’EVOLUZIONE DEI SISTEMI TRIBUTARI

Per sintetizzare l’evoluzione delle strutture tributarie dei paesi sviluppati, cercando di individuarne le caratteristiche dominanti, si seguirà la classificazione recentemente proposta da L. Bernardi, che distingue il sistema tributario pre-moderno (“quale si afferma nei paesi sviluppati tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento”) e quello moderno (“che si forma progressivamente nei paesi più sviluppati negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale”); Il sistema pre-moderno, caratterizzato da esigenze di gettito relativamente limitate, si basa su alcuni pilastri: “Le imposte dirette sono molteplici e ad imponibile singolo, reali e con scarsi o nulli elementi di personalizzazione, poco o punto coordinate tra loro, raramente accompagnate da un tributo unificante complementare, cioè secondario e destinato solo a pochi contribuenti, abbastanza facoltosi per esserci soggetti, non abbastanza per riuscire ad eluderlo. Il pluralismo degli imponibili caratterizza anche le imposte indirette, applicate in modo non coordinato su gran quantità di prodotti e di consumi eterogenei. Cominciano appena ad affiorare le forme più semplici, e distorsive, dell’imposta generale sugli scambi. Elevato è infine il gettito dei dazi, sia doganali sia interni, i primi motivati da ragioni tanto fiscali quanto di protezione dell’economia nazionale”. La molteplicità di imponibili reali deriva anche dalla stratificazione di grandezze economiche via via apparse come possibili imponibili; l’amministrazione è rudimentale e la prevalenza delle imposte indirette (sui beni scambiati) si spiega oltre che con la maggiore semplicità del prelievo, anche con la possibilità di utilizzare l’illusione tributaria” del contribuente. Quanto alle imposte indirette, fino al 1900 importanti sono le entrate doganali (dazi), i Monopoli, le imposte di registro e bollo, mentre nel corso dei primi anni del Novecento assumono maggiore importanza le imposte di fabbricazione; dagli anni venti diventa gradualmente prevalente il gettito assicurato dall’imposta generale sugli scambi (in. Italia si chiamava I.G.E., imposta generale sull’entrata, sostituita dal 1973 dall’imposta sul Valore Aggiunto) e dalle imposte di fabbricazione.

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Il sistema moderno, “si forma progressivamente nei paesi sviluppati negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, giunge in Italia con la riforma del 1971, si sta diffondendo ora nei paesi in via di sviluppo”. Pilastro di questo sistema è, tra le imposte dirette, l’imposta personale sul reddito (tendenzialmente immaginata per comprendere nell’imponibile tutti i guadagni dell’individuo) progressiva, che si applica a tutti i contribuenti (eccetto i più poveri) e si adatta a qualche insieme di condizioni particolari che consentano di individuare le diverse capacità contributive. Importante è anche un tributo sulle imprese- persone giuridiche (società di capitali: spa, srl, ecc.) variamente collegato al precedente tributo attraverso i dividendi percepiti dall’azionista contribuente-persona fìsica. Tra le imposte indirette, l’imposta generale sugli scambi assume, in termini di gettito, il rilievo maggiore (assieme ad alcune imposte come quella sui carburanti e quella sui tabacchi, sull’alcool, che hanno anche obiettivi diversi dalla ricerca di gettito), mentre gradualmente tende a svanire il gettito dei dazi doganali e di quelli interni ai singoli paesiCon la crescita dei compiti pubblici nella sicurezza sociale (principalmente previdenza) in molti paesi si sviluppa il gettito dei contributi sociali, la cui entità dipende dalle caratteristiche del finanziamento della spesa sociale (in alcuni paesi assicurato attraverso le altre imposte, in altri invece con questo prelievo specifico sulle retribuzioni e i redditi degli “assicurati”; i contributi sociali sono presenti sia nei sistemi di finanziamento a capitalizzazione sia in quelli a ripartizione). Generalmente le imposte dirette prevalgono su quelle indirette: il sistema tributario rispecchia “il modello di una società di grandi imprese e di masse di lavoratori dipendenti, di apertura degli scambi commerciali ma con mercati finanziari non sempre molto sviluppati, di consumismo generalizzato anche dei beni durevoli, di maggiori potenzialità amministrative e più elevata cultura diffusa. Nella struttura del prelievo sono presenti obiettivi egualitari(equità verticale) e non preoccupano i disincentivi di un’imposizione elevata e con accentuati caratteri di progressività. L’efficienza delle amministrazioni e la cultura civica dei paesi più sviluppati rende l’evasione un fenomeno presente, ma non generalmente diffuso, a differenza di quanto avviene sia nei paesi in via di sviluppo sia in quelli di più recente “ricchezza”.Si è detto che in Italia il sistema moderno è pienamente adottato con la riforma del 1971, Anche nel nostro paese viene istituita un’imposta personale progressiva sul reddito, Irpef (con caratteristiche solo in linea di principio di generalità, poiché sono previste esclusioni di alcuni tipi di reddito che, diverranno sempre più rilevanti nel corso del tempo), un’imposta sulle società-persone giuridiche (società di capitali, come le società per azioni, quelle a responsabilità limitata, ecc.),Irpeg, un’imposta locale sui redditi. Nel campo delle imposte indirette, l’Imposta generale sugli scambi è l’imposta sul Valore Aggiunto (scelta dai paesi appartenenti all’Unione Europea, per le ragioni che si vedranno in seguito),che sostituisce, oltre all’imposta Generale Sull’Entrata, anche numerosi tributi minori e, tra le imposte di fabbricazione e consumo, un posto rilevante mantiene l’imposta sulla benzina e gli altri carburanti. La struttura tributaria diviene quella tipica del sistema moderno.