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A NTON P ANNEKOEK L’ EVOLUZIONE DELLA NOSTRA CONCEZIONE DEL M ONDO UNA STORIA DELL ASTRONOMIA

L’EVOLUZIONE DELLA NOSTRA

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Page 1: L’EVOLUZIONE DELLA NOSTRA

ANTON PANNEKOEK

L’EVOLUZIONE DELLA NOSTRA

CONCEZIONE DEL MONDO

UNA STORIA DELL’ASTRONOMIA

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Anton Pannekoek (Olanda, 1873-1960)

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SOMMARIO INTRODUZIONE

PARTE PRIMA: L’ASTRONOMIA NEL MONDO ANTICO

Capitolo 1. La vita e le stelle p. 5

Capitolo 2. Agricoltura e calendario 8

Capitolo 3. L’antica visione babilonese del cielo 12

Capitolo 4. L’astrologia assira 18

Capitolo 5. La nuova scienza babilonese 26

Capitolo 6. Le tavole caldee 37

Capitolo 7. Egitto 50

Capitolo 8. Cina 53

Capitolo 9. Poeti e filosofi greci 60

Capitolo 10. Calendario e geometria 68

Capitolo 11. I Sistemi del Mondo 73

Capitolo 12. L’astronomia ellenistica 80

Capitolo 13. La teoria degli epicicli 88

Capitolo 14. La fine del mondo antico 96

Capitolo 15. L’astronomia araba 110

PARTE SECONDA: L’ASTRONOMIA IN RIVOLUZIONE

Capitolo 16. La “buia” Europa 117

Capitolo 17. Il Rinascimento scientifico 121

Capitolo 18. Copernico 128

Capitolo 19. Il calcolo astronomico 136

Capitolo 20. Tycho Brahe 140

Capitolo 21. La riforma del calendario 148

Capitolo 22. Il dibattito sul Sistema del Mondo 152

Capitolo 23. Keplero 162

Capitolo 24. Meccanica e filosofia 170

Capitolo 25. Il telescopio 176

Capitolo 26. Newton 184

Capitolo 27. L’astronomia pratica 195

Capitolo 28. Astronomi in viaggio 200

Capitolo 29. Il raffinamento della pratica 205

Capitolo 30. Il raffinamento della teoria 211

PARTE TERZA: L’ASTRONOMIA STUDIA L’UNIVERSO

Capitolo 31. Il Mondo diventa più grande 221

Capitolo 32. Le basi tecniche 229

Capitolo 33. Distanze e dimensioni 243

Capitolo 34. La meccanica celeste 232

Capitolo 35. Una pluralità di mondi 246

Capitolo 36. Cosmogonia ed evoluzione 284

Capitolo 37. Il Sole 291

Capitolo 38. Astri passeggeri 304

Capitolo 39. Stelle peculiari 312

Capitolo 40. Stelle comuni 323

Capitolo 41. Il sistema galattico 341

Capitolo 42. Nello spazio infinito 353

Capitolo 43. La vita delle stelle 360

APPENDICI 365

DUE BIOGRAFIE DI ANTON PANNEKOEK 371

REFERENZE 375

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INTRODUZIONE La scienza astronomica ha avuto le sue origini, nella storia dell’uomo, molto prima delle altre scienze naturali. Nel lontano passato, quando la conoscenza pratica, nella vita e nel lavoro quotidiano, non aveva ancora portato a uno studio sistematico della fisica e della chimica, l’astronomia era già una scienza ben sviluppata. Questa ‘antichità’, quindi, individua il posto speciale che l’astronomia ha occupato nella storia della cultura umana. Gli altri campi della conoscenza si sono sviluppati come vere e proprie scienze solo negli ultimi secoli e il loro sviluppo ha avuto luogo soprattutto all’interno delle mura delle università e delle aule dei laboratori, laddove raramente penetra il rumore degli avvenimenti politici e sociali. L’astronomia, al contrario, si era già espressa nel mondo antico come un sistema di conoscenze teoriche, che consentiva all’uomo di predire perfino le terribili eclissi, e aveva assunto un aspetto decisamente rilevante nella sua vita spirituale.

Questa storia è legata al processo di crescita dell’umanità sin dalle origini della civiltà e appartiene a epoche nelle quali la società e l’individuo, il lavoro e la ritualità, la scienza e la religione ancora formavano entità inseparabili. Nel mondo antico e nei secoli successivi, la dottrina astronomica era un elemento essenziale all’interno della concezione del mondo, sia religiosa che filosofica, in grado di riflettere la vita sociale. Quando un fisico moderno guarda indietro verso i suoi predecessori, trova degli individui simili a se stesso, con atteggiamenti analoghi, pur se più primitivi, nei confronti degli esperimenti e delle deduzioni, delle cause e degli effetti. Quando, invece, un astronomo guarda ai suoi predecessori, trova sacerdoti e maghi babilonesi, filosofi greci, principi musulmani, monaci medievali, nobili e religiosi rinascimentali, fino a quando, con gli studiosi del Seicento, non si imbatte in

individui moderni del tutto simili a lui. Per tutti questi uomini, l’astronomia non è stata una branca limitata di una scienza specialistica, bensì un sistema del mondo indissolubilmente legato alla complessità della loro concezione della vita. Il loro lavoro non è stato ispirato dalle tradizionali esigenze di una corporazione di professionisti, bensì dai più profondi problemi dell’umanità.

La storia dell’astronomia è, allora, la storia di come è cresciuta, nell’uomo, la concezione del mondo in cui vive. Istintivamente, l’uomo ha sempre ritenuto che i cieli sopra di lui fossero l’origine e l’essenza della sua vita in un senso più profondo di quanto lo potesse essere la stessa Terra. La luce e il calore venivano dal cielo, dove il Sole e gli altri astri descrivevano le loro orbite e dove dimoravano gli dèi che regolavano il suo destino scrivendo i loro messaggi nelle stelle. I cieli erano vicini e le stelle svolgevano un ruolo importante nella vita dell’uomo. Lo studio delle stelle permetteva quindi, il disvelamento di questo mondo superiore: il più nobile oggetto al quale la mente e lo spirito dell’uomo potessero mai rivolgersi.

Questo studio, proseguito per numerosi secoli, sin dall’antichità, mostrò principalmente due cose: la periodicità dei fenomeni celesti e la vastità dell’universo. All’interno della sfera celeste, che con le sue stelle tutto comprendeva, la Terra, ritenuta il centro e l’oggetto principale, era solamente un piccolo globo oscuro e altri astri — Sole, Luna e pianeti, alcuni dei quali addirittura più grandi — ruotavano intorno a essa. Questa era la concezione del Cosmo che, allorquando crollò il mondo antico e la scienza decadde per un migliaio di anni, rimase come eredità culturale e che, alla fine del Medioevo, venne trasmessa alla nascente cultura dell’Europa occidentale.

Fu nel Cinquecento che l’astronomia,

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favorita da un forte sviluppo sociale, produsse una nuova concezione del Mondo. Si comprese come l’immobilità della Terra, ritenuta il fondamento più saldo della conoscenza, fosse solo un’apparenza. Si comprese, inoltre, come la stessa Terra non fosse altro che uno dei numerosi pianeti, tutti in rotazione intorno al Sole e come, in uno spazio senza fine, le stelle fossero degli altri soli. Ci fu, così, una rivoluzione che favorì nuovi modi di pensare e, con enormi sforzi, l’umanità dovette riconsiderare la sua posizione nel Mondo. In quei secoli di rivoluzione, il contesto nel quale si mosse il pensiero astronomico costituì un elemento importante nel dibattito intellettuale che accompagnava i grandi sommovimenti sociali.

L’astronomia, come pure lo studio della natura nel suo complesso, entrava ora in una nuova era. Il secolo successivo portò alla scoperta della legge fondamentale che governava tutti i moti nell’universo; il pensiero filosofico poteva confrontarsi, per la prima volta, con una legge della natura esatta e stringente; l’antico legame mistico e astrologico tra i corpi celesti e l’uomo veniva sostituito dall’onnipresente azione meccanica della gravitazione.

Infine, nell’epoca moderna della scienza, il concetto di universo si è allargato a dimensioni ancora maggiori, esprimibili solo con numeri nei confronti dei quali parlare della piccolezza della Terra è una frase priva di senso. L’astronomia è tornata a essere di nuovo — o ancora — la scienza della totalità dell’universo, pur se adesso semplicemente da un punto di vista spaziale. Mentre un tempo l’idea di una comunione del mondo celeste con il mondo umano accendeva i cuori degli studiosi della natura, ora gli uomini sono stimolati dall’orgogliosa consapevolezza che la mente umana è in

grado di levarsi, dal nostro piccolo guscio, sino ai sistemi stellari più remoti.

Nei tempi antichi, quando le teorie fisiche non erano altro se non astratte speculazioni, l’astronomia costituiva già un sistema ordinato di conoscenze in grado di consentire un pratico orientamento nello spazio e nel tempo. Nei secoli successivi, la ricerca astronomica si rivolse sempre di più verso la conoscenza teorica della struttura dell’universo, ben al di là di ogni applicazione pratica, per soddisfare la ricerca della verità, vale a dire per la gioia dell’intelletto. Le reciproche relazioni tra le scienze divennero esattamente l’opposto di quelle che erano state fino ad allora: la fisica, la chimica e la biologia si svilupparono sempre di più, arrivando a rivoluzionare la società e a mutare il volto della Terra tramite le loro applicazioni tecniche. In questa rivoluzione, l’astronomia rimase a guardare: le stelle non potevano fornire dei contributi alla nostra tecnologia, alla nostra vita materiale o alla nostra organizzazione economica. E così il loro studio divenne sempre più uno sforzo ideale rivolto alla conoscenza fisica dell’universo. Mentre le altre scienze conseguirono brillanti trionfi nella trasformazione del mondo, lo studio dell’astronomia divenne un’opera di cultura, un’avventura della mente. La sua storia rimane allora ciò che è sempre stata: una parte essenziale nella storia della cultura dell’uomo.

Chiunque penetri nel passato si rende partecipe dello sviluppo della razza umana proprio come se si trattasse di una sua personale esperienza. È scopo del presente lavoro, quindi, seguire in questo passato lo sviluppo della concezione astronomica del Mondo come una manifestazione della crescita dell’umanità.

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PARTE PRIMA

L’ASTRONOMIA

NEL MONDO ANTICO

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CAPITOLO 1

LA VITA E LE STELLE Le origini dell’astronomia risalgono ai tempi preistorici, dei quali non è sopravvissuta alcuna testimonianza. Già nei primi documenti scritti, risalenti agli albori della storia, si trovano indicazioni che dimostrano come i fenomeni astronomici abbiano sempre attirato l’attenzione dell’uomo e oggi noi sappiamo come tra i popoli primitivi vi fosse una certa conoscenza delle stelle e dei fenomeni celesti.

Cosa spinse l’uomo primitivo ad alzare gli occhi dalla terra al cielo sopra di lui? Fu la bellezza del cielo stellato, degli innumerevoli punti luminosi, in una meravigliosa varietà di splendore, di colore e di forma, a catturare i suoi occhi? Fu la regolarità dei loro moti lungo la volta celeste — e di alcune irregolarità in quei moti — che provocò la sua curiosità? Questi motivi ispirarono e guidarono l’uomo solo molto più tardi: all’inizio egli non aveva tempo per speculazioni, dovendo lottare continuamente per la propria vita e combattere incessantemente contro le forze ostili della natura. Questa lotta per la sopravvivenza lo impegnava completamente e in questa battaglia egli dovette acquisire un’enorme conoscenza dei fenomeni naturali che influenzavano la sua vita e determinavano il suo lavoro; meglio li conosceva, meno precaria diventava la sua vita. Fu in questo modo, quindi, che i fenomeni astronomici entrarono a far parte della sua vita, del suo ambiente e delle sue attività catturando la sua attenzione. La scienza nacque così, non come un bisogno astratto di verità e di conoscenza, ma come parte dell’esistenza, come una esigenza spontanea determinata dai bisogni sociali.

Il fenomeno astronomico dell’alternarsi del giorno e della notte regolava la vita dell’uomo e degli animali. Le tribù primitive stabilivano con gran precisione l’ora del

giorno dall’altezza del Sole, avendo bisogno di regolare il loro lavoro durante la giornata. I missionari ci riportano come gli aborigeni in giorni sereni si radunassero in assemblee sempre alla stessa ora, mentre nei giorni nuvolosi potessero sbagliarsi sull’orario. Anche i contadini europei ne erano in grado finché gli orologi davanti alle chiese e gli orologi da tasca lo resero superfluo. Quando fu necessario un metodo più preciso per calcolare la durata del giorno iniziarono a contare a passi la lunghezza dell’ombra.

L’altro principale fenomeno determinante per le attività dell’uomo è l’alternarsi delle stagioni: ad alte latitudini l’alternarsi di un inverno improduttivo e un’estate abbondante; più vicino all’equatore l’alternarsi di stagioni secche e piovose. I cacciatori e i pescatori primitivi svolgevano le loro attività dipendendo completamente dai cicli vitali e dalle migrazioni degli animali. Contadini e pastori regolavano il lavoro, la semina, il raccolto, e anche il loro nomadismo con le stagioni dell’anno. Essi erano guidati dalla loro esperienza nel riconoscere i cambiamenti dell’aspetto della natura.

L’attenzione ai fenomeni celesti divenne necessaria quando il lavoro si fece più complesso. Quando i nomadi od i pescatori diventarono mercanti viaggiatori, sentirono il bisogno di orientarsi e usarono per questo scopo i corpi celesti, durante il giorno il Sole, durante la notte le stelle e a queste furono rivolti gli occhi e la mente dell’uomo. I nomi alle stelle vennero dati nella prima letteratura araba; nel Pacifico i polinesiani e i micronesiani, che erano esperti navigatori, usavano le stelle per determinare le ore della notte. I punti dove sorgevano e tramontavano servivano loro come compassi celesti e durante la notte dirigevano i loro vascelli verso questi punti. Nelle scuole i

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giovani imparavano l’arte dell’astronomia per mezzo di sistemi di sfere. Tale scienza autoctona si perse quando si verificò il contatto con gli europei che rovinarono queste popolazioni sia fisicamente che moralmente.

Il bisogno di misurare intervalli di tempo fu un secondo incentivo che portò a una più precisa osservazione dei fenomeni celesti. La misura del tempo fu, a parte quella della navigazione, la più antica pratica astronomica, dalla quale si sviluppò più tardi la scienza. I periodi del Sole e della Luna erano le unità naturali per il computo del tempo, ma talvolta, come curioso prodotto di un’elevata conoscenza, apparvero altri periodi, come quello di Venere usato dai Messicani e quello di Giove usato dagli Indiani. Il Sole impone il suo periodo di un anno con le stagioni, mentre il periodo delle fasi lunari è più conciso e, a causa della sua brevità, è anche più pratico. Quindi, il calendario era generalmente regolato dalla Luna eccetto dove i cambiamenti climatici stagionali imponevano i loro ritmi.

I popoli nomadi regolavano il loro calendario tramite il periodo sinodico di 29½ giorni in cui ricorrono le fasi lunari. Ogni volta che la Luna nuova - chiamata crescente a causa della sua gobba - appare come un sottile arco nel cielo serale a ovest, inizia un nuovo mese di 29 o 30 giorni; quindi le ore del giorno iniziano alla sera. Così la Luna divenne l’oggetto più importante dell’ambiente naturale dell’uomo. L’ebreo Midrash dice: «La Luna è stata creata per contare i giorni». Libri antichi di diverse popolazioni riportano tutti che la Luna serviva per le misurazioni del tempo. Queste erano le basi per i culti lunari: l’adorazione della Luna come un essere vivente le cui fasi regolano il tempo. La Luna nuova e la Luna piena, che rompe il buio della notte, erano addirittura celebrate con cerimonie e offerte.

Non risultano solo adorazioni ma anche precise osservazioni, come è mostrato in una curiosa divisone dello zodiaco in 27 o 28 “stazioni lunari”. Queste stazioni sono piccoli gruppi di stelle distanti circa 13° uno dall’altro, così che la Luna nel suo corso

lungo la sfera celeste occupa ogni notte la stazione successiva. Le stazioni lunari erano conosciute dagli arabi come menazil o manzil, dagli indiani come nakshatra (cioè stelle), e dai cinesi come hsiu. Per queste tre popolazioni le stazioni lunari erano la stessa cosa e quindi è stato supposto che essi lo avessero derivato uno dall’altro. Ci sono opinioni differenti su quale dei tre popoli sia stato l’inventore originale delle stazioni lunari oppure su chi abbia ricevuto queste conoscenze dai centri culturali mesopotamici.

In ogni caso, un’origine indipendente non sembra possibile, anche se molte di queste stazioni lunari costituiscono dei gruppi naturali di stelle, più naturali spesso delle dodici costellazioni dello zodiaco. La testa dell’Ariete, la parte posteriore dell’Ariete, le Pleiadi, le Iadi con Aldebaran, le corna del Toro, i piedi dei Gemelli, i Gemelli Castore e Polluce, il Cancro, la testa del Leone con Regolo e la sua parte posteriore con Denebola sono, infatti, tutti gruppi cospicui. Comunque ci sono identità di gruppi di stelle meno ovvi e meno naturali che potrebbe suggerire mutui scambi. È risaputo che ci furono molti scambi culturali tra la Cina e l’India e tavolette con antichi testi sumeri sono state ritrovate nel Sindh.

Il periodo lunare è, quindi, la più antica unità per il calendario. Ma, anche con la sola misura lunare del tempo, l’anno – il grande periodo della natura – appare diviso in dodici mesi, cioè dodici differenti e consecutivi nomi di mesi indicanti un aspetto stagionale: il mese delle piogge, degli animali giovani, della semina o del raccolto. Si sviluppò comunemente la tendenza di una stretta coordinazione tra la misura del tempo lunare e quella solare.

Le popolazioni di agricoltori, a causa della natura del loro lavoro, erano fortemente legate all’anno solare: era la natura stessa che l’imponeva ai popoli delle alte latitudini. Gli Eschimesi del Labrador non avevano un nome per il periodo di buio invernale poiché il lavoro all’aperto veniva interrotto, mentre avevano quattordici nomi per i rimanenti periodi dell’anno. Molti popoli, infatti,

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lasciavano senza nome i mesi in cui l’agricoltura era sospesa: i romani avevano originariamente solo dieci mesi (infatti, i nomi da settembre a dicembre significano settimo, ottavo, nono, decimo) e solo in seguito aggiunsero gennaio e febbraio. I nostri calendari moderni, senza alcuna correlazione con le fasi lunari, hanno però mantenuto la tradizionale divisione in dodici mesi usata anticamente nel computo del tempo.

Molte popolazioni agricole nei loro calendari usavano sia i mesi sia l’anno, in particolare nei paesi più a sud dove le differenze tra le stagioni dell’anno sono minime. Infatti i polinesiani e i popoli dell’Africa avevano cerimonie regolari per la Luna piena, ma le feste per il raccolto dipendevano dalle stagioni dell’anno. Essi sapevano quanti mesi dovevano trascorrere tra la semina e il raccolto e quale fosse il giusto mese per raccogliere i frutti selvatici e per la caccia.

In questo modo sorse una difficoltà: le date della Luna piena e della Luna nuova nell’anno solare si muovevano avanti e indietro così che le fasi lunari potevano non coincidere sempre con una determinata stagione. Allora, le stelle, già conosciute tramite il loro moto e la loro orientazione, offrirono una soluzione migliore. Attente osservazioni rivelarono che la posizione delle stelle alla stessa ora della notte cambiava regolarmente con le stagioni. Gradatamente la stessa posizione era occupata in anticipo durante la notte; le stelle più a ovest scomparivano al tramonto e all’alba nuove stelle emergevano all’orizzonte orientale, apparendo sempre prima nei mesi successivi. Questo apparire al mattino e scomparire la sera, chiamati levata e tramonto eliaci, determinati dal corso annuale del Sole sull’eclittica, si ripetevano ogni anno alla stessa data. La stessa cosa accadeva con la levata e il tramonto acronici, cioè nel momento in cui una stella sorgeva al tramonto (la fine del periodo osservabile) o calava appena prima dell’alba. Gli aborigeni dell’Australia

sapevano che la primavera iniziava con il sorgere delle Pleiadi nella sera. Nello Stretto di Torres, per determinare il momento della semina, veniva effettuata una precisa osservazione all’alba per l’apparizione di una stella luminosa chiamata Kek, probabilmente Canopo o Achernar. Sull’isola di Giava i dieci mangsas (cioè mesi) erano determinati dalle posizioni della cintura di Orione; quando questa era invisibile, i lavori nei campi cessavano e il suo sorgere al mattino dava inizio alla stagione agricola.

I fenomeni celesti non erano i soli modi per fissare le date dell’anno solare, infatti anche il Sole stesso veniva usato. I Kindji-Dayaks, che vivevano nel Borneo a due gradi e mezzo di latitudine nord, usavano la lunghezza dell’ombra di un bastone verticale a mezzogiorno; il primo mese corrispondeva a un ombra assente, il secondo e il terzo mese corrispondevano a un ombra lunga rispettivamente un mezzo e due terzi della parte superiore del bastone. Presso il fiume Mahakam le festività per l’inizio della semina erano determinate dal tramonto del Sole in un punto all’orizzonte segnato da due grandi rocce.

I sacerdoti degli indiani Zuni fissavano il giorno più lungo e il più corto, celebrandolo con molte cerimonie, tramite attente osservazioni del punto più a nord e di quello più a sud di levata del Sole; e questo era lo stesso per gli Eschimesi nel loro paese, dove a causa dell’alta latitudine, il metodo era più accurato che in ogni altro luogo.

La necessità di dividere e regolare il tempo ha portato in vari modi i popoli primitivi e le tribù a osservare i corpi celesti e, quindi, alla scoperta delle conoscenze astronomiche. Possiamo essere sicuri — e questo è confermato da tradizioni storiche — che queste conoscenze si sono sviluppate nei periodi preistorici. Da queste premesse possiamo affermare che la scienza, al sorgere della civilizzazione, sia emersa per prima in Oriente, tra i popoli di più antica cultura.

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CAPITOLO 2

AGRICOLTURA E CALENDARIO Da una moltitudine di tribù che vivevano in condizioni barbare, nacquero, tra il 4000 e il 1000 a.C., grandi popoli nelle fertili pianure della Cina, dell’India, della Mesopotamia e dell’Egitto. Essi rappresentarono un elevato stadio di cultura del quale sono stati ritrovati documenti scritti. Le precedenti comunità indipendenti di contadini e di abitanti delle città, con i loro capi tribù e re urbani, le loro divinità locali e le loro forme di culto, si mescolarono in più grandi unità politiche. La straordinaria fertilità delle sabbie alluvionali, che davano buoni prodotti, fornirono benefici per una classe separata di funzionari e sovrani. Questa organizzazione dapprima nacque dal bisogno di una regolazione centrale dell’acqua: i grandi fiumi che irrigavano queste pianure, il Nilo, l’Eufrate e l’Hwang Ho, avevano i loro letti pieni di sabbia e straripavano in certi mesi dell’anno, irrigando le pianure, devastandole oppure fertilizzandole o altre volte scavando un nuovo letto. L’acqua fu così necessariamente direzionata e controllata da dighe, furono scavati i letti dei fiumi, e solcati nuovi canali. Questo controllo, però, non poteva essere lasciato agli organismi locali, perché creava spesso conflitti d’interesse. Fu necessario, quindi, un controllo centralizzato, in quanto solo una forte autorità centrale poteva garantire che gli interessi locali non prevalessero sugli interessi generali: solo così fertilità e prosperità furono assicurate. Ma quando il paese si disgregò in comunità guerrigliere più piccole e le dighe e i canali furono privatizzati, il terreno si seccò o fu inondato e le persone morirono di fame: l’ira degli dèi cadde sulla terra.

Un forte potere centrale si rese necessario anche per difendere le pianure fertili dagli attacchi degli abitanti delle montagne e dei deserti vicini. Questi popoli vivevano una

misera esistenza nelle loro zone e quindi si dedicavano al saccheggio e a chiedere tributi ai vicini benestanti. Fu necessaria una divisione degli incarichi; si sviluppò, allora, una casta di guerrieri che con i suoi comandanti simili a re divenne una classe dirigente che controllava l’eccesso di produzione delle fattorie. Oppure i vicini nomadi si trasformarono da predoni in conquistatori e si stanziarono nelle fattorie come una aristocrazia dirigente che le avrebbe protette da altri aggressori mentre in altri casi il risultato fu un forte potere statale centralizzato.

Queste vicende, che si ripetevano di volta in volta, rappresentano in breve la storia di questi paesi. Ripetutamente i popoli barbari li invasero e ne assoggettarono gli abitanti, qualche volta rimanendo come distaccati legislatori superiori, come i Manciù in Cina, i Mongoli in India, gli Hyksos in Egitto, altre volte mescolandosi con il popolo o rimpiazzando completamente gli abitanti, come gli Ariani in India e i Semiti in Mesopotamia. Sebbene molte culture fossero distrutte dalla conquista, gli invasori, successivamente, adottarono e assimilarono il preesistente stato di civilizzazione e spesso gli diedero anche nuovo vigore. Dopo molte generazioni, avendo perso le loro origini barbare, anche i conquistatori stessi divennero oggetto di attacchi da parte di nuovi aggressori.

In questi imperi il principe era il legislatore, il governante della giustizia e il comandante di un governo di militari, i quali, come capi delle strutture civili, costituivano una seconda classe dirigente insieme a quella militare. Solitamente, questa era costituita da sacerdoti che un tempo costituivano la classe intellettuale locale e ora si erano raggruppati in una gerarchia vera e propria. La classe

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sacerdotale era la guida spirituale della società e dello stato. Essa deteneva le conoscenze teoriche e generali necessarie nel processo di produzione: questa era la causa del suo prestigio e del suo potere sociale. Dove l’agricoltura era la principale occupazione la conoscenza del calendario e delle stagioni era dominio dei sacerdoti. Anche la religione, come lo stato e la società, erano centralizzati; le locali divinità delle principali cittadine erano radunate in un panteon sotto un dio supremo, mentre quelle locali dei paesi minori o conquistati erano degradate a livelli di spiritualità più bassi o conglobati in altre divinità. In tal modo nell’antica Babilonia le dee Innina, Nisaba e Nana furono unite con il più tardo dio Ishtar. Il fatto che Borsippa divenne un sobborgo della crescente città di Babilonia trovò la sua espressione teologica nel suo dio Nabo che divenne figlio di Marduk. Sebbene Ea, Anu e Enhil — le divinità dei più antichi centri di cultura Eridu, Uruk e Nippur — fossero rimaste sempre le più venerate, dopo il 2000 a.C. l’egemonia politica di Babilonia fece in modo che il dio Marduk fosse il dio supremo del panteon. Quando, nei secoli successivi, gli Assiri ebbero il controllo del mondo mesopotamico, Ashur prese il posto di Marduk. Organizzati gerarchicamente gli dèi persero i loro caratteri locali e divennero sempre più personificazioni dei poteri naturali. Le divinità Sin di Ur e Shamash di Sippara in tempi successivi vennero venerati come dio della Luna e dio del Sole.

Il sorgere di un gruppo di persone come classe dirigente che non aveva più bisogno di garantire la propria esistenza attraverso il duro lavoro portò a nuove condizioni di vita. La struttura sociale divenne più complessa e la guida spirituale domandava alte qualifiche e avanzava grandi pretese. Gli affari e il commercio richiedevano nuovi bisogni materiali e spirituali e, con la ricchezza e la sontuosità dei monarchi e dei signori, nacque l’interesse per le arti e le scienze. Così, per la prima volta sulla Terra, insieme con la nuova struttura sociale, nacquero elevate forme di cultura le quali superavano

molte di quelle sviluppatesi durante il barbarismo preistorico: l’era della civilizzazione era iniziata.

Questo coinvolse anche un grande sviluppo dell’astronomia, che derivò direttamente dalla necessità di controllare e misurare il tempo e, più precisamente, dalla necessità di adattare il calendario lunare all’anno solare.

Un periodo lunare è di circa 29,53059 giorni; un anno solare è composto da 365,24220 giorni, cioè 12 periodi lunari (che sono 354,3671 giorni) più 11 giorni. Dopo tre anni, il calendario lunare è 33 giorni indietro rispetto a quello solare. Con lo scopo di rimanere in accordo con il Sole, ogni tre anni — e a volte più spesso — deve essere aggiunto un mese, così che l’anno risulta di 13 mesi invece di 12. Il problema del calendario consiste nel trovare un periodo più lungo che sia un multiplo comune del mese e dell’anno, in modo tale che, dopo questo periodo, Sole e Luna tornino nelle reciproche posizioni. Un multiplo comune esatto, ovviamente, non esiste, ma possono essere trovate delle approssimazioni più o meno soddisfacenti. Con le nostre precise conoscenze del periodo lunare e di quello solare siamo in grado di dedurre teoricamente periodi abbastanza approssimati. In pratica, si converte il loro rapporto in una frazione continua e si scrivono le successive approssimazioni. Così si trovano le due frazioni 8/99 e 19/235. La prima indica che 8 anni corrispondono a 99 mesi (più o meno tra 2921,94 e 2923,53 giorni), così che 3 di questi 8 anni devono avere 13 mesi e 5 solo 12 mesi. Questa approssimazione non è però molto buona; dopo solo 24 anni la data lunare è 5 giorni in ritardo rispetto alle stagioni solari. Molto più preciso è il periodo di 19 anni che contiene 235 mesi (più o meno tra 6939,60 e 6939,69 giorni); il tredicesimo mese va intercalato qui sette volte. Di certo, in tempi più lontani i popoli non avevano una così precisa conoscenza dei periodi; il fatto di trovare un buon calendario, per loro era un difficile problema pratico, che poteva essere risolto solo da un laborioso processo di adattamento

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delle misure lunari a quelle solari. Così questo problema fu il motore trainante verso più accurate osservazioni dei fenomeni celesti.

La domanda che ci si può porre è perché fosse richiesta una così grande precisione, che andava molto oltre le necessità dell’agricoltura che a causa delle variazioni del tempo era abbastanza irregolare nelle sue attività. Dobbiamo ricordare che a quei tempi le attività agricole erano associate a cerimonie e festività religiose. Le feste associate all’agricoltura erano, allo stesso tempo, sia grandi avvenimenti sociali che cerimonie religiose. Gli dèi, come rappresentanti delle forze dominanti naturali e sociali, prendevano parte alla vita dell’uomo; ciò che era necessario o socialmente adeguato divenne un comandamento degli dèi, strettamente fissato nelle cerimonie. Ciò che secondo natura si sarebbe svolto in una determinata stagione, come ad esempio il raccolto, fu fissato come festa religiosa in una data prestabilita.

Il servizio agli dèi non consentiva alcuna disattenzione e ciò richiedeva una precisa osservanza dei riti: il calendario era essenzialmente l’ordine cronologico dei riti e questo ne faceva un oggetto continuamente curato da parte dei funzionari incaricati, specialmente dei sacerdoti, e che, a causa del monopolio della conoscenza dei tempi propizi, era anche sorgente del loro potere sociale.

Alcuni esempi sorprendenti che ci sono giunti riguardano come le pratiche agricolo-religiose portarono a un calendario luni-solare definitivo. Il calendario ebreo che, ovviamente, ha avuto origine nel deserto, era un calendario di tipo lunare, ma, quando gli ebrei arrivarono nella terra di Canaan, l’agricoltura divenne la loro principale occupazione e quindi il calendario fu adattato al Sole. In primavera si teneva la festa del raccolto chiamata massôth: venivano offerti i primi covoni d’orzo e pane azzimo veniva impastato con il primo grano. Questa celebrazione si univa alla festa nomade del passah, cioè l’offerta di agnelli

appena nati a Geova durante la Luna piena nel periodo invernale. Allora, questa festa venne fissata alla Luna piena del primo mese, chiamato Nisan. Come fu determinata questa tradizione lo possiamo leggere nel grande libro di cronologia di Ginzel:

«Verso la fine del mese precedente la festa, i preti ispezionavano lo stato di maturazione della messe nei campi per capire se l’orzo poteva essere tagliato entro le due successive settimane. Se vedevano che era così, la festa di Massôth-Passah veniva fissata nel mese che iniziava con la nuova Luna; ma se non era ancora il momento della mietitura allora la festa veniva posposta di un periodo lunare. Questo determinava tutte le altre festività»[1] Questo metodo empirico fu usato dagli

israeliti finche essi vissero insieme in Palestina. Quando successivamente si dispersero, questo metodo cadde in disuso; ma ormai l’astronomia era progredita così tanto che essi poterono adottare dai popoli confinanti nuove conoscenze calendariali. Il periodo di 19 anni, con una fissa alternanza di 12 anni di 12 mesi e di 7 anni di 13 mesi, divenne la base del calendario ebraico.

Un altro esempio è dato dagli sviluppi astronomici in Arabia prima della venuta di Maometto. Nei mesi sacri, veniva eseguito un sacrificio di sangue e le carovane potevano viaggiare senza pericolo, il che era necessario per la vita economica. Gli interminabili conflitti tra le tribù erano abbastanza normali e il sacrificio di sangue, come una primitiva forma giuridica di solidarietà tra i membri delle tribù, era necessario, ma la sua illimitata influenza avrebbe reso impossibile il commercio e le provvigioni di cibo. Masudi dice:

«Il mese Safar prende il suo nome dal commercio nello Yemen […] lì gli arabi compravano il loro grano e chiunque omettesse di fare così sarebbe morto di fame»[2] Il mese sacro era il mese dei mercati; da

ogni dove, le carovane viaggiavano verso le grandi città del commercio come la Mecca, famosa per la sua incomparabile fresca sorgente, chiamata Zemzem, causa della sua importanza come meta di pellegrinaggio in

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Arabia. Qui le varie tribù si incontravano e parlavano, e il luogo di assemblea divenne il centro religioso e politico. Fu così necessario che il mese sacro cadesse nel periodo dell’anno, in cui i prodotti erano pronti per essere raccolti. Albiruni, un dotto musulmano,scrive:

«Nei tempi pagani gli Arabi ripartivano i loro mesi come fanno adesso i musulmani e il loro pellegrinaggio si effettuava attraverso tutte le quattro stagioni dell’anno. Quindi essi risolsero di fissare il loro pellegrinaggio nel momento in cui i loro manufatti, le loro pelli e i loro frutti erano pronti per essere commerciati; così cercarono di fissarlo nella stagione di maggiore prosperità. Poi impararono dagli Ebrei il sistema delle intercalazioni, circa 200 anni prima dell’Egira. Essi applicavano questo metodo nello stesso modo in cui lo facevano gli Ebrei, cioè aggiungendo ai mesi la differenza tra il loro anno e l’anno solare, quando doveva essere incrementato di un mese. Poi il Kalammas (lo Sceicco della tribù che era in quel momento responsabile di questa pratica) alla fine delle cerimonie del pellegrinaggio si mostrava in pubblico e, parlando al popolo, intercalava un mese dando al mese successivo lo stesso nome del mese in corso. Il popolo esprimeva l’approvazione alla decisione del Kalammas con il suo applauso.

Questa procedura era chiamata Nasi, cioè slittamento, in quanto ogni due o tre anni l’inizio dell’anno veniva slittato […] Essi potevano capirlo dopo la nascita e il tramonto dei menazil. E così rimase fino alla fuga del Profeta dalla Mecca a Medina»[3] Nel nono anno dopo l’Egira, Maometto

proibì questo slittamento, forse per spezzare il potere spirituale del Kalammas togliendogli questa funzione e, in più, per separarsi più nettamente dagli Ebrei. Così, successivamente, il calendario maomettano fu basato sull’anno lunare di 354 giorni, consistente di 12 mesi lunari che in 33 anni ripercorrevano tutte le stagioni. Abbiamo, quindi, un calendario che si è allontanato dalle pratiche sociali di prescrizioni formali e si è modificato in una tradizione religiosa pietrificata, conforme a un primitivo modo di vivere beduino.

Tutto ciò offre un esempio di come il calendario e l’astronomia si siano sviluppati in modi diversi tra differenti popoli, in conseguenza delle diverse condizioni economiche e politiche.

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CAPITOLO 3

L’ANTICA VISIONE BABILONESE DEL CIELO Fin dai tempi più remoti dai quali ci siano pervenute delle informazioni, la terra di Shinar, che comprendeva le pianure tra il Tigri e l’Eufrate, fu abitata da due differenti popoli: la parte nord, Akkad, dalla razza dei Semiti, e la parte sud dai Sumeri, due popoli con linguaggio, aspetto e costumi molto differenti. I Sumeri furono gli abitanti originari o i primi a stabilirsi nella zona, mentre i Semiti immigrarono successivamente in numero sempre maggiore dai deserti dell’ovest. La lingua sumera non manifestò connessione con quella semitica o indo-europea, ma piuttosto con quella turaniana; comunque i costumi di questo popolo di antica cultura erano sconosciuti. Nei secoli successivi al 3000 a.C., le città sumere del sud (Eridu sul mare, Ur al margine del deserto, Uruk, Lagash, Nippur, Larsa) mostrarono una cultura più elevata; una di queste di solito aveva l’egemonia. I Semiti, nelle città del nord (Agade, Sippar, Borsippa, Babilonia), adottarono questa cultura e in seguito all’immigrazione divennero sempre più la razza dominante. Quando, verso il 2500 a.C., Sargon di Agade e, più tardi, suo figlio Naram-Sin regnarono sull’intera Mesopotamia, l’organizzazione militare era nelle mani dei Semiti, mentre gli scribi e gli ufficiali civili erano Sumeri. Nei secoli seguenti, il potere politico tornò al sud, dove i sovrani di Lagash e Ur si autonominarono “Re dei Sumeri e di Akkad”. Dopo il 2000 a.C. i Semiti, attraverso l’immigrazione delle tribù amoritiche dall’ovest, ottennero la definitiva preponderanza. Allora, sotto la dinastia di cui Hammurabi è l’esponente più conosciuto, la città di Babilonia divenne la capitale di un grande impero e un grande centro commerciale e culturale.

I Sumeri furono gli inventori della scrittura cuneiforme, nella quale ciascun suono,

consistente di una vocale e di una o due consonanti, veniva rappresentato da un carattere speciale. Questi caratteri venivano scritti per mezzo di incisioni, da una parte larghe, dall’altra strette, eseguite con uno stilo — una punta di metallo — su una morbida tavola di creta, che veniva poi resa più dura mediante cottura. Questo modo di rendere le sillabe attraverso caratteri era assolutamente adatta a un linguaggio agglutinato come quello dei Sumeri, dove parole separate e radici erano semplicemente unite insieme. I Semiti adottarono questa scrittura cuneiforme nonostante fosse piuttosto macchinosa per la loro lingua, con le sue modulazioni di radici. Quando Babilonia diventò il centro culturale dell’intero Vicino Oriente, la sua lingua e la scrittura cuneiforme vennero usate per i rapporti internazionali fino all’Egitto e all’Asia Minore.

Pertanto la decifrazione della scrittura cuneiforme e delle lingue scritte fu uno dei più grandi risultati del diciannovesimo secolo, che portò alla luce un pezzo di storia e cultura che altrimenti sarebbe andato completamente perso. Conoscenze precedenti, per lo più da fonti greche, frammentarie e in forma di aneddoti, non andavano più indietro del 700 a.C. Quando Henry Layard, nel 1846, influenzato dai primi scavi del console francese Botta, scavò nel sito della vecchia Ninive, dissotterrò sculture magnifiche, bassorilievi di scene di caccia, tori alati e draghi. Layard venne colpito dalla moltitudine di cocci con iscrizioni cuneiformi che vi giacevano attorno e, intuendo il loro valore, inviò casse di questi cocci, insieme alle opere d’arte, al British Museum. La loro importanza fu compresa molti anni dopo, quando George Smith decifrò alcuni testi che contenevano un racconto del Diluvio e venne inviata una

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spedizione per collezionarne quanti più possibile. Questi, che si rivelarono essere i resti della “biblioteca” del re Ashurbanipal e comprendevano nuove iscrizioni, copie di testi dai secoli più remoti, dizionari e materiali lessicografici, fornirono un forte impulso allo studio della vecchia cultura mesopotamica (per questo chiamata “assiriologia”). All’inizio, gli assiriologi erano confusi dalla mescolanza di due lingue interamente differenti: solitamente ciascun carattere veniva usato come un suono — preso in prestito come sillaba per il semitico dal linguaggio sumerico — ma spesso lo stesso carattere veniva usato come un “ideogramma”, un simbolo per una cosa, un concetto, secondo il suo significato sumero. In questo modo i due linguaggi vennero gradatamente decifrati. Pertanto, questi frammenti letterari, completati dai testi pervenuti dalle rovine di altre vecchie città, svelarono sempre più chiaramente la storia e la cultura dei tempi antichi.

Anche grazie a ciò venne alla luce un’antica e sconosciuta storia dell’astronomia e, in questo vecchio mondo riscoperto, i corpi celesti assunsero una grande importanza, rispetto a ogni altro paese o epoca. La ricostruzione di questa antica conoscenza da piccoli e sparsi frammenti fu certamente difficoltosa e soltanto attraverso vaghe supposizioni, congetture azzardate, false interpretazioni e teorie insostenibili ci si poté gradualmente avvicinare alla verità. Per molti anni ebbe una grande reputazione la teoria di Hugo Winckler — il cosiddetto “pan-babilonismo” — secondo la quale nei tempi più remoti, tra il 3000 e il 2000 a.C., in quei paesi sarebbe già esistita una scienza astronomica altamente sviluppata, basata su una completa conoscenza dei periodi celesti e dello spostamento dell’aspetto delle costellazioni attraverso la precessione degli equinozi. Il pan-babilonismo sosteneva come questo mondo primordiale, caratterizzato da una “mitologia astrale” che affermava una stretta correlazione fra fenomeni terreni e celesti, fosse l’origine di tutto i sistemi di pensiero successivi orientali e greci e avesse

determinato leggende, tradizioni e costumi anche fino ai tempi moderni e in luoghi distanti dell’Europa. Questa teoria allettante, ma estremamente fantasiosa, si rivelò indifendibile quando i testi furono successivamente sottoposti a studi più attenti. La nostra attuale conoscenza della scienza astronomica babilonese è basata principalmente sul lavoro di tre scolari gesuiti, l’assiriologo N. Strassmaier e gli astronomi J. Epping e F.X. Kugler.

Nell’epoca del primo regno babilonese si raggiunse il culmine del potere economico-politico e della vita culturale: il commercio e la manifattura prosperavano e Babilonia, una tra le più importanti città commerciali, era non solo la metropoli del grande impero mesopotamico, ma un centro culturale che aveva influenza su tutto il Vicino Oriente. È qui che gli esiti dei secoli precedenti di cultura sumera si compirono e il sistema teologico assunse una forma valida per i tempi successivi. La struttura della vita civile ci è ben nota grazie al famoso “codice di Hammurabi”, inciso su una pietra dissotterrata a Susa nel diciannovesimo secolo. Tra molte tavolette di argilla portate alla luce troviamo numerosi contratti civili sull’acquisto e sulla vendita di terra, di prestito di denaro, affitto e servizio, che sono stati depositati e conservati nei templi come se questi ultimi fossero uffici notarili. Attraverso questi abbiamo potuto rivelare i segreti del calendario, della sequenza dei nomi e delle date dei re, che servono come base per la storia.

Tra i nomi sumeri dei dodici mesi che si usavano sotto re Dungi di Ur — i nomi dei mesi variavano da luogo a luogo — troviamo il nome del quarto mese composto dai caratteri che significavano seme e mano, quello per l’undicesimo mese dai caratteri che significavano grano e taglio e quello per il dodicesimo mese dai caratteri significanti grano e casa: la stagione veniva quindi indicata chiaramente. Cosicché possiamo capire perché l’undicesimo mese è stato duplicato per intercalazione. Dopo l’ascesa di Babilonia entrarono in uso i nomi semitici dei mesi: Nisannu, Airu, Simannu, Duzu,

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Abu, Ululu, Tishritu, Arach-samma, Kislimu, Tebitu, Sabatu, Adaru. Nei testi astronomici essi sono indicati da caratteri singoli, le prime sillabe dei loro precedenti nomi sumeri.

Nel vecchio regno di Babilonia il mese intercalato era un secondo Adaru, alla fine dell’anno. La mancanza di regolarità in queste intercalazioni, come dimostrato dalle date dei contratti civili, ne mostra un’origine empirica, secondo la maturità dei raccolti o quando altrimenti sembrava necessario; si sono verificati anche due anni consecutivi con 13 mesi, quando il calendario era troppo sfasato. Varie volte, quando un’irregolarità doveva essere corretta rapidamente, il sesto mese veniva duplicato. Esiste un documento di un caso simile, che cita:

«Così Hammurabi dice: “Poiché l’anno non è buono, il mese prossimo deve essere considerato come un secondo Ululu. Invece di consegnare le decime a Babilonia il venticinquesimo giorno di Tishritu, fatele consegnare il venticinquesimo del secondo Ululu”»[4] La consegna di cibo per la corte,

naturalmente, non sarebbe potuta essere rimandata di un mese.

L’osservazione di alcuni fenomeni celesti era necessaria per il calendario. Per fissare il primo giorno esatto del mese, la Luna nuova doveva essere presa al suo primo giorno di apparizione. Questo non era così difficile; in quel clima meravigliosamente sereno (eccetto alcuni mesi dell’inverno e bufere di sabbia occasionali), con una visibilità chiara che spaziava larghe pianure senza interruzione, i sacerdoti-astronomi, dalle loro torri a terrazza, potevano individuare facilmente il primo sottile arco lunare nel cielo serale. Essi dovevano prestare attenzione anche alla Luna piena, per scopi cerimoniali, e osservare a scopo di predizione, verso la fine del mese, l’ultima apparizione nella mattina della Luna crescente. Si può, allora, dubitare che, così facendo, non notassero le stelle che in silenzio tracciavano i loro corsi, anticipando ogni mese il loro cammino? O che non fossero stati attratti dai pianeti brillanti che

apparivano ogni tanto tra quelle e, soprattutto, dall’incomparabile stella della sera? Ci sono pochi testi che si occupano di questo; anche con quei cieli sereni la mente dei primi Babilonesi non era stata occupata dalle stelle, così come si è spesso supposto. Ma è estremamente probabile — e questo è supportato da alcuni testi — che l’osservazione regolare della Luna avesse condotto gradatamente a un interesse pratico crescente per le stelle.

Il primo fenomeno che si manifesta nell’osservazione della Luna nuova è la progressione regolare e lo spostamento delle costellazioni nel corso dell’anno. Le stelle visibili nel cielo serale occidentale sono caratteristiche della stagione e perciò possono fornire una verifica del calendario e dell’intercalazione, il che vale anche per la prima apparizione delle stelle nel cielo orientale della mattina. L’intercalazione per mezzo del regolare sorgere e tramontare eliaco delle stelle, quindi, deve avere sostituito gradatamente il metodo empirico irregolare di osservare i raccolti. Un’indicazione positiva può essere trovata in un elenco (una copia assira di un originale precedente e di datazione sconosciuta) di 36 nomi di stelle o di costellazioni, tre per ogni mese, dei quali il primo di ogni gruppo di tre era chiaramente collegato al sorgere eliaco in quel mese. Per il mese Nisannu troviamo Dilgan (cioè l’Ariete e la Balena), per Airu il primo nome è Mulmul (le Pleiadi; mul vuole dire “stella”), per Simannu è Sibziannu (Orione) e così via. C’è poi un altro testo, molto danneggiato, che registra:

«La stella Dilgan appare nel mese Nisannu; quando la stella non si vede il mese deve […] la stella Mulmul appare nel mese di Airu […]»[5] L’apparizione o il ritardo nell’apparizione

della stella ha dei chiari significati per alcune azioni.

In un grande mito della creazione risalente ai tempi del primo impero babilonese si racconta come Marduk, il dio locale di Babilonia, si fosse guadagnato la supremazia sugli dèi sconfiggendo il mostro Tiamat (Chaos) e come avesse costruito il cielo e la

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terra con le parti del suo corpo. «Egli ha creato le stazioni per i grandi dei, le stelle, le loro immagini, le costellazioni egli ha fissato; egli ha ordinato l’anno e lo ha diviso in parti. Per i dodici mesi egli ha fissato tre stelle. Egli ha fatto in modo che il dio della Luna splendesse e gli ha affidato la notte. Egli ha scelto lui, un essere della notte, per determinare i giorni»[6] E così noi vediamo che molte stelle e

costellazioni erano già note e nominate. Non sembra che le dodici costellazioni dello zodiaco fossero tra le prime conosciute o occupassero un posto privilegiato. Qualche prova si potrebbe trovare, forse, nel fatto che l’epopea di Gilgamesh, che presenta molte caratteristiche di un mito solare, è divisa in dodici canti, che corrispondono ognuno a un segno zodiacale. Ma questa divisione può essere causa di una versione successiva. Non sembra che i pianeti avessero un ruolo; il calendario si occupava solo di stelle fisse.

Questa conoscenza delle stelle persistette anche durante la decadenza politica nei secoli successivi, quando Babilonia fu dominata dai Cassiti, conquistatori orientali, e i paesi occidentali erano un campo di battaglia dell’espansione egiziana e ittita. I dati di questo periodo ci pervengono dalle pietre di confine (i kudurru), rese sicure da ogni spostamento grazie alla protezione degli dèi, le cui immagini vi erano incise. Là, oltre a figure che rappresentano il Sole, la Luna e, forse, Venere, se ne trovano altre che si suppone rappresentino costellazioni: un toro, una spiga, un cane, un serpente, uno scorpione e una capra a coda di pesce, come venne rappresentata successivamente la costellazione del Capricorno. Gli scavi in Bogazkoy in Asia Minore, una volta luogo della capitale ittita, hanno portato alla luce mattoni con iscrizioni che richiamano le divinità babilonesi; tra queste appaiono molti nomi di stelle e di costellazioni come, per esempio, le Pleiadi, Aldebaran, Orione, Sirio, Fomalhaut, l’Aquila, i Pesci, lo Scorpione. Il carattere che identifica lo Scorpione — gir-tab — è composto da due

caratteri che significano pungiglione e tenaglie, con il pungiglione rappresentato dalla coppia di stelle luminose λ e υ Scorpii, proprio come fu disegnato successivamente dai Greci, che presero in prestito questa costellazione dai Babilonesi. Un testo molto discusso, proveniente da Nippur, afferma che le distanze dalla stella Arturo del pungiglione e della testa dello Scorpione, espresse con molte cifre sessagesimali, sono, rispettivamente, 9 volte e 7 volte una certa quantità; questo sembra implicare che le distanze celesti in quel periodo fossero misurate con una certa accuratezza. Quando si poté completare il testo grazie ad altre tavole, si trovarono rapporti analoghi per altre stelle (9 a 11, a 14, a 17, a 19) e lo scritto apparve semplicemente come un testo matematico, in cui le stelle erano state inserite come esempi pratici. La supposizione di qualche assiriologo che con ciò si indicassero delle distanze lineari nello spazio non è certamente in accordo con quello che conosciamo riguardo alle concezioni babilonesi del mondo.

Esiste, tuttavia, un altro documento, effettivamente astronomico, che deriva dalla prima dinastia babilonese: si tratta di un testo della biblioteca di Ashurbanipal, ora conservato al British Museum, e il cui contenuto è stato decifrato da Kugler nel 1911. Contiene dati che riguardano il pianeta Venere ed è una copia di testi precedenti. Una parte consiste di molti gruppi di versi che descrivono i fenomeni del pianeta (qui chiamato Nin-dar-anna, “signora dei cieli”), utilizzati come presagi astrologici e seguiti da predizioni corrispondenti. Non si può trattare di osservazioni o di calcoli astronomici, perché gli stessi intervalli di tempo ricorrono sempre e le date immaginarie di inizio, alternandosi regolarmente fra fenomeni serali e mattutini, sono sempre di un mese e di un giorno. Ad esempio il quinto gruppo recita:

«Nel sesto giorno del mese di Abu, Nin-dar-anna appare a oriente; le piogge saranno nei cieli, ci saranno devastazioni. Fino al decimo giorno di Nisannu rimane nell’est; all’undicesimo giorno scompare. Scompare per tre mesi dai cieli;

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nell’undicesimo giorno di Duzu Nin-dar-anna prende fuoco nell’ovest. L’ostilità sarà nella terra; i raccolti prospereranno. Nel mese Ululu, nel settimo giorno, Nin-dar-anna appare nell’ovest […]»[7] Gli intervalli tra apparizione orientale e

invisibilità sono sempre 8 mesi e 5 giorni; quindi ci sono 3 mesi fino all’apparizione occidentale; ancora 8 mesi e 5 giorni fino alla scomparsa, quindi 7 giorni fino all’apparizione a est. Il totale è 19 mesi e 17 giorni, il periodo corretto di Venere. Quegli intervalli e quelle date di apparizione e scomparsa sono stati dedotti da dati di osservazione contenuti nella restante parte del testo, ma tra le date ci sono molte cifre erroneamente copiate o fenomeni errati. È un fatto curioso che intervalli derivati da valori erronei siano stati utilizzati per dedurre i valori medi applicati alle schematiche previsioni. Per un errore di copiatura il lungo periodo di invisibilità è stato fissato (dopo la scomparsa orientale, che è normalmente di circa 2 mesi) in 5 mesi e 16 giorni e la media è divenuta di 3 mesi. Questo mostra come colui che ha successivamente trattato i materiali per inserire gli auspici avesse una conoscenza astronomica così esigua — oppure desse a quella così poca importanza — da aver incluso nella media il valore che deviava grossolanamente. Poiché conosciamo il significato dei numeri, possono essere corretti alcuni degli errori in questi dati di osservazione che coprono 21 anni.

Tra i fenomeni calcolati male di Venere si trova, nell’ottavo anno, una riga che recita “anno del trono d’oro”. La stessa designazione si è trovata nei testi di contratti civili dell’ottavo anno del re Ammizaduga, il penultimo della dinastia, che ha regnato per 21 anni. Cosicché la conclusione più ovvia fu che i 21 anni del testo di Venere corrispondessero esattamente ai 21 anni di questo re, il che è stato confermato dal fatto che gli anni di 13 mesi nel testo di Venere corrispondessero ai testi civili. Poiché i fenomeni di Venere di quel tempo possono essere oggi calcolati con precisione, questo ha fornito un modo di accertare le date

precise del regno di quel re e, così, l’intera cronologia intorno al 2000 a.C. è stata posta su solide basi. Il metodo seguito da Kugler si basava sull’affermazione secondo la quale nel sesto anno, nel ventiseiesimo giorno del mese Arachsamma, Venere era scomparso a ovest e il terzo giorno del successivo mese, Kislimu, era ricomparso a est. Perciò la sua congiunzione con il Sole ha quasi coinciso con la congiunzione della Luna con il Sole, in una stagione che corrispondeva approssimativamente a dicembre o gennaio. Kugler ha trovato che queste condizioni erano soddisfatte al meglio il 23 gennaio del 1971 a.C. Da questo seguirebbe che la prima dinastia babilonese abbia regnato dal 2225 al 1926 e che Hammurabi abbia regnato dal 2123 al 2081 a.C. La data media di Nisannu I ha finito, allora, per corrispondere al 26 aprile del nostro calendario.

Un’identificazione tanto precisa di date così antiche fu generalmente riconosciuta come un esempio ammirevole di ricerca astronomico-cronologica, ma è interessante notare come il primo risultato fosse completamente erroneo. Ci sono alcune date che concordano con i dati. Le congiunzioni di Venere con il Sole ricorrono ogni 8 anni, ma 2,4 giorni prima; quelli della Luna con il Sole dopo 8 anni, ma 1,6 giorni più tardi. Perciò, due date a distanza di 8 anni possono essere sufficientemente conformi ai fenomeni, dopo di che le congiunzioni si spostano sempre più: le congiunzioni di Venere avvenendo prima, le congiunzioni di Luna dopo. Dopo 7 periodi di 8 anni, le congiunzioni di Venere vengono 17 giorni prima e le congiunzioni di Luna 11 giorni più tardi, in modo che una coincidenza delle congiunzioni si verifica di nuovo, ma questa volta 29 giorni e mezzo prima. Perciò troviamo una serie di date (o coppie di date a distanza di 8 anni) che si susseguono a intervalli di 56 o 64 anni e l’astronomo dipende completamente dallo storico per indicare il secolo giusto. Quando Kugler fece le sue indagini, gli storici concordarono di fissare la prima dinastia babilonese a circa il 2000 a.C.; altri che hanno provato a correggere il lavoro di Kugler non hanno

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osato fissare gli eventi più di 120 anni più tardi. Esisteva, però, una vecchia cronaca dei re, a opera di Berossus, un sacerdote babilonese che insegnava in Grecia, che collocava la dinastia quattro secoli più tardi, il che era sempre stato rifiutato dagli storici, anche se, recentemente, hanno cambiato opinione. Così, ora si ritiene più probabile che la data delle congiunzioni coincidenti sia stata il 25 dicembre 1641 a.C., che Hammurabi abbia regnato dal 1792 al 1750 a.C., e che l’intera dinastia abbia regnato dal 1894 al 1595 a.C. o forse 64 anni dopo, dal momento che ci sono alcune incertezze nei documenti storici.

Comunque sia, sembra che il pianeta Venere venisse osservato già con una speciale attenzione durante i primi secoli d’egemonia babilonese e, forse, anche prima. Se altri pianeti fossero stati osservati con la stessa attenzione, i riferimenti a tali osservazioni sarebbero stati certamente conservati in copie assire, ma vi è citato solo Venere. È abbastanza chiaro come i sacerdoti, che erano in attesa della Luna crescente, fossero colpiti da Venere, la più brillante fra le stelle, e che questa apparisse loro come un astro eccezionale. In testi successivi, Sole, Luna e Venere sono spesso nominati insieme, come una triade di divinità collegate, distinti dagli altri quattro pianeti. Può essere che i Babilonesi conoscessero la falce di Venere nel suo grande splendore prima e dopo la

congiunzione inferiore? C’è un testo, dal significato controverso, che da alcuni Assiriologi è interpretato come segue:

«Quando Ishtar con il suo corno destro si avvicina a una stella, ci sarà abbondanza nel paese. Quando Ishtar con il suo corno a sinistra si avvicina a una stella, ci sarà carestia per il paese»[8] Non sembra impossibile che

nell’atmosfera chiara di queste terre si riuscissero a percepire le corna della mezzaluna di Venere; anche alcuni osservatóri moderni hanno citato esempi di questo tipo. Un missionario americano, D.T. Stoddaert, in una lettera a John Herschel da Oroomisha, in Persia, nel 1852, scrisse che al crepuscolo i satelliti di Giove e la forma allungata di Saturno potevano essere visti a occhio nudo e, attraverso un vetro oscuro, la forma a mezzaluna di Venere colpiva subito l’occhio[9] Può essere, allora, meglio compreso come in quei tempi antichi i sacerdoti-astronomi babilonesi dedicassero attenzione speciale a Ishtar come se si trattasse di una stella sorella della Luna. Non solo guardavano le sue apparizioni e le sue scomparse con spirito religioso, ma erano colpiti dalle sue regolarità e provavano, sebbene in modo primitivo, a trovarne i periodi e a utilizzarli per le previsioni; ma questo può essere stato il lavoro dei successivi secoli di depressione politica, per esempio tra il 1500 e il 1000 a.C.

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CAPITOLO 4

L’ASTROLOGIA ASSIRA Agli inizi del primo millennio a.C. una nuova potenza semitica si presentò nella zona nord del corso superiore del Tigri: Ashur era il nome della capitale del dio supremo. In lotta continua contro gli stati circostanti, tra cui Babilonia, Ashur si espanse e divenne la potenza dominante nelle pianure della Mesopotamia. Circa nell’800 a.C., l’Assiria diventò lo stato più potente del Vicino Oriente e, sotto i re Tiglath-phileser (745-727 a.C.), Shalmaneser (726-722), Sargon (722-705), Sennacherib (705-682), Asarheddon (682-668) e Ashurbanipal (668-626 a.C.), la Siria, la Palestina, la Fenicia e a volte anche l’Egitto, furono conquistati in una serie di grandi e spesso crudeli guerre e i confini si estesero verso l’Asia Minore, verso l’Armenia e la Media. Secondo l’assiriologo americano Olmstead, l’uso del ferro per le armi era il principale fattore nelle conquiste assire. La nuova capitale Ninive era il centro politico di un grande impero militare e come tale fu adornata con edifici magnifici. Ma Babilonia, come grande centro di commercio governato dai cittadini ricchi, conservò la posizione di venerabile sede di cultura antica. I re assiri riconoscevano la sua importanza andando essi stessi a Babilonia “per afferrare le mani di Marduk”, cioè per prendere solennemente il controllo del governo o per nominare un parente come re dipendente.

Gli Assiri, come fanno spesso i conquistatori rozzi e guerrieri, adottarono la cultura dei conquistati e continuarono i loro usi e le loro tradizioni. Il Pantheon assiro era identico a quello di Babilonia, solo che ora Ashur era il primo tra gli dèi. Gli stessi sacerdoti pensavano, lavoravano e scrivevano nelle forme santificate a servizio dei nuovi governatori, adempiendo le stesse funzioni sociali come in precedenza. Le arti

rifiorirono, non solo perché gli artisti provenivano da un nuovo popolo con energia fresca e i nuovi governanti erano ricchi grazie a conquiste e rapine, ma anche perché, invece dei mattoni delle pianure, la pietra dalle montagne circostanti serviva da materiale di costruzione ed era eccellente per i bei rilievi che oggi sono esposti nei musei occidentali. Lo sviluppo raggiunse il suo culmine quando, con l’aumento della ricchezza e della cultura, ai primi forti guerrieri successero principi che amavano e proteggevano le arti e le scienze. Fu allora che Ashurbanipal installò una biblioteca nel suo palazzo e ordinò che i vecchi testi venissero raccolti da tutti gli antichi siti e templi di Babilonia e copiati. Migliaia di tavolette di argilla furono depositate in file ordinate, con i loro titoli ai lati, integrate e spiegate da cataloghi, dizionari e commentari, continuamente aumentati da nuove cronache di archivio, dai rapporti al re e dalla sua corrispondenza con funzionari. Gli oltre 13000 frammenti portati alla luce solo da questo sito e conservati al British Museum e le molte migliaia provenienti da altri siti ci presentano una buona immagine dei costumi e delle idee, della vita commerciale e della cultura, della religione e dell’economia di quella società e anche della sua astronomia.

Il calendario dei tempi antecedenti è ancora presente nei numerosi testi: sia il mese lunare, che inizia la sera della prima apparizione del crescente, che i 12 mesi, a volte completati da un tredicesimo. Sebbene non sia citato espressamente, è quasi certo che l’intercalazione venisse regolata per mezzo di fenomeni stellari, generalmente con il loro sorgere mattutino e l’elenco di 3x12 mesi-stellari summenzionati, in una copia nella biblioteca di Ashurbanipal, può esserne un’indicazione. Un altro metodo è

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indicato in un testo pubblicato da George Smith:

«Quando nel primo giorno di Nisannu la Luna e la stella Mulmul (le Pleiadi) rimangono insieme l’anno è comune; quando nel terzo giorno di Nisannu la Luna e la stella Mulmul rimangono insieme l’anno è pieno» [10] L’ultima parte della frase significa che le

Pleiadi sono visibili molto tempo dopo il tramonto e, dato che questo avviene molto precocemente in primavera, è necessario aggiungere un tredicesimo mese. Le stelle e le costellazioni sono raggruppate in tre divisioni, quelle settentrionali, quelle zenitali e le costellazioni meridionali, note rispettivamente come i domini di Enlil, Anu e Ea.

Ai tempi assiri, tuttavia, non era più il calendario il motivo principale per l’osservazione delle stelle, bensì l’astrologia. Basata sulla credenza che il corso delle stelle abbia un significato per gli eventi sulla terra, questa ha determinato fortemente, nel passato, i pensieri e le abitudini dell’ uomo. I fenomeni celesti venivano ora studiati con un interesse molto più profondo per ottenerne presagi riguardanti il destino degli uomini e specialmente di re e imperi.

Questa fede negli auspici esisteva nell’uomo primitivo come conseguenza naturale della credenza di essere circondato da spiriti invisibili in grado di influenzare la sua vita e il suo lavoro. Era una questione vitale che egli ottenesse il loro favore e il loro aiuto, placando o evitando la loro ostilità e scoprendone le intenzioni: esorcismi, offerte, incantesimi e magia, occupavano la vita giornaliera. La maggior parte di questi spiriti aveva la dimora nei cieli e quindi, fin dai tempi più antichi, nelle menti dei sacerdoti mesopotamici era già presente la concezione di uno stretto collegamento fra le stelle e il destino dell’uomo. Il cielo non era così lontano: coloro che governavano qui sulla Terra e i loro popoli erano vicini agli dèi.

Il re Gudea di Lagash (circa 2300 a.C.) descrive, in un’iscrizione su un cilindro di pietra, la costruzione di un tempio e dice che

come in un sogno gli apparve la dea Nisaba, la figlia di Ea: «Lei teneva uno stilo brillante nella sua mano; portava una tavoletta con segni celesti favorevoli ed era pensierosa» e più avanti: «Lei annunciava la stella favorevole per la costruzione del tempio»[11] Un presagio si trova dopo ogni fenomeno planetario nel testo Nin-dar-anna, del primo impero babilonese, e non c’è dubbio che i dati astronomici fossero stati ottenuti per fornire queste predizioni.

Tali credenze costituirono una forza vitale tra i sacerdoti dei templi di Babilonia e di altre città e si diffusero in tutte le regioni influenzate dalla cultura babilonese, compresa l’Assiria. Nelle corti di monarchi potenti, intenti a estendere i loro imperi, la necessità di prevedere il futuro era particolarmente grande e l’astrologia trovò qui terreno fertile. Gli astrologi di corte dovevano trovare presagi per ogni grande impresa e da tutti i templi importanti il re riceveva rapporti regolari su cosa avvenisse nel cielo e sulla sua interpretazione. Questi rapporti erano preservati negli archivi della biblioteca di Ashurbanipal e le copie di tutti i vecchi dati erano raccolte per poter essere interpretati. Naturalmente, non tutti gli auspici erano derivati dalle stelle, ma se ne trovavano ovunque: nelle viscere delle vittime propiziatorie, oggetti variabili e, dunque, fecondi, nel volo degli uccelli, negli aborti, nei terremoti, nelle nubi, negli arcobaleni e negli aloni. Esistevano manuali dove veniva registrato ogni fenomeno e quale azione o avvenimento del leggendario re Sargon di Agade fosse in qualche modo legata a quello.

I fenomeni astronomici, naturalmente, occupavano un posto di rilievo. I corpi celesti più adatti ai presagi erano quelli che presentavano grande diversità e irregolarità nei loro aspetti. I più importanti, quindi, non erano il Sole e le stelle fisse, ma la Luna e i pianeti, mentre le stelle fisse formavano la base costante per i fenomeni. Il dio del Sole Shainash, il guardiano supervisore della giustizia, giorno dopo giorno seguiva il suo corso regolare attraverso il cielo; al massimo poteva essere più oscuro o più rosso del

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solito o invisibile a causa di nubi o di un’eclissi. Il dio della Luna Sin, al contrario, mostrava un’abbondanza di fenomeni ricorrenti diversi. Lo stesso vale per i pianeti, che si muovevano senza meta tra le stelle nei modi più inattesi, a volte stando fermi o invertendo i loro corsi, combinandosi talvolta tra loro o con le stelle luminose in configurazioni sempre mutevoli. Sembravano esseri viventi che girovagavano spontaneamente attraverso il paesaggio stellato e diventavano sempre più l’oggetto principale dell’attenzione dei sacerdoti babilonesi. Erano le stelle dei grandi dei che governavano il mondo e si manifestavano in questi astri brillanti. Il carattere determinativo che precedeva i nomi dei pianeti, di solito il carattere che significava stella, era ora diventato il carattere che significava dio. Venere (detta Dil-bat) era la stella di Ishtar, Giove (Umanpa-udda, successivamente Sagmegar) era la stella di Marduk, Saturno era la stella di Ninib, anch’esso una divinità solare e Marte era la stella di Nergal il dio della pestilenza. Marte rosso era ritenuta una stella maligna, Giove una stella fortunata. Ma fortuna o male per chi? Quello dipendeva dal tempo e dal luogo.

Mesi diversi, varie direzioni cardinali e costellazioni diverse venivano attribuiti a ognuno dei quattro paesi: Akkad (Babilonia), Elam (le montagne orientali), Amurru (il deserto occidentale, poi la Siria) e Subartu (il nord). «Siamo Subartu», disse un astrologo assiro. L’apparizione dei pianeti in varie costellazioni, la durata della loro permanenza o il corso rapido, la congiunzione fra loro o con la Luna offrì una varietà assolutamente infinita di fenomeni, che lasciava agli astrologi un vasto campo di tradizione e ingenuità per combinare potere e fantasia e anche adulazione nelle loro deduzioni personali.

A titolo di esempio, presentiamo un assortimento di testi, preso dalla raccolta pubblicata da R.C. Thompson per gli studenti di Assiriologia1. 1 R.C.THOMPSON: The Reports of the Magicians and Astrologers of Niniveh and Babylon, 1900. I brani

«Quando la stella di Marduk appare all’inizio dell’anno, in quell’anno il grano sarà abbondante. Mercurio è apparso in Nisannu. Quando un pianeta [Mercurio] si avvicina alla stella Li [Aldebaran] il re di Elam morirà. […] Mercurio è apparso nel Toro; è sceso [?] fino a Shugi [le Pleiadi, Perseo]». «Venere scompare nell’ovest. Quando Venere diventa debole e scompare in Abu ci sarà una carneficina in Elam. Quando Venere appare in Abu dal primo al trentesimo giorno, pioverà e i raccolti della terra prospereranno. A metà del mese Venere è apparso in Leone nell’est. Da Nirgal-itir». «Quando Venere fissa la sua posizione, i giorni del re saranno lunghi, ci sarà giustizia sulla terra. Quando Venere è sul corso di Ea […]». «Marte è visibile in Duzu; È debole. […] Quando Marte culmina indistintamente [?] e diventa brillante, il re di Elam morirà. Quando il dio Nergal, scomparendo, diventa più piccolo e come le stelle del cielo è indistinto, egli avrà clemenza di Akkad. […] Quando Marte è debole, è fortunato; quando è luminoso, sfortunato. Quando Marte segue Giove quell’anno sarà fortunato. Da Bullutu». «Marte è entrato nei recinti di Allul [Cancro] Questo non è contato come un auspicio. Non è rimasto, non ha aspettato, non ha riposato; se ne è andato velocemente. Da Bil-na-sir». «Quando Giove passa a ovest ci sarà un lungo periodo di sicurezza, benevolente pace calerà sulla terra. È apparso davanti ad Allud. Quando Giove assume una certa lucentezza sul corso di Bel e [diventa?] Nibiru Accad traboccherà di abbondanza, il re di Akkad diventerà potente. […] Quando una grande stella come fuoco sorge dall’est e scompare nell’ovest, le truppe del nemico in battaglia saranno uccise. All’inizio del regno Giove è stato visto nella posizione giusta; possa il dio degli dei dominare renderti felice e allungare i tuoi giorni. Da Asharidu, il figlio di Damka». La stella di fuoco citata era probabilmente

una meteora, come nel testo successivo: «Dopo che un kas-bu [due ore] della notte era passato, una grande stella ha manifestato il suo splendore da nord a sud. I suoi auspici sono propizi per il desiderio del re. Il re di Akkad compirà la sua

seguenti sono, rispettivamente, alle pp. 184, 208, 206, 232, 236.

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missione. Da Asharidu il grande, il servo del re2«. In una lettera di Mar-ishtar al re

Asarheddon (668 a.C.) leggiamo: «[…] nel primo mese [...] il ventinovesimo giorno, Giove è stato portato via. […] ora egli è stato via un mese e cinque giorni nel cielo [cioè, era invisibile]: il sesto giorno del terzo mese Giove è diventato visibile nella regione di Orione; cinque giorni dopo il suo tempo egli era passato. Questo concorda con l’auspicio: quando Giove appare il terzo mese la terra sarà devastata e il grano sarà caro. […] quando Giove entra in Orione gli dei divoreranno la Terra»[12] In questi e in analoghi testi — nei quali il

significato di alcune espressioni rimane ancora incerto — troviamo osservazioni astronomiche di gran lunga più varie e più dettagliate di quanto fosse richiesto precedentemente per scopi calendariali oppure di orientamento. L’astrologia collegava così strettamente la vita dell’uomo alle cose celesti, che le stelle e i loro vagabondaggi iniziarono a occupare un posto importante nei pensieri e nelle attività dell’uomo; era il suo destino che gli dèi luminosi tessevano in quelle orbite meravigliose. Ora che i suoi occhi si erano aperti e il suo interesse si era risvegliato, l’uomo era via via sempre più in stretto contatto con il corso dei pianeti, come abbiamo visto nei documenti: Giove va a ovest, Marte è rimasto in Scorpione, si rivolge e avanza con diminuita luminosità; Venere sta al suo posto e Saturno è apparso in Leone. Sebbene non vi sia alcuna teoria sulla periodicità (mancano da tutti questi resoconti l’anno e la data), un concetto di familiare e prevista regolarità deve essersi presentato nelle menti degli osservatóri, espresso nelle osservazioni che il pianeta rimaneva fermo al posto giusto o che era oltre il suo tempo.

Accanto ai pianeti, la Luna era il corpo celeste principale per l’astrologo e la sua importanza per la misura del tempo aveva ora lasciato il posto al suo interesse per l’astrologia. Le incertezze sulla misura del

2 R.C.THOMPSON, ibid., p. 201.

tempo diventarono un elemento di predizione per gli astrologi: ad esempio, il fatto che la Luna non fosse puntuale era certamente un auspicio cattivo. A causa dell’invisibilità della Luna per la presenza di nubi o forse a causa di negligenza in tempi di difficoltà, finiva per essere concepibile l’osservazione del nuovo crescente nel ventottesimo o nel ventinovesimo giorno di un mese; nello stesso modo, la Luna piena, che normalmente dovrebbe apparire il 14° giorno, potrebbe invece verificarsi il 13°, il 15º o il 16º.

«Quando la Luna appare nel primo giorno ci sarà silenzio, la terra sarà soddisfatta. […]». «Quando appare la Luna il trentesimo di Misannu, Subartu divorerà Achlamu; una lingua straniera conseguirà il potere in Aniurru. Siamo Subartu. Quando la Luna appare nel 30° giorno sarà freddo nella terra. La Luna è apparsa senza il Sole il 14 di Tebitu; la Luna completa il giorno in Sabatu. […]».

Fig. 1. La tavoletta K725 (B.M.), in alto e, sotto, la trascrizione.

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«Quando la Luna e il Sole vengono visti insieme il tredicesimo giorno, non ci sarà silenzio; accadranno sventurati sommovimenti nel territorio, il nemico occuperà il territorio. Da Apla.». «Quando la Luna, raggiunge il Sole e diventa invisibile con esso […] ci sarà verità nella terra e il figlio dirà la verità al padre. Il 14º giorno il dio è stato visto con il dio […] Quando la Luna e il Sole vengono visti insieme il 14°, ci sarà silenzio, la terra sarà soddisfatta; gli dei destinano Akkad alla felicità […]». «Quando la Luna non attende il Sole e scompare, ci sarà un furore di leoni e di lupi. […] Il 14° è stata vista con il Sole; dopo in Tishritu la Luna completerà il giorno. […] Da Balasi.». «Nel primo giorno ho inviato al re così: nel 14° la Luna sarà vista con il Sole. […] Nel 14° la Luna è stata vista con il Sole.». «Quando la Luna e il Sole sono visti insieme il 16° giorno il re invierà l’ostilità al re. Il re sarà assediato nel suo palazzo per un mese. I piedi del nemico saranno contro la terra; il nemico marcerà trionfalmente nella sua terra. Quando la Luna il 14° o il 15° di Duzu non è vista con il Sole il re sarà assediato nel suo palazzo. Quando è vista il 16° giorno, è fortuna per Subartu, male per Akkad e per Amurru. Da Akellanu3.». Per capire queste osservazioni e le relative

conclusioni, dobbiamo considerare quei fenomeni che si osservano circa nel periodo della Luna piena. Se il mese inizia normalmente, vale a dire se di sera, quando il crescente è visibile per la prima volta (normalmente 1,4 giorni dopo la congiunzione), allora inizia il primo giorno, la Luna piena cadrà nella notte del 14º giorno, poiché in media giunge 14,7 giorni dopo la congiunzione; (in media, poiché per le irregolarità del suo moto può essere ¾ di giorno in più o in meno). Nella notte del 13° giorno la Luna non è ancora completa; al tramonto la Luna è già visibile a oriente e tramonta prima dell’alba; non attende il Sole. Nella notte del 14º giorno è già visibile anche al tramonto, ma non è ancora tramontata quando si leva il Sole ed è

3 R.C.THOMPSON, ibid., rispettivamente alle pp. 1, 2, 4, ecc., 62, 120, 124, 140, 154, 166.

diventata debole a ovest. Gli astrologi assiri esprimevano questo dicendo: «La Luna è stata vista con il Sole» oppure «Il dio (Sin) è apparso con il dio (Shamash)» o «La Luna raggiunge il Sole». Tale consuetudine era collegata a tutti i generi di presagi favorevoli. Ma se “la Luna non aspettava il Sole” e tramontava prima dell’alba, la Luna piena doveva sorgere più tardi e non prima della notte successiva, il 15º giorno la Luna si poteva vedere la mattina con il Sole.

In queste osservazioni l’astrologia era divenuta tutt’uno con la misura del tempo. Il sacerdote-astronomo osservava che tutto fosse in ordine nel cielo; in tal modo ci sarebbe stata pace sulla terra. Altrimenti notava un disordine nel calendario, che, accanto ad auspici negativi, indicava che qualcosa doveva essere corretto. Dal giorno della prima apparizione, la Luna piena doveva essere attesa il 14º giorno; ma a causa di irregolarità ciò poteva non accadere. Se la Luna piena cadeva il 13º giorno, essi ne deducevano che il mese potesse avere solo 29 giorni. Quando la Luna era vista con il Sole, dopo il 14º giorno, il mese aveva 30 giorni; quindi “completava il giorno”. Quando Sole e Luna erano visti insieme il 14º giorno e il mese precedente aveva 30 giorni, quello successivo avrebbe avuto solo 29 giorni.

«La Luna ha completato il giorno in Adaru; il 14º giorno la Luna sarà vista con il Sole: la Luna ritirerà il giorno in Nisannu. […]4» Lo scopo astrologico, richiedendo una

maggiore attenzione nell’osservazione della Luna, finì, così, per dare basi più solide alla misura del tempo e l’ordine e la regolarità vennero percepiti e utilizzati per predire il futuro.

Molti altri fenomeni lunari poterono, naturalmente, essere osservati: il suo colore e la sua luminosità, la forma della sua falce, la luce cinerea («la Luna porta un “agu”, un diadema o cappello reale»), una corona nuvolosa o un anello (alone). Tale alone fu considerato spesso come una barriera che 4 R.C.THOMPSON, ibid., 53.

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racchiudeva un pascolo per le pecore, con la Luna che faceva da pastore nel centro: infatti, il carattere babilonese per pianeta, lubat, significa “pecora smarrita”. Allora, il pianeta è stato visto come un fiume; o ha voluto indicare un assedio, con i pianeti o le stelle all’interno dell’anello che indica l’assediato. Quando l’anello non era chiuso, voleva dire, naturalmente, fuga.

«Quando un’aureola circonda la Luna e Giove sta all’interno di essa il re sarà assediato. L’aureola si è interrotta: non è un brutto segno. […] Da Nabu-shuma-ishkun». «Quando un’aureola circonda la Luna e Sudun rimane al suo interno, un re morirà e la sua terra si ridurrà: il re di Elam morirà. Sudun è Marte, la stella di Amurru; è male per Amurru ed Elam. Saturno è la stella di Akkad, esso è fortuna per il re, il mio signore. Da Irasshi-ilu, il servo del re.5» Anche le eclissi furono considerate come

auspici estremamente importanti e il loro evento inatteso ha sempre impressionato profondamente la gente, soprattutto perché alla regolarità del fenomeno veniva attribuito un così grande significato. Le eclissi fornivano molte possibilità di pronostici: per un’eclissi solare veniva annotato il mese e la regione del cielo, l’aspetto e la direzione della falce quando il Sole “assumeva la figura della Luna”. Oltre a eclissi astronomiche, anche le tempeste di sabbia possono essere state causa dell’oscuramento del Sole, quando le eclissi vengono riportate in date del mese diverse dal 27º o dal 28º giorno.

I presagi da eclissi lunari erano di gran lunga più abbondanti. Quando veniva eclissata la Luna era un segno per tutti i paesi; quando era oscurata parzialmente, ognuno dei suoi quattro lati era relativo a un paese diverso e il significato era differente per mese, giorno e ora (“guardia della notte”), da ciò l’istruzione data nella grande raccolta di antichi auspici, chiamata Enuma Anu Enlil:

5 R.C.THOMPSON, ibid., rispettivamente alle pp. 95 e 107.

«Quando è eclissata la Luna osserverete esattamente mese, giorno, “guardia della notte”, vento, corso e posizione delle stelle nel cui regno l’eclissi ha luogo. Dovete indicare gli auspici rispetto al suo mese, al suo giorno, alla sua “guardia della notte”, al suo vento, al suo corso e alla sua stella»[13] Troviamo così nei rapporti su una certa

eclissi nel mese Simannu alla fine della notte:

«Un’eclissi nella “guardia della notte” vuole dire malattia.[…] La “guardia della notte” è Elam, il giorno 14º è Elam. Simannu è Amurru, il secondo lato è Akkad. […] Quando un’eclissi accade nella “guardia della notte” e completa la “guardia” con il vento dal nord che soffia, i malati in Akkad si ristabiliranno. Quando un’eclissi inizia sul primo lato e rimane sul secondo lato, ci sarà una carneficina di Elam; Guti non si avvicinerà ad Akkad. […] Quando accade un’eclissi e rimane sul secondo lato, gli dei avranno clemenza della terra. Quando la Luna è oscura in Simannu, dopo un anno Ramanu [il dio tempesta] inonderà. Quando la Luna è eclissata in Simannu, ci sarà inondazione e il prodotto delle acque della terra sarà abbondante. […]6» Un’enumerazione ricca di auspici, nella

quale ogni dettaglio aveva un significato e con tutti questi dettagli possiamo parlare di un’osservazione abbastanza accurata dell’eclissi. Non c’è da stupirsi, quindi, se la prima eclissi a essere usata, molti secoli dopo, da Tolomeo per calcolare il periodo della Luna parte da questi dati: il 19 marzo 721 a.C., l’8 marzo 720 a.C., e l’11 settembre 720 a.C. L’unica cosa che mancava era una conoscenza esatta del numero di anni e giorni trascorsi da queste date. È possibile che la mancanza di questa informazione abbia impedito l’uso delle eclissi precedenti e che per questa ragione Tolomeo abbia iniziato il suo elenco di re e dei loro anni consecutivi di governo con il re babilonese Nabonassar, 747 a.C.

Gli osservatóri babilonesi avevano percepito sicuramente la regolarità in tali fenomeni osservati con attenzione e i loro resoconti dimostrano che prevedevano le eclissi e le annunciavano:

6 R.C.THOMPSON, ibid., 271.

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«l 14º giorno un’eclissi avrà luogo; È un male per Elam e per Amurru, fortunato per il re, il mio signore; sia permesso al re, il mio signore, di riposare felice. Sarà visto senza Venere. Al re, il mio signore, dico: ci sarà un’eclissi. Da Irasshi-ilu, il servo del re». «Al re di paesi, il mio signore tuo servo Bil-usur. Possano Bel, Nebo e Shamash essere cortesi con il re, mio signore. Un’eclissi è avvenuta ma non era visibile nella capitale. Come quell’eclissi si è avvicinata alla capitale dove il re rimane, si sono osservate nubi ovunque e non sappiamo se l’eclissi abbia avuto luogo o no. Lasciate che il signore dei re mandi un messaggio ad Ashur, a tutte le città, a Babilonia, a Nippur, Uruk e Borsippa; qualunque cosa sia stata vista in quelle città il re ne avrà informazione con certezza. […] I grandi dèi che abitano nella città del re, il mio signore, hanno rannuvolato il cielo e non hanno permesso di vedere l’eclissi. Si faccia sapere al re che questa eclissi non è diretta contro il re, il mio signore, non contro la sua terra. Gioisca il re. […]7» Non pare un’idea brillante il fatto che,

mentre l’eclissi aveva luogo, gli dèi tutelari di Ashur, sapendo che nessun male minacciava il paese e il suo re, dovessero fare in modo che ci fosse una cortina di nuvole sulla città, in modo che il re non potesse essere impaurito? La maggior parte di questi rapporti, secondo De Liagre Böhl, assiriologo di Leida, cade tra gli anni 675 e 665 a.C., un periodo critico per l’impero assiro, quando il re, ammalato e pieno di apprensione, stava tornando da una campagna egiziana più o meno infruttuosa. Abbiamo qui una data abbastanza precisa dalla quale possiamo dedurre la qualità delle conoscenza astronomiche. E infatti si trattava proprio di buone conoscenze, poiché in questi rapporti le previsioni a proposito delle eclissi sono state verificate con grande chiarezza.

«Al re, il mio signore, ho inviato: “Un’eclissi avrà luogo”, ora non è passata, ha avuto luogo. Nell’avvenire questa eclissi predice pace per il re, il mio signore. […]8»

7 R.C.THOMPSON, ibid., rispettivamente alle pp. 273 e 274. 8 R.C.THOMPSON, ibid., p. 274 F e la successiva a p.274 A.

Non c’è alcuna indicazione in questi testi

che ci dica su quali basi i sacerdoti abbiano eseguito le loro previsioni. Nella ricorrenza delle eclissi lunari vi è, tuttavia, una tale semplice regolarità — messa in evidenza per la prima volta da Schiaparelli — che deve avere catturato presto la loro attenzione. Si resero conto che una seconda eclissi non seguiva mai a un intervallo di meno di sei mesi e che spesso era seguita da una terza dopo altri sei mesi. Anche quattro o cinque si susseguivano talvolta l’un l’altra, sempre a intervalli di sei mesi. C’era spesso un’interruzione nella serie continua, dovuta al fatto che l’eclissi si era verificata di giorno, con la Luna piena sotto l’orizzonte. Una volta che gli osservatóri capirono che questa era la causa dell’interruzione, potevano riempirla aggiungendo un’eclissi invisibile al momento giusto; Si è, formata, così una serie regolare e continua di cinque o sei eclissi visibili o invisibili. Dopo di che la serie finiva, ma dopo un anno o due una nuova serie iniziava, precedendo di un mese quella che sarebbe stata una continuazione della serie precedente. Quindi, se osservavano un’eclissi non preceduta da un’altra 6, 12 o 18 mesi prima, potevano dedurre che una nuova serie fosse iniziata e potevano predire così nuove eclissi (6 o 12 mesi dopo).

Oggi è per noi facile comprendere le basi di questa regolarità. Dopo sei periodi lunari (177,18 giorni) il Sole, e perciò anche la posizione della Luna piena, è progredita in media 174,64° in longitudine. A causa della velocità variabile di Sole e Luna i progressi reali possono avere uno scarto di alcuni gradi. Allo stesso tempo i nodi dell’orbita lunare sono regrediti di 9,38º; perciò il nodo opposto è situato a una longitudine di 170,62° maggiore. Rispetto al nodo, la Luna piena è progredita quindi di 4,023°. Fosse stata vicina a un nodo, allora, dopo 6 mesi, sarebbe stata di nuovo vicina a un nodo. La Luna piena può passare attraverso l’ombra della Terra quando la sua distanza dal nodo non supera i 10°-12°; per un’eclissi totale la distanza non dovrebbe essere più grande di

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5° o 6º, altrimenti è solo parziale. Possiamo rendere chiare queste condizioni calcolando le distanze per molte lune piene consecutive a intervalli di 6 mesi, partendo da un primo valore arbitrario e aumentandolo ogni volta di 4,02° o 4,03°:

-14,50° / -10,48° / -6,45º / -2,43° / +1,59º / +5,62° / +9,65° / +13,67º

per cui gli aspetti saranno, rispettivamente:

no eclissi / parziale? / parziale / totale / totale / totale? / parziale / no eclissi

La fig. 2, in cui i grandi cerchi

rappresentano l’ombra e i piccoli cerchi la Luna, mostra questi aspetti:

In Mesopotamia, dove il clima è favorevole, esclusi alcuni mesi dell’inverno, gli astronomi- sacerdoti dovrebbero aver potuto vedere quasi sempre quello che avveniva e, quindi, percepito queste regolarità, nonostante le difficoltà presentate

per le eclissi che rimanevano invisibili, interrompendo la serie. Tra il 750 e il 650 a.C., tuttavia, si verificarono per quattro volte sia una serie di cinque eclissi consecutivamente visibili che una serie di quattro eclissi. Inoltre, attraverso le osservazioni dei fenomeni riguardanti la Luna piena, avrebbero potuto rilevare la causa dell’interruzione: quando la Luna della mattina non ha “aspettato” il Sole, il momento di opposizione esatta sarebbe venuto più tardi, di giorno, e l’eclissi non sarebbe stata visibile.

«L’eclissi termina; non ha luogo. Se il re dovesse domandare: “Che presagio hai visto?” — gli dei non sono stati visti insieme. […] Da Munnabitu». E dunque, già dai tempi assiri, i fenomeni

astronomici furono non solo previsti e controllati, ma le loro assenze inattese furono spiegate attraverso cause naturali.

Fig. 2.

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CAPITOLO 5

LA NUOVA SCIENZA BABILONESE Condizioni tali per cui l’astronomia potesse nascere come scienza si presentarono per la prima volta durante i secoli di supremazia assira. L’astrologia, che associava la vita dell’uomo alle stelle, spostò la sua attenzione verso gli astri e il loro moto. Le conoscenze dettagliate dei fenomeni celesti così ottenute non potevano essere il risultato di osservazioni rivolte solamente alla misura del tempo o all’orientamento, ma non vi era ancora traccia di intenti scientifici. I primi precursori non potrebbero essere paragonati ai moderni scienziati che sono animati da spirito di ricerca e spiegazione. In tutta l’antichità, l’attitudine dell’uomo ai fenomeni naturali non era guidata dalla causalità ma dalla finalità e il collegamento tra i fenomeni non era visto come causa ed effetto ma come simbolo e significato.

Non si ricercavano leggi o regole, pur tuttavia le regolarità riuscirono a imporsi, senza, peraltro, destare sorprese. Per quanto riguarda le regolarità del corso del Sole e delle fasi lunari, esse erano già conosciute da tempo e, lentamente, venivano percepite delle regolarità anche nel moto dei pianeti e nella ricorrenza delle eclissi; dapprima come una speranza istintiva o come una conoscenza inconscia che accompagnava le esperienze della vita, poi come una conoscenza consapevole accompagnata da grande abilità in attente predizioni. Così, gli albori della scienza sorsero dalla sistematizzazione dell’esperienza, soprattutto nella definizione dei periodi, dopo i quali i fenomeni ricorrevano con la stessa successione.

Questo sviluppo venne favorito da condizioni esterne. L’energia manifestata dagli Assiri nelle imprese di conquista si affermò anche in altri campi. La città di Babilonia, ricca grazie ai suoi commerci, si sentiva abbastanza potente per cambiare i

tempi e per ribellarsi anche contro i suoi padroni assiri, alla fine con successo. Quando l’impero assiro fu indebolito dalle guerre contro le tribù barbariche dell’Europa, i Cimmeri [ndr: popolazione caucasica], esso collassò sotto l’assalto combinato dei Babilonesi e dei Medi e Ninive (606 a.C.) divenne un ammasso di macerie. Babilonia divenne, quindi, l’indiscussa capitale di un nuovo impero che, sotto il comando di Nabucodonosor (604-561 a.C.), estese il suo potere fino alla vicina Asia. Tutte la antiche tradizioni babilonesi furono ripristinate, la città fu abbellita con numerosi templi e il clero si impadronì del potere spirituale del grande impero. Fu così fino a quando il re persiano Ciro, probabilmente scelto dai sacerdoti di Marduk tra molti contendenti favoriti da altri dèi, conquistò la città nel 539 a.C. Egli e il suo successore Cambise agirono come re babilonesi eletti dal dio Marduk e portarono avanti le tradizioni dell’antica capitale. Una rivolta dei nobili persiani durante il regno di Dario fu necessaria per rovesciare i signori babilonesi, dopo una difficile guerra per ridurre la coraggiosa città al livello delle altre capitali persiane. Dopo la conquista dell’Impero Persiano a opera di Alessandro Magno, Babilonia fu di nuovo una grande metropoli e con l’antico splendore culturale influenzò fortemente la scienza greca. Attraverso questi secoli, da Assurbanipal ad Alessandro, mentre le dinastie stesse cambiavano, Babilonia rimase una grande città commerciale, capitale di un fiorente impero e centro culturale del Vicino Oriente.

Non ci si deve meravigliare se sotto queste condizioni ci fu un forte sviluppo delle attività astronomiche, che portarono alla nascita della scienza. Quando quei piccoli paesi guerrieri vennero assorbiti nella pace del grande impero Persiano, gli antichi

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presagi di fortuna e sfortuna divennero insensati. I sovrani Persiani, fedeli di Auramazda, non usavano servirsi di auspici e di presagi degli dei Marduk e Ishtar. Ciò non significò che i sacerdoti dovettero smettere il loro lavoro, ma cambiò completamente il loro atteggiamento verso i fenomeni celesti. Non erano più ignoranti mortali che ricercavano ansiosamente nel cielo i messaggi scritti dai loro dèi. Essi sapevano, almeno in parte e con crescente sicurezza, che cosa doveva esserci nel cielo, iniziando, infatti, a compiere delle previsioni. Conoscevano i modi tramite i quali i loro dèi si manifestavano e avrebbero potuto dimostrare le loro conoscenze e questa nobile causa li ispirava a continuare con grande zelo e persistenza le loro osservazioni, considerando questo lavoro come un ossequio rituale, un servizio agli dèi. Così queste osservazioni divennero più dettagliate e precise, più complete e consapevoli. Le distanze dei pianeti da stelle brillanti furono annotate numericamente e forse anche misurate, sebbene nei testi non vi sia la descrizione di alcuno strumento.

Noi non sappiamo attraverso quali strade questo sviluppo sia iniziato, in quanto sono stati ritrovati solo i risultati e non le ricerche che li avevano prodotti. Questi risultati sono esigui e frammentari e la scoperta e la decifrazione di nuovi testi potrebbe cambiare molto lo scenario fino a oggi conosciuto. Comunque è già possibile dedurre un probabile quadro di sviluppo delle conoscenze astronomiche in questi secoli.

Consideriamo dapprima le stelle fisse. Dal quinto secolo a.C. sono stati conservati cataloghi che ci danno un quadro sistematico delle posizioni relative delle costellazioni. Esse possono essere identificate più o meno completamente e abbiamo già visto che un certo numero di costellazioni risalgono ai tempi primitivi. Molte di loro hanno il nome che noi usiamo ancora oggi, evidentemente tramandato ai Greci dai Babilonesi: il Toro, i Gemelli, il Re (Regulus), la Spiga, lo Scorpione, l’Arcere (il Sagittario), il Pesce-Capra (il Capricorno), l’Aquila, il Leone, l’Idra, il Pesce di Ea (il pesce australe), il

Lupo, il Corvo. Ma alcuni sono differenti: la Pantera, la Capra e la Tazza al posto del Cigno, della Lira e dell’Auriga. E la loro “Stella-freccia” è la nostra Sirio. Le figure delle costellazioni sono spesso differenti: nella loro Pantera è inclusa la parte nord del nostro Cefeo e anche le stelle del nostro Cane Maggiore erano divise tra la Freccia e l’Arco. Alcuni nomi stanno ancora aspettando un identificazione.

Poi ci sono anche dei cataloghi di una trentina di stelle connesse con i giorni dell’anno oppure con i giorni del loro sorgere eliaco. A causa delle intercalazioni, le date nel calendario babilonese relative alle stelle possono cambiare di 10 o anche 20 giorni, quindi le date dei cataloghi, il più delle volte arrotondate a multipli di 5, possono mostrare un valore medio o un valore definito. Infatti, troviamo (sostituendo i nomi dei mesi con numeri da I a XII): Auriga I 20 (calcolato per Capella I 6), Pleiadi II 1 (calcolato II 6), Aldebaran II 20 (calcolato II 18), Orione III 10 (Betelgeuse calcolato III 13), Gemelli III 10 (Castore calcolato III 13), Sirio IV 15 (calcolato IV 10), Regulus V 5 (calcolato IV 26), e così via. C’è di solito un buon accordo, mentre una grande discrepanza, come per le stelle appena nominate, può essere dovuta a un errore di copiatura.

Un altro tipo di catalogo mette in relazione il sorgere mattutino di una stella con la culminazione di un’altra, come segue:

«quando tu concentri le tue osservazioni, la mattina del primo giorno del mese Airu, prima del sorgere del Sole, a ovest della tua mano destra e a est della tua mano sinistra, e i tuoi occhi in direzione sud, allora “ il petto della Pantera” [ε Cygni] si staglierà in mezzo al cielo davanti a te e le Pleiadi appariranno»[14] Qualcosa di analogo è indicato in un

frammento di testo assiro su una eclissi lunare, dove è menzionato un polo e «la stella Kumaru [γ Cygni] si trova esattamente sopra di te»; per ogni mese successivo ci sono delle affermazioni di questo tipo. Probabilmente, per i Babilonesi una connessione astrologica tra queste stelle era implicita. Un’altra relazione, una specie di

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antagonismo, esiste fra coppie di stelle: quando una tramonta l’altra sorge. Leggiamo ad esempio che quando le Pleiadi sorgono lo Scorpione tramonta; Aldebaran sorge e Arturo tramonta, idem per Orione con il Sagittario.[15] Così, possiamo capire quale sia per i Babilonesi l’importanza dell’orizzonte, come un grande circolo che divideva la sfera celeste in due metà. Dai terrazzi delle loro torri, gli osservatóri potevano vederlo in tutta la sua circonferenza e il cielo terso permetteva loro di vedere nitidamente le stelle che stanno solo pochi gradi sopra esso.

In questi cataloghi noi non troviamo, però, alcun tipo di misura, anche se esiste un catalogo di tutte le stelle del cielo a cui è aggiunto un numero che, probabilmente, rappresenta le distanze consecutive.[16] Queste distanze sono date in tre colonne di numeri proporzionali, che chiaramente denotano tutte la stessa quantità scritta in unità di misura differenti. Prima in unità sessagesimali di peso (biltu, mana e shikulu, corrispondenti alle misure greche e anche alle misure bibliche talento, mina e siclo), poi in unità di tempo, beru (2 ore), divise in 30 ush di 4 minuti. Da fonti greche sappiamo che i Babilonesi usavano degli orologi ad acqua, in cui il trascorrere del tempo era misurato dallo scorrere dell’acqua. Da ciò sembra corretto considerare i numeri sui cataloghi come differenze in tempo del transito sul meridiano; e queste sono più o meno concordanti con le differenze in ascensione

retta di queste stelle. Essi avrebbero anche potuto misurare nel cielo il passare del tempo durante la notte e per questa misura non ci sarebbe stato bisogno di cerchi graduati.

In questi cataloghi, il collegamento tra stelle e date del sorgere eliaco indica che il calendario aveva ormai acquisito una certa

regolarità e la regolarità empirica del ritorno del sorgere delle stelle in quella stessa data aveva portato a usare come regola fissa per le intercalazioni quella degli 8 e dei 19 anni. Con il periodo di 8 anni, gli anni di tredici mesi ritornavano a intervalli di 3,3 e 2 anni; tutti questi avevano due Adaru, eccetto che, dopo il secondo intervallo di 3 anni, quando le date del calendario si erano portate troppo avanti nelle stagioni, allora il sesto mese, Ululu, veniva ripetuto in modo tale che le feste autunnali avvenissero in un periodo appropriato. Con il periodo di 19 anni gli intervalli erano invece 3, 3, 2, 3, 3, 3 e 2; e qui, per lo stesso motivo, dopo il terzo intervallo consecutivo di 3 anni veniva inserito un secondo Ululu. Dobbiamo ricordarci che nei tempi antichi un secondo Ululu era una misura di emergenza, da usare quando le date nel calendario si erano spinte troppo avanti nell’anno. È stato possibile, sebbene non per tutti gli anni, ricostruire da documenti civili e tavole astronomiche quali anni avessero un mese in più ed è stato trovato che nel periodo di Cambise e Dario era in uso un ciclo di 8 anni; questo è dimostrato dal fatto che i numeri degli anni divisibili per 8 lasciavano sempre lo stesso gruppo di resti. Qui sotto è presentato un catalogo di anni di intercalazione, dove la prima riga ci dice l’anno del regno del re, la successiva ci dà l’equivalente nel nostro calendario e la terza il disavanzo: un asterisco indica gli anni che hanno un secondo Ululu.

All’inizio non si nota alcuna regolarità, poi dal 530 a.C. c’è un periodo regolare di 8 anni, ma dopo tre periodi di quel tipo sembra che i calcoli non fossero esatti e nel 503 a.C. l’intercalazione dovette aspettare fino al mese di Adaru. Un secolo dopo abbiamo di nuovo una serie di dati consecutivi ed emerge un periodo di 19 anni:

Re Ciro Cambise Dario

Anno 2* 3 4 7 9* 3* 5 8 3* 5 8 11* 13 16 19 22

a.C. 537* 536 535 532 530* 527* 525 522 519* 517 514 511* 509 506 503 500

Disavanzo 1 0 7 4 2 7 5 2 7 5 2 7 5 2 7 4

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Poiché il resto veniva mostrato solo dopo una divisione per 19, il periodo di 19 anni fu in uso dopo il 380 a.C. L’uso del nome del sovrano regnante per numerare gli anni fu abbandonato quando il successore di Seleuco iniziò a contare gli anni dall’inizio della dinastia. Questi anni formano quella che è chiamata “Era seleucide” (SE), il cui primo anno inizia nella primavera del 311 a.C.; negli anni di questa era, quelli con disavanzo 1, 4, 7, 9, 12, 15, 18* hanno un tredicesimo mese intercalato.

Ora ci si potrebbe chiedere se, nel numero di giorni in un mese, 29 o 30, alcuni cicli possano aver sostituito, forse, la data empirica fissata con il primo crescente lunare. I testi, quando consultati, non mostrano alcuna regolarità nei cicli; ciò è dovuto alla grande irregolarità del percorso lunare e alla variabilità dell’inclinazione dell’eclittica sull’orizzonte, che in primavera rende visibile il crescente a una distanza dal Sole minore che in autunno. Nella zona geografica babilonese, i metodi empirici erano certamente i migliori e i più semplici. Un secolo più tardi, come è stato mostrato, la scienza progredì fino a un punto tale che queste irregolarità poterono essere calcolate anticipatamente.

Così tante osservazioni della Luna vennero eseguite che questa divenne naturalmente un oggetto di calcolo teorico. Ciò ebbe inizio esattamente al tempo degli Assiri: in alcuni

testi della biblioteca di Assurbanipal sono state trovate serie regolari di numeri che misurano schematicamente il tempo di intervallo tra il tramonto del Sole e quello della Luna per i giorni dopo il primo del mese, e similmente l’intervallo di tempo tra il tramonto del Sole e il sorgere della Luna per i giorni dopo il quindicesimo. Altre tavole, forse risalenti a prima del 1000 a.C., danno schematicamente l’aumento e la diminuzione, con le stagioni, dell’intervallo tra il tramonto del Sole e il primo crescente lunare (o tra il tramonto del Sole e il sorgere della Luna nel giorno dopo la Luna piena). Tra un massimo di 16 ush e un minimo di 8 ush, il valore cambia uniformemente di 1 ush e 1/3 al mese.

La forma che la conoscenza teorica prese nei secoli che seguirono, completamente differente dalla nostra, mostra chiaramente le sue origini in ordinarie pratiche osservative a scopo di predizione. Il più antico documento di questo tipo di astronomia è l’antica copia di un testo datato nell’anno 7 dell’era di Cambise (523 a.C.). Esso contiene dati riguardanti la prima Luna e le successive fasi lunari e tutti i fenomeni riguardanti la Luna piena, espressi in termini di ush (4 minuti), calcolati per tutti i mesi consecutivi al primo; i dati relativi al secondo mese con il significato degli ideogrammi sono mostrati nella tabella che segue:

Re Artaserse

Anno 18 20 24 26 29 32 34* 37 40 43 45 a.C. 387 385 381 379 376 373 370* 368 365 362 360 Disavanzo 7 5 1 18 15 12 9 7 4 1 18

Re Ochus Dario Alessandro Anno 2 5 8* 10 13 16 18 21 1 4* 1 4 7 a.C. 357 354 351* 349 346 343 341 338 335 332* 330 327 324 Disavanzo 15 12 9 7 4 1 18 15 12 9 7 4 1

Re Filippo Antigono Seleuco

Anno 2 5 2 5* 1 4 7 9 12 15 18*

a.C. 322 319 316 313 311 308 305 303 300 297 294*

Disavanzo 18 15 12 9 7 4 1 18 15 12 9

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Airu 30 23 13 8 notte 14 1 14 1 notte 15 14 27 21

20 shu (tramonto) lal (opposizione) 40 na (alba) 30 mi (notte)

Simannu 30 18

30 shu La tabella si legge nel seguente modo: il

mese precedente ha 29 giorni quindi il primo giorno di Airu è chiamato 30; la Luna tramonta 23 ush (92 minuti) dopo il Sole. Nel tredicesimo giorno di Airu la Luna tramonta 8 ush e 1/3 (33 minuti e 1/3) prima del Sole. Nella sera del quattordicesimo giorno di Airu la Luna sorge 1 ush (4 minuti) prima del tramonto del Sole; quindi essi sono in opposizione. Sempre in questo giorno la Luna è appena brillante all’alba e tramonta 1 ush e 2/3 (6 minuti e 2/3) dopo il sorgere del Sole. Nel quindicesimo giorno la Luna sorge nella notte, 14 ush e 1/2 (58 minuti) dopo il tramonto. Nel ventisettesimo giorno l’ultimo falcetto visibile di Luna sorge 21 ush (84 minuti) dopo il sorgere del Sole. Airu ha 29 giorni; nel primo giorno del mese di Simannu la Luna tramonta 18 ush e 1/2 (74 minuti) dopo il tramonto del Sole.[17]

Questi sono gli stessi fenomeni che furono osservati qualitativamente al tempo degli Assiri per descrivere la congiunzione e l’opposizione della Luna e del Sole, mentre ora sono forniti in forma numerica. Se ci chiediamo da quale fonte siano pervenuti questi numeri, possiamo trovare spiegazione in testi più recenti (dal 378 a.C., per gli anni 33 e 79 dell’Era seleucide, cioè 273 e 232 a.C.) dove sono forniti gli stessi tipi di dati espressi come quantità osservate, dispersi in tavole cronologiche di dati riguardanti pianeti, eclissi, aloni, prezzi delle provvigioni ed eventi politici. Questi possono essere intesi come una più rifinita continuazione delle vecchie osservazioni qualitative degli Assiri. Oltre a questi testi, ci furono in tempi successivi tavole di calcoli simili a quella del 523 a.C. La decifrazione e la spiegazione di questo tipo di tavole, dall’anno di Seleuco 188, 189 e

201, portate avanti da Epping nel 1889, furono il primo passo dello studio scientifico della astronomia babilonese. In qualche modo queste tavole di calcoli devono per forza derivare da dati osservati, probabilmente facendo uso di tavole schematiche, come già detto sopra.

La conoscenza dei periodi dopo i quali lo stesso fenomeno si ripete fu la prima forma di astronomia scientifica. La periodicità dei fenomeni celesti, che obbliga la mente stessa a regolari e attente osservazioni, fu il ponte tra la pratica empirica e la teoria predittiva. Nella periodica ripetizione le regole astratte nacquero da fatti concreti e la periodicità fu il fondamento e l’essenza della prima scienza delle stelle: dalla scoperta e dalla definizione delle periodicità, la conoscenza divenne scienza. Questo è il breve riassunto dello sviluppo dell’astronomia babilonese dal settimo al terzo secolo prima di Cristo, non solo per la Luna ma anche per i pianeti.

Il periodo dopo il quale ritornano la congiunzione e l’opposizione dei pianeti, cioè le stesse posizioni relative rispetto al Sole, è chiamato “periodo sinodico dei pianeti”. Poiché Saturno, Giove e Marte impiegano 30, 12 e 15⁄8 anni per una rivoluzione lungo l’eclittica, i loro periodi sinodici sono circa di anni 1 e 1/29, 1 e 1/11 e 15/7. Venere e Mercurio, che oscillano vicino al Sole, impiegano un anno per il loro percorso sull’eclittica e i loro periodi sinodici sono circa 8/5 e 1/3 di anni. Questo è anche il periodo di alternanza tra il moto diretto e quello retrogrado lungo l’eclittica. Questa non è però una ripetizione esatta, in quanto la velocità di avanzamento e la lunghezza dell’arco retrogrado cambia con la longitudine. Quindi, il tempo di rivoluzione lungo l’eclittica è secondario, generalmente più lungo dell’altro periodo. Poiché la rivoluzione non è costituita un numero esatto di anni, ma dura poco di più, è necessario, per riferirsi agli stessi valori, un multiplo comune al periodo sinodico e al tempo di rivoluzione per avere il moto e le posizioni relative al Sole e alle stelle. E poiché non esiste un preciso comune multiplo, questi lunghi periodi sono approssimati e i fenomeni, come ad esempio

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l’opposizione nella stessa costellazione, ritornano con alcuni giorni e con alcuni gradi di differenza. Questi lunghi periodi sono riportati nella tabella seguente:

Saturno 57 ps = 2 riv = 59 a + 2 gg (- 6 gg) Giove 65 ps = 6 riv = 71 a – 5 gg (- 0 gg) Giove 76 ps = 7 riv = 83 a + 0 gg

(- 13 gg o + 17 gg) Marte 22 ps = 25 riv = 47 a – 7 gg (+ 2 gg) Marte 37 ps = 42 riv = 79 a + 4 gg (+ 7 gg) Venere 5 ps = 8 riv = 8 a – 2 gg (- 4 gg) Mercurio 19 ps = 6 riv = 6 a + 8 gg

(+ 14 gg o -16 gg) Mercurio 41 ps = 13 riv = 13 a + 2 gg (- 4 gg) Mercurio 145 ps = 46 riv = 46 a + 0,3 gg (-1 gg)

(ps = periodo sinodico, riv = rivoluzione, a = anni, gg = giorni)

Questi sono normali anni solari; poiché il

Sole avanza ogni giorno di 1º in longitudine, l’eccesso di gradi sul numero di rivoluzioni è uguale all’eccesso di giorni sul giusto numero di anni. Se, comunque, noi contiamo con gli anni lunari dei Babilonesi di 12 o 13 mesi lunari, l’eccesso di giorni è quello scritto in parentesi.

Il fatto che i Babilonesi conoscessero e usassero parte di questi periodi appare dai testi, fortemente danneggiati, dei tempi Persiani. In essi si può leggere[18]:

«[…] Dilbat (Venere) 8 anni dietro ti ritornerà […] 4 giorni saranno così sottratti […] Gudud (Mercurio) 6 anni dietro ti ritornerà […] i fenomeni di Zalabatanu (Marte) 47 anni […] 12 giorni in più […] così saranno osservati […] i fenomeni di Sag-ush (Saturno) 59 anni […] torneranno indietro giorno per giorno così saranno osservati […] i fenomeni di Kaksidi (Sirio) 27 anni […] torneranno indietro giorno per giorno così saranno osservati […]» Qui i periodi dei pianeti sono

espressamente nominati. Kugler suppose che i 27 anni scelti con la stella fissa Sirio, rappresentassero un periodo di 8+19 anni, ma ciò non è chiaramente successo nella serie dei noti anni di intercalazione.

Ma come era possibile che gli antichi astronomi usassero questi lunghi periodi per le previsioni? Per conoscere i fenomeni riguardanti un pianeta, essi dovevano solo tornare indietro di un numero di anni pari a un lungo periodo e copiare i fenomeni di

quell’anno, correggendoli, se necessario, di alcuni giorni o di alcuni gradi. Se dovevano calcolare le effemeridi, ad esempio, per l’anno 140 dell’era di Seleuco, dovevano prendere per Giove i dati dell’anno 57 (140-83), per Venere quelli dell’anno 132 (140-8), per Saturno quelli dell’anno 81 (140-59), ecc. I testi che mostrano i passi successivi da affrontare ci confermano questa procedura.

Per prima cosa le osservazioni venivano riportate in ordine cronologico in una specie di diario, come base per i passi successivi. Il più antico di questi diari è contenuto in una parte dei testi dell’anno 7 di Cambise (532 a.C.), che abbiamo già menzionato sopra. Lì sono citati i pianeti in riferimento alle costellazioni in cui si trovano (a ovest, a est, nel centro), così come le loro distanze dalla Luna e le loro distanze reciproche, in ammat (di 24 ubani); 1 ammat è circa 2½°.

«Anno 7, V 22 Giove si trova a ovest della Vergine al tramonto del Sole; VI 22 a est della Vergine al sorgere del Sole; X 27 a est della Bilancia al tramonto del Sole. Anno 7, III 10 Venere nella testa del Leone al tramonto del Sole; III 27 nel Cancro al mattino; XII 7 nel mezzo dei Pesci che tramontano al mattino; anno 8, I 13 nel Carro [le corna del Toro] che sorge di notte. Anno 7, VI 3 Saturno nel mezzo della Vergine al tramonto del Sole; VII 13 a est della Vergine al sorgere del Sole; anno 8, V 29 tramonta. Anno 7, II 28 Marte a ovest dei Gemelli al tramonto del Sole; VI 13 nei piedi del Leone al sorgere del Sole; anno 8, V 12 staziona; anno 9, II 9 a est del Leone al tramonto del Sole […] Anno 7, VI 24 Venere ha la più grande elongazione; VII 23 all’alba Giove 3 ammat a est della Luna; VII 29 all’alba Venere 2 ubani a nord di Giove; VII 12 Saturno 1 ammat a ovest di Giove […] Anno 7, IV 14 1⅔ beru dopo l’inizio dell’eclissi lunare notturna, che si stendeva solo sulla parte nord della Luna; X 14 2½ beru durante l’eclissi lunare, completamente visibile, che si estendeva sulla parte nord e parzialmente su quella sud […]».[19] Un altro testo in cui possiamo trovare una

lista consecutiva di dati osservativi dal 379 a.C. porta il titolo (parzialmente distrutto, ma ricostruito in base a testi simili): Osservazioni per le celebrazioni dal mese Tishritu fino al termine del mese Adaru dell’anno 26 di Arses che è anche chiamato Artaserse. Questo titolo ci mostra come un puro lavoro astronomico sia permeato dalle idee sacerdotali riguardanti feste religiose;

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nella coscienza dell’osservatore è sempre presente il dovere del servizio agli dei. In questo frammento leggiamo:

«VIII 30 la Luna appare 14½ (58 minuti) con una falce visibile; notte 1/1 Marte verso ovest sta tornando in moto retrogrado sotto β Arietis 2 ammat 10 ub; […] notte 12 Luna piena circondata da un alone, Marte giace vicino; il re e il figlio del re […] la Luna 2/3 ammat a est. di α Tauri […]; 16 Giove sorge eliaco nello Scorpione, 11½ (46 minuti) visibile; […] 22 mattino la Luna sopra Saturno 2½ ammat, più a est; 22 Mercurio nel mattino sorge eliaco nel Sagittario, 22 Marte si trova a ovest […]»[20]

Questi diari, che davano le posizioni della

Luna e dei pianeti rispetto a stelle standard, erano certamente redatti regolarmente dagli astronomi come parte dei loro doveri quotidiani.

Il passo successivo consisteva nella stesura di schede per ogni pianeta che contenevano i dati per gli anni successivi, tratti dai sopraccitati diari. Un testo di questo tipo, probabilmente riguardante il periodo dal 387 al 346 a.C., è in parte conservato e contiene il sorgere, il tramontare, le stazioni di Giove e le sue posizioni relative rispetto a stelle standard. Inoltre, vi è espressa la durata dei mesi nel modo usuale … Duzu 1, Abu 30, Ululu 1, così che non ci fosse alcun dubbio sul numero dei giorni. Da queste schede veniva composta una “tavola ausiliaria” per ogni anno. Un esempio di queste tavole ausiliarie si trova in un testo dal titolo: Il primo giorno, i fenomeni, il moto e le eclissi che sono accadute durante l’anno 140 [21] Il testo contiene i dati di Giove per l’anno 69 e 57, di Venere per l’anno 132, di Mercurio per l’anno 94, di Saturno per l’81, di Marte per il 61 e il 93 e, sul verso, le eclissi del 122; tutti anni dell’Era seleucide. Questi sono esattamente gli anni che, se addizionati al periodo dei pianeti sopra riportato, producono l’anno 140. Così, copiandoli, con delle piccole correzioni se necessario, si potevano ottenere le effemeridi per l’anno 140.

Piccoli e grandi frammenti di queste effemeridi dedotte, con bordi cancellati e con nomi e numeri danneggiati, sono stati studiati e decifrati per gli anni,

rispettivamente, 104, 120, 194 e 129, 178, 301 dell’era di Seleuco. Tutti forniscono dati sull’alba e sul tramonto, sulle stazioni e sulle opposizioni, per Venere e Mercurio sulla massima elongazione, e anche su eclissi solari e lunari. Comunque, il contenuto dei testi relativi ai primi tre anni è abbastanza diverso rispetto agli altri tre. Nei testi del primo gruppo vengono fornite le costellazioni e le distanze angolari dei pianeti da stelle standard: come per l’anno 120:

«II 7 notte, Marte sopra γ Geminorum 4 ammat; 23, sera, Mercurio sotto β Geminorum 2½ ammat; XII 24 mattino, Marte sotto β Capri 2½ ammat»[22] Negli altri tre testi le distanze dalle stelle

sono mancanti ed è nominata solo la costellazione. Così, per l’anno 178 leggiamo:

«IV 30 Venere e Marte nei Gemelli, Mercurio nel Cancro, Saturno nel Sagittario». Questo sembra essere meno preciso, ma

poi dopo di questi seguono altri dati: «IV 13 Mercurio raggiunge il Leone, 5 Venere raggiunge il Cancro, V 3 Marte raggiunge il Cancro, V 15 Venere raggiunge il Leone, VI 9 Venere raggiunge la Vergine»[23] Ma quali sono i confini delle costellazioni?

I calcoli della longitudine dei pianeti in queste date portano ai seguenti valori 112º, 81º, 142º, 52º …, tutti valori più grandi di 22º rispetto ai successivi multipli di 30º. Tutte le costellazioni hanno ricevuto un’estensione di 30º in longitudine. Questo significa che esse venivano usate come i segni dello zodiaco, divisioni artificiali e teoriche dell’eclittica. Effemeridi di questo tipo, che danno la longitudine esatta per determinati giorni, rappresentano un alto livello di conoscenze teoriche dei moti planetari. Queste effemeridi furono in uso fino alla fine degli ultimi anni di cui abbiamo documentazione. Esse sono attendibili in quanto con semplici calcoli possono essere derivate facilmente dalle precedenti osservazioni. Possiamo essere sicuri che dai frequenti paragoni con le

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nuove osservazioni, la teoria veniva sempre migliorata tramite una più precisa conoscenza delle correzioni da poter applicare dopo i lunghi periodi.

Dopo i moti planetari furono le eclissi a

occupare un importante ruolo nelle predizioni. Mostrarono, infatti, grandi progressi nella teoria. Nel periodo assiro, le eclissi erano in molti casi annunciate, probabilmente solo sulla base dei loro intervalli di ripetizione di sei mesi, in serie di 5 o 6, in conseguenza della diminuzione e poi dell’aumento della distanza della Luna piena dai nodi. La serie finiva quando questa distanza diventava più grande di 11° o 12°; quindi una nuova serie sarebbe ripartita presto dalla precedente Luna piena. Una precedente Luna piena ha una longitudine minore di 29,11°:quindi, in relazione ai nodi che recedono mensilmente di 1,56°, essa è 30,67° indietro. Quando la distanza dal nodo, come calcolata nel nostro esempio nel quarto capitolo per velocità medie, ha i valori crescenti +9.64°, +13,67°, +17,69°, allora questi sono, per la Luna piena precedente, -21,03°, -17,00°, -12,98°, -8,95°, e producono l’inizio di una nuova serie. Per questa nuova serie, cominciando 8 x 6 − 1 = 47 mesi dopo il primo inizio, noi possiamo scrivere le distanze tra la Luna piena e il nodo sotto le distanze della prima serie:

In questa nuova serie la sequenza delle eclissi totali e parziali è un poco differente dalla prima, perché tutte le distanze differiscono di 1,52°, dapprima più piccole, poi più grandi delle precedenti quantità. Diamo di seguito le distanze per queste serie consecutive:

Le serie si susseguono, così, una dopo

l’altra, sempre includendo due o tre eclissi totali nel mezzo, precedute e seguite da una o due eclissi parziali e separate da due o tre periodi di sei mesi meno uno senza eclissi; le eclissi che aprono le serie hanno intervalli di 41 o 47 mesi. I valori delle distanze consecutive mostrano che ognuna di queste serie di eclissi ha un differente aspetto nella sequenza di eclissi parziali e totali, ma si vede come, nella sesta serie, le distanze siano ritornate molto vicine a quelle dei valori precedenti, quindi la sesta serie appare molto simile alla prima. Dopo cinque serie, sembra si ripeta una serie con lo stesso aspetto e con la stessa sequenza.

Potrebbe benissimo trattarsi del fatto che gli astrologi assiri si fossero accorti che, 41 o 47 mesi dopo un eclissi totale, un’altra eclissi totale o quasi totale si dovesse ripetere. Ma questo non può essere provato, perché, nelle loro annotazioni, non spiegano le basi delle loro previsioni. Il lungo periodo, formato dalla sequenza delle cinque serie, dopo il quale il medesimo aspetto ritorna, è più interessante. Qual è questa lunghezza? Fra le serie, quelle di sei intervalli di sei mesi si ripetono due volte, quelle di sette intervalli si ripetono tre volte, e tra le serie ci sono cinque intervalli di cinque mesi; in totale ci sono dunque (6 x 2) + (7 x 3) = 33 intervalli da sei mesi ciascuno, che producono 33 x 6 + 25 = 223

mesi. Questo periodo è conosciuto tramite scritti successivi come saros; nei testi babilonesi e nell’antica Grecia, comunque, questo nome non sembra mai ricorrere. Un ciclo di saros è costituito da 6585 giorni e 1/3, cioè 18 anni solari più 11 giorni e 1/3; durante questo periodo i nodi compiono

quasi una rivoluzione retrograda, e la Luna

prima serie -14,50° -10,48° -6,45° -2,43° +1,59° +5,62° +9.64° +13,67° seconda serie -12,98° -8,95° -4,93° -0,91° +3,11° +7,14° +11,16° +15,18°

no ecl parz totale totale totale parz parz ? no ecl

terza serie -11,46° -7,44° -3,42° +0,61° +4,63° +8,65° +12,67° quarta serie -13,97° -9.95° -5,93° -1,90° +2,12° +6,14° +10,16° +14,19 quinta serie -12,46° -8,44° -4,41° -0,39° +3,63° +7,66° +11,68° sesta serie -14,97° -10,94° -6,92° -2,90° +1,12° +5,15° +9.17°+13,19°

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attraversa il nodo ascendente 242 volte. La scoperta di questo lungo periodo

sembra possa aver introdotto alcune difficoltà, poiché le cinque serie qui non sono molto diverse in carattere. Ma fu facilitato dalle irregolarità nei fenomeni relativi alle eclissi. Le distanze date sopra, che aumentano con regolarità, sono calcolate con la supposizione di velocità medie costanti e di dimensioni solari e lunari medie. In realtà, le dimensioni angolari della Luna e della sua ombra sono alcune volte maggiori, altre volte minori, così che le distanze della Luna piena dal nodo, necessarie per una eclissi totale, oscillano tra 4,75º e 5,83º, mentre per una eclissi parziale tra 9,5º e 12,2º. Tuttavia è più importante la velocità variabile del Sole; la longitudine del Sole, e quindi anche la distanza della Luna piena dal nodo, può essere di 2,28º più grande (in marzo) o più piccola (in settembre) rispetto a ciò che abbiamo assunto nel nostro esempio. Apportando tali correzioni (partendo per prima cosa con un valore arbitrario della longitudine solare) le distanze della Luna piena dal nodo nelle sei serie successive sono quelle della seguente tabella:

In conseguenza degli intervalli di sei mesi e delle correzioni alternate positive e negative, la successione dei valori diventa fortemente irregolare e qualche volta anche invertita. L’aspetto delle serie successive diventa ora molto diverso; alcune volte ci sono quattro eclissi totali, altre volte tre o addirittura due; nella nostra prima serie (e nella sesta) le eclissi totali appaiono senza neppure essere precedute da eclissi parziali. L’uguaglianza della sesta serie con la prima ora è molto più evidente. Questo è dovuto al fatto che il periodo chiamato saros è solo di 11 giorni più grande di un numero intero di anni solari, così che dopo questo periodo la

longitudine solare approssimativamente ritorna. Per di più, il periodo di variazione del diametro lunare e della dimensione dell’ombra è di 9 anni, così che dopo 18 anni essi ritornano molto vicini a una ripetizione. Ciò potrebbe aver favorito la scoperta di questo periodo di 18 anni da parte degli osservatóri babilonesi. Che essi conoscessero e usassero questo periodo nei secoli successivi, è evidente dalle “tavole ausiliarie” menzionate sopra, nelle quali le eclissi erano derivate da tavole relative a 18 anni prima.

Tutto ciò è dimostrato molto chiaramente su un famoso testo conservato nel British Museum, studiato da Strassmaier e da Epping, e da loro chiamato Canone-Saros[24] È questo un frammento, distrutto su ambo i lati, che contiene, raggruppati in un certo numero di colonne, una lista di numeri relativi solamente a mesi e anni, due nomi di mesi ogni anno, senza alcun commento. Sono gli anni del regno di successivi re, indicati dalla prima sillaba del loro nome: Astaserse II, Ochus (Umasu), Arses, Dario, Alessandro, Filippo, Antigono, Seleuco; gli ultimi nominati continuano come appartenenti all’era di Seleuco, sino all’anno

35 di Seleuco; quindi si estendono dal 373 al 277 a.C. I mesi in ogni colonna, indicati dai numeri romani I-II-XII, aumentano di 6, alcune volte di 5. Dove è presente la sillaba dir viene inserito un tredicesimo mese; poi c’è un apparente salto di soli 5 mesi. Così, ogni colonna di 38 righe comprende 223 mesi ed è chiaro come questa sia una lista di mesi di eclissi, completata prima e dopo con mesi senza eclissi. Le divisioni con le linee orizzontali separano le serie, e l’aumento di cinque mesi indica l’intervallo di 5 mesi tra i gruppi. Il paragone con una moderna tavola di calcoli riguardanti le eclissi mostra che i mesi con eclissi totale possono stare nel

prima serie -12,37º -12,70º -4,20º -4,61º +3,87º +3,37º +11,87º +11,51º seconda serie -11,55º -10,15º -3,87º -1,76º +3,76º +6,70º +11,36º +15,18º terza serie -12,73º -5,98º -6,02º +2,38º +2,77º +10,64º +10,57º quarta serie -11,74º -12,14º -3,81º -3,94º +4,04º +4,34º +11,87º +12,69º quinta serie -12,16º -8,51º -4,55º -0,04º +3,05º +8,42º +10,69 sesta serie -12,03º -13,02º -4,79º -5,12º +3,37º +2,87º +11,45º +10,94º

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centro di ogni gruppo. All’interno di questi gruppi possiamo contare 3, 8, 7, 8, 8, 4 righe; aggiungendo le prime 3 righe come continuazione delle ultime 4, otteniamo 8, 7, 8, 8, 7, numeri che corrispondono esattamente alle nostre 5 serie.

Qui sorge una domanda: se si devono intendere 5 serie, perché l’ultima è divisa in due parti? Strassmaier ha suggerito che una spiegazione può essere trovata nel fatto che il ciclo di saros non è totalmente esatto. Nei nostri calcoli delle distanze regolari della Luna piena dal nodo, si può vedere che dopo 5 serie, 223 mesi, il primo valore (-14,50) non è esattamente lo stesso riportato nella prima delle sei serie (-14,97). In ogni ciclo di saros, la Luna piena ritorna indietro di una piccola quantità, finché, quando la sua distanza cresce a dismisura, inizia la prima della nuova serie. Un nuovo valore, spesso troppo grande, viene aggiunto come ultimo della serie precedente. Quindi, l’intervallo di 5 mesi viene spostato una posizione più avanti, e la linea di divisione viene spostata più in basso sopra un’altra linea. Questo accade a parecchie linee finché, dopo 8 oppure 9 cicli di saros (150 anni), tutte sono scese di un posto. Come spiegazione delle tre linee, la lista dovrebbe essere incominciata 450 anni prima. Strassmaier, comunque, presuppone che al lato sinistro di questa tavola debbano mancare 10 colonne, così che originariamente essa riportasse dati riguardanti il 572 a.C.

Questo Canone-Saros ci offre un chiaro quadro del modo in cui la scienza babilonese si sia sviluppata. Esso ci mostra come, a parte la conoscenza delle successioni delle eclissi in serie, gradatamente vennero alla luce le stesse successioni di serie.

Non sappiamo datare esattamente questo testo, ma potrebbe essere stato scritto dopo il 280 a.C., quando era in uso l’Era seleucide. Quindi, questo graduale sviluppo della

conoscenza ebbe luogo nel periodo persiano, tra il sesto e il terzo secolo a.C.

Il Canone-Saros è un importante documento della scienza babilonese. Non si tratta di un testo come tanti altri con solo liste di predizioni e di osservazioni, ma è quasi la formulazione di una teoria sotto forma di una tabella che si estende ugualmente sia nel passato che nel futuro. Essa combina una moltitudine di eclissi passate e future in una sola tabella, che, potenzialmente, potrebbe essere estesa indefinitamente in entrambe le direzioni. Questa rappresentazione di una vasta gamma di fenomeni in una immagine astratta, mostra quale notevole livello avesse raggiunto la scienza astronomica.

Ci si potrebbe ora chiedere come si potessero svolgere tali predizioni anche per le eclissi solari. Il numero di eclissi solari per una certa zona della terra è solo la metà del numero delle eclissi lunari; inoltre, le occultazioni del disco solare durante il giorno sono molto più difficili da vedere dei fenomeni lunari durante la notte. Inoltre, a causa della parallasse, la loro visibilità è abbastanza variabile ed è abbastanza difficile trovare delle regolarità. Nei racconti degli astrologi, eclissi solari sono spesso aspettate o annunciate, ma non sappiamo su quale base affermassero ciò. Le eclissi solari avvengono mezzo mese prima o dopo le eclissi lunari e appaiono più cospicui (perché in metà mese il Sole avanza di circa 15º) negli anni tra le serie di eclissi lunari. Potrebbero essersi accorti che le eclissi solari, la maggior parte delle volte, avvengono nel mezzo dell’intervallo delle serie di 41 o 47 mesi, quindi 20½ o 23½ mesi dopo l’eclissi lunare totale. Ma queste sono solo delle supposizioni e migliori informazioni si possono trovare solo in testi più recenti.

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Fig. 3. Il canone babilonese di Saros

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CAPITOLO 6

LE TAVOLE CALDEE Dopo la morte di Alessandro e la fondazione dell’impero Seleucide, il declino di Babilonia stava per iniziare. La Grecia commerciava sul Mar Nero e con l’Egitto aveva già assorbito una parte importante del commercio della Babilonia sulle direttrici est-ovest, nei regni dei re persiani, che avevano inutilmente provato a soggiogare questi avversari. In età ellenistica il Mediterraneo divenne il teatro principale del commercio mondiale; nuove città greche — tra cui prosperò specialmente Alessandria, con il suo collegamento con l’India attraverso il Mar Rosso — si svilupparono in ricchi centri commerciali e industriali. Babilonia ora era collocata lontano e fuori dalle nuove rotte dei traffici e perse la sua prosperità. La sua posizione come capitale era stata presa dalla nuova città greca di Seleucia e, fra non molto, la Siria sarebbe diventata il nucleo dell’impero Seleucide. La conquista del porto della Mesopotamia, nel 181 a.C., la tagliò completamente fuori dal Mediterraneo; negli ultimi secoli prima della nostra era, Babilonia viene raramente menzionata. La Mesopotamia, naturalmente, rimase in seguito per molto tempo una fertile terra agricola, una risorsa di ricchezze per le vecchie cittadine di provincia, una risorsa di potere per le persone e i principi locali, ma solo di importanza limitata.

La scienza non ne venne immediatamente influenzata. Quando i mercanti e gli ufficiali andarono nella nuova capitale, i sacerdoti rimasero nei loro templi a Babilonia. La storia del Mondo presenta molti esempi in cui le energie, una volta risvegliate, hanno continuato a ispirare le scienze e le arti durante i secoli successivi e tradizioni culturali, metodi e idee sono rimasti attivi. Vennero raggiunti anche livelli superiori, soprattutto in questa regione, molto tempo dopo che la fiorente vita economica e politica, che aveva fornito il primo impulso,

era decaduta. L’astronomia continuò a svilupparsi durante gli ultimi 3 secoli a.C. e raggiunse addirittura il suo culmine in questo periodo. Gli scavi in diversi siti hanno portato alla luce dei frammenti che portano testimonianze ai più alti livelli della scienza babilonese.

Questa che noi ora incontriamo è una forma di teoria astronomica completamente nuova. Mentre le effemeridi calcolate per ogni anno continuavano a essere fatte, perché soddisfacevano bisogni pratici, la nuova forma andava incontro al desiderio di esprimere qualche fenomeno speciale — come, per esempio, l’opposizione o la stazione dei pianeti — in una forma completamente generale, per mezzo di tavole che si potevano estendere a volontà nel passato e nel futuro. I fenomeni non erano descritti qualitativamente, ma erano presi come semplici quantità; invece di specificare la costellazione o la distanza di alcune stelle in ammat e ubani, la posizione era data dalle coordinate ellittiche, longitudine e latitudine. Le unità della longitudine erano il segno zodiacale, 30°, e la sua trentesima parte, il grado, con le sue frazioni sessagesimali.

Sin dai tempi più antichi, i babilonesi possedevano un’eccellente strumento matematico nel loro sistema di numerazione sessagesimale. I numerali vanno da 1 a 59, rappresentati da punte (decine) e cunei (unità); nella colonne dei sessagesimali, ogni numero successivo è espresso in unità di 1/60 di quello precedente. Per mezzo di questo principio del valore a seconda della posizione (lo stesso del nostro sistema decimale), i babilonesi potevano esprimere qualunque grande numero, dalle più alte potenze del 60 a ogni piccola parte delle potenze di 1/60. I frammenti delle tavole astronomiche, da noi conosciuti, sono composti da colonne di numeri senza nomi

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intercalate da simboli per i mesi e i segni zodiacali. Il loro significato venne svelato dai numeri stessi. Ogni tanto questo era semplice; ma spesso erano necessari lavori più pazienti, estrema abilità e collaborazione di diversi studiosi per arrivare a una interpretazione soddisfacente, specialmente quando i numeri erano spesso a mala pena leggibili sulle tavolette ed erano rovinati da errori di copiatura, distinguibili solo nel vero processo di decifrazione.

L’origine di queste tavole è sconosciuta. Noi possiamo supporre che gli astronomi caldei avessero degli strumenti con dei cerchi divisi per misurare la longitudine dei pianeti o della Luna o la longitudine delle stelle con cui confrontarle, ma niente del genere è stato trovato menzionato nelle tavole di argilla. I testi con i dati osservativi, che potevano essere considerati le fonti di queste nuove tavole teoriche sono anch’essi insufficienti: risaltano nella piena perfezione, separati da un’immensa lacuna dalle precedenti espressioni della teoria o della pratica. Sebbene noi capiamo che dovevano essersi basati sulle osservazioni, il percorso seguito è fino ad ora oscuro.

Le tavole sono di due tipi, lunare e planetario. Lo scopo era derivare in un contesto generale quantità tali che dovevano sempre essere gli oggetti principali dell’attenzione. Le tavole planetarie riportavano i fenomeni salienti in cinque sezioni: il sorgere eliaco, la prima stazione, l’opposizione, la seconda stazione, il tramonto eliaco; per tutti gli anni successivi, erano dati il giorno e la longitudine di ognuno di questi, con alcune colonne ausiliarie. Nelle tabelle lunari, le registrazioni — il tempo e il luogo del primo crescente lunare e della Luna piena — erano derivate da molte colonne di quantità ausiliarie. Le tavole lunari mostrano un numero di metodi di calcolo veramente complicati e solo in parte compresi; in confronto la struttura delle tavole planetarie è semplice.

Le variazioni in velocità, che appaiono alternate a spostamenti più grandi e più piccoli, sono il fenomeno più sorprendente in questi dati puramente numerici. Le

opposizioni dei pianeti si susseguono l’un l’altro su un lato dell’eclittica, con il più grande — sul lato opposto, con il più piccolo —intervallo di tempo e longitudine, così come anche gli altri fenomeni. Tali cambiamenti periodici possono essere rappresentati nel modo migliore da una sinusoide (una curva ondulata). I matematici greci fecero questo facendo uso del movimento nello spazio lungo un’orbita eccentrica. I Babilonesi non avevano una tale rappresentazione nello spazio; per loro un fenomeno celeste non aveva luogo lungo orbite circolari in uno spazio tridimensionale, ma su una volta in due dimensioni, dove gli astri seguivano il loro corso misterioso. Non svilupparono nuove strutture geometriche del mondo; non erano pensatori filosofici ma sacerdoti, limitati ai tradizionali riti religiosi e, quindi, distolti dall’adottare nuove idee cosmiche, non conformi alle dottrine sacre. I pianeti, per loro, non erano corpi celesti nello spazio, ma rimanevano luminose divinità che si muovono lungo i cieli come gli esseri viventi si muovono sulla Terra. Fino all’ultimo, le tavole si aprono con l’invocazione «nel nome del Dio Bel e della Dea Beltis, mia Signora, un pronostico». Essendo una scienza sacerdotale, l’astronomia caldea non poteva andare più in la del sistema del mondo che aveva ereditato, ma, al tempo stesso, le raffinate conoscenze e l’immensa quantità di osservazioni richiedevano un compendio teorico.

Così questi astronomi affrontavano il compito di rappresentare l’irregolarità del moto di un pianeta attraverso metodi puramente matematici. Al principio, se la cavarono con un metodo semplice ma sommario: in una metà dell’eclittica era assunto un valore costante più grande e nell’altra metà un valore costante più piccolo. In seguito, migliorarono il loro metodo rappresentando la quantità variabile con una linea a zig-zag, una crescita e una diminuzione uniformemente alternata tra due limiti fissati, punti nei quali la linea invertiva rapidamente la sua direzione come se si riflettesse. Avevamo incontrato la stessa

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procedura nelle semplici e schematiche tavole dei remoti tempi assiri. Ciò che manca qui è l’idea della continuità, di un graduale rallentamento dell’aumento fino all’arresto al massimo e poi una graduale accelerazione del cambiamento opposto; vi erano, piuttosto, salti rapidi tra colonne dritte di numeri.

Una serie di numeri possono servire come esempio, presa da un frammento della tavola di Giove (figg 5 e 6) che rappresenta le successive longitudini della seconda stazione di Giove espresse in segni zodiacali, gradi e minuti. Le successive differenze nella colonna vicina sono i movimenti risultanti in un periodo sinodico. Guardando alle loro differenze, nella colonna successiva, vediamo che questi movimenti regolari crescono o decrescono di 1°48’. Nelle vicinanze del limite del valore massimo e del valore minimo, è necessario un calcolo: da 29°41’ al minimo 28°15½’, la diminuzione è solo di 1°25½’, così (per completare 1°48’) ci rimangono 0°22½’, i quali, usati ora come incremento, presentano il valore seguente 28°15½’ + 0°22½’ = 28°38’.

Allo stesso modo, al limite superiore, 38°2’: l’incremento di 0°24’ e quindi la diminuzione di 1°24’ (totale 1°48’) porta il valore seguente 1°0’ al di sotto di quello precedente. Nel grafico (fig. 4) tutti questi valori sono collocati su una linea a zig-zag.

Naturalmente, la rappresentazione di una curva piana con una linea a zig-zag non può essere esatta. Gli errori possono essere visti dalle ultime 3 colonne nella nostra tavola,

dove nella quinta colonna lo zig-zag è sostituito da un onda con una semi ampiezza di 4°. La quinta colonna dà le longitudini calcolate con questi valori, e la colonna successiva mostra le deviazioni dei valori babilonesi da queste longitudini lentamente fluttuanti. Le deviazioni non superano in nessun luogo i 20’ e, in questo periodo, non si può pretendere una precisione migliore. Teoricamente, il metodo babilonese era buono come qualsiasi altro usato nell’antichità. Si erano preoccupati di aver assunto, comunque, che la media del massimo e del minimo, la quale è la media di tutte le quantità aggiunte in seguito, fosse esattamente giusta. Diversamente, il continuo aggiungere di intervalli avrebbe potuto, nella lunga corsa, condurre ad aumentare gli errori.

Le tavole di argilla con i testi, dalle quali sono state ottenute le nostre conoscenze di queste tavole planetarie, sono tutti cocci rovinati, rotti e illeggibili in molti punti, con una sola parte delle tavole utilizzabile.

Il materiale più abbondante tratta del pianeta Giove, il che è subito evidente perché le date sulle linee successive hanno intervalli di un anno e un mese (13 mesi lunari e 10 o 20 giorni), il periodo sinodico di Giove. Kugler, che fu il primo a decifrarli, ne trovò di 3 tipi. Nel primo e più antico tipo, l’arco sinodico (l’arco percorso in un periodo sinodico) è assunto avere, al di sopra della parte dell’eclittica da 85° a 240° di longitudine (cioè sopra i 155°), il valore costante di 30°; sull’altra parte, da 240° a 85° (cioè sopra 205°), il valore costante è 36°. Le due parti devono essere diverse, allo scopo di avere, per una rivoluzione completa attraverso l’eclittica, il giusto valor medio di 33°8’45”. Per un arco collocato in parte in una zona e in parte in un’altra, era stato

Fig. 4.

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calcolato un valore intermedio.

Le tavole di Giove del terzo tipo erano

presenti in tre frammenti. Il lato opposto di uno di questi è riprodotto in fig. 5, con la trascrizione nei nostri numeri sulla pagina vicina; i mesi sono rappresentati qui con i numeri romani da I a XIII∗ [25] La linea più in alto si legge come segue. I numeri 3, 10 rappresentano, nella scrittura sessagesimale l’anno 190 (SE); poi segue la data Adaru 11. La colonna successiva dà l’arco sinodico 31°29’, calcolato come una funzione a zig-zag, come avevamo indicato nella tavola precedente; poi segue la longitudine del

∗ I caratteri cuneiformi incisi sono stati copiati da Strassmaier dai frammenti originali e costituiscono i dati fondamentali dello studio. I caratteri completamente neri furono valutati successivamente da Kugler secondo la sua interpretazione.

Cancro 21°49’, che si trova aggiungendo quest’arco alla longitudine della linea precedente, qui non presente; dall’aggiunta dell’arco successivo di 29°41’ a questa longitudine, otteniamo Cancro 21°49’ + 29°41’ = Leone 21°30’. Il segno Ush nella colonna vicina denota la seconda stazione. Poi arriva la sezione seguente, con i dati del tramonto eliaco (indicati con Shu nella colonna seguente). Questa si apre con una prima colonna (43,45,30 come primo valore in sessagesimali) che serve, come la prima colonna nella sezione precedente, per calcolare i dati; poi seguono anno, data, arco sinodico e longitudine, come nell’altra sezione.

Queste tavole del terzo tipo presentano un grado più alto di accuratezza, poiché gli archi sinodici e gli intervalli di tempo delle date variano continuamente tra il limite inferiore e superiore; questi limiti sono 28°15½’ e 38°2’ per gli archi. La loro media, media di tutti i singoli valori nella lunga corsa, 38°8’45”, è identica al valore usato nelle tavole del primo tipo. Le tavole ci permettono di derivare una maggiore quantità di dettagli riguardo alle ipotesi di base applicate da questi astronomi.

Una salita e una discesa della linea a zig-

zag, dopo la quale la velocità è tornata allo stesso valore, corrispondono a una rivoluzione del pianeta; insieme ammontano

Fig. 5. Testo cuneiforme della tavola di Giove.

Fig. 6. Trascrizione del testo di fig. 5.

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a 2 volte la distanza del limite massimo e minimo, 2 x 9°46½’ = 19°33’. Un intervallo di 1°48’ corrisponde a un periodo sinodico; da cui deriva che una rivoluzione contiene 19°33’ : 1°48’ = 1031/36 periodi sinodici. In altre parole: 391 periodi sinodici sono uguali a 36 rivoluzioni, che durano 391 + 36 = 427 anni. Questa è una approssimazione più accurata di quella data nella tabella del Capitolo 5 per il periodo planetario, ma può essere derivato dai dati di quella tabella: se prendiamo sei tempi di 65 periodi, ognuna delle sei rivoluzioni meno 5°33’, è aumentata di un periodo; oppure, se prendiamo cinque tempi di 76 periodi, ognuna delle 7 rivoluzioni meno 0°57’, è aumentata di 11 periodi che formano una rivoluzione. L’arco sinodico trovato dividendo 360° per il numero di periodi 391/36 è 33°8’44,8”, del quale i 33°8’45”, usati sopra, sono una approssimazione sufficiente.

La lunghezza del periodo sinodico, l’intervallo tra due linee successive nella tavola (nella prima colonna della sezione) è stata calcolata con lo stesso principio. I valori sono rappresentati da delle funzioni a zig-zag che procedono per intervalli di 1,48 tra i limiti 50,7,15 e 40,20,45 (le virgole separano i sessagesimali successivi), che mostrano una differenza (in giorni) di 9,46,30, lo stesso numero per gli archi (in gradi). Questi periodi erano stati usati per calcolare le date. Qui gli astronomi Babilonesi erano di fronte alla difficoltà che non avevano la possibilità di conoscere la durata dei mesi futuri, se di 29 o di 30 giorni, così che i giorni successivi diventano completamente incerti. I mesi successivi, tuttavia, secondo il periodo del calendario di 19 anni, non erano mai incerti. Quindi, inventarono questo semplice metodo: presero 30 giorni per ogni mese, il che significa che lavoravano con giorni fittizi di 1/30 di mese, un po’ più piccolo dei giorni reali. Le piccole deviazioni nel tempo, espresse in questo modo rispetto alle date reali, al massimo metà giornata, non sono di alcuna importanza, poiché i momenti del sorgere e tramontare eliaco o la stazione, ugualmente in opposizione, non potevano

essere fissati con una precisione maggiore. È necessario, quindi che la media in eccesso del periodo di Giove oltre i 12 mesi lunari, 44,53 giorni (nei nostri decimali), sia aumentata a 45,23 di questi più piccoli giorni fittizi da aggiungere a ogni linea successiva. Infatti noi troviamo che il valor medio tra il limite più alto e quello più basso è ½(50,7,15+40,20,45) = 45,14, lo stesso valore in sessagesimali.

L’accuratezza delle tavole di Giove del secondo tipo, un grande numero delle quali è disponibile in frammenti, sta tra quelle degli altri due tipi. L’arco sinodico per le regioni opposte dell’eclittica è stato preso di nuovo pari a 30° e 36°, ma solo oltre gli intervalli più piccoli di 120° e 135° di longitudine; nelle regioni intermedie che si estendono oltre 53° e 52° di longitudine, era stato adottato un valore intermedio di 33°45’. In tal modo, i grandi errori che rimanevano con il primo metodo erano ridotti nelle regioni marginali. Si può ricordare che, oltre alle tavole, si è anche trovato un testo, un “testo procedurale”, che consisteva solamente in istruzioni su come calcolare queste tavole del secondo tipo, chiaramente rivolto agli scribi o agli apprendisti del tempio.

Le dichiarazioni precedenti sull’accuratezza delle tavole caldee hanno trattato solo dell’accuratezza formale ottenibile attraverso questo metodo teorico e non dell’accuratezza reale raggiunta. I veri errori potevano essere notevolmente più grandi a causa della conoscenza imperfetta delle quantità di base. Gli errori in longitudine della seconda stazione nelle tavole del terzo tipo ogni tanto oltrepassavano 1½°, non a causa dell’inadeguatezza della funzione a zig-zag, ma perché l’ampiezza era stata presa troppo grande e la velocità minima era stata assunta avvenire alla longitudine di 150° invece di 160°. Per gli scopi pratici, le effemeridi derivate direttamente dalle osservazioni passate, teoreticamente meno perfette, avrebbero potuto dare risultati migliori, ma le tavole rappresentano un livello più alto dell’abilità teorica.

Per gli altri pianeti si sono trovate tavole simili, ma meno complete. Per Saturno è

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conosciuto un piccolo frammento del terzo tipo, che contiene opposizioni da SE 155 a 167. Sono basate sulla relazione: 9 rivoluzioni = 256 periodi sinodici = 265 anni. Una tavoletta da Uruk, che tratta di Marte, è straordinaria, perché la velocità fortemente variabile di questo pianeta è stata rappresentata da un’applicazione più consistente del principio del secondo tipo. L’eclittica è divisa in sei sezioni, ognuna che comprende due segni; il valore dell’arco sinodico è costante in ogni sezione e salta ai confini: da 90° (nel Capricorno-Acquario), oltre 67½° (nei Pesci e Ariete) e 45° (nel Toro e Gemelli) a 30° (in Cancro e Leone), poi oltre 40° (nella Vergine e Bilancia) e 60° (nello Scorpione e Sagittario), poi di nuovo a 90°. Se, per esempio, un arco sinodico doveva passare dall’Acquario a 10°, poi a 20° (2/9 dell’arco totale) era situato nell’Acquario, il resto nella sezione seguente ha una lunghezza 7/9 x 67½° = 52½°, quindi raggiunge la sua fine oltre i Pesci fino all’Ariete a 22°30’.

Calcolando il numero medio di archi sinodici in una circonferenza, noi troviamo da questi dati 133:18. In un periodo sinodico, Marte completa una circonferenza intera dell’eclittica più l’arco sinodico; quindi, nei suoi 133 periodi, passa attraverso 151 rivoluzioni, prendendo 133 + 151 = 284 anni. Questa relazione è più accurata delle relazioni date nella tavola del Capitolo 5: è certamente il miglior valore che si possa ottenere per mezzo delle frazioni continue a partire dalla nostra attuale conoscenza dei periodi. Lo stesso vale per il grande periodo di Saturno.

Per Venere ci sono alcuni frammenti di tavole che indicano l’apparizione, la sparizione, e le stazioni alla sera e al mattino. Poiché il fenomeno ritorna dopo otto anni con solo una piccola diminuzione di longitudine, 2°40’, da quei frammenti non può essere dedotto alcun dato preciso circa gli archi sinodici. Per Mercurio — il pianeta più difficile in tutti i secoli, per le sue irregolarità e la sua difficile visibilità nell’ardente crepuscolo — ci sono anche alcuni testi, ma molti numeri vi sono quasi indecifrabili. Vengono dati tempo e luogo

per l’apparizione e la sparizione, come stella della sera e del mattino, negli anni SE 145-53 e SE 170-85. Kugler trova che metodi simili erano stati seguiti per l’apparizione di Mercurio come per gli altri pianeti: per tre sezioni dell’eclittica erano stati adottati tre valori costanti differenti per l’arco sinodico. Questi sono 106 dalla longitudine da 121° a 286°; 141⅓° (= 4/3 x 106°) da 286° a 60°; e 942/9° (= 8/9 x 106°) da 60° a 121°. Questa è una curiosa variazione asimmetrica; ma il corrispondente arco sinodico medio 848/2673 x 360° = 114°12’31,5”, è solo 4” più piccolo del valore reale; e anche il corrispondente periodo sinodico, 115d21h3m51s, è più accurato di quanto ci si possa aspettare anche dopo molti secoli di osservazione. I tempi e i luoghi della sparizione erano stati trovati con l’aggiunta, ai valori per l’apparizione, di quantità diverse per ogni segno zodiacale, mutevoli tra 44° e 12°. Naturalmente, questa, è una procedura piuttosto povera e tuttavia gli errori, benché di solito solo di alcuni gradi, in taluni casi ammontavano a 10°. Tuttora questo successo merita rispetto; ma Mercurio presenta troppe difficoltà per essere trattato esaurientemente in questo modo.

Tutte queste tavolette planetarie trattate da Kugler venivano, come fu scoperto in seguito, dalle rovine di un tempio nella città di Babilonia. Le tavolette che furono portate alla luce più tardi in Uruk confermarono i suoi risultati e talvolta li aumentarono con altri dettagli.

Si deve aggiungere che queste non erano le uniche tavole planetarie nell’astronomia caldea. Venne trovata una tavoletta contenente il calcolo della longitudine di Giove per tutti i giorni consecutivi durante alcuni mesi di SE 147-48, includendo una stazione come massimo[26] I moti giornalieri, costituiti da somme, erano essi stessi derivati sommando una serie di valori regolari crescenti. Così, le longitudini formano una curva del terzo grado che copre i due punti stazionari e il moto retrogrado intermedio.

Tornando ora alle tavole della Luna, si

rimane colpiti dalla loro struttura complicata, cioè dall’alto grado della

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conoscenza delle irregolarità del moto della Luna e dall’abilità nel trattamento e nella rappresentazione di quelle irregolarità. Ma di poco minore è la nostra ammirazione per l’abilità e la perseveranza dei moderni investigatori — soprattutto i tre padri gesuiti, Epping, Kugler e Schaumberger, che, dal 1889 al 1935, hanno continuato ognuno i lavori dell’altro — per portare alla luce questa scienza antica da non più di alcuni frammenti con caratteri quasi indecifrabili. I tre gesuiti trovarono due tipi di sistemi di calcolo. Di un sistema, datato in anni più tardi, esiste, accanto ad alcuni piccoli pezzi, una larga tavola, del SE 180 (130 a.C.), assemblata da Strassmaier da frammenti separati; contiene 18 colonne di quantità usate nel calcolo. Di un altro sistema di calcolo più primitivo apparso prima (SE 140), esistono solo piccoli frammenti, che in nessun luogo mostrano il calcolo completo per un singolo caso. Tuttavia fu possibile ricostruire il metodo di lavoro di questo sistema con l’aiuto di una coppia di tavole delle eclissi e di un testo procedurale con le istruzioni di lavoro.

Lo svolgimento dei calcoli consisteva nella derivazione, dapprima, del tempo e del luogo delle congiunzioni esatte del Sole e della Luna (che noi ora chiamiamo “Luna nuova”) e, soprattutto, delle loro posizioni (Luna piena), sul rovescio della stessa tavoletta. Dalle congiunzioni venivano derivati, applicando le correzioni, il giorno e l’aspetto della prima comparsa del crescente lunare. Entrambi i tipi di eclissi venivano calcolati introducendo le variazioni nella latitudine della Luna; le eclissi solari venivano derivate nello stesso modo di quelle lunari.

Il problema era complesso, poiché si dovevano derivare le congiunzioni di due corpi, ognuno dei quali si muoveva con velocità variabile. Se uno dei due (in questo caso la Luna) si muove rapidamente e l’altro (il Sole) si muove lentamente, il punto di incontro dipende principalmente dal corpo lento, e il momento dell’incontro dal corpo veloce. Il fatto che gli astronomi babilonesi compresero il problema risulta evidente dal loro metodo di affrontarlo, ossia nel

dividerlo in successive fasi. In prima battuta, le variazioni nella velocità solare venivano utilizzate per calcolare il punto di congiunzione e apparizione, cioè la longitudine della Luna nuova invisibile e della Luna piena; poi, potevano essere derivate tutte le quantità che dipendono da questa longitudine. Successivamente, venivano prese in esame le irregolarità nel moto lunare, allo scopo di trovare l’intervallo di tempo tra congiunzioni e opposizioni successive.

Le prime colonne delle tavole danno la longitudine della Luna nuova e della Luna piena che mostra la variabilità della velocità solare. Nel sistema più vecchio, questo è espresso nello stesso modo rozzo come nelle tavole planetarie del terzo tipo; per una parte dell’eclittica è stata usata una velocità costante più grande, 30° per mese, e per le altre metà una velocità minore di 15/16 x 30° = 281/8°. Per ottenere la vera velocità media nel lungo tempo, le due parti devono essere prese di lunghezza diversa; il valore grande conserva 194°, dalla latitudine 163° a 357°; il più piccolo sopra 166°, da 357° a 163°. Segue che ci sono 1283/225 mesi sinodici in un anno. Troveremo più avanti 29d12h44m3⅓s per la lunghezza del mese sinodico; così l’anno deve essere 365d6h15m19s — perciò 6 minuti e 8 secondi di troppo. Questo è l’anno siderale, la rivoluzione del Sole in relazione alle stelle. Per il periodo delle stagioni (anno tropico) le relazioni del calendario: 127/19 mesi per anno, combinati con il mese sinodico danno 365d5h55m25s, anche troppo grande.

Come acquisirono questi astronomi la loro conoscenza della velocità variabile del Sole? Possono averla derivata dalla diversa lunghezza delle stagioni. I Babilonesi, secondo le testimonianze greche, usavano un palo verticale per misurare la lunghezza dell’ombra; perciò potevano determinare i momenti del solstizio e, come punti medi tra i solstizi, i momenti degli equinozi invernale e autunnale. Dalla teoria babilonese dei due valori costanti alternativi noi calcoliamo per primavera e autunno, situati completamente fra parti lente e rapide, 94,5 e 88,6 giorni; e per estate e inverno, che si estendono oltre i

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punti limite, 92,7 e 89,45 giorni Al contrario, usando la stessa relazione, dovevano essere capaci di calcolare i loro dati teorici sulle variazioni della velocità dalle lunghezze osservate delle stagioni.

Il sistema successivo, meno primitivo, è simile a quello delle tavole planetarie del terzo tipo. Le differenze in longitudine tra Lune nuove successive o Lune piene crescono e decrescono regolarmente e sono espresse tramite funzioni a zig-zag che corrono tra un punto limite superiore e uno inferiore. Questi limiti sono 30°1’59” e 28°10’39⅔”; la loro differenza (l’ampiezza) è 1°51’19⅓”, la loro media è 29°6’19⅓”, un intervallo è 0°18’; questi dati ci permettono di derivare i periodi usati. Il numero dei periodi sinodici in un anno è il numero degli intervalli contenuti in due volte l’ampiezza, il ritorno dal massimo al massimo successivo; questo è 2 x 1°51’19⅓” : 0°18’ = 12299/810. Questo è anche il numero di volte che l’arco medio 29°6’19⅓” è contenuto nella circonferenza di 360°. Questo non dà lo stesso risultato; è certamente una cosa diversa. Il primo risultato è il numero dei ritorni allo stesso estremo di velocità, l’altro il ritorno alla stessa longitudine. Di conseguenza, dalla moltiplicazione dell’arco sinodico medio con la frazione 12299/810 il risultato non è 360° ma 29,8” di più. Questi antichi astronomi potevano sapere che la longitudine del punto di massima velocità del Sole cresce lentamente? Se è così, adottarono una crescita troppo grande; in realtà l’avanzamento è solo 11,8” all’anno. L’arco sinodico in accordo ai dati moderni è 29°6’22,2”; il valore babilonese è solo 1/120.000 più piccolo, così che ci sarebbero voluti tre secoli per produrre una differenza di 1°.

Le longitudini risultanti del Sole per le successive Lune nuove e piene erano usate per calcolare alcune quantità, dipendenti da questa longitudine. Fra queste, vi è la lunghezza del giorno, l’intervallo tra l’alba e il tramonto. Il testo che illustra la procedura del sistema più vecchio indica come questo cambia con le stagioni, tra gli estremi simmetrici: 14h24m in estate, 9h36m in

inverno. Questa, comunque, è un’affermazione curiosa, in quanto non si accorda con la ben nota latitudine di Babilonia, 32°30’, per cui questi estremi dovrebbero essere 14h11m e 9h49m. Una spiegazione di fantasia era la supposizione che in un lontano passato la città, o almeno il suo santuario, fosse situata 2° più a nord e che la tradizione abbia mantenuto i valori antichi. Una spiegazione più naturale, anche se un po’ più difficile, è che, a causa del diametro solare finito, della rifrazione e della depressione dell’orizzonte dalle alte torri, la lunghezza del giorno aumentasse al solstizio d’estate, mentre per il solstizio d’inverno, visibile con minor accuratezza, venisse adottato il valore simmetrico[27] Probabilmente era il semplice rapporto 3:2 di questi valori che persisteva come eredità dai tempi della scienza primitiva.

Notevole è anche la dichiarazione in questa istruzione: «a 10° dall’Ariete la durata è 12 ore: per tutti i gradi successivi tu devi aggiungere 160 secondi […]», e così via, una riga per ogni segno zodiacale. Questo significa che l’equinozio era situato a 10° dall’Ariete. In due testi differenti del sistema più recente, è posto a 8° e a 8°15’ dell’Ariete. Gli astronomi caldei non contavano le loro longitudini a partire dall’equinozio di primavera, ma dall’inizio della prima costellazione zodiacale o forse da una stella. Poiché la precessione cambiava il luogo degli equinozi tra le stelle, in tempi e in testi differenti vengono dati valori diversi per la sua longitudine.

È spesso motivo di sorpresa che i Babilonesi, nonostante i loro secoli di osservazione, non abbiano notato la precessione, ma abbiano lasciato questa scoperta ai Greci, i quali adottarono da loro molti altri dati. Noi dobbiamo considerare, comunque, che la loro mentalità non era incline alla scoperta di un nuovo fenomeno. Per il loro atteggiamento verso la devozione religiosa e la loro assidua perseveranza erano così attenti a seguire e studiare il corso dei fenomeni celesti, che per gli anni futuri potevano calcolarli in anticipo “per le festività”. Anche se si erano accorti che gli equinozi, di interesse secondario per loro, si

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spostavano rispetto ai documenti antichi, non venne loro in mente l’idea che questo era un fenomeno speciale da annotare.

Ritornando ora alla strada principale, alla derivazione del tempo della Luna nuova e della Luna piena, dobbiamo considerare, come passo successivo, la velocità variabile della Luna. Noi sappiamo che, a causa dell’avanzamento del perigeo lunare, il ritorno alla velocità massima, il cosiddetto periodo “anomalistico”, richiede più tempo della vera rivoluzione (siderale). Le tavole di entrambi i sistemi hanno un numero di colonne progettato per questo calcolo. Nel sistema più recente, maggiormente esatto, una colonna dà la lunghezza dei periodi sinodici successivi; sono posti su una regolare linea a zig-zag con punti limite 29d17h57m48⅓s

e 29d7h30m18⅓s e con intervalli di 1h30m. La media dei valori limite è il periodo sinodico medio, 29d12h44m3⅓s. Questo è un valore molto accurato, poiché dipende dalle osservazioni delle eclissi di molti secoli. È lo stesso valore menzionato da Tolomeo come derivato da Ipparco e che ora appare essere stato conosciuto a Babilonia al tempo in cui visse Ipparco. La differenza tra i valori limite è 10h27m30s e il numero degli intervalli contenuto in due volte l’ampiezza è 1317/18 = 251/18. Un intervallo nella tavola, che vale un periodo sinodico, significa che, da una Luna nuova alla successiva, la Luna fa più che un ritorno completo, quasi 1/14 di più alla stessa velocità massima. Il rapporto trovato mostra che, in 251 periodi sinodici, questo punto di massimo era stato superato di 18 volte, da cui in totale 269 volte. La stessa relazione che Tolomeo attribuisce a Ipparco —251 periodi sinodici uguali a 269 periodi anomalistici — qui sembra essere alla base delle tavole babilonesi. Il periodo anomalistico risultante, 27d13h18m34,75s, devia solo 2,7 secondi dai valori moderni.

Le durate dei mesi che bisognava aggiungere successivamente per ottenere l’epoca successiva di Luna nuova e Luna piena devono prima di tutto subire una correzione in più, dovuta alle variazioni nella velocità del Sole. L’intervallo coperto mensilmente dal Sole deve deviare fino a 1°

dalla media, che è la distanza attraversata dalla Luna in due ore. In alcune ulteriori colonne, viene calcolata questa correzione, che va da 4 a meno 2h9m52s. Ora, finalmente, il calcolo è pronto e, cominciando da un eclissi ben osservata, possono essere stabilite tutte le ulteriori epoche di congiunzione e opposizione del Sole e della Luna. In questo calcolo i giorni sono tutti uguali e le ore sono contate dalla mezzanotte.

L’obiettivo principale del lungo calcolo era quello di trovare il primo giorno del mese, cioè la prima apparizione del crescente. Per questo scopo seguono cinque colonne in più, che sono state decifrate da Schaumberger. La prima è l’intervallo dalla Luna nuova al tramonto del giorno seguente, che è solitamente il momento in cui si deve prevedere il crescente. Attraverso le medie note della velocità giornaliera del Sole e della Luna, si trova la loro differenza in longitudine per questo tramonto. Questa quantità da sola non è decisiva per la visibilità della mezzaluna che tramonta; la cosa che importa è quanto lungo sarà il tramonto della Luna dopo il Sole. Questo dipende anche dall’inclinazione dell’eclittica sull’orizzonte, che varia molto con le stagioni e, inoltre, dalla latitudine nord o sud della Luna sull’eclittica. Tutte queste correzioni sono date in minuti, il che è ampiamente sufficiente per lo scopo. Il risultato è il tempo durante il quale la Luna rimane sull’orizzonte dopo il tramonto; questo determina la visibilità per quella sera.

Adesso, dunque, il traguardo è stato raggiunto. Il fenomeno che durante tutti i secoli passati doveva essere il primo e più importante oggetto di osservazione degli astronomi babilonesi era ora completamente sotto controllo per mezzo di una teoria che calcolava numericamente un evento. Allo stesso modo, eseguendo i calcoli all’indietro dall’epoca della congiunzione, si poteva derivare la visibilità della falce mattutina mentre svanisce.

Non sarà necessario entrare qui nei dettagli del sistema più vecchio, che era nello stesso tempo più primitivo e più ingombrante. Va notato che c’erano non solo parti di tavole

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numeriche ma anche un dettagliato testo procedurale sulla loro realizzazione, per uso degli apprendisti, dove sono indicate con i loro nomi le quantità che nelle tavole compaiono come numeri ignoti. È interessante, da un punto di vista linguistico, vedere come il movimento giornaliero del Sole e della Luna venisse dato dall’espressione zi sha Shamash e zi sha Sin, letteralmente vita del Dio-Sole e vita del Dio-Luna. L’avanzamento del Sole e della Luna lungo il cielo era per i sacerdoti-astronomi la manifestazione visibile della vita di questi dèi-luce, che loro assoggettarono a precise operazioni numeriche. Nelle tavole compaiono anche numeri con sei sessagesimali, il che non dimostra un’accuratezza di migliaia di milionesimi, bensì il fatto che il rapporto di 16/243 ha bisogno di poter essere espresso, nel sistema di numerazione babilonese, attraverso un numero molto lungo. Loro dovevano anche affrontare il difficile problema di come derivare le durate dei mesi da una colonna di velocità variabili, un problema in verità di integrazione dei reciproci, e lo risolsero in modo scomodo, dividendo il procedimento in parti piccole, quindi, in modo simile a ciò che oggi viene chiamato “quadratura meccanica”. Tuttavia, nelle colonne di questo sistema ci sono ancora molti numeri da chiarire.

Il calcolo delle eclissi era un altro obiettivo

delle tavole lunari. Le eclissi dipendono dalla latitudine della Luna, per cui sono inserite alcune colonne, utili al calcolo della latitudine, che, per la loro complessa struttura, hanno presentato grandi difficoltà per la moderna indagine; Otto Neugebauer, con l’aiuto di speciali tecniche aritmetiche, fu il primo ad avere successo nella decifrazione e spiegazione di quelle dell’antico sistema. I Babilonesi erano ben consci che la rappresentazione delle variazioni della latitudine della Luna,

attraverso un evidente linea a zig-zag, non era soddisfacente; se i valori estremi sono corretti, l’inclinazione vicina ai nodi è 1 volta e ½ troppo piccola e soprattutto in questo punto è necessaria la latitudine corretta per le eclissi. Se, viceversa, la linea a zig-zag nei nodi è data con la corretta pendenza, il suo massimo è molto più alto della latitudine massima della Luna, e questo pregiudica il calcolo del crescente lunare. La difficoltà fu risolta dalle tavole che avevano una linea a zig-zag spezzata, che aveva l’inclinazione raddoppiata all’intersezione con l’eclittica. Questo era stato costruito in modo tale che in una semplice linea a zig-zag tra +6 e –6 tutti i valori sotto 11/5 erano stati raddoppiati e tutti quelli sopra questo erano stati aumentati di 11/5. Non c’era indicazione dell’unità usata. Se noi assumiamo che questo massimo di 71/5 corrisponda a 5°, la ben nota maggiore latitudine della Luna, allora, una unità deve essere 25/36°, quasi un terzo della sopra menzionata ammat che è tra 2° e 2,5°.

Poiché i nodi stanno regredendo regolarmente, le longitudini del Sole e, da questo momento, della Luna piena presentano un’irregolarità annua. In questo sistema il suo avanzamento mensile salta tra 30° e 281/8°; il che era stato preso nel conto in modo tale che, in semestri alternati, erano date una pendenza più grande e una più piccola alla linea a zig-zag di base, nello stesso rapporto di 16 a 15. È chiaro come può essere difficile e complicato il calcolo, quando la linea fondamentale consiste già di parti spezzate. Noi possiamo, come nei casi antichi, derivare i periodi usati per i dati della linea a zig-zag. Il valore medio di un intervallo (per mese sinodico) è 2, 2, 40, 58, nella stessa unità in cui il zig-zag di base corre tra +6 e –6; per cui il percorso totale su e giù ammonta a 24. Questo significa che un periodo “draconico” da una cima della linea a zig-zag alla cima successiva è uguale a 24 unità, di cui un periodo sinodico comprende 26, 2, 40, 58. Questo non è uguale al semplice rapporto di saros 223 : 242, ma è un poco più grande, 223,00112 : 242, e più vicino al valore vero moderno 223,00121 : 242. Non è del tutto imprevisto che qui sia

Fig. 7.

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mostrata una conoscenza più precisa, poiché, in accordo al canone di saros, si sapeva già dal terzo secolo a.C. che la relazione di saros non era esatta. Si può aggiungere, tuttavia, che un valore più accurato era stato usato nel sistema più recente. Qui, un percorso su e giù è 5458/465 volte un intervallo e il rapporto tra il periodo draconico e quello sinodico è 5,458 : 5,923. Questo è lo stesso rapporto che Tolomeo attribuisce a Ipparco, corrispondente a 223,00118 : 242, dal quale si arriva di nuovo a un valore più vicino al vero. Nelle tavole della latitudine di questo sistema più recente c’è molto di cui noi tuttora non capiamo il significato e inoltre le tavole speciali delle eclissi sono mancanti.

Per il sistema più vecchio, comunque, possiamo seguire il calcolo delle eclissi fino alla fine. In una parte dei frammenti, dopo la colonna delle latitudini, è stata inserita un’altra colonna in cui la maggior parte delle linee rimane vuota e appare un numero solo ogni sesta linea, dove la latitudine è più piccola e può avvenire un eclissi. Questo “indice dell’eclissi”, come noi lo chiamiamo, si trova deducendo la latitudine dalla Luna prima del nodo dal valore (in sessagesimali) 1,44,24 (che è l’unità di 25/36° che ammonta a 1°12’) e, dopo il nodo, aggiungendo questo allo stesso valore. Al che, per avere una unità più piccola di dieci volte, il risultato era stato moltiplicato per 10, che ha la sua parte costante 10 x 1,44,24 = 17,24,0. Questa parte costante (approssimativamente di 1°12’ nelle nostre unità) supera leggermente la somma totale del semidiametro dell’ombra e della Luna. Quando la latitudine della Luna prima del nodo è uguale a questo valore, il disco della Luna è tangente all’ombra, inizia a essere possibile un eclissi parziale e “l’indice dell’eclissi” è 0. Il piccolo eccesso significa che i limiti di possibilità devono essere presi un po’ più ampi, probabilmente per non perdere un eclissi, a causa dell’indeterminatezza del bordo dell’ombra e delle piccole irregolarità nella misura apparente dell’ombra e della Luna. L’indice dell’eclissi indica quanto la Luna scompaia nell’ombra, espresso ora in una unità di quasi 1/8 del diametro lunare. Così, questo

comincia con zero o un piccolo valore negativo, cresce più vicino al nodo, fino che questo ha il valore 17, 24 per la latitudine 0 e continua a crescere dopo il nodo fino a 33, 48, due volte la costante che indica il limite dove la Luna compare libera dall’ombra e le eclissi, anche di una parte più piccola del bordo non sono più possibili.

Una lista simile esiste per tutte le eclissi successive e le quasi-eclissi per gli anni SE 138 e 160 ed è stata studiata da O. Neugebauer. Le colonne interessanti sono date nella tavola seguente. Le prime colonne danno l’anno e il mese, la longitudine nell’eclittica e la latitudine della Luna. Poi seguono due caratteri, u e lal, che significano “su” e “giù” o “positivo” e “negativo” e che possono essere espressi nel modo migliore dai nostri “+” e “-”; il primo indica se la latitudine della Luna è nord o sud, il secondo se questa è vicina al nodo ascendente o discendente. È facile vedere che la combinazione + - o - + significa “prima del nodo”, e la combinazione + + o - - significa “dopo il nodo”; così gli “indici dell’eclissi” nell’ultima colonna sono in accordo alla regola data sopra[28]

Questa lista, se noi prediamo solo le prime

e le ultime colonne, ha alcune somiglianze con una colonna del canone di saros del periodo precedente. Rappresenta un livello più alto della conoscenza, perché, oltre all’anno e al mese (semplicemente affermando che può avvenire un eclissi), dà l’“indice dell’eclissi” fornendo un’informazione sul tipo di eclissi. Quando

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“l’indice dell’eclissi” è tra circa 12 e 23, l’eclissi è totale e la sua durata è più lunga di quando l’indice è più vicino a 17 o 18. Per i valori sopra 23 e sotto 12 l’eclissi è parziale; se sotto lo zero o sopra 35, non c’è eclissi. Descrizioni qualitative o sistemazioni in gruppi attraverso linee di divisione non sono più necessarie.

Negli “indici dell’eclissi” della tavola sopra, sono mostrate con evidenza le variazioni del moto solare. Le irregolarità trovate nei valori calcolati del capitolo precedente ricorrono nello stesso modo in questi risultati babilonesi; nel loro corso ascensionale i valori più grandi precedono ripetutamente quelli più piccoli. Qui le irregolarità sono state un poco aumentate dal metodo primitivo di salti improvvisi nella velocità del Sole. Queste tavole mostrano in modo impressionante quanto l’astronomia caldea si fosse elevata sopra il livello precedente del canone di saros nel controllo numerico e teorico del fenomeno dell’eclissi.

In conclusione, vediamo come, nella terra

antica di Shinar, un astronomia teoricamente molto evoluta si sia sviluppata nel corso di un migliaio di anni. È vero che la nostra conoscenza di questa astronomia è frammentaria, come i pochi frammenti danneggiati da cui l’abbiamo derivata. Noi possiamo solo indovinare il significato di molti numeri e della loro origine noi non conosciamo praticamente nulla, ma quello che sappiamo mostra un’ammirabile e unico sistema di scienza, il solo esempio di una scienza sacerdotale altamente sviluppata. La loro teoria non implica un nuovo sistema di struttura del mondo o un’interpretazione fisica, ma semplicemente una rappresentazione matematica formale del fenomeno. Se è vero il detto che la conoscenza è scienza solo in quanto comprende la matematica, l’astronomia caldea certamente merita questo nome, in quanto riusciva a esprimere il moto e i fenomeni dei corpi celesti con alcuni dati numerici che erano idonei per predire questi moti per un certo numero di anni.

Le condizioni che resero i babilonesi in grado di ottenere questa importante risultato

erano, soprattutto, l’abbondanza di dati osservativi forniti da un clima favorevole e da richieste sociali di tipo cronologico e astrologico. Non meno essenziale era il fatto che disponevano di un apparato matematico, un metodo pratico di calcolo numerico basato su sistema di tipo posizionale. Come disse Neugebauer:

«Questo fornì al sistema di numerazione babilonese lo stesso vantaggio su tutti gli altri antichi sistemi di numerazione che la nostra moderna (decimale) notazione posizionale ha sulla numerazione romana»[29] Questo sistema era stato completamente

sviluppato fin dalla prima dinastia babilonese, probabilmente come risultato di un fiorente commercio, e i testi di quel tempo trattavano già di problemi matematici. Neugebauer fa notare come questo carattere algebrico di rappresentazione simbolica delle quantità fosse probabilmente dovuto al sistema di scrittura, in cui l’uso di caratteri sumeri come ideogrammi giocava un ruolo importante.

L’origine di questo tipo di teoria è sconosciuta. Gli astronomi caldei erano conosciuti in altre parti del mondo antico ma solo per i loro nomi. Se queste tavole sono delle predizioni, allora potevano averle fatte prima dell’anno citato per primo; cioè prima del 188 e del 178 a.C. per il più vecchio, le tavole lunari e planetarie più antiche, e prima del 133 e del 157 a.C. per il sistema più recente, quello con funzioni a zig-zag. L’autore romano Plinio parla di differenti scuole astronomiche esistenti in diverse città babilonesi, a Sippar, a Borsippa e a Ochloe. Strabone, nella sua descrizione del mondo, accenna ai matematici caldei e agli astronomi Kidenas, Naburiannuos e Soudinès; un autore successivo, Vezio Valente, accenna al primo e all’ultimo di questi nomi, mentre Plinio ricorda Cidenas. Il bordo della grande tavola lunare del sistema più recente ha il titolo Tavola di calcolo di Kidinnu per gli anni da 208 a 210, [fatta da] Bania [figlio di] Nabu-balat-suikbi, e Marduk-tabik-siru, figlio del sacerdote di Bel in Sippar […][30]Qui lo stesso Kidinnu, colui che i Romani

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chiamavano Cidenas, è designato come l’autore del sistema più recente delle tavole lunari; e il terzo nome, Soudinès, si è pensato che fosse identico al caldeo Anu-shè-shu-idinna, che appare in un altro testo. Così, si è spesso assunto che i sistemi più vecchi e più primitivi fossero dovuti all’astronomo Naburianna o Naburmiannu e che Kidinnu fosse l’autore del sistema più rifinito che esprime le irregolarità periodiche del Sole e dei pianeti con delle funzioni a zig-zag. Questi, quindi, dovrebbero aver vissuto a metà dei secoli prima e dopo il 200 a.C. o in tempi più remoti; ogni testimonianza sulle loro date è mancante.

Queste tavole si estendono fino al 45 a.C.; le ultime tavole (effemeridi) usate da Kugler sono relative all’anno 10 a.C.; il frammento di una tavola delle eclissi arriva al SE 353 (42 d.C.); successivamente fu trovato un testo astronomico dal 75 d.C. Poi tutta la testimonianza sull’astronomia babilonese cessa. Le radici della cultura babilonese erano morte molto tempo prima: ora, sotto il dominio dei Parti; tagliati fuori dal Mediterraneo, rigettati tra i nomadi dell’Asia centrale, anche la loro vita spirituale morì. Quella cultura, comunque, aveva esercitato la sua influenza sull’Occidente, dove una nuova astronomia era sorta in Grecia.

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CAPITOLO 7

EGITTO L’Egitto è composto da una gola di montagna tortuosa e stretta che penetra nel deserto della Libia — la valle del Nilo — e da un ampio delta dove le diramazioni finiscono nel Mediterraneo. Il Sole irradia potentemente e continuamente sugli uomini e sulla regione e alla notte le stelle scintillano con estrema luminosità. Le nuvole non arrivano a versare le loro piogge fruttificanti e non sono neppure necessarie: il Nilo procura fertilità. Così il Sole, divinità benefica, riesce a permeare terra e persone con il suo intenso calore.

Quando, all’inizio dell’estate, le piogge equatoriali raggiungono le fonti del Nilo Bianco e lo scioglimento della neve sulle montagne abissine riempie il Nilo Blu, enormi quantità di acqua scorrono da nord e durante i mesi seguenti inondano tutto l’Egitto. Il fango che rende al paese la sua meravigliosa fertilità poi si deposita. L’acqua è diretta dai canali e arginata sopra l’intera terra ed è accumulata in laghi per fornire l’irrigazione artificiale necessaria per i campi in questo clima desertico senza pioggia. Quando l’acqua scorre via, arriva il tempo per seminare e fiorire. La necessità di una regolamentazione pianificata dell’acqua dette origine, in tempi antichi, a un governo centrale; la prima dinastia (in tutto ce ne furono 26) è solitamente posta prima del 3000 a.C., se non addirittura anche mille anni prima. La necessità di ripristinare i confini dei campi dopo le piene trasformò gli egiziani in pratici geometri e creò una scienza della geometria (geometria letteralmente significa “misurazione della terra”) in tempi antichi. Ripetute prove di un’intensa conoscenza geometrica — per esempio, della sezione aurea — si sono trovate nelle dimensioni delle grandi piramidi, la pendenza dei loro piani e dei passaggi e le raffigurazioni nelle loro Camere dei Morti.

Lo scopo di tutta la pratica astronomica più antica era la misurazione del tempo e questa era basata originariamente sulla Luna. Ma più tardi questo calcolo lunare scomparve completamente; la sola prova per mostrare che, in tempi preistorici, era esistito un calendario lunare si trova in qualche tradizione e nei numeri dei mesi, come 12. L’alternanza annuale dei fenomeni nella natura e nel lavoro ha reso così forte l’idea che nei tempi storici più antichi l’anno solare dominasse già il calendario. L’anno era stato diviso in tre parti di quattro mesi: l’inondazione da luglio a novembre; semina e fioritura nel fango umido da novembre a marzo; raccolta ecc . da marzo a luglio.

L’anno di 12 volte 30, cioè 360 giorni, era già stato considerato troppo corto in tempi più antichi; quindi furono aggiunti 5 giorni dopo il dodicesimo mese (i giorni aggiunti, epagomenes come vennero chiamati in greco) e usati come giorni di festa, perché erano considerati di malaugurio per lavorare. Così, un anno di 365 giorni poteva essere sufficiente a un intero secolo, un periodo più lungo della memoria di due o tre generazioni. Le inondazioni del Nilo, vennero influenzate dal clima, che era irregolare, ogni tanto variabile di un mese da un anno all’altro; l’errore nel calendario di ¼ di giorno divenne un mese solo dopo più di un secolo e così per un lungo periodo non venne scoperto. Ma, nel lungo tempo, i sacerdoti, che avevano la responsabilità del calendario, dovevano essersi accorti che le piene arrivavano in mesi sempre successivi. Quindi, venne fatta una distinzione tra le cerimonie agricole di semina e raccolta e le cerimonie del calendario, cioè il giorno del Nuovo Anno. Il calendario continuò con anni di 365 giorni e le piene del Nilo passarono successivamente attraverso tutti i dodici mesi.

La regolarità di questa progressione negli

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anni agricoli si mostrò anche nei fenomeni celesti. In tempi antichi si era notato che, quando nella capitale, Menfi, il Nilo iniziava ad alzarsi, Sirio, la più brillante delle stelle fisse, diventava visibile per la prima volta nel crepuscolo del mattino esattamente sopra l’orizzonte orientale. Questa coincidenza era troppo sorprendente per essere accidentale e in questo doveva esserci qualche intenzione di un ordine del mondo. Così, la stella divina Sothis, attraverso il suo sorgere mattutino rossastro, divenne per gli Egiziani l’autrice o la messaggera della piena benefica. Il sorgere eliaco della stella è un fenomeno del tutto regolare: il suo periodo di 365¼ giorni è l’anno agricolo medio indipendente dalle irregolarità della crescita del fiume. Ogni quattro anni avanza un giorno sulle date mensili e, dopo 1.460 (= 4 x 365) anni, Sirio sorge ancora alla stessa data. Negli anni 2770 e 1314 a.C., questo coincideva con il giorno del Nuovo Anno; l’intervallo, in realtà, è un po’ inferiore (1.456 anni) a causa del lento spostamento di Sirio rispetto agli equinozi. In tempi successivi questo periodo venne chiamato “periodo di Sothis” e fu rappresentato allegoricamente nel racconto, riportato da Erodoto, di un uccello sacro, la Fenice, che ritorna ogni 1.460 anni, bruciando se stesso e nascendo ringiovanito fuori dalle fiamme. Nella cronologia pratica, tuttavia, questo non venne usato.

Si deve sottolineare il fatto che Sirio poteva giocare questo ruolo solo nell’antica storia dell’Egitto. Poiché l’agricoltura e la piena dipendono dalle date equinoziali, come nel nostro calendario, e Sirio, come tutte le stelle, si sposta rispetto agli equinozi a causa della precessione e del moto proprio, le nostre date per il suo sorgere eliaco cambiano continuamente, ma lentamente. Mentre il primo innalzamento dell’acqua, a Menfi, accade intorno al 25 giugno, il sorgere eliaco di Sirio, nel 3000 a.C., avvenne il 22 giugno; nel 2000 e nel 1000 a.C., rispettivamente il 30 giugno e il 18 luglio. Così, in questi anni più recenti, questo fenomeno ha perso il suo valore annunciatore.

La domanda che si può fare è perché gli Egiziani abbiano sempre seguito fermamente

questo complicato calendario con due differenti anni e festività, reciprocamente mutevoli. Avrebbe potuto essere così semplice definire un anno agricolo di Sothis con le date del mese fissate attraverso l’aggiunta di sei anziché cinque giorni ogni quattro anni. Talvolta, quando i sovrani secolari tentavano questi cambiamenti, erano ostacolati dall’opposizione dei sacerdoti, che difendevano le tradizioni sacre. Dal momento che erano i sacerdoti gli esperti nella regolazione del calendario e delle cerimonie, questo monopolio di conoscenza misteriosa dava loro un potere sociale che non volevano abbandonare.

L’importanza predominante di Sirio nella vita egiziana gli assicura un posto tra le divinità; Iside, la dea dell’agricoltura e della fertilità, si rivela nella stella Sothis. Anche le altre maggiori divinità del panteon egiziano trovano la loro rappresentazione visibile nelle stelle; così come Osiride nella costellazione di Orione, che si era già levata alta nel cielo quando Sirio appariva. Il Sole, dominatore potente del cielo, come il Dio-Sole Ra, occupava il luogo predominante nel mondo divino. È ben noto come il Re Amenhotep IV (Ikhnaton), nella sua lotta contro il potere della gerarchia sacerdotale, avesse alzato il Sole al grado di unica divinità, sotto il nome di Aten; il declino del potere regale fece fallire questo tentativo poco dopo la sua morte.

È difficile accertarsi del reale stato della conoscenza dei cieli stellati in questo antico Egitto. Nelle pietre sepolcrali e sui coperchi dei sarcofagi furono trovati degli elenchi dei cosiddetti “decani”, periodi o settimane di dieci giorni, porzioni di mesi, ognuno sotto la protezione di una divinità rappresentata da una stella o un gruppo di stelle. La struttura di questi elenchi dimostra il loro uso per determinare le ore notturne. Ma c’è un’incertezza considerevole sugli oggetti rappresentati dai nomi ed è difficile identificare le figure. Ci sono rappresentazioni di numerose figure umane e di animali che probabilmente rappresentano le costellazioni; ma le stelle mancano, poiché solo gli esseri celesti qui dipinti erano di reale importanza per l’uomo. Al

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posto dell’Orsa Maggiore vediamo un toro, o solo la sua zampa principale, la personificazione del malvagio dio Seti; inoltre, c’è un ippopotamo (l’Orsa Minore), un coccodrillo, un leone, un falco; ma quali stelle appartengono a quelli è materia di congetture. La più famosa e più spesso riprodotta figura del cielo, copiata dal tempio di Denderah, viene dal più recente periodo ellenistico, sottoposto, quindi, a una forte influenza dalle scienza babilonese e greca.

Non c’è in Egitto alcuna traccia di uno sviluppo dell’astronomia a livello

scientifico. Dopo che il calendario era stato fissato in un rigido sistema di anni, l’interesse verso le stelle rimase ristretto al sorgere eliaco di Sirio. Le osservazioni della Luna non servirono più a scopo pratico. Le ore del giorno potevano essere lette sugli orologi solari e, di notte, potevano essere determinate con gli orologi ad acqua. L’Egitto ci mostra quanto poco una scienza delle stelle possa essere favorita da un cielo sempre brillante a meno che la scienza non trovi una base pratica nella vita e nell’attività umana.

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CAPITOLO 8

CINA Gli autori cinesi datano la nascita dell’astronomia nel loro paese in tempi molto antichi — prima del 2000 a.C. — ma anche questa credenza, come tutte le cose scritte nell’antichità, si confonde con la leggenda. La storia comincia a essere presa in considerazione come tale solo dopo il 1000 a.C. I luoghi d’origine dei primi insediamenti della cultura cinese erano le fertili colline di loess [ndr: depositi di minerali di origine eolica] e le pianure lungo il medio corso del Hwang Ho, il Fiume Giallo, mentre le piane a sud-est lungo lo Yangzte Kiang erano paludi non bonificate e giungla. Nei territori abitati dell’Honan o del Shensi, l’agricoltura era l’occupazione principale, organizzata in un sistema feudale. Sotto la supremazia della dinastia Chou, i capi guerrieri e i principi esercitavano il loro potere sulla popolazione. Con lo sviluppo dell’artigianato e del commercio, nei secoli seguenti, l’ordine feudale lentamente si dissolse e cominciò a emergere una nuova classe di intellettuali — scrittori di corte, esperti nelle antiche conoscenze, funzionari e consiglieri dei principi — per lo più provenienti dalla nobiltà decaduta. Tra di loro c’erano famosi filosofi come K’ung Fu-tze (Confucio, 551-470 a.C.) e Meng-tzu (Mencius, 372-288 a.C.), che trasformò i vecchi ideali di cavalleria nell’insegnamento di virtuosi comportamenti come base per un buono Stato; la virtù significava una buona condotta conforme ai riti, al decoro, e alla filosofia taoista.

Quando la bonifica delle zone paludose alluvionate orientali richiese una regolazione centrale e continua delle dighe e dei canali, l’organizzazione feudale dette il via a un impero centralizzato governato da ufficiali detti “mandarini”. La vecchia cultura fu adattata alle nuove condizioni sociali e consolidata attraverso norme fissate durante

la dinastia degli Han (205 a.C. - 221 d.C.). Un po’ più tardi con la dinastia T’ang (618 d.C. - 907 d.C.) si raggiunse un alto livello di cultura e scienza. Queste epoche si alternarono a secoli di distruzione e confusione, guerre civili e rivolte agrarie, ad attacchi e conquiste dei popoli barbari. Questi ultimi, come probabilmente gli abitanti originari, provenivano dalle zone nordoccidentali delle steppe asiatiche, da zone non protette da catene montuose o da mari. Questi guerrieri mongoli infusero sangue fresco nella classe dominante, ma il loro numero limitato fu presto assorbito e assimilato dalla classe dei Mandarini che governavano milioni di contadini. Questo alternarsi di conquiste, potere e prosperità, con decadenza e confusione caratterizzò la storia della Cina fino ai tempi moderni. I Mongoli nomadi, che nella zona occidentale dell’Asia operarono soltanto come distruttori, costituirono in zone più orientali una cultura propria, forte abbastanza, attraverso le solide basi agricole, da poter assimilare, ondata dopo ondata, gli invasori. Ciò determinò uno sviluppo lento e autonomo, caratterizzato da un forte aspetto conservatore.

L’astronomia giocò un ruolo importante in tutta questa cultura, anche se è molto difficile risalire a un quadro preciso del suo sviluppo, perché gli scrittori cinesi cercarono di definire l’antica origine di questa scienza in accordo con le teorie del loro tempo, conferendole così veridicità e invariabile validità. Nel 213 a.C., per ordine dell’imperatore Shih Huang Ti, vennero bruciati sul rogo moltissimi libri, probabilmente con lo scopo di frenare l’influenza delle norme e delle tradizioni feudali. Tuttavia, il successivo periodo degli Han restaurò le idee dei vecchi filosofi e degli antichi libri, che vennero poi riscritti in forme distorte. In questi vecchi libri bruciati

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erano citati due collegi di astronomi, chiamati Hsi e Ho che, per aver preso parte a un conflitto civile, furono sottoposti al giudizio della parte vincitrice. In una versione posteriore divenne un racconto a sfondo morale in cui due astronomi, Hi e Ho, dandosi alla bella vita, dimenticarono i loro doveri e, prevedendo erroneamente un’eclissi solare, furono puniti con la decapitazione. Dal giorno (primo giorno d’autunno) e dal luogo (la stazione lunare Fang, cioè la testa dello Scorpione) citati nel racconto, gli autori moderni calcolarono che il fatto si riferiva all’eclissi del 22 ottobre 2137 a.C. Risulta chiaro, tuttavia, che, data l’epoca alla quale l’evento fa riferimento, non si potesse chiedere di predire allora un’eclissi solare, ed è difficile giudicare l’attendibilità del racconto originale.

L’unità del computo temporale si basava

anticamente sul periodo lunare e il calendario lunare rimase in vigore a lungo, ma, poiché l’agricoltura era legata al ciclo annuale, l’intercalazione era oggetto di incessanti attenzioni. Nel 350 a.C. la durata dell’anno conosciuta era di 365¼ giorni. In quest’epoca esisteva una legge che segnava l’inizio dell’anno con la levata eliaca di Spica, in autunno. Nei secoli successivi un ordinamento prescriveva che la Luna piena a destra di Spica appartenesse all’anno seguente, che perciò cominciava in primavera.

Le idee astronomiche — o meglio cosmologiche — erano intimamente legate alla concezione cinese del mondo, per la quale la sfera celeste subiva una rotazione giornaliera, con l’esistenza di un polo e dell’equatore; l’orizzonte giocava un ruolo importante mentre i pianeti e l’eclittica venivano a malapena menzionati. Il cielo e la Terra erano strettamente collegati e in completa armonia, trovando espressione nei cerimoniali della religione di stato. La Cina era il centro di una Terra piatta, “l’impero del mezzo”, corrispondente al polo celeste al centro del cielo; qui governava il dio Shang-ti così come faceva l’imperatore in terra, il “Figlio del Cielo”. Questi manteneva l’armonia del cielo e della terra con il suo

operato, seguendo precisamente i rituali e gli ordini dei suoi antenati. Il disordine da una parte, portava al disordine dall’altra, il che significava, non solo che irregolarità nel cielo causavano calamità sulla Terra, ma che azioni malvagie dell’uomo sulla natura portavano disordine nel cielo. Eclissi e comete erano il segnale che l’imperatore o gli ufficiali avevano peccato, governato male o trascurato i cerimoniali.

«Quando un principe saggio occupa il trono, la Luna segue la strada giusta. Quando il principe non è saggio e sono i ministri a esercitare in modo sconsiderato il potere la Luna perde la retta via. Quando gli alti ufficiali lasciano che i loro interessi prevalgano sull’interesse pubblico, la Luna va fuori dalla retta via verso nord o sud. Quando la Luna è veloce, è perché il principe è lento nelle punizioni. Quando la Luna è lenta, è perché il principe è sconsiderato nelle punizioni». Questo è stato scritto nell’opera

astronomica di Shih-shen nel quarto secolo a.C.[31]

La filosofia cinese cercò di trovare simmetrie e relazioni tra vita e mondo. Le quattro direzioni, Est, Ovest, Nord, Sud, erano collegate alle quattro stagioni, alle quattro parti del giorno, e alle quattro sezioni dell’equatore celeste. Aggiunto il “centro”, si creava un gruppo di cinque elementi correlato con altri gruppi di cinque elementi; elementi, o materie di base, piante, colori, parti del corpo, strumenti musicali, pianeti, gusti. Tutto ciò, combinato con una serie di altri dodici elementi, produceva un periodo di 60 anni da usare in cronologia. C’è una sorta di arida armonia, di ordine schematico in questa dottrina con i suoi riti associati.

Le condizioni mentali e il modo di pensare dei mongoli dell’Asia dell’Est era completamente differente da quello dalle popolazioni semite e ariane del Vicino Oriente. Nelle zone adiacenti al Mediterraneo, la ricca varietà di montagne coperte di boschi e fertili pianure, di cocenti deserti e rinfrescanti oasi, di coste rocciose e verdi isole, di vari tipi di paesaggi e scenari, con generose e dure forze della natura, creò una fiorente fantasia, producendo un folto insieme di dèi e dèe come personificazione di tutto ciò. Nel lontano Oriente era

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esattamente l’opposto: le sterminate steppe e le opprimenti catene montuose di un enorme continente scoraggiarono la fantasia e, in una difficile e spesso crudele lotta per la vita, crearono una fredda durezza di pensiero e sentimento. Il sistema patriarcale delle famiglie nomadi, che non avevano fissa dimora o villaggio, ma al più gruppi di carovane, ostacolò il sorgere di una molteplicità di dèi che nei paesi agricoli formavano la base per un ricco pantheon. Il culto e le offerte furono riservate ai fantasmi dei genitori e degli antenati; il fumo saliva alla volta del cielo; il cielo veniva invocato come il più alto potere, con il Sole e la Luna in aggiunta.

Questi aspetti della tradizione mongola permasero a lungo in Cina; la religione, centralizzata e di stato, non trovò mai espressione in poetiche fantasie sovrannaturali, ma si instaurò in leggi concrete basate su virtuose credenze. Nei templi cinesi i doni venivano offerti ai filosofi santificati e non agli dèi, i quali non regolavano il fato dell’uomo: era il cielo a determinare la buona o la cattiva sorte. L’imperatore dava l’esempio esaltando la virtù e quando era virtuoso l’ordine e la prosperità regnavano in tutto il paese. Il cerimoniale imperiale previsto per questo era una parte essenziale della pratica governativa. Gli intellettuali — i capi culturali — non erano i sacerdoti, ma i mandarini, che, attraverso i loro studi di antica letteratura, conoscevano e praticavano la virtù e il corretto comportamento, essendo ufficiali con compiti anche religiosi. L’elogiata bellezza della poesia cinese non consisteva nella fervida immaginazione ma nella profonda e armonica saggezza del mondo.

Nell’organizzazione statale i collegi degli astronomi erano responsabili sia dell’orientamento che del calcolo del tempo, per garantire che tutto fosse fatto nel modo giusto al momento giusto, in conformità alle leggi. I templi e i palazzi erano costruiti in perfetto accordo con i quattro punti principali dello spazio. Nei suoi atti ufficiali l’imperatore si posizionava a nord e guardava verso sud, e così facevano anche

gli ufficiali della classe dirigente. Secondo i “libri dei riti” era l’astronomo a dover informare l’imperatore quando il primo mese di ogni stagione dovesse iniziare; in primavera l’imperatore, a capo della corte, andava nei sobborghi orientali per inaugurare solennemente l’anno nuovo. Egli pregava Shang-ti per un buon raccolto, quindi, nel primo giorno propizio indicato dall’astronomo, andava nei campi e tirando un aratro tracciava tre solchi e così lo seguivano i suoi ministri. Il collegio degli astronomi, al fine di adempiere ai suoi doveri, doveva fare continue osservazioni per controllare i fenomeni celesti, per annotare qualunque fenomeno essi vedessero e per riportare le cose più importanti; a questo scopo c’era un osservatorio nel palazzo. Le loro istruzioni venivano diffuse in tutto l’impero e inoltre preparavano i calendari, che venivano offerti con grande solennità all’imperatore, il quale ne ordinava la pubblicazione. Questi calendari contenevano le indicazioni dei giorni fasti e nefasti per tutte le decisioni importanti.

La conoscenza astronomica nacque dal bisogno di scandire il tempo nell’epoca di Chou, nel secolo dei filosofi e degli uomini di cultura. Le stagioni si conoscevano dalla posizione di alcune costellazioni: il solstizio d’estate da Antares al tramonto verso sud, l’inverno dalla cintura di Orione, l’anno cominciava quando la coda dell’Orsa puntava verso il basso. L’astrologia aveva dunque un ruolo molto importante; i così detti studi “astronomici” di quest’epoca erano in realtà studi astrologici, raccolte di relazioni sul significato dei fenomeni. Siccome l’imperatore e lo stato erano oggetto di presagi, l’intera terminologia ricalcava lo stile dell’antica casa reale; un gruppo di stelle era chiamato “Palazzo” e le stelle portavano i nomi degli ufficiali di corte. Nel “Palazzo purpureo”, la più luminosa (β Ursae Minoris) di un gruppo di stelle dell’Orsa minore, all’epoca vicine al polo, era chiamata “l’Imperatore”; la seconda in luminosità (γ Ursae Minoris), “il Principe Reale”; una stella più piccola era “l’Imperatrice”; un’altra molto debole era chiamata “l’Asse del Cielo”. Il polo nord e i

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suoi dintorni, cioè la sommità dei cieli, erano la sede dell’imperatore (vedi la figura seguente che riproduce una mappa stellare cinese).

Il lavoro astrologico summenzionato di Shih-shen, del quale solo alcuni frammenti sono stati conservati dagli scrittori successivi, contiene, si dice, una lista e una descrizione di almeno 122 costellazioni con 809 stelle; questo catalogo quindi, potrebbe essere più antico di quello di Ipparco. Le costellazioni erano formate da gruppi di stelle diversi e più piccoli rispetto alle nostre. Le stelle nelle mappe e nei globi successivi sono rappresentati con punti equivalenti, senza distinzioni in luminosità, e inoltre le mappe mostrano differenze tra loro. Perciò l’identificazione delle stelle risulta difficile.

A una certa distanza dalla regione polare, le 28 “mansioni lunari”, hsiu, già citate e perlopiù situate vicino all’eclittica, rivestono un ruolo particolarmente importante. In seguito furono considerate come sezioni di diverso spessore, misurati lungo l’equatore, passanti ognuna da polo a polo. L’eclittica non era conosciuta come un cerchio, ma come una fascia sulla quale Luna e pianeti si muovevano. È menzionata, inoltre, una

divisione in dodici costellazioni, in parte come cammino mensile del Sole e in parte come il corso annuale di Giove. Che le eclissi solari fossero collegate alla Luna era noto a Shih-shen, ma non erano spiegate come occultazioni; era invece il potere o l’essenza della Luna che, quando era invisibile alla fine del mese, rendeva vano e sopprimeva il potere del Sole. Per quanto riguarda le eclissi lunari, poco se ne conosceva e Shih-shen le faceva accadere in molte differenti date del mese (le sue nozioni sul corso lunare sono già state ricordate prima).

Il moto dei pianeti era percepito soltanto nelle sue caratteristiche più generali, come il moto diretto o retrogrado e le stazioni. Spesso erano descritti abbastanza bene, ma talvolta — se le traduzioni e le interpretazioni sono corrette — in modo del tutto sbagliato. I fenomeni che identificano Venere come stella della sera sono ripetuti, in modo sommario, esattamente con gli stessi intervalli del mattino; a questo proposito, il testo babilonese Nin-dar-anna, di migliaia di anni prima, era a un livello superiore. In un altro testo, la successione di cinque periodi di Venere in otto anni è registrata molto bene:

«Quando ella appare a est, appare nella posizione di Ying-she [α Pegasi] e sparisce in quella di Kio [Spica]; riappare in Kio e scompare in Pi [Aldebaran]; e di nuovo appare in Pi e scompare in Ki [γ Saggittarii]; appare in Ki e scompare in Liu [ζ Hydrae]; appare in Liu e sparisce in Ying-she»[32] In ogni ciclo Venere procede in 17

posizioni, e la mattina seguente appare nello stesso punto in cui era scomparsa nove mesi prima. Per quanto riguarda Mercurio il moto non è menzionato, si cita soltanto la sua comparsa e scomparsa rispetto alla posizione lunare per ogni mese e si riporta il suo significato astrologico. Per Marte invece, soltanto qualche citazione è sopravvissuta:

«Quando Marte retrocede nella posizione Ying-she, i ministri cospirano e i soldati sono in rivolta»[33] Il moto diretto e retrogrado di Giove e

Saturno era noto e usato per i presagi; di

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Giove erano noti il periodo sinodico e il periodo di rivoluzione, rispettivamente 400 giorni e 12 anni; per Saturno sono stati trovati in qualche testo più tardo.

Nei primi secoli della dinastia Han i dati divennero più accurati. L’altezza del Sole era misurata utilizzando l’ombra di un palo verticale di 8 piedi; al solstizio estivo essa era 15,8 pollici (ognuna pari a 1/10 piedi); al solstizio invernale 131,4 pollici. Questi dati corrispondono ad altezze di 78,8° e 31,4°, da cui venne trovata l’obliquità dell’eclittica di 23,7° e un’altezza polare di 34,9° che indicava il luogo di osservazione di Honan. Le date dei solstizi così determinati venivano usate per correggere il calendario. Nel 104 a.C., al fine di migliorare il calcolo del tempo, venne istituita una conferenza di astronomi; da questo momento i calendari vennero pubblicati regolarmente. Una parte importante in questa attività la svolse Ssu-ma-Ch’ien che pubblicò un lavoro astronomico nel quale il moto della Luna era trattato con più accuratezza. Egli era assistito da un altro astronomo, Lo-hsia-Hung, che fu il primo a costruire una sfera armillare costituita da anelli a rappresentare meridiani ed equatore; solo qualche secolo più tardi questo oggetto venne migliorato con l’introduzione di un anello supplementare per l’eclittica. I circoli erano suddivisi curiosamente non in 360° ma in 365¼°. Egli misurò l’estensione delle 28 mansioni lunari attraverso i passaggi sul meridiano e con un orologio ad acqua. Si dice, dunque, che sia stato il primo ad accertare la regolarità dei moti planetari.

Autori posteriori, inoltre, hanno sostenuto che le idee sulla struttura del mondo risalgono a questo periodo. Per Lo-hsia-Hung il cielo è simile a un uovo che circonda la Terra, la quale a sua volta, come il tuorlo, nuota nell’acqua tutto intorno; il cielo ruota attorno al polo e le stagioni sono causate dallo spostarsi della Terra su e giù, avanti e indietro,

«la Terra si muove costantemente ma la gente non ne è a conoscenza; le persone sono come chiuse in una barca; quando essa si muove loro non lo percepiscono»[34]

Un’altra dottrina, in accordo con Yang-Hiong (53-18 a.C.), riguarda il cielo visto come una campana di vetro avvolta sopra la Terra; il cielo ruota ma ciò non viene percepito fin sulla Terra; la notte è causata dal moto del Sole così lontano dalla Terra che i suoi raggi non riescono a raggiungerla. In seguito alcuni autori illustrarono queste idee con la stima delle distanze e delle dimensioni nell’unità di misura cinese, il li.

Negli Annali di Han (Han-shi), c’è tutta una sezione astronomica[35] ripresa da un manuale scritto nel 25 d.C. da Liu-Hsin, conosciuto nell’ambito storico come il consigliere della riforma dell’imperatore Wang-Mang. Confrontato con il lavoro di Ssu-ma-Ch’ien, di un secolo prima, esso mostra notevoli progressi. Il mese sinodico era definito di 29 e 43/81 giorni (29d 12h 44m 27s, 23 s di troppo). Era assunta come valida la relazione 19 anni = 235 mesi sinodici = 254 mesi siderali, quindi un anno era 365 e 385/1539 giorni, cioè 365,25016 (11 minuti in più). Le eclissi erano stimate secondo la relazione per cui 23 passaggi del Sole attraverso i nodi erano uguali a 135 mesi sinodici, così che questi passaggi si riproponevano dopo un periodo di 135/23 × 2943/81 = 1731/3 giorni; questo periodo è 35 minuti troppo lungo. Sono fornite, inoltre, diverse indicazioni, sotto forma di esempio, sulla Luna piena e la Luna nuova, sulla lunghezza di un mese (29 o 30 giorni), sui solstizi, sulla posizione relativa del Sole e della Luna, sull’intercalare e sulle eclissi. Il sistema di calcolo era costituito da una serie di numerali con valore posizionale, in modo da permettere la scrittura di numeri anche molto grandi, e il metodo di calcolo consisteva nel rimuovere tutte le frazioni attraverso la moltiplicazione del periodo, in modo da poter lavorare con numeri interi di sette o più cifre. I periodi dei pianeti erano dati da frazioni tra grandi numeri: Saturno 4320 : 4175 (= 377,93 giorni), Giove 1728 : 1583 (= 398,71 giorni), Marte 13824 : 6469 (= 780,52 giorni), Venere 3456 : 2161 (= 584,13 giorni), Mercurio 9216 : 29041 (= 115,91giorni). Gli errori di questi valori sono soltanto di -0,16, -0,18, +0,59, +0,21 e +0,03 giorni. In questo trattato, inoltre, sono

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fornite indicazioni per il calcolo della visibilità, del luogo, della comparsa e scomparsa dei pianeti. Tuttavia, i risultati pratici possono aver provocato errori considerevoli, creando la necessità nei secoli seguenti di correggere i calendari.

Questi considerevoli successi nella conoscenza astronomica hanno lasciato pensare che ci potessero essere stati dei contatti con la scienza dei Greci o dei Babilonesi; qualche volta sono state notate delle somiglianze con i presagi babilonesi. Si sono sospettati perfino degli scambi culturali con i popoli Maya dell’America centrale. C’è tuttavia tanto d’autentico nei metodi astronomici cinesi da rendere questi “contatti” probabili.

Il primo secolo dopo Cristo apportò ancora nuovi progressi. Cominciò a essere conosciuta la diversità delle stagioni e dei cicli lunari, così come la precessione, stimata da Yu-hsi come 1° ogni 50 anni. Si cominciò in un libro più tardo, a partire da circa il 550 d.C., a occuparsi anche delle diversità dei moti planetari. In questi progressi sicuramente la cultura occidentale giocò un ruolo importantissimo. Nel primo secolo dopo Cristo, le conquiste dei Cinesi in Asia centrale aprirono i collegamenti verso l’Iran e verso nuovi scambi con l’Impero romano. La scienza greca, introdotta in India attraverso la Battriana [ndr: regione centro-settentrionale dell’ Afghanistan], poté raggiungere la Cina allo stesso modo del Buddismo. In alcune fonti cinesi più tarde è citato che, nel 164 d.C., conoscenze astronomiche arrivarono dalla vicina Asia in Cina e che, nel 440 d.C., a Ho-Tsheng-Tien (conosciuto per aver determinato la latitudine di molti luoghi utilizzando l’altezza del Sole) venne insegnata la scienza astronomica, specialmente per ciò che riguarda le eclissi, da un sacerdote indiano.

Durante le dinastie Sui e T’ang, le pratiche astronomiche si svilupparono ulteriormente. Dshang-Dsisin è ricordato per aver effettuato delle osservazioni con l’astrolabio, nel 550 d.C. circa, e l’astronomo I-Hang (724 d.C.) per aver costruito gnomoni, quadranti e armille. Ci furono in questo

periodo maggiori collegamenti con i paesi mussulmani nell’Asia centrale e nel Vicino Oriente, che si rispecchiarono in migliori e più accurati valori del calcolo del periodo, dell’inclinazione e dei nodi dell’orbita lunare. Molti astronomi cinesi, osservatóri e autori di manuali, sono ricordati, ma non furono più rappresentanti di uno sviluppo indipendente e autoctono. Il primo tra tutti questi fu Shu-ging (1231-1316), un abile matematico, che migliorò le tavole del Sole e della Luna, arricchendo di nuovi strumenti l’osservatorio e facendo nuove osservazioni sull’altezza del Sole e sui solstizi. Inoltre determinò l’obliquità dell’eclittica pari a 23° 332/3’, che è solo 1½ troppo grande, e la latitudine di Pechino come 40°, maggiore di 1/10°. Tutto questo avvenne durante il regno dell’imperatore mongolo Kublai Khan (1260-94), del quale abbiamo notizie negli scritti di Marco Polo. Nello stesso periodo, sotto il regno di Hulagu, cugino dell’imperatore, in Vicino Oriente i traffici e i commerci tra Occidente e Oriente fiorirono. Un astronomo arabo, Dshemal-al-din, arrivò in Cina nel 1250 e introdusse strumenti e metodi osservativi occidentali. Ma questi non trovarono grande fortuna; la scienza cinese continuò a rimanere radicata alle tradizioni. Sebbene fossero stati fatti molti tentativi per migliorarli, i calendari rimasero gli stessi fino a che i Gesuiti non arrivarono in Cina nel sedicesimo secolo. Da allora in poi non si può più parlare di sviluppo indipendente dell’astronomia in Cina.

Questa espansione dell’astronomia pratica nella Cina medievale fornì un gran numero di dati osservativi. Furono misurate le congiunzioni di un pianeta con un altro e con le stelle, anche se non con esattezza. Tra le anomalie viste e notate nel cielo c’erano le comete, le eclissi, gli aloni, le aurore e le meteore. Sono particolarmente interessanti le osservazioni delle comete: venivano abitualmente registrati la data delle osservazioni, la costellazione e il moto. Queste osservazioni cinesi delle comete sono state importanti per l’astronomia successiva, per la particolare attenzione dedicata loro, cosa che non successe altrove

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in quei secoli. In tal modo le apparizioni di comete nel 989, 1066, 1145 e 1301 poterono essere collegate alle prime comparse della cometa di Halley.

Di grande interesse fu una nuova stella, una ‘nova’, che apparve nel 1054 nella costellazione del Toro. Misure telescopiche eseguite durante il ventesimo secolo della velocità di espansione della “Crab Nebula” nel Toro, hanno suggerito che l’evento si riferisca a un esplosione stellare avvenuta otto o nove secoli prima. L’evento non sarebbe stato osservato in nessun altro luogo tranne che in Cina. Infatti, gli annali cinesi citano l’apparizione di una “stella-ospite” esattamente nello stesso punto della

costellazione del Toro, e ne raccontano la storia: nel giugno del 1054 era visibile durante il giorno e due anni dopo scomparve[36]

A causa della sua posizione geografica, l’astronomia cinese non influenzò il progresso scientifico di altri paesi. All’inizio, si sviluppò indipendentemente, producendo, tuttavia, originali e notevoli metodi osservativi; successivamente, invece, fu sempre più influenzata dalla scienza occidentale. L’importanza dell’astronomia in Cina è soprattutto limitata alle osservazioni eseguite durante epoche nelle quali altrove mancano dati osservativi.

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CAPITOLO 9

POETI E FILOSOFI GRECI Quando i Greci comparvero sulla scena della storia, le stelle ebbero per loro la stessa importanza che per le altre popolazioni primitive. I fenomeni celesti costituivano parte del mondo circostante che essi volevano conoscere per il lavoro, per orientarsi nella navigazione, per il calcolo del tempo, come si può chiaramente riscontrare, sin dai primissimi tempi dei re tribali, nelle grandi opere poetiche l’Iliade e l’Odissea di Omero e Le opere e i giorni di Esiodo.

Omero cita, nominandole, alcune stelle; nell’Iliade parla della stella della sera e della stella del mattino, delle Pleiadi, di Orione, del Gran Carro e

«della stella che sorge tardi d’estate […], che è chiamata dagli uomini il Cane di Orione (Sirio); chiara essa splende innanzi, eppure è un segno funesto, portatrice di sofferenza ai mortali […]»[37]

E nell’altra opera dice di Ulisse:

«accadde che non poterono chiudersi le sue palpebre guardando le Pleiadi e Boote che tardi tramonta, e anche l’Orsa, chiamata anche col nome di Carro, che gira sempre intorno a un punto e spia Orione: è la sola esclusa dal bagnarsi nell’Oceano. L’aveva invitato Calipso, chiara fra le dee, a far rotta avendola a manca*»[38] Il Piccolo Carro non era evidentemente

ancora conosciuto, poiché, a quel tempo, il polo celeste era situato tra le Orse, molto lontano dall’attuale Stella Polare.

Nelle descrizioni della vita campestre, Esiodo indica i fenomeni delle stelle come collegati alle attività agricole nelle diverse stagioni dell’anno.

* Ndt: per la traduzione dell’ Odissea si è utilizzato: Odissea, in Classici greci e latini, A. Mondadori, trad. di G.A. Privitera. ** I nostri commenti alle citazioni sono indicati in parentesi quadre.

«Quando le Pleiadi sorgono [la levata eliaca, 10 maggio nel nostro calendario]**, è il momento di usare la falce, l’aratro, invece, quando tramontano [al mattino, 12 novembre]; per 40 giorni stanno lontane dal cielo [verso 382] Quando, 60 giorni dopo il solstizio d’inverno, Arturo si leva dal mare e, sorgendo durante la sera, rimane visibile tutta la notte [24 febbraio], le uve vanno potate [verso 566] Ma quando Orione e Sirio arrivano a metà del cielo e l’Aurora dalle dita rosate vede Arturo [14 settembre], le uve vanno raccolte [verso 610] Quando le Pleiadi, le Iadi e Orione stanno tramontando [3-7-15 novembre], allora bisogna por mano all’aratro [verso 615] Quando le Pleiadi, scomparendo Orione, si tuffano nel mare scuro [tramonto mattutino, 12 novembre], si preannunciano tempeste [verso 619] Cinquanta giorni dopo il ritorno del Sole [solstizio d’estate], è il periodo giusto per la navigazione [verso 663] Quando Orione compare [17 giugno], il dono di Demetra deve essere portato al granaio ben pulito». [verso 699] Da questi inizi si sviluppò l’astronomia

greca. Quello che noi oggi conosciamo, attraverso le scarse informazioni giunteci dai secoli successivi, non tratta di osservazioni dei corpi celesti ma delle opinioni dei filosofi sul mondo. Incontriamo un modo di pensare e dei popoli molto differenti da quelli della Mesopotamia e dell’Egitto, risultato di condizioni di vita completamente diverse.

La Grecia è costituita da penisole montagnose, con piccole aree di terra coltivabile sulle coste o lungo i corti ruscelli, separate le une dalle altre da ripide rocce e da massicce montagne piene di boschi; è circondata da numerose isole che formano come un ponte verso l’Asia Minore. Le tribù elleniche, che giunsero dal nord, trovarono qui un buon clima e ottimi porti, ma insufficienti terre da coltivare per la popolazione in aumento. Divennero navigatori, popolarono le isole e migrarono sulle coste vicine. I traffici marittimi diventarono la loro principale occupazione e fonte di prosperità in città come Corinto nel

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continente o Mileto, Efeso e Smirne sulla costa anatolica. Attraverso i loro commerci i Greci dominarono subito il mar Egeo e, in competizione con i Fenici, la parte orientale del Mediterraneo. Le loro genti divennero avventurose e cominciarono a insediarsi nei paesi stranieri; fondarono colonie nell’Italia meridionale e sul Mar Nero, da Marsiglia alla Crimea. Qualche colonia divenne più tardi il centro di nuove espansioni.

Qui fiorirono nuove forme di economia e politica. I colonizzatori nelle nuove terre, naturalmente i più energici e indipendenti del loro popolo, non erano minimamente influenzati dalle tradizioni. Attraverso il cambiamento delle condizioni di vita e il rimescolamento razziale, nuove idee si svilupparono più facilmente qui che non in patria. C’erano quindi nuove forme di lavoro e nuovi modi di vivere; nei centri di scambio nacquero nuove attività, emerse una classe di cittadini artigiani che confezionavano prodotti per lontani punti di smercio e che spesso viaggiavano loro stessi per venderli. Navigatori e commercianti svilupparono un’apertura mentale diversa da quella dei contadini legati al loro pezzo di terra. Questi ultimi, infatti, erano conservatori poiché la loro vita era legata allo stretto contatto con esperienze e condizioni costantemente ripetitive, pensieri e sentimenti essendo subordinati fortemente alle tradizioni. Invece, per i viaggiatori, il contatto con nuovi paesi e popoli aprì nuove prospettive, rese il pensiero mobile e libero e la mente recettiva alle nuove idee. L’ingegno e la competizione resero queste persone piene di inventiva; le tecniche si svilupparono e la conoscenza fisica del mondo le rese critiche nei confronti delle credenze tradizionali. Così, presso gli Ionici dell’Anatolia e i Greci del Sud Italia troviamo i primi filosofi che proposero nuove teorie al mondo.

Questi coloni greci, che vivevano in mezzo ai continenti, tra le tribù europee dei barbari e il dispotico impero asiatico, erano i primi uomini “moderni”, comparabili ai cittadini dei successivi stati europei. Essi furono i primi a liberarsi dal culto degli dèi dell’Olimpo. Qui, per la prima volta, sorse, da un ceto medio, un vigoroso spirito vitale

che trovò espressione nella fiorente poesia e in una forte indipendenza mentale, la quale, a sua volta, trovò espressione nella filosofia della natura9. Il forte individualismo, che nella storia futura avrebbe caratterizzato l’uomo civilizzato, si sviluppò nei cittadini greci liberi e soprattutto nei coloni. Le generazioni successive avrebbero ereditato il carattere spirituale dei predecessori allorquando la loro vita economica e sociale finì per svilupparsi in modo analogo; e così l’Europa occidentale, durante il Rinascimento, raccolse questa eredità dagli antichi. Soltanto i Greci non poterono ereditarlo da nessun altro; in Grecia, e specialmente nelle colonie, questa caratteristica si sviluppò da sé in modo autonomo. Questo è l’aspetto significativo dell’antica Grecia e della sua cultura per la storia mondiale. Talvolta si crede che i primi pensatori greci acquisirono le loro idee dall’Egitto o dalla Babilonia, ma, considerando le diverse condizioni sociali, possiamo essere certi che, tranne che per qualche aspetto marginale, questo è fuori questione10.

C’è un’altra differenza. Egitto e Babilonia erano costituiti da estese e fertili pianure, dove la necessità di una regolazione centrale dell’acqua con dighe e canali richiedeva un forte governo. Inoltre, il potere spirituale era concentrato in una potente gerarchia di sacerdoti che praticavano la scienza ma che la legavano fortemente alle tradizioni religiose. In Grecia non era necessaria una tale centralizzazione del potere politico e nemmeno era possibile. Le piccole, isolate, città-stato guerriere rimasero indipendenti: ognuna aveva le sue divinità locali — collocate dai soli poeti in una strttura gerarchica posta sull’Olimpo — i suoi sacerdoti, con funzioni circoscritte e poca influenza. Questo stato delle cose mise il marchio sulla vita spirituale in Grecia, e

9 Ndr: si ricorda che il termine ‘scienza della natura’ (scientia naturalis), qui e più avanti ampiamente usato, è stato coniato da Tommaso d’Aquino nel XIII secolo. 10 Ndr: qui l’Autore assume una posizione molto netta su di un argomento – l’eredità culturale greca dalle civiltà della Mesopotamia – oggi in discussione.

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anche sulla scienza. In Oriente esisteva il sacerdote-scienziato, legato alla tradizione. In Grecia c’era una scienza divisa in tanti rami, liberamente germogliata e sviluppata nelle menti versatili dei coloni e dei naviganti.

Nei libri sulla storia dell’astronomia in Grecia troviamo, innanzitutto, nel settimo e sesto secolo a.C. i nomi di un largo numero di filosofi, tutti dell’Asia Minore o della Magna Grecia. Ma le nostre informazioni sulle loro dottrine e opinioni sono insufficienti e spesso contraddittorie. Ciò non dovrebbe stupirci se consideriamo quanto è andato perso di tutto quello che è stato scritto nell’antichità e quanto ci è pervenuto. Certamente, i lavori di Platone e Aristotele sono stati preservati: i due filosofi godevano di molta stima e vennero spesso copiati. Lo stesso Aristotele ci fornisce delle informazioni sulle opinioni dei filosofi precedenti, ma egli utilizzava queste citazioni soprattutto per accreditare la sua reputazione: il suo punto di vista, quindi, non è del tutto oggettivo. Il suo successore, Teofrasto, scrisse un libro sulle Opinioni dei fisici (Physicorum placita) e il suo discepolo, Eudemo, scrisse una storia dell’astronomia, ma entrambe le opere sono andate perse. Queste e alcune altre fonti furono le basi, nell’ultimo secolo a.C., per la stesura di una collezione di Opinioni, andata perduta, che servì come fonte per un lavoro di Ezio, Sulle Opinioni, del 100 d.C. circa, e che venne largamente utilizzata da autori successivi. Dei brani ne vennero pubblicati nel secondo secolo, con il titolo di Opinioni dei filosofi, da un autore sconosciuto che le ascrive al famoso biografo Plutarco. Nei secoli successivi, queste e altre opere vennero utilizzate dagli autori cristiani nella loro polemica contro la filosofia pagana e nel suo rifiuto. Poiché questa parte della letteratura cristiana ci è stata conservata, può essere utilizzata per restaurare tratti importanti di queste opere, specialmente quella di Ezio. Si possono aggiungere anche le citazioni di alcuni autori latini, sufficientemente colti in campo scientifico, come Cicerone. Ma possiamo capire come possano essere incomplete, talvolta

contraddittorie, spesso distorte o, addirittura, completamente sbagliate le idee così ascritte ai pensatori antichi, e come poco successo possano avere gli studiosi moderni cercando di costruire profonde concezioni sul mondo a partire da esse.

Questi pensatori erano chiamati “filosofi” per la loro speculazione sulla natura delle cose in collegamento con il mondo nel suo complesso. Essi non erano, tuttavia, come spiega il classicista inglese T.B. Farrington, degli eremiti impegnati a ponderare su questioni astratte: erano uomini attivi, che prendevano parte alla vita pratica e le loro idee e i modi di pensare che applicavano erano quelli che derivavano dal loro interesse nelle questioni pratiche. Riflettendo su come funzionassero le cose, essi ragionavano alla luce dell’esperienza quotidiana, senza rivolgersi agli antichi miti. «La tecnologia, a Mileto, mise fuori gioco la mitologia. La concezione centrale, a Mileto, era la nozione che tutto l’universo si comporti allo stesso modo delle sue più piccole parte, che possono essere poste sotto il controllo dell’uomo»[39] Questo implica che le loro spiegazioni sono più interessanti dal punto di vista fisico che non astronomico.

Per quanto riguarda i più antichi filosofi ionici si sa, dalle fonti più autorevoli, che Talete di Mileto (624-547 a.C.) postulò l’acqua come principio primo di tutte le cose e suppose che la Terra fosse un disco piatto galleggiante sulle acque. Autori successivi gli attribuirono la teoria della sfericità della terra e delle reali cause delle eclissi lunari, ma questo contraddice altre più credibili informazioni. Per il suo conterraneo Anassimandro (611-546 a.C.), il principio del mondo era l’indeterminato o l’infinito e la Terra cilindrica fluttuava libera in mezzo allo spazio. È piuttosto oscuro ciò che egli dice a proposito del Sole, della Luna e delle stelle, rispetto agli effetti delle loro sfere vuote, piene di un fuoco che risplende attraverso strette aperture che vengono chiuse durante le eclissi. Secondo Anassimene, anch’egli di Mileto (585-526 a.C.), il disco piatto della Terra è sostenuto dall’aria e il Sole e la Luna, anch’essi dischi

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piatti, fluttuano nello stesso mezzo. Le stelle, egli diceva, non girano al di sotto della Terra, ma si muovono come un copricapo sopra la testa e il Sole non si sposta al di sotto della Terra ma si nasconde alla vista dietro le montagne a nord e resta invisibile a causa della grande distanza. Un’altra asserzione, che le stelle sarebbero fisse nella volta cristallina, come punte di spillo, non si accorda con quella precedente.

Ancora più singolari, dal punto di vista astronomico, sono le opinioni attribuite al poeta Senofane di Colofone (570-478 a.C.): il Sole nascerebbe nuovamente ogni giorno al suo sorgere e di notte diventerebbe invisibile, in quanto si ritirerebbe a una distanza infinita; le eclissi avverrebbero a causa dello spegnimento del Sole, la Luna brillerebbe di luce propria e scomparirebbe estinguendosi ogni mese. Similmente, si dice che Eraclito di Efeso (c. 500 a.C.) sostenesse che il Sole è una massa incandescente che si accende al suo levarsi e si spegne al suo tramontare; «il Sole è nuovo ogni giorno»[40] Questi stessi filosofi sono considerati i più importanti e profondi pensatori! Senofane attaccò la religione tradizionale proclamando più ampie e libere idee ed Eraclito, “l’oscuro”, è ancora oggi altamente stimato per la sua dottrina del flusso eterno e dell’eterno mutare delle cose. Dalle loro opinioni, che vengono escluse da un attento esame del cielo, si conclude che non erano degli astronomi ma dei pensatori fantasiosi; si può dire così che tutto ciò ha poca importanza per la storia dell’astronomia.

Astronomia, nel vero senso della parola, si può, invece, riscontrare nella previsione dell’eclissi solare del 584 a.C. che, secondo alcuni, sarebbe stata eseguita da Talete. Erodoto riferisce che, quando i Medi e i Lidi combatterono la battaglia sul fiume Halys, il giorno si trasformò in notte e che Talete di Mileto aveva previsto questa eclissi con l’anticipo di un anno. Ma la natura indefinita di questa affermazione suscita perplessità. Inoltre, Talete potrebbe aver predetto un tale fenomeno se fosse stato a conoscenza dei principi di previsione delle eclissi o se avesse semplicemente imparato da fonti babilonesi l’attesa di questo particolare

evento, ma a quel tempo gli stessi babilonesi, anche se erano già in grado di predire le eclissi lunari a breve termine, non erano ancora in grado di risolvere il molto più complesso problema delle eclissi solari. Tutto ciò, quindi, dovrebbe probabilmente essere considerato come una leggenda[41]

Una visione più avanzata del mondo compare con i Greci che abitavano nell’Italia meridionale. Per prima, incontriamo qui la figura rilevante di Pitagora di Samo (580-c. 500 a.C.). I suoi scritti non ci sono pervenuti e le leggende degli autori successivi raccontano come egli avesse acquisito la sua saggezza dai sacerdoti egiziani. Pitagora fondò a Crotone una scuola — o meglio una sorta di ordine monastico — la quale venne successivamente dispersa da un’insurrezione popolare, in quanto legata all’aristocrazia regnante. A lui vengono attribuite molte nuove scoperte scientifiche, specialmente nella matematica: lemmi geometrici, la sezione aurea, la teoria dei numeri, delle basi aritmetiche e dell’armonia musicale. Aristotele non parla mai di Pitagora ma dei Pitagorici, e non è noto quanto di queste opinioni fossero dovute allo stesso Pitagora. A lui è attribuita generalmente la conoscenza della sfericità della Terra, così come ai posteriori Alcmeone di Crotone e Parmenide di Elea (probabilmente 504-450 a.C.). Queste teorie si diffusero presso gli attenti navigatori greci e tutto ciò portò alla comprensione delle differenti zone climatiche sulla Terra che gli autori successivi attribuirono a Pitagora e Parmenide. In un brano del più tardo Bion di Abdera, che ci è pervenuto, si afferma che esistono regioni sulla Terra nelle quali giorni e notti durano entrambi sei mesi; ciò dimostra che le conseguenze di questa teoria erano conosciute. Si dice che Pitagora sia stato il primo a riconoscere la stessa identità per la Stella del Mattino e la Stella della Sera; egli (o Enopide di Chio) per primo riconobbe l’obliquità dell’eclittica e le orbite dei pianeti al suo interno. Con Empedocle di Agrigento (probabilmente 494-434 a.C.) troviamo la dottrina dei quattro elementi, fuoco, aria, terra e acqua, mossi dall’Amore e dall’Odio.

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Le idee cosmologiche di Anassagora di Clazomene (c. 500-428 a.C.) sono definite in modo più chiaro. Egli si stabili ad Atene, allora il centro politico e culturale della Grecia, nella sua Età dell’Oro per la letteratura e l’arte. Amico di Pericle, era riconosciuto nell’antichità come il filosofo che ritenne il “pensiero” essere il motore primo dell’universo. Fu il primo a sostenere chiaramente che la Luna splendeva della luce ricevuta dal Sole e che le eclissi lunari accadevano quando la Terra (o un altro corpo scuro!) intercettava la luce solare. Credeva che la superficie della Terra fosse piatta, come la sommità di un cilindro liberamente sospeso nello spazio, mentre la rotazione della sfera celeste, sulla quale sono fissate le stelle, avrebbe portato queste ultime al di sotto della Terra stessa. Era presente, quindi, una dualità in questa visione del mondo: il fenomeno terrestre della gravità, i corpi che cadono e le superfici dei fluidi erano inseriti in un modello rettangolare, mentre i fenomeni della sfera celeste dimostravano una simmetria sferica di raggi e cerchi attorno a un centro.

Per tutti questi filosofi la Terra restava al centro dell’universo. Nello stesso periodo, si sviluppò un’altra dottrina presso i Pitagorici, attribuita soprattutto a Filolao di Taranto (tra 500 e 400 a.C.), secondo la quale il centro dell’universo sarebbe un fuoco chiamato Estia (la Terra) e la Terra sferica descriverebbe quotidianamente un giro attorno a questo fuoco, girando sempre la sua parte non abitata verso di esso. Così, si alternerebbero il giorno e la notte, mentre noi non potremmo vedere il fuoco centrale, poiché un altro corpo, l’anti-Terra, sarebbe interposto tra noi e il fuoco(l’esistenza di un ulteriore corpo celeste derivava dalla necessità di rendere il numero di questi uguale a dieci, numero considerato perfetto, poiché somma dei primi 4 numeri). Il Sole sarebbe stato, invece, un globo trasparente che riceveva la sua luce e il suo calore dal fuoco centrale e dal fuoco al di là dei cieli

La filosofia greca prese una nuova strada

con i Sofisti, con Socrate e con i discorsi

socratici del “sublime filosofo” Platone (427-347 a.C.). Il problema della natura e della struttura del mondo non costituiva più il soggetto principale. Con lo sviluppo del commercio e degli scambi comparirono nuovi fenomeni sociali; attraverso le discussioni politiche e le decisioni delle assemblee dei cittadini, il problema dell’uomo, dello stato e della società divennero più importanti. La filosofia della natura diede spazio alla filosofia della vita. Socrate parlò con un certo disprezzo della conoscenza della natura, che occupò solo una piccola parte dei suoi discorsi. Il loro contenuto principale è la cultura dell’anima individuale attraverso gli eterni valori di verità, bellezza, e bontà. Nel mondo di Platone, che è il primo dei filosofi greci di cui abbiamo completamente le opere, ci sono solo poche parti che ci informano della sua visione della natura e degli oggetti celesti. Solitamente sono nozioni in forma simbolica o allegorica, cosicché sono diventate fonte di controversie in letteratura e di molte moderne esegesi sul loro significato; queste controversie continuano tutt’oggi.

La filosofia di Platone era la più diretta ed estrema espressione delle idee e del modo di pensare dei cittadini benestanti di Atene e delle altre città greche di quel periodo. Essi governavano numerose classi di schiavi e artigiani e guardavano a ogni lavoro manuale con sdegno, come adatto esclusivamente a persone rozze, prive di ogni cultura spirituale. I lavori manuali erano considerati un disonore per i liberi cittadini che si dovevano occupare soltanto di lavoro intellettuale, come la matematica, la filosofia e la politica. Questo disprezzo per la tecnica era l’atteggiamento esattamente opposto a quello dei primi cittadini ionici e non ancora presente negli artisti dell’Età dell’Oro, che erano loro stessi degli artigiani. Ciò fu tipico dei filosofi del periodo del declino, dopo la catastrofe che colpì il potere ateniese alla fine del quinto secolo a.C. Fu, probabilmente, una delle ragioni principali per cui la scienza della natura non si sviluppò nell’antichità.

Secondo Platone, le “idee”, entità

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spirituali, costituivano il mondo reale, di cui il nostro mondo visibile è solo il riflesso. La realtà non si può sperimentare attraverso i sensi. Il mondo reale è perfetto, puro ed eterno e può essere conosciuto solo con la mente, finché essa non è dominata e distratta dagli imperfetti e temporanei fenomeni. Questo vale anche per l’astronomia:

«Quelle cose lassù in cielo […] sono considerate propriamente come più belle e perfette di ogni altra cosa visibile; tuttavia, esse sono di gran lunga inferiori a ciò che è vero […] le cose vere si apprendono con la ragione e l’intelligenza non con la vista […]» Noi dovremmo utilizzare i “ricami” nel

cielo come illustrazioni che facilitino lo studio di concetti ben più elevati, «così come i diagrammi sono usati in geometria». Dovremmo approfondire l’astronomia attraverso i problemi, così come facciamo per la geometria, e occuparci del cielo stellato, se il nostro obiettivo è la reale conoscenza dell’astronomia[42] Il vero astronomo deve essere un grande saggio che non deve, come Esiodo e altri, occuparsi del sorgere e tramontare degli astri, ma investigare le sette rivoluzioni contenute negli otto movimenti[43] Per di più, qui l’apparenza è contraria alla realtà, sebbene non nello stesso modo nel quale un mondo spirituale fronteggia un mondo materiale. Ciò che nei secoli successivi è espresso come una realtà astronomica diversa dai fenomeni visibili — un differente sistema di orbite, come osservato da un punto di vista diverso — è proclamato (nella dottrina di Platone) essere l’essenza spirituale delle cose, evidentemente perché è possibile scoprirlo dall’esperienza pratica attraverso l’astrazione del pensiero mentale. Quindi, l’obiettivo pratico dell’astronomo è trovare il moto regolare dei circoli perfetti, che, in sostanza, sta dietro l’apparente irregolarità del moto dei pianeti. Un autore successivo ricorda come, nelle sue dissertazioni, Platone ponesse agli studenti di astronomia il problema di trovare «quali siano quei moti uniformi e ordinati che spiegano i moti apparenti dei pianeti»[44]

Per Platone tutte le stelle erano «esseri

viventi, divini, eterni» e colui che aveva creato il Mondo aveva dato loro forma visibile «fatta principalmente di fuoco, che poteva essere più splendente e chiaro alla vista, e paragonandolo al Tutto, lo modellò come una sfera […]»[45] L’universo è eterno, vivo e perfetto, una sfera animata e con il moto appropriato alla sua forma, cioè una rivoluzione uniforme attorno a un asse. Il moto dei sette astri erranti (Sole, Luna, e pianeti) è spiegato nel mito allegorico nella Repubblica e in una poetica descrizione nel Timeo.

Nell’ultimo capitolo della Repubblica, descrivendo ciò che le anime vedono in cielo, Platone spiega la visione di una luce simile a un pilastro, che collega i cieli, e il Perno della Necessità, che mantiene tutte le rivoluzioni; prevede, inoltre, otto dischi, sistemati come scatole l’uno dentro l’altro, di diversa ampiezza e formanti una sola superficie. Segue, quindi, una descrizione dettagliata: la prima, più esterna e tra le sfere la più grande, di molti colori [la sfera delle stelle], ruota attorno a un asse; in essa altre sette sfere ruotano nella direzione opposta. La più interna, l’ottava, si muove più rapidamente [la Luna]; quindi la più vicina in velocità è la settima, poi la sesta e la quinta [Sole, Venere, Mercurio]; quindi la terza, la quarta e la quinta in velocità diventano la quarta, la terza e la seconda [Marte, Giove, Saturno] La settima è la più luminosa, l’ottava prende il suo colore da questa, che splende davanti a essa [Sole e Luna]; la seconda e la quinta [Saturno e Mercurio] sono più gialle, la terza [Giove] è la più bianca e la sesta [Venere] un po’ meno bianca, mentre la quarta [Marte] è di un rosso pallido.

Questi dettagli mostrano molto chiaramente come questa spiegazione poetica sia, in realtà, una descrizione allegorica dei pianeti e del loro sistema. Meno chiaro è quanto concerne l’ampiezza dei cerchi; dopo la sfera delle stelle fisse, che è la più estesa, la successione in ordine di ampiezza è Venere, Marte, Luna, Sole, Mercurio, Giove, e Saturno. Si è supposto che il valore della deviazione in latitudine del pianeta dall’eclittica possa essere

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indicato da questa ampiezza oppure che questa indichi l’estensione delle irregolarità nell’avanzamento dei pianeti, per esempio l’estensione del loro moto retrogrado. Ma in entrambe le supposizioni la posizione del Sole e della Luna non quadra. Non capiamo bene che cosa intendesse dire Platone con queste asserzioni. Gli studiosi moderni hanno tentato di interpretare, con molta ingenuità, questa descrizione come una dettagliata struttura dei corpi dell’universo. Ma, come T. Heath giustamente afferma: «il tentativo di tradurre i dettagli di un’immagine poetica in un sistema coerente di fenomeni fisici è senza speranza»[46] Non perché la descrizione metaforica di Platone della struttura del Mondo manchi di precisione, ma perché è del tutto lontana dalle moderne idee di una struttura meccanica: intrisa di un forte misticismo matematico, questa è essenzialmente una visione spirituale.

Nel Timeo è descritta la creazione dell’anima e del mondo. Furono creati due cerchi che si incrociavano l’uno nell’altro obliquamente in due punti opposti, entrambi rotanti su se stessi.

«Lui [il Creatore] proclama che il movimento esterno è quello dell’uniformità, l’interno quello delle differenza;. E fè che il cerchio della natura del medesimo si rigirasse a dritta e di costa; e quello dell’altro a sinistra, secondo diagonale. Nientedimeno la signoria concedette al rivolgimento del medesimo e simile, lasciandolo intero; per lo contrario, spartito sei volte il rivolgimento di dentro, ei ne fè sette cerchi diseguali, di due specie, e ciascheduna con tre intervalli; e hanno gli intervalli dell’una specie il due a ragione loro, e quei dell’altra, il tre [i quali sono stati interpretati successivamente come distanze 1, 2, 3, 4, 8, 9, 27]; e ordinò che i cerchi andassero con moto contrario, tre simigliantemente veloci, e quattro dissimigliantemente e inverso ai tre e fra loro, ma tutti commisuratamente.11»[47] Emerge chiaramente da questo brano che il

moto uniforme si riferisce alla rivoluzione della sfera celeste, con il movimento verso ovest di tutte le stelle, e che il moto non uniforme rappresenta il corso degli astri

11 Timeo 36 C-D da Platone dialoghi, nella versione di F. Acri, Einaudi, Torino.

lungo l’eclittica verso est. Inoltre, per poter creare un’immagine

mobile della durevole eternità, espressa in numeri, ciò che noi chiamiamo Tempo,

«il Sole, la Luna, e le altre cinque stelle chiamate pianeti, sono state create per definire e preservare i numeri del tempo […] Egli pose la Luna nel primo cerchio vicino la Terra; nella seconda pose il Sole; poi la Stella del Mattino e quella che è sacrato a Hermes le pose in quelle orbite che si muovono in un circolo con uguale velocità del Sole, ma con moto contrario; in tal modo il Sole, il pianeta di Hermes e Lucifero si raggiungono l’uno con l’altro».

Spiegare le orbite degli altri «e le cause per le quali le fece […] darebbe noi un durissimo compito. Ma ciò potrà trovare un’appropriata esposizione in futuro12»[48] Dunque la notte e il giorno sono

determinati «dal periodo dell’unica e meglio razionale rivoluzione [un mese per la Luna e un anno per il Sole] Quanto ai periodi degli altri pianeti gli uomini, tranne pochissimi, non li hanno compresi […] infatti possono dire appena di conoscere che il tempo è misurato anche dai loro giri, che sono infiniti e meravigliosamente svariati»[49] In un’opera postuma, completata da un

discepolo, questi altri pianeti sono indicati senza nome, come anche il terzo, con la stessa velocità del Sole [Mercurio], perché furono scoperti da popoli barbari venuti a vivere in un clima migliore. Ma essi presero nome dagli dèi:

«la stella del mattino e la stella della sera da Afrodite, uno appunto da Ermes […] Tre ne rimangono, più lente; la più lenta con il nome di Crono, l’Altra Zeus e l’ultima, la più rossa di tutte le stelle di Ares»[50] Il fatto che Platone, per la prima volta, usi

dei nomi babilonesi per i pianeti indica che a quel tempo era presente nell’astronomia greca l’influenza orientale.

Poiché il moto uniforme è il più rapido dei moti e li rimpiazza, la rivoluzione 12 Timeo 38 C-D da Platone dialoghi, nella versione di F. Acri, Einaudi, Torino.

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giornaliera del Sole, della Luna e dei pianeti è più lenta e a spirale; i corpi con il moto proprio più veloce [la Luna] sono più lontani e appaiono i più lenti. Questo si collega ulteriormente all’opposizione tra apparenza e realtà nei moti celesti. Nelle Leggi, è scritto che costituisce una calunnia dire che gli dèi si muovono in modi differenti, mentre in realtà si muovono tutti allo stesso modo, dicendo che il moto più rapido in realtà corrisponde a quello più lento. Mentre in questi frammenti il sistema cosmologico di Platone nella parte principale si presenta senza molta ambiguità, ci sono alcune frasi che danno adito all’opinione — e a molte discussioni teoriche — che Platone negli ultimi anni credesse nella rotazione terrestre. In primo luogo, dalle contraddizioni appena menzionate, solo se Platone avesse considerato la rotazione della sfera celeste come un’apparenza, un inganno, avrebbe potuto chiamare Saturno il pianeta più lento, e la Luna il più veloce; non avrebbe potuto farlo se avesse considerato la rotazione celeste reale. Va detto che, per Platone, la divisione della rotazione giornaliera dei pianeti più lenti in una generica rotazione celeste e in un moto proprio opposto dei pianeti lungo l’eclittica era opera della mente, un’astrazione mentale che svelava la più profonda realtà spirituale e l’essenza della struttura del mondo.

In secondo luogo, da una frase nel Timeo: «ma la Terra, nostra madre adottiva sferica [rotante, avvolta, raccolta] attorno a un asse [polos] teso nell’universo, che fa da guardiano e operatore che crea il giorno e la notte, il primo e più vecchio degli dèi che sono stati creati col cielo»[51] Qui, infatti la parola “operatore”

(demiurgos, artefice) sarebbe più appropriata se la Terra ruotasse su se stessa; ma

l’evidenza della rotazione celeste è talmente manifesta in tutto il resto da togliere ogni dubbio, quindi questa frase deve essere interpretata in un senso più ampio. In terzo luogo, in una frase di Aristotele:

«qualcuno dice che la Terra, che giace al centro, si muova attorno al polos teso nell’universo, come sta scritto nel Timeo»[52] Si tratta, tuttavia, non di Platone ma dei

Pitagorici; e Tommaso d’Aquino ha già spiegato che le ultime parole si riferiscono all’asse, per il quale Aristotele mai usò il termine polos, a differenza di Platone (come nella citazione precedente). Oggigiorno non ci dovrebbe, quindi, più essere dissenso riguardo all’opinione di Platone a questo proposito.

L’astronomia in Grecia si è sviluppata gradatamente fino al punto in cui, nel quarto secolo a.C., i pianeti e il loro corso lungo l’eclittica vennero ben individuati. Nei secoli precedenti, 600-400 a.C., la Grecia raggiunse il massimo sviluppo dal punto di vista economico e politico: in patria vi era grande libertà per i cittadini nel commercio e negli scambi, all’estero era una potenza rispettata per la sua opposizione all’impero persiano. È un fatto curioso che, mentre la letteratura e l’arte hanno raggiunto livelli scarsamente toccati altrove, la scienza astronomica sia fiorita molto lentamente. La conoscenza dei più semplici fenomeni, facilmente identificabili da tutti, fu attribuita ai famosi filosofi come loro importanti scoperte. È evidente che la mente dei Greci in questi secoli fiorenti non era diretta all’astronomia pratica; qui, diversamente che in Babilonia, la richiesta della vita pratica non portò a un forte incentivo per un’attenta osservazione delle stelle.

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CAPITOLO 10

CALENDARIO E GEOMETRIA Per i Greci, così come per altri popoli, il viaggio e il calcolo del tempo furono le basi dalle quali l’astronomia pratica ebbe origine. Intrepidi marinai greci attraversavano i mari con le loro mercanzie; tuttavia, abbiamo poche notizie sull’uso delle stelle nella navigazione. Nello stretto Mediterraneo, dove le coste erano sempre vicine, le stelle avevano solo il compito di dare la direzione della navigazione e di indicare le ore della notte. Successivi autori parlano di un manuale di astronomia nautica (Astrologia nautica) scritto da Talete di Mileto, la cui paternità tuttavia fu ascritta da altri a Foco di Samo. Più frequentemente, troviamo menzione di come i Greci determinassero le ore del giorno e regolassero il calendario attraverso fenomeni celesti. Il progredire delle ore durante la notte era riconosciuto con il sorgere delle costellazioni, specialmente quelle dello zodiaco. La conoscenza dei dodici segni dello zodiaco ascritta a Enopide di Chio (circa 430 a.C.) fu senza dubbio presa a prestito, come mostra il nome, dai Babilonesi. Nel corso della notte si vedevano alzarsi cinque costellazioni zodiacali, cominciando dal tramonto con le stelle opposte al Sole e terminando con le stelle che apparivano proprio prima del sorgere del Sole. Così, l’unità appropriata di tempo è la doppia ora, che è più lunga nelle notti lunghe, più corta nelle notti corte. Durante il giorno, quando la semplice stima dell’altezza del Sole non era abbastanza esatta, veniva misurata l’ombra di un pilastro, chiamato polos o gnomon. Nei secoli seguenti furono erette meridiane di diversa costruzione: un semplice modello era un piccolo globo metallico al centro di una boccia sferica che proiettava la sua ombra sul lato interno diviso da cerchi incisi. Venivano usate anche gli orologi ad acqua.

In Grecia la misurazione del tempo su vasta gamma fu basata, sin dai tempi più

antichi, sul periodo lunare adattato all’anno solare. Il mese cominciava con la comparsa della Luna crescente, quindi il giorno iniziava la sera. Originariamente questo fu, senza dubbio, stabilito empiricamente, ma, poiché spesso le condizioni atmosferiche diminuivano la visibilità, fu stabilita in seguito una regola artificiale basata sull’alternanza regolare di mesi “pieni” e “vuoti” (di 30 e 29 giorni) in modo tale che in 16 giorni dovevano essere aggiunti 3 giorni. Nella biografia di Solone l’Ateniese scritta da Plutarco, si dice che egli abbia introdotto la pratica di chiamare “vecchio-e-nuovo” il giorno di congiunzione del Sole e della Luna e di assegnarlo in parte al vecchio e in parte al nuovo mese, e che il giorno seguente dovesse essere chiamato “Luna nuova” e dovesse essere il primo giorno del mese. In Grecia il calendario non era compito dei sacerdoti, ma dei funzionari statali.

I dodici mesi dell’anno avevano nomi differenti nelle diverse città e regioni; i nomi ateniesi, naturalmente, erano usati più frequentemente, sia in ambito scientifico che commerciale. Nemmeno le pratiche delle diverse regioni coincidevano: ad Atene l’anno cominciava con il solstizio d’estate, negli altri stati in stagioni diverse. Questo mostra ancora una volta come l’antica Grecia fosse ampiamente divisa in piccole e isolate unità. Gli anni erano fissati dai funzionari in carica, potendo così differire da città a città. Il problema, per gli autori posteriori, di fissare la data degli eventi precedenti fu facilitato dalle Olimpiadi, il periodo dei grandi giochi a Olimpia che si verificavano ogni quattro anni.

Il calendario lunare dovette essere adattato all’anno solare che dominava la vita pratica, l’agricoltura e la navigazione. Un successivo autore di un manuale di astronomia, Geminus, espresse tutto questo con le

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seguenti parole: «Calcolare gli anni con il Sole significa che le stesse offerte agli dèi debbano essere portate sempre negli stessi periodi […] Poiché essi considerano che ciò sia gradito agli dèi»[53] Senza dubbio, il periodo dell’anno fu

determinato ancora per molto tempo al modo di Esiodo, dalla levata e dal tramonto —anche dalla levata serotina — di stelle luminose. La necessità di determinare l’anno con maggiore esattezza attraverso fenomeni astronomici può aver portato all’osservazione dei solstizi d’estate. Quando il Sole raggiunge la sua altezza massima, sorge e tramonta nei punti più nord sull’orizzonte, dopo di che torna indietro; senza bisogno di utilizzare degli appositi strumenti, queste posizioni possono essere facilmente determinate dal confronto con oggetti terrestri sull’orizzonte. Questo è probabilmente il significato di un brano che ci è pervenuto del perduto lavoro storico di Teofrasto. L’astronomo ateniese Phaeinos determinò i solstizi in riferimento al monte Licabetto e Cleostrato di Tenedo li determinò dal monte Ida nella vicina Asia Minore. Il monte Licabetto è una collina situata vicino all’antica Atene, a nord-est (oggi al centro della città). Il profilo irregolare della montagna rese possibile trovare il giorno del solstizio indagando le piccole variazioni nell’azimut del Sole sorgente.

Il calendario lunare fu adattato al Sole, proprio come a Babilonia, intercalando un tredicesimo mese. Ciò veniva decretato, piuttosto arbitrariamente, dai funzionari locali e differiva a seconda della località. Gli astronomi cercarono poi di derivare e introdurre un’intercalazione regolare attraverso periodi fissi. Lo stesso Cleostrato di Tenedo (circa 520-550 a.C.) è ritenuto essere dai successivi autori colui che ha introdotto (o proposto) un periodo di otto anni (oktaëteris). Questo periodo di 99 mesi comprende 2,922 giorni; così un anno fu portato a 365 giorni e 1/4, e il periodo sinodico della Luna a 29,55 giorni (di 0,016 troppo piccolo, perché in realtà 99 periodi sono 2,923 ½ giorni). Tale difetto deve aver

precluso il suo uso pratico per un numero più ampio di anni. Geminus registra che questo periodo fu migliorato da Eudosso di Cnido (408-355 a.C.), il quale aggiunse 3 giorni a ogni sedicesimo anno allo scopo di dare al mese la sua vera lunghezza in giorni, e quindi, dopo 10 di questi periodi, si doveva omettere un tredicesimo mese per adeguarlo all’anno solare. Non c’è nessuna indicazione, comunque, che i cicli di 16 o di 160 anni siano stati usati nella vita pratica.

Prima di Eudosso un altro ciclo era già stato ideato dall’astronomo ateniese Metone, allievo di Phaeinos, il quale viene menzionato da Tolomeo per aver fatto delle osservazioni con Euctemone (c. 433 a.C.). Questo è il ciclo di 19 anni di 235 mesi, pari a 6.940 giorni. Viene spesso chiamato il “ciclo di Metone” ed è identico al periodo trovato a Babilonia. È incerto se i Greci lo avessero preso in prestito dai Babilonesi o lo avessero trovato indipendentemente, dato che su basi cronologiche abbiamo visto che apparve in Babilonia soltanto in seguito, dopo il 380 a.C. Secondo questo ciclo, l’anno è di 6.940 : 19 = 3655/19 giorni, più lungo di 1/76 di giorno rispetto al semplice valore di 365¼; anche il periodo lunare risulta ampio, poiché 235 periodi della Luna ammontano in realtà a 6.939,69 giorni.

In un calendario simile, con alcuni anni di 354 e altri di 384 giorni, le date dell’equinozio e del solstizio solare, così come quelle delle levate e dei tramonti delle stelle, fanno sbalzi irregolari, ora avanzando di 11 giorni ora indietreggiando di 19 giorni. Per rendere note queste variazioni ai cittadini furono erette delle colonne con buchi che corrispondevano alle date, in cui venivano collocati dei picchetti per indicare i fenomeni. Furono costruiti almanacchi chiamati parapegma, che venivano affissi a una colonna e la maggior parte dei quali contenevano i fenomeni solari per un certo numero di anni, il sorgere e il tramontare delle stelle e le previsioni delle stagioni. Metone viene menzionato per aver pubblicato un parapegma che iniziava col solstizio d’estate osservato da egli stesso nel 432 a.C.

Il ciclo di Metone di 19 anni semplificò di

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gran lunga le attività del calendario: la conoscenza di un numero di serie di un anno all’interno di un ciclo dava immediatamente le date dei fenomeni, visto che essi ricorrevano regolarmente. Non è certo, comunque, se venne adottato nell’uso generale come un sostituto dei calendari locali. Lo scopo immediato fu quello di registrare gli eventi su una scala fissa, probabilmente anche per uso astronomico. Si suppone che sia stato in uso ad Atene in un periodo più tardo, dopo il 340 a.C., ma dati su anni di 13 mesi derivati da documenti posteriori non coincidono con un periodo regolare di 19 anni

In questi stessi secoli di graduale sviluppo

della conoscenza del movimento dei corpi celesti e della sua applicazione pratica nel calcolo del tempo, troviamo anche uno sviluppo della teoria matematica. In questo campo la mente dei Greci, con la loro attitudine per il pensiero astratto, fu in grado di ampliarne le conoscenze con nuovi teoremi e lemmi. Questi trovarono subito la loro applicazione nell’astronomia.

Eudosso di Cnido, un famoso matematico già menzionato, è noto nella storia dell’astronomia come colui che per primo ha dato una spiegazione teorica dei movimenti planetari. In conformità con le opinioni prevalenti, egli suppose che ogni pianeta fosse fissato su di una sfera rotante intorno alla Terra come centro. Per spiegare l’irregolarità del movimento planetario egli suppose più sfere invece di una, tutte ‘omocentriche’; cioè giravano regolarmente, seppure in modi diversi, sul centro comune.

Questa teoria offrì una soluzione - forse ritenuta tale — al problema proposto da Platone: rappresentare l’irregolarità osservata nei fenomeni visuali per mezzo di movimenti circolari perfettamente regolari, gli unici movimenti ammissibili per i perfetti corpi celesti.

Allo scopo di capire la sua teoria supponiamo un globo celeste che gira su di un asse orizzontale in direzione nord-sud; quindi un corpo sul suo equatore sorge verticalmente a est, passa attraverso lo zenit e discende verticalmente a ovest (caso A

nella fig. 8). Se, invece, l’asse viene inclinato, diciamo di 10°, verso sud (caso B), allora il corpo, sorgendo a est nello stesso momento, devia verso nord, passa 10° a nord dello zenit e discende obliquamente a ovest. Relativamente al corpo in A, questo oscilla avanti e indietro verso nord; nella successiva rotazione, devia, sotto l’orizzonte degli stessi 10° verso sud. Inoltre sorgendo obliquamente a est esso resta indietro, prima di una piccola quantità (come dimostrato da B2-A2), soltanto ½ grado (proporzionale al quadrato dell’inclinazione), ma dopo raggiunge il punto massimo (B3-A3); poi in B4 assume la stessa piccola estensione precedente.

La posizione di B, in relazione ad A, viene mostrata nella piccola figura sotto la fig. 8, dove viene completata da un cerchio simmetrico per l’emisfero sottostante. Questa aspetto a forma di otto rovesciato venne chiamato dagli autori greci ippopeda [ndr: da ιπποπεδη = pastoia, una curva sghemba formata dal cammino di un cavallo impastoiato; detta anche lemniscata sferica o di Eudosso] poiché nelle scuole di equitazione i cavalli incatenati percorrevano una figura a otto. Così, se nel caso B, dove la rotazione porta il corpo lungo B1, B2, B3 ecc., viene aggiunta una rotazione A a ritroso della sfera in cui è stato ruotato l’asse di rotazione di B con i suoi poli, il movimento est-ovest del corpo viene neutralizzato dal movimento ovest-est della sfera più esterna e rimane soltanto l’oscillazione lungo l’ippopeda: 10 gradi avanti e indietro, accompagnata da piccole deviazioni di ½ grado su e giù. Questa

Fig. 8.

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oscillazione deve essere sovrapposta a una rotazione regolare ovest-est lungo l’eclittica, che ha luogo nel periodo di rivoluzione del pianeta lungo di essa.

Qui abbiamo un’oscillazione irregolare prodotta da due sfere che ruotano uniformemente, come è necessario per delle sfere celesti. Poiché sono inclinate e ruotano in direzione opposte rimane soltanto un piccolo ippopeda. Per applicare questo risultato al movimento d’un pianeta, Eudosso ipotizzò 4 sfere omocentriche: la prima, la più esterna, ruota in un giorno sui poli celesti rendendo il pianeta partecipe al movimento est-ovest di tutte le stelle. La seconda, trascinata lungo la prima poiché il suo asse è legata ai poli dell’eclittica, porta il pianeta abbastanza regolarmente lungo l’eclittica in una direzione ovest-est nel periodo di rivoluzione del pianeta. Il movimento lungo l’ippopeda, che si compie in un periodo sinodico, viene sovrapposto per trasformare il movimento medio regolare nell’alternanza di una lunga traiettoria diretta e di una retrograda e breve. A questo scopo la terza sfera ha il suo asse fissato in due punti opposti dell’eclittica e trasporta la quarta sfera, che ruota in senso contrario su un asse inclinato. In tal modo sono rappresentati tutti i fenomeni: la rotazione quotidiana, la rivoluzione opposta lungo l’eclittica e l’alternanza di un movimento diretto e retrogrado in un periodo sinodico.

Questa spiegazione dei movimenti planetari irregolari, dovuti a rotazioni perfettamente regolari di 4 sfere connesse, fu certamente un’ammirevole esempio di abilità geometrica. Per il Sole e la Luna furono sufficienti 3 sfere, che riproducevano allo stesso tempo l’orbita inclinata della Luna. È soltanto attraverso una descrizione di Simplicio, noto commentatore di Aristotele nel V secolo a.C., che noi conosciamo alcuni dettagli di questa teoria. Simplicio ci dà i periodi usati da Eudosso ma non ci dice nulla circa l’inclinazione delle due sfere che formano l’ippopeda. L’astronomo italiano Schiaparelli, che in uno studio dei primi del Novecento illustrò questa teoria, dimostrò come, assumendo che questa inclinazione fosse di 6° e 13° per

Saturno e Giove, era possibile trovare i valori giusti per l’arco retrogrado, 6° e 8°, mentre le deviazioni a nord e a sud erano soltanto di 9’ e 44’, scarsamente evidenti in quel momento. Per Marte, comunque, non fu possibile arrivare a una buona rappresentazione. Con il periodo sinodico vero di 2 anni e 1/7 nessuna inclinazione, comunque ampia, poteva produrre un moto retrogrado: l’oscillazione era troppo lenta. Simplicio menziona un periodo di rotazione di 8 mesi e 20 giorni per le due sfere, che, con una inclinazione di 36°, dà una regressione di 16°. Le deviazioni nella latitudine dell’ippopeda salgono a 5° e certo non si armonizzano con le variazioni reali della latitudine del pianeta. Inoltre, quel che è peggio, ci dovrebbero essere 3 movimenti retrogradi in un periodo sinodico, uno in opposizione al Sole e 2 nel momento in cui essi dovrebbero essere meno percettibili, su entrambi i lati della congiunzione. Qui la teoria così geometricamente ingegnosa, cade sulla rappresentazione del fenomeno. Lo stesso accade per Venere. È evidente che Eudosso non aveva a sua disposizione osservazioni sufficientemente numerose e accurate con cui paragonare la sua teoria ed evidenziarne l’inadeguatezza. In Grecia, in quel periodo, la conoscenza del moto apparente dei pianeti era piuttosto primitiva. Ciò ci è chiaro anche dai periodi che ci fornisce Simplicio per i valori di Eudosso: 30 anni, 12 anni e 2 anni come il tempo di rivoluzione rispettivamente di Saturno, Giove e Marte, e 13 mesi come periodo sinodico sia di Giove che di Saturno. La conoscenza empirica era limitata principalmente all’esistenza di moti retrogradi, senza dettagli quantitativi, e la teoria dava una spiegazione soltanto di questo carattere qualitativo. I grandi scienziati greci non furono osservatóri né astronomi, ma acuti pensatori e matematici. La teoria di Eudosso delle sfere omocentriche è memorabile non come una durevole acquisizione dell’astronomia, ma come monumento dell’ingegnosità matematica.

Tuttavia, ci furono anche progressi nell’astronomia pratica. Poiché il Sole

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doveva essere attentamente osservato per la formulazione del calendario, vennero alla luce le sue irregolarità; l’osservazione degli equinozi e dei solstizi mise in evidenza l’ineguaglianza delle 4 stagioni. Nel secolo precedente Euctemone aveva dato la loro lunghezza: 93 giorni per la primavera, (contati dall’equinozio al solstizio d’estate) 90, 90 e 92 giorni, che si allontanavano considerevolmente dai veri valori, 94,1, 92,2, 88,6 e 90,4 giorni. Di gran lunga i valori più accurati furono trovati, un secolo dopo, dall’abile astronomo Callippo (tra il 370 e il 300 a.C.), un allievo di Polemarco, che era stato a sua volta allievo di Eudosso. La durata delle sue stagioni era 94,92,89 e 90 giorni: arrotondando le cifre, quindi, corrette.

Dal momento che il Sole impiega un diverso numero di giorni per completare i quadranti del suo circolo significa che la sua velocità è alternativamente più grande e più piccola. Nella teoria di Eudosso, ciò può essere rappresentato aggiungendo un piccolo ippopeda di 4°, che, alternativamente, accelera e ritarda il corso del Sole. Simplicio, invece, testimonia che Callippo aggiunse sia per il Sole che per la Luna, due

sfere alle tre supposte da Eudosso. Inoltre, egli menziona, senza ulteriori dettagli, che Callippo aggiunse una quinta sfera per Marte e per Venere, probabilmente per correggere i difetti della teoria di Eudosso. Per quanto riguarda questi pianeti, Schiaparelli ha dimostrato nel suo studio che, con 3 sfere combinate, può essere ottenuta una curva più complicata di un ippopeda, che permette una velocità sufficiente per Marte, con un periodo sinodico di 2 anni e 1/7, per produrre un’unica retrogradazione all’opposizione. Questo può ottenersi anche in modi diversi, ma come Callippo, un eccellente matematico, sia arrivato a questa conclusione non è dato di sapere.

È attribuito a Callippo, circa nel 334 a.C., anche un perfezionamento del periodo di 19 anni del calendario di Metone. Sottraendo un giorno dai 4 periodi, egli ottenne un periodo di 76 anni pari a 940 mesi = 27,759 giorni, quindi con un anno di esattamente 365 giorni e ¼ e un mese sinodico di 29 giorni 12 ore 44 minuti, 25,5 secondi (troppo grande per soli 22 secondi). Il primo ciclo cominciò nel 330 a.C., ma venne usato solo dagli studiosi e forse nei parapegma e non nei calendari ufficiali.

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CAPITOLO 11

I SISTEMI DEL MONDO Aristotele (384-322 a.C.), originario della città greca di Stagira sulle coste della Macedonia, fu discepolo di Platone e se nei suoi primi lavori ricalcò fedelmente il pensiero del Maestro, in seguito sviluppò propri concetti sul mondo, indirizzandosi verso linee meno spirituali dovute probabilmente alla sua modesta discendenza da classe media. Mentre per Platone le idee rappresentano la realtà e i fenomeni visibili solo il manifestarsi di quelle, per Aristotele la vera realtà è data dal mondo dei fenomeni in cui le idee si manifestano secondo la loro propria essenza; il mondo visibile dei fenomeni trae origine dal lavoro delle idee sulla materia informe, conferendo a essa forma e definizione. Il mondo dei fenomeni mostra continui cambiamenti e movimenti, nascite e morti, ma la vera essenza delle cose si mantiene invariata ed eterna. In Grecia, il fine ultimo della scienza e della filosofia sta nel riconoscere questa essenza invariabile per mezzo del pensiero, avvalendosi delle capacità di astrazione della mente umana. I concetti astratti derivano dall’osservazione dei fenomeni ed è proprio per questo motivo che Aristotele, in misura maggiore rispetto ai suoi predecessori, sottolinea l’importanza di una attenta osservazione e descrizione di ogni dettaglio. I suoi lavori più tardi costituiscono un’enciclopedia di tutto lo scibile del suo tempo, trattando i fenomeni naturali, sia il mondo animale che quello degli uomini, la politica, l’etica e l’arte. Era inoltre necessario dare un’interpretazione di quei particolari fenomeni prodotti delle idee e dimostrare, estrapolando i fatti naturali dall’essenza delle cose, la loro vera sostanza. Questo avviene per deduzione logica attraverso un attento ragionamento. La conoscenza è presentata in modo tale che i fenomeni descritti sono il risultato dedotto tramite il ragionamento dell’essenza

presupposta del mondo, della sua natura più profonda e dei suoi principi generali. Anche se alle orecchie moderne può risultare artificiosa, la scienza aristotelica, vista come conseguenza logica dei principi generali, acquista un carattere dogmatico e allo stesso tempo, con una ben ponderata coerenza, la sua immagine del mondo acquista un alto grado di logica intrinseca e di piacevole armonia.

Aristotele presenta una struttura dell’universo dalla simmetria perfettamente sferica. Il mondo è ordinato in sfere e gusci sferici intorno al centro e in questo sistema i semplici movimenti lungo linee rette diventano movimenti lungo raggi da o verso il centro.

«Ogni cambiamento di luogo, che noi chiamiamo moto, avviene in modo rettilineo o circolare o rettilineo e circolare assieme. Sono questi i soli moti semplici. […] [Il moto] circolare è attorno al centro, quello rettilineo è il moto verso l’alto o verso il basso. Verso l’alto significa lontano dal centro, verso il basso in direzione del centro. Pertanto ogni semplice movimento avviene in allontanamento dal centro, in avvicinamento al centro o attorno al centro»[54]

Il contrasto presente nella descrizione del mondo di Anassagora tra la struttura sferico-radiale dei cieli e quella piatta e rettangolare terrestre è qui completamente rinnegata; la riduzione del mondo rettangolare di Anassagora a piccolo frammento del grande globo terrestre va vista come un considerevole allargamento dell’immagine del mondo.

Con Platone e i suoi predecessori, Aristotele assume che i quattro elementi terra, acqua, aria e fuoco, disposti in tale successione in strati l’uno sull’altro, costituiscano la parte terrestre del mondo. Dal momento che ciascuno di essi, dopo aver lasciato il proprio luogo naturale, cerca di tornarvi, il naturale movimento degli

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elementi pesanti è quello verso il basso, in direzione del centro, quello degli elementi più leggeri, aria e fuoco, è verso l’alto dove vanno per restarvi. L’elemento fuoco non deve essere considerato fiammeggiante o incandescente. I corpi celesti, come si è sempre creduto, non sono fatti di fuoco, ma del quinto elemento; irradiano luce e calore poiché l’aria sotto di loro è infuocata dallo sfregamento dovuto ai loro movimenti*. Negli strati alti dove aria e fuoco sono tra loro mescolati, i vapori sottostanti si riuniscono e quando prendono fuoco assumono la forma di comete e meteore.

Oltre ai movimenti naturali ci sono movimenti forzati trasmessi per contatto diretto. Non c’è il vuoto nel mondo; ogni corpo è circondato da aria o acqua e il suo moto è relativo a questi mezzi. Questa teoria implica una singolare spiegazione del moto dei proiettili dopo che il contatto con la mano che si muove è cessato.

«Il primo motore trasferisce all’aria, come a un mezzo, la forza per trasferire il moto e quando l’azione del primo motore è cessata il mezzo cessa il suo moto ma è ancora capace di muovere il proiettile e l’aria. Così, la forza del movimento viene trasferita alle parti attigue dell’aria che la trasferiscono al proiettile fino a che l’impulso non si esaurisce»[55]

Questa teoria della conservazione del moto per mezzo di un qualche tipo di propulsione per forze elastiche che si propagano in modo continuo fu spesso rifiutata dagli scrittori successivi.

Il moto dei corpi celesti non è rettilineo e finito, ma circolare, immutabile ed eterno ed è questo il motivo per cui essi stessi devono essere eterni, inalterabili e divini. Essi sono diversi dai quattro elementi terrestri, sono composti del quinto elemento (quinta essentia), l’etere, più perfetto degli altri quattro. In quel mondo non sono mai stati osservati dei cambiamenti. Il dominio dell’etere si estendi giù, fino alla Luna, sotto * Quest’opinione di Aristotele è spesso stata ritenuta inconsistente, poiché l’aria non si estende fino ai cieli; sembrerebbe implicare che tutte le sfere celesti che trasportano gli astri formino, con la loro compattezza, un guscio relativamente sottile intorno al mondo dei quattro elementi.

alla quale si trova un regione ‘mista’, dove inizia il ‘mondo sublunare’ dei quattro elementi.

La Terra è a riposo al centro dell’universo. Dal momento che tutte le parti pesanti tendono a dirigersi verso il centro, l’elemento terra si è formato qui e costituisce il corpo solido della Terra. Per mostrare come ogni movimento della Terra sarebbe contrario alla sua propria natura sono state apportate lunghe argomentazioni. Poiché tutte le parti pesanti premono l’una sull’altra nel tentativo di raggiungere il centro, il limite della superficie esterna dovrebbe essere una sfera attorno al centro, così da far coincidere il centro della Terra con il centro dell’universo. La forma sferica della Terra è inoltre rivelata da chiari fenomeni: durante le eclissi lunari il limite d’ombra ha sempre una curvatura che corrisponde allo forma sferica della Terra. La Terra non può essere troppo grande perché un breve viaggio a nord o a sud cambia già l’orizzonte: in Egitto e a Cipro, ad esempio, si vedono stelle non visibili in Grecia. I matematici che provarono a determinare la sua circonferenza trovarono per essa una misura di 400.000 stadi.

L’universo è finito e sferico. Deve essere finito perché, se fosse infinito, oppure semplice o composito, uno degli elementi dovrebbe essere infinito e non vi sarebbe pertanto spazio per gli altri. Inoltre, i suoi moti devono essere circolari e non può esistere un cerchio infinito; d’altro canto l’infinito non può avere un centro e l’universo ha un centro. Che l’universo sia sferico è provato innanzitutto dal suo essere perfetto e la sfera è l’unica figura perfetta e, inoltre, perché una sfera nella sua rivoluzione occupa sempre lo stesso posto; fuori non c’è altro spazio, non c’è “né vuoto né spazio”. Inoltre è stato fatto sul modello sferico degli altri corpi. Che la Luna sia sferica lo vediamo dalla linea curva che separa la parte in ombra da quella illuminata. Anche le stelle devono essere sferiche; poiché esse non possono muoversi da Sole, non possono avere organi di movimento, e, poiché “la natura non fa niente in modo casuale”, il modello sferico è il più adatto

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per loro. Queste discussioni fungono da esempio su come Aristotele abbia derivato i fenomeni dai principi generali e dalle idee.

Per quanto riguarda l’ordinamento dei corpi celesti, Aristotele era d’accordo con il suo amico Callippo, ma partendo da basi diverse. Per Eudosso e Callippo le sfere omocentriche ruotanti erano figure geometriche senza alcun significato fisico, per Aristotele, esse sono oggetti materiali, gusci cristallini reali che si circondano e si portano avanti l’un l’altro. Il movimento deriva dalla sfera celeste più esterna che, in qualità di primo motore, coinvolge nella sua propria rotazione tutte le altre così che ogni sfera esterna trasferisce il proprio movimento alla più vicina sfera lunare. Questo significa che, quando il pianeta Saturno per mezzo delle sue quattro sfere ha acquisito la sua singolare rivoluzione retrograda in 29 anni, il moto delle tre sfere interne deve essere neutralizzato dalle tre sfere che si muovono in senso contrario, di modo che rimanga solamente la rotazione diurna che viene trasferita alla sfera interna vicina, che è la sfera più esterna di Giove. Questo accade per ogni corpo a eccezione della Luna che è l’ultima. In aggiunta alle 33 sfere di Callippo (4 per Saturno e Giove, 5 per Marte, Venere, Mercurio, Sole e Luna) il sistema aristotelico conta 22 sfere rotanti in senso opposto, per un totale di 55 sfere solide cristalline che descrivono i moti celesti.

Un suo critico posteriore, Simplicio, ci dice che Aristotele stesso non era del tutto soddisfatto di questo sistema, dal momento che già in tempi antichi —Polemarco, per esempio — si sapeva che Marte in opposizione durante il suo moto retrogrado e pure Venere, quando era retrograda, erano molto più brillanti, in disaccordo con la teoria delle sfere concentriche che imponeva che i pianeti fossero sempre alla stessa distanza dalla Terra. Dobbiamo però ricordare che a quel tempo non vi erano teorie che spiegavano le irregolarità dei pianeti e che queste furono trovate solo più tardi, mantenendo l’immagine generale dell’universo aristotelico inalterata fino al diciassettesimo secolo. Ciò dimostra come

questa struttura finita e armonica dell’universo aristotelico ben si adattasse alle semplici esperienze scientifiche del tempo.

Tutto questo, tuttavia, non significa che le idee aristoteliche non ebbero rivali. Nel V secolo a.C., la Grecia visse un’epoca di rinascita economica e di forza politica che portarono, nel IV secolo, a un notevole benessere e a studi scientifici e intellettuali vivaci ed è proprio in questo secolo di profondo pensiero filosofico che assistiamo alla nascita di nuove e ardite idee sulla struttura del mondo.

Visse in questo periodo Eraclide Pontico (388-315 a.C., dalla città di Eraclea nel Ponto), contemporaneo di Aristotele, talvolta citato per essere stato discepolo di Platone. Nonostante la sua fama nell’antichità, nessuno dei suoi scritti su diverse discipline è giunto fino a noi ed è stato necessario consultare gli scritti di autori successivi per conoscere le sue idee filosofiche e cosmologiche. Simplicio, nell’esporre uno degli argomenti aristotelici, afferma:

«Perché c’è qualcuno come Eraclide Pontico e Aristarco che sostiene che i fenomeni possano essere salvati qualora considerassimo il cielo e le stelle a riposo e la Terra in movimento tra i poli e l’equatore, compiendo approssimativamente un giro intero in un giorno […]»[56]

e in un altro punto:

«Così Eraclide Pontico pensò di salvare i fenomeni supponendo che la Terra stia al centro, movendosi in cerchio, e che il cielo sia fermo»[57]

Questo “salvare” i fenomeni è un termine molto usato col significato di rappresentare, cioè spiegare le apparenze. Un altro ben conosciuto scrittore successivo, Proclo, in un commento al Timeo di Platone scrive:

«Come possiamo noi, sentendo dire che la Terra è prevista essere rotonda, permettere che giri in tondo attribuendo questa idea a Platone? Era Eraclide Pontico, che non amava Platone, a sostenere quell’idea e a far muovere la Terra in cerchio, ma per Platone essa era immobile»[58]

Ed Ezio dice:

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«Eraclide Pontico e Ecfante il Pitagorico sostengono che la Terra si muove non certo avanzando, ma girando come una ruota da ovest verso est attorno al proprio centro»[59]

Leggendo queste citazioni non possiamo

mettere in dubbio che Eraclide, per spiegare la rotazione diurna della sfera celeste e delle stelle su di essa, facesse ruotare la Terra da ovest a est attorno a un asse passante per i poli. In alcuni passi quello che viene definito movimento “in un cerchio” ha fornito il principio per l’interpretazione da parte di alcuni autori successivi — Schiaparelli nel diciannovesimo secolo e qualche anno dopo il matematico Van der Waerden — che Eraclide ritenesse che la Terra possedesse un moto orbitale. Le citazioni, invece, si occupano di trovare un sostituto al movimento rotatorio della sfera celeste. Un’orbita circolare che lascia la sfera celeste a riposo è contenuta anche nella teoria di Filolao sulla rotazione diurna attorno al fuoco centrale. Al riguardo, Cicerone fa il nome di Iceto di Siracusa di cui poco si conosce.

Si può pertanto dire con certezza che la teoria della rotazione della Terra ha trovato numerosi sostenitori tra i pensatori greci. I navigatori greci devono avere spesso osservato come nelle loro navi il movimento non potesse essere percepito, a meno che non avesse una qualche irregolarità. Questo fu un grande passo per arrivare da questa semplice esperienza all’idea del moto della Terra: significa che il più diretto dato osservativo, la rotazione della sfera celeste, come pure l’ancor più forte convinzione della fissata stabilità della Terra sotto i nostri piedi, erano stati riconosciuti come ingannevole apparenza. Che gli antichi greci siano stati in grado di elevarsi a un siffatto grado di intuito nel superare i pregiudizi conferisce loro un posto di rispetto nella storia della scienza. Questa brillante intuizione andò tuttavia persa nei secoli seguenti di fronte alla rappresentazione logica del mondo aristotelico.

Un altro passo in avanti nella teoria astronomica fu fatto da Eraclide e riguarda i moti di Venere e Mercurio. C’è sempre stata una divergenza di opinioni su come loro

posizionassero questi pianeti; alcuni scrittori li posero al di sopra del Sole, di modo che il Sole potesse essere vicino alla Luna, altri sotto al Sole, tra questo e la Luna. Tale problema venne risolto facendo compiere a entrambi i pianeti delle orbite attorno al Sole, un felice risultato per il loro oscillare apparente ai due lati del Sole. Aristotele non si pronunciò su tali fenomeni che in verità nemmeno si adattavano al suo sistema. Più tardi anche alcuni autori romani parlano di questa spiegazione e citano Eraclide al riguardo. Sebbene ci sia molta confusione per quanto concerne l’esposizione delle sue idee, molti storici concordano sul fatto che fu Eraclide il primo a esporre la teoria che Venere e Mercurio descrivessero orbite circolari attorno al Sole.

In seguito, questa idea fu la base per una ancor più radicale innovazione della struttura del mondo. Questa è legata al nome di Aristarco di Samo (310-230 a.C.), detto “il matematico” per distinguerlo dall’altrettanto famoso filologo alessandrino Aristarco di Samotracia. Non c’è alcun dubbio sul fatto che egli avesse collocato il Sole al centro dell’universo, facendo descrivere alla Terra un cerchio attorno a esso. Queste informazioni non ci vengono da suoi scritti, ma da quelli di altri autori. Di lui ci è rimasto un solo trattato che non contiene informazioni sull’ordinamento del mondo, ma è tuttavia utile per vedere come arrivò a formulare la sua teoria ed è importante perché ci rivela il metodo scientifico del tempo. Si intitola Sulle dimensioni e le distanze del Sole e della Luna e si è conservato nei secoli seguenti, in quanto parte di un’altra opera, più volte trascritta, la Piccola composizione, contenente una mezza dozzina di scritti di differenti autori in cui il problema della sfera celeste, i fenomeni del moto e il sorgere e tramontare dei corpi sono trattati in modo più semplice rispetto alla Grande composizione di Tolomeo.

Sia il contenuto che la forma del trattato di Aristarco ci mostrano un aspetto peculiare della scienza in Grecia. Sull’esempio dell’imponente lavoro di Euclide sulla geometria, esso consiste in una serie di

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diciotto affermazioni di carattere geometrico precedute da sei ‘ipotesi’; tra queste ultime le più importanti sono:

(2) «La Luna riceve la sua luce dal Sole»; (4) «Quando la Luna è dimezzata la sua distanza è minore rispetto a un quadrante per un trentesimo di quadrante [i.e. 87°]»; (5) «L’ampiezza dell’ombra terrestre è due volte la Luna»; (6) «La Luna sottende una quindicesima parte di un segno dello zodiaco».

E continua: «È provato che: (1) la distanza Terra-Sole è più di diciotto volte e meno di venti volte la distanza della Luna (questa segue dall’ipotesi della Luna dimezzata); (2) il diametro del Sole ha lo stesso rapporto del diametro della Luna; (3) Il diametro del Sole ha rispetto a quello della Terra un rapporto maggiore di 19 a 3, ma minore di 43 a 6; questo segue dal rapporto tra le distanze, l’ipotesi sull’ombra e l’ipotesi che la Luna sottenda un quindicesimo di un segno zodiacale»[60]

Dopo questa introduzione seguono una decina di pagine dedicate alle spiegazioni e alle dimostrazioni. Questo matematico greco fu capace di assumere una posizione esterna alla Terra, da dove poter vedere questa e tutti i corpi celesti come sfere tra loro confrontabili. Intersecò queste e i loro coni d’ombra con dei piani, disegnò le intersezioni come cerchi e triangoli e si servì del rigido metodo euclideo per le dimostrazioni. Così facendo il problema principale fu affrontato e risolto per mezzo di un lemma geometrico.

Qui, per la prima volta nella storia dell’astronomia, abbiamo la determinazione diretta delle distanze dei corpi celesti per mezzo dei dati osservativi. In un certo senso potremmo definirla la ‘nascita’ della scienza astronomica. Che il Sole fosse circa diciannove volte più lontano della Luna fu un’idea abituale della storia dell’astronomia per duemila anni, ma la forma in cui questo risultato venne presentato è molto diversa da quella della scienza moderna, in primo luogo perché tutti gli sforzi furono usati per derivare, attraverso una moltitudine di proposizioni geometriche, un risultato che ai giorni nostri uno scolaro può ottenere in pochi minuti: il rapporto della distanza Sole-

Luna è il seno di 3°, cioè 1 : 19,1; in secondo luogo, i dati delle osservazioni, base empirica per qualsiasi discussione, sono enunciati in poche righe senza spiegazione, come presupponevano le ipotesi. Il procedimento è completamente opposto rispetto alla moderna scienza, in cui tutta l’attenzione e la maggior parte dello spazio è dedicata al metodo, al procedimento, alla discussione e alla esposizione dei dati empirici.

Inoltre, per quanto riguarda il trattamento geometrico, si rimane colpiti dalla forma indeterminata del risultato: «più grande di», «più piccolo di». I matematici greci non lavorarono con i valori approssimati dei numeri irrazionali, base del calcolo moderno, anche se ne avevano scoperto l’esistenza. Per loro i numeri erano formati da parti intere e frazioni, prese esattamente; un rapporto espresso da sin 3° = 0,0253 … era loro estraneo, in quanto che lavoravano con numeri esatti come 18, 20, 3/5 ecc. Nella geometria quantitativa essi avrebbero potuto derivare solamente quei numeri che fossero stati più grandi o più piccoli di una quantità richiesta. In questo dimostrarono spesso grande ingenuità, rendendo le loro determinazioni geometriche piuttosto rozze.

Importante per gli sviluppi successivi fu il metodo di Aristarco, espresso nella quindicesima proposizione, per ottenere il diametro del Sole rispetto alla Terra. Questo può essere espresso brevemente così: l’ombra vista durante un’eclissi lunare è una sezione di cono (tangente al Sole e alla Terra) presa alla distanza della Luna; questa sezione, in accordo con la quinta ipotesi, è due volte il diametro della Luna, da cui 2/19 del diametro del Sole. La distanza della linea d’ombra dalla Luna piena deve essere 2/19 della sua distanza dal Sole, sicché restano 17/19 per la distanza che va dalla Luna piena al Sole. Un ventesimo di quest’ultimo rapporto è la distanza Terra-Luna, mentre i restanti 19/20 sono la distanza Terra-Sole. Espressi secondo la lunghezza totale dell’ombra essi sono:

1/20 x 17/19 e 19/20 x 17/19 = 17/20. La distanza della Terra dal bordo d’ombra, espressa nelle stesse unità, diventa ora:

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1/20 x 17/19 + 2/19 = 3/20; questo è il rapporto delle distanze che intercorrono tra la Terra e il Sole e la linea d’ombra e quindi anche il rapporto tra i loro diametri. Allora il rapporto tra i diametri di Terra e Luna è 57 : 20.

Nel trattato di Aristarco, che non conosceva la proporzionalità col numero 19, questo rapporto è stato calcolato con accurata precisione per mezzo delle espressioni «più grande di» e «più piccolo di», trovando, come già detto, un valore compreso tra 19/3 e 43/6. Bisogna tener presente che non sono stati usati altri dati oltre a 87° e alla misura dell’ombra relativa alla Luna. Contrariamente a quanto affermato da Aristarco nell’Introduzione, non viene usato il diametro apparente della Luna, che sarebbe necessario solo se i diametri fossero rapportati alle distanze.

Non si fa menzione su come i dati siano stati raccolti. Gli studiosi greci erano matematici più che astronomi e accadeva che i corpi celesti fossero visti solo come oggetti dei loro problemi geometrici. Per questo motivo le quantità astronomiche sono state talvolta trattate in modo piuttosto superficiale, senza prestare particolare interesse al loro valore intrinseco; l’ingegno veniva esibito nella soluzione del problema matematico. Noi non conosciamo quali dati fornissero le osservazioni. Che la Luna fosse dimezzata a 3° di distanza dalla quadratura è una pesante sovrastima; in verità la distanza ammonta a non più di 10’, ma è possibile che un valore così grande dipenda da una qualche stima grossolana. Che questa quantità fosse stata presa come misura di distanza dimostra un grande ingegno e grande capacità di pensiero. Il problema è diverso nella sesta ipotesi in cui un diametro apparente di 2° per il Sole e per la Luna è in netto contrasto con il loro valore reale di 1/2° al punto che sono state proposte varie possibili spiegazioni: errori nella trascrizione di vecchi manoscritti (l’asserzione in parole semplici deve essere: la quindicesima e non la sedicesima parte di un segno dello zodiaco); errori dovuti all’uso di dati della tradizione dei Babilonesi (ma loro già conoscevano il valore reale); l’introduzione

intenzionale di un valore sbagliato per porre l’attenzione esclusivamente sul metodo geometrico. In realtà non lo sappiamo né lo possiamo sapere e dobbiamo accettare il fatto. Un più giovane contemporaneo di Aristarco, il matematico Archimede di Siracusa (287-212 a.C.), ci dice che Aristarco fu il primo a trovare che il diametro del Sole (da cui poi deriva quello della Luna) è 1/720 dello zodiaco, cioè 1/2°. Questa scoperta doveva essere stata fatta più tardi.

I diametri sono solamente quantità numeriche: la vera e imponente massa di un corpo sta nel suo volume. Così Aristarco dice:

«Il Sole sta alla Terra in un rapporto maggiore di 6,859 : 27 ma minore di 79,507 : 216».

riferendosi al rapporto tra i loro volumi. Se il diametro del Sole è compreso tra 19/3 e 43/6 dei diametri terrestri, allora il suo volume deve essere tra 254 e 368 volte quello della Terra.

Fu, probabilmente, questa enorme stima del Sole a far nascere in Aristarco l’idea che esso non fosse adatto a ruotare attorno alla molto più piccola Terra e che al contrario restasse fermo al centro. Non conosciamo le sue ragioni, ma il fatto che ponesse il Sole al centro è confermato con assoluta certezza da molti autori successivi e, tra gli altri, anche da Archimede stesso nel suo Arenario (216 a.C.). In questo trattato Archimede fa una stima del numero di granelli di sabbia necessari a riempire l’universo per mostrare come, dove il sistema greco di numerazione era insufficiente a esprimere così grandi numeri (superiori a 1063), si dovevano definire altri metodi per esprimere quei numeri in modo razionale.

Dopo aver parlato della Terra e delle sfere dei pianeti, Archimede continua:

«Ma sembra che Aristarco abbia presentato un libro fatto di inconfutabili ipotesi in cui pare, come conseguenza delle assunzioni fatte, che l’universo sia molte volte più grande dell’‘universo’ appena menzionato. Le sue ipotesi sono che le stelle fisse e il Sole restino ferme, che la Terra giri attorno al Sole lungo una circonferenza, di cui il Sole occupa il centro dell’orbita, e che la sfera delle stelle fisse,

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posta intorno allo stesso centro come il Sole, sia tanto grande che il cerchio, in cui lui suppone che la Terra ruoti, disti dalle stelle fisse tanto quanto il centro della sfera dista dalla sua superficie. […] Dobbiamo pensare che Aristarco intendesse questo: poiché ammettiamo che la Terra è al centro dell’universo, come è, il rapporto tra la Terra e quello che noi chiamiamo comunemente mondo è uguale al rapporto della sfera che contiene il cerchio su cui si muove la Terra con la sfera delle stelle fisse»[61] La struttura eliocentrica del mondo è stata

qui spiegata con inequivocabili parole, ma senza alcuna precisazione riguardo ai motivi o alle conseguenze. Nessun autore

successivo fornisce spiegazioni in merito quando parla di questa teoria. Essa non ha trovato grande riscontro: Seleuco il Babilonese, della città di Seleucia, che visse un secolo dopo, è l’unico ad averla sostenuta. Per quel che ne sappiamo, questa teoria non si presenta come una spiegazione dell’irregolarità dei moti dei pianeti: rimase un’audace, ingegnosa, ma isolata idea. La teoria eliocentrica non si impose come una necessità inevitabile; prima di tutto, l’astronomia aveva bisogno di trovare nuovi metodi di sviluppo pratico.

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CAPITOLO 12

L’ASTRONOMIA ELLENISTICA Alexander von Humboldt, nel secondo volume della sua famosa opera Kosmos, occupandosi della storia della scienza, fornisce un’immagine colorita dell’ampliarsi dell’orizzonte intellettuale del mondo greco grazie alle conquiste di Alessandro Magno. Non solo l’Impero Persiano, fino ad allora pressoché inaccessibile, aprì alla Grecia il commercio, l’esplorazione e la cultura, ma vennero scoperte anche le regioni più remote dell’Asia Continentale, la Bactria, il Turchestan e parte dell’India. Nuove parti di mondo, con i loro differenti aspetti e fenomeni, con le loro montagne e i loro deserti, i loro animali e le loro piante, le loro diverse genti dai diversi costumi e l’Oceano Indiano soggetto a maree, tutto divenne senza limiti. Ancora più importante fu il cambiamento sociale, il mescolarsi del mondo greco con quello orientale in un nuovo sviluppo economico e politico. Al seguito dell’esercito vincitore arrivarono mercanti e artigiani, che dalla Grecia emigrarono verso le nuove regioni della vicina Asia, popolando vecchie e nuove città.

Le ricchezze raccolte nei tesorieri dei re persiani e dei loro satrapi vennero disseminate come bottino, distribuite tra i soldati o usate dai nuovi re per la pianificazione urbanistica delle città, la costruzione di templi, strade e porti che favorissero il commercio. Una più semplice circolazione lungo le vecchie e le nuove rotte permise al commercio greco nuovi contatti con India, Arabia e Africa, fonte di ricchezza e cultura. Indispensabili a questo sviluppo furono le capacità e l’impegno dei cittadini greci, come funzionari e uomini d’affari, che provvidero all’utilizzo delle fertili pianure del Nilo, dell’Oronto e dell’Eufrate in modo più efficiente rispetto ai precedenti regni.

Fu così che sorsero in queste regioni

imponenti e ricche città quali Alessandria, Smirne, Efeso e Nicea e una miriade di altre città che divennero centri di commercio e di nuove manifatture. Qui, accanto ai mercanti e agli artigiani, abili veterani, vivevano i proprietari terrieri e gli ufficiali che governavano le province. Come in Grecia anche queste città avevano un proprio governo, quasi del tutto autosufficiente, da cui derivava una grande libertà civile, nonostante il governo dei re mettesse a repentaglio la pace interna dei loro stati con frequenti guerre. Accanto a queste monarchie, vi era nell’isola di Rodi una Repubblica basata sul libero commercio, che può essere paragonata per tipologia a una Venezia o una Genova di epoche ben più moderne. Per più di un secolo questa repubblica dominò, con la sua navigazione, il Mediterraneo orientale e influenzò, col suo potere finanziario, tutti i regni vicini.

Tutto questo fa parte del “mondo ellenistico”. La prosperità economica risvegliò un’intensa attività spirituale e queste città e regioni divennero teatro per la nuova cultura ellenistica. Dopo essersi confrontata con questo fiorente mondo, persino la Grecia rimase sullo sfondo; divenne povera e vuota. Le sue città raggiunsero il livello di borgate di provincia, eccezion fatta per Tessalonica e Corinto, che parteciparono ancora al commercio marittimo, e per Atene che, grazie alla tradizione di Platone e Aristotele, dell’Accademia e delle sue scuole, rimase un centro di cultura, arte e filosofia.

Durò due secoli questo fiorire del mondo ellenistico, poi vennero le conquiste e i saccheggi degli eserciti romani, lo sfruttamento da parte di Roma e l’inglobamento nell’Impero romano. Molti cittadini, in parte ridotti in schiavitù, divennero gli insegnanti del mondo occidentale e la scienza greca divenne un

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elemento della più severa ed esteriore cultura dei romani.

La forza della cultura ellenistica sta nella grande estensione del mondo ellenico e nella mescolanza tra gli elementi greci e quelli orientali. Soprattutto in astronomia, possiamo vedere come la grande abbondanza dei dati osservativi babilonesi e l’indipendenza del pensiero greco si combinarono con la forza teorica dell’astrazione. La conoscenza dei metodi e degli strumenti usati dai Babilonesi, poi, incitò gli studiosi greci a divenire loro stessi osservatóri di stelle. I dati che i Babilonesi possedevano sui periodi e sulle irregolarità, che avevano un semplice carattere numerico, divennero, nelle mani dei Greci, la base per costruzioni geometriche e portarono ai concetti di struttura del mondo. Viceversa i Babilonesi subirono l’influenza della teoria greca; Seleuco, il già menzionato caldeo, fu anche autore di una teoria sulle maree.

Il centro di scambi mondiale, Alessandria, capitale dell’Egitto nonché il più ricco tra gli imperi governati dai Greci, divenne anche il centro culturale del tempo. Qui i re macedoni, i Tolomei, dedicarono un tempio alle Muse, il Museo, famoso per la sua libreria che raccoglieva manoscritti provenienti da ogni parte del mondo; essi invitarono i più famosi studiosi affinché facessero da guida e e costituissero una sorta di Accademia delle Scienze.

Accanto alla filologia fiorì la medicina e vennero coltivate anche matematica e astronomia. Tuttavia, la quantità e la regolarità delle osservazioni ad Alessandria non possono certo essere paragonate al lavoro fatto dai sacerdoti babilonesi. Inoltre, non sappiamo nulla sugli strumenti usati. Euclide, nel suo lavoro di astronomia Sui Fenomeni, menziona soltanto una diottra non ancora attaccata a un cerchio graduato e usata solamente per fissare due punti opposti sull’orizzonte. Invece, Tolomeo non solo cita gli astronomi Aristillo e Timocari dei più antichi tempi alessandrini — tra il 296 e il 272 a.C. —, ma fornisce anche la distanza dall’equatore (cioè la ‘declinazione’) di un certo numero di stelle, come pure le differenze in longitudine tra loro misurate in

gradi e frazioni di gradi. Pertanto dovevano possedere strumenti con cerchi graduati.

Un altro strumento di cui si servirono fu il cerchio equatoriale, posto davanti ai templi di Alessandria e di Rodi, oltre che in altre città, con la funzione di definire il calendario. Questo consisteva di una fascia cilindrica coi bordi superiore e inferiore disposti esattamente in direzione dell’equatore; l’ombra della metà a sud sulla parte interna della metà a nord lasciava una sottile linea di luce nella parte superiore o inferiore dell’equatore: poteva essere pertanto fissato l’istante esatto degli equinozi.

Il geografo Eratostene di Cirene, contemporaneo di Archimede, fu uno dei primi direttori della biblioteca di Alessandria. Oltre che per la sua descrizione geografica dell’intero mondo allora conosciuto, si fece ricordare anche per aver determinato la misura della Terra. Uno scrittore più tardo, Cleomene, ci ha fornito un’ampia descrizione del metodo usato. Nella città di Siene, nel sud dell’Egitto, il fondo di una profonda buca verticale era illuminato dal Sole nel giorno più lungo, quando il Sole si trovava esattamente allo zenit. Ad Alessandria, situata più a nord, l’ombra proiettata su un quadrante solare nello stesso giorno era di 1/50 del cerchio totale. La distanza tra queste due città doveva pertanto essere 1/50 della circonferenza terrestre. Poiché tale distanza, misurata a quel tempo dai messaggeri del re che la percorrevano, era pari a 5.000 stadi, la circonferenza della Terra doveva essere di 250.000 stadi. In tempi moderni si è molto discusso sulla lunghezza da attribuire a uno stadio; se assumiamo, come valore più probabile, 157 metri, allora il risultato di Eratostene si avvicina molto a quello reale. Più avanti, nello stesso libro, Cleomene cita il famoso stoico Posidonio (135-51 a.C.) che aveva applicato il medesimo principio alla stella brillante Canopo, che, mentre a Rodi sfiorava appena l’orizzonte, ad Alessandria raggiungeva un’altezza di 7½°; dalla stimata altezza sul mare di 5.000 stadi si derivò una circonferenza di 240.000 stadi.

A Eratostene viene anche attribuita una

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misura dell’obliquità dell’eclittica. Eudosso la definì come un arco di un poligono regolare con 15 angoli, cioè 24°. Eratostene trovò, invece, che la differenza tra l’altezza del Sole ai solstizi d’estate e d’inverno è 11/83 della circonferenza; questo valore corrisponde a una obliquità pari a 23° 51’, molto vicino al suo valore reale. Questo genere di valore ha fatto pensare che non fosse ancora in uso la graduazione del cerchio, il che è smentito, tuttavia, dalle misure degli astronomi alessandrini citati da Tolomeo.

Ipparco di Nicea, che visse e lavorò tra il 162 e il 126 a.C. principalmente a Rodi, è considerato il più grande astronomo della Grecia antica. Solo uno dei suoi scritti si è conservato, ma il suo lavoro che si basava su misurazioni pratiche oltre che su innovazioni teoriche fu riportato e tramandato da scrittori di epoca successiva e in special modo da Tolomeo. Tolomeo menziona tre suoi trattati: Sulla durata dell’anno, Sull’intercalare dei mesi e dei giorni e Sul variare dei solstizi e degli equinozi[62] Nel secondo trattato egli migliora il periodo del calendario di 76 anni di Callippo, prendendolo quattro volte e sottraendogli un giorno. Il periodo della Luna è, quindi, di 111.035 : 3.760 = 29,53058 = 29d 12h 44m

2,5s, che è comparabile con i migliori risultati caldei e solo un secondo più breve. La durata dell’anno è, perciò, 1/300 di giorno più piccola dei 365¼ giorni di Callippo, circa 365d 55m 16s. Ipparco chiarì che bisognava fare una distinzione tra due definizioni di anno e spiegò come la durata dell’anno non è data dal ritorno delle stesse stelle, bensì dal ritorno dello stesso equinozio o solstizio che determina anche le stagioni. Tolomeo riporta questa sua affermazione:

«Ho scritto un trattato sulla durata dell’anno in cui spiego cos’è l’anno solare: il tempo che il Sole impiega per ritornare da un solstizio o da un equinozio sullo stesso punto. Esso ammonta a 365¼ giorni meno 1/300 di giorno circa»[63] Ipparco fa riferimento al solstizio d’estate

osservato nel 280 a.C. da Aristarco, lo confronta con uno da lui stesso osservato nel

135 a.C. e trova una differenza di mezzo giorno più piccola rispetto a 145 x 365¼ giorni, che corrisponde a una differenza annua di 1/300 di giorno. Ma, dal momento che l’istante esatto di un solstizio può difficilmente essere determinato con una precisione di mezzo giorno, lui stesso mette in evidenza l’incertezza di questa “piccola” differenza; per il suo risultato deve sicuramente aver usato altri dati e proprio Tolomeo menziona sei equinozi d’autunno e tre di primavera osservati da Ipparco tra il 162 e il 128 a.C., probabilmente avvalendosi del cerchio equatoriale di cui abbiamo già parlato. Tolomeo riferisce che errori su «¼ di giorno» possono anche accadere e parla di una insufficiente stabilità dello strumento, poiché avviene che l’illuminazione tra i due bordi superiore e inferiore del disco equatoriale cambi due volte al giorno. Questo fenomeno ha tuttavia un’altra causa: la rifrazione della luce. Quando il Sole in primavera non ha ancora raggiunto l’equinozio, la rifrazione appena dopo il suo sorgere può sollevarlo più a nord rispetto all’equatore; poi il Sole si abbassa di nuovo per una rapida diminuzione della rifrazione e solo dopo passa effettivamente l’equatore. Bisogna notare come l’errore in un intervallo di 145 anni sia ancora più grande, essendo la lunghezza di Ipparco per l’anno tropico 1/200 di giorno troppo grande (il suo valore reale dell’epoca era 365d 5h 48m 56s) come pure era il corrispondente valore babilonese.

È probabile che Ipparco si fosse accorto della deviazione tra il suo anno stagionale e quello babilonese, che era più grande rispetto a 365¼ giorni, e che se ne sia dato spiegazione mostrando che vi sono due modi per calcolarlo: il ritorno dello stesso punto equinoziale e il ritorno delle stesse stelle. In questo modo, egli giunse alla sua più importante scoperta: l’avanzamento delle stelle rispetto agli equinozi nella direzione dello zodiaco, generato dalla rotazione della sfera celeste intorno ai poli dell’eclittica. Questo fenomeno, detto precessione, può anche essere visto come la retrogradazione dei punti equinoziali. Dalle tavole caldee emerge come in epoche diverse debbano aver adottato diverse longitudini come punto

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zero; per questo motivo i Caldei sono stati chiamati in causa quali primi veri scopritori del fenomeno, da cui poi Ipparco avrebbe derivato la sua conoscenza. Non vi possono, tuttavia, essere dubbi sul fatto che fu Ipparco il primo a riconoscerne il continuo e regolare avanzamento, derivandolo dal confronto tra le più antiche osservazioni alessandrine e le proprie. Tolomeo ce ne racconta la storia in questo modo:

«Nel suo trattato Sul variare dei solstizi e degli equinozi, Ipparco, per mezzo del confronto esatto tra le eclissi lunari osservate al suo tempo con quelle osservate da Timocari in tempi più remoti, arriva al risultato che, mentre al suo tempo Spica precedeva l’equinozio d’autunno di 6°, al tempo di Timocari lo precedeva di 8°»[64] Nel mezzo di un’eclissi, la Luna si trova in

posizione esattamente opposta al Sole e la longitudine del Sole può essere derivata dalla sua declinazione, cioè dalla sua altezza a mezzogiorno; pertanto, dalle misure della distanza di Spica dalla Luna eclissata può essere derivata la sua longitudine, cioè la sua distanza dall’equinozio.

«E anche per le altre stelle che egli confronta mostra che esse precedono della stessa quantità nella direzione dei segni dello zodiaco». Da questa variazione di 2° in 169 anni si

ricavò una variazione annua di 45”. La cosa interessante è che questo valore non compare con Ipparco (cioè non lo troviamo nel libro di Tolomeo), ma che quest’ultimo lo ricorda più tardi nel suo trattato Sulla lunghezza dell’anno:

«Qualora, per questo motivo, i solstizi e gli equinozi retrocedano di non meno di 1/100 di grado, essi devono regredire almeno di 3° in 300 anni»[65] Successivamente questo valore di 1° ogni

100 anni, 36” all’anno (14” troppo piccolo), è usato da Tolomeo per derivare i valori di Ipparco. Che lo spostamento delle stelle avvenga parallelamente all’eclittica è mostrato dal confronto tra le declinazioni di 18 stelle misurate da Aristillo e Timocari e in seguito anche da Ipparco, come asserisce Tolomeo: in una parte della sfera celeste

esse si sono alzate a causa del movimento verso nord, dall’altra parte si sono abbassate per il movimento verso sud al massimo di 1°. Ipparco concluse che le stelle si muovevano regolarmente tra i poli dell’eclittica o piuttosto, in accordo con il titolo della sua opera, che i punti equinoziali e con essi l’equatore, retrocedevano regolarmente lungo l’eclittica.

L’irregolarità delle stagioni, in cui il Sole

completa i quattro quadranti dell’eclittica, era già ben nota a Callippo, che ne aveva dato prima i valori. Tolomeo attribuisce tuttavia a Ipparco valori più accurati: 94½ giorni per la primavera e 92½ giorni per l’estate, di modo che restavano 178¼ giorni per l’altro mezzo anno, compresi tra gli equinozi di autunno e di primavera. Questi valori sono molto vicini a quelli delle tavole caldee: 94,50, 92,73 e 178,03 (vedi Cap. 6). Non è chiaro se Ipparco avesse derivato questi dati dai Babilonesi o da sue proprie osservazioni; in ogni modo egli fece osservazioni di equinozi e di solstizi dei Tolomeo ce ne tramanda solo pochi. Il suo grande merito risiede, invece, nella spiegazione teorica di questa ineguaglianza, per mezzo di un cerchio eccentrico che il Sole descrive attorno alla Terra.

In accordo con la loro natura e con il bisogno di armonia, si assume che le orbite circolari dei corpi celesti siano seguite abbastanza uniformemente. È perché la Terra non si trova al centro che noi vediamo la velocità del Sole non uniforme, ma gradatamente crescente o decrescente tra il valore massimo al perigeo e minimo all’apogeo. Quanto effettivamente la Terra si

Fig. 9.

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trovi lontano dal centro e in che direzione, Ipparco può facilmente ricavarlo dalla durata delle stagioni, attraverso semplici relazioni tra linee e archi di circonferenza (come mostrato in figura 9), che sono un inizio di trigonometria. Una prima tabella di corde è attribuita proprio a Ipparco. Il risultato da lui ottenuto è un’eccentricità di 1/24 di raggio con l’apogeo in direzione della longitudine 65½°. In questa spiegazione dell’irregolarità dei fenomeni a causa della struttura spaziale delle orbite, ritroviamo lo spirito greco in tutta la sua forza con la sua capacità di astrazione e le sue regole geometriche.

Le conoscenze in merito al moto della Luna, che precedentemente in Grecia aveva avuto poca attenzione, aumentarono considerevolmente in seguito al lavoro di Ipparco. Questi aveva osservato diverse eclissi negli anni compresi tra il 146 e il 135 a.C. e Tolomeo ci dice che, confrontandole con le eclissi osservate precedentemente dai Caldei, Ipparco ottenne periodi più accurati rispetto a quelli che avevano a loro disposizione «gli astronomi più antichi». Si ritenne che queste parole facessero riferimento agli astronomi babilonesi, ma siccome sappiamo che gli stessi valori erano usati nelle contemporanee tavole caldee e che, quindi, dovevano essere già conosciuti in epoche precedenti, si pensa che Ipparco abbia derivato le sue conoscenze sui periodi dei Babilonesi. Benché non ne abbiamo espressamente conferma, è abbastanza credibile che in questi secoli ci fosse un certo rapporto intellettuale tra i centri del sapere babilonese ed ellenistico.

Le eclissi mostrano che il ritorno della Luna allo stesso nodo (detto “ritorno di longitudine”) e il ritorno a una maggiore velocità (detto “ritorno di anomalia”) avvengono in tempi differenti rispetto al ritorno alla stessa stella. Al posto del periodo di Saro degli astronomi babilonesi (6585⅓ giorni = 223 periodi sinodici = 239 ritorni dell’anomalia = 242 ritorni di latitudine = 241 rivoluzioni in longitudine + 10⅔°), Ipparco introdusse un intervallo di tempo molto più lungo: 126007 giorni + 1 ora = 4267 periodi sinodici = 4573 ritorni dell’anomalia = 4612 rivoluzioni meno 7½°

= circa 345 rivoluzioni del Sole; inoltre 5458 periodi sinodici sono 5923 ritorni di latitudine. Questi danno un periodo sinodico di 29d12h44m3,3 (più grande solo di 0,4s) e una rivoluzione siderale di 27d 7h 43m 13,1s (più grande solo di 1,7s), entrambi molto precisi. Sembra, dalla descrizione dettagliata con cui Tolomeo spiega il suo metodo, che Ipparco non abbia soltanto copiato i dati babilonesi, ma che li abbia controllati e corretti con un attento riesame. La mutevole velocità della Luna può essere facilmente spiegata, come per il Sole, per mezzo di un cerchio eccentrico. Nel caso della Luna la direzione dell’apogeo non è costante, poiché in 4612 rivoluzioni lunari esso passa 4573 volte, quindi 39 volte in meno; per questo motivo avanza nella stessa direzione della Luna, 118 volte più lentamente, e completa una rivoluzione in nove anni.

Nel quinto secolo d.C., Proclo ci descrive un apparecchio con il quale Ipparco avrebbe cercato di misurare i diametri del Sole e della Luna e la loro variazione: era formato da una lunga asta munita a una delle estremità di una piccola lastra verticale con un’apertura per guardarvi attraverso e all’altra di una lastra mobile con due aperture a una distanza tale che quando il Sole era basso i bordi superiore e inferiore del disco erano appena coperti. Del suo utilizzo e dei risultati ottenuti non si sa nulla.

Ipparco si servì delle eclissi anche per altri scopi. Durante un’eclissi solare, che fu totale nell’Ellesponto (probabilmente nel 129 a.C.)[66], ad Alessandria furono oscurati solo quattro quinti di Sole; poiché la distanza tra questi due luoghi, espressa in raggi terrestri, poteva essere misurata, Ipparco fu in grado di ricavare la parallasse della Luna, da cui la sua distanza dalla Terra. Trovò che essa variava tra 62 e 74 raggi terrestri.

Sempre a Ipparco viene attribuito un altro ingegnoso metodo per determinare la parallasse lunare, dalla misura della dimensione dell’ombra della Terra quando è attraversata dalla Luna. Dalla figura 10, che rappresenta in sezione il piano contenente il cono d’ombra e i corpi sferici, possiamo vedere subito la semplice relazione che intercorre tra gli angoli, indicati con le

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lettere minuscole dell’alfabeto. Nel triangolo Luna-Terra-Sole si ha che angolo in a + angolo in b = angolo in c + angolo in d oppure, chiamando gli angoli coi loro nomi, la parallasse del Sole più quella della Luna è uguale al raggio del Sole più il semidiametro dell’ombra, come vista dalla Terra. Essendo la parallasse del Sole molto piccola, la parallasse della Luna è trovata, a meno di un piccolo errore, sommando i semidiametri apparenti del Sole e dell’ombra.

Si dice anche che Ipparco abbia stilato un

catalogo di stelle fisse contenente le loro posizioni in cielo espresse in latitudini e longitudini eclittiche. Ci sono ragioni di credere che esso abbia contributo a formare buona parte del catalogo incluso tre secoli dopo da Tolomeo nella sua opera e che contenesse circa 850 stelle, alle quali Tolomeo ne aggiunse altre 170. Non si ha menzione dello strumento usato per tali misure di posizione: si tratta probabilmente di uno strumento simile a quello successivamente chiamato ‘sfera armillare’ o “armilla”. Lo scrittore romano Plinio (70 d.C.) come spiegazione al perché di questo suo lavoro ci dice che Ipparco «scoprì una nuova stella e un’altra ancora che si accese a quel tempo», pertanto le contò e ne determinò le coordinate. Questa breve testimonianza ci ha permesso di stabilire se, durante la vita di Ipparco, una ‘nova’ fosse realmente apparsa nei cieli o se non avesse piuttosto osservato l’apparire e lo scomparire di una stella variabile come Mira nella costellazione della Balena. Potrebbe anche essere che il suo lavoro fosse il risultato di un maggiore interesse, in quel tempo, per le stelle e le costellazioni. Tale interesse, che assunse quasi un carattere sociale, si manifestò in un commento critico della descrizione poetica del cielo stellato

eseguita da Arato e nel fatto che questo lavoro è il solo tra gli scritti di Ipparco a essere giunto fino a noi. L’accurato catalogo stellare deve perciò essere considerato come il suo complemento scientifico.

Questo interesse risale a un’altra influenza babilonese sull’astronomia del mondo occidentale: l’astrologia. Nei secoli precedenti ad Alessandro Magno, in generale l’astronomia greca era svincolata dall’astrologia, nonostante fosse stata espressa la credenza (per esempio da Eudosso) che il clima fosse influenzato dai corpi celesti. Tuttavia, nei secoli seguenti, l’astrologia, insieme a tutte le scienze orientali, entrò rapidamente nel mondo ellenistico. Abbiamo spesso ricordato che nel terzo secolo a.C. il sacerdote babilonese Berosso andò nell’isola di Cos come insegnante e storico della cultura babilonese. Ad Alessandria, nel 160 a.C. circa, compare un trattato di astrologia con i nomi di Nachepso e Petosiris come autori, probabilmente due sacerdoti egiziani di epoca precedente; tutti i successivi libri di astrologia si sono liberamente ispirati a questa prima fonte. Anche la scuola stoica contribuì alla diffusione delle credenze astrologiche, che ben si addiceva alla loro dottrina dell’unità di tutti gli uomini con l’universo. Così Posidonio, già menzionato come scrittore, scienziato e filosofo di grande fama — le cui opere sono andate tutte perdute, a eccezione di qualche frammento conservato da altri — insegnò l’armonia universale, la compenetrazione tra il mondo terreno e quello celeste. È famosa anche una sua spiegazione della differenza che intercorre tra la scienza astronomica e quella fisica: per l’astronomo è valida ogni spiegazione che conservi i fenomeni, mentre il fisico deduce la verità a partire dalle cause prime e dalle forze agenti. Pertanto se non ci si accerta della verità fisica, qual è la funzione dell’astronomia, cioè del calcolo astronomico del corso delle stelle? Serve un più elevato obiettivo: la predizione del destino dell’uomo.

L’astrologia, vista come corrente di pensiero in sviluppo, permeò prima il mondo greco, poi quello romano, dove trovò terreno

Fig. 10. Cono d’ombra della Terra.

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fertile. Ciò avvenne, soprattutto, dopo che Roma, in seguito alla conquista di tutti i regni dell’antica cultura e all’acquisizione delle immense ricchezze sottratte ai loro tesorieri, fu afflitta da un secolo di crudeli guerre civili che misero a repentaglio la vita e il benessere dei suoi cittadini. Così lo storico M.I. Rostovtzeff descrisse le condizioni che causarono l’improvvisa decadenza della scienza e della cultura nel primo secolo a.C.:

«Il collasso delle grandi monarchie ellenistiche sotto la pressione di Roma e la rovina delle fiorenti città greche sotto il dominio romano, le stancanti guerre, le ripetute crudeli e sanguinose rivoluzioni sociali, la generale miseria dei tempi e la crescente oppressione sia del ricco che del povero nell’oriente ellenistico»[67] L’astrologia divenne ora parte integrante

della cultura e della concezione del mondo dell’antichità e non solo tra le masse popolari, sotto forma di pura superstizione e credenza nella predizione, ma anche come dottrina teoretica di scienziati e filosofi.

L’astrologia, nel mondo greco e romano, acquisì un carattere piuttosto diverso da quello che aveva nella vecchia Babilonia. Qui gli dèi avevano scritto i segni delle loro intenzioni sul mondo degli uomini attraverso il corso irregolare degli astri in cielo; ma i grandi dèi — quelli che regolavano i brillanti pianeti — prestavano attenzione solo alla sorte del mondo o dei regni o dei re o della gente in generale: per i propri interessi personali l’uomo doveva rivolgersi alle sue divinità locali. Nel mondo greco e romano, i cui cittadini avevano uno spiccato senso dell’individualità, l’astrologia doveva acquisire un carattere più individuale: doveva occuparsi della personale sorte di ogni uomo. Inoltre, ora che i pianeti erano diventati corpi celesti che descrivevano nello spazio orbite calcolabili matematicamente, il loro carattere era destinato a cambiare; il loro corso non rappresentava un segno, ma una causa di quello che accadeva sulla Terra. La vita di ogni uomo, proprio come i fenomeni meteorologici e politici, era soggetta alle stelle. Così l’oroscopo — che deduce la vita dell’uomo dalla posizione

delle stelle al momento della sua nascita — divenne lo scopo principale e l’oggetto della pratica babilonese. La posizione di un pianeta rispetto a un altro o alle stelle, il suo sorgere o tramontare, la posizione di una determinata costellazione rispetto all’orizzonte, erano questi i dati più importanti. Molto spesso, la supposizione di semplici relazioni venne confutata dagli eventi e le regole e le indicazioni si fecero più complesse e arbitrarie. Come risultato di reciproche influenze culturali, qualche volta ritroviamo oroscopi personali nelle iscrizioni cuneiformi caldee.

Proprio a causa di questa diffusione universale del concetto astrologico di vita, l’astronomia fu nell’antichità al centro dell’interesse pubblico. Era, al tempo, la sola conoscenza degna del nome di scienza e divenne la scienza più pratica, al di là di un semplice strumento per la redazione del calendario. Attraverso la profonda unione che lega le stelle alla vita dell’uomo, l’astronomia divenne la più importante forma di conoscenza. Allusioni ai fenomeni celesti, che non potevano tra l’altro essere comprese senza la conoscenza astronomica, sono comuni e numerose negli scritti di poeti e autori romani. C’era inoltre una vasta letteratura astronomica popolare, la maggior parte della quale è però andata perduta. Si dice che Eudosso fu il primo a fornire una descrizione dettagliata del cielo e delle sue costellazioni. Essa pose le basi per un grande poema I Fenomeni di Arato, che visse introno al 270 a.C. alla corte del re macedone Antigono Gonata, egli stesso allievo della scuola stoica. Questo poema fu famoso nell’antichità; venne letto nelle scuole e costituì la base di tutte le leggende mitologiche riguardanti gli eroi e gli animali raffigurati nelle costellazioni che possiamo ritrovare nei nostri libri di astronomia fino al diciannovesimo secolo. Del grande matematico Euclide ci è stato conservato uno scritto che fornisce alla poetica di Arato la base matematico teorica: una lucida trattazione dei cerchi ruotanti sulla sfera celeste, i fenomeni derivanti dal sorgere e dal tramontare: in poche parole tutto quello che in seguito è stato definito ‘geometria

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sferica’, ovvero la teoria delle sfere celesti. Che Ipparco trovasse il poema di Arato eccellente, nonostante ne avesse dato una critica dettagliata con tanto di correzioni, come pure Eudosso, ci dimostra la stima universale di cui esso godeva.

Molti altri scritti astronomici di carattere popolare si sono fatti conoscere in quei secoli e in secoli successivi: un poema latino di Manilio (c. 10 d.C.) sulle stelle, assai lodato come capolavoro letterario e ancora, successivamente, una descrizione poetica dei cieli da parte di Igino. Vi è poi un accurato lavoro di Gemino (c. 70 a.C.) su tutta l’astronomia che ci fornisce molti preziosi dettagli sulla sua storia e uno scritto di Cleomede (contemporaneo dell’Imperatore Augusto) dal titolo Teoria circolare dei fenomeni celesti. Il grande numero e l’estensione di tali libri ci mostra quanto fortemente l’astronomia, vista come scienza viva, attecchì nella società del tempo.

Accanto a questi scritti vi erano, al fine delle predizioni astrologiche, almanacchi con riportate le posizioni dei pianeti, di cui sono stati ritrovati alcuni frammenti nei papiri egiziani. Più tardi vennero utilizzati i

globi celesti come aiuto al disegno della configurazione dei cieli e per l’insegnamento; ad esempio, un globo di Archimede venne portato a Roma dal console Marcello dopo la conquista di Siracusa. Su tali globi le stelle sono spesso omesse e vi sono dipinte solamente le figure delle costellazioni, dal momento che gli effetti astrologici importanti derivano dalle costellazioni e non dalle singole stelle. Serva da esempio l’Atlante Farnese: in esso è rappresentato il gigante Atlante che sorregge sul proprio collo il globo celeste; qui in scala ridotta (vedi Tavola 2) è riprodotta una sua incisione fatta nel diciottesimo secolo da Martin Foulkes e pubblicata nell’edizione Bentley del poema di Manilio. Bisogna prestare particolare attenzione alle quattro corna sulla testa del cane che probabilmente rappresentano i raggi di fuoco che si propagano dalla stella Sirio. Sembra che siano anche stati costruiti modelli meccanici del sistema del mondo, una specie di planetari, ma cosa essi realmente rappresentassero presuppone una più alta comprensione della struttura del mondo.

Tav. 2. Le costellazioni sull’Atlante Farnese. Gli spazi vuoti, oltre al Polo sud, sono le zone danneggiate dell’Orsa e le zone dove le mani reggono il globo.

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CAPITOLO 13

LA TEORIA DEGLI EPICICLI La teoria degli epicicli fornì la prima spiegazione soddisfacente per il moto irregolare dei pianeti. Si assunse che il pianeta descrivesse una circonferenza (epiciclo), il centro della quale descrivesse a sua volta una circonferenza più grande attorno alla Terra, che era posta nel centro dell’Universo. Questa teoria era il seguito naturale della proposizione di Eraclito, secondo la quale Venere e Mercurio descrivevano circonferenze attorno al Sole. Siccome erano stati visti oscillare da un lato all’altro del Sole, questo se li sarebbe dovuti portare dietro nel suo corso annuale; visti dalla Terra, i due pianeti sarebbero dovuti andare alternativamente per un lungo tratto nella stessa direzione del Sole, ma più rapidamente, e per un tratto più corto, indietro nella direzione opposta. Il loro moto apparente relativo alle stelle, così, aveva lo stesso carattere irregolare mostrato dagli altri pianeti. Poiché è composto da due moti circolari regolari, è plausibile concepire anche il moto degli altri pianeti (Marte, Giove e Saturno) come una combinazione di due circonferenze; una circonferenza più grande (deferente, la circonferenza guida) con la Terra come centro, lungo la quale si muove il centro di quella più piccola (epiciclo). Il centro dell’epiciclo è un punto vuoto in questo caso, mentre per Venere e Mercurio è occupato dal Sole.

Per descrivere il moto di un pianeta sono necessari, così, due punti di rivoluzione. Dobbiamo tener presente che, nella scienza dei Greci, l’epiciclo era legato al raggio della circonferenza più grande; durante la sua rotazione, il suo punto più basso (il più vicino alla Terra) rimaneva sempre il più basso. Il tempo di rivoluzione del pianeta sull’epiciclo viene calcolato sempre a partire dal punto più alto o più basso, fino a che lo stesso punto viene nuovamente raggiunto;

questo è il periodo sinodico del pianeta. Il suo passaggio nel punto più basso è il centro del moto retrogrado. Per Venere e Mercurio è la congiunzione inferiore con il Sole, per gli altri pianeti è l’opposizione.

La teoria degli epicicli offrì una rappresentazione molto più semplice e più accurata del corso variabile dei pianeti, rispetto a quanto avevano fatto le sfere in rotazione di Aristotele ed Eudosso [ndr: il sistema omocentrico descritto nel Capitolo 10] Inoltre, spiegò le loro variazioni in luminosità come conseguenza della loro distanza variabile dalla Terra. Questa distanza si sarebbe poi potuta facilmente calcolare dalle dimensioni delle circonferenze. Le relative dimensioni di epiciclo e deferente per Venere e Mercurio derivano dalla loro elongazione maggiore dal lato destro e sinistro del Sole; da 46° per Venere e 22° per Mercurio troviamo il rapporto tra i raggi, 0,72 e 0,37. Per gli altri pianeti, questa elongazione va presa rispetto al centro invisibile dell’epiciclo che si muove con moto regolare. Per Marte si trovano 42°; così il raggio dell’epiciclo è 0,67 volte il raggio del deferente, e le distanze di Marte, nel suo punto più alto e più basso, hanno un rapporto che varia da 1,67 a 0,33, il che spiega la sua grande variazione in luminosità.

Ci si è spesso chiesti perché gli astronomi greci, avendo conosciuto il sistema eliocentrico di Aristarco, fossero tornati al primitivo sistema geocentrico degli epicicli. Sicuramente non possiamo trovare una ragione in quello che disse Paul Tannery, che l’antica Grecia, in questi secoli, scarseggiava di geni in grado di compiere un completo rinnovamento[68]; in questo contesto i Greci avevano certamente mostrato la loro superiorità. La ragione deve risiedere, innanzitutto, nel fatto che la teoria

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degli epicicli costituiva, per la scienza greca, la prosecuzione più naturale dello sviluppo. La teoria degli epicicli costituiva di fatto il rinnovamento voluto. La struttura eliocentrica, ideata da Aristarco, fu un fantastico colpo di genio, non una necessaria conseguenza dei fatti. Era stata la comprensione delle dimensioni fisiche del Sole a suggerirla, sebbene fosse provato, per contro, che, anche nel corpo umano, il cuore, il luogo della vita, era fuori dal centro di massa fisico.

Una nuova struttura universale doveva essere una teoria sui moti dei pianeti, che, a quel tempo erano conosciuti solo a grandi linee; dovevano prima essere osservati accuratamente e poi rappresentati nel modo più naturale possibile. Questo, infatti, avvenne tramite la teoria degli epicicli, che costituì la diretta rappresentazione geometrica del fenomeno visibile.

Secondariamente, anche le influenze sociali probabilmente entrarono in gioco, specialmente la credenza generale nell’astrologia, che era l’applicazione pratica della scienza. L’astrologia non aveva bisogno di teorie sulla natura fisica dei corpi celesti, ma solo di tabelle pratiche per calcolare i loro moti apparenti. Questa non era semplicemente indifferente, bensì nettamente ostile, alle strutture fisiche, le quali, infatti, avrebbe potuto disturbare la primitiva credenza che le stelle, nel loro corso, predicevano il destino delle esistenze umane. Così, è facile capire le parole di Cleante, il capo degli Stoici, secondo il quale

«era dovere dei Greci accusare Aristarco di Samo per la sua colpevolezza di empietà nell’aver messo in moto il Cuore dell’Universo (cioè la Terra)»[69] La teoria degli epicicli, rappresentando le

apparenze, era da preferirsi alla struttura dell’universo di Aristarco.

La teoria degli epicicli deve aver avuto origine, forse gradatamente, nel III sec. a.C. La prima informazione certa su questa teoria è connessa al nome del grande matematico Apollonio di Perga (c. 230 a.C.), il fondatore della teoria delle sezioni coniche. Tolomeo

ci riporta una delle sue proposizioni geometriche che consente di derivare le stazioni dei pianeti. Gli astronomi caldei avevano osservato attentamente queste stazioni e le avevano calcolate nelle loro tabelle come importanti elementi di base per la conoscenza del corso dei pianeti. La teoria greca doveva dimostrare di essere ugualmente, se non più adatta a risolvere lo stesso problema, predire l’istante e il luogo delle stazioni. Apollonio riuscì a far questo con la riduzione del problema a livello geometrico, disegnando una linea che dalla Terra interseca l’epiciclo, in modo tale che l’intersezione avesse un rapporto definito. Per la sua importanza, la dimostrazione è data nell’appendice B.

Nel secolo successivo, Ipparco si occupò della teoria degli epicicli, dandogli la sua forma classica. Dimostrò che il moto in un epiciclo — descritto nello stesso periodo, ma in direzione opposta al cerchio concentrico che è l’orbita del suo centro — è identico al moto attorno a un cerchio eccentrico, come si vede in fig. 11, dove i punti 1, 2, 3 e 4 occupano una circonferenza spostata più in alto. Entrambi i modelli, comunque, possono essere usati per rappresentare la velocità variabile lungo l’eclittica che mostrano sia il Sole che i pianeti e inoltre le loro oscillazioni. Così, fu naturale interpretare queste oscillazioni con gli epicicli e scegliere il cerchio eccentrico per spiegare la velocità variabile lungo l’eclittica.

Secondo Tolomeo, Ipparco aveva

riconosciuto che i moti retrogradi dei pianeti erano diversi nella parte opposta dell’eclittica; quindi i moti erano più irregolari di quanto prima si pensasse. Due

Fig. 11.

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secoli dopo, da una dichiarazione di Plinio, abbastanza oscura — che il più lontano apogeo di Saturno era situato in Scorpione, quello di Giove nella Vergine e quello di Marte in Leone — sembra che in un’epoca precedente, forse proprio al tempo di Ipparco, ci fosse anche qualche conoscenza qualitativa di queste irregolarità. Ma, dice Tolomeo, Ipparco non aveva a disposizione un numero sufficiente di osservazioni fatte dai predecessori, per ricavare una teoria numerica completa. Per questo motivo si limitò a mettere insieme nuovi dati: «un uomo che nell’intero campo della matematica aveva raggiunto una tale profondità e un tale amore per la verità»[70] non avrebbe potuto accontentarsi di elaborare una teoria solamente in termini generali. Doveva determinare dai fenomeni i valori numerici nei moti orbitali, e dimostrare che i fenomeni stessi potevano essere adeguatamente rappresentati da circonferenze descritte uniformemente. Questo, comunque, non era possibile dai dati disponibili.

Questo fu il lavoro di Tolomeo, che così completò la teoria degli epicicli. Prima corresse i periodi planetari di Ipparco tramite le proprie osservazioni, trovando:

Saturno 57 sp = 59 yr + 1 3/4 d = 2 r + 1°43’ Giove 65 sp = 71 yr + 4 9/10 d = 6 r + 4°50’ Marte 37 sp = 79 yr + 3 13/60 d = 42 r + 3°10’ Venere 5 sp = 8 yr – 2 3/10 d = 8 r + 2°15’ Mercurio 145 sp = 46 yr + 1 1/30 d = 46 r + 1° (sp = periodo sinodico; yr = anni;

d = giorni; r = rivoluzioni) Questi sono gli stessi multipli che usarono

i Babilonesi. Per i primi tre pianeti nominati, è trascorso un periodo sinodico, cioè una rivoluzione nell’epiciclo, quando il Sole raggiunge il pianeta; trascurando piccoli resti, questi periodi sono 59/57, 71/65 e 79/42 anni. Per gli altri due il periodo di rivoluzione è esattamente un anno. Per l’esattezza, questi periodi, con aggiunti i piccoli resti, sono confrontabili con i valori caldei; i resti angolari potrebbero avere una precisione di mezzo grado.

Tolomeo, per stabilire il moto dei primi tre

pianeti, dovette dividere il problema in due parti. Prima, il moto del centro dell’epiciclo lungo il deferente (che lui chiama sempre l’eccentrico), e poi il moto del pianeta lungo l’epiciclo. Per il primo scopo dovette eliminare le oscillazioni dovute all’epiciclo e osservare il pianeta quando questo veniva visto esattamente nella stessa direzione del centro dell’epiciclo, cioè quando stava davanti a questo punto. Come poteva sapere tutto questo? Il principio base della teoria degli epicicli è che il raggio dell’epiciclo, che unisce il suo centro con il pianeta, gira uniformemente nello stesso lasso di tempo in cui il Sole descrive la sua circonferenza, e così ha sempre la stessa direzione che ha il raggio nell’orbita solare. Quindi, il pianeta sarà esattamente davanti al centro (come mostra la fig. 12) quando la sua longitudine differisce di 180° da quella del Sole visto dal centro della sua orbita. In altre parole, il pianeta è in opposizione non al Sole reale, ma al Sole medio, che fa il suo corso annuale proprio uniformemente; non importa dove venga visto dalla Terra il Sole reale. Allora la longitudine osservata per il pianeta è la longitudine cercata per il centro dell’epiciclo.

Per il calcolo pratico, è necessario un certo

numero di osservazioni dell’opposizione in giorni consecutivi. Le osservazioni dei pianeti, eseguite da Tolomeo, consistevano, in parte, in congiunzioni o avvicinamenti stretti a stelle brillanti o alla Luna e, in parte, in misure dirette con uno strumento con cerchi graduati, che lui chiamava astrolabon e che corrisponde alle più tarde armille. Dalle longitudini osservate, si poteva derivare il momento esatto di opposizione al

Fig. 12.

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Sole medio, così come la sua longitudine. Se noi conosciamo per un punto (il centro

dell’epiciclo) che si muove sul cerchio eccentrico, la direzione vista dalla Terra per tre momenti differenti, possiamo determinare la posizione della Terra dentro questo cerchio. Questa, inoltre, può essere trovata con un disegno geometrico o calcolata numericamente. Dal momento che l’eccentrico è descritto uniformemente, le tre posizioni sulla circonferenza sono date dagli intervalli di tempo. Allora il problema è identico al così detto “problema di Snell” in geodetica: derivare la posizione di una stazione misurando da quella le direzioni verso tre stazioni note circostanti; problema che può essere risolto in modo diretto.

Qui Tolomeo incontrò una difficoltà. Egli dice:

«Ora noi abbiamo trovato, tuttavia, con un confronto continuo ed esatto del corso dato dalle osservazioni, e dei risultati dati dalla combinazione di queste ipotesi, che il procedere del moto non poteva essere così semplice […] Gli epicicli non potevano avere i loro centri che procedevano lungo una circonferenza così eccentrica poiché, visti dal centro [di queste circonferenze], descrivevano angoli uguali in tempi uguali […] Ma questo biseca la distanza tra il punto dal quale il moto appare uniforme, e il centro dell’eclittica»[71]

In altre parole: il centro dell’epiciclo

descrive una circonferenza eccentrica, cioè una circonferenza il cui centro non è la Terra, ma in modo tale che il suo moto risulti apparentemente uniforme visto non da questo centro, ma da un altro punto (il punctum equans, “punto equante”) situato dall’altra parte del centro rispetto alla Terra, ma alla stessa distanza.

Questo significa, come mostra la fig. 13, che in realtà il cerchio eccentrico non è descritto uniformemente dal centro dell’epiciclo; vicino al punto equante (nell’apogeo) il centro si muove più lentamente, dalla parte opposta più rapidamente. Mentre si dà un’adesione formale al principio base della cosmologia greca — il moto circolare e uniforme di tutti i corpi celesti — in realtà, con il pretesto che il moto appare uniforme quando è visto da un altro punto, lo stesso principio viene violato.

Ma, in questo modo, i fenomeni mostrati dai pianeti venivano rappresentati nel modo più perfetto possibile. Tolomeo non indica attraverso quale argomentazione o attraverso quale osservazione fosse giunto alla sua teoria. Dice solamente «noi troviamo che …». È comunque facile vedere quali fenomeni dovevano averlo portato a quella teoria. La distanza della Terra dal centro del deferente — che è la sua reale eccentricità — determina le dimensioni apparenti variabili dell’epiciclo, visibili tramite variazioni delle oscillazioni del pianeta da entrambi i lati del centro dell’epiciclo. La distanza della Terra dal punto in cui il moto angolare appare uniforme determina con quale variazione di velocità il centro dell’epiciclo sembra muoversi lungo l’eclittica; la posizione accurata della circonferenza e del suo centro in questo contesto sono solamente di secondaria importanza. Bisognava dimostrare che le osservazioni, in questo secondo caso, trovavano un’eccentricità due volte più grande che nel primo caso; così, la distanza del punto equante dalla Terra è due volte la distanza dal centro alla Terra. Oppure, detto con parole sue:

«L’eccentricità dedotta dalla più grande deviazione nell’anomalia dell’eclittica fu trovata essere il doppio dell’eccentricità derivata dal moto retrogrado nei casi di distanza più grande e più piccola dell’epiciclo»[72] Che il rapporto di queste eccentricità

dovesse essere per forza 2 era una semplice supposizione, che si rivelò, comunque,

Fig. 13.

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fortunata. Per il Sole, che procedeva anche lui lungo il suo cerchio eccentrico, non poteva essere fatta tale distinzione; quell’eccentricità che Ipparco aveva trovato per lui corrispondeva alla grande o doppia eccentricità planetaria.

Il primo compito di Tolomeo era ora quello di derivare l’eccentricità e la direzione dell’apogeo del deferente per Marte, Giove e Saturno dalle loro tre opposizioni. Per Marte osservò i seguenti valori:

1) nel quindicesimo anno di Adriano, nel 26-27

del mese (egiziano) di Tybi (cioè 15-16 dicembre 130 d.C.) all’una di notte, la longitudine era 81°;

2) nel diciannovesimo anno di Adriano, nel 6-7 del mese di Pharmuthi (cioè 21 febbraio 135 d.C.) alle nove di sera, era 148° e 50’;

3) nel secondo anno di Antonino, nel 12-13 del mese di Epiphy (cioè 27 maggio 139 d.C.) alle dieci di sera, era 242° e 34’.

Dagli intervalli di tempo, dopo la

sottrazione di un numero intero di rivoluzioni, si calcolano gli angoli tra le direzioni viste dal punto equante: 81°44’e 95°28’; gli angoli tra le direzioni viste dalla Terra sono 67°50’e 93°44’. Questi dati sono rappresentati in fig. 14. Ciò che si richiede è la posizione della Terra dentro il cerchio. Il problema non è risolvibile direttamente; Tolomeo lo risolse tramite successive approssimazioni, ipotizzando una circonferenza con il punto equante come centro. A questo punto, il problema poteva essere risolto direttamente tramite i mezzi matematici di cui disponeva: le proposizioni di Euclide e la tabella delle corde per ogni arco, compilata da lui stesso, il prototipo

delle successive tabelle dei seni. Il risultato è la grande eccentricità, metà della quale è di quanto il cerchio deve essere traslato. Calcolò poi di quanto venivano cambiate da questa traslazione le direzioni viste dalla Terra e, con i valori corretti, il calcolo venne ripetuto in seconda approssimazione. Questo porta a correzioni molto piccole per la terza approssimazione, che soddisfa del tutto i dati originali. In questi calcoli, che ci sono stati interamente trasmessi, Tolomeo applicò il metodo delle approssimazioni convergenti, che giocò così un ruolo importante nella matematica successiva.

I risultati ottenuti in questo modo per l’eccentricità totale e per la longitudine dell’apogeo sono: per Marte 72/360 = 0,200 e 115°30’; per Giove 33/360 = 0,092 e 161°; per Saturno 41/360 = 0,114 e 233°. Se li confrontiamo con quelli che, per la conoscenza moderna, erano i veri valori di quel tempo — per Marte 0,186 e 121°; per Giove 0,096 e 164°; per Saturno 0,112 e 239° — appare chiaro che la sua rappresentazione delle orbite dei pianeti era altamente soddisfacente.

Il secondo problema, la misura dell’epiciclo relativo all’eccentrico, doveva essere risolto tramite l’osservazione del pianeta al di fuori della sua opposizione, quando sta dall’altra parte sul suo epiciclo. Per questa risoluzione Tolomeo, curiosamente, dà un’osservazione di Marte di soli tre giorni dopo la sua opposizione (fig. 15):

«Dal momento che è nostro ulteriore scopo fissare numericamente le misura relativa dell’epiciclo, scegliamo un’osservazione fatta circa tre giorni dopo la terza opposizione, nel secondo anno di Antonino, nel 15-16 del mese di Epiphy (30-31 maggio 139 d.C.), tre ore prima di mezzanotte»[73] Mediante l’astrolabio e utilizzando Spica,

la longitudine di Marte fu trovata essere 1°36’ a est della Luna (che, in accordo con le tabelle, era a 239°20’ e che, corretta di 40’ per la parallasse, dava 240°0’), così che «anche in questo modo una posizione di Marte fu trovata essere 241°36’, in accordo con l’altro risultato». L’esatta coincidenza

Fig. 14.

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dei primi d’arco indica chiaramente che questi erano adattati a proposito; dal momento che il tempo di osservazione è dato solo in ore piene e la Luna si muove di 33’ all’ora, ogni valore entro questo intervallo doveva essere scelto in modo tale da dare gli stessi minuti della misura diretta.

Con questi dati è semplice anche un calcolo geometrico, che consiste nella misura dei lati in un triangolo con angoli noti — un triangolo con angoli sicuramente molto piccoli, 2°43’ quello con vertice alla Terra e 1°8’ quello con vertice al centro dell’epiciclo, così che errori di misura non più grandi di ¼ di grado possono alterare fortemente il risultato. Tuttavia, il risultato — 0,658 per il raggio dell’epiciclo — è quasi esattamente uguale al valore vero, 0,656. In questo modo, si potrebbe essere certi che il suo valore non si sia basato solo su questa osservazione, ma che sia stato derivato da ulteriori osservazioni a distanze più grandi dall’opposizione. Quindi, nel suo libro, questa derivazione dovrebbe essere considerata solo come un esempio per mostrare il metodo usato.

Calcolata con dati moderni, la longitudine

di Marte al momento della sua osservazione era 242°16’, quindi, più grande di 40’. È ben noto che, a causa di un errore di circa 1° presente nel suo equinozio invernale, tutte le longitudini di Tolomeo sono troppo piccole; per Spica l’errore nel suo catalogo era di 1°19’, dal quale derivò un errore di 39’ nella misura di Marte. Per Giove e Saturno la sua derivazione era basata su osservazioni lontane dall’opposizione; il risultato (23/120 = 0,192 e 13/120 = 0,108) è ben confrontabile

con i valori dei dati moderni, 0,192 e 0,105. Grazie a questi tre pianeti, la teoria degli

epicicli appare in tutta la sua potenza. Se gli antichi astronomi avessero avuto a loro disposizione vaste serie di osservazioni, avrebbero visto quanto bene un calcolo sviluppato con questa teoria sarebbe stato capace di rappresentarle. Un confronto con la teoria moderna può convincerci che questa semplice struttura di circonferenze nello spazio rappresenta eccellentemente i dettagli dei moti planetari, che anticamente sembravano così capricciosi e intricati.

Con Venere e Mercurio le cose non erano così semplici. Per questi, non l’epiciclo, ma il deferente veniva definito al passo con il Sole. La teoria degli epicicli non dice, comunque, come aveva fatto Eraclide, che il Sole è il centro dei loro movimenti, ma richiede solamente che il centro dell’epiciclo ruoti nello stesso periodo di tempo del Sole e che il suo raggio rimanga sempre parallelo al raggio del Sole nella sua circonferenza. Mentre le più grandi elongazioni di questi pianeti a est e a ovest del Sole sono differenti e variabili, tuttavia, questo deve essere rappresentato teoreticamente tramite epicicli concentrici descritti uniformemente.

Per Venere le differenze sono piccole; la grande elongazione dal Sole è sempre tra 45°53’e 46°43’. Qui una circonferenza con il suo centro vicino al Sole si adatta perfettamente a epiciclo. Per derivare la figura del deferente, Tolomeo fece uso esclusivamente di un certo numero delle più grandi elongazioni da entrambi i lati del Sole. Prima derivò il suo apogeo a 55° di longitudine. In una direzione diversa di 90° — a una longitudine di 325° — le più grandi elongazioni a est e a ovest furono trovate essere, rispettivamente, 48°20’e 43°35’. La loro differenza, 4°45’, mostra che il centro dell’epiciclo è al posto del Sole medio; da qui l’eccentricità è 1/24. Apparentemente, Tolomeo non percepì — o almeno non menzionò da nessuna parte — che questa era la stessa eccentricità e più o meno lo stesso apogeo che lui aveva derivato formalmente per il Sole, così che il Sole stesso occupa fisicamente il centro dell’epiciclo di Venere.

Fig. 15.

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Se questo è un motivo per meravigliarsi che le osservazioni di Venere danno qui la stessa eccentricità erronea di quelle del Sole (il valore reale era 1/30), bisogna ricordare che le osservazioni di Tolomeo erano elongazioni, cioè distanze dal Sole reale, da cui le longitudini di Venere venivano calcolate per mezzo di riduzioni prese da tabelle solari, basate su di un’erronea eccentricità pari a 1/24; così che lui ottenne come ‘risultato’ quello che aveva definito sotto un altro nome.

Per derivare la misura dell’epiciclo, Tolomeo prese la più grande elongazione al perigeo e all’apogeo del deferente; trovò 44°48’e 47°20’, da cui potevano essere calcolate le due distanze, 0,705 e 0,735. La loro media, 0,720, è il raggio dell’epiciclo; la metà della loro differenza, espressa come frazione del raggio, 1/48, è l’eccentricità del punto di osservazione, la Terra. È metà dell’eccentricità totale appena trovata, 1/24; quindi, il deferente di Venere aveva un punto equante. Va sottolineato il fatto che, nel suo ruolo di deferente di Venere, il cerchio solare esibisce un punto equante, cosa che non si sarebbe potuta calcolare da sé stessa. Siccome Tolomeo non era consapevole della loro coincidenza, questo fatto sarebbe stato riscoperto in seguito da Keplero, pur se,comunque, vi sono molti punti dubbi nei dati usati.

Con Mercurio le differenze e le difficoltà erano molto maggiori; le elongazioni più grandi variano da 17° a 28°. Così Tolomeo non riuscì a definire una teoria soddisfacente. Per una buona parte ciò era dovuto alla difficoltà di osservazione del pianeta; esso è visibile solo al tramonto vicino all’orizzonte, a grande distanza dalle altre stelle brillanti, il che intralcia un’accurata osservazione. Nello stesso modo, l’istante e, per via del suo moto veloce, la posizione della sua più grande elongazione erano difficili da stabilire. Un’altra fonte di problemi era dovuta alla teoria adottata; le orbite circolari non erano in grado di esprimere le oscillazioni asimmetriche del pianeta. Così Tolomeo arrivò ad assumere un’orbita ovale per il

centro dell’epiciclo, con la Terra posta sull’asse maggiore fuori dal centro. Un ovale così può essere prodotto tramite la combinazione di circonferenze, cioè facendo descrivere al centro del deferente una piccola circonferenza, nella direzione opposta, per due volte durante una rivoluzione. Alcune caratteristiche principali del moto di Mercurio potrebbero, è vero, essere rappresentate in questo modo, ma meno accuratamente e in modo più complicato rispetto agli altri pianeti. Ciò mostra le versatili possibilità della teoria degli epicicli, anche se Mercurio era certamente un oggetto troppo difficile per una trattazione soddisfacente.

Infine, Tolomeo incluse nella teoria degli epicicli le deviazioni dei pianeti a sud o a nord dell’eclittica, espresse nella loro latitudine. Ciò fu fatto introducendo, per Marte, Giove e Saturno, piccole inclinazioni del deferente rispetto all’eclittica e dell’epiciclo rispetto al deferente. Egli non aveva ragione di supporre — come noi — che l’epiciclo fosse parallelo all’eclittica; così doveva determinare due inclinazioni per ogni pianeta. Usò solamente pochi dati grezzi: da una latitudine di Giove di 1° in congiunzione e 2° in opposizione, trovò che le inclinazioni erano 1°½ e 2°½. Dalle osservazioni, sapeva che la deviazione in latitudine del pianeta, nel punto più vicino dell’epiciclo, da una parte dell’eclittica era verso nord, dalla parte opposta verso sud. Secondo la teoria greca, questa deviazione sarebbe dovuta rimanere la stessa tutt’attorno all’eclittica, perché era stato assunto che l’epiciclo fosse fissato al raggio del deferente. Tolomeo, dunque, doveva correggerlo con uno speciale artificio: il punto più vicino dell’epiciclo ruota lungo una piccola circonferenza verticale in un periodo di rivoluzione, così che viene spostato in su e in giù, oscillando tra l’estrema deviazione a nord e l’estrema deviazione a sud. Alle già complicate strutture delle orbite di Venere e di Mercurio, aggiunse delle oscillazioni in su e in giù, due dell’epiciclo rispetto al deferente e una del deferente rispetto all’eclittica, tutte

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regolate da piccoli cerchi verticali. E per coloro che ritenessero questi meccanismi troppo complicati per i corpi celesti, aggiunse alcune ‘consolazioni’ filosofiche:

«Che nessuno, ricordando l’imperfezione dei nostri artifici umani, consideri le ipotesi qui proposte troppo artificiali. Non dobbiamo confrontare le esistenze umane con le cose divine […] Cosa di più diverso che creature che possono essere disturbate da ogni bazzecola ed essenze che non saranno mai disturbate se non da loro stesse? [...] La semplicità stessa dei processi celesti non dovrebbe essere giudicata in accordo a cosa è ritenuto semplice tra gli uomini […] Poiché, se noi guardassimo a ciò dal punto di vista umano, niente di quello che accade nei regni celesti ci apparirebbe semplice del tutto, nemmeno la immutabilità della prima [giornaliera] rotazione dei cieli, perché per noi esistenze umane questa immutabilità, eterna qual è, non è solo difficile, ma veramente impossibile. Ma nel nostro giudizio dobbiamo procedere dall’immutabilità delle essenze che girano nel cielo stesso e dai loro moti: da questo punto di vista loro apparirebbero tutti semplici, e magari semplici a un grado più alto di come vengono ritenuti sulla Terra, perché non si può immaginare nessun disturbo e

nessuna pena che li riguardi nei loro vagabondaggi»[74] Si deve aggiungere che, in seguito, nelle

tabelle a uso pratico, Tolomeo semplificò considerevolmente la struttura delle orbite.

L’astronomia caldea non si occupò della latitudine dei pianeti. Le tabelle caldee trattavano la longitudine, in progressione e in retrogradazione; l’eclittica, come circonferenza centrale di tutte le orbite planetarie, sembra essere rimasta inosservata. La latitudine compare solo per la Luna, perché qui è necessaria per le eclissi e per il calcolo esatto del crescente. In questo caso, la superiorità dell’astronomia greca rispetto a quella babilonese è manifesta; vedeva i luminari celesti come corpi aventi orbite definite nello spazio. La teoria degli epicicli, nella forma definitiva data da Tolomeo, risalta come il prodotto più maturo dell’astronomia antica.

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CAPITOLO 14

LA FINE DEL MONDO ANTICO Agli albori della nostra era, tutte le popolazioni civilizzate dell’antichità che vivevano attorno al Mediterraneo, il mare del “mondo antico”, erano unite nell’Impero Romano. Un intenso traffico marittimo era alla base della loro economia; dalla sponda opposta e dal conquistato est ricchezze e generi alimentari giungevano alla privilegiata Italia, in special modo a Roma, la capitale dominatrice. Le popolazioni che vivevano al di là dei confini, le tribù barbare in Europa e in Africa e gli imperi asiatici in Oriente, dovevano essere respinte da possenti armate in un’incessante guerra lungo la frontiera.

La pace dominò nell’enorme regno sotto gli imperatori dei primi due secoli, interrotta soltanto una volta a causa di un contrasto tra due generali per la supremazia. Lo sviluppo dell’agricoltura, delle attività e degli scambi commerciali, che si estendeva sempre di più anche oltre le province, portò alla diffusione della cultura intellettuale; partendo dalle terre orientali che mantenevano lingua greca e caratteristiche ellenistiche, ora raggiunse i grezzi conquistatori dell’ovest e qui rimase, imitata, producendo i Romani poco di originale nel campo delle scienze naturali e dell’arte.

Questo vale anche per l’astronomia: i contributi dei Romani e i loro interessi in questo campo sono presto detti. Cleomede — il suo nome è greco — è già stato menzionato per il suo manuale di astronomia; la contemporanea visibilità sull’orizzonte del Sole e, dalla parte opposta, della Luna eclissata fu spiegata da lui correttamente: rifrazione dei raggi di luce vicino l’orizzonte. Tolomeo utilizzò osservazioni di occultazioni di stelle da parte della Luna fatte a Roma nel 92 d.C. da Menelao, anch’egli greco, e da Agrippa in Bitinia nel 98 d.C. Da Plutarco, autore delle

famose Vite nel secondo secolo d.C., ci è pervenuto un dialogo, Il volto nella Luna, nel quale la Luna è descritta come un corpo simile alla Terra, con montagne e depressioni che danno origine a ombre, una prospettiva di gran lunga più moderna rispetto a quella di Aristotele. La riforma del calendario di Giulio Cesare si deve considerare non come un’estensione ma come un’applicazione della scienza. Per eliminare la confusione causata dai cambiamenti arbitrari, fu abolito ogni nesso con la Luna e ogni intercalazione dei mesi. Lo storico Svetonio descrisse la situazione in questi termini:

«[…] dopodiché, volgendo la sua attenzione alla riorganizzazione dello Stato, egli [Cesare] riformò il calendario, da tanto tempo ormai talmente alterato dalla negligenza dei pontefici, con il loro privilegio di aggiungere mesi o giorni a piacere, che le festività per il raccolto non ricorrevano in estate, né quelle della vendemmia in autunno [di conseguenza, scarseggiavano le messi per le offerte] E corresse l’anno facendo riferimento al corso del Sole, portandolo a 365 giorni, abolendo il mese intercalare e aggiungendo un giorno ogni quattro anni […]»[75] Ciò che costituì la forza dei Romani, il

loro senso di organizzazione socio-politica, creò un metodo per calcolare il tempo destinato a dominare l’intero futuro del mondo civilizzato.

La natura dell’Impero Romano, tuttavia, attribuì una nuova e straordinaria valenza al lavoro scientifico di questo periodo. Nei secoli passati lo sviluppo delle attività e degli scambi commerciali e la rivalità tra piccoli stati e città nell’Ellade e in Oriente avevano risvegliato le iniziative creative con lo sviluppo di nuove idee. Ora che l’umanità civilizzata si era unificata, anche il carattere del lavoro scientifico si indirizzò verso la collaborazione. Lo studio della natura

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diventò l’insieme di tutta la conoscenza in un unico corpo scientifico. Invece della pura ingenuità di pensatori originali, comparve una conoscenza estesa dei compilatori. Invece del fermentare di nuove idee, comparve l’organizzazione in lavori enciclopedici di tutto ciò che i secoli passati avevano elaborato, spesso arricchito da idee genuine. Scientificamente, i secoli degli imperatori romani furono secoli di grandi lavori collettivi: di Strabone, e più tardi di Tolomeo, sulla geografia; di Plinio sulla storia naturale; di Galeno sulla medicina. Tutti questi perfezionarono la scienza antica.

Fu la stessa cosa riguardo l’astronomia. Come compendio di astronomia Greca ci furono I Tredici Libri della Composizione Matematica (Matematikè Suntaxis) di Claudio Tolomeo, contemporaneo di Plutarco, che visse ai tempi degli imperatori Adriano e Antonino. Gli anni della sua nascita e della sua morte rimangono sconosciuti e le sue osservazioni si conoscono sin dagli anni 127 e 151 d.C. Visse ad Alessandria e appartenne interamente al mondo culturale greco. Il suo libro fu molto più di una compilazione di conoscenze del passato. Tolomeo, infatti, non fu un compilatore ma fu egli stesso un indagatore scientifico; con Ipparco fu il più grande astronomo dell’antichità. Migliorò ed estese le teorie dei suoi predecessori e aggiunse alla conoscenza le sue osservazioni e spiegazioni. Abbiamo già visto come abbia portato a compimento la teoria degli epicicli, dando a essa una forma precisa e valori numerici.

L’opera di Tolomeo consiste in un manuale comprendente tutta l’astronomia del suo tempo, pur se tratta solo la sfera celeste — le stelle, il Sole, la Luna e i pianeti — e non parla delle comete. Secondo il suo parere, infatti, queste ultime — le cui orbite allungate, lungo le quali rimanevano per lo più invisibili, si sarebbero potuto scoprire solo molti secoli più tardi — non facevano parte dell’astronomia, Anche se il filosofo Seneca (c. 70 d.C.), in un passo molto noto, ne aveva parlato come di corpi celesti, Tolomeo rimase in accordo con

Aristotele che le considerava fenomeni terrestri nelle regioni più alte dell’atmosfera.

Altrettanto in armonia con Aristotele è la struttura base dell’universo che Tolomeo illustrò nei suoi primi capitoli. La volta celeste è una sfera, e come una sfera ruota attorno al suo asse; anche la Terra è una sfera e occupa il centro della sfera celeste. Per quanto riguarda la sua grandezza, la Terra è un punto in relazione a questa sfera, e non è dotata di alcun movimento che possa alterare la sua posizione. Gli argomenti sono uguali a quelli di Aristotele; in più — senza neanche nominare Aristarco o Eraclide — dibatté contro coloro che avevano espresso un’opinione contraria:

«Alcuni filosofi sostengono che il cielo sia immobile e che la Terra ruoti da ovest a est in quasi un giorno […] Come per i fenomeni delle stelle, nulla potrebbe impedire a una cosa semplice di essere vera; ma essi non percepirono come ciò sarebbe stato assurdo in relazione ai fenomeni intorno a noi e nell’aria. In questo caso, contro le leggi della natura, l’elemento più fine e più leggero [l’etere?] non si muoverebbe affatto oppure non diversamente da quelli di natura differente — mentre i corpi costituiti da particelle atmosferiche mostrano una maggiore tendenza a movimenti rapidi rispetto ai corpi solidi. Inoltre, i solidi più pesanti avrebbero un appropriato moto uniforme rapido e deciso — invece, come è noto, difficilmente gli oggetti terrestri pesanti vengono messi in movimento. Riconoscendo ciò, quelli dovrebbero certamente ammettere che una rotazione della Terra sarebbe più violenta di tutti i movimenti che avvengono su di essa e in breve tempo si avrebbe una reazione così rapida che tutto ciò che non è fisso alla Terra sembrerebbe avere solamente un singolo movimento, contrario al suo. Così non potremmo mai vedere una nuvola o qualsiasi altra cosa che voli o venga lanciata muoversi verso est, perché la Terra la eliderebbe con il suo moto verso est, così che tutte queste cose, distaccate, sembrerebbero muoversi verso ovest. Se essi dicessero che l’aria viene trasportata con la stessa velocità, allora anche i corpi solidi in essa sembrerebbero rimanere indietro. Oppure, se trasportati dall’aria come se attaccati a essa, non si vedrebbero mai muoversi in avanti o indietro e tutto ciò che vola o che viene lanciato dovrebbe rimanere al suo posto senza la possibilità di staccarsi; come se il movimento della Terra non gli permettesse di muoversi, che sia in modo lento o veloce»[76]

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Questi sono gli argomenti che Tolomeo sviluppò per il suo sistema del mondo geocentrico.

In un’introduzione geometrica, viene dapprima valutata e presentata una tabella di corde per angoli che aumentano di mezzo grado; il teorema usato per i quadrilateri in un cerchio appare tuttora nei nostri testi moderni come “Teorema di Tolomeo”. Dato che il sistema numerico greco non era a conoscenza di frazioni decimali, le corde vengono date in sessagesimali, con il diametro preso come 120 unità, un residuo dell’influsso Babilonese (quindi per un arco di 90° la corda viene data come 84, 51, 10, cioè, ridotta alla nostra numerazione, 0,707107). Attraverso il calcolo, frazioni della lunghezza di linee vengono date in sessantesimi.

Successivamente, vengono dedotti i teoremi sui triangoli piatti e sferici, necessari in un secondo tempo. In relazione a essi, vengono calcolate le quantità sulla sfera celeste in rotazione: cioè, il tempo e la durata del sorgere dei diversi segni zodiacali, così come l’inclinazione dell’eclittica fino all’orizzonte, il meridiano e altri cerchi verticali — tutti necessari per calcoli astronomici e astrologici. Dato che dipendono dalla latitudine del posto di osservazione, vengono date per latitudini standard, specificate dalla massima durata della luce del giorno (dal sorgere del sole fino al tramonto): da 12 ore all’equatore, a 12¼, 12½, 12¾, 13 ore, etc. (corrispondenti a latitudini di 4°15’, 8°25’, 12°30’, 16°27’, etc.), aumentando fino a 23 e 24 ore (a 66°8’40” di latitudine).

Dopodiché viene trattato il movimento del Sole. Le quantità rilevanti sono l’obliquità dell’eclittica, la lunghezza dell’anno e l’eccentricità dell’orbita circolare del Sole. Tolomeo descrive due strumenti usati per determinare l’obliquità; uno è un cerchio graduato su un piedistallo, all’interno del quale può essere girato un cerchio più piccolo con dentature e un’asta, in modo che, in base all’ombra proiettata, è possibile determinare l’altezza meridiana del Sole; un’illustrazione di questo strumento fu

fornita più tardi da Proclo. L’altro è un quadrante graduato avente lo stesso scopo. Egli calcolò che la differenza tra le altezze meridiane del solstizio d’estate e d’inverno erano quasi sempre 47°40’ e 47°45’, affermando che era quasi lo stesso valore trovato da Eratostene e usato da Ipparco: 11/83 della circonferenza. La metà, 23°51⅓’, è il valore usato per l’obliquità dell’eclittica.

Per quanto riguarda l’orbita del Sole, Tolomeo si riferisce per primo a Ipparco, il quale affermò che gli intervalli tra l’equinozio di primavera, il solstizio d’estate e l’equinozio d’autunno erano di 94½ e 92½ giorni, derivando da essi un’eccentricità di 1/24.

«Anche noi siamo arrivati alla conclusione che questi valori sono quasi uguali a quelli di oggi [...] Questo perché abbiamo trovato gli stessi intervalli da equinozi correttamente osservati e da un solstizio d’estate ugualmente e correttamente calcolato nel 463esimo anno dopo la morte di Alessandro [nel 139-140 d.C.]»[77] Cioè il 26 settembre del 139 d.C., un’ora

dopo il sorgere del Sole; il 22 marzo del 140, un’ora dopo mezzogiorno (178¼ giorni dopo); e il 25 giugno del 140, due ore nella mattinata. «L’ultimo intervallo è di 94½ giorni; per quanto riguarda l’intervallo tra questo solstizio e il successivo equinozio d’autunno, esso misura 92½ giorni». Così Tolomeo calcola un’eccentricità di 1/24 e un apogeo a 65°30’, entrambi identici ai valori di Ipparco. In realtà, in questo periodo, gli intervalli erano 93,9 e 92,6 giorni, secondo dati moderni.

Gli stessi equinozi vengono utilizzati per ottenere la lunghezza di un anno, confrontandoli con i valori di Ipparco per il 147 e il 146 a.C., 285 anni prima. Egli calcola che l’intervallo è di 70 3/10 in più di 285x365 giorni; dato che (285 x ¼) giorni corrispondono a 71¼ giorni, egli conclude che «in 300 anni il ritorno del Sole all’equinozio di primavera avviene quasi un giorno prima di ciò che corrisponderebbe a un anno di 365¼ giorni»[78] E, di nuovo, egli afferma che è d’accordo con la lunghezza dell’anno di Ipparco, 365 giorni, 5 ore, 55,2

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minuti. La lunghezza, comunque, era 7 minuti di troppo; quindi il suo intervallo fu sicuramente un giorno di troppo. In realtà, calcolati in base a dati moderni, i periodi degli equinozi risultano essere avvenuti un giorno prima rispetto a quelli riportati dalle sue osservazioni.

La lunghezza dell’anno, oppure la differenza tra il ritorno della stessa stella (l’anno siderale) e il ritorno agli equinozi (l’anno tropico) è direttamente connessa alla precessione. Laddove altri autori non fanno riferimento a questa scoperta di Ipparco, Tolomeo comprende la sua importanza e conferma i risultati dei suoi calcoli.

«Paragonando la distanza delle stelle dai solstizi e dagli equinozi con quelle osservate e notate da Ipparco, abbiamo anche scoperto che è avvenuta una corrispondente progressione nella direzione dei segni»[79] Paragonando una sua osservazione di

Regolo (139 d.C.) con una fatta da Ipparco, Tolomeo calcola che la stella era avanzata 2°40’ nei 265 anni trascorsi, quindi 1° ogni 100 anni. Poi confronta varie osservazioni di occultazioni o congiunzioni di diverse stelle (le Pleiadi, Spica [= α Vir], β Scorpii) con la Luna, fatte da Timocari ad Alessandria, con osservazioni analoghe di Menelao a Roma e Agrippa in Bitinia, e di nuovo scopre un aumento nella longitudine di 1° ogni 100 anni. Oggi sappiamo che la quantità fornita è troppo piccola e che il suo vero valore è 1° in 72 anni; il vero spostamento dai tempi di Ipparco era di 1° maggiore e da Timocari 1½° in più.

A causa di queste contraddizioni, gli astronomi moderni hanno spesso criticato Tolomeo in modo severo, sostenendo che egli non solo avesse avuto una considerazione del suo grande predecessore così smodata da adottare i suoi valori senza criticarli, ma che addirittura, per questo motivo, combinò e manipolò i suoi risultati basati sull’osservazione, cioè li falsificò per farli concordare. Nel grande lavoro di Delambre, Histoire de l’astronomie ancienne (1817), leggiamo:

«Tolomeo stesso fece delle osservazioni? Sono quelle che lui afferma di aver fatto, oppure calcoli derivati dalle sue tabelle ed esempi usati per capire meglio le sue teorie?»

Più avanti aggiunge: «Relativamente alla domanda principale, non riusciamo a decidere. Sembra difficile negare del tutto il fatto che Tolomeo in persona fece delle osservazioni. [...] Se, come lui afferma, avesse avuto in suo possesso molte più osservazioni, potremmo rimproverarlo di non averle comunicate e di non aver rivelato da nessuna parte ciò che sarebbe potuto essere l’eventuale errore delle sue tabelle solari, lunari e planetarie. Un astronomo che oggi si comportasse in tal modo non ispirerebbe affatto fiducia. Ma egli era solo; non aveva né giudici né rivali. Per lungo tempo, è stato creduto sulla sua stessa parola»[80] È chiaro, comunque, che non è giusto

giudicare il lavoro di Tolomeo secondo gli usi e le norme della scienza moderna. Le prospettive scientifiche nell’antichità erano diverse dalle nostre; non c’era una vera e propria ricerca sperimentale con dei criteri di valutazione ufficialmente riconosciuti; risultati basati sull’osservazione non erano considerati documenti validi. Il lavoro di Tolomeo era essenzialmente teorico; il suo scopo era di sviluppare ed esporre un quadro geometrico del mondo. L’osservazione e la teoria, come abbiamo visto con Aristarco, erano in quel tempo collegate diversamente l’un l’altra. L’osservazione era semplicemente un ampliamento della pratica, che mirava a scoprire dove si trovasse il corpo celeste. La teoria era la nuova magnifica visione del mondo e la più profonda conoscenza della sua struttura; era una filosofia che indagava l’essenza delle cose. I dati usati erano esempi o modelli, principalmente, ma non necessariamente, derivati dall’osservazione insieme a tutte le sue incertezze, non intesi come una nuova e importante conoscenza ma spesso come delle semplici verifiche facilmente accettate, di tutto il sapere passato.

Nel caso della precessione, inoltre, le fonti di errore reale non devono essere trascurate. Nell’osservazione di Regolo fatta da Tolomeo, il Sole al tramonto fu prima

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confrontato con la Luna, e la Luna bassa fu successivamente confrontata con le stelle; per effetto della rifrazione, la longitudine della stella sarebbe apparsa eccessivamente più piccola rispetto al Sole. Se la misura della longitudine del Sole è stata ricavata dalle tabelle, i loro errori dovuti agli errori nel calcolo degli equinozi sono stati trasferiti al risultato. Per dedurre la longitudine delle stelle dall’occultazione della Luna, dovevano essere utilizzate le tabelle e le parallassi della Luna, che contenevano una considerevole quantità di errori. Per via di questo grossolano metodo di misurazione del tempo, la velocità del moto lunare, 1° ogni 2 ore, permette un ampio adattamento della posizione effettiva della Luna rispetto al valore previsto. Molti dati sorprendenti di Tolomeo potrebbero essere dovuti a tali cause.

Qui vale la pena menzionare un’altra serie di dati. Per poter dimostrare che la precessione è davvero un movimento parallelo all’eclittica, così che da un lato della sfera celeste le stelle si spostano verso nord, e dal lato opposto verso il sud, Tolomeo riporta le declinazioni (la distanza in latitudine dall’equatore) per numerose stelle, come erano state misurate da Timocari e da Aristillo, da Ipparco e da lui stesso. Se dalle ampiezze dello spostamento nella declinazione, noi ora calcoliamo il valore della precessione in longitudine lungo l’eclittica, troviamo 46” ogni anno, 1° in 78 anni, non molto discorde dal vero valore. Le misure, non distorte dagli errori e dalle complessità introdotte dalle tabelle lunari e solari, sembrano buone e attendibili, con un errore medio di non più di 8’. Tolomeo, tuttavia, non possedeva le formule trigonometriche per fare un calcolo del genere.

Dopo aver trattato il Sole, Tolomeo

s’interessa della Luna. E non si accontenta di confermare i risultati di Ipparco: prova nuovi metodi propri. Dapprima controlla e corregge i moti della Luna. Per quanto riguarda il movimento quotidiano medio in longitudine, espresso in sessagesimali

(separati come sempre dalle virgole) 13°, 10, 34, 58, 33, 30, 30, e il movimento relativo al Sole, 12°, 11, 26, 41, 20, 17, 59, corrispondente a un periodo sinodico di 29d12h44m3½s e a un anno tropico di 365d5h55m, ritiene che non c’è bisogno di alcuna correzione. Per calcolare il ritorno all’apogeo (il periodo anomalistico), fece uso di tre eclissi lunari osservate a Babilonia nel 721 e 720 a.C. e le confrontò con le tre osservate da lui stesso negli anni 133, 134 e 136 d.C.

Per calcolare il periodo di ritorno allo stesso nodo, confrontò un’eclissi del 491 a.C. con un’altra avvenuta nel 125 d.C., selezionate in modo tale che tutte le altre quantità determinanti fossero le stesse in entrambi i casi. In questo modo corresse il ritorno all’apogeo calcolato da Ipparco di 0°17’ in 854 anni, basato sul rapporto 269:251, e apportò una correzione di 0°9’ in 615 anni al calcolo di Ipparco per il ritorno al nodo. I valori in gradi e sessagesimali, per il giorno, diventarono nel primo caso 13; 3, 53, 56, 17, 51, 59 e nel secondo caso 13; 13, 45, 39, 48, 56, 37. Questi valori corrispondono a un movimento retrogrado del nodo in un periodo di 6.796,26 giorni e un movimento in avanti dell’apogeo in un periodo di 3.231,62 giorni. In tutti questi movimenti quotidiani gli ultimi due sessagesimali non sono garantiti.

In questo modo, l’orbita base della Luna è un cerchio inclinato rispetto all’eclittica, con i punti di intersezione — i nodi — che retrocedono uniformemente in un periodo di 6.796 giorni, cioè 18 anni abbondanti. Per rappresentare le variazioni della velocità tra apogeo e perigeo, non viene utilizzato un cerchio eccentrico (per i motivi che adesso verranno menzionati), ma un epiciclo. Se si considera il movimento lungo l’epiciclo leggermente più lento (6’41” al giorno) rispetto al movimento dell’epiciclo stesso, si ottiene una progressione regolare dell’apogeo in longitudine. Il raggio dell’epiciclo, corrispondente al valore dell’eccentricità in un’orbita eccentrica, fu calcolato, valendosi delle eclissi, pari a 1/11,49 = 0,087, presentando una deviazione

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massima di 5°1’ rispetto al moto uniforme. Tutti questi risultati si ottengono basandosi

su eclissi lunari; l’istante centrale dell’eclissi individua la posizione della Luna con molta più accuratezza e precisione rispetto a qualsiasi misurazione diretta. Tolomeo, tuttavia, non si accontentò di questo; desiderava conoscere la posizione della Luna nelle altre regioni del suo corso. A tal fine costruì uno strumento che chiamò astrolabon, che non ha niente a che fare con ciò che più tardi venne chiamato “astrolabio”, ma che è identico alla più recente sfera armillare, o, in breve, armilla. Tolomeo fornisce una descrizione ampia e dettagliata dello strumento, che, per la sua importanza per l’astronomia, viene riprodotto in fig. 16.

Due anelli saldamente collegati

rappresentano l’eclittica e, perpendicolarmente a essa, si trova il coluro, cioè il cerchio passante per i punti estivi e invernali dell’eclittica e i poli di equatore ed eclittica. Un cerchio interno ha la possibilità di ruotare attorno a due perni che rappresentano i poli dell’eclittica; la sua posizione, in longitudine, viene letta sul cerchio graduato. Al suo interno, fornito di una sorta di mire, scorre un ulteriore cerchio graduato (il cui movimento effettivo dipende anche dalla rotazione del cerchio esterno), che permette all’osservatore di leggere la latitudine della stella che viene indicata. Questo sistema di anelli deve essere disposto in modo tale che i suoi cerchi coincidano con i cerchi sulla sfera celeste. A tal proposito può ruotare attorno a due perni

collocati nell’anello che rappresenta il coluro e fissati a un anello stabile che rappresenta il meridiano.

Innanzitutto, quindi, il meridiano e i poli vengono disposti nel giusto modo posizionando correttamente il piedistallo. Dopo che l’anello rappresentante il coluro è stato rivolto verso la longitudine del Sole, il sistema di anelli va fatto ruotare finché le mire puntano il Sole. In questo modo la posizione degli anelli rispecchia la posizione dei cerchi sulla sfera celeste e la longitudine e la latitudine di qualsiasi stella può essere letta puntando le mire verso la stella desiderata. Per disporre correttamente gli anelli, è anche possibile utilizzare come riferimento una stella nota, invece del Sole. In manoscritti successivi, fu fornito un disegno dello strumento, con tutti i suoi cerchi — esclusa naturalmente l’eclittica — disposti in un piano verticale. Per poter distinguere le loro funzioni, bisogna guardare i perni che li collegano.

Questo strumento, utilizzato in seguito anche per determinare le posizioni delle stelle fisse, servì a Tolomeo per misurare ripetutamente, durante il giorno, la longitudine della Luna rispetto al Sole. In un secondo tempo si scoprì che le misure non erano in accordo con la teoria. Al primo e all’ultimo quarto, le deviazioni massime dal corso uniforme non erano 5°1’, come per la Luna piena, ma 7°40’.

Fu proprio per rappresentare e spiegare questa “seconda anomalia“ della Luna (oggi chiamata evezione), che dipende dalla sua posizione rispetto al Sole, che venne introdotto un epiciclo per la prima anomalia. Il meccanismo ideato da Tolomeo rende la sua distanza dalla Terra alternativamente più piccola e più grande rispetto alla Luna piena e alla Luna nuova. Effettivamente, scende fino al centro dell’epiciclo, descrivendo, nell’arco di un mese, non un cerchio ma un ovale; sia la distanza massima che la distanza minima si riscontrano due volte al mese e l’asse maggiore ruota lentamente, sempre in direzione del Sole. Formalmente, per poter seguire la regola dell’astronomia greca secondo la quale tutti i movimenti

Fig. 16.

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devono essere circolari, Tolomeo suppone che il circolo deferente ruoti nella direzione opposta, così che il centro dell’epiciclo, nella sua rivoluzione mensile, incontri due volte sia l’apogeo che il perigeo. L’eccentricità del deferente lunare determina il rapporto (il rapporto di 7°40’ e 5°1’) della distanza nel perigeo e apogeo da (1 - 0,21) a (1 + 0,21); i valori stessi dipendono dalla dimensione dell’epiciclo, 0,106 volte il raggio del deferente (vedi fig. 17).

Quindi, in un modo ingegnoso, le due

irregolarità del movimento della Luna vengono rappresentate da un sistema di movimenti circolari, ma con il risultato che la distanza della Luna dalla Terra potrebbe cambiare tra (1,21 + 0,11) e (0,79 – 0,11) e in questo modo cambierebbe anche la sua dimensione apparente nello stesso rapporto, cioè 33 a 17. Ora, chiunque osservi per puro caso la Luna può constatare, senza aver bisogno di alcuno strumento di misurazione, che questo non è vero: la Luna non presenta, in certe circostanze (al primo e ultimo quarto), una dimensione doppia rispetto alla Luna piena. Quindi la teoria non può certamente rappresentare il movimento reale attraverso lo spazio. È stato detto che non importa se sono ben riprodotti soltanto i movimenti apparenti osservati: la struttura dello spazio è solo un mezzo formale per rappresentare il corso visibile dei corpi celesti. Quest’affermazione, comunque, non è attendibile nel caso della Luna; anche le parallassi, che incidono sulla posizione visibile della Luna, sarebbero variabili nello stesso inaccettabile rapporto. Tolomeo successivamente descrive uno strumento per misurare la parallasse della Luna (fig. 18). Si tratta di uno strumento per misurare la

distanza angolare di un oggetto dallo zenit, lungo il meridiano: un’assicella inclinata, la cui estremità superiore è collegata ai cardini di un’asta verticale in modo da poter descrivere un piano verticale, viene indirizzata verso la Luna tramite due mire. La sua inclinazione non viene letta su un arco circolare ma su una bacchetta graduata che sostiene la sua estremità inferiore e che viene fissata a un punto più basso dell’asta, rappresentando in questo modo la corda d’arco tra la Luna e lo zenit. Inizialmente Tolomeo ne fece uso per determinare l’altezza meridiana della Luna nel momento della sua massima deviazione verso nord rispetto all’eclittica, ottenendo, per l’inclinazione dell’orbita della Luna sull’eclittica, un valore di 5°0’. In un secondo tempo, per poter calcolare la parallasse della Luna, Tolomeo misurò la sua distanza zenitale quando, nel suo punto più alto, la parallasse è notevolmente piccola, e una seconda volta nel suo punto più basso, quando la parallasse è grande; poiché si assume che l’orbita sia simmetrica al nord e al sud dell’equatore, è possibile desumere il valore della parallasse.

«Da un certo numero di osservazioni della parallasse da noi eseguite in determinate posizioni, ne comunicheremo una per dimostrare l’andamento del calcolo e derivarne l’ulteriore conclusione»[81] Si tratta di un’osservazione eseguita il 1°

ottobre 135 d.C., che fornì una parallasse di 1°7’ a distanza zenitale 49°48’, cioè una distanza di 39¾ raggi della Terra. I punti cuspidali dell’ovale orbitale si trovano quindi a una distanza di 59 raggi terrestri e i suoi lati piatti a 38 e 43/60; questi valori si possono considerare alla base delle sue tavole della parallasse. Un lettore moderno

Fig. 17.

Fig. 18.

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potrebbe chiedersi con sorpresa se tutte le altre osservazioni relative alla parallasse, non comunicate, potessero concordare e il perché sia stata scelta proprio questa. Invece, il filosofo antico si sarebbe ‘esaltato’ nel vedere il modo in cui cose tanto straordinarie e complesse, come la distanza e il movimento della Luna, vengano trattate usando un calcolo così semplice e preciso. I valori estremi della parallasse che ora appaiono nelle sue tabelle sono 53’34” e 63’51” (i punti più in alto e più in basso dell’epiciclo) per i punti cuspidali (Luna piena e Luna nuova) e 79’ e 104’ ai lati piatti (primo e ultimo quarto). L‘estensione di questi numeri supera certamente di molto gli estremi reali della parallasse della Luna. In questa struttura teorica, Tolomeo divenne vittima del suo stesso principio, volendo spiegare tutte le particolarità del corso della Luna per mezzo di un sistema di cerchi uniformemente descritti.

La deduzione delle dimensioni dei corpi

celesti e della distanza del Sole fu il passo successivo. Usando una diottra, come quella di Ipparco, si rese conto che il diametro del Sole sembrava costante e uguale alla Luna piena alla sua massima distanza. Ciò significa che le eclissi solari anulari non possono verificarsi. Per quanto riguarda la determinazione dei diametri, egli non considerava questo metodo sufficientemente preciso; così continuava a dedurli valendosi della teoria, tramite gli elementi conosciuti relativi alle orbite. Considerò due eclissi lunari osservate a Babilonia, avvenute quando la Luna era alla sua massima distanza dalla Terra. Una fu l’eclissi del 22 aprile del 621 a.C.; un quarto del diametro della Luna venne eclissato; secondo i calcoli la Luna si trovava a una distanza di 9°20’ dal nodo, così che il suo centro era a 48°30’ a nord dell’eclittica. Nell’altra eclissi, avvenuta il 16 luglio del 523 a.C., venne eclissata la metà del suo diametro; e, con una distanza di 7°48’ dal nodo, la latitudine del suo centro risultò 40’40”. Questo, quindi, è il raggio dell’ombra, e la differenza del valore precedente, 7’50”, è la metà del

raggio del disco lunare. «Quindi il semidiametro dell’ombra è soltanto di poco (4”) più piccolo di 23/5 volte il semidiametro della Luna, 15’40”. Poiché da un certo numero di osservazioni analoghe abbiamo ottenuto risultati numerici pressoché concordanti, li abbiamo utilizzati nei nostri studi teorici sulle eclissi e per la deduzione della distanza del Sole»[82] La deduzione della distanza del Sole fatta

da Tolomeo, che appare come un’intricata manipolazione di sezioni triangolari e circolari dei corpi sferici e della loro ombra, giunge alla stessa relazione di quella di Ipparco che abbiamo menzionato nel Capitolo 12, ma ora viene utilizzata in maniera differente; dalla somma totale dei raggi dell’ombra e del Sole, 40’40” e 15’40”, diminuita della parallasse lunare alla massima distanza della Luna piena, 53’34”, restano 2’46” per la parallasse solare, così che la distanza del Sole è pari a 1.210 volte i raggi della Terra. Questo implica che il diametro del Sole è 5½ volte maggiore, e il volume è 170 volte maggiore rispetto a quello della Terra. Per la Luna i valori sono 3 3/5 volte e 39 volte più piccoli.

Per un lettore moderno questa intera deduzione è illusoria. Le affermazioni approssimative che un quarto o una metà del diametro lunare fu oscurato — inevitabilmente approssimativo poiché l’orlo dell’ombra non era ben definito — potrebbero avere un errore di vari minuti e, quindi, la parallasse solare potrebbe completamente svanire. Per Tolomeo, comunque, il fatto doveva essere stato abbastanza diverso. Il carattere e lo scopo della deduzione sono teorici, un’interpretazione dei collegamenti geometrici dei fenomeni e delle quantità. Come tale, si potrebbe dire che questa deduzione dimostra l’alto punto di vista dell’astronomia greca. Il fatto che l’astronomo sia, in teoria, capace di dedurre la distanza del Sole osservando le eclissi lunari, dimostra fino a che punto l’uomo sia progredito nella conoscenza della struttura del mondo.

Il sesto libro di Tolomeo è dedicato al

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calcolo delle eclissi solari e lunari sulla base di questa teoria del Sole e della Luna. In questa trattazione sulle eclissi, che è fondamentalmente diversa rispetto al metodo caldeo, vediamo riflessi i differenti caratteri di entrambe le astronomie. A Babilonia, le serie continue di eclissi furono costruite come una totalità e completate da un continuo elenco, pur se irregolare, di indici delle eclissi. Nel trattato di Tolomeo, ogni eclissi viene calcolata separatamente sulla base di tavole astronomiche, dalle quali è possibile dedurre, per ogni momento, le differenze longitudinali, gli archi anomalistici e le distanze dai nodi; una tavola, in particolare, indica la distanza dal nodo che corrisponde all’eclissi di grandezza 1, 2, ecc. I gravi errori trovati nelle sue parallassi lunari sopra menzionate non interferiscono, in questo caso, perché il fenomeno dell’eclissi accade nelle vicinanze della Luna piena e della Luna nuova.

Dopo il Sole e la Luna, Tolomeo trattò le

stelle. Il lavoro di Tolomeo contiene il primo catalogo pubblicato di stelle fisse [ndr: che ci sia stato tramandato], contenendo 1.022 stelle, nel quale vengono riportate le coordinate relative all’eclittica, alla longitudine e alla latitudine, insieme alla luminosità, qui indicata con la parola “magnitudine”. Le stelle sono raggruppate in costellazioni (una parte delle stelle, chiamate “senza forma”, ne resta esclusa) e descritte dalle regioni che occupano.

I valori di luminosità sono riportati come prima, seconda, terza, sesta magnitudine, mentre, per alcune stelle, vengono aggiunte per una maggiore precisione le parole “più grande” e “più piccola”; queste espressioni sono rimaste inalterate attraverso i secoli successivi. Le longitudini sono generalmente di 1° troppo piccole; questo, secondo le spiegazioni di Tolomeo, è dovuto al fatto che si è servito del catalogo di Ipparco, cambiando le longitudini per la precessione con una correzione di 1° in meno, 2°40’ invece di 3°40’. Comunque, come sopra menzionato, è probabile che la precessione da lui calcolata si basasse sulle proprie

osservazioni. Si è supposto che egli abbia derivato una lista di oltre 800 stelle osservate da Ipparco, senza eseguire ulteriori misure e che abbia aggiunte 170 stelle, soprattutto piccole. Si presume ciò in base al fatto che le longitudini vengono riportate per lo più in sesti di grado, ma per alcune stelle in quarti; questi sesti e quarti dovevano perciò corrispondere alle graduazioni usate dagli strumenti. Finora, non ci è dato saperlo. Gli errori casuali sono certamente maggiori rispetto a queste unità di lettura del cerchio diviso; un confronto con dati moderni dimostra che le longitudini hanno un errore medio di 35’, e le latitudini di 22’.

Per sei stelle, Tolomeo aggiunge un commento relativo al loro colore; le chiama hypokirros, cioè giallastre. Si tratta di Aldebaran, Betelgeuse, Arturo, Antares, Polluce e Sirio; le prime cinque sono stelle di prima magnitudine, oggi vengono denominate “rosse” o “rossastre”. Facendo uso dell’aggettivo “rosso”, il colore reale viene esagerato, come per Marte, che ci appare di un rosso fuoco, sebbene risulti giallastro attraverso un telescopio. Quindi, la descrizione di Tolomeo è più giusta, ed egli doveva averle viste come le vediamo noi, con l’eccezione di Sirio, che noi conosciamo di colore bluastro-bianco. Il fatto che Tolomeo l’abbia descritta con un colore rossastro ha molto stupito nei secoli successivi, e autori moderni hanno spesso addirittura supposto che Sirio possa aver cambiato colore dall’antichità. Che non sia trattato casualmente di un errore di copiatura si può dedurre dal fatto che nella letteratura Romana rubra canicula viene spesso riferito alla rossa Stella-Cane, la calda e ardente stella che porta con sé il calore dell’estate. In un testo cuneiforme viene menzionata la stella Kak-si-di, la quale sorge nelle sere di fine autunno e «brilla come il rame»[83] Comunque, un tale cambiamento catastrofico da una stella rossa a una stella blu viene assolutamente escluso dagli astrofisici. Inoltre, nel poema di astronomia di Manilio troviamo un riferimento a Sirio che dice: «Poiché è molto lontana, getta raggi freddi dal suo volto blu- azzurro». La

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spiegazione più plausibile potrebbe essere che il colore di Sirio, già visibile mentre sorge, sia dovuto alla lunga distanza attraverso cui viaggiano i suoi raggi nell’atmosfera; questo vale soprattutto per l’Egitto, dove fu osservata soprattutto al suo sorgere eliaco come stella arrossata vicino all’orizzonte. Inoltre il colore attribuito alle stelle e ai pianeti da autori romani spesso indica il loro carattere astrologico, piuttosto che fisico; e così, “nero” veniva usato quando si faceva riferimento a Saturno.

Dopo il catalogo delle stelle, Tolomeo fornisce una descrizione dettagliata della Via Lattea, che nei secoli successivi, fino al diciannovesimo secolo, non è stata replicata o migliorata; solamente nella seconda metà di quel secolo fu superata da ricercatori più attenti. Quindi, un capitolo intero viene dedicato alla costruzione del globo celeste per descrivere le stelle catalogate. «Per il fondo scegliamo una tinta più scura che più corrisponde al buio serale che al cielo di giorno»[84] Tolomeo descrive in dettaglio il modo in cui, tramite anelli graduati, le stelle vengono inserite come punti secondo la loro longitudine e latitudine. «Infine, per le stelle gialle o di qualsivoglia colore regoliamo l’intensità del loro particolare colore in una misura tale da corrispondere alle magnitudini delle stelle». Le figure delle costellazioni sono indicate solo da linee appena visibili e non da colori forti; anche la Via Lattea è descritta con le sue parti luminose e con i suoi spazi. Così, il globo celeste di Tolomeo deve aver sorpassato tutti quelli precedenti con una rappresentazione precisa del cielo. Egli lo utilizzò per studiare e leggere, per qualunque luogo di osservazione, i fenomeni e le posizioni delle stelle relativamente ai vari cerchi, e soprattutto all’orizzonte, cioè il loro sorgere e il loro tramontare.

La parte rimanente e più importante del lavoro di Tolomeo, cioè gli ultimi cinque libri, è dedicata allo studio dei pianeti, in un’esposizione della teoria dell’epiciclo, la teoria delle loro orbite, come soprammenzionato. Egli fornisce delle tabelle per tutti i movimenti, relativi sia al

deferente che all’epiciclo, permettendo così un rapido calcolo della loro longitudine; nell’ultimo libro vengono anche fornite le tabelle per il calcolo delle latitudini. Infine, Tolomeo trattò il calcolo di posizioni particolari e di fenomeni rilevanti come le stazioni, le levate e i tramonti eliaci e le massime elongazioni di Mercurio e Venere, che erano all’origine dell’astronomia, occupando un posto di rilievo nell’astronomia babilonese. L’elaborata teoria, che descrive e tratta ogni irregolarità, è in grado di fornire tutte queste misure in modo abbondantemente dettagliato. Qui, la teoria greca ha superato le tabelle numeriche dei Caldei. Vengono fornite le tavole delle elongazioni nelle stazioni per consecutivi valori di longitudine e anche tavole delle massime elongazioni di Venere e Mercurio e delle levate e dei tramonti eliaci per il primo punto di ogni segno zodiacale.

Quindi, in questo grande manuale di astronomia antica, il Mathematikè Suntaxis, il mondo dei corpi celesti ci appare come un universo disegnato secondo precise regole geometriche. È una rappresentazione di orbite circolari in movimento perpetuo, che obbedisce a determinate leggi, un disegno ricco di semplici armonie, un cosmos, ossia un ornamento. Si manifesta attraverso una lineare progressione di dimostrazioni esatte, prive di elementi di disturbo o di irregolarità. I dati forniti sono selezionati e modellati con dei limiti tali che le dimostrazioni ottengono un riscontro perfetto e nessuna deviazione casuale — che necessiterebbe di spiegazioni e che, potendo lasciare un senso di dubbio, disturberebbe l’armonia della costruzione — può distogliere l’attenzione del lettore. Inoltre, il libro, l’opera dell’autore, doveva conformarsi a un determinato standard di perfezione, sia nella forma che nella lavorazione. In quel periodo l’attività mentale era considerata paragonabile all’attività artigianale; come l’artigiano doveva rimuovere dal suo prodotto ogni irregolarità che potesse turbare la vista dal godere dell’armonia pura di forme e linee, anche l’attività mentale doveva accattivare l’occhio e la mente con la pura

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presentazione dell’universo nella sua immagine matematica.

La geometria occupava un posto di rilievo nella cultura Greca come l’unica scienza astratta ed esatta del mondo visibile. Per via della sua struttura rigidamente logica, procedendo dall’assioma e da proposizione a proposizione, spiccava come miracolo della mente umana, un monumento di verità astratte, al di là del mondo materiale, e nonostante la sua apparenza visuale, come un qualcosa di puramente spirituale. L’originariamente piccola particella di utilità nella geodesia egiziana difficilmente reggeva il confronto con la grande struttura teorica di Euclide. Senza dubbio la sphaerica, cioè la dottrina della sfera e dei suoi cerchi, ha trovato nell’astronomia un’ampia applicazione pratica nella descrizione della sfera celeste, nelle levate e nei tramonti delle stelle, e per questo è stata utilizzata e insegnata nei secoli successivi. Ma la geometria della sfera era solo una piccola parte della geometria. L’intera scienza di linee e di angoli, di triangoli, di cerchi e di altre figure, con le loro relazioni e proprietà, era una dottrina puramente teorica che fu studiata e coltivata per la sua bellezza intrinseca.

Adesso, dunque, era giunto il momento della scienza inerente i movimenti planetari, e il lavoro di Tolomeo era visto come un’espressione pratica della teoria. Quelle che altrimenti sarebbero state delle verità immaginate, esistenti soltanto nella fantasia, diventavano una realtà nella struttura dell’universo. Ora esse acquistavano forma e valore e una certa importanza. Nel mondo dei pianeti i cerchi si muovevano, le distanze si dilatavano e si riducevano, gli angoli si ampliavano e si contraevano e i triangoli mutavano la loro forma, in una solenne progressione senza fine. Se consideriamo l’astronomia greca come la più antica e sicuramente l’unica vera scienza naturale dell’antichità, dobbiamo anche valutare il fatto che si trattava di una sorta di geometria concretizzata; era l’unico campo, in effetti, nel quale la geometria poteva davvero materializzarsi. E invece, al di fuori di

questo mondo dell’astronomia, la pratica per gli studenti di geometria sarebbe stata limitata a superficiali esercitazioni con figure immaginarie e autocostruite. L’astronomia era un vero e proprio regno, forse l’unico ma sicuramente il più grandioso, nel quale le figure avevano la possibilità di divenire cose reali, di avere una forma e una dimensione ben definita. In questo regno le figure potevano vivere di vita propria e avevano un significato e un contenuto: le orbite dei divini corpi luminosi. Quindi la Composizione Matematica era una rappresentazione della geometria, e una celebrazione della più profonda creazione della mente umana nella rappresentazione dell’universo. Non possiamo meravigliarci del fatto che Tolomeo, in una massima di quattro righe che precede il suo lavoro, abbia detto che

«nello studio delle orbite a spirale delle stelle, i miei piedi non toccano terra e, seduto al tavolo di Zeus in persona, vengo nutrito dall’ambrosia celeste». Il suo lavoro non era comunque finito.

Alzandosi dal tavolo di Zeus, doveva entrare nella sala del consiglio degli dèi, per sentire come avrebbero trasmesso i loro comandamenti ai mortali. Non fu un distaccato desiderio di conoscere i movimenti celesti a incitarlo, come per i suoi predecessori e i suoi contemporanei. La comprensione di questi movimenti era un espediente per il raggiungimento del più alto obiettivo della conoscenza pratica degli eventi futuri sulla Terra, della vita e del destino di tutta l’umanità. Quindi, ai 13 libri ne seguirono altri quattro, che furono pubblicati separatamente e acquisirono successivamente il nome Tetrabiblos [ndr: da quello originario Ton pros Siron apotelesmatikon (Previsioni astrologiche dedicate a Siro)] In tempi moderni, dubitando dell’autenticità della paternità dell’opera, sono stati fatti molti sforzi nel tentativo di assolvere questo grande astronomo dalla colpa di aver creduto nella superstizione astrologica. Ma, nel suo lavoro puramente astronomico, possiamo anche

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trovare un’affermazione di questo genere: alla fine dell’ottavo libro, che parla delle levate e dei tramonti eliaci, egli dichiara che le loro influenze sul clima non sono invariabili ma dipendono anche dalle opposizioni al Sole e dalla posizione della Luna.

Nei quattro libri, comunque, Tolomeo fornisce una teoria generale riguardo l’influenza dei corpi celesti sugli eventi terrestri e sull’uomo. A un certo punto dice:

«Che una certa energia scaturisca e si diffonda dal mondo eterno dell’etere fino a tutto ciò che circonda la Terra e che sia totalmente soggetta a mutamenti; e che i primi elementi sublunari, il fuoco e l’aria, siano racchiusi e modificati dai movimenti dell’etere; e che essi a loro volta comprendano tutte le altre cose, la terra e l’acqua e le piante e gli animali — queste nozioni sono assolutamente chiare a tutti e tuttavia necessitano di un piccolo commento. Per quanto riguarda il Sole e i suoi dintorni, esso in qualche modo impone sempre il suo ordine su tutto ciò che si trova sulla Terra, non solo con i cambiamenti che accompagnano le stagioni dell’anno, la procreazione degli animali, i frutti generati dalle piante, il flusso delle acque e i cambiamenti dei corpi, ma anche con le sue rivoluzioni quotidiane. […] La Luna, che è il corpo più vicino alla Terra, dona a essa il suo efflusso; molte cose, animate e non, ne sono attratte e cambiano insieme a essa: i fiumi aumentano o diminuiscono il loro flusso con la sua luce, i mari cambiano la loro marea con il suo sorgere e il suo tramonto, e le piante e gli animali, del tutto o in parte, si rinvigoriscono oppure s’indeboliscono insieme a essa. […] Anche il passaggio delle stelle fisse e dei pianeti fornisce numerosi presagi di condizioni di caldo, di vento e di neve nei dintorni, per cui anche tutto ciò che vive sulla Terra ne viene condizionato. Quindi, anche le loro posizioni relative, dovute all’incontro e alla mescolanza della loro distribuzione, comportano numerosi e complicati cambiamenti. Anche se il potere del Sole influisce enormemente sull’ordine generale, gli altri [corpi] possono, se pur minimamente, amplificare o attenuare i suoi effetti; la Luna lo fa in modo più evidente e continuo, ad esempio nelle sue congiunzioni, ai quarti di Luna o nei pleniluni; le stelle lo fanno a intervalli più lunghi e in maniera meno evidente, come nelle loro apparizioni, occultazioni e avvicinamenti».

Naturalmente, all’uomo si manifestano anche effetti che scaturiscono da altri avvenimenti: la discendenza, il luogo di

nascita, la nazionalità, la crescita; inoltre, una mancanza di abilità e di conoscenza porta spesso a previsioni errate. Ma ...

«non sarebbe giusto rifiutare ogni previsione soltanto perché potrebbe essere sbagliata, così come non si dovrebbe screditare il comportamento del maestro per i suoi errori. […] Neanche dovremmo pretendere, per quanto sia umano, di cercare di sapere tutto sul mondo sensibile, ma piuttosto dovremmo cominciare ad apprezzare la sua bellezza»[85] Poi seguono spiegazioni dettagliate, prima

sulle caratteristiche e sugl’influssi di ciascun pianeta, poi sulle stelle fisse e sui segni zodiacali, i cui effetti si combinano o contrastano con diversi pianeti, e, ancora oltre, sui territori che sono associati con questi vari pianeti e che si trovano quindi sotto la loro influenza. Nei libri successivi vengono spiegati il metodo e le previsioni basilari, dapprima per il clima e poi, attraverso gli oroscopi, per l’uomo, e non solo per quanto riguarda il carattere o gli eventi del corpo e dell’anima, ma anche per le ricchezze materiali e la felicità. Visto che i dati fondamentali — le posizioni dei corpi celesti in ogni momento — vengono forniti da calcoli astronomici registrati in libri precedenti, anche la scienza con i suoi scopi pratici risulta ora completa.

Così, il lavoro di Tolomeo si erge a grande

monumento della scienza dell’antichità. Durante la sua vita e la sua opera, sotto gli imperatori Adriano e Antonino, regnò pace e prosperità nell’Impero Romano. Era come se, dopo tutte le precedenti lotte e il caos delle guerre di conquista e della guerra civile, l’umanità civilizzata, ora unita, fosse finalmente entrata in un’era di raggiante pace, di armoniosa cultura e di tranquilla sicurezza. Eppure questa società era corrotta nell’anima. Il bagliore del tramonto dell’antichità sparse il suo ultimo fulgore su un mondo logorato. Poco tempo dopo, verso la fine del secondo secolo, iniziarono i tumulti che, nell’arco di un solo secolo, avrebbero indebolito il potere dell’impero mondiale e, dopo un altro secolo, devastato le fondamenta del mondo antico e della sua

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cultura. Non è questa la sede adatta per discutere

sull’insieme di cause che portarono a questa caduta; inoltre esiste una pluralità di opinioni sul legame tra il fenomeno e i suoi vari aspetti. Innanzitutto, c’è da considerare il fatto che il sistema di manodopera si basava sulla schiavitù che, come un cancro, corrose l’intero sistema di vita dell’antichità, e che, con la fine delle guerre di conquista e il controllo dell’offerta di schiavi, si risolse in un ritorno allo stato primitivo. Un’altra causa importante fu la scomparsa della moneta d’oro e d’argento — dovuta all’esaurimento delle miniere spagnole e all’importazione di beni di lusso dall’India — con il risultato di una paralisi commerciale e un’interruzione nella produzione per la vendita e con il ritorno all’agricoltura primitiva a uso privato. Ciò fu motivo di un pauroso declino per il potere finanziario dello Stato. Arrivò in seguito una terribile pestilenza, che tornerà nel 188 d.C. a opera degli eserciti asiatici, con un tasso di 2000 morti al giorno nella sola Roma. Si diffuse in tutti i paesi e imperversò per molti anni, distruggendo il potere militare dell’Impero. A questo punto si colloca l’arrivo delle tribù barbariche che, dopo le devastanti irruzioni, si stabilirono nelle zone disabitate. È stato fatto anche riferimento allo sterminio delle classi dirigenti, della nobiltà e dei cittadini possidenti, da parte degli eserciti contadini e dei loro imperatori-soldati. Infine, dopo un secolo di declino ininterrotto, ci fu l’insediamento di un governo di ufficiali dispotici, finché nel secolo successivo l’Impero d’Occidente fu interamente conquistato dal popolo armato dei Teutoni.

Nel caos dovuto alla devastazione e alla rovina assoluta dell’antica società, crollò anche la cultura dell’antichità. Tra le masse, spogliate della speranza e prive di futuro, nacque un nuovo modo di concepire la vita, lontano dal mondo reale; sforzandosi di renderlo accettabile attraverso filantropia e aiuti reciproci, trovarono conforto e rifugio nella credenza di una futura vita migliore. Il cristianesimo prese sempre più il posto delle

religioni antiche, combatté con successo contro i sistemi filosofici pagani e, con il declino dell’antico potere statale, si affermò come organizzazione spirituale e sociale.

Con questa idea di un nuovo mondo, celata ai saggi, ma rivelata alla gente semplice, non c’era più posto per la scienza estremamente sviluppata dell’antichità. Il disegno cosmologico del mondo venne sostituito dall’originario insegnamento biblico della Terra piatta, che sicuramente ben si accordò con il ritorno a metodi di produzione primitivi — agricoltura per la casa e per tributi e tasse. Poiché gli scrittori Cristiani del secondo e del terzo secolo erano molto abili nel polemizzare contro i filosofi pagani, nei secoli successivi le idee dei padri della chiesa si fecero più semplici. Lattanzio ridicolizzò la dottrina della Terra sferica e Cosma Indicopleuste, viaggiatore verso l’India, descrisse, nel Libro dell’Ecclesiaste, servendosi di effusioni poetiche, una Terra piatta e quadrata.

Così fu fuori discussione un progresso dell’astronomia dopo Tolomeo. In questi secoli i testi astronomici sono principalmente riassunti e commentati, contenenti spiegazioni relative alle opere classiche, inclusi gli scritti di Tolomeo. Per noi sono molto importanti poiché ci forniscono dettagli su opere perdute. Questi commentatori dei testi classici non sono stati ricercatori, ma studiosi, apprezzati dai loro contemporanei per il loro sapere e non per le loro azioni. Tra di questi, vi era Proclo, soprannominato Diacono (il successore), che lavorò ad Atene nel quinto secolo come l’ultimo dei filosofi pagani; scrisse un utile commentario riguardo le parti più elementari di Tolomeo. Poco dopo si colloca Simplicio, famoso commentatore di Aristotele, che, espulso dalla Chiesa Bizantina nel 529 d.C., trovò un rifugio temporaneo in Persia. Egli cita un suo insegnante, Ammonio di Alessandria, il quale fece osservazioni relative ad Arturo per mezzo di un astrolabio. In questi commentari i principali contenuti sono formati a partire dai principi più semplici; il livello scientifico raggiunto da Tolomeo era scomparso. Nella parte

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relativa all’astronomia delle opere di Isidoro, arcivescovo di Siviglia nel settimo secolo, molto apprezzato per la sua cultura, si affermava che le stelle ricevono la luce del Sole e che la Luna piena impiega 8 anni per ruotare, Mercurio 20, il Sole 19 e Marte — anche conosciuto come ‘Stella della sera’ —

15, dimostrando, in questo modo, di quanto fosse diminuito il livello di conoscenza astronomica nell’Europa occidentale.

Nel secolo successivo, però, dal vicino oriente si fece avanti un nuovo potere, l’Islam, che fece rinascere, in quelle zone, un germoglio di antica astronomia.

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CAPITOLO 15

L’ASTRONOMIA ARABA Alla metà del settimo secolo d.C. gli Arabi si diffusero al di fuori dei loro deserti e conquistarono le vicine regioni civilizzate, prima l’Egitto e la Siria, che era allora parte dell’impero bizantino, e poi la Mesopotamia, il prosperoso nucleo del nuovo impero persiano. Si trattava di una ripetizione di analoghe precedenti espansioni, come le conquiste semite di Babilonia dopo il 2000 a.C. e la successiva invasione aramaica della Siria. Non sappiano esattamente la causa di tali migrazioni; spesso eventi climatici, come forti siccità, ne erano la causa. Nei più sviluppati centri commerciali e d’affari, nella regione nordoccidentale dell’odierna Arabia Saudita, l’Hegiaz, Maometto, influenzato dalle religioni ebraica e cristiana, fondò e diffuse la sua dottrina che era di riunire le tribù sempre divise e in guerra reciproca in un’unità — la dottrina dell’Islam — la fratellanza di tutti i fedeli, davanti alla quale tutti i vecchi vincoli familiari e tribali dovettero cedere il passo.

Gli Arabi, un popolo di forti e rudi uomini, nomadi e cammellieri, orgogliosi combattenti e predoni, fantasiosi possessori di un linguaggio ornato e di ricca poesia, ora divengono padroni dell’Asia Minore. Con la loro fresca primitiva forza e l’intensa nuova ideologia dell’Islam, gli Arabi diedero un potente impulso allo sviluppo economico e culturale di quella parte del mondo, portandola a un ricco sviluppo. Attraverso le loro conquiste crearono un impero mondiale esteso dalle coste atlantiche, in Spagna e Marocco, all’India e alle steppe dell’Asia centrale. Qui si svilupparono mestieri e commercio, portando un’ampia unità economica tra regioni molto distanti. Come comunità religiosa, l’intero regno rimase un’unità culturale perfino quando politicamente si divise in un numero di sultanati indipendenti. In tutte queste regioni, principalmente nelle fertili pianure

di Mesopotamia, Siria, Egitto e Andalusia, gli artigianati artistici si svilupparono in un certo numero di città fiorenti. I commerci, portando i prodotti di Cina e India a ovest, dei Bizantini e dell’Europa a est provocò un interscambio di cultura e scienza. I potenti capi, prima i califfi a Bagdad, poi i sultani dei più piccoli paesi come l’Egitto e più tardi ancora i conquistatori Turchi e Mongoli dall’Asia centrale, divennero promotori e protettori delle arti e delle scienze.

Fu l’interesse per la sicurezza della propria vita e del futuro a destare nei saggi principi un diretto interesse per le scienze. La medicina, per mantenere la salute e la vita, e l’astronomia, per assicurarsi il futuro e il proprio destino, tennero un primo posto fra le altre scienze. Gli scienziati musulmani — noi li chiamiamo Arabi benché di nascita fossero Siriani, Persiani, Giudei e più tardi nativi di altri paesi — erano più famosi come fisici e astronomi e in questo ambito coltivavano la matematica, la chimica, la filosofia. Generalmente queste scienze erano correlate; i medici, come nei secoli successivi in Europa, dovevano conoscere l’astrologia per trovare il tempo propizio per i diversi trattamenti. Comunque, nel Mondo musulmano c’era una richiesta diretta per la conoscenza astronomica: essendo il loro un calendario puramente lunare, l’osservazione della Luna era fondamentale. Un preciso segnatempo per mezzo di orologi ad acqua e meridiane doveva indicare i momenti prescritti per la preghiera; poiché quando si pregava la faccia doveva essere rivolta verso la Mecca, gli esperti astronomi dovevano indicare quella direzione nelle moschee sparse per il Mondo.

La scienza antica fece il suo ingresso nel primo sviluppo del califfato di Bagdad nell’ottavo secolo. Le primitive conoscenze erano fornite dai cristiani Nestoriani, che si erano rifugiati in Persia dalle persecuzioni

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della chiesa di Bizanzio e lì avevano fondato delle scuole. Divenne, tuttavia, più importante il contributo culturale dell’India. Dopo la conquista di Alessandro e dei successivi capi macedoni della Battriana, la scienza greca aveva prodotto un filone in India. Qui, sotto la dinastia Gupta in Hindustan (c. 400-650 d.C.), sorse una letteratura di scritti matematici e astronomici chiamati Siddhanta, provenienti da diversi autori, fra i quali il più conosciuto è Brahmagupta. In questi lavori si incontra la descrizione greca del mondo, la Terra sferica e le orbite epicicliche dei pianeti, meno dettagliate in confronto a Tolomeo e senza equante. Qualche volta è menzionata perfino una rotazione della Terra.

Dall’India l’influenza ora tornava a ovest. Si racconta che, nel 773, si presentò al califfo Al Mansur, un uomo dall’India che era pratico di stelle e poteva calcolare le eclissi. Al che il califfo ordinò la traduzione dei libri indiani. Le prime tavole astronomiche furono pubblicate nel secolo successivo da Muhammad ibn-Musa al-Khwarizmi. Che queste tavole siano state tradotte dalle originali indiane è evidente dal fatto che tutti i valori erano dati per il meridiano di Udshain, la capitale di uno stato nell’India centrale e sede di un osservatorio. La teoria era carente in questi lavori; consistevano solo di tavole numeriche con istruzioni per l’uso, intese per calendari e scopi astrologici. Introdussero una considerevole innovazione nell’aritmetica occidentale: il sistema indiano dei numerali (con valore posizionale e lo zero per il posto vuoto) che in seguito in Europa sarà chiamato ‘numerale arabo’. Si destò un notevole interesse, le traduzioni siriane di molti autori greci che persistevano attraverso i Nestoriani, erano ora tradotte in arabo. Il califfo Harun al-Rashid ordinò che venissero raccolti i manoscritti greci; più appassionato ancora fu il suo figlio e successore Al-Ma’mum (che regnò dal 813 al 833), che in un trattato di pace con l’imperatore bizantino stipulò la consegna di numerosi manoscritti greci. Fra quelli c’era l’opera di Tolomeo che, sin dall’antichità, era conosciuta come ‘la grandissima

(megiste) composizione’ e ora, dalla combinazione con l’articolo arabo al, prende il nome Almagesto, col quale sarà conosciuto in Europa secoli più tardi. Una traduzione araba del 827 è nella biblioteca dell’Università di Leida.

Così furono posti i fondamenti per gli studi astronomici. Un lavoro sugli elementi di astronomia, consistente di un sommario ragionato di Tolomeo, fu scritto da Al-Farghani (nei libri medievali europei ‘Alfraganus’). Più diffuso fu il lavoro contemporaneo sull’astrologia di Jafar Abu Ma’shar (in Europa ‘Albumazar’), che trattava le posizioni dei segni e dei pianeti e il significato di questi. Durante l’intero Medioevo fu considerato un lavoro standard e fu uno dei primi libri a essere stampato, ad Augusta nel 1486. Altri numerosi libri sull’astrologia apparvero nel nono secolo, il primo periodo nello sviluppo della conoscenza araba. Fra i tanti autori di astronomia, matematica e medicina, Thabit ibn Qurra (826-901) è conosciuto soprattutto per la sua teoria sulla ‘trepidazione’. Poiché Tolomeo aveva stabilito la precessione pari a 1o per secolo, mentre successivamente si era trovato un movimento più rapido, si concluse che era variabile e consisteva in un’oscillazione degli equinozi. Un’altra oscillazione fu indicata dalla diminuzione dell’obliquità dell’eclittica da 23o 511/3’, valore di Tolomeo, a 23o 34’ o 35’ come misurato dagli astronomi arabi. Thabit combinò queste oscillazioni nella teoria per la quale il punto zero dell’eclittica descrive un piccolo cerchio di 4o di raggio in 4.000 anni sovrapposto alla retrogradazione uniforme. Questa teoria fu accettata durante il Medioevo e, a causa della sua complicata peculiarità, ha dato molte difficoltà agli astronomi. Ciò mostra come i dotti arabi non fossero semplici imitatori della scienza antica ma pensatori indipendenti.

Questo è palese in tutto il loro lavoro. Il califfo Al-Ma’mun, per controllare l’antica affermazione sulla dimensione della Terra, ordinò ai suoi astronomi di misurare un grado di latitudine nella piana di Palmira — il mondo arabo non aveva obiezioni ad assumere le sfericità della Terra, per il fatto

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che il Corano taceva su questo argomento. Circa questa misura, si riporta che da uno stesso punto gli osservatóri andarono a nord e a sud fino a che non trovarono che la latitudine era cambiata di 1o; così trovarono che 1o era uguale a 562/3 miglia arabe ognuna di 4.000 ‘cubiti neri’. Gli astronomi arabi avevano strumenti corrispondenti alle descrizioni di Tolomeo, come armille e quadranti. Per le semplici misure di altezza essi usavano l’astrolabio, un cerchio graduato liberamente sospeso da un anello tenuto in mano, fornito di traguardi su un braccio girevole; dei cerchi erano incisi sul retro per permettere loro di leggere l’angolo orario per stelle speciali invece di calcolarlo. Questi strumenti erano rifiniti con grande abilità artistica.

Al-Battânî (in Europa ‘Albategnius’), il cui nome completo era Muhammad ibn Jabir ibn Sinan Abu-’Abdallah al-Battânî (morto nel 928), è considerato il più grande fra gli astronomi arabi. A quel tempo il califfato era in declino e senza potere; ma egli era di nobile discendenza e non ebbe necessità di alcun favore regale. Nella città di Rakka, fra l’877 e il 919, fece numerose osservazioni, con risultati spesso discordanti da Tolomeo. Il suo lavoro astronomico fu poi ripetutamente tradotto e pubblicato in Europa. Egli fu il primo a introdurre nelle sue tavole le mezze corde per i mezzi angoli invece di corde, ciò che noi chiamiamo ‘seno’. Fu anche il primo a dare metodi di calcolo per i triangoli sferici, i quali furono ulteriormente sviluppati dai successivi matematici musulmani.

Comparando le sue osservazioni dell’anno 880 con quelle di Tolomeo, derivò per la durata di un anno 365d 5h 46m 24s; se Tolomeo non avesse dato il suo equinozio sbagliato di un giorno, il risultato sarebbe stato 1m 58s più ampio, quasi corretto. Dalla lunghezza delle stagioni (93d 14h per la primavera; 93d 0h per l’estate) derivò una longitudine dell’apogeo di 82o 17’ e un’eccentricità di 0,0346; l’ultimo valore è esattamente corretto. Il suo apogeo era 16o 47’ maggiore di quello di Tolomeo; dichiarò espressamente che i suoi risultati erano differenti, ma non parlò di un incremento

regolare. Questa crescita considerevole sopravanzava la crescita di precessione (10,4o in 740 anni), così fu il primo a scoprire l’avanzamento dell’apogeo del Sole relativo alle stelle. Egli stesso notò solo l’avanzamento con le stelle e applicò la precessione anche alle altre longitudini degli apogei planetari. Il suo catalogo di stelle era quello di Tolomeo con le longitudini incrementate per la precessione.

Dell’astronomia al-Battânî disse che la scienza delle stelle viene immediatamente dopo la religione, come la più nobile e perfetta delle scienze, adornando la mente e aguzzando l’intelletto e che essa tende a individuare l’unicità di Dio e la più alta divina saggezza e potenza[86] Non parlò di utilità dell’astronomia nel riconoscere l’influenza delle stelle sugli accadimenti terrestri. Poiché, comunque, egli scrisse altrove sulle congiunzioni e redasse un commento al Tetrabiblos, è ovvio che per lui l’astrologia fosse di per sé evidente.

Le tavole di al-Battânî, certamente, erano complicate, poiché esse si basavano sull’intera teoria di Tolomeo. È probabilmente per questa ragione che le vecchie, meno perfette, ma più maneggevoli tavole di Al-Khwarizmi furono riedite dall’astronomo spagnolo Maslama ibn Ahmed (morto nel 1008), trasposte al meridiano di Cordova e completate da uno stralcio da al-Battânî.

Dello stesso periodo (il decimo secolo) deve essere menzionato ‘Abd al-Rahman ibn ‘Umar, detto Al-Sufi (ossia il saggio), poiché in un libro sulle stelle fisse, dove prende le longitudini da Tolomeo, incrementandole di 12o 42’, egli dà le magnitudini delle stelle dopo proprie accurate osservazioni. Così il suo lavoro è un’importante fonte indipendente di conoscenza della magnitudine delle stelle a quell’epoca. Nello stesso tempo, in Egitto, protetto dal sultano Al-Hakim della dinastia Fatimid, l’astronomo Ibn Junis non solo pubblicò nuove tavole (le Tavole hachimite) con teoria e metodi di computazione, ma comunicò anche un gran numero di osservazioni di eclissi, congiunzioni e altezze, parzialmente riprese dalle

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registrazioni di precedenti osservatóri arabi, sin dal 829, e parzialmente dai propri lavori svolti al Cairo nel 977-1007. All’incirca in quel tempo, il principe turco Sharaf Al-Dawla ordinò la costruzione di un osservatorio, nel suo giardino a Baghdad, dotato di molti nuovi strumenti. Qui un certo numero di astronomi, fra cui Abu’l Wefa è il più conosciuto, fecero osservazioni di equinozi, solstizi e obliquità dell’eclittica.

L’astronomia fa ora la sua apparizione nei più remoti regni di cultura islamica. La Spagna, nell’undicesimo e dodicesimo secolo, sotto il califfato di Cordova, ebbe un grande sviluppo di cultura, di arti e di scienze. Fra gli astronomi spagnoli di quel tempo spicca Ibn al-Zarqala (‘Arzachel’ 1029-87) che pubblicò le Tavole Toledane con una descrizione degli strumenti e del loro uso, specialmente dell’astrolabio. Fece più osservazioni, dalle quali dedusse un apogeo solare a 77o 50’, più piccolo e meno accurato di quello di Al Battani. Un po’ più tardi visse Jabir ibn Aflah (qualche volta confuso con Gabir ibn Haijan, l’alchimista) il cui lavoro astronomico fu tradotto in latino e ripetutamente pubblicato nell’Europa medievale. Nel tredicesimo secolo il potere dell’Islam in Spagna arrivò alla fine. Il fervore religioso dei cristiani di Castiglia —peraltro anche alla ricerca di pascoli invernali meridionali per l’allevamento ovino, volto a produrre lana pregiata per gli indumenti fiamminghi — conquistò le fertili pianure andaluse con le splendide capitali Cordova e Siviglia, mettendo così fine alla fiorente orticoltura araba.

Il lavoro del re di Castiglia Alfonso X, soprannominato El Sabio, il saggio, può essere considerato come uno fra gli ultimi prodotti dell’astronomia araba in Spagna. Egli raccolse intorno a sé numerosi di astronomi per realizzare nuove tavole astronomiche. Queste, che presero il nome di Tavole Alfonsine (1252), furono in uso per tre secoli, fino alla metà del sedicesimo secolo. Il capo di questo gruppo era l’erudito ebreo, Issac ben Said; si diceva che a causa delle tradizioni degli anni giubilari ebraici, il periodo di precessione nelle tavole fosse assunto di 49.000 anni e il periodo di

‘trepidazione’ di 7.000. Nello stesso secolo, il comandante

mongolo, Hulagu il Khan, un nipote di Gengis Khan, fondò un osservatario a Maraga (vicino a Tabriz in Persia), sotto la direzione del suo consigliere Nasir Al-Din al-Tusi (morto nel 1274), un abile astronomo di Khurasan. Con grande impegno fu realizzata una biblioteca con 400.000 manoscritti e diversi strumenti, parzialmente di nuovo progetto; fra quelli c’era un grande quadrante di 10 piedi di raggio, costruito da Al-’Urdi. Dopo una dozzina di anni di assidue osservazioni di pianeti da parte di Nasir ud-din e dei suoi assistenti, essi furono in grado di comporre le Tavole ilkhaniche.

Altri due secoli più tardi l’astronomia si sviluppò a Samarcanda. Ulug Beg, un nipote del grande conquistatore Tamerlano, durante il regno di suo padre vi fondò un osservatorio riccamente dotato, dove egli stesso prese parte alle osservazioni. Uno degli strumenti era un settore di cerchio, probabilmente un quadrante, di 60 piedi (18,3m) di raggio, posizionato verticalmente in meridiano nella muratura, per determinare accurate altezze del Sole. Ulug Beg fu il solo astronomo orientale noto per aver determinato le coordinate stellari con osservazioni originali, senza copiarle da Tolomeo e correggerle per la precessione. Il suo catalogo di stelle osservate nel periodo 1420-37, fu conosciuto in Europa solo un secolo dopo e non venne stampato fino al 1665, quando era già stato superato dai cataloghi europei.

Sono stati menzionati qui alcuni dei più importanti nomi nell’astronomia araba. Nella sua lista di astronomi e matematici, H. Suter dà quasi quattrocento nomi, tutti i quali erano lodati da contemporanei e successori come grandi sapienti. Ce n’erano alcuni fra quelli il cui merito principale risiede altrove, nel campo, ad esempio, della medicina o della chimica. Ibn Sina (‘Avicenna’, 980-1037), famoso come fisico e filosofo, fece anche osservazioni, scrisse sull’astronomia ed editò un compendio su Tolomeo. In quei giorni era possibile padroneggiare più scienze, ma per questo non si può dare per scontato che essere un

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dotto implichi sempre essere un ricercatore. Gli astronomi arabi certamente osservarono diligentemente, costruirono nuovi strumenti e in astronomia sembrano aver mostrato maggiore attitudine pratica dei Greci. Inoltre, l’accuratezza del loro lavoro spesso sorpassò i risultati dell’antichità. Il loro intento, comunque, non era di far progredire la scienza — questa idea fu carente del tutto — ma di continuare e verificare il lavoro dei loro predecessori. L’incessante compilazione di nuove tavole non necessariamente significava — infatti raramente significò — un avanzamento verso valori più accurati: le tavole erano necessarie per scopi astrologici. Da qui gli astronomi ebbero da calcolarne e pubblicarne sempre di nuove ed essendo persone scrupolose ebbero cura di controllare le posizioni dei pianeti dalle proprie osservazioni e di completarle con risultati indipendenti.

Nelle loro idee teoriche, comunque, non andarono oltre l’antichità. Spesso non erano soddisfatti della teoria di Tolomeo; ma quando se ne discostavano, era per una preferenza per Aristotele. Thabit ibn Qurra è ricordato per aver assegnato a ogni pianeta uno spazio tra due sfere eccentriche. Ibn al-Haitan (‘Alhazen’), conosciuto per il suo lavoro sulla rifrazione della luce, definì 47 sfere, tutte ruotanti in una diversa maniera una dentro l’altra. La concezione di Tolomeo di cerchi e centri, esistente solo nell’immaginazione, non era abbastanza concreta per loro.

Nel dodicesimo secolo la filosofia di Aristotele venne diligentemente studiata e sviluppata dai pensatori musulmani, specialmente in Spagna. Il più famoso fra quelli, Muhammad ibn Rushd (‘Averroè’), la usò come fondamento per una filosofia panteistica, che si diffuse attraverso l’Europa e fu condannata come una pericolosa eresia dalla Chiesa. Egli e i suoi seguaci pensavano

che il moto circolare intorno a un centro fosse possibile solo quando un corpo solido, come la Terra, occupava il centro. L’erudito ebreo Moses ben Maimon (‘Maimonide’), così come l’astronomo marocchino Al-Bitruji (‘Alpetragio’), rifiutarono la teoria degli epicicli; quest’ultimo considerò il moto del Sole, della Luna e dei pianeti come un’apparenza dietro la rotazione giornaliera e tornò così alle antiche idee di Platone.

Ci fu, quindi, un brillante sviluppo dell’astronomia araba, ma nessun significativo progresso e dopo alcuni secoli si spense. Questa infatti fu la sorte dell’intera cultura islamica. Un poderoso impulso di conquista, nato da un grande entusiasmo religioso, aveva costruito un impero mondiale in cui affari e mestieri, sotto la prosperità sociale ed economica, avevano prodotto una particolare civilizzazione. Ma un impulso verso un continuo progresso era carente; le menti erano dominate da un quieto fatalismo. Poi arrivarono le devastazioni delle incursioni mongole dalle steppe dell’Asia; a causa dei loro irresistibili attacchi i Mongoli razziarono città, sterminarono gli abitanti, distrussero i lavori di irrigazione e con ciò trasformarono fiorenti regioni, densamente popolate, in deserti senza vita. La potenza e il fiorire dell’Islam declinò e con quello la sua cultura e la sua astronomia. Delle ricche biblioteche poco fu salvato; per esempio, non è nota la sopravvivenza di alcun manoscritto arabo delle tavole di Al-Khwarizmi. L’importanza dell’astronomia araba risiede nel fatto che preservò la scienza dell’antichità con traduzioni, commenti, interpretazioni e nuove osservazioni e la trasmise al mondo cristiano, influenzando considerevolmente, così, il primo sorgere dell’astronomia nell’Europa medievale.

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PARTE SECONDA

L’ASTRONOMIA

IN RIVOLUZIONE

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CAPITOLO 16

LA “BUIA” EUROPA Nel nono e nel decimo secolo, quando sotto l’Islam il commercio e gli affari, la cultura e la scienza raggiunsero la loro massima fioritura, l’Europa era un paese primitivo, sprofondato nell’assoluta impotenza. Gli Arabi controllavano il Mediterraneo; saccheggiarono la città di Roma nell’846, e occuparono non solo la Spagna e la Sicilia, ma anche la Provenza, da dove irruppero in Francia. Dal nord i Vichinghi giunsero a saccheggiare e conquistare; dall’est i Magiari invasero e devastarono l’Europa Occidentale. La vita economica si ridusse a una misera attività agricola portata avanti da servi ignoranti, dominati da signori e sacerdoti appena meno ignoranti di loro. Le scarse conoscenze di latino e di alcuni autori latini venivano mantenute con difficoltà in alcuni monasteri. Il latino, una lingua viva fino al settimo secolo, era diventato ormai la lingua del clero, limitata alla Chiesa. «Nei secoli successivi — affermò Pirenne — non ci fu scienza al di fuori della Chiesa».[87]

Tuttavia, il rapporto dell’uomo con il cielo e con la scienza non era completamente perduto. In alcuni monasteri si conservò una limitata conoscenza delle costellazioni poiché il loro sorgere nella notte indicava l’ora delle funzioni religiose. Dal momento che le regole per fissare la data della Pasqua facevano parte della dottrina cristiana, si rendeva necessaria la presenza di alcuni ecclesiastici che potessero capire qualcosa del corso delle stelle e che fossero abili a fare dei calcoli in accordo coi precetti. Il computus (cioè il ‘calcolo’, che in questo contesto significa sempre il calcolo del calendario) percorse questi secoli come un sottile ruscello di scienza,. In tempi ancora precedenti il monaco inglese Beda, detto ‘il Venerabile’ (morto nel 735), aveva compilato una lista delle date della Pasqua e i suoi scritti mostrano che conosceva Plinio e Seneca e anche la sfericità della Terra. Le

misteriose variazioni della data della Pasqua venivano considerate dal monaco Notker (del monastero di San Gallo, rinomato centro di studi) come parte di un più generale potere dei corpi celesti sulla vita terrestre.

Intorno all’anno Mille il mondo europeo cominciò a riprendersi. I Vichinghi e i Magiari furono respinti, cristianizzati e integrati nella comunità della cultura europea. I porti italiani conquistarono le rotte commerciali del Mediterraneo e divennero centri di fiorente commercio. Si svilupparono delle città come luoghi di mercati o intorno a un castello o dove le strade del commercio tra l’Italia e il nord s’intersecavano. Nei monasteri di recente costruzione, dove il lavoro produttivo era unito allo studio intellettuale, si sviluppò una cultura ancora più approfondita della dottrina cristiana e un modello di vita più rigido. Nell’undicesimo secolo, sotto il comando di Ildebrando (papa Gregorio VII), la Chiesa crebbe in una ben organizzata gerarchia ecclesiastica, diretta da Roma. Il papato prese il posto di potere spirituale a fianco del potere temporale di signori feudali, re e imperatori. Assunse il comando spirituale dell’Europa cristiana e la ritenne abbastanza forte da intraprendere un’offensiva contro l’Islam in difesa della cristianità. Queste Crociate portarono il rude e primitivo mondo di cavalieri e monaci a contatto con la raffinata, ma già in declino, cultura araba.

Fu in questo periodo che la cristianità europea cominciò a sollevarsi spiritualmente con l’aiuto della scienza araba, importata soprattutto dalla Spagna musulmana. Pare che, ancora prima di questo periodo, l’erudito Gerberto d’Aurillac, in seguito divenuto Papa con il nome di Silvestro II (999-1004), abbia richiesto dei libri di astrologia a Barcellona; inoltre, gli fu

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attribuita la paternità di un libro sull’astrolabio. Un secolo dopo, Abelardo di Bath giunse personalmente in Spagna a studiare la saggezza araba dalla sua fonte, spiegandola poi al suo ritorno. Nel 1126 curò una traduzione latina delle tavole astronomiche di Al-Khwarîzîm, nella versione di Maslama, procedendo in questo modo dalle prime invece che dalle ultime più sviluppate forme di astronomia araba. Tradusse anche il lavoro astrologico di Albumazar. Una simile traduzione generalmente consisteva anche in una difficile ricerca di termini più o meno appropriati e nella loro creazione. Le prime tavole astronomiche europee misero in evidenza la goffaggine del principiante; le parole arabe risultano non tradotte nel testo latino o nei titoli delle tavole, per esempio inventio elgeib per arcum (trovare il seno dall’arco).[88]

Spesso noi ci imbattiamo in parole latine che sono completamente diverse dai più precisi termini adottati in seguito, così, per esempio obliquatio per quella che fu in seguito chiamata ‘declinazione’ del Sole. Alcune parole arabe rimasero in uso come termini tecnici, per esempio azimut, zenit, nadir. Allo stesso modo i nomi di alcune stelle, che semplicemente designavano certi oggetti o parti del corpo in arabo, divennero nomi propri nell’astronomia europea, per esempio Betelgeuse (‘la spalla del gigante’ = bat al-dshauzâ), e Algol (‘la testa del mostro’ = ra’s al-ghûl).

Seguirono numerosi traduttori di scienza, il più famoso tra i quali fu Gherardo da Cremona (1114-87), che giunse a Toledo alla ricerca del lavoro di Tolomeo, trovandovi una grande abbondanza di libri non solo di autori arabi ma anche di studiosi dell’antichità. Egli si mise a curare traduzioni latine, prima dell’Almagesto (1175) — una traduzione di poco precedente, fatta in Sicilia direttamente dal Greco, era poco conosciuta — e poi anche di Euclide, Galeno, Aristotele, Archimede e molti altri. Fu in questo periodo che vennero fondate le Università di Bologna, Parigi e Oxford, dove venivano insegnate le nuove scienze che cominciarono a pervadere le

menti degli uomini. Ma tutto questo non avvenne senza opposizione: ad esempio, all’inizio Aristotele fu proibito all’Università di Parigi. Irresistibilmente, tuttavia, le nuove idee si diffusero dappertutto nel mondo europeo che stava superando l’economia agricola primitiva e la sua controparte spirituale, la cosmologia primitiva.

Alla fine del dodicesimo secolo si completò il consolidamento della cristianità europea. La Chiesa era ormai diventata il principale potere spirituale nella società feudale di principi e cavalieri, di abbazie e monasteri, di contadini e cittadini. Dappertutto nell’Europa Occidentale si elevavano le guglie delle cattedrali gotiche, simboli di libertà borghese in abito ecclesiastico, e nelle corti fioriva la poesia cavalleresca. Il clero costituiva la classe intellettuale, in questa semplice società di agricoltura, artigianato e commercio, e compiva le funzioni sociali del potere spirituale, amministrativo e scientifico.

Sotto Innocenzo III, il papato raggiunse il culmine del suo potere e divenne un regno universale della cristianità, ordinando e destituendo re e imperatori. Vennero fondati gli ordini Francescani e Domenicani come una forte milizia morale e intellettuale della Chiesa. Attraverso prediche e propaganda, presto seguite da persecuzioni e inquisizione, tutte le idee che dissentivano venivano ostacolate e soppresse e perfino sterminate con la forza; in questo modo, si stabilì l’unità della dottrina. E fu da questi ambienti che emersero studenti e scienziati.

All’inizio del tredicesimo secolo il lavoro di traduzione venne completato e fu seguito da un’opera di assimilazione, discussione critica ed elaborazione creativa autonoma. Lo studio dell’astronomia fu principalmente limitato alla sphaerica, la dottrina della sfera celeste e dei fenomeni dovuti alla sua rotazione giornaliera. Un trattato su questo argomento, scritto da Giovanni di Sacrobosco (Johannes Sacerbuscus = John of Holywood), che morì a Parigi nel 1256, era ancora ampiamente usato tre secoli dopo. Nacque una nuova visione dell’astronomia, come parte della concezione generale del mondo elaborata dagli studiosi del

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tredicesimo secolo. Il più esperto e originale pensatore e

maestro di questo secolo fu il frate domenicano Alberto Magno (1193-1280), che nei suoi scritti spiegò le concezioni e le dottrine di Aristotele e si riferì a Tolomeo come astronomo e astrologo. Una fama ancora più grande fu raggiunta da un suo confratello e allievo, Tommaso d’Aquino (1225-74), una mente meno originale ma più metodica. Nei suoi lavori, Tommaso combinò la cosmologia di Aristotele con la dottrina della Chiesa in un unico sistema di pensiero che, sotto il nome di Scolastica, doveva dominare le menti degli uomini per molti secoli. Al loro fianco stava il frate francescano Roger Bacon, il quale elogiò Aristotele come la fonte della saggezza, criticando duramente la cultura della propria epoca. Bacon fece immaginari riferimenti a macchinari del futuro e raccomandò l’esperienza — experimentatio — come il vero metodo per l’acquisizione della conoscenza; sotto questo aspetto egli è stato spesso acclamato come un precursore del successivo principio della scienza induttiva.

In questo modo, la visione del mondo astronomica europea si innalzò di nuovo al livello dell’antichità greca.

Intorno alla Terra sferica, posta al centro del mondo, i pianeti e le stelle si muovono nella sfera celeste e questo è quanto troviamo descritto nella Divina Commedia di Dante, laddove egli collocò l’Inferno negli abissi più profondi, cioè proprio al centro della Terra. Con il suo accompagnatore Virgilio, il poeta discese fino al centro, dove Lucifero subiva la sua punizione, e dopo salì dal lato opposto nuovamente alla superficie terrestre. Là, sotto un cielo più lieve – che Colombo in seguito credette di aver trovato nel mite clima delle Indie Occidentali – egli vide quattro stelle brillanti, simboli delle quattro virtù principali, che in seguito i commentatori, sbagliandosi probabilmente, identificarono con le non molto brillanti stelle della Croce del Sud. Dante poi scalò la montagna del Purgatorio, dalla quale salì alle sfere celesti.

Bisogna aggiungere, tuttavia, che la concezione del mondo di quei tempi non era limitata alla struttura equilibrata del cosmo aristotelico, ma era pervasa e dominata dall’astrologia. Il potere delle stelle sugli eventi terrestri indusse l’uomo medievale a considerare l’astronomia come la massima dottrina del mondo e la credenza nelle forze occulte e magiche divenne allora universale, persino tra i più famosi studiosi. La loro conoscenza dei segreti della natura li rese come dei maghi; lo studio della natura nelle sue prime fasi era intrinsecamente collegato con aspetti magici e tutti i grandi studiosi, Tolomeo e Galeno così come Avicenna, Gerberto e Alberto Magno, vennero considerati dai contemporanei e dai posteri come stregoni e autori di miracoli. Così scarsa era la conoscenza delle leggi della natura che l’intera creazione appariva come un miracolo, un mondo meraviglioso in cui ogni cosa era possibile o poteva essere considerata vera e nel quale un’ingenua credulità accettava tutti i cosiddetti ‘fatti’. Insieme alla scienza dell’antichità vennero accolte anche le sue superstizioni e tra queste l’astrologia appariva come una dottrina dell’universo in grado di comprendere ogni cosa. Il cosmo aristotelico medievale nella

‘Divina Commedia’.

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Questa concezione si applica anche ai tre grandi pensatori del tredicesimo secolo ricordati in precedenza, le cui visioni circa l’astrologia erano sostanzialmente simili: le stelle governano i corpi terrestri, Dio governa le creature inferiori per mezzo di entità superiori e ogni cosa sulla Terra per mezzo di sfere celesti. Così il movimento delle stelle governa la vita sulla Terra e le congiunzioni dei pianeti turbano il regolare ordine degli eventi. Ma questa non è una sorte ineluttabile per l’uomo, in quanto egli non vi è completamente sottoposto. Il suo volere è libero, perché la sua anima, come quella di un essere superiore, proviene dall’Ente Supremo. È solo quando fallisce nell’opporre resistenza che egli viene governato dalla natura e, quindi, viene spazzato via dalla potenza delle stelle. Gli oroscopi erano perciò utili in quanto avvertimenti e le premonizioni dovevano essere osservate come condizioni generali; da questo derivava una severa censura degli indovini astrologi. Dopo essersi così riconciliata con la Chiesa, l’astrologia poté conservarsi attraverso i secoli successivi, nonostante occasionali forme di scetticismo e di critica da parte degli oppositori.

Ndr: il più antico documento che attesta lo stato delle conoscenze astronomiche superstiti a Bologna in epoca alto-medievale. Si tratta del ‘Codice manoscritto I-27’ della Biblioteca Antoniana di Padova che riporta, insiema al calendario dei riposi festivi osservati a Bologna nel IX secolo, un calendario dall’anno 802 al 1063. È qui riprodotto il fol 96v, con un disco in pergamena girevole indicante la sequenza delle costellazioni dello zodiaco - «Quo ordine duodecim signa in coelo consistant»

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CAPITOLO 17

IL RINASCIMENTO SCIENTIFICO Nel quattordicesimo secolo, il sogno della Chiesa come un’universale monarchia della cristianità europea si affievolì. Il mondo medievale si era evoluto sotto nuove forme. In tutti i paesi, le città si erano sviluppate come centri di mestieri e di commerci; gli abitanti delle città, crescendo in benessere e potenza, erano emersi come classe che sempre più determinava l’aspetto della società. I re, sostenuti dal potere finanziario della classe borghese, fondarono poteri centralizzati di stato con dei funzionari pubblici laici. Nelle continue lotte, i poteri dei Re di Francia, Inghilterra e Castiglia aumentarono, ed essi soppiantarono il potere dei Papi, che erano spesso poco più che vescovi dipendenti da Roma. Il potere secolare superò il potere ecclesiastico. Il clero non era più la guida spirituale e la guida intellettuale della società passò nelle mani del laicato. L’interesse nella scienza crebbe fra gli abitanti delle città, che erano desiderosi d’apprendere la conoscenza, con la quale far progredire lo sviluppo del commercio, e desiderosi di innalzare la loro posizione come padroni del nuovo mondo. I loro figli frequentavano le università, che stavano costantemente crescendo in numero, studiavano il diritto romano, e diventavano ufficiali e consiglieri dei principi, aiutandoli a indebolire la legge feudale per mezzo di questa nuova dottrina giudiziaria.

Lo studio della scienza fu anche diretto ad assimilare l’antica conoscenza e l’intera cultura e scienza dell’antichità. Ma un nuovo spirito si elevava qua e là, uno spirito di ricerca indipendente, di nuove e ardite idee e di voglia di promuovere il progresso. All’Università di Parigi, un gruppo di filosofi, Jean Buridan, Albert di Sassonia e Nicolas Oresme, precursori degli studiosi del sedicesimo secolo, attaccarono la fisica di Aristotele, in particolare la sua teoria del moto. Ma quando, poco dopo, la Francia

venne sempre più devastata dalla Guerra dei cento anni con l’Inghilterra, la loro influenza dovette soccombere al potere della Scolastica.

Erano principalmente Italia e Germania che a questo punto formavano l’avanguardia della rinascita. In Italia, gli abitanti delle città avevano acquistato grande ricchezza e potere durante i secoli precedenti poiché erano vicini alle fonti del commercio orientale. Fu qui che cominciarono a fiorire le arti e le scienze. La Germania era al crocevia del commercio tra l’Italia e il nord, e tra oriente e occidente; nelle fiorenti città come Norimberga, Augsburg e Colonia regnava un forte e potente ceto medio. Qui, nel quindicesimo secolo, furono accumulate grandi fortune nelle mani dei capitani della finanza, come Fuggers e Welsers, che divennero importanti potenze nel mondo politico. Mentre Parigi perdeva la sua posizione primaria nella scienza, nuove università furono fondate a Praga, Heidelberg, Vienna e Lipsia.

Nel quindicesimo secolo, le fonti di conoscenza dell’antichità cominciarono a sgorgare più abbondantemente. La Chiesa bizantina, cercando aiuto contro l’aggressione turca, venne in contatto più stretto con la Chiesa romana e così si diffuse, tra gli studiosi occidentali, la conoscenza del greco. Numerosi manoscritti greci furono portati in Occidente, specialmente in Italia, dove essi venivano ardentemente raccolti e studiati; questi manoscritti presentavano i testi precisi e puri degli antichi scrittori, invece delle alterate e spesso incomprensibili traduzioni in siriaco e arabo. Il mondo occidentale era pronto a prendere possesso dell’intera eredità intellettuale dell’antichità. Lo spirito dell’umanesimo, con un accenno di paganesimo, ispirò gli studiosi, sia religiosi che laici, e cominciò a prendere il posto

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della Scolastica. In astronomia lo studio di Tolomeo occupò un posto importante.

Due vie si aprirono e furono seguite per lo studio dell’astronomia: raccogliere e studiare i manoscritti inalterati degli antichi e fare delle nuove osservazioni. Osservazioni con semplici strumenti, presi per lo più da scritti arabi, erano già state fatte nei secoli precedenti; lo strumento più largamente usato era l’astrolabio, molti esemplari del quale si possono tuttora vedere nei nostri musei. Strumenti più accurati vennero usati da Guillaume St Cloud, che a Parigi, intorno al 1290, misurò le elevazioni solari, dalle quali poté essere dedotta la latitudine del luogo di osservazione e l’inclinazione dell’eclittica (23°34’); nel 1284 egli osservò inoltre la congiunzione di Giove e Saturno.

Paolo Toscanelli (1397-1482), in seguito consulente geografico di Colombo, annotò sistematicamente le posizioni delle comete tra le stelle, nel 1433, 1449, 1456 e negli anni seguenti. A Vienna, Georg Purbach (1423-61), che prese il nome dal luogo di nascita in Austria, insegnò all’università dopo aver viaggiato in Germania e in Italia. Egli fu il primo nell’Europa Occidentale a esporre la teoria degli epicicli di Tolomeo in un libro chiamato Nova Theorica Planetarum, nel quale la inserì nel sistema aristotelico del mondo, separando la regione di ogni pianeta dalla confinante con gusci solidi sferici.

Giunse presso di lui, prima come allievo e in seguito come assistente, Johann Müller di Königsberg, un villaggio in Franconia, che più tardi si fece chiamare Johannes di Monte Regio e nella letteratura astronomica è conosciuto come Regiomontano. Egli visse dal 1436 al 1476. Durante gli anni 1456-61 Purbach e Müller fecero molte osservazioni di eclissi, comete ed altezze solari, nel corso delle quali si accorsero che le Tavole Alfonsine erano di alcuni gradi in errore. Il desiderio di ottenere manoscritti di Tolomeo di migliore qualità fu stimolato in loro dalla visita diplomatica a Vienna da parte del cardinale Bessarione, che aveva raggiunto un rango elevato nella Chiesa bizantina. Il loro progetto di assisterlo nel suo ritorno in Italia fu vanificato dalla prematura morte di

Purbach; il solo Regiomontano accompagnò il cardinale in Italia, dove imparò il greco, raccolse e copiò manoscritti greci e tenne lezioni di astronomia. Dopo una breve visita in Ungheria, il cui re Matthias Corvinus si era procurato dei manoscritti durante le sue guerre contro i Turchi, Regiomontano si stabilì nel 1471 nella città di Norimberga. In questo centro commerciale dell’Europa centrale, il fiorente commercio e l’artigianato offrivano le più favorevoli opportunità per la costruzione di strumenti come pure per la stampa dei libri.

Fu proprio l’arte appena inventata della stampa ad aprire nuove possibilità per la scienza. La stampa dei libri, con accurata correzione del testo, pose fine al noioso danno dei numerosi errori di copiatura nei manoscritti. Questo nuovo procedimento, in verità, non includeva ancora la stampa di tavole e figure. Regiomontano dovette perciò fondare una stamperia e istruire i compositori, agendo così da precursore dell’industria della stampa. Esiste una sua lettera circolare, nella quale elencava i titoli dei libri che aveva intenzione di stampare e pubblicare. Questa lista di 22 testi, tutti in latino, per lo più edizioni di antichi astronomi e matematici, includeva la Geografia e l’Astronomia di Tolomeo (Magna Compositio Ptolomei quam vulgo vocant Almagestum, nova traductione); anche Archimede, Euclide, Teone, Proclo, Apollonio e altri, seguiti dai suoi lavori, almanacchi e scritti minori. Regiomontano cominciò col pubblicare la teoria planetaria del suo maestro, Purbach, e il poema astronomico di Manilio; dopodiché, vennero pubblicati degli almanacchi, accuratamente calcolati, in latino e in tedesco. Conquistò grande fama con le sue Ephemerides, nelle quali le posizioni del Sole, della Luna e dei pianeti erano calcolate per 32 anni, dal 1475 al 1506. Allora, nel 1475, il Papa lo convocò a Roma per chiedere il suo parere sulla necessaria riforma del calendario e qui morì l’anno seguente. Il suo grande progetto rimase incompiuto; il lavoro di stampa non fu continuato e i suoi manoscritti finirono dispersi. I suoi lavori non furono stampati fino a quarant’anni dopo; non era stato in

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grado di portare a termine la traduzione di Tolomeo e non fu che fino al 1505 che una più vecchia traduzione latina fu stampata a Venezia, mentre la prima edizione greca di Tolomeo comparve solo nel 1538, a Basilea.

Fu non soltanto per i suoi lavori di stampa, ma ancora di più per il suo lavoro astronomico pratico, che Regiomontano raccolse attorno a sé a Norimberga un circolo di ammiratori e studiosi di scienza, che addirittura procuravano il denaro per i lavori di stampa. Tra loro c’erano i nobili Willibald Pirkheimer e Bernhard Walther, entrambi umanisti molto esperti in Greco. Walther divenne suo allievo in astronomia pratica, e a casa sua allestì una stanza per montare gli strumenti, il primo vero osservatorio, dove essi facevano osservazioni insieme. Dopo la morte di Regiomontano, Walther continuò assiduamente a osservare i corpi celesti. Quando egli morì nel 1504 aveva fatto 746 misurazioni di altezze solari e 615 determinazioni di posizioni di pianeti, luna, e stelle. Fu la prima ininterrotta serie di osservazioni nel nuovo sorgere della scienza europea; un secolo dopo Tycho Brahe e Keplero le utilizzarono nel loro lavoro.

Gli strumenti, fatti di legno secondo il progetto di Regiomontano, erano di semplice costruzione. Innanzitutto c’era il cosiddetto dreistab (three-staff), chiamato anche triquetrum, già descritto da Tolomeo. Consisteva in un’asticella lunga circa 9 piedi (con due mire ottiche per puntare una stella), incernierata al vertice di un palo verticale; l’estremo inferiore poggiava su di una seconda asticella, graduata e incernierata a un punto inferiore sul paletto; la distanza da questo punto all’estremo inferiore della prima asticella indicava la sua inclinazione. Questo strumento veniva usato principalmente per misurare le altezze del Sole a mezzogiorno; un pollice sull’asticella biforcuta corrispondeva a quasi mezzo grado. Un congegno più largamente usato era la balestriglia o bastone di Giacobbe (cross-staff) per misurare la distanza tra due oggetti celesti. Lungo un’asticella graduata, che l’osservatore prendeva in mano e dirigeva verso il punto medio tra i due oggetti, un’asticella a croce veniva fatta scivolare su e giù, finché le sue due estremità, come viste dall’estremo inferiore dell’asticella, coincidevano con le due stelle. La lettura dell’asticella a croce combinata con la sua lunghezza costante forniva la distanza angolare tra le due stelle. Per alcuni secoli il cross-staff fu lo strumento più comune dei naviganti per misurare l’altezza del Sole o di una stella sull’orizzonte.

In seguito, nel 1488, Walther costruì

un’armilla, secondo la descrizione di Tolomeo (v. fig. 16), sulla quale, dopo

Fig. 19. Il ‘triquetrum’.

Fig. 20. Il bastone di Giacobbe o cross-staff

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averla accuratamente posizionata, si poteva leggere direttamente la longitudine e la latitudine di un pianeta. Tentando di misurare le distanze tramite misure di intervalli di tempo egli fece anche uso di orologi, sebbene a quei tempi fossero imperfetti, essendo regolati solo da movimenti a frizione. La cura con cui Walther compì le sue osservazioni è mostrata dal fatto che egli scoprì lo spostamento verso l’alto del Sole vicino all’orizzonte, che spiegò correttamente come dovuto alla rifrazione atmosferica. La sua cura è mostrata ancor di più dalle precisioni che raggiunse; le sue posizioni per i pianeti, misurate tramite cross-staff e armilla, avevano un errore medio di soli 5’, e gli errori delle sue altezze solari erano generalmente al di sotto di 1’. Le su osservazioni da un suo giovane collaboratore, Johannes Schoner, che continuò il suo lavoro.

Così, vediamo come, nel quindicesimo secolo, la scienza prendesse una nuova direzione. Nei secoli precedenti gli scienziati maggiormente elogiati erano stati gli studiosi, non gli indagatori. Quelli riproducevano la scienza come la trovavano, ma non producevano nuova scienza. Libri e scritti, non esperimenti e osservazioni, erano la fonte della loro conoscenza. Adesso, invece, si apriva una nuova era, nella quale l’osservazione di nuovi fenomeni diveniva la fonte di continui progressi scientifici.

La scienza in Europa si era ora elevata al

più alto livello raggiunto nell’antichità e addirittura l’aveva sorpassato. La teoria planetaria di Tolomeo era stata completamente compresa e le osservazioni di Ipparco e Tolomeo erano state superate in accuratezza da quelle di Regiomontano e Walther. Ma il punto essenziale era questo: ciò che nel mondo antico era stato il massimo risultato, ciò che nel mondo arabo era stato appena raggiunto, fu qui in Europa il punto di partenza per un progresso continuo e in rapida crescita.

Da dove derivava questa differenza? La domanda è importante non solo per l’astronomia ma per l’intera scienza della

natura. Il progresso della scienza in questi secoli e nei successivi, che costituì le basi della società moderna e della sua cultura, cominciò con lo sviluppo dell’astronomia. Quando noi cerchiamo cause e collegamenti, ci colpisce immediatamente il fatto che allora in quest’Europa c’erano una cultura differente, una diversa società, un genere d’uomo diverso da quello della decrepita antichità o dall’antico splendore del fatalistico oriente. C’era allora una società vigorosamente in crescita, un mondo borghese pieno di energia, un nuovo genere di persone che riprese il filo della storia dove era stato arrestato dalle mani dell’antichità. Era una questione di genio razziale? Ma greci e romani furono una razza affine, e gli arabi semiti non furono certamente inferiori in talento e abilità. Diremo, forse, con Huntington, che era il clima moderato, stimolante e appassionato che ridestò le energie dell’uomo? Riguardo a questo l’Italia rinascimentale non è stata molto diversa dall’Italia romana. Non saremo di molto in errore supponendo che, tra tutte le reciproche influenze, la struttura sociale e le forme di lavoro e commercio giocassero un ruolo importante.

I barbari, le tribù dei Teutoni e dei Sarmati che distrussero l’Impero Romano e i cui discendenti costruirono la società medievale, avevano conosciuto l’umiliazione della schiavitù non come un sistema economico regolare, ma al massimo occasionale. Le loro forti capacità lavorative, che trovarono delle opportunità per varie iniziative anche in schiavitù, resero il sistema economico feudale il punto di partenza della rivolta contadina medievale e della libertà borghese. La forza motrice dell’arte e del commercio aveva fatto nascere in essi una energia nuova verso lo sviluppo delle tecniche, delle rotte commerciali, dell’organizzazione delle botteghe, e della raccolta e degli investimenti dei capitali, rivoluzionando così la società. Un forte individualismo pervase il lavoro degli artigiani, le imprese dei commercianti, le idee dei pensatori. Ciò diede vita ad una nuova cultura che cercò sostegno in una rinascita del mondo antico per liberarsi dai vincoli del pensiero

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medievale. La massima aspirazione dell’uomo fu diretta all’abbandono della barbarie medievale attraverso lo studio dell’antica cultura. Il Rinascimento fu per loro l’entusiastica rivelazione della bellezza, la saggezza, la gioiosa felicità dell’antichità, che ai loro occhi fu il culmine della civilizzazione umana e che li assorbì ardentemente.

Ma le loro menti erano troppo piene di tensione per restare soddisfatti dell’antico modello. Non appena l’ebbero completamente assimilato, quello divenne la base di ulteriori sviluppi. Lo stesso spirito di avventura e audacia che incitò l’uomo a scoprire nuovi mondi oltre gli oceani, li spinse anche verso le scoperte scientifiche. Così essi superarono l’antichità. Per questi uomini questo non fu una rottura con l’antichità, ma il suo seguito. Lo spirito del Rinascimento, diffondendosi all’alba del nuovo secolo, si espresse attraverso un rinnovamento della scienza.

La principale scienza alla quale questo nuovo spirito si rivolse e, a dire il vero, la sola scienza degna di questo nome, fu l’astronomia. Forti necessità sociali la posero al primo piano del pubblico interesse. Prima di tutto, c’erano esigenze di cronologia. Il calendario era in disordine; le antiche regole di intercalazione non erano state sufficientemente accurate, e le discrepanze erano divenute eccessivamente ampie. L’equinozio di primavera cadeva l’11 Marzo invece del 21 Marzo e i pleniluni giungevano tre giorni troppo presto; così il calcolo del giorno di Pasqua era tutto sbagliato. Regiomontano era stato obbligato a informare il Papa che sarebbero state necessarie nuove osservazioni per fornire basi attendibili per regole migliori.

Poi vi furono le necessità della navigazione, che sul vasto oceano erano molto più dure rispetto a quelle sul Mediterraneo. Adesso, per trovare la posizione di una nave tramite la determinazione di latitudine e longitudine geografica, si rendevano necessarie le stelle, il Sole e la Luna. I popoli iberici — prima i Catalani e poi Portoghesi e Spagnoli — come naviganti e scopritori, aprirono le vie

oltre gli oceani. Essi facevano uso della conoscenza astronomica tramandata dalla scienza araba, principalmente dagli studiosi giudei. Nel quattordicesimo secolo il re Pedro III di Catalogna disponeva di tavole astronomiche fatte dall’astronomo giudeo Jacub Carsono. Si dice che il cross-staff o bastone di Giacobbe sia stato inventato — o perlomeno introdotto — nella stessa epoca dal provenzale Jacob Levi ben Gerson. Zacuto, che insegnava all’università di Salamanca, pubblicò un ‘almanacco perpetuo’ in ebraico. Uno dei suoi allievi, José Vizinho, fisico di corte del re João II di Portogallo, fu un membro della Junta dos Mathematicos, l’istituzione scientifica per la navigazione. Per uso dei navigatori portoghesi la Junta pubblicò un regimento (regolamento) con le istruzioni per l’uso degli strumenti, e un almanacco nautico con le istruzioni per il calcolo. Così l’astronomia araba contribuì alle scoperte di quella portoghese. Dovunque andavano nei loro viaggi, al sud e in India, i loro piloti misuravano le altezze solari con l’astrolabio per calcolare la latitudine mediante la declinazione solare ricavata dalle tavole —evidentemente, non usavano il cross-staff. A quel tempo, cominciarono ad essere utilizzate anche le opere degli astronomi tedeschi, specialmente le Ephemerides di Regiomontano. Nei suoi viaggi, Colombo usò sia queste che l’almanacco di Zacuto e, in una situazione pericolosa, egli sfruttò proprio l’eclisse lunare del 29 febbraio 1504, predetta in quell’almanacco, per rendere docili gli aborigeni. Fu, probabilmente, Martin Behaim da Norimberga, geografo e commerciante nelle Azzorre, a contribuire, come membro della Junta, all’introduzione dei risultati degli astronomi tedeschi in Portogallo.

Viceversa, adesso era la pratica della navigazione a stimolare enormemente l’interesse verso l’astronomia. I marinai trovarono conferma alla sfericità della terra dalle proprie esperienze personali. Insieme alle regioni sconosciute del globo terrestre, si aprirono alla vista dell’uomo anche le zone sconosciute della sfera stellata. I navigatori europei scorsero con meraviglia

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le stelle sconosciute e le costellazioni del cielo meridionale. Da uno dei primi viaggi portoghesi lungo la costa africana, verso il fiume Gambia, nel 1454, Cadamosto scrisse:

«poiché io vedo ancora la stella polare, non posso ancora scorgere la stella polare del sud, ma la costellazione che ho contemplato nel sud è il Gran Carro meridionale».[89] Questa credenza nella simmetria della

disposizione stellare intorno ai due poli celesti fu una curiosa convinzione dei primi esploratori. Probabilmente ciò che Cadamosto vide fu una combinazione delle due stelle brillanti del Centauro (α e β) con lo stesso quadrato di stelle che l’entusiasmo cristiano riconobbe in seguito come la Croce del Sud e in cui Vespucci nei suoi viaggi nel sud immaginò di aver riconosciuto le ‘quattro stelle luminose’ di Dante. Senza dubbio, l’astronomia in quei tempi non era una dottrina teorica ma una scienza viva.

Ma l’interesse nell’astrologia era ancora più universale di queste attività pratiche. La dottrina medievale, secondo la quale dalle stelle emanavano le forze che determinavano gli eventi sulla terra, veniva ora diffusa dagli almanacchi fra tutte le classi della popolazione. Questi almanacchi, come pure i singoli fogli calendariali, stampati in largo numero, contenevano, oltre ai fenomeni celesti, le eclissi e le congiunzioni e, inoltre, previsioni del tempo, di catastrofi naturali, e del periodo favorevole e sfavorevole per le varie attività, persino per gli spargimenti di sangue e il taglio dei capelli. Regiomontano scrisse un libro di astrologia medica, contenente istruzioni di questo genere.

L’attenzione fu diretta in particolare alle congiunzioni dei due grandi pianeti Giove e Saturno, che avviene ogni 20 anni, ciascun evento successivo a una longitudine spostata indietro di 117°. Così, quei pianeti si trovano alternativamente in tre segni zodiacali in trigono, finché, avanzando lentamente, dopo due secoli la triade successiva di segni diviene il luogo degli eventi. Nel 1488, un famoso astrologo, Johannes Lichtenberger, scrisse:

«L’attenzione deve essere rivolta all’importante

costellazione dei grandi pianeti Giove e Saturno, la cui congiunzione e coincidenza minaccia cose terribili e annuncia molte calamità future … e a questa terribile congiunzione è stata assegnata l’orribile dimora dell’infausto Scorpione».[90] Si riferisce alla congiunzione del 1484, che

si presumeva potesse estendere la sua influenza per oltre vent’anni. Questa fu seguita, nel 1504, da una congiunzione nel Cancro e, nel 1524, da una nei Pesci. La convinzione che grandi alluvioni avrebbero allora devastato la Terra portò il panico in Europa; si conoscono 133 opere su questo tema da parte di 53 autori. I tempi erano pieni di terrore e paura; solo pochi isolati studiosi, come l’umanista italiano Pico della Mirandola, combatté l’astrologia in quanto forma di superstizione. In una prefazione a un libro di Lichtenberger, stampato a Wittenberg, Martin Luther scrisse:

«I segni in cielo e in terra non sono certamente in difetto; essi sono opera di Dio e degli angeli, ammoniscono e minacciano principi e paesi atei e hanno un significato»[91] Il sedicesimo secolo fu un epoca di grandi

rivoluzioni sociali e spirituali. Ciò che si era sviluppato gradualmente nei secoli precedenti, le forze crescenti della borghesia, la crescita del potere monarchico, il conflitto interno e l’opposizione contro la Chiesa, tutto si concluse in una rottura col passato. Il disvelamento della terra intera effettuato dai navigatori liberò le menti umane dalle vecchie limitate concezioni del mondo, ma, a causa dell’afflusso di oro e argento dalle Americhe, causò anche una crescita nei prezzi e un generale impoverimento, che esplose in rivolte di contadini e artigiani esasperati. Le nuove concezioni di vita si espressero in nuovi sistemi religiosi, nel luteranesimo, nel calvinismo e nel rinnovamento della Chiesa cattolica. Le loro lotte si mescolarono in modo caotico con gli scontri tra principi, nobili e borghesi, in una serie di guerre politiche e religiose. La tranquilla sicurezza che la Chiesa in passato riusciva a garantire con la sua indiscussa autorità era scomparsa; i princìpi di vita erano andati in frantumi. In queste instabili e tumultuose condizioni

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terrene, il legame che collegava ogni cosa sulla Terra alle stelle, con il loro corso costante e calcolabile, offriva all’uomo il suo unico rifugio. Più intensamente che mai prima d’ora cresceva il bisogno dell’astrologia e la consuetudine con essa; più che mai l’astrologia occupava i pensieri di tutti. I principi si avvalevano di ‘matematici’, principalmente come astrologi (il termine mathematica a quel tempo significava ‘astrologia’). I consigli municipali e provinciali, inoltre, nominavano matematici, non solo per istruire nelle scuole i figli di cittadini agiati e nobili, ma anche per compilare almanacchi

per contadini e cittadini, contenenti pronostici sul tempo e sulle prospettive politiche.

L’astronomia, nel quindicesimo e sedicesimo secolo, si trovò al centro della vita pratica e dell’attenzione dell’uomo più di ogni altra scienza. I pensieri si soffermavano soprattutto sulle stelle; ogni abilità e iniziativa scientifica nella mente umana era diretta principalmente alla scienza dei corpi celesti. Così non è sorprendente come, a quei tempi, la gente non si limitasse più a ripetere rispettosamente le opinioni degli antichi, ma a cancellarle prendendo nuove strade.

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CAPITOLO 18

COPERNICO

Il nuovo sistema del Mondo, come sommariamente appariva nell’antica Grecia, era stato sviluppato da diversi individui in due distinti punti: primo, la rotazione della Terra, come una spiegazione della rotazione diurna della sfera celeste e, secondo, l’orbita annuale della Terra. Ma la vecchia teoria, basata sull’esatta premessa dell’immobilità della Terra, ebbe una coerenza interna e fu vista da ognuno come un tutt’uno coerente. Questa probabilmente fu la ragione del perché il nuovo sistema del Mondo, nel rimpiazzare il vecchio quadro, balzò completo nella sua interezza. Questo fu il lavoro di Niccolò Copernico. (Tavola 3)

Copernico (Niklas Koppernigk), nato nel 1473 a Thorn (ora in polacco: Torun), era discendente di una famiglia di coloni tedeschi, i quali furono chiamati nel Paese un secolo prima dal re polacco. Gli immigrati tedeschi si erano già stabiliti in queste regioni orientali, dapprima sotto la giuda dei Cavalieri dell’ordine Teutonico, poi sotto i re polacchi. Essi avevano fondato un certo numero di prosperosi centri, come Danzica, Thorn e Cracovia, i quali divennero centri fiorenti d’affari e commercio e sedi di cultura urbana. Tali pionieri, come

rimarcammo in casi precedenti, sono di mente più aperta, più spregiudicati e meno legati alle tradizioni rispetto a coloro che rimangono nelle loro case di origine.

Avendo acquisito familiarità con l’astronomia, nella sua stretta connessione con l’astrologia, all’Università di Cracovia, Copernico fu mandato in Italia nel 1496 per studiare diritto e ancora nel 1501 per studi medici. Qui [ndr: a Bologna], mentre studiava astronomia con Domenico Maria da Novara, di provenienza ferrarese, entrò in stretto contatto con la vita pulsante del Rinascimento. Studiò greco e acquisì familiarità con cosa le fonti greche e latine riportavano su discordanti opinioni di antichi filosofi. Queste testimonianze senza dubbio risvegliarono e scossero le sue convinzioni su una diversa struttura del Mondo. Quando, più tardi, dedicò il suo lavoro a Papa Paolo III, egli menzionò come fonti che gli avevano dato il coraggio di lavorare alla sua nuova teoria: Niceta, il quale secondo Cicerone faceva muovere la Terra, Filolao il pitagorico, il quale faceva descrivere alla Terra un’orbita quotidiana intorno a un fuoco centrale; Eraclide e Ecfanto, i quali facevano ruotare la Terra intorno al proprio asse.

Tornato in Polonia nel 1503, dove suo zio, vescovo di Ermland, gli aveva procurato una sede nel Capitolo di Frauenberg, egli formulò presto, probabilmente intorno al 1512, la sua idea nel Commentariolus (Breve commento) che inviò a un certo numero di amici e astronomi. Concisamente ed enfaticamente, i pilastri del nuovo sistema del Mondo furono eretti su sette tesi.

1. Non c’è un singolo centro per tutti gli orbi e le

sfere. 2. Il centro della Terra non è il centro del Mondo ma

solo della gravità e dell’orbita lunare. 3. Tutti gli orbi attorniano il Sole, il quale sta nel

mezzo di tutto, cosicché il centro del Mondo è

Tav. 3a.

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situato all’incirca nel Sole. 4. La relazione delle distanze di Sole e Terra rispetto

all’altezza del firmamento è più piccola del semidiametro della Terra rispetto alla distanza del Sole, cosicché il suo rapporto all’altezza del firmamento è impercettibile.

5. L’apparire dei movimenti nel firmamento non sono dovuti altro che alla Terra; da cui la Terra ruota con i suoi elementi più vicini nel moto diurno fra i suoi poli invariabili, mentre il firmamento è immobile e l’ultimo cielo è permanente.

6. Quel che ci appare come un moto in relazione al Sole non è dovuto al Sole stesso ma alla Terra, con cui ci stiamo rivolvendo così come ogni altro pianeta.

7. Ciò che si manifesta come retrogradazione e avanzamento nei pianeti non discende da loro stessi ma da parte della Terra; il suo solo moto è sufficiente a [spiegare] molti differenti fenomeni. Quindi, egli era già sicuro delle basi del

suo nuovo sistema del Mondo. Ma il suo lavoro principale occupò gli anni a venire, nei suoi momenti di tempo libero fra gli impegni ufficiali e la partecipazione nell’amministrazione e nella direzione politica della diocesi. Questo lavoro consisteva nell’acquisire dalle osservazioni un’esatta derivazione numerica delle orbite dei pianeti, come la base per il computo di fenomeni futuri. In questa maniera, le necessità pratiche degli astronomi potevano essere soddisfatte, ora che le Tavole Alfonsine erano sempre più in errore. Anche in questa maniera il suo lavoro poteva rimpiazzare quello di Tolomeo. Comunque, quando egli ebbe finito tutta questa ricerca, esitò a pubblicarla per molti anni. Benché gli amici influenti nel clero — Tiedemann Giese, vescovo di Kulm e il cardinale Schoenberg di Capua — lo incoraggiassero fortemente, egli procrastinò la pubblicazione, perché prevedeva l’opposizione dovuta al pregiudizio e la sua mentalità pacata lo tratteneva dalla contesa. La mancanza di fervente zelo contro le nuove dottrine luterane lo aveva già reso sospetto ai bigotti clericali. Superò le sue esitazioni solo quando un giovane matematico di Wittenberg, Georg Joachim, detto ‘Retico’ (vale a dire nativo della Retia, cioè dei Grigioni), lo andò a trovare nel 1539 per imparare la sua teoria e ne dette un’entusiastica panoramica nella Narratio

Prima (Prima Comunicazione). intorno al 1540.

Copernico gli affidò il manoscritto, De revolutionibus, libri VI (Libri VI sulle rivoluzioni∗) perché fosse stampato a Norimberga; esso apparve nel 1543, l’anno della sua morte. A questa prima pubblicazione, Osiander, un ministro luterano il quale supervisionava le stampe in quella città, avrebbe aggiunto — probabilmente per venire incontro all’opposizione dei teologi del Wittenberg — un’anonima prefazione intitolata Sull’ipotesi di questo Mondo. Anche l’estensione del titolo in De revolutionibus orbium coelestium libri VI (Libri VI sulle rivoluzioni degli orbi celesti) poteva trasmettere l’idea che la Terra non fosse necessariamente inclusa. Solo molti anni più tardi divenne noto che quelle aggiunte non erano di Copernico stesso.

In questo lavoro di Copernico possiamo notare tre diversi aspetti che lo distinguono da Tolomeo e dagli altri libri di astronomia scritti da Tolomeo in poi. Questi aspetti sono l’eliocentrica struttura del Mondo, l’introduzione di nuovi valori numerici e un nuovo meccanismo per rappresentare i dettagli dei moti planetari.

Dapprima stabilisce subito le nuove basi del sistema del Mondo e nel primo libro fornisce gli argomenti contro Tolomeo. Egli spiega che il Mondo è sferico e che anche la Terra ha la forma di una sfera. La mobilità di una sfera consiste nel suo volgere attorno a un asse in un circolo il quale non ha nessun inizio né fine. I corpi celesti esibiscono vari moti differenti, per di più i loro moti devono essere circolari uniformi o consistere di moti circolari; solo in questo modo si ritorna a periodi fissi come era prima. Dal fatto che la ragione rifiuti di accettare irregolarità in quello che è accomodato nel migliore assetto, dobbiamo assumere che i moti uniformi ci appaiono irregolari a causa di una differenza di poli o perché la Terra non è al centro dei cerchi. Più autori, sicuramente, assumono la Terra essere a

∗ Ndr: ‘rivoluzioni’ qui sta per ‘movimenti circolari’ [dal latino revolutio, da revolvěre, ‘rotolare indietro’]

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riposo nel centro del Mondo e riguardano agli altri punti di vista come ridicoli, ma dopo considerazioni più ravvicinate si vede che la questione non è definita. Ogni cambiamento osservato origina dal moto dell’oggetto, dell’osservatore o di entrambi. Se è assunto un moto della Terra, questo deve apparire, benché in direzione opposta, in tutto ciò che è fuori, come se le cose sfilassero dietro di essa; e questo vale specialmente per il moto giornaliero. Dal fatto che i cieli contengono tutto, non è immaginabile che il moto non debba essere attribuito a cosa è in esso contenuto piuttosto che a ciò che contiene tutto. Se allora qualcuno potesse negare che la Terra occupa il centro del Mondo ma ammettesse per essa una distanza non grande assai rispetto alla sfera delle stelle fisse, ma comparabile alle orbite del Sole e dei pianeti, egli potrebbe indicare la causa delle apparenti irregolarità nei diversi moti come dovuti a un altro centro rispetto a quello della Terra.

Gli antichi filosofi cercarono di mostrare che la Terra rimane al centro soprattutto perché la sostanza dei cieli tende a muoversi verso il centro del Mondo e a restarvi in riposo. Secondo Aristotele, la terra e l’acqua si muovono verso il basso, l’aria e il fuoco verso l’alto, mentre i corpi celesti si rivolgono in cerchi. Una rotazione della Terra, afferma Tolomeo, sarebbe contraria a questo, e da una ritrazione così violenta ogni cosa sarebbe strappata via lontano. Gli oggetti in caduta verticale non raggiungerebbero il loro luogo previsto perché sarebbe stato portato avanti da sotto di loro a gran velocità; e vedremmo nubi e ogni altra cosa sospesa in aria muoversi sempre verso ovest.

Se, comunque, uno assume una rotazione della Terra, egli certamente direbbe che quello è un moto naturale e non violento, e ciò che accade per natura è contrario all’effetto della violenza esterna e rimane in perfetto ordine. Perché Tolomeo non temeva la stessa cosa con i cieli, i quali, secondo lui, hanno da ruotare a una molto più tremenda velocità poiché sono più ampi della Terra? Dal momento che la Terra è un globo racchiuso fra i poli, perché non attribuire a

esso un moto che è naturale per una sfera piuttosto che assumere che il Mondo intero, i cui confini sono sconosciuti, sia in movimento? Un’ampia parte dell’aria, in cui le nuvole stanno galleggiando, è trascinato via con la Terra, così che a noi esse appaiono essere in riposo; mentre i regni remoti dell’aria, in cui sono viste le comete, sono liberi dal moto. Il moto di caduta o di elevazione delle cose è sempre doppio relativamente all’universo, composto di moti lineari e circolari. A un corpo semplice, quando è nel suo moto, compete un moto semplice e questo è il moto circolare attraverso cui esso appare essere a riposo. Quando è rimosso dal suo luogo naturale, questo è contrario all’ordine naturale e fa sorgere un moto lineare accelerato. A questo deve essere aggiunto che lo stato di immobilità è considerato essere più nobile e divino del non fermo e della variabilità, da cui esso compete al Mondo intero piuttosto che alla Terra.

Ora, dal momento che non ci sono

obiezioni al moto della Terra, abbiamo da investigare come e se essa abbia altri movimenti e possa essere considerata come un pianeta. Che non sia il centro di tutti i moti circolari è mostrato dalle irregolarità dei pianeti e dalle loro variabili distanze che non possono essere spiegate con cerchi concentrici attorno alla Terra. Ci sono altri centri fuori del centro di gravità terrestre; la gravità è la tendenza di particelle affini a

Fig. 21.

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combinarsi in una sfera. È credibile che la stessa tendenza sia presente nel Sole, nella Luna e nei pianeti, conferendo a quelli la loro forma sferica mentre descrivono le loro orbite circolari. Se anche la Terra ha altri moti, essi devono essere trovati in moti esterni che presentano un periodo annuale. Quando noi assumiamo l’immobilità del Sole e trasferiamo il suo moto annuale alla Terra, il sorgere e il tramontare delle stelle — per mezzo del quale esse divengono stelle della sera o mattutine — seguono nella medesima direzione e le oscillazioni e le stazioni dei pianeti appaiono essere movimenti prestati a loro dalla Terra. Allora noi dobbiamo assumere che il Sole occupa il centro del Mondo.

La successione dei pianeti era sempre assunta dai loro periodi orbitali di rivoluzione: Saturno, Giove, Marte. Il vecchio contenzioso se Mercurio e Venere dovessero essere piazzati davanti o dietro il Sole è ora risolto in questa maniera, che entrambi, come Marziano Capella aveva scritto nell’antichità, ruotano intorno al Sole. Per gli altri tre, il Sole ancora deve essere centro, poiché in opposizione, come è mostrato dalla loro luminosità maggiore, essi vengono a noi più vicini e in congiunzione sono più deboli e più lontani. Fra questi due gruppi è situata l’orbita della Terra, con la Luna e tutto ciò che è davanti alla Luna. Al di fuori, la più alta e più remota, è la sfera delle stelle fisse, immobile e così grande che le dimensioni dell’orbita della Terra sono trascurabili rispetto a essa. Poi seguono Saturno, Giove, Marte, completando le loro orbite rispettivamente in 30, 12 e 2 anni; viene poi la Terra con 1 anno; poi Venere con 7 mesi e Mercurio con 80 giorni. Nel centro di tutte sta il Sole.

«Chi in questo bellissimo tempio sistemerebbe questa lampada in un posto migliore che da dove possa illuminare tutti loro? Così, infatti, il Sole, sedendo come su un trono regale, guida la famiglia di stelle che lo circondano»[92] Questi sono gli argomenti (forniti con le

sue proprie parole, pur se molto abbreviate) che Copernico addusse per il suo nuovo sistema. Queste argomentazioni contro

Tolomeo erano prevalentemente filosofiche, appartenendo al modo di pensare trasmesso dal mondo antico. Restavano alcune imprecisioni nell’esposizione del suo sistema, come appare dall’uso del termine latino orbes [il cui equivalente italiano è orbi o orbite] Questo termine, come è visto nella prima tesi del Commentariolus, qualche volta significa sfere con il Sole come centro; grazie alla loro rotazione esse trascinano intorno i pianeti attaccati a esse in orbite circolari. Qualche volta il termine indica le orbite stesse, specialmente quando si parla di dimensioni numeriche.

La nuova teoria non fu il risultato di esperienze o osservazioni: non conteneva nuovi fatti empirici che potessero far abbandonare i vecchi concetti. Le osservazioni possono solo mostrare i moti degli altri corpi relativi alla Terra e questi erano gli stessi in entrambi i sistemi. Ciò che diede forza al nuovo sistema fu la sua semplicità e armonia. Con le sue semplici basi, comunque, le sue conseguenze erano enormi, perfino oltre la visione del loro autore. Nella loro ampia portata esse furono solo riportate dai successivi sostenitori. Mentre Copernico parlava di sfere celesti come oggetti reali, inamovibili e contenenti tutto, le loro originali funzioni erano dissolte nel niente dal momento che le stelle, fisse nello spazio, non necessitavano più di essere connesse da una sfera materiale. Le insondabili profondità dello spazio erano aperte all’uomo. Nello stesso tempo — una richiesta ancora più pesante per l’immaginazione dell’uomo — la più solida esperienza, la Terra, fissa sotto i suoi piedi, era trascinata via nel moto vorticoso con velocità sostenuta, inimmaginabile, inaccettabile, contraria alla più diretta e fidata esperienza. La dottrina di Copernico rappresentò un completo sconvolgimento nella concezione umana del Mondo, che, mentre la nuova verità si diffondeva, consistette nel definire un pensiero completamente moderno.

L’innovazione della teoria cosmica sarebbe potuta consistere in una semplice trascrizione del sistema di Tolomeo, copiando tutti i numeri e le misure ma dando

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loro nuovi nomi: quello che era chiamato il ‘deferente’ di Marte o Giove ora era chiamato la sua ‘orbita vera’. Ma Copernico allo stesso tempo rivide i numeri e le misure di Tolomeo — questo era il secondo aspetto del suo lavoro. Egli usò nuove osservazioni, compiute soprattutto in prima persona, per derivare le orbite all’epoca attuale, con periodi di rivoluzione più accurati, e computò nuove tavole. Così produsse un nuovo manuale di astronomia in grado di rimpiazzare Tolomeo in ogni aspetto.

La teoria di Tolomeo, inoltre, non poteva soddisfarlo nella spiegazione della velocità variabile dei pianeti. Il suo principio fondamentale era che tutti i moti dei corpi celesti consistevano di cerchi descritti uniformemente. Egli ritenne ciò tanto inammissibile da tralasciare questo principio, cosa che fece effettivamente con l’assunzione del punctum aequans. Nel criticare la sua teoria, disse:

«È certo che il moto uniforme degli epicicli deve aver luogo relativamente al centro del suo deferente e la rivoluzione del pianeta relativamente alla linea attraverso questo e il centro dell’epiciclo. Qui, comunque [nella vecchia teoria], essi permettono che un moto circolare possa aver luogo uniformemente riguardo a un centro diverso dal proprio. […] Questo e cose similari ci avevano indotto a considerare la mobilità della Terra e che lungo tali strade diverse l’uniformità e i principi della scienza fossero preservati e la ragione dell’apparente ineguaglianza fosse resa in una maniera più costante»[93] Questo, poi, fu il terzo aspetto in cui il suo

lavoro deviò da Tolomeo, un nuovo e più ingegnoso meccanismo per sostituire l’equante. Egli si trovò ad affrontare il problema che all’afelio e al perielio (in 1 e 3 nella figura) le distanze rispetto al Sole dovrebbero essere affette dalla singola eccentricità e, mentre a 90o di anomalia (in 2 e 4) la direzione Sole-pianeta dovrebbe essere affetta dal doppio dell’eccentricità totale 2e. Lo risolse attribuendo una distanza del Sole dal centro del cerchio 1½ e e aggiungendo un piccolo epiciclo di raggio ½ e. Allora all’afelio e al perielio, come mostra la fig. 22, i due effetti di eccentricità ed epiciclo si sottraggono mentre nelle

posizioni laterali essi si sommano.

Seguendo questo principio, Copernico

eseguì nuovi calcoli dei dati di Tolomeo tanto per le opposizioni di Saturno, Giove e Marte, quanto delle proprie osservazioni di tre opposizioni di ognuno di essi, fatte fra il 1512 e il 1539. Secondo Tolomeo, non era l’opposizione al Sole vero ma al Sole medio che era usata. Nel sistema di Tolomeo questo era inevitabile, come abbiamo visto sopra; nel nuovo sistema non era così. Ciò significa che non il Sole stesso, ma il centro dell’orbita della Terra è preso come centro del Mondo, attorno a cui i pianeti descrivono le loro orbite; è questo centro che occupa il punto S nella nostra figura. Sembra che l’orgogliosa proclamazione della regalità del Sole fosse dimenticata. I calcoli erano fatti nella stessa maniera di Tolomeo, per successive approssimazioni; dapprima era trascurato il piccolo epiciclo, poi dalla risultante distanza presa pari a 2e, la quarta parte era presa come raggio dell’epiciclo e le longitudini erano corrette per i suoi effetti. Per i dati antichi, ovviamente, giunse agli stessi risultati numerici di Tolomeo, solo espressi in un modo diverso: per l’eccentricità e il raggio dell’epiciclo egli trovò per Saturno 0,0854 e 0,0285, per Giove 0,0687 e 0,0229, per Marte 0,1500 e 0,0500; erano identiche anche le longitudini dell’afelio (prima chiamato apogeo).

Dalle sue nuove osservazioni trovò per Saturno l’eccentricità 0,0854, l’epiciclo 0,0285, in totale 0,1139, esattamente corrispondente con i 65/6 sessantesimi = 0,1139 di Tolomeo; la longitudine dell’afelio, 240o21’, era incrementata di 14o

Fig. 22.

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nei quattordici secoli frapposti. Per Giove, fu portato fuori strada da un errore nei calcoli[94]; così assunse i valori di Tolomeo per l’eccentricità e derivò inoltre la longitudine dell’afelio 159o, la quale era avanzata di 4½o da Tolomeo. Per Marte trovò un’eccentricità di 0,1460 invece di 0,1500, la quale sarebbe stata in accordo con lo 0,200 di Tolomeo, e l’afelio avanzato di 10o50’.

«Trovammo le distanze dei centri delle orbite essere 0,0040 volte più piccole di quelle trovate da lui. Non che Tolomeo o noi stessi abbiamo fatto un errore, ma come chiaro argomento che il centro dell’orbita della Terra è divenuto più vicino a quello di Marte, mentre il Sole è rimasto immobile»[95] Se noi consideriamo che questa differenza

corrisponde a soli 14’ nella prima opposizione, ci si chiede perché egli non abbia posto troppo affidamento all’attendibilità di tali piccole differenze,.

Per Venere e Mercurio, ora chiamati ‘pianeti inferiori’, il nuovo sistema del Mondo poté rimuovere molte delle difficoltà di Tolomeo, semplicemente dovendo i pianeti descrivere un cerchio eccentrico più piccolo entro il più ampio cerchio della Terra. Ma soprattutto, con il suo persistere sul centro dell’orbita della Terra invece del Sole stesso come centro del Mondo, Copernico rese il suo lavoro più difficile e il suo sistema più complicato di quanto fosse necessario. Seguì Tolomeo così strettamente che la sua esposizione spesso sembra essere una copia del suo predecessore in un linguaggio alquanto modificato. Inoltre, era difficile trasformare un epiciclo centrico in un’orbita eccentrica. Egli fece descrivere al centro dell’orbita di Venere un piccolo cerchio in metà anno; e le molte irregolarità inserite da Tolomeo negli epicicli e nei deferenti di Mercurio nella nuova teoria rendevano l’orbita di Mercurio nello spazio dipendente anche dal moto della Terra. Che gli altri pianeti nel loro vero corso dovessero dipendere dalla Terra fa una strana impressione; qui qualcosa rimaneva delle vecchie idee geocentriche.

Per derivare gli esatti risultati per le orbite

di questi pianeti, giusto come per quelli superiori, erano necessarie nuove osservazioni invece dei vecchi dati dell’antichità. Per Venere poteva far uso delle proprie osservazioni, ma per Mercurio non vi riuscì.

«Infatti, questo modo di investigare il corso di questa stella ci era mostrato dagli antichi, supportato, comunque, da un cielo più terso, dal momento che il Nilo, si dice, non genera tali vapori, come avviene qui sulla Vistola. La natura nega questa opportunità a noi, che viviamo in un più aspro paese, dove la tranquillità [potremmo aspettarci qui la parola trasparenza] dell’aria è più rara e comunque, proprio per la più inclinata posizione della sfera celeste, Mercurio può essere visto più raramente […] così che questa stella ci ha procurato molte inquietudini e fatiche nell’investigare i suoi serpeggiamenti. Perciò noi abbiamo adottato tre posizioni tra quelle osservate con cura a Norimberga»[96]

Di queste osservazioni, una fu fatta da Walther nel 1491 e due da Schoner nel 1504.

Rispetto all’inclinazione delle orbite planetarie, Copernico può sembrare essere stato in vantaggio su Tolomeo, dovendo determinare un’inclinazione sola per ogni pianeta. Dal momento, comunque, che prese i dati riportati da Tolomeo nelle sue tavole, non c’era altra maniera per lui che assumerla essere variabile. Così egli disse che la latitudine

«cambia di più dove i pianeti, vicini all’opposizione col Sole, mostrano all’avvicinarsi alla Terra una più ampia deviazione in latitudine che nelle altre posizioni della Terra. […] Questa differenza è più grande di quanto sarebbe semplicemente richiesto dall’avvicinamento o allontanamento dalla Terra. Da questo, riconosciamo che le inclinazioni delle loro orbite non sono fisse ma variano a causa di movimenti oscillanti collegati con i moti dell’orbita della Terra»[97]

Con Venere e Mercurio le cose erano ancora più complicate, come erano state anche per Tolomeo. In questa teoria della latitudine dei pianeti, Copernico adottò la teoria di Tolomeo quasi alla lettera, con tutte le sue inadeguatezze, esprimendola solo in una maniera diversa al fine di adattarla al sistema eliocentrico. Tutto questo era una conseguenza del suo rispetto per il grande

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predecessore e dell’ingiustificata fiducia nei dati osservativi e nelle deduzioni teoriche di Tolomeo.

Per la Luna, comunque, poté, grazie al suo sistema di moti circolari, liberare la teoria tolemaica dall’imperfezione che la Luna ai quarti dovesse essere, talora, il doppio più vicina alla Terra rispetto alla Luna piena. Per spiegare la sua ‘seconda diseguaglianza’, Tolomeo aveva fatto avvicinare e recedere dalla Terra l’intero epiciclo lunare. Copernico raggiunse lo stesso scopo facendo descrivere alla Luna due volte al mese un piccolo cerchio, di modo che la distanza cambiava di solo 1/10.

C’erano ancora altre complicazioni nella sua struttura del Mondo. La precessione era data da Tolomeo come 1o per 100 anni e questo era derivato dal cambiamento di longitudine stellare dai tempi di Ipparco. Nei tempi successivi era stato sempre trovato un più rapido scostamento e Copernico assunse, come fecero gli astronomi arabi, una trepidatio, un’alternanza di precessione più lenta e più rapida. Come Thabit, egli collegò questa alternanza con la graduale diminuzione dell’obliquità dell’eclittica — chiaramente mostrata dalle misure degli antichi (Tolomeo 23o511/3’; Arzachele 23o34’; le proprie misure del 1525, 23o28½’) — la quale, secondo questi dati, doveva essere variabile anche essa stessa. Egli le combinò tutte in un movimento oscillante dell’asse di rotazione della Terra, al quale aveva già dato movimento. L’idea antica secondo la quale, nel caso di una rivoluzione orbitale di un corpo, dovesse essere assunto qualche collegamento fisso con il centro implicava che, in tale semplice caso di movimento, l’asse fosse sempre tenuto inclinato verso il corpo centrale nello stesso modo. Per spiegare il fatto che l’asse della Terra manteneva la sua direzione nello spazio, Copernico dovette dargli un moto annuo conico, come noi vediamo spesso con una trottola rapidamente rotante e lo chiamò ‘il terzo movimento della Terra’. La precessione, ora, poteva trovare una semplice spiegazione, se il periodo del moto conico era considerato appena più piccolo del periodo orbitale, così che ogni anno

rimaneva il piccolo scarto precessivo dell’asse. Copernico allora sovrappose a questo sistema un’altra oscillazione con un periodo di 3.400 anni per compensare le variazioni nella precessione e nell’obliquità. Il risultato fu che la lunghezza dell’anno tropico ora mostrava periodiche variazioni. Una seconda conseguenza fu che Copernico, per la mancanza di un equinozio che si muove regolarmente, doveva contare le sue longitudini delle stelle da una di queste scelta arbitrariamente (prese la prima stella dell’ariete: γ Arietis) e ridurre il catalogo di Tolomeo a questo punto zero.

La stessa eccessiva fiducia nelle osservazioni e nei dati degli antichi causò un’altra complicazione. Dal fatto che Tolomeo desse un’eccentricità di 1/24 e successivi autori trovassero 1/30 e diversi apogei, Copernico li assunse essere irregolarmente variabili. Li rappresentò supponendo che il centro dell’orbita della Terra descrivesse negli stessi 3.400 anni, relativamente al Sole, un piccolo cerchio con un raggio di 0,0048, rendendo l’eccentricità variabile fra 0,0414 e 0,0318 e l’apogeo oscillante di 7½o da entrambi i lati.

«Ma se qualcuno supponesse che il centro dell’orbita annuale fosse fissato come centro del Mondo e che il Sole fosse mobile, con due movimenti similari e uguali a tutti quelli che abbiamo derivato dal centro del cerchio eccentrico, ogni cosa dovrebbe apparire come prima, con gli stessi numeri e la stessa dimostrazione. Così rimane qualche dubbio su quale di quelli sia il centro del Mondo, per la quale ragione ci esprimemmo dagli inizi in una maniera ambigua sul fatto che sia situato entro o intorno al Sole»[98] Così, la nuova struttura del Mondo,

nonostante la sua semplicità nelle grandi linee, era ancora estremamente complicata nei dettagli. Questo, a prima vista, dà al libro di Copernico uno strano e ambiguo carattere. Nei primi capitoli è proclamato e spiegato un nuovo sistema del Mondo il quale sconvolse le fondamenta dell’astronomia, provocò una rivoluzione nella scienza e nella concezione del Mondo e per più secoli fece del nome di Copernico un grido di guerra e un’insegna nella battaglia per il miglioramento morale e la libertà spirituale.

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Poi, studiando i capitoli successivi, ci sentiamo completamente trasferiti nel Mondo dell’antichità; su ogni pagina la sua trattazione mostra uno stretto adattamento, pur se abbastanza timido, all’esempio di Tolomeo. In nessun luogo il respiro di una nuova era, in nessun luogo l’audace orgoglio dell’innovatore, in nessun luogo i sintomi di un nuovo spirito di ricerca scientifica!

In realtà, comunque, il contrasto non è così grande. Anche nei primi capitoli alita lo spirito dell’antichità. Lo abbiamo già visto nelle sue argomentazioni sui moti della Terra che appartengono interamente alla filosofia antica. Copernico non considerò il suo lavoro come una rottura col concetto antico del Mondo, ma come una continuazione e si appellò ai precursori. Tramite il desiderio di affidarsi alle venerabili autorità, la battaglia fra sostenitori e oppositori negli anni che seguirono fu portata avanti sotto i nomi di sistemi del Mondo rispettivamente ‘Pitagorici’ e

‘Tolemaici’. Tutto rimaneva entro il regno della scienza antica: Copernico fu completamente un figlio del Rinascimento.

Gli astronomi del sedicesimo secolo guardarono all’aggiunta di tutti quei complicati moti circolari come a un raffinamento della vecchia teoria. Copernico era altamente stimato come uno dei più eccelsi astronomi, l’uomo che aveva migliorato e rimpiazzato Tolomeo. Questo, comunque, era solo in considerazione dei dettagli e dei migliorati valori numerici: il suo sistema eliocentrico era considerato un’ingegnosa teoria ma non era accettata come verità. I suoi valori numerici erano la base delle nuove tavole astronomiche computate dal matematico Erasmo Reinhold da Wittenberg. Queste tavole, che Reinhold chiamò ‘Tavole Pruteniche’, in onore al suo protettore il duca di Prussia, presto sostituirono le Tavole Alfonsine in uso fino ad allora.

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CAPITOLO 19

IL CALCOLO ASTRONOMICO La crescita della scienza si basa non solo sullo sviluppo delle idee e delle spiegazioni teoriche, ma anche sul miglioramento dei metodi pratici di lavoro. Il lavoro dell’astronomo è diviso in due parti: osservazione e calcolo. Dai dati rilevati dagli strumenti, che sono i risultati diretti delle osservazioni, devono essere ricavati, attraverso il calcolo, i valori desiderati delle quantità astronomiche. Così, nel quindicesimo e sedicesimo secolo la costruzione di un sistema matematico era importante per il progresso scientifico tanto quanto quella di un apparato tecnico lo era per la costruzione di strumenti per l’osservazione.

La geometria greca aveva già insegnato come fosse possibile ricavare, da linee e angoli dati, altre linee e angoli. A uso pratico, Tolomeo aveva calcolato e inserito nel suo grande lavoro una tabella con valori di corde. Per tutti gli angoli o per gli archi aumentati di ½° da 0° a 180°, la lunghezza della corda veniva data in sessagesimali del diametro. Poiché il seno di un angolo è la metà della corda associata all’angolo piatto, la tabella di Tolomeo corrisponde a una tabella di seni, per angoli che aumentano di ¼°, nell’intervallo tra 0° e 90°. Gli astronomi arabi ottennero poi relazioni pratiche tra lati e angoli in un triangolo che noi conosciamo come “formule trigonometriche”.

Con calcolo si intende l’utilizzo di numeri e cifre. Il sistema greco era decisamente inadatto al suo scopo. Esso consisteva nelle 27 lettere dell’alfabeto [ndr: seguite da un apice]: le prime 9 venivano utilizzate per le unità da 1 a 9, le seguenti erano usate per le decine da 10 a 90, le restanti per le centinaia da 100 a 900; posizionate semplicemente una dopo l’altra. Per le cifre da 1.000 a 1.000.000 le stesse lettere erano maiuscole. Queste cifre potevano essere utilizzate per

annotare numeri, ma non erano di nessun aiuto nel calcolo, ad esempio nelle addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni di grandi numeri. I decimali erano sconosciuti e alcune semplici frazioni, come ½, ⅓, ⅔, ¾, erano spesso necessarie e venivano indicate con speciali simboli. Decisamente più pratico era il sistema sessagesimale babilonese, dove gli elementi della successione di numeri da 1 a 59 venivano espressi in una successione di potenze di 1/60. Perciò Tolomeo espresse i valori delle corde della sua tabella in parti sessagesimali del diametro; tre numeri assicuravano una precisione di 1 : 60³ = 1/216.000. L’Europa medievale ereditò lo scomodo sistema romano, tanto poco adatto al calcolo pratico, che negli usi commerciali veniva sempre usato una “macchina per contare” o abacus. Poi, gradatamente, il sistema di cifre indiano penetrò in Europa dall’Arabia, con il valore 0 al posto degli spazi vuoti [ndr: in indiano sunya (vuoto), in arabo zyfr, da cui sia il termine zero che cifra] I mercanti italiani, nei loro commerci con l’Oriente, iniziarono ad apprezzare questo sistema, sebbene in principio esso non ebbe la fiducia dei commercianti meno “esperti”, da cui veniva visto come un’arte segreta. All’inizio del tredicesimo secolo [ndr: 1202], venne pubblicato un manuale, Liber abaci, scritto dal viaggiatore Leonardo da Pisa, in seguito chiamato Fibonacci, che dava istruzioni per il calcolo con le cifre arabe e che venne usato per molti secoli. I traduttori degli scritti arabi di astronomia, ovviamente, copiavano le tabelle con i numerali arabi e fu nei manoscritti tradotti da Abelardo che, per la prima volta, vennero cambiati in numerali romani[99] Gradatamente, le cifre arabe si diffusero oltre l’Europa, scritte in modo differente (come si può vedere nelle raffigurazioni di un astrolabio del 1547), prima di prendere la loro forma attuale. Nel

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quindicesimo secolo, i commercianti tedeschi andarono a Venezia per imparare il nuovo metodo di calcolo e la nuova tecnica (quella ‘italiana’) di contabilità. Nel sedicesimo secolo, la divisione era giudicata ancora un’operazione difficile, tanto che, all’Università di Wittemberg, Melanchthon tenne delle lezioni speciali sull’argomento. Nel libro di Copernico tutti i numeri sono scritti in cifre romane.

Con il primo sviluppo dell’astronomia nell’Europa Occidentale, Purbach iniziò a lavorare sul calcolo di una tabella di seni, relativi ad angoli aumentati di 10’, più ampia e accurata; i seni venivano dati in sette cifre, con il raggio a 6 milioni. Per mezzo di un’interpolazione, Regiomontano l’estese in una tabella con gli angoli aumentati di 1’, cosicché per quelli misurati (in gradi e minuti) il seno poteva essere semplicemente rilevato dalla tabella. Inoltre, calcolò una tabella di tangenti, per ogni grado, da usare per le misure fatte con il cross-staff [ndr: detto anche ‘balestriglia’ o ‘bastone di Giacobbe’ dal nome del rabbino Jacob Levi ben Gershon che l’avrebbe inventato — o perfezionato — agli inizi del XIV secolo: consiste in un bastone sul quale sono inserite, perpendicolarmente, una o più traverse mobili ai cui estremi si traguardano astri o altri oggetti dei quali si voglia misurare la distanza angolare] In un lavoro sulla trigonometria piana e sferica, non stampato fino al 1561, parecchio tempo dopo la sua morte, trovò molte formule per il calcolo di linee e angoli.

Sebbene l’ampiezza e l’accuratezza di queste tabelle fosse sufficiente per l’astronomia pratica di quel tempo, i matematici continuarono a perfezionarli, anticipando così applicazioni future. Retico (1514-1576) iniziò nel 1540 col calcolare i seni, le tangenti e le secanti in quindici figure (nella stampa successiva furono ridotte a dieci) per angoli che aumentavano di 10’’. Alla sua morte le tabelle non erano ancora pronte, ma il suo discepolo Otho concluse il lavoro, pubblicandole nel 1596. Esse servirono come base per molte tabelle successive: più tardi altri calcoli corressero alcuni errori che erano rimasti.

Nello stesso periodo, la teoria continuava a essere sviluppata. Il sistema di relazioni tra le funzioni goniometriche e quelle di formule per il calcolo di tutti gli elementi dei triangoli furono accumulate in una trigonometria completa. Questo fu fatto da Retico e successivamente fu perfezionato in maniera più completa dal geniale matematico Vieta (1540-1603). Così diventò un utile strumento con cui gli astronomi potevano lavorare. Molto importanti erano le complicate formule per i triangoli sferici, che permettevano di ottenere angoli e distanze sulla sfera celeste. In passato, il problema era stato affrontato dividendo gli angoli non retti in triangoli rettangoli e applicando ripetutamente le loro semplici relazioni. Oggi le formule più generali si adattano all’uso universale.

Il primo problema per cui erano necessari era dato della vecchia maniera di misurare l’altezza del Sole per sapere l’ora. Nel tredicesimo secolo, Sacrobosco fornì il metodo, preso in prestito dagli astronomi arabi, di leggere i valori desiderati da curve incise sul retro di un astrolabio. Ma questo metodo non era esatto e poteva essere usato solo perché non era necessaria molta accuratezza. Anche i globi celesti erano usati per risolvere i triangoli sferici, ma l’accuratezza nel leggere le quantità sui globi erano limitate. Walther spesso fissava l’esatto momento di un fenomeno o di un’osservazione misurando l’altezza del Sole, ma non poteva farlo senza la formula esatta.

C’erano altre applicazioni della trigonometria. Poiché erano necessarie le posizioni dei pianeti relative all’eclittica, esse erano espresse in coordinate ellittiche, longitudine e latitudine, e lo stesso sistema era usato per le stelle. Queste coordinate potevano essere lette grazie alle armille, complicate strutture di molti anelli che girano l’uno all’interno dell’altro, le quali con alcune difficoltà potevano essere spostate nella giusta posizione. Così, i risultati erano meno accurati di quanto lo sarebbero stati utilizzando uno strumento più semplice. Nel sedicesimo secolo crebbe la convinzione che era meglio misurare le

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coordinate equatoriali, ascensione retta e declinazione, con uno strumento di costruzione molto semplice, che permetteva una migliore accuratezza. Quindi longitudine e latitudine potevano essere calcolate da esse grazie alle formule trigonometriche. In questo modo la trigonometria permetteva di calcolare quantità direttamente misurabili così com’erano, e perciò in maniera accurata, deducendo le altre quantità tramite il calcolo.

Per determinare la posizione di un pianeta il modo più semplice era quello di misurare la sua distanza da una stella brillante, per esempio con il cross-staff, come avevano fatto Regiomontano, Walther, e probabilmente anche Copernico. Due di queste misure della distanza fissano la posizione del pianeta. Il problema di come dedurre la longitudine e la latitudine del pianeta e la posizione delle stelle dalle distanze misurate era ancora un problema della trigonometria sferica, ma per gli astronomi dell’epoca era un’operazione usuale. Un altro problema da risolvere con essa era di trovare la differenza in ascensione retta di due stelle con declinazione conosciuta, misurando la distanza relativa. Misurare direttamente l’ascensione retta non era possibile, mentre le declinazioni delle stelle potevano essere determinate direttamente misurando la loro altezza in meridiano quando erano nel punto più alto e poi sottraendo l’altezza dell’equatore. Così le formule trigonometriche, combinate con le tabelle dei seni e delle altre funzioni geometriche, divennero l’aiuto supplementare più importante per gli astronomi del sedicesimo secolo. Sempre nel sedicesimo secolo, l’arte del calcolo utilizzando i numeri arabi trovò il suo completamento con l’introduzione delle frazioni decimali [ndr: la rappresentazione decimale dei numeri frazionari, le cosiddette "frazioni dei turchi" (latino fractio, arabo kasr, rompere) risale al 952, per opera del matematico arabo al-Uqlidisi che stabilì le regole di calcolo decimale] L’impulso principale arrivò da Simon Stevin, nativo

della città fiamminga di Bruges, universalmente conosciuto come “l’inventore” di questo sistema di numerazione. Nel suo libro De Thiende (Il decimo), scritto in tedesco e pubblicato nel 1585, spiegava come tutti i calcoli potevano essere facilmente eseguiti «per mezzo dei numeri interi, senza frazioni»; quindi considerò le cifre dopo il punto decimale come numeri interi, contando le potenze di 1/10 come unità [ndr: l’uso della virgola per separare la parte decimale è della fine del Cinquecento a opera del bolognese Giovanni Antonio Magini] Ora la strada era aperta, non solo a tutti i tipi di calcolo astronomico, ma anche al modo pratico di trattare i numeri approssimati e quelli irrazionali.

Di sicuro, in astronomia, l’uso pratico delle formule richiedeva calcoli lunghi e noiosi. L’invenzione dei logaritmi, avvenuta agli inizi del secolo successivo, portò a un enorme risparmio di tempo. I loro principi sono ben noti: se aggiungiamo ai numeri di una serie geometrica la corrispondente serie aritmetica (quindi accanto a 10, 100, 1000, 10000, … o accanto a 2, 4, 8, 16, … poniamo 1, 2, 3, 4, …, che ora vengono chiamati logaritmi), ogni moltiplicazione si semplifica diventando un’addizione e ogni divisione in una sottrazione (8 x 4 = 32 si riduce a 3 + 2 = 5). Il problema era quali numeri dovevano essere messi, come loro logaritmi, accanto a 11, 12, 13, … Verso il 1580 questa idea si presentò nella mente di Joost Bürgi, assistente nell’Osservatorio di Cassel, ma egli non gli diede molta importanza; non fu pubblicata e solo molto più tardi venne alla luce la prima tabella di logaritmi che aveva calcolato. L’onore di introdurli in modo pratico nella scienza spettò allo scienziato scozzese John Napier, meglio noto con il suo nome latino, Nepero. Le sue tavole, pubblicate nel 1614, non avevano ancora la necessaria utilità pratica, poiché non erano adatte al sistema decimale. Questo problema fu risolto da Henry Briggs, matematico di Oxford, che propose a Nepero di sistemarle, specialmente con l’introduzione del 10 come base del logaritmo. Nel 1618 Briggs pubblicò la prima tavola, ancora incompleta, di

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logaritmi, basati sul sistema decimale, con 8 cifre decimali. Diventarono complete e furono pubblicate nel 1628 da Adriaan Vlacq, libraio della cittadina olandese di Gouda, assistito da un suo amico, l’abile matematico Ezekiel de Decker. Queste tavole, con i logaritmi dati con dieci cifre decimali, diventarono la sorgente di molte altre pubblicate successivamente. Inoltre le prime tavole di Nepero contenevano anche i logaritmi delle funzioni goniometriche, che ne costituivano una parte integrante. In seguito, i calcolatori hanno fatto nuovi e ancor più accurati calcoli per tutti i

logaritmi, da alcuni piccoli numeri primi fino a 64 decimali.

Il calcolo logaritmico trovò la sua applicazione in tutte le scienze pratiche, come aiuto indispensabile, ma l’astronomia trasse profitto da questa invenzione più di ogni altra. Eseguendo i lunghi e noiosi calcoli delle tabelle logaritmiche, i primi inventori, per così dire, “prolungarono la vita” degli astronomi successivi. Essi resero possibili delle ricerche che, per l’immensa quantità di calcoli, non si sarebbero potute portare avanti senza questo aiuto.

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CAPITOLO 20

TYCHO BRAHE Una dei tanti personaggi del sedicesimo secolo che dedicarono tutta la loro vita allo studio della natura fu il nobile danese Tuge (latinizzato in Tycho) Brahe (1546-1601).

Mandato in gioventù a Lipsia per seguire

gli studi giuridici, mostrò la sua passione per l’astronomia con studi e osservazioni notturne segrete. Come la maggior parte dei suoi contemporanei, fu profondamente convinto della validità delle teorie astrologiche e calcolò spesso degli oroscopi. I più importanti pensatori dell’epoca, nella confusione dei conflitti politici e sociali e nell’incertezza del futuro e del destino, cercavano sicurezze in un’intima e armonica connessione di tutto il mondo. Le stelle, dicevano, governano la Terra e il loro corso è regolato da leggi eterne. La nostra conoscenza di questo collegamento e del corso delle stelle è insufficiente. La credenza in un legame indissolubile tra gli incerti avvenimenti sulla Terra e la regolarità delle stelle era il principio guida delle loro ricerche. C’era un’astrologia migliore della pratica dei pronostici, ma era ancora nella sua infanzia, e solo attraverso un lento studio si sviluppò da questa condizione primitiva in scienza affidabile. Questa scienza, in quanto conoscenza dell’unità interiore del mondo,

avrebbe fornito all’uomo un potere contro il suo destino.

Questa fu anche l’idea del mondo di Tycho Brahe. Egli lo espresse negli ultimi anni della sua vita in una pubblica lezione in latino, che allora era la lingua internazionale della cultura, tenuta nel 1574 all’Università di Copenhagen. Il suo titolo, De disciplinis mathematicis, benché avesse completamente a che fare con l’astrologia, mostra come nella sua visione, conforme a quella dell’epoca, l’astrologia fosse il maggior obiettivo pratico della disciplina matematica.

Nella sua lezione Tycho diceva: «Negare la forza e l’influenza delle stelle significa prima di tutto sottovalutare la saggezza e la provvidenza divina e in secondo luogo contraddire l’esperienza comune. Ciò che possiamo pensare di più ingiusto e stupido riguardo Dio è che Egli abbia generato quest’immenso e splendido panorama celeste senza motivo e senza scopo, mentre nessun uomo farebbe il più piccolo lavoro senza un obiettivo. Così, possiamo misurare i nostri giorni, mesi, anni per mezzo del cielo, come da un orologio perpetuo e infaticabile, ma non è sufficiente a spiegare il motivo e lo scopo della macchina celeste; poiché quello che si fa per misurarlo dipende interamente dal corso delle grandi stelle luminose e dalla rotazione quotidiana. Qual è quindi lo scopo di questi cinque pianeti che ruotano con orbite differenti? Può Dio aver creato un’opera d’arte così magnifica, uno strumento così fantastico, senza nessuno scopo? Se, quindi, i corpi celesti sono stati ordinati da Dio in modo da stare nei loro segni, questi devono per forza avere un significato, specialmente per il genere umano per il quale sono stati creati […] Non di meno, quelli [che negano l’influenza delle stelle] negano quella chiara evidenza che per le persone istruite e di giudizio non è conveniente contraddire. Chi non si accorge che la differenza tra le quattro stagioni è causata dal sorgere e dal tramontare del Sole nel suo cammino attraverso le 12 parti dello zodiaco? Noi vediamo anche che con il crescere della Luna ogni cosa che ha la stessa origine, come i cervelli degli esseri viventi, il midollo delle ossa e degli alberi, la polpa delle aragoste e delle conchiglie e molte altre cose, aumenta, e che al suo calare tutto diminuisce. Nello

Tav. 3b.

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stesso modo il fluire e il defluire degli immensi oceani è dovuto al moto lunare, cosicché con il crescere della Luna comincia ad aumentare anche il mare […] Questi e altri fenomeni analoghi sono conosciuti anche dalle persone non istruite. I marinai e i contadini, grazie a numerose esperienze, hanno notato il sorgere e il tramontare di alcune stelle, da cui possono prevedere e predire annualmente il ricorrere delle tempeste. Gli studenti che sono votati a questa scienza deducono le influenze delle configurazioni delle altre stelle vaganti: o l’una con l’altra o con i Luminari o con le stelle fisse. Essi hanno osservato che la condizione dell’aria nelle quattro stagioni, in alcuni anni particolari, è influenzata dalle stelle in vari modi. Così, si sono accorti che la congiunzione di Marte e Venere in zone adatte del cielo fa aumentare le piogge, gli acquazzoni e talvolta i temporali. Queste importanti congiunzioni tra grandi pianeti causa grossi cambiamenti nel mondo inferiore, come spesso ci ha mostrato l’esperienza. Così, nel 1563 [ndr: 1593 nell’originale inglese: chiaramente un errore tipografico], quando ci fu una congiunzione tra Giove e Saturno nella prima parte del Leone, vicino alla stella nebulosa del Cancro, che Tolomeo chiama la fumosa e la nociva, non ci fu negli anni che seguirono la pestilenza che infuriò in tutta Europa, causando innumerevoli morti? Questo non conferma l’influenza delle stelle attraverso un fatto sicuro?»[100] Quindi, dopo aver discusso le opinioni di

coloro che si opponevano all’astrologia, Tycho procedeva:

«Ma noi, al contrario, crediamo che il cielo influenzi non solo l’atmosfera, ma anche l’uomo stesso. Poiché l’uomo è composto dagli elementi ed è nato dalla terra, è necessario che sia soggetto alle condizioni a cui è soggetta la materia di cui è costituito, è inevitabile essere influenzati da essa in vari modi. Poiché, inoltre, l’aria che respiriamo e dalla quale traiamo la vita, non meno che dal cibo e dall’acqua, è affetta in modo diverso dall’influenza del cielo, come abbiamo mostrato prima, appare inevitabile che noi dobbiamo, nello stesso tempo, essere affetti da quella in vari modi. Lasciando da parte ciò che deve essere chiaro a ogni mente, l’uomo vive per qualche motivo sconosciuto ed è nutrito dal cielo stesso tanto quanto dall’aria, dall’acqua o dagli altri elementi, e ha un’affinità incredibile con le stelle con cui è imparentato; così gli antichi filosofi, tra cui Ipparco, in accordo con la testimonianza di Plinio, non sbagliavano quando affermavano che il loro spirito è una parte del paradiso stesso»[101] Qui tutte le attenzioni erano dirette alle

stelle, ma nella mente di Tycho questa faceva parte di una dottrina più generale

sull’unità del mondo, che lo stimolò alla ricerca scientifica. Osservando la congiunzione di Giove e Saturno nel 1563, si accorse che le Tavole Alfonsine prevedevano l’evento sbagliando di un mese e quelle Pruteniche invece di qualche giorno. In un caso simile com’era possibile un giudizio affidabile sulla connessione con gli eventi terrestri? In primo luogo era necessaria una miglior conoscenza dei moti planetari: potevano essere verificati solo attraverso nuove e migliori osservazioni, per le quali erano necessari strumenti migliori. Quando visitò Augusta nel 1569, concepì, con i fratelli Paul e Johann B. Hainzel, membri del consiglio comunale e appassionati di astronomia, un quadrante verticale di legno con un raggio di 4,5 metri, tenuto sospeso al centro, con il quale poteva eseguire delle misure, grazie a un filo a piombo, con una precisione di 10’’. Questo quadrante servì per misure utili, ma essendo così grosso era troppo poco maneggevole. Per se stesso, da usare nei suoi viaggi, si era costruito uno strumento più piccolo, che chiamo “sestante”: era un settore di 60° con due diottre poste sui raggi, uno fisso e l’altro mobile, per misurare la distanza tra due stelle guardando dal centro attraverso le mire di entrambe le diottre contemporaneamente. Per leggere i primi concepì un congegno che utilizzava linee trasversali: file di dieci punti crescenti e decrescenti a distanze costanti tra un cerchio interno e uno esterno del bordo (fig. 23). Questo metodo di divisione fu applicato in seguito in tutti i suoi strumenti [ndr: e da lui prende il nome di scala ticonica] Dopo aver viaggiato per l’Europa ritornò in Danimarca e visse presso lo zio, occupandosi per lo più di esperimenti chimici.

Avvenne, quindi, che la sera dell’11

novembre 1572, tornando dal laboratorio, i

Fig. 23.

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suoi occhi furono attratti da una stella brillante proprio sopra la sua testa, nella costellazione di Cassiopea, che non aveva mai visto prima. Era una nuova stella, una nova, che, come fu presto appurato, era apparsa, certamente, dopo il primo di novembre (probabilmente tra il 2 e il 6 di novembre). Era più brillante di ogni altra stella: la sua luminosità era paragonabile a quella di Venere ed era visibile anche di giorno. Questo magnifico fenomeno fece clamore in tutto il mondo, specialmente tra la gente di cultura, ma anche tra le persone comuni. Cosa significava? Questa era la domanda che tutti si ponevano. Beza, un amico di Calvino, suppose che fosse la seconda stella di Betlemme, che annunciava la seconda venuta di Cristo sulla Terra. Altri discutevano sulle calamità che avrebbe potuto portare con sé, della sua natura, e del suo posto nell’Universo. Apparteneva alle stelle? Aristotele aveva stabilito che nel mondo delle stelle ogni cosa era eterna e immutabile. Oppure apparteneva al mondo sublunare, costituito dai corruttibili elementi terrestri, o era forse una particolare cometa condensata da vapori ardenti?

Tycho, ossessionato dalle stesse domande,

cominciò immediatamente a osservare il nuovo astro misurando ripetutamente la sua

distanza dalla stella polare e dalla stella di Cassiopea più vicina, entrambe quando questa costellazione si trovava vicino allo zenit e quando, 12 ore dopo, si trovava in basso a nord, sotto il polo. Se la stella si fosse trovata alla stessa distanza della Luna, avendo, quindi, una parallasse di un grado, sarebbe dovuta apparire, nella seconda osservazione, un grado più bassa rispetto alle altre stelle di Cassiopea. Ma la distanza in entrambi i casi, ad alta e bassa altitudine, era sempre la stessa, con solo pochi minuti di incertezza. Questo dimostra che, contrariamente alla dottrina aristotelica, avvenivano dei cambiamenti nel mondo delle stelle, il regno dell’etere.

Presto l’astro iniziò a diminuire in luminosità, ancor più nell’anno successivo, mentre nello stesso tempo il suo colore cambiò in giallo e successivamente in rosso e, alla fine diventò, sempre meno colorata. Scomparve nel 1574, lasciando le persone meravigliate ad agitarsi sulla loro fiducia nelle dottrine filosofiche. Tycho pubblicò un libro sulla nuova stella nel maggio del 1573, dopo aver superato la sua esitazione, comportandosi nel modo in cui agivano di solito i nobiluomini. Fece ciò dopo aver visto la massa di cose senza senso scritte e pubblicate sulla stella. Nel libro mise a disposizione le sue misure e ciò che da quelle aveva dedotto, ed espresse per esteso le sue opinioni sulla natura dell’astro e sul suo significato astrologico. Egli riteneva probabile che la stella avesse avuto origine dalla condensazione della materia celeste poco densa che si vedeva nella Via Lattea, e collocò nella sua mappa una macchia scura vicino a essa, nella Via Lattea, simile al buco lasciatovi. L’apparizione della nuova stella aumentò il suo entusiasmo verso l’astronomia. Delle cose accadevano nel cielo e chi poteva conoscere quali grandi e importanti eventi le stelle avevano in serbo per l’umanità? Tycho pensò di stabilirsi in un’altra città europea e di trovare là un istituto per l’osservazione regolare delle stelle. Aveva in mente Basilea per il suo ambiente culturalmente vivace, del tutto diverso dal mondo della nobiltà minore della Danimarca. Nello stesso periodo l’idea di

Fig. 24. La nuova stella in Cassiopea, dal ‘De Nova Stella’ di Tycho Brahe.

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fondare un osservatorio esclusivamente dedicato alle osservazioni era venuto anche ad altri. A Kassel, il langravio Guglielmo IV di Hesse — figlio del langravio Filippo, famoso per le guerre di religione e per la crescita del protestantesimo — aveva già costruito con cura nel suo castello, durante il regno di suo padre, degli strumenti, installati sotto un tetto mobile, con il quale egli stesso compiva osservazioni. Si trattava di semplici quadranti e sestanti con scale graduate in metallo. Quando negli anni successivi fu troppo occupato con gli affari di governo assunse Christoffel Rothmann come osservatore. Più tardi fu ingaggiato anche Joost Bürgi, abile ed esperto meccanico svizzero, che si applicò diligentemente al miglioramento degli orologi utilizzati per le osservazioni. Nei suoi viaggi in Germania, alla ricerca di un sito futuro, Tycho visitò Kassel nel 1575 e questa visita fu molto stimolante per entrambe le parti. Negli anni successivi, ci fu un considerevole aumento delle osservazioni del Sole, dei pianeti e delle stelle e qui furono fatti i primi sforzi per introdurre il tempo come unità di misura astronomico per le differenze in ascensione retta; da Kassel arrivò il primo catalogo di stelle dell’Europa Occidentale, basato sulle nuove misurazioni.

Un’altra conseguenza di questa visita fu

ancora più importante. Landgrave scrisse al

re Federico di Danimarca che la partenza di un personaggio importante e famoso non avrebbe fatto guadagnare fama e onore al regno danese.

Il re, che si interessava di scienza e che

aveva già donato denaro a Tycho per i suoi studi, gli offrì la piccola isola di Hven, nel Sound, vicino a Copenhagen, con tutti i redditi di un feudo, al fine di costruirci un osservatorio e di attrezzarlo con i migliori strumenti. Lì Tycho si stabilì; nel 1576 iniziò a costruire “Uraniborg”, il palazzo dell’astronomia, dove, negli anni seguenti, quando sarebbe cresciuta la sua fama, avrebbe ricevuto principi e scienziati di vari paesi. Si circondò di assistenti, per i quali costruì un osservatorio più piccolo, “Stjerneborg”.

In questo osservatorio il rinnovamento della pratica astronomica era dovuto in primo luogo al miglioramento degli strumenti di misura, costruiti seguendo i disegni di Tycho. Essi erano di vari tipi, ognuno di dimensioni differenti: i più piccoli erano fatti per essere traspostati facilmente e velocemente, i più grossi per avere una precisione estrema. Prima di tutto, c’erano quadranti verticali per la misura delle altitudini, con raggi di 16 pollici, di 2, di 5½ e 7 piedi; i più piccoli girevoli per ogni

Fig. 25. Tycho Brahe e il suo grande quadrante.

Fig. 26. Il grande sestante di Tycho.

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azimut, i più grandi fissi. In particolare c’era un grande quadrante, con raggi di 6 piedi e ¾ fissato a un muro sul meridiano, molto usato per misure accurate di declinazione, con una precisione di 10’’. Divenne famoso grazie a un grande dipinto spesso riprodotto (fig. 25), nel quale era rappresentato in funzione, con Tycho stesso a indicare l’obiettivo, i suoi assistenti a puntarlo, osservarlo e a prendere nota, con il suo cane ai piedi. I sestanti erano un altro tipo di strumenti (venivano chiamati in questo modo anche quando gli archi non erano di 60°): formati da 2 bracci, uno fisso e l’altro mobile, erano forniti di mire e servivano a misurare la distanza tra due stelle. Il più usato tra essi era differente rispetto al suo più piccolo strumento da viaggio: lavoravano due operatori che osservavano dal lato dell’arco più esterno, sopra il centro, verso le stelle. Esso manteneva il suo baricentro su una giuntura tonda, cosicché era in equilibrio in ogni direzione con la linea che collegava le stelle; aveva un raggio di 5 piedi e ½. C’erano anche delle armille, ma di costruzione più semplice e stabile, senza anelli eclittici, per leggere le coordinate equatoriali in modo più affidabile. Gli anelli erano posizionati correttamente per mezzo dell’ascensione retta di stelle conosciute e, quindi, vi si poteva leggere l’ascensione retta di tutte le stelle e i pianeti. Il risultato definitivo nel processo di semplificazione degli strumenti si raggiunse tramite un asse polare fissato sopra e sotto alla muratura, regolabile tramite le viti, alle quali era attaccato solo un cerchio di declinazione di 9 piedi e ½ di diametro, provvisto di mirini. Poteva ruotare in tutti gli angoli orari, che venivano poi letti in un cerchio semi-equatoriale, poco più grande, situato sul lato settentrionale al di sotto dell’orizzonte.

Tutti questi strumenti erano caratterizzati da speciali cure per poter raggiungere la massima precisione. File trasversali di punti, come descritte sopra, servivano per determinare le suddivisioni più piccole. Mezzo secolo più tardi, Pierre Vernier inventò il metodo di un arco ausiliario (per esempio diviso in dieci pari uguali) che, nei

secoli successivi, fu applicato a tutti gli strumenti astronomici; a seguito dell’invenzione dell’astronomo portoghese Pedro Nunez, basata però su un differente principio, in diversi paesi fu erroneamente chiamato “nonio”. Per puntare esattamente una stella, Tycho escogitò un tipo speciale di pinnule che applicò a tutti i suoi strumenti. Nel grande quadrante, per esempio, fu posto nel centro un piolo cilindrico; prima dell’occhio c’era un piatto metallico con due fenditure, una sopra l’altra, a una distanza uguale al diametro del piolo. Se l’occhio, osservando in maniera alternata attraverso le due fenditure, vedeva stesse porzioni della stella proiettata sopra e sotto il polo, la stella era puntata esattamente. Tycho fece descrizioni accurate e disegni di tutti i suoi strumenti nel libro Astronomiae instauratae meccanica (Meccanica dell’astronomia rinnovata), pubblicato nel 1598. Un altro libro, Astronomiae instauratae progymnasmata (Principi dell’astronomia rinnovata), fu pubblicato in parti dal 1588: conteneva i risultati di Tycho riguardanti il Sole, la Luna, le stelle fisse, l’astro del 1572 e le comete e fu pubblicato in maniera completa nel 1602, un anno dopo la sua morte.

Il Sole era il primo oggetto: misurando la sua altezza in entrambi i solstizi, d’estate e d’inverno, poté dedurre l’obliquità dell’eclittica (metà della loro differenza) e l’altezza dell’equatore (metà della loro somma). Quest’ultima era 4’ più grande di quella corrispondente alle altitudini della Stella polare sopra e sotto il polo. Egli sospettava che la causa della differenza fosse la rifrazione dell’atmosfera, poiché l’altezza del Sole al solstizio d’inverno era appena 11°. Seguendo il Sole da mezzogiorno di un giorno di luglio con la sua armilla, dalla culminazione fino al tramonto, trovò che deviava sempre verso l’alto, verso nord, come Walther aveva previsto. A 11° d’altezza il Sole era cresciuto di 9’: questo spiegava la differenza trovata. Da un gran numero di misure calcolò la rifrazione per diverse altitudini e le inserì in una tabella di correzione per la rifrazione.

A 0° d’altezza era di 34’, a 1° di 26’, a 10°

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erano 10’, a 20° 4½, a 30° 1’25’’ e a 40° erano 10’’. Oltre i 45° era impercettibile. Egli suppose che fosse causata dal vapore che occupava gli strati più bassi dell’atmosfera. Poiché, seguendo le sue tavole, tanto la stella polare quanto il solstizio d’estate venivano corretti per la rifrazione, si poteva ottenere l’obliquità dell’eclittica senza errori combinando questi due valori: così egli trovò 23°31½’.

Walther e Copernico, tuttavia, avevano trovato 23°28’. Tycho sospettava che anch’essi, come risultato della rifrazione, avessero misurato un’altezza del solstizio d’inverno troppo alta e calcolata così un’obliquità di 3’ o 4’ più piccola. Per essere sicuro, mandò uno dei suoi assistenti a Frauenburg per determinare l’altezza polare. Si trovò, infatti, che era 2¼’ più grande di quella che Copernico aveva ottenuto dalle sue misure sull’altezza solare. Qui vediamo l’attenzione a differenze di pochi minuti, un segno dell’alto livello di precisione nella astronomia rinnovata. La cosa curiosa è che l’obliquità di Tycho era ancora 2’ troppo grande. Aveva corretto le sue misure di altezza non solo per la rifrazione ma anche per la parallasse solare. Secondo Aristarco e Tolomeo, questa parallasse, 1/19 di quella lunare, era 3’; adottando e applicando questo valore, Tycho ottenne per l’altezza solare al solstizio d’estate un valore 1½’ più grande. Apparentemente non ebbe alcun dubbio nei confronti di questo valore – di certo sarebbe stato difficile compiere una nuova determinazione – ed egli disse semplicemente: «Questo valore deriva da una così ingegnosa ricerca degli Antichi che ci è stato trasmesso con grande certezza»[102] Di conseguenza, molti valori da lui calcolati erano in errore di qualche minuto. Forse, fu anche per questo fatto che trovò per le stelle una rifrazione più piccola rispetto al Sole e le inserì in una tabella con valori più piccoli di 4½’, dunque impercettibili sopra i 20° di altezza.

Per trovare l’eccentricità dell’orbita solare sfruttò gli equinozi e — invece degli istanti del solstizio, non facilmente osservabili — gli istanti in cui il Sole, a secondo della sua declinazione, si trovava a metà tra

l’equinozio e il solstizio d’estate. Poiché le sue misure, oltre a essere molto accurate, continuarono per parecchi anni, egli trovò gli intervalli di tempo con una precisione più alta di quella degli osservatóri precedenti. Trovò un’eccentricità di 0,03584 e una longitudine dell’apogeo di 95½°. Spiegò perché il risultato di Copernico era sbagliato, mentre dalle osservazioni di Walther trovò i valori 0,03584 e 94⅓°, praticamente identici ai suoi risultati. Suppose un aumento regolare della longitudine dell’apogeo di 1°15’ per secolo; trascurò invece tutte le irregolarità di Copernico.

Per la prima volta, il cammino della Luna fu seguito attraverso tutti gli anni. A questo provvide Tycho con i suoi valori accurati dell’eccentricità nella variazione Tolemaica: 4°58’ durante la Luna piena e la Luna nuova, 7°28’ durante i quarti, che rappresentò grazie a un abile sistema di epicicli. Inoltre, scoprì una “variazione” aggiuntiva, nome con cui è conosciuta ancor oggi: la Luna negli ottanti è, alternativamente, 40½’ maggiore dei 45° prima della Luna piena e di quella nuova e 40½’ minore dei 45° dopo di quelle. Trovò, inoltre, che in primavera la Luna era sempre indietro, e in autunno avanti, di 11’; inoltre in inverno era più lenta e in estate più veloce. È eccezionale il fatto che questa deviazione, chiamata più tardi “diseguaglianza annua”, sia stata scoperta in maniera indipendente anche da Keplero, ma senza osservazioni. Un’eclissi di Luna del 1598, da lui prevista in un almanacco per la Stiria, avvenne un’ora e ½ più tardi; quando gli chiesero quale fosse la causa, rispose che il Sole aveva un’influenza rallentata sulla Luna, che era più grande d’inverno perché in quel periodo è più vicino alla Terra. Una spiegazione conforme alla visione moderna!

Inoltre, Tycho calcolò dalle sue osservazioni che l’inclinazione dell’orbita della Luna non era, come si credeva in passato, 5°, ma oscillava tra un minimo di 4°58½’, quando la Luna era piena, e un massimo di 5°17½’ ai quarti. Per di più, scoprì che la regressione dei nodi nel loro periodo di 19 anni non era uniforme, ma aveva luogo molto rapidamente durante la

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Luna nuova e piena, molto lentamente ai quarti. Egli riprodusse questi effetti assumendo che il polo dell’orbita della Luna, che in 19 anni descrive una circonferenza di 5°8’ di raggio intorno al polo dell’eclittica, ne descrivesse anche un’altra di 9½’ di raggio in metà anno.

Calcolando la posizione della stella nova del 1572 per mezzo delle distanze dalle altre stelle conosciute di Cassiopea, Tycho si accorse che i cattivi valori delle loro coordinate impedivano alle sue misure di mostrare i loro vantaggi. Egli cercava coordinate accurate delle stelle fisse; ne aveva bisogno poiché doveva determinare continuamente le posizioni della Luna e dei pianeti per misurare la loro distanza dalle stelle. Le declinazioni potevano essere trovate direttamente, misurando la loro altezza sul meridiano con un grosso quadrante. L’ascensione retta poteva essere letta tramite l’armilla o calcolata con le formule trigonometriche, a partire dalle distanze misurate con un sestante. Vennero, così, ottenute delle differenze in ascensione retta, mentre le stesse ascensioni rette venivano calcolate dall’equinozio, un punto invisibile della sfera celeste, definibile solo per mezzo del Sole. Dalla sua declinazione, misurata quando era nei pressi dell’equinozio, poteva essere calcolata la distanza da quel punto. Se nello stesso momento veniva misurata la differenza in ascensione retta tra il Sole e una stella, allora si sarebbe potuta trovare l’ascensione retta della stessa. Poiché le stelle non erano visibili durante il giorno, non potevano essere confrontate direttamente con il Sole, così gli antichi avevano usato la Luna come punto intermedio di riferimento. Tycho, invece, utilizzò Venere, poiché si muoveva molto più lentamente. Tra il 1582 e il 1588, quando Venere era visibile di giorno, vennero eseguite un gran numero di misure della sua distanza dalla stella selezionata, sia con il Sole basso sull’orizzonte, sia di notte. Per eliminare l’effetto della rifrazione, venivano sempre combinate un’osservazione alla sera e una al mattino, eseguite con il Sole alla stessa altezza. Queste precauzioni ebbero successo: i 15 valori ottenuti

dell’ascensione retta della stella (la più brillante dell’Ariete, α Arietis) non differivano di più di 40’’, meno di quanto ci si potesse aspettare anche con le osservazioni più accurate. Quindi, per mezzo del grande numero di misure ripetute, vennero determinate l’ascensione retta e la declinazione di 21 stelle principali, con un errore medio, confrontato con i dati moderni, minore di 40’’. Al fine di accertare che l’arco del suo sestante fosse della lunghezza giusta, egli sommò tutte le differenze consecutive di ascensione retta eseguite lungo la sfera celeste, per vedere se otteneva 360°: la differenza fu solo di pochi secondi. Questa, però, fu una pura casualità: la somma di un certo numero di valori, ognuno con un’incertezza di 20’’ o 30’’, può facilmente avere un errore di qualche minuto. È possibile che Tycho abbia scelto un certo numero di valori che presentavano un buon accordo tra loro, considerandoli i più affidabili. La maggior parte delle stelle appena visibili e meno osservate del suo catalogo, che sono 788, hanno misure meno accurate e il loro errore medio, confrontato con i valori odierni, è di circa 1’.

Il catalogo di stelle di Tycho fu il primo catalogo moderno completo, sostituendo i lavori di Ipparco e di Tolomeo e superandoli in accuratezza. Come risultato supremo di massima attenzione, abilità e pluriennale perseveranza, questo catalogo segnò l’inizio di una nuova era dell’astronomia osservativa, rimanendo per più di un secolo la più importante fonte di consultazione per le posizioni stellari. Sebbene le coordinate equatoriali (ascensione retta e declinazione) potessero essere misurate direttamente, il catalogo, seguendo la tradizione, dava la longitudine eclittica calcolata da quelle. Le stelle erano indicate, come aveva fatto Tolomeo, attraverso i contorni o le regioni delle costellazioni. Fu solo successivamente, nel 1603, che Bayer, pubblicando, sotto il nome di Uranometria, un atlante celeste con tutte le stelle di Tycho, aggiunse le lettere greche alle stelle più importanti: queste lettere divennero così di uso comune.

Confrontando le sue longitudini stellari con i dati dell’antichità e con quelli del

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1800, Tycho ottenne un accurato valore della precessione, 51’’ per anno. Egli ipotizzò che fosse uniforme e non parlò della “trepidazione” che aveva dato tanti problemi a Copernico; così questo fantasma scomparve dall’astronomia. Un altro fenomeno attirò la sua attenzione: quando confrontò le sue latitudini stellari con quelle del passato verificò che nella regione dei Gemelli erano aumentate tra i 15’ e i 20’, ed erano diminuite della stessa quantità nella regione dell’Aquila. Poiché si sapeva che l’inclinazione dell’eclittica era diminuita della stessa quantità, diveniva chiaro che era l’eclittica a variare la sua posizione, mentre in quelle regioni l’equatore (a 90° e a 270° di longitudine) aveva mantenuto la sua posizione relativamente alle stelle. In questo modo venivano poste le nuove fondamenta dell’astronomia osservativa con un’accuratezza fino allora sconosciuta.

Non meno importanti erano le osservazioni delle comete fatte a Uraniborg. Quando appariva una cometa, la sua posizione veniva determinata il più spesso possibile, per lo più misurando la distanza dalla stella più importante. La cometa luminosa del 1577 fu misurata soprattutto con un cross-staff, dato che i nuovi strumenti non erano ancora pronti; un calcolo moderno della sua orbita mostra che la posizione di Tycho aveva un errore di 4’. Per la cometa del 1585, misurata con i suoi migliori strumenti, questo errore era solo di 1’! Uno dei suoi obiettivi principali era di trovarne la parallasse, determinando la sua posizione tra le stelle quando la cometa era bassa nel cielo e confrontandola con quella a un’altra altezza. Se la cometa era a una distanza minore od uguale da quella tra la Terra e la Luna, come aveva supposto in gioventù, dovevano apparire grosse differenze, oltre 1°, dovute alla parallasse. La cometa, in accordo con le sue precedenti conclusioni, doveva essere come minimo sei volte più lontana della Luna. Questo fu sufficiente per demolire interamente, in una pubblicazione sulla cometa del 1577, la teoria di Aristotele secondo cui le comete erano fenomeni di fuoco che avvenivano nelle regioni sub-

lunari, gli strati più alti dell’atmosfera. Tycho elevò le comete al rango di oggetti celesti: così, ora esse appartengono al regno delle stelle e le loro orbite nello spazio devono essere determinate dagli astronomi. Che lo stesso Tycho fosse abbastanza in errore, supponendo che le loro orbite fossero cerchi inclinati, non ci sorprende.

Molto più ampio di questo sporadico lavoro sulle comete era quello che riguardava le osservazioni dei pianeti. Queste erano, sin dall’inizio, l’obiettivo principale della mente “astrologica” di Tycho ed esse costituiscono la maggior parte del lavoro a Uraniborg. L’analisi e la discussione di questo materiale, al fine di ottenere le orbite dei pianeti, fu il suo principale obiettivo, per raggiungere il quale tutti i risultati precedenti erano solo i preliminari.

Ma, a questo punto della sua vita, andò incontro a dei problemi di natura pratica. Nel 1588, il suo mecenate, re Federico, morì e il regno finì prima nelle mani di membri dell’alta nobiltà, tutori del suo successore, e poi in quelle dello stesso principe, nessun dei quali era ben disposto nei suoi confronti. Tycho entrò ben presto in conflitto con il reggente e con gli altri nobili poiché tentava di spendere quanto più denaro possibile per i suoi lavori astronomici, e la suprema corte di giustizia lo aveva giudicato spesso colpevole. La sua condotta fiera e orgogliosa gli procurò molti nemici tra i nobili e tra gli ufficiali. Molte delle sue precedenti prebende gli furono tolte, per cui si sentì offeso e lasciò la Danimarca nel 1597. Dopo aver girovagato senza metà trovò un nuovo mecenate nell’imperatore Rodolfo II il quale, comunque, era sempre in difficoltà economiche. Tycho si stabilì a Praga nel 1599 nella residenza dell’imperatore, dove con l’assistente Longomontano continuò le sue osservazioni con gli strumenti che era riuscito a trasportare da Hven. Ma la sua energia era finita: morì nell’ottobre del 1601, lasciando tutte le sue osservazioni nelle mani di Keplero, che era stato il suo assistente per i calcoli negli ultimi anni.

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CAPITOLO 21

LA RIFORMA DEL CALENDARIO Il calendario serve per la regolazione del tempo nella vita sociale. Come tutte le regole sociali anche il calendario ha avuto implicazioni religiose fin dai tempi più antichi. Con l’affermazione all’interno dell’Impero romano del cristianesimo, che come religione universale era l’espressione di relazioni sociali nuove e più profonde delle vecchie religioni tribali e di stato, le festività religiose acquisirono un nuovo carattere. Persero la loro stretta connessione con l’andamento dei lavori nel loro ciclo annuale. In quanto strumento per regolare le festività cristiane, il calendario era ora una faccenda della Chiesa. Al primo posto venivano la determinazione della data di Pasqua e delle altre feste mobili a quella connesse. Per la Cristianità, la Pasqua non rappresentava più le offerte primaverili dei nuovi raccolti ma la commemorazione annuale della Crocifissione e della Resurrezione di Cristo.

Secondo le Scritture, la Resurrezione aveva avuto luogo la domenica dopo il Sabbath che seguiva la Passione ebraica, la quale cadeva al plenilunio, il 15 del primo mese Nisan. Quindi, la commemorazione doveva aver luogo la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera, cioè dopo l’equinozio di primavera del 21 marzo. Fu, perciò, necessario che l’astronomia ne fissasse la data, dal momento che l’annuncio della festività, che si celebrava contemporaneamente in tutte le chiese di oriente e di occidente, non poteva aspettare fino all’osservazione del plenilunio, bensì doveva essere fissata molto tempo prima, in modo teorico. Ma, da una teoria non troppo difficile, in quanto che le regole del computo della data dovevano essere utilizzabili da preti ben istruiti, per mezzo di cicli e periodi. Di conseguenza, si doveva evitare un computo astronomico esatto, che comprendesse tutte le irregolarità della

Luna. I grandi cambiamenti irregolari nella data

della Pasqua erano dovuti all’adattamento dei fenomeni lunari al calendario solare romano. Dipendendo da un calendario lunare la domenica di Pasqua non avrebbe avuto mai una data fissa, visto che le settimane di 7 giorni procedono indipendentemente dal Sole e dalla Luna. Questa data non può, però, variare più di un periodo compreso tra uno e sette giorni dopo il plenilunio, mentre l’adattamento al calendario solare porta difficoltà e irregolarità. Naturalmente, si deve usare il ciclo di 19 anni, multiplo comune di mese e anno, mediante semplici indicazioni di computo, trattabili da menti semplici. Ma, se consideriamo che la regolare alternanza di 29 e 30 giorni porta all’errore dopo pochi anni e che a causa dell’aggiunta di un giorno ogni 4 anni la regolarità è disturbata, è chiaro quante difficoltà la Chiesa abbia incontrato nei primi secoli della sua esistenza, quando si trattava di stabilire la data di Pasqua.

La soluzione adatta venne dal lavoro di un certo Dionigi, archivista a servizio del Papa, che, per distinguersi dal grande Padre della Chiesa [ndr: Dionigi d’Alessandria]], si fece chiamare Exiguus, ‘il piccolo’. In una cronaca del 520, introdusse il computo degli anni dalla nascita di Cristo, invece della loro numerazione secondo le ere degli imperatori romani, e adattò al calendario romano le regole della Pasqua usate in Oriente. Omettendo alcune complicazioni di minor ordine, tutto si riduce a quanto segue. In ogni anno, i 12 mesi lunari sono alternativamente di 29 e di 30 giorni, per un totale di 354 giorni, ma la loro durata reale è di 354,367 giorni. In 19 anni si perdono, quindi, 19 x 0,367 = 7 giorni. In questo ciclo, un tredicesimo mese viene intercalato sette volte; se vengono considerati tutti di 30 giorni — cioè, in media, mezzo giorno di

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troppo — si è 3 giorni e mezzo avanti. Inoltre, gli anni intercalari giuliani aggiungono 4 giorni e tre quarti in un ciclo di 19 anni, così che la mancanza di sette giorni è ampiamente compensata. Per di più, 19 x 354 + 7 x 30 + 4¾ = 6.940¾ giorni, mentre 19 x 365¼ = 6.939¾ giorni. Rimane un giorno di differenza che era fatto sparire alla fine di ogni ciclo, sotto il nome di saltus Lunae. Per tutto il Medio Evo, rimase causa di sorpresa il fatto che la Luna facesse un salto ogni 19 anni, poiché si supponeva che queste regole umane fossero dovute alla sacralità della natura.

Nella vasta letteratura medievale e nella faticosa pratica di questo computus, si utilizzarono molti termini tecnici, che sopravvivono ancora oggi nei nostri almanacchi. L’epatta di un anno è il numero di giorni di cui l’età della Luna, a una data fissata, è più grande rispetto alla stessa data nel primo anno del ciclo di 19 anni. L’epatta incrementa di 11 (cioè 365 meno 354) ogni anno o decresce di 19, poiché si sottrae 30 quando essa supera il valore di 30. Negli anni successivi di un ciclo essa è 0, 11, 22, 3, 14, 25, 6, ecc. In realtà, i valori 365 e 354 sono 365,25 e 354,37; tali errori sono compensati con un giorno del ciclo, lo stesso giorno menzionato sopra; questo rimane nascosto qui perché l’epatta vale 18 per l’ultimo anno del ciclo, dove noi dobbiamo prestare attenzione al fatto che, essendo 18 + 11 uguale a 29, non torna 0. L’epatta, dunque, dipende dal numero di serie dell’anno all’interno del ciclo di 19 anni, il così detto numero aureo, che è un’unità più grande del resto della divisione dell’anno per 19 (il primo anno ha resto 0). Nel primo anno del ciclo la Luna nuova cade il 22 marzo; dunque, per ogni anno l’epatta indica l’età della Luna il 22 marzo; la Luna piena, con età 14, cade il primo anno il 5 aprile e ogni anno successivo 11 giorni più tardi o 19 giorni prima.

Per sapere quale giorno della settimana cada in tale data, si usa il “ciclo solare” di 4 x 7 = 28 anni, dopo il quale la serie dei nomi ritorna. Ogni anno successivo questo giorno della settimana avanza di uno e dopo un anno bisestile di due. Se noi diamo ai giorni

dell’anno le sette lettere A (per il primo gennaio), B, C, fino a G, allora la lettera che cade la domenica viene chiamata Lettera domenicale, che torna indietro di uno ogni anno e di due ogni anno bisestile (dopo febbraio). Conoscendo questa lettera, troviamo il giorno della settimana per il plenilunio di Pasqua e, di conseguenza, la data della domenica di Pasqua.

Per sottolineare il moderno progresso nel controllo matematico del mondo, possiamo ricordare che fu Gauss, nel 1800, a condensare questo intero e complesso computo in una coppia di semplici formule che dava risultati in pochi minuti. Dividendo l’anno per 19, per 4 e per 7 i resti sono chiamati a, b e c; si ponga 19a + 15 = multiplo di 30+ d (d < 30); si ponga 2b + 4c + 6d= multiplo di 7 + e (e < 7). Allora, la data di Pasqua è il 22 marzo +d +e.

D’altra parte la cultura e la mentalità del Medioevo possono essere misurate dal fatto che tale semplice calcolo aritmetico si presentava all’umanità come un altro mondo misterioso con regole curiose che dominavano i riti della Chiesa e la vita degli uomini. Con queste formule e queste regole, comunque, la Chiesa riuscì a fissare le festività durante le scure età del declino della scienza.

Quando, negli ultimi secoli del Medio Evo, la scienza risorse, si capì che il calendario e il computo non si accordavano con la realtà. L’anno giuliano di 365¼ era troppo grande di 0,00780; la differenza aumentava di un giorno ogni 128 anni, così che, intorno al 1300, l’equinozio di primavera cadeva il 13 invece che il 21 di marzo. Per di più, i 235 mesi di un ciclo di 19 anni, assunti essere di 6.939¾ giorni, in realtà erano 6.939,69 giorni e, a causa di questa differenza, dopo 950 anni = 50 cicli, il plenilunio arrivava 3 giorni prima di quanto fosse stato conteggiato. Quindi, il calcolo pasquale era completamente errato e la Pasqua veniva celebrata nei giorni sbagliati. Roger Bacon aveva già evidenziato quanto fosse stato per la chiesa cristiana un motivo di derisione da parte di ebrei e maomettani mangiare carne in Quaresima, ma la disputa interna alla Chiesa nei secoli

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successivi impedì che venisse prese alcuna misura. Ricordiamo che nel XV secolo papa Sisto IV invitò Regiomontano a Roma a tal fin, ma per la sua precoce scomparsa le cose rimasero come erano. Per conto del Concilio Laterano (1512-17), Paolo di Middleburg, vescovo di Fossombrone e redattore di una grande opera sulla riforma del calendario, chiese consiglio a Copernico, il quale, tuttavia, rispose che nuovi dati non erano disponibili per assicurare una nuova e accurata regola. Ma il suo lavoro sopperì subito alla mancanza; con i nuovi dati presi dal De Revolutionibus e dalle tavole di Reinhold, la riforma poteva ora essere portata avanti. Il Concilio di Trento (1545-63) incaricò il Papa di stabilire le regole necessarie e questo venne fatto, nel 1582, sotto Gregorio XIII.

Prima si dovettero rimuovere, introducendo salti improvvisi, i grandi errori che gradatamente si erano accumulati — l’equinozio ora veniva 10 giorni prima e la Luna definita veniva 3 giorni dopo la Luna vera. Si dovevano stabilire delle nuove regole per mantenere, nel futuro, il calendario corretto. Si sapeva che la vera lunghezza dell’anno tropico era di 1/128 di giorno inferiore a quella del periodo giuliano di 365¼ giorni. Si sapeva che il periodo di 235 mesi del ciclo di 19 anni, base medievale della determinazione della Pasqua, era 1/17 di giorno più corto dei 19 anni, così che, dopo ogni 317 anni, la Luna piena doveva essere presa un giorno prima.

La modifica, piuttosto semplice, che venne allora apportata al calendario fu un’ingegnosa invenzione del bibliotecario Aloisio Lilius (Giglio), offerta, dopo la sua morte, dal fratello alla commissione ecclesiale insediatasi per la riforma del calendario. La modifica venne approvata ed elogiata dagli esperti astronomi e subito accettata dalla commissione. Consisteva, in primis, nella omissione dei 3 anni bisestili ogni 400 anni, che derivava dall’assumere un errore di 1/133 invece che di 1/128 di giorno nell’anno giuliano; questo si ottenne omettendo gli anni secolari che non sono multipli di 400. Secondo, mantenendo il ciclo di 19 anni e portando indietro il

periodo di Luna piena e nuova di un giorno per 8 volte in 2.500 anni; questo sarebbe stato fatto negli anni 1800, 2100 e ogni 300 anni fino al 3900, poi nel 4300 e poi di nuovo ogni 300 anni.

La conseguenza di tutti questi salti è che negli anni secolari le quantità del calendario subiscono improvvisi cambiamenti: l’epatta diminuisce di 1 nel 1700, 1900, 2200, 2300, 2500 e aumenta di 1 nel 2400.

Le costanti nella formula di Gauss ora cambiano considerevolmente con i salti nella transizione; i valori 15 in d, 6 in e, che valevano per il diciottesimo secolo, dovettero essere sostituiti da 23 e 4 durante il diciannovesimo secolo e da 24 e 5 durante il ventesimo secolo.

Il principale astronomo della commissione, padre Clavio, pubblicò un libro per spiegare al mondo il principio e la pratica del nuovo calendario. Se la riforma del calendario fosse venuta prima della Riforma, nulla avrebbe ostacolato la sua generale accettazione. Ma allora, in un periodo di grande lotta religiosa, questa riforma fu stabilita dal Papa e da un collegio di cardinali che non avevano alcuna autorità nei paesi protestanti. Ancora peggio, nella Bolla pontificia, con la quale fu proclamata, il Papa “ordinò” ai principi e alle repubbliche di introdurre il nuovo calendario. Mentre questo fu fatto immediatamente in Spagna, Francia e Polonia, i principi e i paesi protestanti la rifiutarono. In seguito Keplero, con abili argomentazioni, in un opuscolo, presentato sotto forma di discorso, cercò di convincere i suoi co-religionari della necessità della sua adozione, ma la sua purezza dottrinaria restò comunque sospetta. Quando, nel 1700, la questione divenne urgente in Germania si trovò una via di uscita introducendo lo Stile Nuovo in modo differente, mostrando ed enfatizzando l’indipendenza da Roma. Ciò fu fatto calcolando la Pasqua dopo la Luna vera, non dopo dei cicli, in modo tale che la Pasqua era a volte differente di una settimana nei paesi cattolici e protestanti. Tuttavia, nel corso del diciottesimo secolo, il calendario gregoriano fu introdotto in tutta l’Europa protestante (in Inghilterra nel

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1752). La Russia lo adottò solo nel ventesimo

secolo e, infine, il calendario gregoriano fu accettato in tutto il mondo, benché per scopi rituali restassero in uso i calendari locali e nazionali. Ora è in discussione un progetto per la riforma del calendario, partendo

dall’idea che nella nostra epoca della meccanica un calendario meccanizzato appartiene a un mondo meccanizzato. In vista, tuttavia, del valore dato dai maggiori circoli sociali alle antiche tradizioni e agli antichi usi, sembra improbabile che tale cambiamento possa avvenire in breve.

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CAPITOLO 22

IL DIBATTITO SUL SISTEMA DEL MONDO Sebbene Copernico abbia avuto molta stima tra gli astronomi per il rinnovamento operato a livello dei dati numerici fondamentali dell’astronomia, il suo sistema con il Sole al centro e la Terra che gli si muove intorno non trovò molti consensi. Le obiezioni che impedirono la sua accettazione erano di due specie: una teologica, derivante dall’autorità della Bibbia, e una fisica, dovuta alla dottrina di Aristotele, che dava conto delle esperienze quotidiane.

Le pressioni teologiche ebbero più peso tra i protestanti che tra i cattolici. Infatti, cardinali e vescovi incoraggiarono Copernico a pubblicare il suo lavoro; un Papa addirittura prestò ascolto benevolmente all’esposizione della nuova teoria e un altro accettò la dedica del suo libro. Dall’altra parte, i leader protestanti, Lutero e Melanchthon la rifiutarono nettamente. Martin Lutero in uno dei suoi comunicati nel 1539 disse:

«Quello scellerato sconvolgerà l’intera Ars Astronomiae; ma, secondo le scritture Giosuè fece un’offerta al Sole per stare fermo e non alla Terra»[103] Melanchthon, nel 1550, citò i Salmi e gli

Ecclesiasti: la Terra sta ferma in eterno, tocca al Sole sorgere e tramontare; e aggiunse:

«Fortificàti da queste testimonianze divine, noi aderiremo alla verità»[104] Per il Protestantesimo, la valenza

strettamente letterale della Bibbia era alla base della fede, mentre la Chiesa Cattolica richiamava il diritto all’interpretazione. Sotto Paolo III, la generale tendenza della Chiesa sembrò esitare ed essere incline alla riconciliazione e ad amalgamare le differenze di pensiero, per ristabilire l’unità riguardo alle concessioni verso la nuova idea. Ma le condizioni cambiarono. Nella seconda metà

del secolo la controversia tra le parti diventò più definita, la polemica s’inasprì e assunse un tono più duro. La definizione di una dottrina rigorosa, a opera dei Gesuiti, porto al rifiuto della filosofia illuminata del Rinascimento. Al concilio di Trento la Chiesa si organizzò come una solida potenza militare, prestando rigorosa attenzione a ogni deviazione dalla dottrina prestabilita, così da riguadagnare più terreno di quello perso in precedenza.

Per Tycho Brahe, l’argomento teologico era ugualmente importante. Un’opinione contraria alla Bibbia, che nella Danimarca protestante avesse prodotto noiosi litigi e avesse ostacolato il suo lavoro di rinnovamento dell’astronomia pratica, non lo avrebbe potuto interessare di sicuro. Tuttavia, erano le obiezioni fisiche a essere quelle decisive. In primo luogo, la Terra materiale ingombrante e pesante non poteva essere un corpo celeste che si muoveva rapidamente. Oltre a questo, se la Terra descrive un circolo annuale, questo deve essere visibile in un apparente circolo annuale delle stelle, che, come un tipo di epiciclo fisso, noi chiamiamo “parallasse annua”. Copernico aveva affermato che sarebbe stato troppo piccolo per essere percepibile, ma Tycho era adesso capace di misurare posizioni e cambiamenti di posizione fino a 2’. Con una parallasse di 2’ la distanza delle stelle avrebbe superato fino a cento volte le dimensioni del sistema planetario. Così, l’enorme vuoto tra il pianeta più lontano, Saturno, e la sfera delle stelle sarebbe totalmente inutile. Queste difficoltà indussero Tycho — nel 1583 a quanto egli dice — a formulare un altro sistema, che aveva in comune con Copernico il medesimo vantaggio di non aver bisogno degli epicicli per nessun pianeta e inoltre evitava le difficoltà derivanti dal movimento della Terra. Nel sistema di Tycho, Sole e Luna

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descrivevano dei circoli intorno alla Terra immobile; il Sole era al centro delle orbite di tutti i pianeti e li trasportava nella sua rivoluzione annuale. La sfera celeste trascinava tutti lungo la sua rotazione quotidiana. È chiaro che in questo sistema i movimenti dei corpi celesti rispetto alla Terra sarebbero andati perfettamente d’accordo con il sistema di Copernico.

In una corrispondenza epistolare tra Tycho e l’astronomo di Cassel, Rothmann, che difendeva abilmente il sistema Copernicano, vennero discussi i pro e i contro di ciascuna teoria. Dimmi — scriveva Tycho nel 1589 — se la Terra ruota così rapidamente, come può una palla che cade da una torre alta colpire il punto esattamente lì sotto? E non pensi che probabilmente Saturno è 700 volte più distante dalla sfera delle stelle fisse che dal Sole? Una stella di terza magnitudine— per la quale Tycho assunse una dimensione apparente di 1’ — in quel caso sarebbe stata grande quanto l’orbita della Terra. Tycho accennò anche al fatto che aveva eseguito degli esperimenti su una nave in navigazione veloce, facendo cadere oggetti dalla cima di un albero; essi non cadevano precisamente lì sotto ma leggermente indietro.

Le università erano dominate dalle dottrine, apparentemente inattaccabili, di Aristotele in filosofia e di Tolomeo in astronomia. Tuttavia, la teoria Aristotelica del moto era così artificiosa che soltanto dopo averla rimpiazzata con una più naturale, direttamente connessa con la realtà di tutti i giorni, si riuscì a spianare la strada al progresso scientifico. Fu questa doppia operazione che rese possibile l’istituzione di una scienza meccanica molto complessa. L’opposizione alla teoria di Aristotele era già apparsa nell’antichità e, più tardi, nella scuola di Parigi di Oresme. Questi attribuì il continuo movimento di un oggetto lanciato non a un’azione dell’aria circostante, bensì a una ‘forza impressa’, che stava a dimostrare che lo slancio o la spinta, una volta acquistato, era preservato fino all’esaurimento e questo causava la caduta dell’oggetto per il proprio peso. Nel sedicesimo secolo, sotto l’impulso dell’artiglieria pesante in guerra ma anche

dei semplici dispositivi meccanici usati nei lavori tecnici, l’attenzione verso la meccanica e l’opposizione verso Aristotele crebbero. Benedetti, nel 1585, spiegò che l’accelerazione dei corpi che cadono aumenta continuamente grazie al loro peso che aggiunge nuova spinta a quella già esistente; contestò poi l’opinione di Aristotele che la velocità di caduta aumenta con il peso dell’oggetto. Nello stesso periodo Guidobaldo dal Monte studiava il peso, spingendo dei corpi verso il basso lungo un circuito circolare.

I seguaci del sistema eliocentrico, nel sedicesimo secolo, erano però un numero insignificante. Per certo, immediatamente dopo la sua pubblicazione, nel 1543, il libro di Copernico venne studiato diligentemente dagli eruditi, che usarono i dati numerici presenti in esso per la compilazione d’almanacchi e tabelle, spesso elogiati per la coerenza con le osservazioni. In ogni caso, questo non portò a un’accettazione del nuovo Sistema del mondo. Nel 1549, Melanchthon pubblicò le sue lezioni di fisica a Wittenberg come testo universitario; in esso, per mezzo d’argomentazioni fisiche e teologiche, il sistema di Copernico fu confutato e bollato come assurdo. L’ampia influenza delle sue diciassette argomentazioni fu aumentata, attraverso numerosi libri, da dozzine di altri autori, tutti d’accordo nell’elogiare Copernico e allo stesso tempo nel rifiutare o, addirittura, nel non menzionare per niente la sua teoria. Su questo punto le università cattoliche e protestanti erano di parere unanime. Clavio, nel 1570, in un commento a Sacrobosco più volte ristampato, chiama Copernico “il rinnovatore dell’astronomia” ma rifiuta categoricamente la sua teoria allo stesso modo di Melanchthon. Avendo contro l’istruzione tradizionale, il libro di Copernico non fu più ristampato fino al 1566, a Basilea, e ancora nel 1617.

Tra i pochi aderenti al sistema eliocentrico troviamo Thomas Digges, un inglese, che, in un libro del 1576, parla di un infinito mondo riempito per la maggior parte da stelle invisibili. Un altro fu Giordano Bruno, un entusiasta apostolo della nuova dottrina, che in tutti i suoi viaggi attraverso l’Europa fece

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propaganda al nuovo concetto di mondo. Ma l’audacia delle sue idee — la dottrina della pluralità dei mondi, tante stelle fisse come il nostro Sole, circondate da altri pianeti, residenze di altri esseri umani — sortì l’effetto di spaventare piuttosto che di attrarre le menti più ristrette e il fatto che venisse bruciato come un eretico, a Roma nel 1600, fu una specie d’avvertimento.

C’erano altri, però, che avevano superato il pregiudizio abbastanza da riuscire a vedere la veridicità del sistema Copernicano. Così Benedetti, confutando le argomentazioni rivolte contro Copernico, scrisse: «I corpi celesti non sono stati creati al fine di influenzare in questo modo un corpo subordinato come la Terra, coperta dal mare con i suoi animali e le sue piante»[105] William Gilbert scoprendo che la Terra era un enorme magnete, assunse che essa dovesse ruotare giornalmente attorno ai poli, che egli suppose fossero appunto due poli magnetici; ma non parlò della rotazione annuale. Simon Stevin, nelle sue Wisconstighe Ghedacthenissen (Memorie Matematiche), pubblicate nel 1605 a Leida, appoggiò totalmente Copernico; espose i movimenti dei pianeti prima con la Terra a riposo, poi con la Terra in movimento, chiamando il primo ‘sistema non vero’ e il secondo ‘sistema vero’. Oltre a questo, egli corresse Copernico, omettendo il terzo movimento terrestre, ovvero il movimento conico del suo asse, considerando la sua direzione costante nello spazio come una conseguenza delle sue caratteristiche magnetiche rilevate da Gilbert. In una lettera a Tycho Brahe, del 18 aprile 1590, Rothmann fece la stessa osservazione:

«Riconosco che in questo punto Copernico è molto oscuro e di non facile comprensione [...] la stessa cosa può essere spiegata molto più facilmente e il triplo movimento della Terra non è necessario, i movimenti giornalieri e mensili sono sufficienti».[106] Giovanni Keplero (1571-1630) divenne un

fervente sostenitore di Copernico dopo aver ascoltato, come studente a Tubinga, l’esposizione della teoria eliocentrica da parte di Meastlin, il quale, sebbene fosse ben

disposto verso di essa, era riluttante a sostenerla in pieno. In seguito, insegnando a Graz come matematico, nel suo primo libro, Mysterium Cosmographicum del 1596, Keplero ne divenne un vigoroso difensore, con un’argomentazione interamente nuova. In questo libro egli dà una spiegazione della struttura del sistema planetario — perché ci sono sei pianeti così distanti dal Sole — con il loro collegamento con i cinque poliedri regolari, chiamati ‘i solidi platonici’. Se costruiamo una sfera sopra ognuno di questi sei cerchi planetari, possiamo collocare uno dei solidi regolari tra ogni coppia di sfere successive, posto che siano perfettamente concentriche, in modo tale che i relativi bordi combacino con la sfera esterna e la sua faccia sia tangente con la sfera interna. Il rapporto dei diametri tra la sfera interna e quell’esterna, nel caso si tratti di un icosaedro e di un dodecaedro, è 1,24, nel caso di un cubo e di un ottaedro, è 1,73, di un tetraedro, è 3. Tra i rapporti dei raggi dei cerchi planetari successivi ci sono due piccoli valori: 1,4 - 1,5 per Terra-Venere e Marte-Terra; due grandi valori: 1,8 - 1,9 per Venere-Mercurio e Saturno-Giove e un valore enorme: 3,4 per Giove-Marte.

Chiaramente può non esserci uguaglianza

perfetta, poiché i centri delle orbite planetarie non sono situati nel Sole, così che anche l’eccentricità fa la sua parte. Ma la concordanza è troppo alta perché sia dovuta

Fig. 27. Il modello di Keplero dei cinque poliedri regolari posti tra le sfere planetarie.

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solo a una probabilità isolata. Quindi Keplero, guidato inoltre da intuizioni astrologiche, situò i cinque solidi in una successione che va dal centro all’esterno: 8-, 20-, 12-, 4-, 6- edro tra le sei sfere planetarie. Con la scoperta di questo segreto della struttura del mondo, egli elevò la teoria di Copernico dal livello di un’opinione discutibile, basata su un empirismo incerto, fino a renderla una verità filosofica fondamentale.

Keplero inviò il suo lavoro cosmologico a parecchi astronomi, tra cui Galileo Galilei, che a partire dal 1592 insegnava matematica e astronomia a Padova. Nella sua risposta del 4 agosto 1597 Galileo scrisse:

«Parecchi anni fa mi sono trovato d’accordo con Copernico e da allora ho scoperto le cause di molti fenomeni, i quali, senza dubbio, non possono essere spiegati per mezzo di una semplice supposizione. Ho annotato parecchie ragioni e argomentazioni e anche confutazioni delle argomentazioni contrarie, le quali, comunque, io non mi sono arrischiato a divulgare fino a ora, trattenuto dal destino stesso di Copernico, nostro maestro, il quale, anche se ha conquistato fama immortale sopra a pochi, per innumerevoli altri esse potrebbero apparire […] oggetto di derisione. In realtà, vorrei tentare di pubblicare il mio punto di vista se esistessero più persone come voi; ma visto che non è così, mi asterrò»[107] Tocca a voi con le vostre prove — fu la

risposta di Keplero (13 ottobre 1596) — con le forze unite noi dobbiamo sostenere le nostre idee e con le vostre prove voi potete assistere i vostri colleghi che adesso soffrono per giudizi ingiusti. Egli suggerisce un’azione coordinata, diretta a creare una certa influenza per incoraggiare le menti timorose.

«Statene certo - disse Galileo - e andate avanti! Se io sono nel giusto, solo un ristretto numero dei principali matematici d’Europa si terranno lontani da noi; tale è la potenza della verità»[108] Continuando in modo più completo i primi

tentativi di Benedetti e dal Monte, Galileo Galilei (1564-1642) — a volte chiamato solo con il suo nome di battesimo — era approdato a un atteggiamento critico nei confronti della teoria del moto di Aristotele. Grazie, soprattutto, a semplici argomenti e, a

volte, aiutato da esperimenti su di un pendolo oscillante e sul moto lungo un piano inclinato, Galileo raggiunse gradualmente una migliore comprensione delle leggi del moto che determinano i fenomeni quali la caduta e il lancio dei corpi. Così, poté agevolmente riconoscere la futilità delle obiezioni sul rapido movimento della superficie terrestre, obiezioni che erano state portate avanti dai tolemaici e ripetute più e più volte. Arrivò a capire che lo stato di moto, proprio come lo stato di quiete, perdura fino a quando non è disturbato da altri fattori. Ma la sua adesione alla teoria Copernicana non apparve nelle sue lezioni accademiche, nelle quali, conformemente alle richieste imposte, insegnava le sfere celesti e le teorie di Tolomeo con le relative argomentazioni.

Tuttavia, quando il Progymnasmata di Tycho comparve nel 1602, con tutti i risultati della nuova stella del 1572, e quando, nel 1604, comparve un’altra stella ugualmente luminosa nella regione meridionale dell’Ophiucus, Galileo non poté astenersi dal precisare, in alcune letture pubbliche parecchio affollate, che quelle avevano confutato completamente la dottrina aristotelica dell’immobilità delle regioni superlunari delle stelle.

Intorno al 1608, furono costruiti i primi telescopi in Europa. Non sappiamo la vera storia della sua invenzione; apparentemente Zaccaria Janssen, ottico nelle città olandese di Middleburg, ne costruì uno nel 1604, copiato da un esemplare appartenuto a un anonimo italiano: la possibilità di combinare lenti era già stata intuita tempo addietro∗.

Janssen, come venditore ambulante, aveva mostrato e venduto alcuni esemplari nelle

∗ Ndr: in realtà, sembra oramai accertato che l’invenzione del telescopio sia da porre alla fine del Cinquecento ed in area italiana. In una lettera del 1609 del napoletano Giovan Battista della Porta a Federico Cesi (Presidente dell'Accademia dei Lincei), si reclama la paternità della invenzione, che della Porta sostiene di aver descritto nel De Refractione del 1593, come risulta dal disegno riprodotto nella lettera in questione. (Bibl. della Accademia dei Lincei in Roma, Mss. n. 12, car. 326 e Le opere di Galileo Galilei, Ed. Nazionale, Firenze 1899-1909, X, lettere nn. 230 e 450).

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fiere in Germania e altrove. Nel 1608, Lippershey, un altro ottico di Middleburg, originario di Wezel, offrì un telescopio al principe Maurizio e agli Stati d’Olanda, principalmente per scopi militari. Venne provato con successo e il suo inventore fu ben ripagato. Fu richiesta il brevetto — per un breve periodo anche da Metius di Alkmaar — ma non venne concesso, poiché parecchie persone già conoscevano il telescopio. Presto la notizia si diffuse e diversi esemplari furono venduti in Francia. Dopo aver sentito parlare del telescopio, Galileo stesso ne costruì uno e lo offrì al Doge di Venezia nel 1609, per usarlo in navigazione e in guerra. Migliorando gradatamente i suoi strumenti, li puntò verso la Luna e le stelle e da allora seguirono una serie di magnifiche scoperte che collocarono la teoria di Copernico al centro dell’attenzione pubblica. Inizialmente, Galileo le comunicò con ripetute lettere solo ad amici e colleghi, poi le pubblicò nel Sidereus Nuncius, che apparve nel marzo del 1610, causando grande stupore nei circoli scientifici del tempo.

Sulla Luna vide la linea di confine della parte illuminata frastagliata; nel lato oscuro vide le zone chiare isolate, vicino alla linea di confine, le quali, man mano che la Luna cresceva, crescevano anch’esse e si amalgamavano con la parte illuminata: chiaramente erano cime di montagne. Quindi, la Luna non era di materia cristallina, bensì era una superficie rotta irregolarmente con montagne e valli, come la Terra, e le pareti circolari intorno, comunque, mostravano una struttura diversa. I pianeti nel telescopio sembravano differenti dalle stelle; i primi assomigliavano a dei pallidi dischi con le superfici allargate, mentre le stelle rimanevano più simili a dei punti molto scintillanti, solamente più luminose che a occhio nudo. Le zone nebulose e la Via Lattea sembravano formate di numerose piccole stelle; nelle Pleiadi, Galileo contò più di 40 stelle e dovunque, tra le stelle conosciute, ve n’erano altre più piccole che erano invisibili a occhio nudo. Guardando Giove, il 7 gennaio 1610, osservò tre piccole stelle, il 13 gennaio ne individuò un’altra:

tutte accompagnavano Giove nella sua rivoluzione, ma ogni notte assumevano una conformazione differente, movendosi avanti e indietro. In una lettera del 30 gennaio, Galileo le indicò come nuovi pianeti che giravano intorno a un pianeta più grande: in onore del Granduca di Toscana le chiamò medicea sidera. Questi astri descrivevano delle orbite intorno a Giove e ciò significava che la Terra non poteva essere il centro di tutti i movimenti e questo, pertanto, dava sostegno al sistema di Copernico.

Queste scoperte produssero grande clamore, ammirazione e stupore da parte di amici e colleghi, eruditi e laici, ma restarono ancora dubbi e opposizioni tra le autorità della cultura dominante, fino a un’aperta ostilità. I professori di filosofia, attaccati nel loro stesso campo — l’università di Padova era nota come la roccaforte dell’aristotelismo — annunciarono un secco rifiuto. Da un certo numero di scrittori l’esistenza di nuove stelle erranti fu rifiutata per mezzo di confutazioni logiche: siccome Aristotele non le aveva menzionate, non poteva essere vero. Quando Galileo, in una pubblica disputa, provò a convincere i suoi colleghi di Padova mostrando loro le stelle, questi non vollero guardare nel suo telescopio, affermando che quella era pura apparenza, pertanto un’illusione. Quanto ai due principali astronomi italiani, il vecchio Clavio scansò l’argomento con un gioco di smentite; l’altro, Magini a Bologna, uno stimato corrispondente di Tycho e Keplero, invidioso del suo collega più giovane, scrisse una lettera nella quale espresse i suoi dubbi e dichiarò che le osservazioni erano frutto di inganno o di autoillusione. Quando Galileo, visitando Bologna nel marzo, incontrò alcuni dei professori della cerchia di Magini e mostrò loro Giove con il telescopio, quasi tutti dichiararono di non vedere nessuna delle nuove stelle e questo risultato negativo ebbe parecchia pubblicità. Non era semplicemente una questione di riluttanza; era anche una questione di una reale difficoltà nel vedere qualcosa attraverso il telescopio per persone non esperte e allenate. I primi telescopi erano parecchio primitivi, le lenti erano tagliate male, le immagini avevano bordi di colore

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irregolare e in tutto e per tutto non erano neanche paragonabili a dei moderni binocoli da teatro. A settembre Galileo scrisse a Clavio, il quale non era ancora riuscito a vederle, che lo strumento doveva essere fissato a terra, poiché, se tenuto in mano, anche le sole vibrazioni rendevano le nuove stelle invisibili. Le scoperte che aprirono la strada alla moderna visione del mondo non furono certo dei frutti completamente maturi, felicemente raccoglibili con una leggera scossa all’albero. Erano frutto di strenue esercitazioni e attenzioni estreme nell’osservare e nell’asserire quello che veniva osservato, di dibattiti laboriosi e snervanti, prima contro i dubbi interni, poi contro l’ostinata e a volte perfida difesa di antiquate dottrine che ancora dominavano tenacemente le menti degli uomini.

Keplero, a Praga, diede a Galileo un supporto entusiastico. Appena ebbe ricevuto il Nuncius, espresse le sue idee al riguardo in una lettera aperta [ndr: alla lettera manoscritta del 19 aprile 1610, diretta personalmente a Galileo, seguì, agli inizi di maggio, la stampa dello stesso testo sotto il nome Dissertatio cum Nuncio Sidereo accedit Narratio de Quattuor Iovis Satellitibus, Praga, 1610], nella quale affermò che la costruzione di un telescopio per studiare i corpi celesti non gli era mai passata per la testa, poiché aveva ipotizzato che la spessa aria blu avrebbe impedito ai dettagli delle stelle più remote di essere percepiti, ma adesso Galileo aveva dimostrato che lo spazio era riempito solo da una sostanza sottile e inconsistente. Keplero, quindi, sottolineò come ora, per mezzo di strumenti adatti, fossero possibili misure più accurate — cosa che il suo amico Pistorius aveva già ipotizzato. Si occupò delle conseguenze delle nuove scoperte, lasciandosi andare in fantasie sull’esistenza di possibili abitanti della Luna e sui fenomeni che sarebbero stati visibili su Giove con le sue quattro lune. Keplero aveva sempre concordato con la ‘terribile filosofia’ di Bruno riguardo all’esistenza di infiniti mondi e di innumerevoli altri sistemi solari, ma adesso la scoperta di Galileo di molteplici piccole stelle stava a dimostrare come il

nostro Sole fosse un qualcosa di unico, appunto perché superava tutte le altre in luminosità. Questi erano i suoi pensieri sulle nuove scoperte.

Tuttavia, benché avesse piena fiducia nelle osservazioni di Galileo, lui stesso non aveva visto i satelliti di Giove e con i suoi amici era stato colpito da quello che era successo a Bologna. Keplero non era un buon osservatore, la sua vista era difettosa e non era abile con gli strumenti; per questo non aveva mai provato a costruirne uno da solo. Il telescopio olandese, trovato in Germania, non riusciva a far vedere le stelle medicee, perché la loro magnitudine era troppo piccola. Secondo Galileo, era necessario un ingrandimento di venti-trenta volte e il taglio di buone lenti era un’arte difficile. A settembre, per la prima volta, Keplero riuscì a vedere le nuove stelle grazie a un miglior telescopio di proprietà di un suo ospite. Ma individuare le leggi del loro movimento sembrava per lui troppo difficoltoso, anzi quasi impossibile. Nei mesi successivi le stelle in questione furono viste in Francia e anche in Inghilterra, da Harriot.

Gli osservatóri del Collegio di Gesù a Roma riuscirono, finalmente, a migliorare i loro telescopi e Clavio comunicò a Galileo — che nel frattempo si era trasferito a Firenze al servizio del Granduca — la notizia che lui e i suoi colleghi si erano convinti dell’esistenza di nuovi pianeti. Il suo collega più giovane, padre Grienberger, nel gennaio del 1611 scrisse a Galileo:

«Cose così difficili da credere, quali quelle che tu affermi, non possono o non potrebbero essere accettate in pieno; riconosco quanto sia difficoltoso accantonare credenze sostenute per tanti secoli dall’autorità di così numerosi eruditi. E sicuramente, se io non avessi visto, per quanto gli strumenti hanno potuto, queste meraviglie con i miei stessi occhi […] non so se avrei ceduto alle tue argomentazioni»[109] Nel frattempo, seguirono altre scoperte.

Celato sotto forma di anagramma per assicurarsi la priorità della scoperta, Galileo affermò in una lettera, del luglio del 1610, il fatto che la figura di Saturno non fosse completamente sferica, ma apparisse toccato da entrambi i lati da un piccolo globo

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immobile. Questo ci testimonia la bassa qualità dei primi telescopi. Nello stesso modo annunciò nel dicembre che Venere imitava i mutevoli aspetti della Luna. Alcuni seguaci di Copernico l’avevano predetto; altri, Keplero tra questi, credeva che i pianeti irradiassero parzialmente luce propria o fossero saturati dai raggi solari. Nelle sue lettere, Galileo enfatizzò il fatto che questi risultati — l’oscurità dei corpi planetari mostrava come questi avessero caratteristiche simili alla Terra — confermavano la verità della teoria di Copernico che la Terra fosse un pianeta.

Per convincere gli influenti Padri del Collegio Romano dei suoi punti di vista, per mezzo di discussioni e dimostrazioni, Galileo si recò a Roma nel marzo del 1611. Accolto come un ospite d’onore, vi tenne conferenze e dibattiti, e in un’assemblea fu abbondantemente elogiato per le sue scoperte. In un rapporto dell’aprile del 1611 al Cardinale Bellarmino del Sant’Uffizio, Clavio e i suoi colleghi confermarono la bontà delle scoperte di Galileo, ma non appoggiarono la sua teoria, Anzi, a loro sembrava più probabile che nel corpo cristallino della Luna ci fossero delle parti più dense e più chiare e che la sua superficie non fosse tutta uguale; altri la pensavano diversamente, ma fino ad allora non c’erano state certezze. Il Generale dell’ordine dei Gesuiti aveva istruito i suoi membri a mantenere e difendere il più possibile la dottrina di Aristotele. Le conferme si riferivano solo alle cose osservate; il rapporto non discuteva la loro spiegazione per il tramite del sistema eliocentrico. Sebbene Clavio scrivesse, poco prima della sua morte, che ora gli astronomi avrebbero dovuto scoprire come spiegare tali fenomeni delle sfere celesti, questo, però, non comportò l’accettazione delle teorie di Galileo. In effetti, una dimostrazione rigorosa del moto della Terra non sarebbe potuta essere fornita né per mezzo delle montagne lunari né per mezzo dei satelliti di Giove e neanche dall’aspetto simile al crescente lunare di Venere.

Galileo non fu l’unico a seguire questi nuovi percorsi. I telescopi arrivarono nelle

mani di parecchie persone e furono diligentemente usati per studiare il cielo; essi confermarono la concretezza dei nuovi fenomeni e diedero uno stimolo alle nuove scoperte. Ciò, comunque, comportò parecchi conflitti riguardo alla priorità delle nuove scoperte e alla loro interpretazione. Galileo, naturalmente, considerava questo campo il proprio settore specifico, ma chiaramente anche altri hanno tentato di ottenere la loro parte di gloria.

In un calendario pubblicato nel 1611 e, in seguito, in un libro del 1614, Mundus Jovialis, Simon Marius (Mayer) di Anspach racconta che nel 1609 era venuto in possesso di un telescopio olandese, di averlo puntato in direzione delle stelle e, piano piano, di essersi reso conto dell’importanza di quello che vedeva; affermava di aver scoperto i satelliti di Giove da solo e di aver iniziato a osservarli appena più tardi di Galileo. Quest’ultimo inveì furiosamente contro Marius, accusandolo di plagio e di non aver realmente visto le nuove stelle. Le scoperte indipendenti, chiaramente, non potevano essere provate, ma, grazie alle sue osservazioni, Marius era riuscito a risalire meglio di Galileo ai periodi di rivoluzione e ad altri elementi delle loro orbite.

La scoperta delle macchie solari arrivò nello stesso periodo. Nei periodi precedenti era potuto accadere di percepire una macchia eccezionalmente grande sul Sole velato dalla foschia o in un’immagine solare proiettata da una piccola apertura. Adesso diventavano possibili osservazioni e rilevazioni regolari, mentre prima si poteva dirigere il telescopio verso il Sole solo quando questo era offuscato dalla foschia mattutina o serale. Il primo annuncio pubblico arrivò nell’estate del 1611 da Johann Fabricius di Emden, figlio di un amico di Keplero, David Fabricius. Galileo le aveva già mostrate nella sua visita a Roma nella primavera dello stesso anno. Le ricerche di Christoph Scheiner, SJ, a Ingolstadt, aiutato dal suo discepolo Cysat, iniziarono nello stesso periodo e furono pubblicate l’anno dopo. Scheiner era stato avvertito dai suoi superiori di non prestare fede alle osservazioni, poiché non c’era niente di tutto quello in Aristotele.

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Così fu costretto a pubblicare il suo lavoro in forma anonima e, per attenuare il conflitto con Aristotele, spiegò le macchie come dei piccoli corpi scuri che circolavano sul Sole. Come Fabricius, Galileo dichiarò che le macchie erano parte integrante del Sole stesso e dimostravano la sua rotazione assiale. Nelle critiche alle pubblicazioni di Scheiner, fatte nel suo libro Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, distribuito dai suoi amici a Roma nel 1613, Galileo attaccò tenacemente l’intera dottrina di Aristotele. Lo scenario del dibattito era ora cambiato: il soggetto della disputa non erano più le osservazioni, ma le interpretazioni, non più la pratica, bensì la teoria. Dopo il suo ritorno dal trionfo di Roma, Galileo percepì gradatamente che il clima era cambiato. I suoi amici, che avevano precedentemente accolto le sue scoperte con entusiasmo, adesso erano diventati più cauti e lo esortarono ad accontentarsi delle vittorie conquistate. Il solo Campanella, che scriveva dalla prigione, lo esortò vivamente a rimanere fermo nella difesa di Copernico. Galileo stesso, d’altronde, considerava le sue scoperte con il telescopio solo come dei corollari rispetto all’obiettivo principale: la prova della verità della teoria eliocentrica.

La lotta ora si concentrava sul sistema di Copernico, cioè sul movimento della Terra. Galileo credeva di aver trovato una prova concreta del suo movimento nei fenomeni delle maree. Keplero aveva ipotizzato che fossero effetto della Luna, ma Galileo provò a spiegarle come un effetto della diversa velocità della superficie terrestre. Questa velocità era la combinazione delle rivoluzioni annuali e giornaliere; nel lato in notte della Terra le loro velocità si combinano, mentre nel lato diurno illuminato dal Sole si sottraggono. Questo, sosteneva Galileo, fa oscillare le acque degli oceani. Negando l’ovvia dipendenza delle maree dalla Luna, egli pensava di trovare nelle maree la prova del movimento terrestre. Ma non era convincente, perché per andare d’accordo con la sua teoria l’alta e la bassa marea avrebbero dovuto verificarsi solamente una volta al giorno.

La vera disputa ebbe luogo sul terreno della teologia. I monaci ignari pregavano nelle chiese contro la nuova teoria vista come una dottrina eretica contraria alla Bibbia; denuncie segrete contro Galileo arrivarono al Sacro Ufficio. Galileo, da parte sua, si occupò dei testi biblici in alcune lettere, ampiamente distribuite, che li interpretavano come in accordo con le nuove concezioni — non sempre con successo, come quando provò a leggere nei testi biblici la prova del sistema copernicano. Comunque, trovò dei sostenitori tra il clero stesso; un frate carmelitano, Foscarini, in una lettera a stampa al capo del suo ordine, difese il sistema di Copernico con argomentazioni forti. Galileo si mise di nuovo in viaggio verso Roma, prima di tutto per scansare da sé l’accusa di eresia. Egli era effettivamente un cristiano devoto che nei suoi scritti aveva sempre professato obbedienza a quello che la Chiesa, nella sua profonda conoscenza divina, aveva dichiarato essere la verità, sebbene, allo stesso tempo, chiedesse ai teologi, prima di decidere, di acquisire un’esatta conoscenza del lavoro di Copernico. La giustificazione riuscì abbastanza bene; risultò più complicata la sua seconda mossa, ovvero convincere le persone influenti e l’autorità dei cardinali. Egli sostenne che non ci poteva essere conflitto tra la verità rivelata e la verità della natura; così, quando quest’ultima fosse stata dimostrata in pieno dai fatti e non potesse essere modificata da alcuna interpretazione, la precedente interpretazione delle Sacre Scritture avrebbe dovuto adattarsi. Ma questa argomentazione non impressionò particolarmente i teologi che erano fermi alla dottrina ecclesiastica e per i quali i risultati degli scienziati non dimostravano niente. Per loro la situazione era tale che, se la Chiesa non avesse preso una posizione ferma per mezzo di un verdetto chiaro e una discussione senza remore tra clero e laici sull’interpretazione dei Testi Sacri, la nuova teoria avrebbe preso piede e questo era incompatibile con la rigida disciplina della dottrina. Così il risultato non lasciava dubbi: la Chiesa doveva schierarsi contro il movimento della Terra. Tipici furono la

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rappresentazione inesatta e inaccurata della dottrina di Copernico nel rapporto dei dottori di teologia e il verdetto della corte (25 febbraio 1616). Per quanto riguarda la prima tesi, cioè che

«il Sole è al centro del mondo ed è totalmente immobile per quel che concerne il suo posto»,

proclamarono che era sciocca, filosoficamente assurda e formalmente eretica. Riguardo alla seconda tesi, che

«la Terra non è al centro del mondo e non è ferma, ma si muove su se stessa nell’arco di un giorno»,

filosoficamente portava alle stesse conclusioni e almeno teologicamente era un errore di fede. Queste parole bastano per mostrare l’ignoranza e l’incuranza del verdetto. Galileo fu convocato davanti al cardinale Bellarmino. Egli fu informato che la dottrina del moto terrestre non poteva essere insegnata né ritenuta vera — poteva al massimo concordare solamente con delle ipotesi matematiche — e fu ammonito ad abbandonarla: a questo Galileo si sottomise. Sulle basi del suo verdetto, la Sacra Congregazione dell’Indice dichiarò, il 5 marzo del 1616, che i libri di Copernico e tutti gli altri libri che propugnavano le medesime idee fossero sospesi e proibiti finché non fossero stati emendati.

Ora che non era più possibile difendere pubblicamente le teorie eliocentriche di Copernico, Galileo concentrò le sue ricerche sulle critiche alla filosofia della natura di Aristotele. Contemporaneamente, egli tentò ripetutamente, ma sempre invano, di far abrogare la proibizione dal Papa successivo, Urbano VIII, che, quando era cardinale aveva mostrato un amichevole interesse al suo lavoro. Alla fine, tutto questo divenne troppo per lui e trovò il modo di venire incontro alle obiezioni, come egli sperava, dando alle sue idee la forma di un discorso, nel quale la vecchia dottrina imposta dalla Chiesa era formalmente nel giusto, ma in modo tale che le argomentazioni della nuova dottrina potessero essere spiegate appieno. Grazie alla sua abilità letteraria e al suo talento drammatico scrisse in italiano questo lavoro,

che apparve nel 1632, Dialogo ... sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, un lavoro popolare ed eccellente, nel quale distrusse completamente le dottrine del moto e della fisica di Aristotele.

Il libro fu salutato con grande entusiasmo dai suoi amici e da tutti gli eruditi dalle menti aperte, grazie alla luce che gettava su tutte le questioni affrontate nel medesimo tempo. Ma ora le autorità della Chiesa (nonostante l’imprimatur fosse stato dato) si sollevarono per respingere l’attacco, non facendosi ingannare dalla forma diversa dal solito nella quale le nuove idee erano sottoposte alle autorità teologiche: il significato dietro le parole era abbastanza chiaro. Si fecero sentire anche i rapporti personali; gli studiosi gesuiti, scossi dalla severa critica di Galileo ai loro scritti, che offendeva l’orgoglio erudito dell’intero ordine, operarono contro di lui e riuscirono a renderlo il nemico personale del Papa. Così, fu convocato davanti all’Inquisizione. Formalmente Galileo era nel giusto, poiché si era permesso di discutere pubblicamente della dottrina copernicana come se si trattasse di semplici ipotesi. Tuttavia, venne condannato per disobbedienza, probabilmente su un documento falsificato, e costretto, nel 1635, ad abiurare solennemente la dottrina eliocentrica. Un astronomo cattolico moderno, il professor Joseph Plasmann, nel 1898, definì quest’evento «il più fatale errore che fosse stato mai perpetrato dalle autorità ecclesiastiche ai danni della scienza»[110]

Nel diciassettesimo secolo molti scritti apparvero a favore e contro il sistema di Copernico; quelli contro erano principalmente aderenti al sistema di Tycho. Ma il dubbio e le opposizioni tra gli scienziati stavano diminuendo. Il divieto ecclesiastico non poté ostacolare oltre il progresso della scienza. Ha reso solo più difficoltoso per gli scienziati cattolici far sì che venissero accettate o pubblicate le loro nuove idee. Comunque, nel 1762 la nuova edizione del lavoro principale di Newton fu preceduta dalla dichiarazione, da parte di due esperti padri Minori, nella quale si consideravano le teorie esposte solamente

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delle ipotesi in quanto aderenti al verdetto della Chiesa. Ma nel diciottesimo secolo la vera opposizione cessò e un nuovo modo di vedere le cose penetrò ampiamente tra la gente. Nel 1733, per la prima volta, fu permessa la stampa dei dialoghi di Galileo, comunque con tutte le ‘correzioni’ prescritte dall’Inquisizione. [ndr: il 16 aprile del 1757, la Sacra Congregazione dell’Indice permise la libera circolazione dei «[…] libri omnes

docentes immobilitatem Solis et mobilitatem terrae […]»] Dopo molti tentativi, il divieto fu finalmente rimosso in modo ufficiale nel 1822; dopo il 1835 Copernico, Keplero e Galileo non apparvero più negli indici dei libri proibiti.

Così i tentativi della Chiesa di arrestare il progresso della scienza per mezzo della sua autorità è risultata una sconfitta riconosciuta da tutti.

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CAPITOLO 23

KEPLERO Sin dal suo primo libro, Misterium cosmographicum, Keplero aveva attirato l’attenzione di Tycho Brahe, per il suo pensiero indipendente, la sua conoscenza in fatto di astronomia e le evidenti abilità e precisione nei calcoli. Tycho si mise in contatto con Keplero, ma il loro incontro divenne possibile solo dopo che Tycho si era trasferito a Praga e Keplero, a seguito di un’espulsione dei protestanti dalla Stiria, era stato costretto a trasferirsi altrove. Tycho fece in modo che Keplero fosse nominato ‘Matematico Imperiale’ al servizio di Rodolfo II, con il compito di assistere alla riduzione delle osservazioni dei pianeti e alla costruzione di nuove tavole planetarie. In seguito alla morte di Tycho, quando il lavoro era appena iniziato e dopo aver incontrato numerose difficoltà con i successori, Keplero riuscì a ereditare le osservazioni di Tycho così come la richiesta di portare a compimento il suo lavoro.

In Keplero, uomo di un’altra generazione,

emerse il carattere del nuovo secolo. L’astrologia, intesa come la dottrina dell’unità del mondo, dominava la sua mente, non certo come spaurita osservazione delle stelle alla ricerca del destino dell’uomo, ma come desiderio di penetrare i

segreti di quell’unità. Come in molti dei suoi contemporanei, in lui ardeva il sacro fuoco della ricerca, un’intensa curiosità e il desiderio di rivelare i segreti della natura; non nel senso ‘sobrio’ della moderna ricerca, ma in un modo che noi possiamo chiamare ‘mistico’. Egli aveva la sensazione che l’intero universo fosse un miracolo, materialmente e spiritualmente connesso con le parimenti miracolose creazioni della mente umana: la geometria, la teoria dei numeri, la musica —cose che erano già apparse tutte nel suo primo libro. La sua astrologia aveva in sé un carattere più moderno rispetto ai suoi predecessori. Keplero derideva la credenza che gli eventi potessero dipendere dai nomi dati in antichità alle costellazioni, ritenendo, al contrario, che la congiunzione dei pianeti influenzasse la Terra, proprio come fanno il Sole e la Luna. Keplero fu in primo luogo un fisico; in ogni fenomeno egli andava ricercandone la causa, a volte sorprendendo per una visione tanto moderna, a volte cadendo del tutto in errore. La generazione precedente si chiedeva riguardo a ogni evento: che cosa significa? La nuova generazione si chiedeva: che cos’è e qual è la sua causa?

In un libretto di ottica astronomica (Astronomiae pars optica) del 1604, Keplero spiegò la rifrazione in una maniera abbastanza differente da Tycho, cioè attraverso il passaggio dei raggi luminosi dal sottile etere all’aria stessa, così che questa è presente a tutte le altitudini, aumentando a partire dallo zenit, e deve essere uguale in tutti i corpi celesti. Egli non riuscì a trovare la legge della rifrazione per via sperimentale, per questo bisognerà aspettare Snell a Leida, nel 1620. Comunque, con questi risultati riuscì a costruire una tavola delle rifrazioni migliore di quella di Tycho. Keplero considerava la Luna, come anche

Tav. 5a.

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Bruno e Gilbert, simile alla Terra: un corpo oscuro dotato di alte montagne — questo prima dell’invenzione del telescopio. Egli parlò delle penombre durante le eclissi lunari e spiegò la luce rossastra dell’eclissi lunare totale attraverso la rifrazione della luce del Sole quando passa attraverso l’atmosfera della Terra. Inoltre difese la teoria di Maestlin riguardo la pallida illuminazione del disco lunare prima del crescente — la vecchia Luna nelle braccia di quella nuova — come dovuta alla luce riflessa sulla Luna dalla Terra illuminata dal Sole. La luminosa stella nova menzionata prima e che , dopo una congiunzione con Giove e Saturno, presto accompagnata da Marte, era comparsa nell’ottobre del 1604 nell’‘ardente’ segno del Sagittario, spinse Keplero a pubblicare nel 1606, dopo che la stella era sbiadita e poi scomparsa, un libretto in cui discuteva delle sue caratteristiche fisiche e dei suoi significati astrologici. Comparò la luminosità della stella con la brillantezza di un diamante quando viene fatto roteare; una spiegazione migliore, che interpretava questo fenomeno come dovuto a causa del moto ondulatorio dell’aria, era già stata suggerita dal noto classicista J.J. Scaliger.

Tutti questi argomenti erano in realtà occupazioni secondarie, pur se importanti, in quanto indicavano il suo modo di pensare nei confronti dei corpi celesti. Il lavoro principale di Keplero in quegli anni consisteva nei calcoli dalle osservazioni dei pianeti di Tycho. Dal 1601 in poi, si dedicò al pianeta Marte, che Longomontano aveva precedentemente considerato un soggetto troppo complicato. Keplero iniziò derivando dalle osservazioni una lista che forniva i valori esatti dell’istante, della longitudine e della latitudine di tutte le opposizioni sin dal 1580. Qui, per la prima volta, seguì la propria strada. Copernico, seguendo Tolomeo, aveva assunto che il centro dell’orbita della Terra fosse il centro di riferimento delle orbite dei pianeti e Tycho vi aveva aderito nel derivare le opposizioni con il Sole medio. Keplero, nei suoi primi lavori, aveva già designato il Sole reale come il naturale centro del sistema planetario; così lui giudicava che dovesse

essere trovata e discussa l’opposizione al Sole reale e non a quello medio. Questa fu la prima importante modifica e semplificazione dei precedenti metodi di trattamento.

Le opposizioni, dedotte dalle osservazioni di Tycho e completate da altre osservazioni svolte da lui e dal suo amico David Fabricius a Emden, negli anni 1602 e 1604, sono contenute nella seguente tabella[111]

Le variazioni in velocità angolare, che è

grande nella regione dell’Acquario (latitudine 330°) e piccola vicino al Leone (latitudine 150°), a prima vista appaiono cospicue. Tolomeo aveva rappresentato queste variazioni per mezzo dell’introduzione di un punctum equans e aveva posizionato il centro dell’orbita media tra di esso e la Terra (qui rimpiazzata dal Sole). Keplero desiderava esaminare se questa bisezione rappresentasse esattamente i risultati di Tycho. Tolomeo, nel computo delle orbite, si era servito di tre opposizioni; poiché Keplero aveva avuto bisogno di determinarne una in più, sconosciuta, cioè il rapporto della divisione tra l’eccentricità totale con il centro dell’orbita, egli dovette usare quattro parametri. Per quattro istanti scelti (le opposizioni del 1587, 1591, 1593, 1595) egli conosceva le direzioni come se fossero viste dal Sole e anche le direzioni viste dal punctum equans, poiché quest’ultimo aumentava proporzionalmente col passare del tempo. Il problema di trovare da questi dati la direzione della linea delle apsidi (longitudine dell’afelio) e le due distanze dal centro dell’orbita al Sole e all’equante non poteva essere risolto con un metodo diretto.

Keplero dovette risolverlo provando varie supposizioni, per approssimazioni successive.

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«Se questo modo ingombrante di lavorare vi contraria — dice al lettore — potreste giustamente compatirmi, visto che mi ci sono dovuto applicare almeno settanta volte con un grande spreco di tempo; quindi non dovete meravigliarvi se da quando ho iniziato a occuparmi di Marte sono passati cinquant’anni […] Geometri acuti quanto Vieta potrebbero mostrare che il mio metodo non è ancora a un buon livello […] Quelli potrebbero risolvere il problema geometricamente. Per quanto mi riguarda, basta il fatto che […] per trovare il modo di uscire da questo labirinto ho avuto a disposizione un semplice filo che mi guida verso l’uscita, invece della fiaccola della geometria».[112] Da questi calcoli derivò un’eccentricità

totale pari a 0,18564 volte il raggio, una distanza dal centro per il Sole di 0,11332 e per l’equante 0,07232, mentre per la longitudine dell’afelio (per il 1587) ottenne 148° 48’ 55”. La teoria moderna mostra che le due distanze dovrebbero essere approssimativamente tra 9/16 e 7/16 dell’eccentricità totale. Quanto questi elementi rappresentassero effettivamente i dati può essere desunto dalla tabella precedente, nella quale le rimanenti differenze tra le osservazioni e i calcoli sono fornite sulla sesta colonna.

«Così io rimango dell’opinione che i luoghi delle opposizioni sono dati da queste computazioni con la stessa esattezza di quelli ottenuti da Tycho con il sestante, i quali, a causa del considerevole diametro di Marte e dell’insufficiente conoscenza della rifrazione e della parallasse, sono affette da alcune incertezze, almeno fino a due minuti [primi]».[113] Così si chiude il capitolo 18 del suo libro.

Il capitolo 19, invece, inizia con queste parole:

«Chi lo crederebbe possibile? Questa ipotesi così bene in accordo con le opposizioni è tuttavia sbagliata».[114] Tolomeo aveva ragione nel bisezionare

l’eccentricità. Ciò apparve subito sin da quando Keplero calcolò la distanza reale per mezzo delle latitudini osservate. Calcolando, dall’altra parte, le opposizioni nel caso di una bisezione dell’eccentricità totale, egli trovò, per il 1582, una longitudine di 107°4¾’, che deviava di quasi 8’ dai calcoli

precedenti e 9’ dalle osservazioni. «Grazie a questa deviazione così piccola di 8’, è palese la ragione per cui Tolomeo potrebbe essere soddisfatto dalla bisezione dell’eccentricità […] Tolomeo non ha preteso raggiungere un margine di precisione oltre 1/6° o 10’ […] ciò conviene a noi, che da una benevolenza divina ci è stato dato un osservatore molto attento come Tycho Brahe, grazie alle osservazioni del quale si può trovare un errore di 8’ nei calcoli di Tolomeo, per riconoscere questo aiuto divino con mente riconoscente e usarlo per esercitarci a trovare la vera forma dei moti celesti […] Così questi soli 8’ ci indicano la strada verso il rinnovamento dell’intera astronomia e ci hanno procurato il materiale per la gran parte del nostro lavoro».[115] Questo era l’enigma che egli dovette

risolvere: l’ineguale divisione dell’eccentricità non poteva essere vera, sebbene rendesse tutte le longitudini in modo perfetto; sotto il nome di ipotesi sostitutive egli le usò più tardi nel calcolo di ogni istatnte della longitudine di Marte vista dal Sole. Inoltre, la divisione uguale non rappresentava le opposizioni. In questo dilemma, per la prima volta, fu impiegata la determinazione trigonometrica della distanza e questo costituì l’ossatura del suo lavoro. Nel triangolo Sole-Marte-Terra, era nota la direzione di ogni lato: Terra-Sole grazie alle osservazioni del Sole (mutuate dalle tavole di Tycho), Terra-Marte attraverso le osservazioni di Marte e Sole-Marte per mezzo delle ipotesi sostitutive. Poiché gli angoli erano noti, si riuscì a calcolare il rapporto dei lati, cioè le loro distanze. Selezionando le osservazioni separate da multipli esatti di un anno, in modo che la distanza Terra-Sole fosse la stessa, si ottennero le variazioni delle distanze Sole-Marte. Considerando le osservazioni con intervalli di un numero intero delle rivoluzioni complete di Marte, le variazioni della distanza Terra-Sole consentirono di ottenere la forma dell’orbita terrestre.

Keplero, quindi, si rivolse, per prima cosa, a un esame specifico di quest’ultima. Ciò era necessario, non solo perché le relative incertezze potevano rovinare l’esattezza dei suoi calcoli per Marte, ma anche perché, in accordo con Tolomeo e Tycho, la Terra non ha equanti, mentre come pianeta, non

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sarebbe dovuta essere diversa dagli altri. Applicando le regole trigonometriche alle osservazioni laddove Marte occupava lo stesso posto, Keplero trovò un’eccentricità dell’orbita della Terra di 0,01837 (i cinque decimali non sono indice di precisione ma conseguenza del fatto che egli usava un raggio di 100,00, invece di scrivere i decimali). Poiché le fluttuazioni nella velocità angolare avevano fornito a Tycho un’eccentricità di 0,03584, due volte più larga, sembrò che anche la Terra avesse un equante. Ciò gli permise di costruire delle tavole che fornivano le distanze e le longitudini esatte del Sole. Calcolando ora le distanze tra Marte e il Sole accuratamente, trovò che il valore più grande, all’afelio, era 1,6678 e il più piccolo, al perielio, 1,3850 raggi dell’orbita terrestre. Quindi, il raggio dell’orbita di Marte viene 1,5264 e la distanza del Sole dal centro di quella 0,1414 : 1,5264 = 0,0926, cioè l’esatta metà dell’eccentricità totale derivata dalla sua rivoluzione, 0,18564.

Così, dalle osservazioni di Marte, venne stabilito che per questi pianeti e per la Terra l’eccentricità totale tra il Sole e l’equante era divisa esattamente in due parti dal centro dell’orbita. Keplero, comunque, da studioso di fisica, non voleva credere che un punto ‘vuoto’ fosse in grado di governare il moto di un pianeta. All’afelio il pianeta procedeva più lentamente, al perielio, invece, più velocemente, perché più lontano dal punctum equans. Nello stesso rapporto si traovava nel primo caso più lontano e nel secondo più vicino al Sole. Così, il Sole regolava la velocità dei pianeti e la velocità era inversamente proporzionale alla distanza. La logica della questione era per una volta ovvia per Keplero. D’accordo con il principio della leva, un pianeta a grande distanza era mosso con più grande difficoltà dalla forza del Sole, quindi aveva bisogno di più tempo per descrivere un determinato arco. Questa spiegazione fisica, diceva Keplero, mostrava il perché fosse giusto imputare tutti i movimenti al Sole corporeo invece che a un centro vuoto dell’orbita della Terra e allo stesso tempo perché Tycho fosse in errore nel considerare che il pesante

Sole descrivesse un’orbita intorno alla Terra. Ora l’importanza del Sole divenne più grande rispetto a quanto fosse per Copernico; adesso il Sole non era solamente la fonte di luce e di calore per l’intero sistema planetario ma anche una sorgente di forza. Luce e forza, entrambe immateriali, si espandono nello spazio, ma in un modo differente. Poiché la luce si diffonde sopra le superfici sferiche — andando in su, in giù e da tutte le parti — diminuisce con la seconda potenza della distanza. La forza del Sole, al contrario, si espande lungo le orbite nell’eclittica, non in su e in giù, guidando i pianeti attraverso lo zodiaco solamente in longitudine, e, quindi, diminuisce con la distanza stessa. Si può comprendere questa forza solare, assumendo che il Sole ruota intorno a un asse e così dirige i pianeti nella stessa direzione, più lentamente in base alla loro distanza. Quanto alla natura di questa forza, Keplero precisò che il magnetismo, essendo una forza diretta, opera come se il magnete consistesse in fili o fibre. Il Sole, inoltre, non attrae i pianeti (se lo facesse, essi cadrebbero sul Sole), ma dirige il loro corso attraverso una forza obliqua, come se questa consistesse in fibre anulari magnetiche. Questa era molto più di un’analogia, dato che Gilbert aveva scoperto che la Terra stessa è un magnete e dirige nella stessa maniera la Luna lungo la sua orbita.

Da queste speculazioni appare chiaro che Keplero non era un semplice calcolatore astronomico; a lui premeva la comprensione della natura fisica delle cose. I suoi ragionamenti sono simili ai concetti sviluppatisi più tardi, nel diciassettesimo secolo. Essi erano il prodotto di spunti di nuove ricerche, ben lungi dallo sterile scolasticismo del secolo precedente, che ancora dominava i luoghi accademici. Poiché Keplero si espresse in termini di una forza che parte dal Sole, è stato indicato a volte — erroneamente, come vedremo — come un precursore di Newton. Piuttosto fu un precursore della filosofia naturale del diciassettesimo secolo; Quello che appare nella toeria dei vortici di Cartesio come una vaga speculazione filosofica, con Keplero

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assume la freschezza di conclusioni dirette, imposte dagli eventi dell’esperienza.

È certamente vero che Keplero, provando a spiegare le rimanenti problematiche, si riferì ai pianeti come se giocassero una parte attiva — parlando dello ‘spirito’ o dell’‘essenza’ dei pianeti che dovevano tener conto delle apparenti dimensioni del Sole — divenne a volte vago e contraddittorio. Ma è più importante il fatto che egli abbia sviluppato un nuovo metodo di calcolo. Il tempo speso dai pianeti per percorrere un piccolo arco dell’orbita, inversamente alla velocità, era proporzionale alla distanza dal Sole; così, per avere il tempo totale di un arco più lungo, tutte le distanze percorse devono essere sommate e questo era un problema di integrazione:

«Se noi non facciamo la somma totale di tutti i valori, il cui numero è infinito, noi non possiamo indicare il tempo per ciascuno di essi».[116] Egli risolse il problema prima con una

somma numerica, ma poi alla somma totale sostituì l’area tra i raggi che la limitavano; anche se non era la stessa cosa, ciò si adattava bene. L’area poteva essere facilmente calcolata come un settore circolare meno un triangolo. Più tardi questa prese il nome di ‘seconda legge di Keplero’, la ‘legge delle aree’: il raggio vettore descrive aree uguali in tempi uguali.

Così furono scoperti gli elementi delle orbite e i metodi di calcolo, e per quanto riguarda l’afelio e il perielio, come pure le distanze a 90°, le longitudini calcolate erano esatte. Ma negli ottanti, a 45° di distanza da questi punti, la vecchia differenza di 8’ ricomparve, troppo grande per essere attribuita agli errori di osservazione di Tycho. Per risolvere questo problema, Keplero applicò di nuovo il suo metodo trigonometrico nel derivare la distanza di Marte dal Sole direttamente dalle osservazioni. Alle longitudini di 44°, 185°, 158° trovò rispettivamente valori di 1,4775, 1,6310, 1,66255. I calcoli per mezzo degli elementi trovati sopra portarono a valori di 1,48539, 1,63883, 1,66605. L’osservazione mostrava una distanza tra Marte e il Sole più piccola rispetto a quella ottenuta da

un’orbita circolare. Il pianeta seguiva il suo corso obliquamente, non sopra, ma dentro il cerchio descritto attraverso afelio e perielio.

«Il significato è ovviamente questo: l’orbita planetaria non è circolare; per due lati si muove internamente e poi esternamente, fino a che nel perielio non raggiunge nuovamente il cerchio. Una tale figura è chiamata ovale».[117] Così per la prima volta, e per sempre, il

principio che per un migliaio di anni era stato accettato da tutti gli astronomi come la base dell’astronomia — cioè che il cerchio fosse l’orbita naturale e vera dei corpi celesti — è stato distrutto. La precisione delle osservazioni di Tycho avevano mostrato che questo non era assolutamente vero. Come prima vittoria degli studi empirici della natura, i risultati di Keplero si pongono all’inizio della moderna ricerca scientifica.

Le difficoltà, comunque, non erano ancora finite. Nel tentativo di dare una spiegazione fisica alla deviazione dal cerchio, proponendo una forza propellente del Sole variabile con la distanza e un tipo di movimento epicicloidale attivo del pianeta, egli piombò in un anno intero di calcoli senza senso. David Fabricius di Emden, con il quale aveva rapporti epistolari e che elogiava come il miglior osservatore dopo la morte di Tycho, lo avvertì che i suoi calcoli non erano coerenti con le osservazioni. Finalmente, Keplero intuì che la compressione laterale dell’orbita «la massima ampiezza della falce mancante, 0,00429 volte il raggio», era l’esatta metà del quadrato dell’eccentricità (0,09262 = 0,00857).

«È stato come se io mi fossi improvvisamente svegliato da un lungo sonno e avessi visto una nuova luce».[118] Ora era chiaro che l’orbita doveva essere

un’ellisse, con il Sole in uno dei due fuochi: in un’ellisse quasi circolare la misura dello schiacciamento ai poli è la metà del quadrato dell’eccentricità.

Grazie a questo risultato, solitamente chiamato ‘prima legge di Keplero’, furono scoperte per la prima volta le ‘vere figure ellittiche’ delle orbite planetarie.

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Gli ultimi capitoli del suo libro sono dedicati al problema di derivare la posizione del piano dell’orbita. Trovò che la longitudine del nodo ascendente era di 46°46⅓’ e l’inclinazione di 1°50’25”. Le latitudini osservate nelle differenti posizioni, come si vede nella tabella precedente, sono ben rappresentate da questi elementi. Le restanti deviazioni sono più grandi che per le longitudini, principalmente per l’imprecisione sulla rifrazione e sulla parallasse. Niente si poteva percepire, invece, delle ulteriori oscillazioni ipotizzate da Copernico. Keplero precisò, inoltre, che una parallasse di Marte di pochi minuti più grande avrebbe potuto rovinare la concordanza; quindi la parallasse del molto più lontano Sole doveva essere certamente inferiore a 1’.

La maggior parte di questo lavoro era stato svolto a Praga, sotto costanti pressioni finanziarie e altri problemi, come l’incerta salute, insieme ad altre difficoltà, come l’impossibilità d’effettuare osservazioni e con diverse interruzioni. Nel 1604 i suoi risultati erano pronti e nel 1605 poté presentare il manoscritto all’imperatore Rodolfo. Il libro non apparve prima del 1609, il ritardo essendo causato principalmente dalla penuria di denaro da parte della tesoreria imperiale. Il titolo Astronomia nova, aitiologetos seu physica coelestis, seguito dal sottotitolo De motu stellae Martis, stava a indicare che Keplero era ben conscio, con questo lavoro, di aver fondato l’astronomia su nuove basi.

Nel lavoro di Keplero e Tycho si affermava un nuovo metodo di ricerca scientifica: il metodo di raccogliere dati dalle osservazioni e dagli esperimenti, derivando da questi regole e leggi che vanno a formare il corpus scientifico. Loro non furono poi gli unici; alla fine del secolo, in ogni campo della conoscenza, comparvero altri ricercatori: Simon Stevin e Galileo studiavano la meccanica, le leggi dell’equilibrio e del moto, Gilbert studiava il magnetismo, Vesalius si occupava di anatomia, Van Helmot di chimica e Clusius di botanica. In tutti costoro —pochi in realtà — un nuovo spirito creò il modo per

rimpiazzare la vecchia credenza nell’autorità con la loro ricerca sperimentale.

Il lavoro di Keplero non si concluse con il libro su Marte; egli aveva solo iniziato. Il suo compito, ereditato da Tycho, era di realizzare e pubblicare delle nuove tavole planetarie: le ‘Tavole Rudolfine’. Grazie al suo lavoro su Marte aveva trovato la chiave: la conoscenza di leggi piuttosto semplici per descrivere il moto dei pianeti. Ora doveva applicarle a tutti gli altri pianeti. A Linz, capitale dell’Austria settentrionale, dove aveva accettato il compito di matematico provinciale, pubblicò nel 1618 il suo Epitome astronomiae Copernicanae, dove per la prima volta era spiegata correttamente la struttura del Sistema solare. In questo libro le orbite di Mercurio e di Venere erano presentate come delle ellissi totalmente regolari, con i seguenti elementi numerici: per Mercurio, eccentricità 0,210 e afelio a 255°, per Venere, 0,00604 e 302°. Tutte le complicazioni che Tolomeo aveva ritenuto necessarie e che Copernico aveva mutuato da lui erano svanite. Come per gli altri pianeti, le loro orbite erano fisse, con un’inclinazione costante sull’eclittica e senza oscillazioni addizionali. Come Keplero le avesse derivate dalle osservazioni, però, non è scritto da alcuna parte. In una lettera del 5 Marzo 1616 al suo ex insegnante, Maestlin, egli si limitò a dire:

«Nell’estate del 1614 seguì la teoria di Venere, nell’inverno del 1615 quella di Mercurio; queste non sono in alcun modo particolari se paragonate a quelle di Saturno, Giove e Marte; ho fatto tutto ciò mediante una grande orbita per la Terra e una semplice orbita eccentrica proprio come quella di Marte».[119] L’Epitome costituì il primo manuale

completo di astronomia formulato sui nuovi principi. Si occupa in primo luogo di astronomia sferica, della figura e delle dimensioni della Terra e della sua posizione nell’universo; poi seguono le stelle, delle quali egli dice che non si sa se si trovino a distanze uguali o diverse, sebbene sembri che il loro regno sia infinito; il Sole è una di queste e a causa della sua vicinanza appare particolarmente luminoso. Dopo questi

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argomenti, Keplero affronta l’atmosfera, la rifrazione, la luce crepuscolare e il luccichio delle stelle. Parlando della rotazione giornaliera della Terra, sostiene che la natura sceglie sempre la via più semplice per raggiungere l’obiettivo. Discute anche del sorgere e tramontare dei corpi celesti, degli anni e dei giorni, delle stagioni e dei climi. La seconda parte, pubblicata nel 1620-21, espone la teoria, la physica coelestis e spiega il moto dei pianeti attraverso gli stessi principi fisici contenuti nel libro su Marte. Egli considerava queste spiegazioni fisiche importanti quanto gli elementi numerici delle orbite o addirittura tanto più essenziali in quanto ne rivelavano le cause. A tutto questo era stata data la forma di domande e risposte, non come fece Galileo per dare più vigore drammatico al discorso, ma in un modo più simile al catechismo, in cui la domanda, come fosse un titolo, fa da sommario a quello che viene spiegato poi nella risposta. In una lettera agli Stati dell’Austria settentrionale indicò questo libro come la spiegazione delle Tavole Rudolfine delle quali si era occupato.

Keplero fu impegnato in questo lavoro per parecchi anni, principalmente a causa della mancanza di fondi da parte della tesoreria imperiale, che non gli concesse la nomina di calcolatore; alla fine trovò in Jacop Bartsch un devoto assistente per i suoi calcoli. Nel 1627 apparvero le tavole; addirittura fu costretto a dover contribuire di persona per coprire i costi di pubblicazione. Grazie alle loro eccellenti basi, queste sostituirono tutte le precedenti e anche quelle tavole contemporanee che erano meno precise, come quelle realizzate dal ministro di Middelburg, Philip Lansbergen; le tavole di Keplero dominarono il campo dell’astronomia pratica per tutto il diciassettesimo secolo. Il suo lavoro teorico, al contrario, impiegò molto più tempo per essere assimilato. Nonostante la corrispondenza amichevole con Galileo, quest’ultimo rimase, molto curiosamente, all’oscuro delle leggi scoperte da Keplero e nel suo Dialogo del 1632 scrisse che la vera forma delle orbite planetarie era ancora sconosciuta.

In tutti questi anni, oltre che ai calcoli pratici, Keplero lavorò a un secondo incarico imposto non da eredità o da uffici ma dalla sua sete di conoscenza e di sapere. Ciò che lo aveva inspirato da giovane, ciò che lo aveva guidato verso Tycho, persisteva in lui nel profondo: scoprire il segreto della struttura del mondo, penetrare nei pensieri che avevano guidato il creatore durante la creazione dell’universo. Nel suo lavoro, intitolato Harmonice mundi, collegò il moto dei pianeti con tutti i campi dell’astrazione e dell’armonia, con le figure geometriche, con le relazioni tra i numeri, con le armonie musicali. Ma tra tutte queste associazioni fantastiche noi vi ritroviamo un’importante scoperta, in seguito citata come la ‘terza legge di Keplero’, menzionata anche nell’Epitome: per tutti i pianeti il quadrato dei periodi di rivoluzione è proporzionale ai cubi delle loro distanze medie. Per lui tutto questo era la ricompensa per tutto ciò che aveva fatto nella sua vita con sforzi e sofferenze:

«Ho scritto il mio libro perché venga letto sia dai lettori di oggi che da quelli di domani — che importa? L’ipotetico lettore può aspettare un centinaio di anni, poiché Dio stesso ha aspettato 6000 anni per vedere qualcuno che penetrasse in questo modo il suo operato».[120] Abbiamo letto questa orgogliosa

dichiarazione con un sorriso di ammirazione, sapendo che la scienza successiva ha accettato e conservato dell’intero lavoro sull’Armonia solo quella pagina contenente la terza legge. Dobbiamo dire che tutto l’altro lavoro svolto da Keplero in questo libro sia stata solo una perdita di tempo? Per compiere grandi cose l’uomo deve programmare obiettivi ancora più grandi. Il frutto maturo può crescere solo in una struttura organica più grande, prima viva, poi appassita e simile a paglia secca. I forti impulsi a dedicarsi a qualcosa e a lottare, che gli uomini ricevono dal loro mondo, vengono da loro stessi trasformati in obiettivi e compiti, in larga parte determinati dal concetto di mondo del loro tempo. Allora il lavoro di una vita funziona, così come l’adempimento degli ideali della gioventù,

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unità di intenti che rende il tutto una visione armoniosa. Ma le generazioni a venire — persone diverse con differenti obiettivi, in un mondo cambiato — mutuano dal passato solo quello che può servire, lasciando il resto. Così, quello che ha ispirato e dato il trionfo al precursore a volte appare a quelli che seguono come una cosa superflua o falsa. Nei secoli successivi, quando la

ricerca scientifica ha preso il carattere di routine lungo sentieri prefissati, questo può sembrare meno visibile. In tempi di rinnovamento, di scoperte e di transizioni come questi, il lavoro di Keplero mostra meglio di qualunque altro la relazione tra elementi generali e elementi personali all’interno dello sviluppo scientifico.

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CAPITOLO 24

MECCANICA E FILOSOFIA Le tempeste sociali del sedicesimo secolo si erano ormai spente e un nuovo ordine sociale era nato. Il potere dell’artigianato urbano stava andando verso il declino, mentre i nuovi insediamenti industriali con le loro fabbriche stavano crescendo, soprattutto nei luoghi liberi dalle restrizioni delle corporazioni. Il commercio con i continenti lontani si espandeva in nuovi e vecchi centri e stava diventando una forza nello sviluppo della società. Il bisogno di un potere centralizzato trovò la sua migliore espressione politica nell’assolutismo reale, sopprimendo sia il particolarismo urbano, sia le divergenze della nobiltà. All’inizio, in questa situazione si trovavano la Francia, l’Olanda e l’Inghilterra. In Francia, a quel tempo il paese più popoloso, il più forte e il più ricco d’Europa, il potere reale raggiunse il più grande splendore sotto Luigi XIV. L’Olanda, dominata dalla classe dei ricchi mercanti, era momentaneamente potente grazie ai grandi profitti derivanti dal commercio, la sua economia fiorente produceva impulsi spirituali molto forti. L’Inghilterra, un paese con una gran crescita di cittadini e mercanti, ha dovuto in primo luogo sperimentare un periodo di guerra civile, nel quale l’ambizioso potere reale fu respinto dal parlamento, prima di dispiegare la sua forza. Dall’altro lato, la Germania, tagliata fuori da questo nuovo ordine commerciale mondiale — come anche l’Italia, dove la cultura in anticipo sui tempi era poi gradatamente stagnata e andata in declino — non prese parte a questo progresso; saccheggiata e devastata dai suoi vicini, fu riportata indietro di diversi secoli rispetto allo sviluppo in corso.

Le scienze della natura ora iniziarono a presentarsi coscientemente come un modo per migliorare la vita e la prosperità dell’uomo. Ciò che prima era stato chiamato ‘scienza’ non era diretto verso il materiale

arricchimento della vita umana. Nemmeno la dottrine di Aristotele e Platone o le superstizioni del Medioevo potevano servire a questo fine. Era necessaria una vera conoscenza della natura basata sull’esperienza e l’esperimento. Le arti utili ora entravano a far parte del punto di vista scientifico; quello che prima era stato custodito gelosamente come un segreto all’interno della tradizione artigiana venne alla luce nelle pubblicazioni scientifiche, a volte a opera degli artigiani stessi, come l’arte dell’estrazione e della lavorazione del metallo di Giorgio Agricola in Germania o l’arte della ceramica di Bernard Palissy in Francia. «Nel tardo medioevo, le innovazioni tecniche si sono fatte notevolmente più frequenti e il loro effetto cumulativo era tale da sollevare delle visioni sulla possibilità di un radicale cambiamento delle condizioni di vita».[121] Così si esprime Farrington in uno studio su Bacone.

L’esperienza e l’esperimento diventarono la base della scienza e il loro scopo a volte era quello di migliorare i processi industriali e la tecnica. Gli scienziati del diciassettesimo secolo si applicarono con fervore all’uso di strumenti e meccanismi; erano abili lavoratori, costruttori e inventori. A essere più esatti, parecchie persone, piene di curiosità riguardo a cose simili, effettuavano esperimenti con strumenti e apparati creati da loro stessi, scoprendo a volte qualcosa. Queste persone appartenevano alla categoria dei cittadini agiati, gentiluomini o abili artigiani; a volte tra loro erano presenti anche ufficiali al servizio di principi e professori. In seguito, alcuni di essi sono stati menzionati nei libri di storia al pari degli eruditi del tempo, mentre molti di quelli che occupavano le cattedre accademiche, che vennero poi chiamati ‘eruditi’ sono stati dimenticati.

All’inizio del secolo, Cornelis Drebbel,

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della città olandese d’Alkmaar, inventore di fama europea, costruttore di molti strumenti rimarchevoli, navigò con un sottomarino sotto il Tamigi e per far questo ricavò l’ossigeno dal salnitro; egli poi applicò questa scoperta chimica per un nuovo e vantaggioso metodo di tintura dal cotone. Christiaan Huygens, che possedeva un gran talento per la meccanica, fu incoraggiato verso di essa sin da giovane; con suo fratello Costantijn si occupò per parecchi anni della lavorazione delle lenti per i telescopi. Newton, avendo fatto lo stagnino da ragazzo, realizzò uno specchio di metallo per il suo telescopio, appunto perché gli operai specializzati in questo non erano riusciti a soddisfarlo. Leeuwenhoek scoprì i suoi ‘minuscoli animali’ con piccole lenti fatte da lui stesso. Quando Huygens ebbe da pianificare i progetti per l’Accademia di Parigi, nata di recente, propose, come una delle ricerche, l’investigazione sulla potenza della polvere da sparo e del vapore nell’uso di macchinari. Il diciassettesimo secolo fu l’era della meccanica, cioè delle scienze delle forze e del moto, nello stesso modo in cui il sedicesimo fu quello dell’astronomia, il diciottesimo quello degli studi sulla termodinamica e il diciannovesimo dell’elettricità; volendo, così, esprimere in quale campo della conoscenza furono effettuati, in quel periodo, i progressi più rimarchevoli.

Questo modo di pensare e la tendenza a costruire strumenti meccanici portarono la mente umana a riconoscere questi meccanismi anche in natura. La natura, che fino allora era stato un mondo di meraviglie incomprensibili e di mistiche potenze, ora divenne una struttura meccanica. Si pensava che i corpi celesti fossero mossi da un fluido che riempiva lo spazio senza fine. La vecchia teoria atomica di Democrito ed Epicuro fu ripresa da Pierre Gassend (spesso chiamato Gassendi): tutta la materia consiste in piccole particelle che, grazie alla mutua azione, producono tutti i fenomeni naturali. Nello spiegare il fenomeno della luce, Newton considerò i raggi luminosi, come flussi di microscopici corpuscoli che venivano espulsi dai corpi luminosi, mentre

Huygens parlò di un etere che occupava tutto lo spazio e le cui particelle, a contatto l’una con l’altra, propagavano le onde luminose.

Sorsero nuovi principi filosofici, in opposizione ai tradizionali insegnamenti di Aristotele. Due nomi illustri, Bacon e Descartes, annunciarono il nuovo metodo scientifico. Francis Bacon (Baco da Verulan), nel suo Novum Organon del 1620, dichiarò con fermezza che l’esperimento e la ricerca erano le uniche basi della scienza e anche della filosofia. Egli enfatizzò che la scienza doveva essere a disposizione della vita pratica. Mentre nei secoli precedenti era stata considerata come una disciplina sterile; la filosofia rimase fuori della vita reale dell’uomo, poiché si occupava di come erano fatti i libri e delle teorie sulla realtà della natura. Il sapere è potere; l’uomo si eresse a dominatore della natura, non grazie alla magia, come aveva supposto l’ignoranza medievale, ma grazie agli esperimenti. L’indagine sulla natura in Inghilterra, dopo di allora, fu chiamata experimental philosophy. Non fu Bacone a scoprirla né a portarla a grande rilevanza. Molti altri, come Gilbert, Galileo e Keplero, avevano applicato già lo stesso principio e nella conoscenza scientifica dettagliata Bacone era a loro inferiore. Ma poiché fu lui a esprimere i nuovi principi in maniera più generale e accurata, in Inghilterra venne sempre chiamata con il suo nome.

Nel suo racconto utopistico, Nova Atlantis, Bacone descriveva uno stato ideale, dove le leggi erano nelle mani degli eruditi, dei ricercatori, dei viaggiatori e degli sperimentatori, che vivevano e lavoravano assieme in laboratori e parchi scientifici, conducendo esperimenti pratici e invenzioni tecniche. Discutevano di filosofia, pervasi da un forte desiderio di trovare la verità sulla natura e impiegarla per una vita più felice. In ogni libro utopico del tempo, per esempio, nel Civitas Solis del talentuoso monaco ribelle Tommaso Campanella, si esaltava la necessità di una profonda conoscenza della natura come la base del commercio e del lavoro. Questa era la tendenza caratteristica dell’inizio del diciassettesimo secolo; ne

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L’utopia di Thomas More, di un secolo prima, non c’era alcuna di queste idee.

Cartesio, nel suo lavoro pubblicato tra il 1637 e il 1643, pose il principio del dubbio critico in opposizione alla credenza dell’autorità tradizionale. La schiavitù spirituale della credenza nell’autorità doveva cedere il passo alla libertà spirituale del libero pensiero. Così il suo principio può essere interpretato come opposto a quello di Bacone; non è l’esperimento, ma il pensiero, l’origine e la garanzia della verità. La ragion pura è l’unica base della certezza. Il pensiero deve essere la causa di tutte le verità come il risultato di un singolo principio.

«Io spiegherò gli eventi per mezzo delle loro cause e non le cause per mezzo degli eventi».[122] Questa idea di base fu applicata anche alla

costruzione di un nuovo sistema mondiale, che, opposto alla struttura dell’astrazione filosofica di Aristotele, presentava una riconoscibile struttura meccanicistica del mondo. Secondo questa teoria, l’universo era percorso da un sottile fluido, consistente in una polvere impercettibile, prodotto dal contatto tra le particelle; tale fluido ruotava in vortici, (vortices, tourbillons), intorno al Sole e, naturalmente, nella stessa maniera intorno a tutte le altre stelle. Questa rotazione trasportava i pianeti intorno alle loro orbite; sulla Terra e su Giove dei vortici più piccoli producevano la rotazione delle loro lune. Quanto alle comete, esse occupavano l’ampio spazio esterno all’orbita di Saturno, dove vagavano, ora avvicinandosi e ora allontanandosi, tra i vortici stellari. Cercando di evitare problemi ai suoi studi filosofici da parte della Chiesa — il processo di Galileo era appena terminato — Cartesio spiegò, astutamente, che, secondo la sua teoria, la Terra poteva essere considerata in stato di riposo rispetto al vorticare del fluido, proprio come una nave che galleggia trasportata solo dai flutti è immobile rispetto all’acqua. Il tentativo di dare una spiegazione ai fenomeni tramite la ragion pura, partendo dalle cause principali, diede luogo, chiaramente, a innumerevoli spiegazioni fantastiche più tardi rifiutate dalla scienza.

«Cartesio — disse Bailly, uno storico dell’astronomia più tardo — si occupò della natura come se già non esistesse e dovesse essere costruita. Bacone invece la considerò un ampio edificio da invadere e smontare per scoprire la sua struttura e arrivare alle sue fondamenta; in ogni modo, limitandosi ai fatti, la filosofia di Bacone ancora resiste, mentre la dottrina di Cartesio, troppo soggetta alla fantasia, è tramontata. Bacone era dotato di grande saggezza, Cartesio di grande miopia, ma anche con questa miopia egli ha ben servito lo spirito umano».[123] Il contrasto tra questi due filosofi

corrispondeva a uno scontro di più larga portata, tra attitudini e stili di vita. Sin dal Medioevo, i cittadini inglesi avevano acquisito un ampio grado di libertà personale e indipendenza, certamente anche grazie alla sicurezza derivata dall’essere un’isola che non faceva sentire la necessità di una forza statale armata. Le iniziative personali non correvano il rischio di incorrere in divieti o prescrizioni dal potere legislativo e, in questa maniera, il loro modo di agire, sia nel commercio sia nella ricerca scientifica, era molto pratico; c’era libertà di provare e sperimentare, facendo le cose nel modo giusto. Nel continente, invece, le persone avevano più limitazioni, più divieti e più costrizioni da parte del potere autoritario e, attraverso nuovi e vecchi editti, le iniziative personali erano limitate. Così, le nuove idee sono dovute rimanere nel campo del pensiero ed essere perfezionati in sistemi teoretici completi, per mezzo di coerenti supposizioni. In questo modo, da un punto di vista filosofico, l’Inghilterra finì per divenire la sede dell’empirismo, mentre la Francia e il resto del continente del razionalismo.

Gradatamente, Cartesio iniziò a cacciare Aristotele dalle cattedre accademiche, che sentivano il bisogno di un sistema filosofico completo. Alla fine del diciassettesimo secolo e l’inizio del diciottesimo, i ‘vortici’ erano penetrati nella maggior parte dei manuali di fisica; nelle scuole dei Gesuiti delle nazioni del sud, tuttavia, Aristotele mantenne la sua posizione durante tutto il diciottesimo secolo. Astronomicamente parlando la teoria di Cartesio non si poteva mettere sullo stesso piano della scienza del tempo; per le leggi di Keplero non c’era

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spiegazione alcuna nell’ambito della teoria dei vortici. Che queste leggi non siano state conosciute per niente da Galileo, che pensava che le orbite planetarie fossero circolari, è stato accennato sopra. Il giovane sacerdote inglese, Jeremiah Horrox, morto all’età di ventidue anni, era uno tra i pochi che le sosteneva; avendo seguito prima Lansbergen, divenne in seguito un fervido aderente di Keplero. Egli fu il primo a spiegare le grandi diseguaglianze nel corso della Luna per mezzo dell’ellitticità della sua orbita. Le Tavole Rudolfine di Keplero venivano usate da tutti, anche se alla fine del secolo Cassini e La Hire provarono a trovare altre spiegazioni all’irregolarità del movimento dei pianeti.

Questo non deve sorprenderci, se consideriamo che pure la dottrina eliocentrica di Copernico incontrò diverse difficoltà prima di essere ampiamente riconosciuta. È pur vero che, gradatamente, le obiezioni fisiche persero la loro importanza. Nel 1638, il libro di Galileo, intitolato Discorsi e dimostrazioni matematiche, intorno a due nuove scienze attinenti alla Meccanica & i Movimenti locali, venne pubblicato in Olanda. Cieco e con la salute rovinata, negli ultimi anni della sua vita, dettò il lavoro al suo discepolo Viviani. In questo compendio delle sue ricerche sul moto dei corpi, durate tutta la vita, vennero gettate le fondamenta della nuova scienza della meccanica. Anche se la teoria di Copernico non è qui menzionata, viene lo stesso stabilita una solida base teoretica al moto della Terra. Oltre a ciò, gli esperimenti portati a termine da Gassendi nel 1640, per dimostrare la conservazione del moto uniforme, per esempio attraverso delle palle lanciate in aria da un corridore in velocità che ritornano indietro tra le sue mani.

Le difficoltà teologiche, comunque, venivano ora sentite ancora di più, poiché gli autori dei paesi cattolici erano stati costretti a evitare ogni conflitto con la Chiesa in materia di astronomia. Il più illustre e conosciuto tra gli oppositori era Gianbattista Riccioli, insegnante al Collegio di Gesù di Bologna, il quale condusse degli esperimenti

per verificare se, effettivamente, dei corpi, lasciati cadere da un’alta torre, giungessero esattamente sotto il punto di partenza. Nel 1651 pubblicò il suo Almagestum novum — il nome suggerisce una modernizzazione del libro di Tolomeo, sebbene egli sembrava preferire il sistema di Tycho — una esauriente raccolta di argomenti astronomici, progettato per essere una confutazione dei Diologhi di Galileo: un compito non duro essendo il rivale stato fatto tacere con la forza. Egli elencò e discusse 49 argomenti a favore e 77 contro la teoria di Copernico che risultava, così, sconfitta grazie al maggior numero di argomentazioni contrarie. Ma questo artificio nelle confutazioni non bastò a impedire il progresso della scienza, anche se in Italia la raggelante mano della minaccia clericale rese le discussioni scientifiche davvero un qualcosa di impossibile e impedì in continuazione ad abili astronomi, come Borelli e Montanari, di veder pubblicati i loro lavori o solo di mostrare le loro vere opinioni. In Francia, essendo il potere della Chiesa meno opprimente, vi erano delle condizioni migliori. Nel 1665, l’astronomo francese Auzout, in una lettera a un influente prelato, si mostrò favorevole alle teorie di Copernico, aggiungendo che non erano né assurde né filosoficamente false e che le Sacre Scritture non avevano l’intento di insegnarci l’astronomia o la fisica, risultando queste ultime tanto inutili per la vita nell’aldilà, quanto utili, invece, per la vita terrena; chiese, quindi, più libertà per gli scienziati, ma, chiaramente, non fu neanche ascoltato.[124] Nel secolo successivo, nei paesi più a nord, le nuove verità iniziarono a diffondersi in ambienti sempre più ampi.

Fu in questo periodo che nacque un certo tipo di organizzazione in campo scientifico. Nei secoli precedenti, singoli individui si distinguevano per conoscenze e capacità speciali verso lo studio della natura. Nel diciassettesimo secolo si sviluppò un forte interesse tra la folta classe della borghesia ben istruita; comparvero una sorta di ardente curiosità e un desiderio di conoscenza, che veniva interpretato come salutare per la società. Si mettevano in contatto uno con

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l’altro e attraverso una corrispondenza epistolare, nella quale noi ritroviamo i germi di molti nuovi modi di fare le cose, discutevano le loro opinioni e le loro scoperte. Ogni tanto si ritrovavano in regolari riunioni; presto ebbero il supporto e la protezione di principi e acquistarono il titolo ufficiale di ‘Accademia’, un qualcosa di simile a quello descritto da Bacone nella sua Nuova Atlantide, anche se in maniera meno marcata. Una prima organizzazione di questo tipo venne fondata in Inghilterra, nel 1645, incontrandosi all’inizio di nascosto, perché, essendo schierati per la corona, non potevano ricevere simpatie da parte del governo Puritano. In seguito, nel 1662, con atto reale, divennero ‘Royal Society’. Ai loro incontri tenevano conferenze e comunicazioni ufficiali, venivano discusse nuove scoperte e nuove idee; eruditi stranieri mandavano loro lettere suggerendo esperimenti da svolgere. Il segretario Oldenburg, della città commerciale di Brema, grazie alla sua intensa corrispondenza con numerosi luminari europei, fu considerato per parecchio tempo una specie di ufficio centrale scientifico. Per molto tempo a Robert Hooke, uno scienziato versatile e capace, venne fornito un piccolo salario per svolgere a ogni sessione un esperimento nuovo e interessante. Tra le sue carte fu trovato un documento che spiegava l’attività e lo scopo della Royal Society:

«Per aumentare la conoscenza della natura e di tutte le arti utili, delle manifatture, delle pratiche meccaniche, dei motori e delle invenzioni scaturite da esperimenti (da non confondere con la religione, la retorica, la metafisica, la morale, la politica, la grammatica e la logica)».[125] Per la pubblicazione di tutti questi lavori

vennero fondate, nel 1666, le Philosophical Transactions, che, per i secoli a venire, rimasero la più importante rivista scientifica.

Anche in Francia, naturalisti e scienziati già si incontravano in assemblee regolari prima che il ministro Colbert desse loro il riconoscimento ufficiale di Académie des Sciences. C’era una curiosa differenza tra le due accademie, tipica delle differenti condizioni dei due paesi. Questo fatto fu ben

chiarito da Voltaire un secolo dopo e descritto in una opera successiva intitolata History of the Royal Society, con queste parole:

«I membri dell’Istituto francese ricevono uno stipendio annuale; i colleghi della Royal Society, invece, versano una quota annuale per il supporto della loro istituzione e per il progresso della scienza. Sarebbe ripugnante, per la sensibilità inglese, sottostare alla regolamentazione francese, che richiede che gli indirizzi ufficiali e i candidati all’ammissione debbano essere approvati dal Governo precedentemente alla delibera delle prime o all’elezione dei secondi».[126] In Francia, gli accademici ricevevano dei

salari, chiamati ‘pensioni’, da parte del Re. Luigi XIV si considerava il grande monarca europeo che aveva esteso i suoi poteri oltre i confini della sua nazione; assegnava le cosiddette ‘pensioni’ anche agli studiosi stranieri e tentò di attrarre a Parigi i più famosi di essi per aumentare lo splendore del suo regno. Ole Römer venne dalla Danimarca e Gian Domenico Cassini dall’Italia per lavorare con astronomi francesi come Auzout e Picard. Quando Picard si mise a ispezionare le rovine di Uraniborg di Tycho, Römer fece la sua conoscenza e si recò con lui a Parigi. Cassini venne per dirigere la costruzione di un osservatorio, che era anche la sede dell’Académie. Durante le sessioni di quest’ultima avvenivano delle discussioni e si svolgevano vari esperimenti. Allorché apparve una cometa, questa fu osservata assieme e si tennero delle lezioni sulla sua natura. I resoconti furono pubblicati su Le Journal des Sçavans, appena istituito; anche se si trattava di annotazioni abbastanza primitive, vi erano presenti importanti e nuove idee.

L’esempio dei due più importanti regni fu imitato dagli altri paesi. A Firenze, ancora prima, nel 1657, una dozzina circa di naturalisti, per la maggior parte discepoli o ammiratori di Galileo, il Granduca stesso tra loro, si unirono nella Accademia del Cimento, nelle cui assemblee si iniziò una serie sistematica di esperimenti su problemi di fisica; ma quando si venne a sapere che le alte sfere della Chiesa disapprovavano

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questo genere di attività, furono costretti ad arrestare la loro attività per dieci anni. Nella Germania impoverita e divisa, dove piccoli principi provavano a emulare la scintillante corte di Versailles, vennero fondate in diverse città società simili. La più importante era la Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, per merito, principalmente, della forte personalità del suo fondatore, Georg Wilhelm Leibniz,

versatile studioso, importante filosofo e matematico di genio, che tentò di realizzare una sua ideale repubblica di scienziati in un ambiente totalmente inadeguato. Anche nella frammentata Olanda, ogni città di rilievo aveva la sua Accademia.

Così, la sempre più crescente sete di conoscenza della nascente classe media gettò le basi per l’organizzazione della scienza in tutta l’Europa.

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CAPITOLO 25

IL TELESCOPIO I progressi dell’astronomia nel corso del diciassettesimo e del diciottesimo secolo furono dovuti soprattutto al nuovo strumento che era ora a disposizione degli astronomi, il telescopio. La sua scoperta era avvenuta per caso, niente di più di un meraviglioso giocattolo. Galileo non aveva una vera cognizione teorica di come funzionasse e Keplero fu il primo, nel 1611, a fornire una teoria del tragitto dei raggi di luce attraverso le lenti e della formazione di un’immagine, nella sua opera intitolata Dioptrice seu demonstratio eorum quae visui & visibilibus propter conspicilla non ita pridem inventa accidunt. Keplero discusse diversi modi di combinare le lenti, variando le loro posizioni in un sistema ottico. Fra questi modi, non solo era presentata la combinazione di un obiettivo convesso e di un oculare concavo, come quella utilizzata nel cannocchiale di Galileo, ma veniva discussa anche una combinazione di un obiettivo convesso e un oculare convesso più piccolo. Da allora, quest’ultimo ha preso il nome di sistema ottico ‘kepleriano’, anche se in realtà pare che Keplero non lo avesse mai costruito.

Un cannocchiale di questo tipo, inutilizzabile nella vita comune, poiché rovesciava le immagini e mostrava la gente a testa in giù, entrò in uso in astronomia nei vent’anni successivi, non sappiamo se in seguito a tentativi pratici o seguendo la teoria di Keplero. Non sappiamo neanche con certezza chi ne fu l’inventore∗. Nel 1655, Hans Zachariassen, il figlio di Zacharias Janssen, dichiarò a una commissione ufficiale di inchiesta di aver costruito insieme a suo padre, intorno al 1619, un lange buyse (‘lungo tubo’). Si ritiene che egli abbia voluto indicare, con questo, un cannocchiale kepleriano, nel

∗ Ndr: vedi nota nel Capitolo 22, riguardo al supposto inventore del cannocchiale.

quale il fuoco è posto fra le due lenti, cosicché la focale complessiva è data dalla somma delle distanze focali, mentre l’oculare del telescopio di Galileo è situato fra l’obiettivo e il suo fuoco. Nel 1646, Fontana affermò [ndr: in Novae coelestium terrestriumque rerum observationes etc., Napoli, 1646] di aver già costruito un telescopio di questo tipo nel 1608 e, nel 1630, Christoph Scheiner ricordò [ndr: in Rosa Ursina sive Sol, etc., Bracciano, 1630] di aver usato questo tipo di telescopio per molti anni per proiettare l’immagine del Sole su uno schermo, al fine di osservare le macchie solari. Nel 1645, padre Anton Maria Schyrrle del monastero di Rheita [ndr: latine, Schyrleus de Rheita] descrisse come, per mezzo dello strumento di Keplero, le stelle fossero visibili molto più distintamente su un campo visivo più grande [ndr: in Oculus Enoch et Eliae etc., Anversa, 1645] Il vantaggio dell’apparecchio di Keplero rispetto a quello olandese —l’ampio campo visivo, appunto — viene qui spiegato correttamente. I raggi di luce provenienti da una stella non direttamente sull’asse ottico, passando obliquamente attraverso il tubo, cadono su una parte esterna della lente oculare; se la lente è concava, piega i raggi ancora più verso l’esterno, di modo che essi non entrano nella pupilla dell’occhio; se è convessa, piega i raggi verso l’interno, verso l’asse ottico, cosicché essi entrano pienamente nell’occhio. Questo campo più grande, con immagini chiare e distinte, rendeva il sistema kepleriano superiore, cosicché, intorno al 1640, finì per rimpiazzare completamente, nell’uso astronomico, il modello precedente.

Non molto tempo dopo, i fratelli Huygens si dedicarono, come anche molti altri, alla paziente e accurata lavorazione di lenti migliori, allo scopo di osservare i corpi celesti con maggiori ingrandimenti. Galileo

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aveva usato, al massimo, una trentina di ingrandimenti; quando questo limite venne superato, le immagini divennero talmente poco distinte che il guadagno era pressoché nullo. Ci si rese conto ben presto che ciò era dovuto principalmente alla forte curvatura della superficie delle lenti, che non era in grado di far convergere esattamente i raggi di luce. A questo si poteva rimediare solo utilizzando lenti con una piccola curvatura superficiale, cioè con una maggiore distanza focale, cosicché i telescopi diventarono decisamente molto lunghi. In seguito, Christiaan Huygens (1629-95), che a tenera età aveva già dato prova di essere un abile matematico, ricavò per via teorica la miglior forma per una lente: se una superficie aveva una curvatura sei volte più piccola dell’altra, l’aberrazione sferica — cioè il difetto nell’esatta convergenza dei raggi in un punto — che causava i difetti nell’immagine, raggiungeva un minimo. Ma da un punto di vista pratico questo non portò dei miglioramenti sufficienti.

Insieme a suo fratello costruì un telescopio

da 12 piedi [3,7m] di focale, con un’apertura di solo 57mm (1/60 della lunghezza) e in seguito uno lungo 23 piedi [7m] Con il primo, Huygens scoprì, nel 1655, una piccola stella vicino a Saturno che accompagnava il pianeta: era un satellite che descriveva un’orbita intorno a Saturno in 16 giorni e 4 ore. Trovò, fatto ancora più enigmatico, le strane prominenze scoperte e descritte da Galileo come due piccoli globi adiacenti al pianeta. Negli anni successivi,

Galileo, con sua grande preoccupazione, li aveva visti rimpicciolirsi e scomparire. Saturno avrà divorato i suoi figli? — chiese in una lettera a Welser. Negli anni seguenti altri osservatóri li avevano visti con aspetti diversi e Huygens li vide sotto forma di due maniglie. Egli era certo che degli oggetti vicino a Saturno non potevano stare fermi, ma dovevano ruotare e poiché le protuberanze mantenevano costantemente il loro aspetto, dovevano essere una sorta di anello attorno al pianeta. La completa scomparsa dell’anello, nel 1656, dimostrò che doveva essere molto sottile e piatto. Così, nel 1659, nel suo Systema Saturnium, Huygens fu in grado di dare una risposta al quesito della lettera di Galileo ricordata prima:

«Saturno è circondato da un sottile anello piatto che non lo tocca da nessuna parte, il quale è orientato obliquamente rispetto all’eclittica».

E aggiunse:

«Devo dire qualcosa per rispondere ai dubbi di coloro che ritengono strano e irrazionale che io dia a un corpo celeste una forma mai riscontrata finora, dal momento che è dato per certo, e ritenuto essere una legge di natura, che solo una forma sferica sia adatta. [...] Essi devono considerare che io non ho tirato fuori questa assunzione con la mia inventiva o immaginazione [...] ma che ho visto gli anelli chiaramente con i miei occhi».[127]

Questa spiegazione del mistero di Saturno

non fu una semplice scoperta eseguita con l’ausilio di un buon telescopio; fu il risultato di riflessioni e deduzioni. Infatti, paragonato a uno strumento moderno, il telescopio di Huygens era primitivo e scadente. Un astronomo moderno, esaminando le lenti di questo telescopio da 12 piedi, descrisse

Fig. 28. La variazione dell’aspetto degli anelli di Saturno, secondo Huygens.

Tav. 5b. Christiaan Huygens

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l’aspetto di una stella luminosa osservata con esso come

«un’irregolare e instabile macchia centrale da cui si estendono cinque raggi colorati coperti da 5 o 7 tratti di anelli di diffrazione chiaramente visibili».[128] Un abile specialista italiano, Campani, che

aveva a sua disposizione, inoltre, un vetro veneziano di qualità superiore, fu in grado di costruire lenti migliori. Grazie a telescopi dotati di queste lenti, Cassini riuscì, a Parigi, fra il 1671 e il 1684, a scoprire quattro satelliti minori di Saturno. In un simile lavoro era anche importante un miglioramento dell'oculare. In precedenza, era sempre stata utilizzata una singola lente piano-convessa, poi Huygens costruì una combinazione di due lenti di questo tipo a una distanza calcolata teoricamente. Questo modello di ‘oculare di Huygens’ è rimasto in uso fino ai tempi moderni in quanto il più adatto per l’osservazione al telescopio.

Al fine di minimizzare gli innati difetti delle lenti e comunque raggiungere poteri maggiori, i telescopi furono costruiti di lunghezza focale via via crescente con lenti di minor curvatura. I fratelli Huygens montarono lenti con lunghezza focale di 45, 60 e 120 piedi (rispettivamente 13.726 m, 18.288 m e 36.576 m) o più; Campani ne costruì anche uno di 130 piedi (39.624 m) per gli astronomi di Parigi. Un tubo rigido di quella lunghezza era difficile da costruire e

da maneggiare. Perciò la lente con l’intelaiatura fu innalzata su un alto palo, e l’osservatore dal suolo guardava l’immagine focale attraverso l’oculare (Tavola 6b). Huygens eresse un’impalcatura di questo tipo nella sua residenza di campagna, ‘Hofwijck’ vicino a L’Aja, e con essa eseguì alcune osservazioni. Era ovviamente difficile maneggiare un simile apparato e dobbiamo ammirare l’abilità che rese possibile le osservazioni in tali condizioni. In seguito, queste eccessive dimensioni furono abbandonate, specialmente dopo che le ricerche di Newton avevano mostrato come la causa principale delle immagini scadenti non fosse la forma delle lenti ma la dispersione cromatica del vetro, che persisteva anche con le più grandi lunghezze focali.

I telescopi potevano essere usati per altri scopi oltre che per la scoperta di nuovi corpi celesti: quella che era stata l’opera pionieristica di Galileo e dei suoi contemporanei doveva essere estesa in varie direzioni. Fontana, a Napoli fra il 1630 e il 1646, eseguì molte osservazioni dei pianeti e ancor più dei satelliti di Giove. Le loro eclissi, quando immersi nel cono d’ombra di Giove, furono osservate da Hodierna nel 1652, così come i passaggi delle loro ombre sul disco del pianeta. Nel 1665, basandosi su un certo numero di osservazioni, Borelli, avanzò una teoria dei loro moti e una teoria ancora più completa, con le tavole dei loro movimenti, fu fornita da Cassini nel 1668 [a Bologna] Queste ultime erano basate soprattutto su osservazioni delle eclissi in momenti di facile visibilità, prima e dopo le opposizioni di Giove. Quando le osservazioni vennero proseguite a Parigi, si trovò che gli istanti di eclisse del primo satellite, il più rapido, quando Giove era vicino alla congiunzione con il Sole non coincidevano con i dati delle tavole cassiniane, ma ritardavano di più di dieci minuti. L’astronomo danese Ole Römer, che nel 1675 si trovava a Parigi, presentò una spiegazione di questa differenza per mezzo della velocità finita della luce: quando Giove è alla sua più grande distanza dalla Terra, gli eventi sono osservati con maggiore ritardo.

Tav. 6b. Il telescopio ‘aereo’, senza tubi, di Huygens.

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Tav. 6d. Dall’alto: la mappa lunare di Hevelius del 1647, quella di Riccioli del 1651 [ndr] e quella di Cassini del 1679 [ndr]

Da ciò Römer derivò il fatto che la luce impiegava 11 minuti a coprire la distanza Sole-Terra.

Nel Seicento, parecchi osservatóri puntarono i loro telescopi verso diversi pianeti e pensarono talora di avervi intravisto figure irregolari o macchie. Nel suo libro su Saturno, Huygens presentò un disegno di Giove con due bande equatoriali chiaramente raffigurate e uno di Marte con una banda scura. Il diario dei suoi ultimi anni conteneva degli schizzi di Marte, su cui si poterono riconoscere alcune delle macchie scoperte successivamente, cosicché fu possibile determinarne il periodo di rotazione. Nel 1663, Cassini, con il suo telescopio, che era migliore, stabilì la rapida rotazione di Giove (9 ore e 56 minuti) sfruttando piccole irregolarità nelle sue bande equatoriali, e negli anni seguenti trovò un valore di 24 ore e 40 minuti per il periodo di rotazione di Marte. Queste scoperte rappresentarono il limite estremo di quanto si poteva ottenere con gli strumenti piuttosto primitivi dell’epoca, anche se furono talora frequenti gli annunci di pretese scoperte.

L’oggetto di studio più promettente con l’aiuto della nuova strumentazione fu la Luna. Dopo le prime scoperte di Galileo, la realizzazione di un’esatta rappresentazione della Luna e di una sua mappa dovette sembrare un compito allettante. Ecco un altro mondo, una controparte della Terra, ma più facile da raffigurare. Sulla nostra Terra, le parti più interne dei lontani continenti erano inaccessibili e solo le coste potevano essere esplorate, cosicché la creazione di una mappa terrestre completa era impossibile. Al contrario, il mondo lunare era interamente aperto alla nostra vista ― solo la faccia vicina a noi, naturalmente ― cosicché gli astronomi poterono farne una mappa completa. Il primo lavoro di questo tipo apparve circa nel 1630, per mano del matematico e cosmografo belga M.F. van Langeren (latine Langrenus), oggi quasi del tutto dimenticato. Maggior fama fu ottenuta dal grande atlante della Luna di Johann Hewelke (1611-87), meglio conosciuto come Hevelius, il nome latinizzato che compare sulle sue opere. Hewelke, patrizio

di Danzica, dopo aver studiato all’Università di Leida, installò un osservatorio nella propria casa, dal quale, nel 1641, cominciò ad osservare regolarmente la Luna. La sua Selenographia, pubblicata nel 1647, consisteva di un certo numero di disegni e mappe, sulle quali furono attribuiti dei nomi, presi per lo più dalla geografia terrestre, ai

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diversi lineamenti ― le regioni luminose e quelle scure, le montagne, le pareti circolari e i crateri ― che erano stati riprodotti secondo quanto Hevelius vi aveva osservato direttamente. Nella moderna selenografia sono stati mantenuti solo pochi di questi nomi, relativi ad alcune catene montuose (Alpi, Appennini, Caucaso). Per tutti gli altri luoghi, le denominazioni di Hevelius vennero scartate e sostituite dalla nomenclatura definita da Riccioli, nel 1651, in una mappa lunare disegnata dal suo pupillo Grimaldi [ndr: in Almagestum Novum Astronomiam Veterem Novamque Complectens etc., Bologna] Per le montagne vennero scelti nomi di famosi astronomi e matematici, mentre per le pianure scure, considerati mari, nomi di personaggi immaginari, con significati geografici o meteorologici; perciò alcuni dei più evidenti ed estesi crateri hanno, ancora oggi, i nomi Tycho, Plato, Aristarchus e alcune pianure sono chiamate Mare Serenitatis e Oceanus Procellarum.

La riflessione più profonda che emergeva

da questi studi sulla Luna e sui pianeti poteva essere riassunta in questa domanda: se questi corpi celesti sono simili alla Terra, non potrebbero anche essere abitati da esseri viventi ed intelligenti? Già Keplero aveva scritto un libro, pubblicato postumo, intitolato Somnium, il sogno di un viaggio fantastico sulla Luna. Su questa base romantica finì per poggiare un fondato ragionamento scientifico, elaborato esercizio del pensiero, sui fenomeni celesti e sulle condizioni di vita sulla Luna. Faceva parte della concezione di mondo, per gli scienziati del Seicento, cercare di immaginare un quadro adeguato delle condizioni di vita sui pianeti considerati abitati. E così, Huygens scrisse un Cosmotheoros, pubblicato nel 1698 dopo la sua morte, contenente riflessioni proprio sulle condizioni di vita e sugli esseri viventi su altri mondi.

«Difficilmente è possibile — disse — che un seguace di Copernico non debba a volte immaginare che non sembra irragionevole ammettere che, come il nostro Globo, anche gli

altri pianeti non sono privi di vegetazione o ornamenti, se non, forse di abitanti».[129] Non è necessario presumere che le

condizioni degli altri pianeti siano fondamentalmente diverse da quelle che conosciamo sulla Terra.

«Si vedono sulla superficie di Giove certe bande più scure del resto del disco, e non mantengono sempre la stessa forma; cosa che è tipica delle nuvole. [...] Su Marte le nuvole non sono ancora state osservate, perché il pianeta appare molto più piccolo. [...] Poiché, tuttavia, è sicuro che la Terra e Giove hanno nuvole e acqua, si può difficilmente dubitare che se ne trovino anche sulla superficie degli altri pianeti. — e riguardo agli animali — Non c’è ragione perché il loro modo di sostentamento e di riproduzione sui pianeti non assomigli a quelli che sono qui, visto che tutti gli animali su questa Terra [...] seguono le stesse leggi di natura».[130] Se ci sono esseri intelligenti, le regole del

pensiero e della geometria devono esser le stesse che valgono per noi.

Il libro del 1686 di Fontenelle, Entretiens sur la pluralité des mondes (‘Conversazioni sulla Pluralità dei Mondi’), ottenne una grande popolarità. In quest’opera, il sistema planetario di Copernico, gli abitanti della Luna e dei pianeti, i vortici e le comete, sono tutti trattati nello stile, leggero e raffinato, della corte del Roi Soleil.

«Non sarai sorpreso —dice l’autore al Marchese — di sentire che la Luna è un’altra terra e sembra essere abitata. — e più avanti, parlando delle lune di Giove, dice — che non sono meno meritevoli di essere abitate, nonostante esse abbiano la sfortuna di essere soggette ad un altro pianeta più importante e di orbitargli attorno».[131] Ma cosa dire della difficoltà teologica ―

della quale tratta alla fine della prefazione ― che le persone sulla Luna non possono essere discendenti di Adamo?

«La difficoltà è creata da coloro che hanno piacere di collocare uomini sulla Luna. Io non ne metto là; io metto solo abitanti che non sono uomini. [...] vedrete che è impossibile che là ci siano uomini, secondo la mia idea della sconfinata diversità che la natura deve aver messo nel suo lavoro».

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Il fatto che nei telescopi di Keplero si formi un’immagine reale nel piano focale, immagine che è vista attraverso l’oculare posto dietro il fuoco, come da una lente d’ingrandimento, acquisì un’importanza fondamentale per l’astronomia. Un oggetto situato nel piano focale, sia esso una lamina di metallo, un anello o un filo, è visto perfettamente a fuoco insieme all’immagine dell’oggetto celeste e dal loro confronto è possibile misurare piccole distanze o dimensioni. Nel 1659, Huygens spiegò come aveva potuto determinare il diametro di un disco planetario, coprendolo esattamente con una striscia di metallo posta nel fuoco. L’astronomo francese Auzout, nel 1667, descrisse un miglioramento di questo metodo, mediante due fili paralleli posti nel piano focale, uno dei quali poteva essere mosso per mezzo di una vite. Era questo il primo esemplare di micrometro a filo, che nei secoli successivi si sviluppò in uno strumento di misura ancora più accurato. Il fatto che nel 1640 un astronomo inglese, William Gascoigne, ucciso nella guerra civile, avesse già usato lo stesso apparato per misurare i diametri planetari venne scoperto solo molto più tardi dai suoi manoscritti∗.

Qualsiasi importanza possano aver avuto le scoperte con i telescopi per la conoscenza umana, l’applicazione dei telescopi agli strumenti di misura è stata molto più importante per la scienza. Una proposta avanzata nel 1634 da Morin, noto astrologo

∗ Ndr: in realtà l’idea di Gascoigne, del 1638-9, rimase sconosciuta solo fino all’anno stesso della realizzazione del micrometro di Auzout, quando venne ricordata in una lettera di Townley alla Royal Society (vedi in R.C. BROOKS, “The development of micrometers in the seventeenth, eighteenth and nineteenth centuries”, Journal for the History of Astronomy, XXII, 1991, pp. 126-173.; R. GRANT; History of Physical Astronomy, London, 1852, p. 451). Anche E. Divini, per realizzare la sua mappa lunare, nel 1649 aveva utilizzato «due capelli, che formano una Croce, e veramente fanno effetto bellissimo, mentre si vedono distintamente, e pare che taglino gl'oggetti» e, probabilmente uno strumento simile era stato usato anche da Riccioli e Grimaldi (vedi in F. BÒNOLI, “Riccioli e gli strumenti dell'astronomia”, in Giambattista Riccioli e il merito scientifico dei Gesuiti nell'età barocca, a cura di M.T. Borgato, Firenze, 2002, pp. 133-157).

di Parigi, per usare il telescopio di Galileo come strumento di misura [ndr, applicandolo ad un quadrante mobile], si rivelò all’epoca impraticabile e inutile: solo il telescopio di Keplero poteva aprire nuove strade. Portando l’immagine di una stella, vista attraverso l’ingrandimento dell’oculare, esattamente nell’intersezione di due fili incrociati, la posizione del telescopio poteva essere determinata molto più accuratamente di prima. Di conseguenza, anche la posizione della stella poteva essere misurata con molto maggiore precisione. Jean Picard, il più diligente e abile fra gli astronomi osservativi, fu il primo, nel 1667, a introdurre questo metodo nell’astronomia. Il suo obiettivo era una nuova accurata determinazione delle dimensioni della Terra mediante la misura dell’arco di meridiano. A Leida, Snell aveva escogitato un nuovo metodo, grazie al quale una grande distanza sulla Terra poteva venir ricavata a partire da una piccola linea di base, accuratamente misurabile, per mezzo di un’operazione di triangolazione. Snell aveva applicato questo metodo alla distanza fra le città di Alkmaar e Bergen-op-Zoom, separate da un ampia zona di acque, e lo aveva poi descritto, nel 1617, in un libro che portava l’opportuno titolo di Eratosthenes Batavus. Picard, seguendo questo metodo, misurò una serie di triangoli con una base nel nord della Francia; la differenza in latitudine fra le estremità nord e sud era determinata misurando in entrambi i punti la distanza zenitale al meridiano di molte stelle. Il suo strumento era costituito da un settore di circonferenza di 10 piedi [circa 3m] di raggio — quindi 1’ = 1mm — che si estendeva solo di pochi gradi e si avvaleva di un telescopio invece che di mire ottiche. La figura riprodotta nella Tavola 6a mostra, secondo lo stile del tempo, l’osservatore nelle vesti di un antico filosofo. I singoli risultati non differivano di più di 5’’ dal valor medio, dimostrando l’accuratezza raggiunta e l’esattezza del risultato: 57.057 tese [111,206km] per un grado del meridiano. Tuttavia, questo fu un caso favorevole, dovuto al carattere relativo delle misure. Infatti, con altre determinazioni di posizioni stellari, Picard

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trovò differenze fino a 10’’ o 15’’ in declinazione, apparentemente dipendenti dalle variazioni stagionali, anche se la loro origine venne accertata solo molti anni più tardi.

Ma il nuovo metodo di osservazione

astronomica non trovò un’approvazione generale. Hevelius, a Danzica, lavorava ancora secondo il metodo di Tycho. Con estrema cura, costruì egli stesso degli accurati strumenti di misura (quadranti e sestanti) e, secondo la tendenza dell’epoca, ne fece dei pezzi di eccellente fattura e li installò nel suo osservatorio (Tavola 6c). Grazie ad una vista molto acuta ― pare che a occhio nudo potesse vedere stelle di settima magnitudine ― riuscì ad ottenere una precisione di 1’ e anche meno, superando così lo stesso Tycho. Misurò altezze meridiane con un quadrante da 5 piedi [1,524m] di raggio e distanze fra i pianeti e le stelle con un sestante da 6 piedi [1,829m] Eseguì migliaia di osservazioni, ma purtroppo una larga parte andò persa durante un incendio che distrusse la sua casa e i suoi strumenti. Lavorò anche ad un atlante celeste, pubblicato postumo nel 1690, nel quale introdusse un certo numero di

nuove costellazioni composte da piccole stelle presenti negli spazi vuoti in mezzo agli antichi asterismi, come i Cani da caccia, la Lucertola, lo Scudo di Sobieski, l’Unicorno, il Sestante, la Volpe, la Lince.

Hevelius ebbe una violenta disputa con l’inglese Hooke, riguardo al metodo migliore di osservazione. Hooke sosteneva che l’osservazione con la sola vista, senza sfruttare il telescopio, non poteva fornire sufficiente accuratezza. A causa di questa disputa, Edmund Halley (1656-1742), che nel 1676 aveva già usato un sestante con dei telescopi, per osservare alcune stelle australi a Sant’Elena, fu mandato da Londra a Danzica, nel 1679, per osservare insieme Hevelius un certo numero di stelle, ciascuno con il suo proprio strumento. Si vide allora che la differenza fra i loro risultati era per lo più solo una questione di secondi e non

raggiungeva mai un minuto: una conferma della perfezione di Hevelius nell’arte di osservare. Pur se la sua precisione era sicuramente la migliore ottenibile senza telescopi, questa tecnica era oramai senza futuro. La stessa precisione poteva essere facilmente raggiunta con l’uso di telescopi sugli strumenti e poteva essere ancora

Tav. 6c.Hevelius e il suo quadrante.

Tav. 6a. Il settore zenitale di Picard.

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aumentata da ulteriori miglioramenti negli strumenti e nelle tecniche.

Da questo momento in poi, i telescopi

divennero parte stabile delle attrezzature astronomiche. In Inghilterra, vennero utilizzati da Flamsteed nelle sue prime osservazioni, del 1676, nell’appena inaugurato Greenwich Observatory. Questi telescopi, come si può vedere in vecchie immagini, erano lunghi tubi stretti e l’obiettivo era una piccola lente da un pollice o due circa di diametro [da 2,5 a 5cm] Non serviva una grande luminosità, ma

solo un forte ingrandimento, per puntare le stelle con grande precisione. Anche con questi modesti obiettivi, le stelle diventavano più luminose rispetto alla luminosità del cielo e alcune potevano essere osservate anche durante il giorno. Nel 1634, Morin aveva già descritto entusiasticamente come col suo telescopio poteva seguire Venere per molte ore dopo il sorgere del Sole e Picard, nel 1669, osservando il passaggio in meridiano di Arturo durante il giorno, aprì la strada a nuove possibilità di misure astronomiche.

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CAPITOLO 26

NEWTON Il concetto di attrazione non fu introdotto per la prima volta da Newton. Già Copernico aveva parlato di mutua attrazione delle parti della Terra come causa della sua forma sferica e aveva supposto che questa facoltà fosse presente anche in altri corpi celesti, facendo sì che le particelle costituenti risultassero compresse in una sfera. Anche Keplero aveva parlato di gravità come la tendenza di corpi simili ad avvicinarsi e unirsi l’un l’altro. Per lui le maree erano una prova che la Luna esercitava un’attrazione sull’acqua della Terra:

«se la Terra smettesse di attrarre le acque, tutta l’acqua del mare si solleverebbe e scorrerebbe verso la Luna».[132]

Egli paragonò, inoltre, la gravità al

magnetismo: «la Terra si porta dietro i corpi che volano nell’aria, poiché sono legati a lei come da una forza magnetica, proprio come se esistesse un contatto fra loro».[133] Questa attrazione non aveva niente a che

fare con il moto orbitale; il Sole, come si è detto, non esercitava una forza attrattiva sui pianeti, bensì una forza direttiva, trascinandosi dietro i pianeti con la sua rotazione. La gravità e il moto orbitale erano due settori diversi e completamente separati.

E neanche il diciassettesimo secolo vide alcuna connessione fra i vortici, che muovevano i pianeti nelle loro orbite, e la gravità, che agiva sulla superficie della Terra e senza dubbio anche su quella del Sole e degli altri pianeti. Huygens tentò di stabilire questa connessione in una comunicazione presentata, nel 1669, all’Accademia di Parigi, On the Cause of Gravity. Mentre Cartesio aveva supposto che l’etere, ruotando uniformemente attorno ad un certo asse passante per la Terra, si portasse dietro

la Luna, Huygens faceva muovere la sottile materia fluida in rapida rotazione in tutte le direzioni attorno alla superficie della Terra. Come conseguenza della loro forza centrifuga diretta verso l’esterno, cioè verso l’alto, le piccole particelle comprimevano quelle più grandi della materia visibile di grana grossa, che non partecipavano alla rotazione. Questa origine della gravità implicava che la sottile materia fluida passasse liberamente attraverso tutti gli oggetti pesanti e riempisse lo spazio fra le loro particelle. La velocità di questo moto roteante doveva essere 17 volte maggiore della velocità dell’equatore, poiché, con una rotazione della Terra 17 volte più rapida di quella attuale, gli oggetti all’equatore avrebbero perso la loro gravità.

Il reale progresso della scienza, tuttavia, andò esattamente nella direzione opposta, non cercando di spiegare la gravità per mezzo di orbite circolari, bensì spiegando le orbite circolari per mezzo della gravità e questo era stato reso possibile dallo sviluppo dei principi fondamentali della meccanica. Galileo aveva spiegato la velocità costante di un moto orizzontale in assenza di attrito facendo notare che questo tipo di moto era parte di un’orbita circolare attorno al centro della Terra, che era sempre stato considerato uniforme per natura. Egli non fu mai in grado di andare oltre questo concetto, ma le sue ricerche avevano aperto la strada in un modo tale che suoi allievi e giovani scienziati, come Cavalieri (1632) e Torricelli (1644), poterono esprimere il ‘principio di inerzia’ in forma moderna: quando non ci sono forze agenti, il moto è rettilineo con velocità costante. Il passo successivo fu la comprensione che un’orbita circolare non è semplicemente un moto circolare ― come si era supposto in tutti i secoli precedenti ― ma un complesso moto forzato. Un moto circolare è il risultato di una forza diretta

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verso il centro, che impedisce continuamente al corpo di seguire un moto rettilineo lungo la tangente. Questa tendenza a seguire la tangente e a muoversi con rapidità crescente lontano dal centro fu osservata come una ‘forza centrifuga’, una tensione nella corda quando un oggetto viene fatto girare. Nel 1665, nel suo lavoro sui satelliti di Giove, Borelli si era espresso in questa maniera: la forza centrifuga del moto orbitale era esattamente in equilibrio con la forza attrattiva di Giove. La teoria completa della forza centrifuga fu data da Huygens nella suo opera Horologium oscillatorium del 1673, nella quale egli trattò, in relazione con la sua invenzione dell’orologio a pendolo, un certo numero di problemi matematici e meccanici ad esso collegati. Huygens dedusse che la forza centrifuga è proporzionale al quadrato della velocità e all’inverso del raggio del cerchio.

Prevalse così l’idea che sui pianeti e sulla Luna agisse un’attrazione diretta verso il centro delle loro orbite. Ci si doveva aspettare che questa forza diminuisse con l’aumentare della distanza; ma in quale rapporto? La risposta a questa domanda fu data da Newton (Tavola 7).

Isaac Newton, il figlio di un fattore del

borgo di Woolsthorpe, nel Lincolnshire, nato nel 1642, andò a studiare a Cambridge nel 1661. Quando l’università fu chiusa per un paio di anni a causa di una pestilenza nella città, ritornò nel 1665 nel suo paese natale. Qui fece i suoi primi studi in quelli che sarebbero diventati i più importanti soggetti dei suoi lavori successivi: matematica (la teoria delle flussioni), ottica (la scoperta che

luce comune è composta da numerosi tipi di luce semplice, tutti di diversi colori e indici di rifrazione) e la gravitazione. La caduta dei corpi verso terra catturò la sua attenzione (l’aneddoto riferisce che, vedendo una mela cadere da un albero, cominciò a riflettere sulla causa di questa caduta) e si pose la questione fino a quale altezza si estendesse la gravità. Forse fino alla Luna? Se così, poteva la gravità essere la forza che manteneva la Luna nella sua orbita circolare? Per stabilirlo, doveva sapere in quale rapporto la gravità decresce con la distanza dalla Terra. Per questo problema, la terza legge di Keplero poteva dare una preziosa indicazione. Secondo questa legge, un’orbita circolare quattro volte più grande ha un periodo orbitale otto volte più grande, quindi una velocità due volte minore; perciò, la forza centrifuga, secondo la formula di Huygens, è 16 volte più piccola. In modo del tutto generale, in un simile sistema planetario, la forza centrifuga deve essere pari all’inverso del quadrato della distanza. La gravità che la compensa deve variare nello stesso rapporto.

Dal momento che la distanza della Luna è 60 volte il raggio della Terra, la sua gravità deve essere 3600 volte più piccola di quella di un sasso che cade sulla superficie terrestre oppure, come talora veniva espresso, tanto cade la Luna in un minuto quanto un sasso in un secondo. Nel fare il calcolo, Newton assunse un arco di un grado sulla Terra pari a 60 miglia [96,5km], secondo quanto riportato in un manuale di marina, il solo libro che avesse a portata di mano: ancora oggi un miglio nautico inglese [1,843km] è sempre considerato pari a un primo d’arco. Supponendo che questo fosse il tipico Statute mile di 5280 piedi [1609,344km], pari a 4954 piedi di Parigi, egli calcolò che l’accelerazione della Luna fosse di 0,0073 piedi [0,0022m] al secondo, pari a 26,3 piedi [8,0162m] al minuto. Tuttavia, era risaputo dagli esperimenti di Galileo, in seguito ripetuti più accuratamente da altri, che l’accelerazione al secondo dei corpi in caduta libera era pari a 30 piedi [9,144m] I due valori erano dello stesso ordine di grandezza, ma la differenza — un ottavo del

Tav. 7a. Sir Isaac Newton

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totale — appariva troppo grande per essere accettabile. Si dice che Newton, deluso, abbandonasse la sua idea, apparentemente così brillante, occupandosi, negli anni che seguirono, di ottica e di matematica.

In realtà, Newton avrebbe potuto usare un valore migliore, poiché il risultato di Snell, che aveva dato, per un arco di 1°, la corretta lunghezza di 69 miglia inglesi [111,02km], poteva già essere trovato nei libri inglesi. Questa misura fu confermata dalla più estesa ed accurata determinazione di Picard in Francia, pubblicata nel 1671, che dava, per 1°, 57.065 tese o 69 miglia inglesi. Una volta rifatto il calcolo con questo valore, si ottenne un completo accordo. E così, si poté stabilire la legge dell’attrazione gravitazionale, decrescente come l’inverso del quadrato della distanza.

Newton non fu l’unica persona a formulare questa legge della variazione della forza con la distanza. Parte delle sue deduzioni matematiche furono trovate nel lavoro di Huygens pubblicato nel 1673. Robert Hooke, quello scienziato acuto e versatile, ma invidioso, affermò successivamente non solo di essere stato a lungo a conoscenza della legge ― il che era anche possibile ― ma addirittura che Newton aveva preso l’idea da lui. Probabilmente, Hooke, avendolo sfidato proponendogli il problema di come sarebbero le orbite di un corpo influenzato da una simile forza attrattiva, finì per costituire un forte fattore nell’indirizzare l’attenzione di Newton su questo argomento. Ma Hooke da solo non sarebbe riuscito ad ottenere nulla dalla sola idea e anche Wren e lo stesso Halley avevano discusso la stessa questione, senza riuscire a risolverla. Quello che si rendeva necessario era dimostrare tutti gli argomenti e ricavare tutte le conseguenze di questa legge per le orbite celesti mediante precisi calcoli matematici. Newton fu l’unico in grado di farlo utilizzando i metodi matematici da lui stesso costruiti.

Nel 1684 la teoria era pronta nella sua parte principale e nel 1685, risolvendo il problema dell’attrazione di una sfera solida e dimostrando che era esattamente uguale all’attrazione esercitata dalla sua massa, se

concentrata nel centro, Newton rimosse l’ultima difficoltà del problema. Fu necessario un altro anno di durissimi sforzi mentali, durante il quale egli fu così intensamente assorbito dai suoi problemi che spesso trascurava di mangiare e dormire e la sua salute ne risultò duramente provata; i molti aneddoti riguardo la sua sbadataggine sono relativi a questo periodo. Finalmente, nel 1686, la prima parte poté essere presentata alla Royal Society. Il fatto che il manoscritto non sia rimasto sepolto per lungo tempo nei suoi archivi fu dovuto all’incessante interessamento del suo amico Halley, a quel tempo assistente segretario della Società (una carica chiamata Clerk), il quale riuscì a procurare del denaro per la stampa, in parte di tasca propria. Nel 1687, l’opera apparve con il titolo Philosophiae naturalis principia mathematica (‘Principi matematici della filosofia naturale’).

Il titolo del libro esprime il fatto che esso avrebbe potuto porre nuove fondamenta per l’astronomia. Natural philosophy era il termine in uso in Inghilterra per indicare la ricerca scientifica. Perché servissero dei principi matematici, Newton lo spiegava nel Libro III, che porta il titolo speciale di The System of the World. Qui egli dice:

«Su questo argomento, invece, avrei voluto comporre il terzo libro con uno stile popolare, che potesse essere letto da molti; ma in seguito, considerando che coloro che non fossero entrati sufficientemente nei principi non avrebbero potuto comprenderne facilmente la portata delle conseguenze, e neanche riporre i pregiudizi ai quali sono stati abituati per molti anni, insomma, per prevenire le dispute che sarebbero potute sorgere a riguardo, scelsi di concentrare la sostanza di questo libro in forma di proposizioni (di tipo matematico), che dovrebbero essere lette solo da quelli che si sono prima resi padroni dei principi stabiliti nei libri precedenti».[134] Questa affermazione risulta comprensibile

quando consideriamo che Newton era estremamente sensibile alle critiche, che, spesso basate su fondamenta incerte, erano mosse contro risultati sui quali aveva ragionato attentamente e profondamente; e così, egli spesso posticipò la pubblicazione dei suoi risultati per evitare spiacevoli polemiche. La dimostrazione matematica

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convinceva i ben istruiti e scoraggiava gli ignoranti. Fu nello stesso periodo che Spinoza espose la sua filosofia in forma di proposizioni e dimostrazioni matematiche.

Il contenuto dei primi due Libri, infatti, consisteva di matematica; è geometria applicata al movimento dei corpi, cioè quello che noi chiamiamo ‘meccanica teorica’. Nella sua prefazione, Newton affermava:

«Perciò la geometria ha i suoi fondamenti nella pratica meccanica, e non è altro che quella parte della meccanica universale che accuratamente propone e dimostra l’arte del misurare. Ma siccome sono soprattutto le arti manuali ad essere impiegate nel muovere i corpi, succede che la geometria è comunemente riferita alla loro ampiezza e la meccanica al loro movimento. In questo senso, la meccanica razionale sarà la scienza dei moti risultanti da forze qualsiasi e delle forze richieste a produrre qualunque moto, accuratamente proposta e spiegata».[135] La meccanica razionale era la disciplina

che serviva per unire i moti terrestri e quelli celesti in un unico sistema. I moti terrestri erano governati dalle leggi della caduta e della gravità di Galileo; i moti celesti erano governati dalle leggi di Keplero delle orbite planetarie. Per connetterli, Newton, in quanto fondatore della nuova scienza, che completava il lavoro di Galileo e di Huygens, cominciò enunciando i suoi principi nella forma di ‘Definizioni’ e ‘Assiomi o Leggi del Moto’.

(1) Ogni corpo rimane nel suo stato di quiete o di moto uniforme lungo una linea retta, finché non è costretto a cambiare quello stato da forze esercitate su di esso. (2) Il cambiamento del moto è proporzionale alla forza motrice impressa ed avviene nella direzione della linea lungo la quale quella forza è impressa. (3) Per ogni azione c’è sempre una reazione opposta ovvero le mutue azioni di due corpi l’uno sull’altro sono sempre uguali, e dirette in verso contrario.[136] il concetto di massa fu introdotto come «la quantità di materia derivante dalla sua densità e mole congiuntamente»; «la quantità di moto deriva dalla velocità moltiplicata per la quantità di materia; e la forza motrice deriva

dalla forza di accelerazione moltiplicata per la stessa quantità di materia». Massa e peso erano, dunque, precisamente distinti. È per questo che, vicino alla superficie della Terra, dove l’accelerazione gravitazionale, o forza prodotta dalla gravità, è la stessa in tutti i corpi, la gravità motrice, o il peso, dipende dal corpo; ma se dovessimo salire in regioni più alte, dove l’accelerazione gravitazionale è minore, il peso risulterebbe ugualmente diminuito, e sarebbe sempre il prodotto del corpo per l’accelerazione gravitazionale.[137]

Poiché lo scopo principale era il trattamento dei corpi celesti che si muovono liberamente, le forze centripete furono introdotte direttamente sotto le definizioni.

«Una forza centripeta è quella per la quale i corpi sono attratti o spinti, o in qualche modo sono diretti, verso un punto come ad un centro. […] di questo tipo è la gravità […] e quella forza, qualunque cosa sia, dalla quale i pianeti sono continuamente scostati da un moto rettilineo, che altrimenti seguirebbero, e fatti girare su orbite curvilinee. […] Essi cercano tutti di allontanarsi dai centri delle loro orbite; e se non fosse per l’opporsi di una forza contraria che li trattiene, e li mantiene nelle loro orbite, la quale perciò chiamerò centripeta, volerebbero via in linee rette, con un moto uniforme». Poi, dopo aver menzionato un proiettile

sparato orizzontalmente dall’alto di una montagna con sufficiente velocità, che girerebbe attorno alla Terra su un’orbita, prosegue:

«[…] è probabile che anche la Luna sia continuamente scostata in direzione della Terra dalla forza di gravità, se è investita dalla gravità, o da una qualsiasi altra forza, che la spinge verso la Terra, fuori dal percorso rettilineo che per sua innata forza seguirebbe; e sarebbe fatta ruotare nell’orbita che adesso descrive: e la Luna non potrebbe neppure essere trattenuta nella sua orbita senza una qualche simile forza».[138] Quindi, attraverso una rigorosa

dimostrazione matematica, Newton derivò dalle leggi di Keplero le forze che determinano i moti dei pianeti. La sua Proposizione I (Cajori ed., p. 40) si occupa della legge delle aree: se un corpo in rivoluzione è soggetto a una forza centripeta diretta verso un punto fisso, le aree descritte

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dai raggi che lo collegano a quel punto saranno proporzionali ai tempi in cui sono descritte. Per la dimostrazione (riprodotta in Appendice C), Newton fece uso di intervalli di tempo uguali e finiti durante i quali il raggio descrive un triangolo e dopo ognuno dei quali la forza dà un impulso finito al corpo diretto verso il centro. Poi prosegue:

«Ora facciamo in modo che il numero di questi triangoli aumenti, e che la loro larghezza diminuisca all’infinito; il loro perimetro finale sarà una linea curva: e quindi la forza centripeta, dalla quale il corpo è continuamente trattenuto dalla tangente a questa curva, agirà continuamente».[139] In queste parole vediamo che dietro la

forma geometrica si trova lo spirito del suo metodo delle ‘flussioni’ che pervade la sua geometria; l’idea è di considerare quantità e moti non come valori definiti e slegati, ma come in processo di aver inizio, cambiare, o scomparire. Newton poté essere un rinnovatore dell’astronomia perché allo stesso tempo fu un rinnovatore della matematica. Nelle sue dimostrazioni faceva uso di figure geometriche, di linee rette e di triangoli di dimensione finita, ma poi lasciava che il numero di queste parti aumentasse e che la loro dimensione diminuisse ad infinitum, per adattarsi ad un’orbita curva e a una forza che operava continuamente e mostrò che in quei casi le dimostrazioni valevano rigorosamente.

Per mezzo della stessa rappresentazione, veniva dimostrato il contrario: quando le aree che si susseguono sono uguali per uguali intervalli di tempo, la forza agente è sempre diretta verso lo stesso punto. Perciò la seconda legge di Keplero, delle aree proporzionali agli intervalli di tempo, provò che i pianeti erano mossi da una forza diretta verso il Sole e quindi proveniente da esso. Per il caso di un moto circolare, Newton mostrò che questo metodo portava alla stessa formula che era stata ricavata da Huygens per la forza centrifuga.

Più avanti, nella proposizione XI, derivò in modo del tutto generale la legge della forza centripeta verso il Sole dalla prima legge di Keplero, secondo la quale l’orbita di un pianeta è un’ellisse con il Sole in uno dei

fuochi. Facendo uso delle ben note proprietà geometriche dell’ellisse, trovò che la forza andava come l’inverso del quadrato della distanza dal Sole. Considerando la fondamentale importanza di questa dimostrazione per la storia dell’astronomia, l’abbiamo riportata nell’Appendice D. La stesso frequenza di variazione con la distanza ― come mostrato sopra ― fu trovata confrontando due diversi pianeti (supposti avere, per semplicità, orbite circolari) e applicando la terza legge di Keplero. Questo significava che pianeti diversi alla stessa distanza dal Sole avevano la stessa accelerazione e che quindi l’attrazione esercitata su di essi dal Sole era indipendente dalla loro sostanza. Queste conclusioni diedero un nuovo significato alle leggi di Keplero che, da semplici regolarità empiriche, acquistavano ora irrefutabile certezza come conseguenze di una legge universale di attrazione. I tentativi fatti nel diciassettesimo secolo per trovare altre orbite o leggi del moto per i pianeti perdevano ora ogni significato.

Le proposizioni matematiche trovarono le loro applicazioni nel Libro terzo. Da osservazioni dei satelliti di Giove si era ricavato che le leggi di Keplero valevano anche per loro; quindi le forze che li mantenevano sulle loro orbite erano dirette verso il centro di Giove e cambiavano inversamente al quadrato della distanza da quel centro. Lo stesso valeva per i satelliti di Saturno. I pianeti erano attratti allo stesso modo dal Sole, e la Luna dalla Terra. L’accelerazione dei corpi in caduta libera sulla superficie della Terra fu calcolata dal moto orbitale della Luna essere pari a 15½ piedi di Parigi, «o, più precisamente, 15 piedi 1 pollice 14⁄9 di linea [la dodicesima parte di un pollice = 2,12 mm]», mentre la stessa accelerazione, derivata da Huygens dalla lunghezza di un pendolo che oscillava con la frequenza di un secondo, ammontava a 15 piedi 1 pollice 17⁄9 di linea.

«E perciò la forza dalla quale la Luna è trattenuta nella sua orbita diventa, proprio sulla superficie della Terra, uguale alla forza di gravità che noi osserviamo sui corpi pesanti. E quindi (dalle Regole 1 e 2) la forza dalla quale la Luna è

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trattenuta sulla sua orbita è proprio quella forza che noi chiamiamo comunemente gravità; perché, se la gravità fosse un’altra forza diversa da quella, allora i corpi che scendono a terra con l’impulso congiunto di entrambe le forze precipiterebbero con una velocità doppia».[140] Con le Regole 1 e 2 Newton intende le

prime delle Regulae philosophandi (‘Regole di Ragionamento in Filosofia’) all’inizio del Libro III: (1) noi non dobbiamo ammettere più cause per i fenomeni naturali di quante siano vere e sufficienti per spiegare il loro aspetto; (2) di conseguenza, agli stessi effetti naturali dobbiamo, per quanto possibile, assegnare le stesse cause. Queste regole ai nostri giorni possono sembrare superflue e artificiali, ma, in un secolo in cui così tante fantasie erano presentate come scienza, questa ammonizione di disciplina intellettuale non era superflua. E poi conclude:

«La forza che trattiene i corpi celesti sulle loro orbite è stata finora chiamata forza centripeta; ma essendo adesso chiaro che non può essere altro che una forza gravitazionale, d’ora in poi la chiameremo gravità. Perché la causa di quella forza centripeta che trattiene la Luna sulla sua orbita si estenderà a tutti i pianeti».[141] Le lune di Giove gravitano verso Giove, i

pianeti verso il Sole. C’è una forza di gravità che conduce tutti i pianeti; anche Giove gravita verso i suoi satelliti, la Terra verso la Luna e tutti i pianeti gravitano l’uno verso l’altro. Tutti i corpi sono mutuamente attratti da una forza fra loro che muove i corpi più grandi di poco, i corpi più piccoli di più. I pesi dei corpi verso i diversi pianeti, quindi le quantità di materia nei vari pianeti, possono essere calcolati dalle distanze e dai periodi dei corpi che ruotano attorno ad essi; se si pone uno per il Sole, si trova che sono 1/1067 per Giove, 1/3021 per Saturno, 1/169.282 per la Terra. La forza esercitata da un corpo celeste è composta dall’attrazione delle sue parti, cioè delle più piccole particelle di materia. Questa gravità o attrazione universale, successivamente chiamata ‘gravitazione’, è una proprietà generale di tutta la materia: tutte le particelle si attraggono l’un l’altra in accordo con la

legge di Newton dell’inverso del quadrato delle loro distanze. Newton dimostrò che l’attrazione totale di un corpo sferico è esattamente la stessa che se tutta la sua massa fosse concentrata nel centro e le leggi di Keplero sono valide per i pianeti poiché essi, così come il Sole, sono corpi sferici.

La teoria della gravitazione non era solo una formulazione più universale delle leggi empiriche da cui era stata ricavata, poiché forniva in aggiunta spiegazioni per un certo numero di altri fenomeni. Newton dimostrò che, oltre alle orbite ellittiche, anche orbite paraboliche e iperboliche portavano alla stessa legge di attrazione, cosicché per questa legge ciascuna di queste sezioni coniche era una possibile orbita, con il Sole sempre nel fuoco. Questo risultato poteva allo stesso tempo essere applicato alle comete; il loro misterioso apparire e scomparire all’improvviso era in esatto accordo con gli infiniti rami di una parabola o di un’iperbole. Keplero aveva supposto che le comete corressero attraverso lo spazio e passassero oltre il Sole lungo linee rette. Cassini aveva provato, senza risultato, a rappresentare le osservazioni con orbite circolari oblique [ndr, in realtà con orbite allungate, gli ‘ovali di Cassini’] Borelli, tuttavia, nel 1668 aveva sospettato che le orbite fossero paraboliche. Nel 1680 apparve una grande cometa che arrivò vicino al Sole e, dopo aver fatto rapidamente mezzo giro attorno ad esso, se ne andò nella stessa direzione da cui era venuta. Dörffel, ministro a Plauen, in Sassonia, spiegò il suo percorso utilizzando una stretta parabola con una piccola distanza focale.

Newton fornì una base teorica a questi sospetti osservando che le orbite delle comete devono essere sezioni coniche; egli suppose che fossero ellissi ampiamente estese di grande eccentricità, che alle loro estremità erano così simili a parabole da poter essere sostituite da parabole. Indicò, inoltre, un metodo per ricavare la vera orbita nello spazio dal percorso osservato fra le stelle e lo applicò alla cometa del 1680. Con questo metodo, Halley calcolò le orbite paraboliche di 24 comete, due delle quali erano apparse nel 1337 e nel 1472, e le altre

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nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo. Nella pubblicazione del 1705 dei risultati ottenuti, Halley richiamò l’attenzione sul fatto che tre di quelle ― le comete che erano apparse nel 1531, nel 1607 e nel 1682 ― avevano circa le stesse orbite nello spazio. Dato che entrambi gli intervalli erano di 75 o 76 anni, ne concluse che si trattava di tre apparizioni consecutive della stessa cometa, che proprio in 75 anni descriveva un’ellisse fortemente allungata attorno al Sole. In un’autobiografia del 1716 ritornò sulla questione, indicando le comete che erano state viste nel 1456 e nel 1378 come possibili apparizioni dello stesso corpo e ne predisse il prossimo ritorno nel 1758.

Nei Principia Newton ricavò anche lo

schiacciamento polare di una sfera rotante, particolarmente della Terra. In questo era stato preceduto da Huygens, il quale intorno al 1683 — pur se i primi calcoli risultano dai suoi diari essere stati precedenti — aveva scritto un supplemento al suo discorso sulle cause della gravità, spedito quattro anni dopo al segretario dell’Accademia di Parigi. Lo stesso Huygens pubblicò nel 1690, insieme al suo trattato sulla luce, sia il discorso che il supplemento, nel quale avanzava l’ipotesi che un filo a piombo non fosse diretto verso il centro della Terra, bensì, a medie latitudini, a causa della rotazione del nostro pianeta, risultasse inclinato verso sud di 1/10°, cioè 6’.

«Questa deviazione è contraria a quella che è

sempre stata supposta essere una vera certezza, vale a dire il fatto che una corda tesa dal piombo sia diretta proprio verso il centro della Terra. […] Quindi, guardando a nord, non dovrebbe la linea di livello scendere visibilmente sotto l’orizzonte? Questo, però, non è mai stato notato e sicuramente non ha luogo. E la ragione di ciò, il che è un altro paradosso, è che la Terra non è proprio una sfera ma è appiattita ai due poli, pressappoco come farebbe un ellisse che gira attorno al suo asse minore. Questo è dovuto al moto diurno della Terra ed è una necessaria conseguenza della deviazione del filo a piombo menzionata sopra. Poiché, a causa del loro peso, i corpi scendono parallelamente alla direzione di questa linea, la superficie di un fluido deve porsi perpendicolarmente al filo a piombo, altrimenti continuerebbe a scorrere verso il basso».[142]

In un Addendum scritto nel 1690, Huygens calcolò uno schiacciamento di 1/578, basato sull’assunzione che la gravità originata dai vortici fosse costante attraverso l’intero corpo della Terra. Ma adesso Newton disponeva di una teoria migliore; partendo dalla gravità come risultato dell’attrazione di tutte le particelle separate, trovava che questa decresceva regolarmente dalla superficie al centro, dove scompariva. Così ricavò un rapporto tra l’asse polare e il diametro equatoriale pari a 229 : 230, cioè uno schiacciamento di 1/230. Questi risultati teorici vennero fortemente contrastati dagli astronomi francesi, che riponevano maggior fiducia nelle loro misure geodetiche. Meticolose determinazioni della lunghezza di un grado di meridiano a sud di Parigi avevano dato un valore maggiore (57.098 tese = 111.284 km) di quello che era stato ricavato dall’arco di meridiano tra Parigi e Dunkerque (56,970 tese = 111.034 km). Cassini e i suoi colleghi conclusero che i gradi diventavano più piccoli verso nord e che quindi la Terra doveva essere allungata ai poli. Questa contraddizione fra teoria e pratica rese gli astronomi francesi scettici nei confronti dell’intera teoria.

Newton si occupò anche di altri fenomeni astronomici che ora potevano trovare una spiegazione nella teoria della gravitazione. Per prima cosa fece notare che l’attrazione del Sole sulla Luna perturbava l’orbita lunare ed era la causa delle irregolarità scoperte da Tolomeo e da Tycho Brahe nel percorso del nostro satellite. Fornì una prima stima teorica della regressione dei nodi lunari e trovò che questa è maggiore quando la Luna è ai quarti e zero durante le fasi di Luna piena e Luna nuova. Poi mostrò come le maree sono causate dai diversi modi in cui la terra solida e le acque mobili degli oceani sono attratte dalla Luna e dal Sole. La precessione — quel regolare e lento aumento nelle longitudini delle stelle dovuto al cambiamento di posizione dell’asse di rotazione terrestre — poteva a sua volta essere spiegato con l’attrazione del Sole e della Luna su una Terra appiattita e, facendo un paragone con i nodi di lune immaginarie orbitanti attorno all’equatore terrestre, poté

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addirittura calcolarne l’esatto valore di 50’’ per anno (9,12’’ ad opera del Sole e 40,88’’ ad opera della Luna).

Come diretta conseguenza della sua teoria comprese come anche i moti dei pianeti venissero perturbati dalla loro mutua attrazione:

«Ma le azioni dei pianeti l’uno sull’altro sono davvero piccole, tanto che possono essere trascurate. […] È vero che l’azione di Giove su Saturno non è trascurabile […] la gravità di Saturno rispetto a Giove sta alla gravità di Saturno rispetto al Sole circa come 1 a 211. E perciò avviene una perturbazione dell’orbita di Saturno ad ogni congiunzione di questo pianeta con Giove, talmente percettibile, che gli astronomi al riguardo sono sconcertati».[143] Tutte le altre mutue influenze sono così

piccole che egli suppose che l’afelio e i nodi dei pianeti fossero fissi — o quasi — e concluse inoltre:

«Le stelle fisse sono immobili, dal momento che si vede che esse mantengono la stessa posizione agli afeli e ai nodi dei pianeti».[144] Con la teoria della gravitazione universale,

Newton aveva fornito alla conoscenza dei moti dei corpi celesti una base tanto solida quanto non si sarebbe mai potuto immaginare, unificando, inoltre, in questa grande impresa scientifica, i principi di Bacone e di Cartesio, formalmente opposti: egli era partito sia dall’esperienza pratica che da regole dedotte con accurati calcoli dalle osservazioni e grazie ad entrambi era riuscito a costruire un principio teorico generale che gli permetteva di derivare tutti i singoli fenomeni. E tutte queste deduzioni erano state dimostrate con la più esatta e acuta matematica. Nessuna meraviglia, quindi, se, sopraffatte le tradizioni e superate le difficoltà del nuovo modo di pensare, i suoi compatrioti lo esaltarono come un genio quasi sovrumano, concedendogli grandi onori: dal 1703 fino al 1727, l’anno della sua morte, fu President of the Royal Society. La nomina, nel 1696, a Warden of the Mint [Governatore della Zecca] (poi Master [Sovrintendente] dal 1699) non fu per lui un semplice posto d’onore o una redditizia sinecura. Grazie a energiche misure, volte a

coniare monete d’argento di buona qualità, riuscì, insieme ai ministri Somers e Montague e al filosofo John Locke, a introdurre delle correzioni nel deplorevole sistema monetario inglese, operazione che divenne la base necessaria per l’espansione del commercio cui ambiva la Gran Bretagna.[145]

Nei Principia, Newton non si limitò a esporre la sua nuova teoria — fatto essenziale per noi — ma vi svolse anche una critica delle vecchie teorie dominanti, cosa che per i suoi contemporanei era altrettanto necessaria. E così l’intero Libro II è dedicato al moto dei fluidi e alla resistenza che i corpi in movimento incontrano nei fluidi: primi fondamenti per una trattazione scientifica di questi fenomeni. La teoria dei vortici dovette superare un rigoroso esame scientifico e il progresso avvenuto nel corso di mezzo secolo fu il progresso da vaghi discorsi filosofici a esatti calcoli matematici. Per dirla con le parole di Newton, questa fu la conclusione:

«Perciò è chiaro che i pianeti non sono trasportati da vortici corporei»;

e con una affermazione ancora più severa: «cosicché l’ipotesi dei vortici è completamente inconciliabile con i fenomeni astronomici e serve piuttosto a confondere che a spiegare i moti celesti».[146] Nonostante questa critica schiacciante alla

teoria dei vortici, la maggior parte degli scienziati rimase scettica nei confronti della dottrina della gravitazione e questo appare abbastanza chiaramente in quanto scrisse Huygens, nel 1690, nel già ricordato Addendum al suo Discourse on the Cause of Gravity. Confrontando i diversi risultati sullo schiacciamento della Terra, Huygens affermava:

«Non posso essere d’accordo con il Principio che egli [Newton] avanza in questo calcolo e altrove, cioè che tutte le piccole particelle, che possiamo immaginare in due o più corpi diversi, si attraggono e cercano di avvicinarsi l’una all’altra. Non posso ammetterlo in quanto credo di vedere chiaramente che le cause di una simile attrazione non possono

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essere spiegate da alcun principio della meccanica o dalle regole del moto».[147] Ovviamente, poiché, secondo Huygens, il

peso dei corpi era dovuto alla loro compressione da parte dell’etere esterno in rotazione e non alle influenze che venivano dall’interno della Terra, cosicché gli stessi corpi celesti non potevano interagire l’uno sull’altro. Non aveva nulla contro la forza centripeta di Newton, per la quale i pianeti risultavano pesanti in direzione del Sole, visto che lui stesso aveva mostrato che tale gravità poteva essere interpretata con cause meccaniche. Molto tempo prima aveva anche immaginato che la figura sferica del Sole, così come quella della Terra, potesse essere spiegata con questa gravità, ma non aveva esteso la sua azione fino ai pianeti,

«poiché i vortici di Cartesio che in passato mi erano sembrati molto probabili e che avevano occupato la mia mente, erano in contrasto con ciò. E non ero neanche convinto di quella diminuzione di gravità regolare, secondo l’inverso del quadrato della distanza; si tratta di una nuova proprietà della gravità, molto notevole, della quale varrà certamente la pena cercare la ragione» [148] Da queste parole si capisce come quella

che per Newton era una soluzione, per Huygens fosse un nuovo problema. Comprendendo ora, dalle dimostrazioni di Newton, che questa gravità controbilanciava le forze centrifughe dei pianeti e produceva proprio il loro moto ellittico, Huygens non dubitò che le ipotesi di Newton sulla gravità fossero vere, così come il sistema di Newton fondato su di quelle, che doveva apparire come il più probabile, dato che risolveva molte difficoltà che creavano dei problemi nei vortici di Cartesio. Ad esempio, come mai le eccentricità e le inclinazioni delle orbite planetarie rimanessero sempre costanti e i loro piani passassero per il Sole, e come mai i loro moti fossero accelerati e ritardati, come risulta dalle osservazioni, il che potrebbe difficilmente succedere se stessero nuotando in un vortice attorno al Sole. E adesso si riesce anche a vedere in che modo le comete possono attraversare il nostro sistema, essendo difficile, infatti, capire come potessero avere un movimento

opposto ai vortici che erano tanto forti da portarsi dietro i pianeti. Ma grazie alla teoria di Newton, questa difficoltà venne rimossa, dato che niente impedisce alle comete di viaggiare su ellissi molto allungate attorno al Sole.

«C’è solo questa difficoltà — continuava Huygens — che Newton [...] avrà degli spazi celesti contenenti solo pochissima materia, in modo che i pianeti e le comete incontrino pochi impedimenti nel loro percorso. Una volta accettato questo grado di rarefazione, sembra impossibile spiegare sia l’azione della gravità che della luce, almeno nel modo che ho sempre fatto».[149] Huygens aveva già sviluppato nel 1678

una teoria della luce (pubblicata poi nel 1690) come vibrazione, un moto ondulatorio che si propagava attraverso l’etere del mondo, e in questo modo aveva spiegato i fenomeni della riflessione e della rifrazione. Newton aveva sviluppato una teoria completamente diversa — non pubblicata fino al 1704 ― secondo la quale la luce consiste di particelle emesse che si muovono nello spazio con grande velocità. La rifrazione di un raggio obliquo incidente su una superficie di vetro ― che nella teoria di Huygens era dovuta a una propagazione delle onde più lenta ― nella teoria di Newton veniva facilmente spiegata dalla considerazione che i corpuscoli di luce venivano piegati verso la perpendicolare dall’attrazione della più densa materia del vetro. C’era, quindi, una profonda differenza nella struttura che supponevano stesse alla base del mondo. Per Newton lo spazio era vuoto o quasi; i corpuscoli di luce, così come i pianeti, compivano il loro percorso senza impedimenti e la gravità agiva attraverso lo spazio vuoto da un corpo ad un altro. Huygens non poteva essere in accordo con l’attrazione di Newton, poiché la sua teoria della luce richiedeva che lo spazio fosse pieno di etere.

E così, nel suo Addendum, egli tornò a discutere della natura, della sottigliezza e della tenuità delle particelle in rotazione intorno alla Terra, sostenendo che Newton aveva cercato di dimostrare l’estrema rarefazione dell’etere per evitare che i moti causati dalla gravità venissero ostacolati

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dalla resistenza dell’etere stesso; ma questa sostanza, affermava Huygens invece di ostacolare il moto, origina la gravità.

«Sarebbe diverso se supponessimo che la gravità fosse una qualità intrinseca della natura dei corpi. Ma non credo che sia questo che Newton sostiene, poiché una simile ipotesi ci porterebbe lontano dai principi matematici e meccanici».[150] Sulla stessa linea di pensiero, Leibniz,

dopo aver letto i Principia, scrisse a Huygens, nell’ottobre del 1690:

«Non capisco in che modo egli concepisca la gravità o l’attrazione; sembra che per lui sia solo una certa virtù immateriale e inesplicabile, mentre tu la spieghi in maniera molto plausibile attraverso le leggi della meccanica».[151] E qui viene alla luce la profonda radice

della controversia. Huygens ammetteva l’esattezza dei calcoli e delle formule di Newton, ma non gli fornivano alcuna spiegazione. Non davano nessuna risposta alle domande poste da lui e dai suoi colleghi francesi: qual è l’origine dell’attrazione? Perché i due corpi senza alcun contatto sono spinti l’uno contro l’altro? Se, al contrario, lo spazio è riempito di materia, questa trasferisce il moto per contatto, attraverso la pressione e l’attrazione; noi vediamo come l’acqua che scorre e il vento che soffia si trascinano dietro gli oggetti e queste sono forze meccaniche, facilmente comprensibili. Un’attrazione da lontano, attraverso lo spazio vuoto, è del tutto estranea all’azione meccanica.

Newton e i suoi compagni non si erano resi conto di questa difficoltà? Certamente sì, ma non se ne preoccuparono. Seguendo gli orientamenti generali di pensiero di quei tempi, Newton era fondamentalmente d’accordo con Huygens e che anch’egli, come i suoi contemporanei, sentisse la necessità di una spiegazione appare chiaro da una lettera scritta nel 1678 a Robert Boyle, il famoso chimico scopritore della legge di compressione dei gas. Nella lettera, Newton cercava di giustificare la gravità attraverso l’etere che avrebbe pervaso tutti i corpi pesanti e sarebbe stato composto da particelle di diversi gradi di finezza, ma

sosteneva come le sue conoscenze riguardo ad argomenti di questo tipo fossero così poco chiare da non essere soddisfatto della spiegazione:

«tu capirai facilmente se in queste congetture c’è un certo grado di probabilità».[152] Che Newton considerasse l’attrazione a

distanza una spiegazione insufficiente appare anche dalle lettere che, nel 1692-93, scrisse a Richard Bentley, con il quale era in corrispondenza a seguito a una serie di conferenze in cui Bentley dimostrava l’esistenza di Dio e rifiutava l’ateismo per mezzo della legge di gravitazione. Newton, che era profondamente coinvolto in questioni teologiche e aveva spesso scritto su argomenti biblici, nella sua prima lettera, del 10 dicembre 1692, mostrava di essere d’accordo con questa linea di pensiero:

«Non conosco altro motivo del perché esista un corpo nel nostro sistema atto a dare luce e calore a tutto il resto se non quella che l’autore del sistema lo ritenesse conveniente. [...] Alla tua seconda questione rispondo che i movimenti che i pianeti hanno adesso non possono provenire da una sola causa naturale, ma sono stati impressi da un Ente intelligente. [...] Creare questo sistema, dunque, con tutti i suoi movimenti, ha richiesto una causa che capisse e paragonasse le quantità di materia nei vari corpi del Sole e dei pianeti e le forze gravitazionali che ne derivano [...] e paragonare e sistemare tutte queste cose assieme in una così grande varietà di corpi significa che quella causa non era cieca e fortuita, ma davvero molto abile in meccanica e geometria».[153] Nella terza lettera del 25 febbraio, scriveva

riguardo all’attrazione: «È inconcepibile che bruta materia inanimata, senza la mediazione di qualcos’altro che non sia materiale, agisca e influisca su altra materia senza contatto reciproco, come dovrebbe fare se la gravitazione, nel senso di Epicuro, fosse essenziale e inseparabile da essa. E questa è una ragione per cui desideravo che tu non attribuissi a me la gravità naturale. Che la gravità possa essere naturale, inseparabile dalla materia ed essenziale per essa, cosicché un corpo possa agire su un altro a distanza attraverso il vuoto, senza la mediazione di nient’altro che possa indirizzare la loro azione e la loro forza dall’uno all’altro, mi sembra un’assurdità così grande che nessun uomo che abbia valida capacità di pensiero in materie filosofiche potrebbe

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crederci. La gravità deve essere originata da un ente che opera costantemente secondo leggi precise; ma se questo ente sia materiale o immateriale, l’ho lasciato alla considerazione dei miei lettori».[154] Per confutare la critica di aver introdotto

caratteri occulti nella filosofia naturale, Newton espresse queste stesse opinioni, in modo più reticente, nella seconda edizione dei Principia (1713), in un General Scholium aggiunto alla fine del terzo Libro:

«Fin qui abbiamo spiegato i fenomeni dei cieli e del nostro mare con la forza di gravità, ma non abbiamo ancora attribuito una causa a questa forza. Una cosa è certa, che deve provenire da una causa che penetra proprio fino al centro del Sole e dei pianeti, senza soffrire della minima diminuzione della sua forza; una causa che non opera secondo la vastità della superficie delle particelle su cui agisce (come facevano le cause meccaniche), ma secondo la quantità di materia solida che contengono. [...] Ma finora non sono stato in grado di scoprire dai fenomeni la causa di queste proprietà della gravità, e non faccio ipotesi; dato che tutto quello che non è dedotto dai fenomeni deve essere chiamato un’ipotesi; e le ipotesi, siano metafisiche o fisiche, di carattere occulto o meccanico, non trovano spazio nella filosofia sperimentale [...] e per noi è sufficiente che la gravità esista davvero e agisca secondo le leggi che abbiamo spiegato, e che servano a rendere abbondantemente conto di tutti i moti dei corpi celesti e del nostro mare».[155] Il modo in cui poi proseguiva fa capire

come questa non fosse l’ultima parola della sua ‘Filosofia Naturale’:

«Ed ora dobbiamo aggiungere qualcosa riguardo a un certo spirito più sottile che pervade e resta nascosto in tutti i corpi pesanti; per la forza e l’azione del quale spirito le particelle dei corpi si attraggono l’un l’altra a distanze vicine […]», agiscono i corpi elettrici e viene emessa la luce «[…] e le membra dei corpi animali si muovono al comando della volontà, cioè, con le vibrazioni di questo spirito, propagate mutuamente lungo i solidi filamenti dei nervi. [...] Ma queste sono cose che non possono essere spiegate in poche parole, e noi non siamo forniti del numero sufficiente di

esperimenti richiesto per un’accurata determinazione e dimostrazione delle leggi secondo cui opera questo spirito elastico e magnetico».[156] Con queste parole si concludono i libri del

Principia Mathematica. Queste frasi mostrano come la sua mente

fosse anche capace di voli dell’immaginazione, anche se la sua teoria ne rimase completamente libera e in essa appaiono solo quelle relazioni dimostrabili per mezzo di una matematica esatta: questa è la sua caratteristica essenziale. Grazie alle leggi della gravitazione, i fenomeni possono essere ricavati e previsti dal calcolo: questo è lo scopo della scienza. Nuovamente, qui ci imbattiamo col contrasto fra la mente pratica degli inglesi e quella teorica degli scienziati continentali. Questi ultimi si arrovellavano sulla questione da quali verità fondamentali derivassero le loro teorie. I primi, al contrario, non se curavano e si accontentavano di poter lavorare con le teorie e derivare da queste risultati pratici. Senza dubbio, come abbiamo già fatto notare, questa era una conseguenza del modo generale di pensare di queste persone, radicato nel loro stile di vita. La stessa libertà personale e la stessa audacia che nei secoli che seguirono portarono la classe media inglese a divenire una potenza mondiale nel commercio e nell’industria, resero gli studiosi inglesi i pionieri della scienza, grazie alla loro ‘filosofia sperimentale’.

Pionieri del metodo scientifico, davvero. Ciò che nell’opera di Newton si presenta come una rassegnazione — la tenace applicazione a ulteriori risultati senza avanzare la richiesta di cause più profonde — divenne il principio della scienza moderna: una legge di natura non è una spiegazione dei fenomeni a partire da ‘cause’ primarie prestabilite.

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CAPITOLO 27

L’ASTRONOMIA PRATICA L’enorme espansione della navigazione oceanica nel diciassettesimo secolo determinò la necessità di avere dati astronomici sempre più precisi. I porti dei continenti lontani, così come le coste e le isole, dovevano essere esplorati, rilevati e mappati mediante misure astronomiche. Per la sicurezza della navigazione, anche in mare aperto, i marinai dovevano poter determinare la longitudine e la latitudine. Trovare la latitudine geografica non era molto difficile; essa poteva essere determinata misurando l’altezza massima raggiunta in meridiano dal Sole o da una stella, a condizione che, naturalmente, si conoscesse la declinazione dell’oggetto celeste. Ciò voleva dire avere a disposizione delle buone tavole per il Sole e un buon catalogo di stelle con le loro declinazioni. Per il Sole, la Luna e i pianeti c’erano le Tavole Rudolfine di Keplero e per le stelle boreali il catalogo di Tycho. Col passare del tempo erano richiesti dati sempre più precisi e gli astronomi dovevano soddisfare tale richiesta. Allora i governi sentirono che era loro dovere favorire gli astronomi nell’interesse dei traffici.

Per le stelle australi invisibili dall’Europa dapprima erano disponibili solo le posizioni approssimate di circa 300 stelle, determinate da due marinai olandesi, Pieter Dirksz.∗ Keyzer a Bantam, nel 1595, e Frederik de Houtman durante la sua prigionia ad Achin, nel 1600. Fu per rimediare a ciò che il governo britannico, nel 1676, mandò il giovane Halley nell’isola di S. Elena, nella quale egli riuscì a misurare la posizione accurata di 350 stelle australi. I suoi risultati furono pubblicati come supplemento al catalogo di Tycho ed Hevelius li aggiunse al ∗ Ndt: abbreviazione di Dirkszoon: Dirk è il nome, ‘s’ sta per ‘des’ e significa ‘di’, ‘z’ è l’abbreviazione di ‘zoon’ e significa ‘figlio’: quindi Dirkszoon vuol dire figlio di Dirk.

suo catalogo. In questo viaggio e nei viaggi successivi, Halley fece molte osservazioni meteorologiche e magnetiche, delineò una mappa delle maree e ideò una spiegazione degli alisei e dei monsoni come conseguenza della rotazione terrestre, che pubblicò nel 1686.

Trovare invece la longitudine terrestre era un compito più difficile; rimase un problema famoso e imbarazzante fino al ventesimo secolo. La longitudine di un punto sulla Terra è definita come la differenza di tempo fra il punto considerato e un meridiano adottato come meridiano di longitudine zero. Nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, il meridiano di Parigi fu scelto come meridiano di riferimento tenendo conto del valore economico e politico della Francia e delle sue tavole nautiche. In seguito, quando l’Inghilterra ebbe il dominio dei mari, fu usato sempre più spesso il meridiano del Greenwich Observatory. Il tempo locale può essere calcolato dall’altezza del Sole o delle stelle, mediante misure astronomiche. La difficoltà sta nel conoscere in mare aperto il tempo standard del meridiano di riferimento. Galileo aveva proposto di usare le eclissi dei satelliti di Giove: tali eclissi sono visibili nello stesso momento da qualsiasi luogo della Terra e per questo, nel 1635, gli Stati dell’Olanda trattarono seriamente con Galileo. Purtroppo, le tavole relative ai moti dei satelliti di Giove erano troppo imprecise per predire le eclissi con la dovuta precisione. Più promettente era l’uso della Luna che ogni giorno avanza nella sua orbita di quasi 13,2° (vale a dire 1/27 della circonferenza del cielo). Un errore di pochi minuti nella determinazione della longitudine della Luna produce un errore 27 volte più grande nel calcolo della longitudine terrestre del luogo d’osservazione dedotta; ma i marinai, a quel tempo, si accontentavano di conoscere la

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loro posizione con una precisione di un paio di gradi. Vespucci aveva già fatto uso delle mappe lunari per calcolare la differenza di longitudine fra l’America del sud e la Spagna; Pigafetta, il compagno di Magellano, aveva applicato lo stesso metodo e nel sedicesimo secolo Werner a Norimberga e Gemma Frisius a Louvain avevano consigliato questo metodo. Il Governo francese di Richelieu, nel 1634, mise in palio del denaro per risolvere questo problema e nominò una commissione a tal proposito. Morin rivendicò il premio per la sua proposta di misurare la distanza dalla Luna di diverse stelle e di costruire un osservatorio per determinare, tramite osservazioni, la traiettoria esatta della Luna. Il premio, tuttavia, gli venne negato dalla commissione perché l’idea non era nuova e Morin non fu capace di fare proposte concrete per il suo progetto. Il metodo divenne realizzabile solo con gli ulteriori sviluppi dell’astronomia, nei secoli successivi.

Tycho aveva determinato le differenze dell’ascensione retta delle stelle calcolandole, mediante formule trigonometriche, dalle distanze misurate in direzione est-ovest. Così fece Halley nell’isola di S. Elena. Per primo Joost Bürgi, a Cassel, aveva tentato di misurare l’ascensione retta direttamente, mediante gli istanti di transito delle stelle al meridiano, ma questo tentativo fu reso vano dall’irregolarità degli orologi. L’invenzione dell’orologio a pendolo, nel 1656, da parte di Huygens risolse il problema. Galileo si era già accorto che un pendolo è isocrono, cioè che (per piccole oscillazioni) il tempo di oscillazione è indipendente dall’ampiezza delle oscillazioni stesse. Per cui deve essere possibile misurare le durate mediante in numero di oscillazioni uguali di un pendolo, per esempio i secondi. Molte persone, per primo Galileo stesso, e successivamente suo figlio Vincenzo, affrontarono il problema di come mettere insieme il pendolo e il suo meccanismo. Huygens trovò un metodo pratico in cui il pendolo regola il roteare delle ruote dentate e un piccolo impulso dalla ruota, a ogni oscillazione, mantiene

costante l’ampiezza dell’oscillazione del pendolo. L’orologio, costruito come un meccanismo di conteggio automatico, indicando il numero di oscillazioni, divenne uno strumento accurato per misurare il tempo. Ciò significa che l’orologio divenne uno strumento astronomico, un aiuto essenziale in tutte le future misure dell’astronomia. Lo strumento di osservazione più idoneo a essere usato in combinazione con esso, costruito dapprima in una forma primitiva da Römer all’osservatorio di Copenhagen, fu lo strumento di transito, che consiste in un telescopio fisso ad angolo retto su un’asse orizzontale diretto esattamente nella direzione est-ovest. Ruotando l’asse, la linea di vista del telescopio descrive il meridiano. L’istante di transito di una stella, osservato mediante l’oculare attraverso un filamento verticale posto nel coincidente piano focale dell’obiettivo e dell’oculare, indica l’ascensione retta. Un secondo di tempo corrisponde a 15 secondi d’arco, ma osservando i transiti su molti filamenti paralleli e verticali, l’errore del tempo di transito può essere ridotto a una piccola frazione di secondo (Tavola 8a).

L’invenzione d’orologi precisi fornì un

nuovo modo per calcolare la longitudine in mare; su un orologio che andasse

Tavola 8a. Lo strumento dei transiti di Römer (da Basis Astronomiae di Horrebow del 1735, Cap. VIII).

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esattamente con la giusta velocità (almeno dall’ultimo porto) il tempo del meridiano di riferimento potrebbe essere letto direttamente. Un pendolo, naturalmente, non poteva essere utile allo scopo su un vascello oscillante, quindi era necessario un orologio portatile regolato da una molla, chiamato “cronometro”. Hooke, insieme con Tompion, “il padre dell’orologeria inglese”, ne aveva ideato per primo dei modelli realizzabili, anche se non ebbero alcun successo. Successivamente, Huygens risolse il problema, seguendo lo stesso identico principio del suo orologio a pendolo, introducendo la bilancia a molla come regolatore. Se tale cronometro, trasportato su un vascello in un lungo viaggio, avesse sbagliato di un minuto, avrebbe prodotto un errore di solo un quarto di grado in longitudine.

Nel diciassettesimo secolo l’astronomia iniziò a interessare i governi. Ai tempi di Tycho, i principi spesso avevano sovvenzionato le ricerche astronomiche, che erano interessi personali dei singoli individui. Nel secolo successivo, sotto l’assolutismo reale, l’astronomia, oltre a essere un’attività scientifica personale di una classe di cittadini ricchi e di larghe vedute, desiderosi d’apprendere, divenne un mestiere di stato. L’applicazione pratica dell’astronomia alle necessità della navigazione e della geografia indussero i governanti a fondare degli osservatòri.

Quando Picard, in una dedica al Re, nell’introduzione delle sue Ephemerides del 1664, fece notare che in Francia non c’era alcuno strumento con cui determinare la latitudine, il Re, nel 1667, ordinò la costruzione di un Observatoire Royal a Parigi, che sarebbe divenuto anche la sede della nuova Académie des Sciences, che qui vi avrebbe tenuto le sue sessioni e vi avrebbe svolto i sui esperimenti. Picard era l’esperto principale dell’astronomia pratica per quando riguarda la determinazione delle posizioni stellari. Tuttavia, il versatile Gian Domenico Cassini, che era noto per diverse scoperte [ndr: eseguite nei vent’anni trascorsi a Bologna come Professore di Astronomia dello Studio], fu chiamato a

Parigi per essere il primo direttore [ndr: per molto tempo l’Observatoire non ebbe direttore e, quindi Cassini non lo fu mai] e per accrescere la gloria del principe con nuove scoperte; Picard divenne il capo osservatore. Dal 1679 in poi pubblicò la Connaissance des temps, il primo almanacco nautico, usato tuttora, ed egli sentì la necessità di dargli una base sicura sull’attendibilità delle osservazioni. Propose di costruire un quadrante, con un raggio di 5 piedi, provvisto di telescopio, in una posizione fissa in meridiano, per misurare le altezze e i tempi di transito. Ma l’ostentazione dell’edificio divorò tanto denaro che lo strumento principale fu posticipato e non fu pronto prima del 1683, un anno dopo la morte di Picard.

In seguito, il suo successore, La Hire, lo

usò regolarmente per le osservazioni. Tali osservazioni servirono per correggere le tavole e per calcolare le nuove effemeridi; ma non furono raccolte in un nuovo catalogo stellare né vennero pubblicate, ancora una volta per mancanza di denaro. Conservate negli archivi, poterono essere consultate occasionalmente per scopi particolari.

La proposta di un visitatore francese alla corte inglese di avere osservazioni per scopi nautici, indusse Carlo II a chiedere un rapporto alla Royal Society. Uno dei membri della commissione fu John Flamsteed (1646-1719), che, da giovane, si era occupato di osservazioni astronomiche. Fu lui a scrivere il rapporto in cui fu espressa la necessità di un osservatorio, dal quale le posizioni dei corpi celesti potessero essere determinate regolarmente. Allora il re ordinò, nel 1675, che fosse costruito un osservatorio sulla

Tavola 8b. L’Observatoire Royal a Parigi.

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collina di Greenwich, una delle sue proprietà. Flamsteed fu nominato dal re “our astronomical observer”, con un salario di 100 sterline l’anno; da allora “Astronomer Royal” è rimasto il titolo dei direttori del Greenwich Observatory. Il suo compito era

«di applicarsi con la più rigorosa attenzione e diligenza per correggere le tavole dei moti dei cieli e le coordinate delle stelle fisse, in modo tale da trovare la tanto desiderata longitudine dei luoghi per perfezionare l’arte della navigazione».[157]

Nell’osservatorio non c’erano strumenti e

Flamsteed dovette procurarseli. Dal suo amico Jonas Moore poté prendere in prestito un sestante con un raggio di 7 piedi che negli anni 1676-88 usò per misurare le distanze fra molte stelle. Egli usò il vecchio metodo di Tycho, con la sola differenza che il suo sestante era provvisto di due telescopi con reticoli a croce, uno fisso, l’altro mobile lungo un arco graduato: in tal modo erano necessari due osservatóri. Non potendo ottenere dal governo i soldi per uno strumento migliore, più adatto per il lavoro fondamentale, costruì a sue spese e con l’aiuto del suo ingegnoso assistente, Abraham Sharp, un quadrante murale con un raggio di 7 piedi da usare in meridiano. Non era proprio un quadrante, ma un arco maggiore di 50°, per poter abbracciare tutto il meridiano dall’orizzonte meridionale al polo nord celeste. L’accuratezza raggiunta con questo strumento fu dovuta in gran parte all’abilità di Sharp, il quale era esperto nell’incidere accurate divisioni sugli strumenti.

Dal 1689, Flamsteed, con un’assiduità

incessante, nonostante fosse di salute cagionevole, osservò ascensioni rette e declinazioni delle stelle, del Sole, della Luna e dei pianeti. Non si accontentò delle osservazioni accumulate, ma le ridusse a un risultato finale atto alla pubblicazione. Non prima del 1725, dopo la sua morte, fu pubblicato l’Historia coelestis Britannica, un catalogo di 3.000 stelle, straordinario rispetto a tutti i cataloghi precedenti in quanto a numero e accuratezza. In questo catalogo le stelle erano ordinate per costellazioni secondo l’ascensione retta (non secondo la longitudine, come Tycho); le stelle erano numerate, e questi numeri poi furono usati come nomi delle stelle. Noi parliamo della stella 61 Cygni perché era la numero 61 del Cigno nel catalogo di Flamsteed. Un atlante di mappe stellari, basato su questo catalogo, fu pubblicato per la prima volta nel 1729 e spesso ristampato in seguito.

L’astronomia pratica divenne così l’attività regolare di specialisti nominati di proposito, spesso dipendenti dello stato, il cui dovere consisteva nel fare osservazioni astronomiche. Dal momento che le scoperte sensazionali potevano presentarsi solo ogni tanto, il lavoro principale era il paziente e devoto lavoro di routine. Era, in ogni caso, una routine che si rinnovava continuamente e faceva ogni sforzo per raggiungere l’accuratezza migliore attraverso il continuo sviluppo degli strumenti e dei metodi. Tutto questo fu alla base del progresso trionfale dell’astronomia nei secoli seguenti.

Il lavoro più necessario e più promettente fu l’osservazione dei corpi che presentavano moti cospicui, la Luna e i pianeti. Sembrava che le Tavole Rudolfine non fornissero delle traiettorie esatte; dovunque comparivano piccole deviazioni e questo poteva essere affrontato solo parzialmente col miglioramento dei valori numerici per gli elementi ellittici. Ma i pianeti rispettavano esattamente le leggi di Keplero? Essi rispettavano tali leggi abbastanza ma non del tutto; c’erano delle differenze. Nel 1676, Halley notò che Saturno andava più lentamente e Giove più velocemente di quanto risultasse dalle tavole; i loro periodi

Il Royal Observatory a Greenwich.

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di rivoluzione erano cambiati dai tempi di Keplero. In considerazione di tutte queste deviazioni, rilevabili con le nuove osservazioni più accurate, sorse il sospetto che le leggi determinassero solo una traiettoria media, simile alla fluttuazione periodica della temperatura con le stagioni, con sovrapposti cambi di variazioni irregolari. Fortunatamente, la legge di Newton della gravitazione universale comparve al momento giusto per stabilire come, con l’attrazione soltanto del Sole, le leggi di Keplero sarebbero state seguite con precisione, ma, con l’azione d’attrazione degli altri pianeti, ci sarebbero dovute essere delle deviazioni, apparentemente capricciose, ma dovute a cause naturali. La determinazione delle posizioni delle stelle fisse, che dovevano servire come base per tutti gli studi dei movimenti nello spazio, portò alla luce nuovi fenomeni. Fu ancora Halley che, nel 1718, confrontando i nuovi

risultati per le latitudini di Aldebarn, Sirio e Arturo con i dati di Tolomeo, completati da quelli di Ipparco e Timocharis, trovò che quelle erano di mezzo grado più a sud rispetto ai vecchi dati.

«Che cosa diremo allora? È poco credibile che gli antichi potessero essersi sbagliati su un argomento così evidente, dal momento che tre osservatóri si confermano l’un l’altro. Inoltre, essendo le loro stelle le più brillanti del cielo, sono con ogni probabilità le più vicine alla Terra e, se esse avessero qualche moto proprio particolare, sarebbe più facile percepirlo proprio in queste stelle».[158] Le così dette “stelle fisse” non occupavano

una posizione fissa nel cielo: avevano un loro moto proprio sulla sfera celeste, quindi anche nello spazio. Questo risultato inatteso fornì una nuova visione del mondo. C’era un nuovo motivo per osservare le stelle più volte e con maggiore accuratezza.

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CAPITOLO 28

ASTRONOMI IN VIAGGIO Con l’espansione della navigazione negli oceani, le imprese degli astronomi erano rivolte a risolvere problemi particolari. La spedizione di Halley nell’isola di S. Elena è già stata ricordata prima. Spesso i viaggi avevano le loro origini da discussioni nate nelle Accademie appena fondate. Una valida iniziativa proveniva dall’Académie di Parigi poiché i suoi membri, come pensionnaires (‘stipendiati’) del Re, potevano ricorrere al Ministero del Tesoro per le spese extra.

Nel 1671, l’accademico Richer fu mandato nella colonia francese di Cayenne per effettuare delle osservazioni sui pianeti e sulle stelle, con particolare attenzione alla parallasse solare. Ma la spedizione è meglio nota per un risultato secondario rispetto al suo scopo iniziale. Richer portò con se un orologio a pendolo che era stato ben regolato a Parigi. Dopo il suo arrivo a Cayenne, l’orologio andava più lento di due minuti al giorno, e il suo pendolo dovette essere accorciato di 1/380 della sua lunghezza per procedere di pari passo con la rotazione della Terra. Egli capì subito che questo era dovuto al fatto che la gravità era diminuita a causa della forza centrifuga della rotazione terrestre, la quale all’equatore era più forte rispetto a Parigi; al suo ritorno a Parigi la lunghezza del pendolo dovette essere ripristinata. La diminuzione della gravità con la forza centrifuga poté essere calcolata esattamente; era 1/580, assai più piccola rispetto a quella che Richer aveva trovato. Huygens e Newton considerarono la differenza come una prova del loro risultato teorico che la Terra era schiacciata ai poli. Abbiamo accennato prima al fatto che gli astronomi francesi contestavano quest’opinione e, sulle basi delle misure geodetiche in Francia, credevano che la Terra fosse allungata ai poli. Quando, nei primi anni del diciottesimo secolo, la teoria della gravitazione cominciò a interessare gli

scienziati francesi, essi capirono che la piccola differenza fra il sud e il nord della Francia non poteva essere decisivo per la forma della Terra. L’Académie di Parigi decise di mandare una spedizione per misurare un arco di meridiano vicino all’equatore. Se la Terra fosse stata schiacciata la curvatura del meridiano sarebbe dovuta risultare maggiore, quindi un arco di un grado sarebbe stato più corto all’equatore. Nel 1735, Bouguer e La Condamine andarono in Perù (nella parte settentrionale, adesso chiamata Ecuador) e nella lunga pianura di Quito, posta in direzione nord-sud, misurarono un arco di tre gradi. Le loro istruzioni erano di misurare anche un arco di longitudine in direzione est-ovest; su una Terra schiacciata tale arco sarebbe stato più lungo rispetto al grado di latitudine in direzione nord-sud, così che, in teoria, il problema sarebbe stato risolto mediante misure effettuate in una sola regione. In questa terra di catene montuose giganti in direzione nord-sud, le Ande, era impossibile, comunque, misurare un arco in direzione est-ovest; inoltre, le differenze di longitudine non potevano essere misurate così bene come le differenze di latitudine. A causa di molte difficoltà e dissensi, gli astronomi non ritornarono prima del 1743. Ma il risultato che riportarono fu decisivo; a Quito, Bouguer trovò 56.753 tese∗ per una differenza di un grado di latitudine, valore nettamente più piccolo rispetto al valore di 57.057 trovato in Francia.

Nel frattempo, poco dopo la loro partenza dalla Francia, Maupertuis propose di mandare una seconda spedizione nel lontano nord, per rendere l’evidenza ancora più convincente. Quindi, nel 1736 Maupertuis, ∗ Ndt: unità di lunghezza uguale a circa 6,4 piedi francesi (1,94904 metri) usata nei primi rilevamenti geodetici, .

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accompagnato da Clairaut e da altri giovani scienziati, andarono a Lapland. Nelle vicinanze di Torneå, con molte sofferenze per l’eccessivo freddo, misurarono, in parte lungo il fiume e in parte sul fiume ghiacciato, un arco di 0°57’. Il risultato di queste misure, 57.438 tese per un arco di 1°, confrontato col risultato della Francia, forniva una prova sufficiente dello schiacciamento della Terra. Poiché Maupertuis ritornò direttamente in Francia, nel 1738, poté presentarsi come l’uomo che aveva dimostrato la verità sulla forma della Terra. I risultati, comunque, a una riflessione più attenta, mostravano una discordanza numerica. Dal confronto Torneå-Parigi si ricavava uno schiacciamento di 1/114; da Quito-Parigi si otteneva uno schiacciamento molto più piccolo di 1/279. In seguito i risultati stabilirono che quest’ultimo valore era quasi corretto; le osservazioni del Perù erano state fatte con grande cura e precisione. A Lapland le difficoltà erano state maggiori; dopo un inverno rigido, quando il mercurio del termometro era ghiacciato e gli strumenti di metallo potevano essere a stento toccati, gli osservatóri ritornarono a casa prima possibile. Una nuova misura nel diciannovesimo secolo dimostrò che la differenza di latitudine, trovata da Maupertuis, era troppo piccola.

Altre spedizioni, nel diciottesimo secolo, si occuparono del problema della parallasse solare. Quest’ultima è la costante fondamentale per determinare la distanza della Terra dal Sole e, quindi, tutte le distanze e dimensioni del Sistema solare. Tycho Brahe aveva usato il valore tradizionale dell’antichità, 3’. Keplero aveva ottenuto, dalle osservazioni di Tycho di Marte, che non poteva essere più grande di 1’. Circa nel 1630, Vendelinus fece un altro tentativo con il vecchio metodo di Aristarco, questa volta utilizzando un telescopio per determinare l’esatto momento in cui il disco lunare era diviso in due dal terminatore. Egli trovò che si verificava quando la Luna si trovava 1/4° prima rispetto ai 90° dal Sole, una quantità 12 volte più piccola della misura di Aristarco; quindi la parallasse

solare era 1/12 del valore di Aristarco, cioè 15”. Essendo il terminatore una linea non regolare, una precisione maggiore con questo metodo non poteva essere raggiunta.

La spedizione di Richer a Cayenne, come detto sopra, fu fatta soprattutto per misurare la parallasse di Marte, che nell’autunno del 1672 si avvicinò alla Terra a una distanza di 0,37 A.U., così che la sua parallasse era quasi 3 volte quella del Sole. Per questo scopo fu misurata la declinazione di Marte e delle stelle vicine, mentre Cassini, contemporaneamente, eseguiva le stesse misure a Parigi. La differenza era quasi al limite dell’accuratezza allora ottenibile. Cassini dedusse che la parallasse di Marte non poteva essere superiore ai 25” e che la parallasse solare non poteva superare i 10”; come risultato finale fu preso 9,5”. Per la prima volta la parallasse solare era stata determinata con misure dirette, sebbene con un’incertezza relativamente grande, di alcuni secondi, 1/3 o 1/4 del suo valore∗.

Lo stesso metodo fu usato ancora una volta, in seguito, dal diligente Lacaille, che nel 1751 andò al Capo di Buona Speranza e rimase lì per due anni, osservando molte stelle australi. Fece anche osservazioni di parallasse lunare e solare; per quest’ultima usò Marte all’opposizione e Venere vicino alla congiunzione inferiore. Per la parallasse lunare ottenne un valore accurato, 57’5”. Per la parallasse solare, comunque, gli osservatóri europei lo avevano abbandonato trascurando di fare osservazioni simili, così che i suoi risultati, 10,2” per Marte e 10,6′′ per Venere risultarono di scarsa rilevanza.

Nel frattempo, tuttavia, era stato scoperto un metodo molto più promettente. Durante la sua permanenza sull’isola di S. Elena, Halley aveva osservato un transito di Mercurio sul Sole. In tale transito, il disco solare aveva fatto da sfondo per il disco nero del pianeta; la sua posizione relativa sul Sole, a causa della sua parallasse, deve essere diversa per luoghi di osservazioni differenti sulla Terra. Halley aveva tentato anche di calcolare una parallasse solare

∗ Ndt: il valore oggi comunemente accettato per la parallasse solare è di 8,794”.

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dall’osservazione degli istanti di ingresso e uscita di Mercurio. Naturalmente, ciò aveva un’alta imprecisione, e il risultato, 45”, era completamente privo di valore. Ma ciò lo portò alla riflessione che, se ci fosse stato Venere al posto di Mercurio, le condizioni sarebbero state molto più favorevoli.

Quando Venere in congiunzione inferiore si vede prima del Sole, il suo moto relativo sul disco solare è così lento che ci vogliono 7 ore per coprire il diametro solare e ci vogliono 14 secondi per avanzare di 1”. La sua parallasse relativa, 22”, in condizioni medie, dà circa lo stesso valore per la differenza in lunghezze delle corde descritte, le quali danno una differenza di 5 minuti negli istanti di ingresso e uscita. Se l’osservatore commettesse un errore di, per esempio, 3 secondi nel calcolo di uno dei due istanti, avrebbe un errore nella parallasse solare solamente di 1/100 del suo valore. Non ci sorprende che Halley, proponendo questo metodo molto migliore nel 1691, usasse queste parole:

«Questo sarà il solo genere d’osservazioni che nei prossimi secoli, con maggiore precisione, sveleranno la distanza Sole-Terra; si è tentato di misurare la parallasse con metodi differenti, ma invano. In questo modo non ci sarebbe la necessità di usare strumenti graduati molto precisi». Per attraversare il disco solare nella sua

congiunzione inferiore, Venere deve essere vicino a uno dei nodi della sua orbita. Poiché cinque rivoluzioni di Venere sono quasi otto anni, c’è una congiunzione inferiore di nuovo otto anni dopo, con una differenza di longitudine di 2,4°, vale a dire una differenza di latitudine di 8,5’, che, vista dalla Terra, equivale a una differenza di 22’ nella latitudine apparente. Poiché il diametro solare è 30’, due transiti consecutivi possono essere visti con un intervallo di otto anni; in seguito la congiunzione si è spostata in longitudine troppo dal nodo. Dopo più di un secolo, una nuova serie di due transiti avviene nelle vicinanze dell’altro nodo. Già Keplero alludeva in termini vaghi al carattere speciale e straordinario di questi fenomeni. La prima osservazione fu fatta il 4 dicembre del 1639 da Jeremiah Horrox, che

la descrisse entusiasticamente in una lettera al suo amico e collaboratore, Crabtree. I transiti successivi, del 6 giugno del 1761 e del 3 giugno 1769, furono quelli indicati da Halley, che enfatizzò di nuovo la loro importanza nel 1716; egli sottolineò l’importanza di occupare il maggior numero possibile di stazioni di osservazione, non solo lontano a nord e a sud ma anche a est e a ovest, dove sarebbero stati visibili solo gli ingressi e le uscite.

Quando si presentò l’occasione, il suo

appello fu preso in ampia considerazione. Molti astronomi francesi e inglesi si spostarono in luoghi molto distanti e poco noti. Nel 1761, il fenomeno poté essere visto nella sua totalità in Asia e nelle regioni polari settentrionali; nelle isole australiane fu visibile solo l’inizio, nell’Europa occidentale e nell’Atlantico solo la fine. Pingré andò nell’isola di Rodrigues nell’oceano indiano, Chappe d’Auteroche a Tobolsk in Siberia, Maskelyne nell’isola di S. Elena, Mason e Dixon al Capo di Buona Speranza, padre Hell da Vienna a Vardö in Norvegia, vicino Capo Nord, Le Gentil in India. Un numero ancora più grande di astronomi partì nel 1769, quando l’intero fenomeno fu visibile dal Pacifico,

Fig. 29. Transito di Venere sul disco solare. ’m’ rappresenta la traccia del punto centrale del pianeta.

1761: 1. Rodrigues; 2. Parigi; 3. Tobolosk; 4. Tahiti

1769: 1. Tahiti; 2. Batavia; 3. Vardö; 4. Parigi

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dall’America occidentale e, naturalmente dal Polo nord; la fine dall’Asia orientale, l’inizio dall’America orientale e dall’Europa occidentale. Chappe andò in California, dove morì di pestilenza, contratta per portare a termine il suo obiettivo. Pingré si recò a Santo Domingo, Walles nella baia di Hudson, il capitano Cook con alcuni astronomi a Tahiti; diversi osservatóri russi si sparpagliarono in Siberia. Hell andò di nuovo a Vardö per vedere Venere passare davanti al Sole di mezzanotte, mentre molti astronomi europei e americani, come Mohr a Batavia, osservarono il fenomeno nei propri osservatòri.

I risultati non furono all’altezza dell’enorme attesa. La traiettoria del fenomeno fu così lenta che il primo contatto del disco nero di Venere con il bordo del Sole e l’ultima scomparsa, cioè il momento del contatto esterno, non poté essere indicata con un’approssimazione inferiore a una decina di secondi. Questo era il risultato che ci si aspettava, ma si sperava che il secondo e il terzo contatto, cioè i contatti interni del grande disco luminoso con quello piccolo scuro, sarebbero stati osservati distintamente. Si era visto, in ogni caso, che il piccolo disco nero rimaneva come una goccia collegata al bordo del Sole da un filo nero, e quando si rompeva, Venere immediatamente si trovava molto all’interno del bordo. Si era capito che ciò era dovuto a qualche genere di irradiamento o diffrazione∗. Come sapere, allora, quale era stato l’istante preciso del contatto interno? Inoltre, gli osservatóri trovarono una differenza di una decina di secondi nei loro calcoli, soprattutto quando usavano telescopi differenti. Disorientati da tale imprevisto, dovettero essere, tuttavia, soddisfatti nel

∗ Ndr:: il fenomeno della cosiddetta gutta nigra o ‘goccia nera’ venne spiegato nel 1922 da Horn d’Arturo, allora Direttore dell’Osservatorio di Bologna, come provocato da effetti di astigmatismo (vedi Pubblicazioni dell’Osservatorio astronomico della R. Università di Bologna, vol. I, n. 3, pp. 25-57, 1922. Lo stesso articolo si trova integralmente riprodotto nel sito della Biblioteca - intitolata nel 1999 ad Horn d’Arturo - del Dipartimento di Astronomia dell’Università di Bologna, alla pagina Web www.bo.astro.it/~biblio/ Horn/dicembre3.htm).

notare delle differenze fra i diversi istanti. Si sospettò anche, forse ingiustamente, che padre Hell avesse cambiato in seguito i suoi famosi risultati.

I risultati per la parallasse solare, calcolati da diversi ‘calcolatori’ dalle differenti osservazioni combinate, divergevano, dunque, molto più di quanto Halley ottimisticamente si aspettasse. Inoltre, la longitudine geografica di molti luoghi era nota in modo approssimativo e doveva essere dedotta dalle osservazioni stesse mediante i satelliti di Giove o, nel 1769, da un’eclissi parziale di Sole. Quindi, tutti i valori per la parallasse solare, fra 8,55” e 8,88”, vennero calcolati e pubblicati. Questo, in ogni caso, significò enormi progressi nella nostra conoscenza. Invece di molti secondi i vari risultati differivano solamente di qualche decimo di secondo, mentre in passato la parallasse solare e la distanza del Sole avevano un’incertezza di 1/3 o 1/4 del loro valore. Così si può affermare che i transiti di Venere nel diciottesimo secolo servirono del tutto ai loro scopi.

Le spedizioni astronomiche del diciottesimo secolo non possono essere giudicate secondo le condizioni di viaggio odierne. Erano molto più difficili, più dure e più ardue, quindi anche più avventurose. Si conosceva poco di quelle regioni distanti e ancora meno delle loro condizioni naturali. Si è notato che Maupertuis, andando in Scandinavia, avrebbe incontrato meno problemi se, invece del freddo gelido del golfo di Bothnia, avesse scelto il clima mite del Capo Nord, situato perfino più a nord, ma bagnato dalla Corrente del Golfo. Inoltre, eventi politici, come le guerre navali, impedirono la libera navigazione. Poiché il vascello che portava Le Gentil in India dovette fare ampie deviazioni per sfuggire alle navi da guerra inglesi, l’astronomo arrivò a Pondicherry dopo che il transito di Venere del 1761 era già terminato. Per evitare un altro incidente simile, rimase in India all’incirca fino al 1769, facendo diverse utili osservazioni; ma il secondo transito di Venere fu reso invisibile dalle nuvole. Come segno dei tempi, si può

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ricordare come il governo francese incaricasse tutte le sue navi da guerra di lasciar passare le navi del capitano Cook, poiché erano impegnate in imprese utili a tutta l’umanità.

Poiché gli astronomi che viaggiavano erano generalmente persone molto esperte e interessate in vari rami della scienza, potevano riferire su molti altri fenomeni scientifici. E così, Bouguer per primo scoprì nelle cordigliere di Quito l’attrazione laterale delle grandi montagne sul filo a piombo, un fenomeno mediante il quale, quando fu applicato da Maskelyne nelle montagne scozzesi, fu possibile calcolare la prima stima della massa e della densità

media della Terra. La Condamine, nel 1738, diede la prima descrizione dell’albero di china in Perù; tale albero è la fonte del chinino, già noto in Europa. Molti di questi astronomi pubblicarono diari e libri sui loro viaggi e avventure, che trovarono un vasto pubblico, così come i lavori delle scoperte puramente geografiche di Cook e di De Bougainville. Con la crescita della borghesia in Francia, in Inghilterra e po’ ovunque, ci fu un crescente interesse verso tutti gli aspetti della scienza e delle conoscenze della natura nelle regioni straniere. I viaggi astronomici, le avventure sulla Terra e nei cieli appagarono una parte considerevole di questa curiosità.

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CAPITOLO 29

IL RAFFINAMENTO DELLA PRATICA Nelle misure astronomiche c’era ancora qualcosa di sbagliato. Sicuramente, l’accuratezza era gradatamente aumentata e le cause di errore erano indagate più attentamente; tra queste, la rifrazione atmosferica era una delle sorgenti di errori più fastidiose. Cassini aveva calcolato, dalle sue osservazioni, una tabella per la rifrazione e Newton aveva fatto notare che la rifrazione dipendeva dalla temperatura e dalla pressione dell’aria come indicato dal termometro e dal barometro. Diversi astronomi e matematici tentarono di migliorare, sia teoricamente che praticamente, le nostre conoscenze della dipendenza della rifrazione dall’altezza delle stelle. Tuttavia, anche corrette dalla rifrazione, le declinazioni delle stelle, determinate a Parigi o a Greenwich, qualche volta mostravano deviazioni maggiori di 10”, proprio come Picard si era già accorto. Flamsteed pensò che queste differenze, che sembravano dipendere dalle stagioni, fossero dovute alla parallasse delle stelle; ma i suoi colleghi fecero notare che la variazione della parallasse con le stagioni sarebbe stata diversa∗. Con una parallasse annuale una stella si sposta verso il punto dell’eclittica occupato dal Sole; le deviazioni reali avevano una caratteristica diversa. Hooke aveva misurato ripetutamente la distanza zenitale di una stella che culminava vicino allo zenit, così che la rifrazione non poteva influenzare le misure, e trovò delle variazioni che pensava potessero essere attribuite a una parallasse annua.

Per verificare questi risultati, Molyneux, nell’estate del 1725 aveva installato a Kew, vicino Londra, uno strumento

∗ Ndr: in particolare, fu Eustachio Manfredi, a Bologna, che, nel suo libro del 1729, De annuis inerrantium stellarum aberrationibus, fornì una accurata e completa descrizione geometrica del fenomeno della parallasse annua delle stelle.

particolarmente adatto per le misure di precisione. Tale strumento consisteva di un settore zenitale che comprendeva solo pochi gradi di un cerchio di grande raggio, 24 piedi, costruito in meridiano, così che il telescopio fissato a tale cerchio poteva essere puntato sulla stella selezionata (γ Draconis, la stessa stella usata da Hooke) quando culminava vicino allo zenit. Quindi, le variazioni della sua declinazione potevano essere misurate molto accuratamente; successivamente si trovò che le sue misure non avevano un errore più grande di 2”. Subito dopo l’inizio dei lavori, Molyneux interruppe le sue osservazioni perché fu nominato all’Ammiragliato, ma il lavoro fu continuato da un suo amico più giovane, James Bradley (1692-1762), dal 1721 professore a Oxford, il quale aveva preso parte a tutti i preparativi.

Quando iniziarono le osservazioni, nel

dicembre del 1725, nonostante si aspettassero che la stella avesse raggiunto la sua posizione più meridionale, videro, con loro stupore, che questa continuava ancora a muoversi verso sud fino a quando, nel marzo dell’anno successivo, arrivò ben 20” oltre la posizione prevista. Poi la stella invertì il suo moto apparente fino a quando, in settembre, si era mossa di 40” verso nord, per poi ritornare di nuovo verso sud, raggiungendo a

James Bradley

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dicembre la stessa declinazione dell’anno precedente. Si trattava di un moto oscillatorio con un periodo di un anno, ma non poteva essere la parallasse della stella, poiché in quel caso avrebbe raggiunto la posizione più meridionale a dicembre. Per estendere le osservazioni alle altre stelle, Bradley costruì un altro settore di raggio più piccolo (12 piedi) e di larghezza angolare più grande (6° intorno allo zenit). Trovò che tutte le altre stelle mostravano lo stesso moto periodico, più piccolo se si trovavano più vicino all’eclittica. Nel 1728 Bradley riuscì a trovare la spiegazione nell’aberrazione∗ apparente dei raggi luminosi: poiché il telescopio è solidale con la Terra nel suo moto orbitale, essendo il telescopio attraversato dai raggi di luce con una velocità 10.000 volte più grande, deve essere tenuto inclinato di 1/10.000 verso la direzione del moto della Terra. La scoperta di questa aberrazione fu la prima prova sperimentale che la Terra ha un moto annuale e che Copernico aveva ragione [ndr: il lavoro di Bradley, Letter … giving an Account of a new discovered motion of the Fix’d Stars, venne pubblicato sulle Philosophical Transactions, n. 406, vol. 35, Londra, 1729]

Ma questo non era tutto. Quando Bradley continuò le sue osservazioni di γ Draconis durante gli anni successivi, si accorse che c’era una seconda oscillazione: in un lasso di tempo di nove anni la sua declinazione aumentava e diminuiva su un intervallo di 18”. Questa variazione, che si presentava anche con tutte le altre stelle osservate, fu confermata da alcune informazioni che aveva avuto da Lemonnier a Parigi. Nel 1748, Bradley spiegò questa oscillazione con una nutazione dell’asse della Terra, un piccolo movimento conico sovrapposto, come una sorta di piccola perturbazione, al grande e lento movimento conico noto come

∗ Ndr: si ricorda che il termine ‘aberrazione’ è stato usato per la prima volta, per indicare questo fenomeno, da Manfredi nel libro citato nella nota precedente. Nel suo lavoro successivo, De novissimis circa fixorum siderum errores observationibus del 1730, pubblicato sul primo volume dei Commentarii dell'Istituto delle Scienze, Manfredi fornì la prima conferma osservativa alla teoria di Bradley.

precessione. Il periodo di 18 anni, che è il periodo di rivoluzione dei nodi dell’orbita lunare, in cui la sua inclinazione all’equatore oscilla fra 18° e 28°, indicava l’attrazione della Luna su una Terra non perfettamente sferica, ma schiacciata, come la causa del fenomeno.

«La precisione dell’astronomia moderna — disse Delambre — deve molto a queste due scoperte di Bradley. Questa doppia scoperta gli assicura il posto più alto, dopo Ipparco e Keplero, e lo pone fra gli astronomi più grandi di tutti i tempi e di tutto il mondo».[159] Sebbene questo elogio possa suonare

troppo fastoso, la prima affermazione è certamente vera. Per quanto la posizione delle stelle, per questi motivi, potesse deviare fino a 30”, un’accuratezza inferiore a 10” era, tuttavia, una richiesta senza speranza. Gli astronomi potevano aspettarsi dei buoni risultati per le posizioni delle stelle solo correggendo le misure per questi due effetti, l’aberrazione e la nutazione. Poiché le differenze che adesso rimanevano erano dovute a errori inevitabili delle osservazioni, occorreva ridurre questi errori migliorando gli strumenti e i metodi di osservazione.

A dire il vero, gli strumenti furono migliorati soprattutto perché iniziarono a essere costruiti da abili ed esperti specialisti. Flamsteed era stato obbligato ad auto-costruirseli con l’aiuto di Sharp, ma una perfezione migliore venne raggiunta da George Graham, che aveva costruito i settori zenitali usati da Molyneux e Bradley per scoprire l’aberrazione e la nutazione. Graham usò un metodo ingegnoso per incidere le divisioni in modo esatto sui suoi strumenti e applicò un meccanismo a vite per la lettura accurata delle divisioni più piccole. Quando, nel 1720, Halley subentrò a Flamsteed come direttore del Greenwich Observatory, non trovò alcuno strumento: quelli che Flamsteed aveva usato erano di sua proprietà e gli eredi li avevano rimossi tutti. Halley non poteva ordinare nuovi strumenti a spese dello stato e furono forniti tutti da Graham. Bird, il collega più giovane di Graham, che divenne suo successore, realizzò in seguito degli ottimi strumenti

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nella sua bottega, non solo per Greenwich ma per molti osservatòri europei, così che il nuovo standard di accuratezza si diffuse nell’intero mondo astronomico. Nel 1767, ebbe 500 sterline dal Governo per pubblicare in un libro, a uso di tutti, il suo metodo accurato per graduare i cerchi con precisione.

La costruzione di strumenti di precisione sviluppò un lavoro d’artigianato ingegnoso da parte di artigiani esperti, anche perché, soprattutto per la navigazione, si era sviluppato un mercato con una richiesta regolare. Per determinare la posizione di una nave in mare aperto misurando le altezze del Sole e delle stelle e le distanze dalla Luna, erano necessari strumenti accurati che potessero essere tenuti in mano su una nave che oscilla. Nel Medioevo e nei periodi sucessivi ci si era accontentati di un quadrante; ma il navigatore più abile non poteva ottenere un’accuratezza migliore di diversi primi d’arco. Newton aveva ideato, intorno al 1700, uno strumento attraverso il quale, mediante specchi, i raggi di due oggetti entravano in un unico telescopio, ognuno passante attraverso metà obiettivo. Tuttavia questo strumento non fu pubblicato e non divenne, quindi, noto. L’invenzione, nel 1730, a opera di Thomas Godfrey di Filadelfia[160], sembrava essere rimasta sconosciuta in Europa. Nel 1731, John Hadley pubblicò la descrizione di un “quadrante a riflessione”, ridotto poi, per ragioni pratiche, a un “sestante a riflessione”, in cui l’immagine di due corpi celesti (o dell’orizzonte) vengono fatti coincidere per riflessione in un stesso telescopio. Questo sestante divenne indispensabile per ogni navigatore. Per andare incontro alle necessità della navigazione della Gran Bretagna, sempre più in espansione, la sua regolare fabbricazione favorì un grande sviluppo di costruttori di strumenti a livelli altamente qualificati e gli astronomi trassero profitto da questo sviluppo.

Nel diciottesimo secolo, l’Inghilterra diede la precedenza al commercio e alla navigazione e, di conseguenza, il problema della longitudine in mare divenne una

questione d’importanza pubblica. Su suggerimento di Newton, che dal 1701 sedeva in parlamento come membro dell’università di Cambridge, il governo offrì una lauta ricompensa (30.000 sterline) per chi avrebbe scoperto un metodo affidabile per trovare la longitudine in mare aperto con un’accuratezza di 1/4°. Ricompense minori furono offerte per soluzioni parziali del problema.

Uno dei metodi più promettenti era il miglioramento degli orologi per conservare il tempo del meridiano di riferimento. Sia il pendolo, sia il cronometro portatili regolati da una bilancia a molla cambiavano la loro velocità con la temperatura a causa dell’espansione delle parti metalliche. Graham, apprendista orologiaio presso Tompion e già ricordato come abile costruttore di strumenti, nel 1762 pubblicò un metodo per la realizzazione di un pendolo non suscettibile alle variazioni di temperatura grazie alla sostituzione del peso del pendolo con un vaso riempito di mercurio. Circa nello stesso periodo, il suo collega più giovane, John Harrison, costruì un ‘pendolo a griglia’ che offriva lo stesso risultato con una combinazione di aste di metalli diversi con coefficienti di espansione differenti. Lo stesso principio fu applicato in seguito da Harrison al bilanciere a molla dei cronometri, riuscendo a far sì che la loro velocità fosse quasi indipendente dalla temperatura. Successivamente, i suoi orologi furono provati in viaggi oceanici, nel 1761 e nel 1765, verificandone l’eccellenza e per questo egli ricevette dapprima 5.000 sterline e successivamente altre 10.000 sterline, con la condizione di pubblicare una descrizione dei suoi metodi di costruzione. Non solo in Inghilterra, ma anche in Francia, quasi indipendentemente, abili artigiani, fra cui i più famosi erano J.A. Lepaute e Ferdinand Berthoud, costruirono orologi per uso nautico sempre migliori.

Il fatto che la costruzione di strumenti e orologi in Inghilterra avesse raggiunto già un livello di alta precisione ebbe la sua conseguenza su tutta la tecnologia. Fu nella seconda metà del diciottesimo secolo che l’invenzione e il continuo miglioramento dei

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meccanismi a molla da parte di Arkwright, Hargreaves, Crompton e altri inaugurarono la rivoluzione industriale in Inghilterra. Nella storia della tecnologia è messo in evidenza come molti di questi inventori avevano acquisito la loro abilità meccanica come apprendisti nelle botteghe degli orologiai.[161] Dagli orologiai conseguirono la capacità di realizzare le loro idee ingegnose per attrezzi utili. Quindi, le necessità e la pratica dell’astronomia contribuirono indirettamente allo sviluppo di macchine tecniche nell’industria.

Dopo la morte di Halley, nel 1742, Bradley fu assegnato al Greenwich Observatory. Le osservazioni che si eseguivano con gli strumenti disponibili non lo soddisfacevano e, così, ordinò la costruzione di strumenti migliori a Bird. Si trattava di uno strumento di transito con un telescopio da 8 piedi di lunghezza per la determinazione dell’ascensione retta e di un quadrante murale con un raggio di 8 piedi per le declinazioni (Tavola 8b).

Con questi strumenti, dal 1750 fino alla

sua morte, nel 1762, condusse un’ampia serie di osservazioni delle stelle, del Sole, della Luna e dei pianeti, che superava in accuratezza tutti i lavori precedenti. Più che alla precisione delle letture questa accuratezza era dovuta alla sua diligenza nel determinare o eliminare gli errori sistematici dovuti allo strumento o alle condizioni ambientali. La piccola inclinazione dell’asse orizzontale dello strumento di transito era

determinata abitualmente da una livella e per il calcolo corretto della rifrazione venivano letti con regolarità termometri e barometri. Con tali precauzioni permise ai successivi osservatóri di derivare dalle osservazioni stesse gli errori che viziavano i risultati e di liberare i risultati dalle loro influenze. Ciò fu importante perché, mentre le posizioni della Luna erano necessarie immediatamente, un attento lavoro di riduzione delle osservazioni stellari doveva, invece, essere posticipato a causa della mancanza di tempo.

Dopo la morte di Bradley sorse un conflitto fra i suoi eredi e l’Ammiragliato britannico per la proprietà dei 13 volumi che contenevano i giornali delle osservazioni e gli altri manoscritti. Dopo molti anni di causa davanti ai tribunali, fu raggiunto un accordo che metteva tutti i documenti nelle mani dell’università di Oxford per essere pubblicati; così furono stampati per intero fra il 1798 e il 1805. In seguito Bessel si occupò della riduzione dei dati e, quando pubblicò i risultati nel 1818, espresse nel titolo — Fundamenta Astronomiae, ex observationibus viri incomparabilis James Bradley — come il lavoro di Bradley, grazie alla sua eccelsa qualità, fosse divenuto la base dell’astronomia degli inizi del diciannovesimo secolo. Nel catalogo di circa 3.000 stelle, in cui sono concentrati i risultati, l’incertezza in entrambe le coordinate, ascensione retta e declinazione, non è maggiore di pochi secondi d’arco.

Bradley stabilì per l’osservatorio di Greenwich uno standard di accuratezza nei metodi di lavoro che fu conservato dai suoi successori Maskelyne e Pond. Sebbene non avesse rivali a quel tempo, i suoi standard furono quasi raggiunti da osservatóri capaci e perseveranti come Tobias Mayer di Göttingen e Lacaille di Parigi. Nei loro cataloghi di alcune centinaia di stelle brillanti, che rappresentano i primi miglioramenti rispetto a quelli di Flamsteed, le posizioni delle stelle avevano errori medi che ammontavano al più a 4” o 5”. Lacaille si recò con i suoi strumenti al Capo di Buona Speranza, nel 1750, dove osservò, oltre alla parallasse del Sole e della Luna, quasi 10.000 stelle australi. Erano, naturalmente,

Tavola 8b. Il quadrante di Bird.

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soprattutto stelle deboli, della 7a e 8a magnitudine, così che adesso le stelle del cielo australe erano osservate e catalogate più di quelle dell’emisfero settentrionale, facilmente accessibile.

Nello stesso tempo, un ulteriore passo

importante verso un’accuratezza migliore si ottenne grazie al miglioramento dei dispositivi ottici. Per capire lo sviluppo dei telescopi dobbiamo prima tornare indietro di un secolo. Nei suoi studi ottici, compiuti fra il 1660 e il 1670, Newton aveva scoperto la differente rifrazione della luce di colori diversi. La rifrazione della luce attraverso un prisma è accompagnata sempre dalla dispersione dei diversi colori in uno spettro. Egli vide che questa dispersione era la causa principale delle immagini difettose e colorate nei telescopi esistenti; poiché colori diversi non potevano convergere in un unico fuoco, era impossibile tentare di ottenere buone immagini migliorando le lenti.

«Io vidi che la perfezione dei telescopi era finora limitata, non tanto per mancanza di vetri ben lavorati […], quanto perché la luce stessa è un miscuglio eterogeneo di raggi rifrangibili in modo diverso». (lettera di Newton alla Società Reale, 6 Febbraio 1672)[162] A Newton venne, quindi, l’idea di usare

uno specchio concavo al posto di una lente, perché, con tale specchio, i raggi di tutti i colori sono riuniti esattamente nello stesso fuoco. Gregory aveva già ideato un telescopio riflettore, con il quale i raggi riflessi dallo specchio concavo, dopo una seconda riflessione su uno specchio concavo più piccolo, raggiungevano l’occhio dell’osservatore attraverso un foro circolare nel centro dello specchio più grande [ndr: il cosiddetto ‘sistema ottico gregoriano’]; ma gli artigiani ottici non furono capaci di levigare per lui dei buoni specchi. Newton stesso si mise al lavoro e, dopo aver levigato con grande pazienza e perseveranza uno specchio di metallo, nel 1671 lo sistemò in un telescopio riflettore che destò grande interesse quando fu presentato alla Royal Society. L’immagine nel fuoco era riflessa lateralmente da uno specchio piano inclinato

di 45° e osservata in direzione orizzontale attraverso l’oculare posto a lato del tubo. Sembrava che questo piccolo strumento, lungo solamente 6 pollici [15,25cm], «con un’apertura di poco superiore a un pollice [2,542cm]»[163], permettesse un ingrandimento di 40 volte e mostrasse gli stessi dettagli negli oggetti celesti di un telescopio rifrattore di 3 o 4 piedi di lunghezza [rispettivamente 91,44 e 121,92cm]

L’invenzione non ebbe sbocchi pratici fino a circa il 1720, quando James Short di Edimburgo riuscì a levigare specchi concavi in modo tanto perfetto che poté vendere dei riflettori come un normale prodotto. Da allora e grazie alla configurazione di Gregory, l’osservatore poteva guardare dritto nella direzione dell’oggetto, rendendo tali telescopi facilmente maneggevoli. Poiché, inoltre, a causa della loro grande apertura, fornivano delle immagini luminose, divennero gli strumenti favoriti dei dilettanti e degli astronomi, di gran lunga preferiti ai rifrattori più grandi, con le loro immagini sbiadite e sfocate. Non era facile, però, fissarli sugli strumenti di misura e, così, rimasero in uso i tubi lunghi a lenti. Lo strumento di transito di 8 piedi di Bradley aveva un obiettivo solamente di 1,6 pollici.

Newton pensava che l’eliminazione della dispersione dei colori fosse impossibile; egli aveva assunto che la dispersione, sebbene diversa in media per differenti densità, fosse sempre proporzionale alla rifrazione. Quando nel secolo successivo, invece, Euler espresse dubbi riguardo a questa proporzionalità e il fisico svedese Klingenstjerna dimostrò con esperimenti che ciò non era corretto, John Dollond a Londra, che era in corrispondenza con entrambi, dopo molte ricerche ed esperimenti, riuscì nel 1757 a fare una combinazione di lenti in cui la dispersione dei colori era eliminata. Fra due lenti positive di vetro crown normale mise una lente (concava) negativa fatta di vetro flint che possedeva una rifrazione più forte e una dispersione ancora più forte. Fu così realizzato un sistema ‘acromatico’ di lenti che portava i raggi di diversi colori in un unico fuoco.

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Quest’invenzione fu di enorme importanza e aprì la strada a uno sviluppo illimitato dei telescopi astronomici nel secolo successivo. Ora che il problema della dispersione era risolto, il precedente lavoro di Huygens poteva essere continuato per studiare le forme migliori delle lenti. John Dollond era uno scienziato ma anche un filosofo, mentre suo figlio Peter era un uomo d’affari. Fondò un laboratorio, richiese un brevetto∗, e presto i suoi telescopi acromatici si diffusero fra gli astronomi e rimpiazzarono i vecchi telescopi a lente singola e anche i telescopi a riflessione. La loro grandezza era limitata a un’apertura di tre o quattro pollici, perché dischi flint più grandi non potevano essere forniti dai vetrai. Ma un telescopio di questa misura, con una lunghezza di circa quattro piedi, era maneggevole e utilizzabile; dava immagini nitide e luminose delle stelle su un grande campo rispetto ai riflettori. Durante le spedizioni per il transito di Venere furono sperimentati entrambi i tipi di telescopi, acromatici e riflettori.

L’invenzione di Dollond portò miglioramenti molto importanti negli strumenti astronomici di misura. I tubi sottili con i piccoli obiettivi che erano sistemati su tali strumenti producevano immagini di stelle troppo scadenti per essere puntati con precisione. Con gli obiettivi acromatici queste immagini divennero punti di luce piccoli e luminosi, permettendo ingrandimenti più grandi con oculari più potenti, così che potevano essere divisi dai reticoli con una precisione maggiore. Ora i telescopi di una data lunghezza potevano acquisire aperture più grandi, rendendo le stelle deboli facilmente visibili e misurabili. Fino a quel momento i cataloghi di stelle, oltre alle stelle visibili a occhio nudo, contenevano solo le classi più luminose fra ∗ Sembra che molti anni prima, nel 1733, un telescopio acromatico fosse stato costruito da Chester More Hall nell’Essex, ma non lo aveva reso noto; la licenza per costruirli e venderli fu concessa a Dollond, perché, come osservò il giudice, «non era la persona che chiudeva la sua invenzione nel suo cassetto che avrebbe dovuto trarre profitto da tale invenzione, ma colui il quale la svelava per il beneficio del pubblico». (R. Grant, History of Physical Astronomy, London, 1852, p. 533.)

le stelle deboli. Adesso divenne possibile usare gli strumenti per misurare anche le numerose stelle deboli.

Gli strumenti migliori vennero dal laboratorio fondato da Jesse Ramsden, genero di John Dollond, disponendo entrambi di telescopi acromatici. Nel 1772, Maskelyne aveva dotato di telescopi acromatici gli strumenti di Bradley a Greenwich. Avendo egli osservato i transiti delle nitide immagini stellari con reticoli a cinque filamenti e avendoli stimati ai decimi di secondo (Bradley li aveva misurati solo con un mezzo o un terzo di secondo) la sua ascensione retta, sebbene più piccola in numero, fu più precisa. Molti osservatòri al di fuori dell’Inghilterra furono equipaggiati da Ramsden con strumenti inglesi. Quando Giuseppe Piazzi fu incaricato di fondare un osservatorio a Palermo, riuscì a ottenere un cerchio verticale di cinque piedi costruito da Ramsden, che poteva ruotare su un cerchio orizzontale di tre piedi; entrambi erano provvisti di microscopi per la lettura. Con questo strumento, dal 1792 al 1802, Piazzi determinò con grande accuratezza la posizione di 6748 stelle, che successivamente diventarono 7646. Venne definito, così, un più alto livello di accuratezza e completezza nelle coordinate stellari, con un’incertezza non più grande di pochi secondi. Il fatto che Bradley, con i suoi strumenti e i suoi metodi, avesse fatto di meglio non divenne evidente fino a quando Bessel non ridusse i suoi dati.

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CAPITOLO 30

IL RAFFINAMENTO DELLA TEORIA Con la teoria di Newton della gravitazione universale, la teoria dei vortici di Descartes venne essenzialmente demolita. È vero che anche in Inghilterra i libri di testo di fisica basati interamente su Descartes rimasero in uso; ma gli studiosi nelle università, abili matematici, studiavano Newton e insegnavano le deduzioni contenute nei suoi Principia. A ogni nuova edizione dei vecchi libri di testo venivano aggiunte ulteriori note che spiegavano Newton; così, con lui ancora in vita, in vita le sue idee gradatamente trovarono un consenso generale nelle università inglesi.

Questo prese piede molto più lentamente nell’Europa continentale. In Francia, la fine della guerra e il declino intellettuale, verificatisi sotto l’assolutismo reale verso la fine del diciassettesimo secolo, ostacolarono l’iniziativa scientifica. De Louville, un pensatore indipendente, fu il solo a farsi avanti (intorno al 1722) come aderente alla nuova teoria; per gli altri studiosi la vecchia dottrina era troppo forte. Ma un cambiamento era in atto. Il declino e la sconfitta del potere francese, a causa della crescita di quello inglese, risvegliò uno stato d’animo critico del sistema politico ed economico esistente. L’aumento dell’importanza sociale e del potere della classe media francese nel diciottesimo secolo risvegliò uno spirito di resistenza che stimava le condizioni sociali libere e le istituzioni politiche dell’Inghilterra come esempio da seguire. Così erano pronti anche ad accettare le basi spirituali di queste condizioni. Uno dei primi portavoce di queste idee di riforma fu Voltaire; nelle sue Lettres philosophiques, o Lettres sur les Anglais (1728-30) [ndr: ma pubblicate nel 1734], fra vari argomenti — come i quaccheri, la chiesa inglese, il parlamento, il commercio, la vaccinazione e la letteratura — egli discusse anche di filosofia e scienza

inglese, soprattutto di Bacone e Newton. Nella sua 14a lettera su Descartes e Newton, egli scrisse:

«Un uomo francese che viene a Londra trova le varie discipline cambiate in modo considerevole, in filosofia come in ogni altra cosa. Egli ha lasciato il mondo pieno e lo ritrova qui vuoto. A Parigi vedi l’universo formato da vortici di materia indefinibile; a Londra non si vede nulla di ciò. Per noi è la pressione della Luna che provoca le maree; per gli inglesi è il mare che è attratto verso la Luna. […] Inoltre puoi accorgerti che il Sole, il quale in Francia non è affatto coinvolto nell’avvenimento, qui deve contribuire per quasi un quarto. Con Cartesio ogni cosa si svolge attraverso la pressione, che non è facilmente comprensibile; con Monsieur Newton avviene per attrazione, la causa della quale non è neppure ben nota. A Parigi immagini la Terra come un melone; a Londra è schiacciata su entrambi i lati».[164] Nonostante il suo stile spensierato Voltaire

fece un buon confronto della teoria di Newton con quella di Descartes. Più ampiamente ancora, nel 1733 [ndr: 1738], informò i suoi compatrioti sulla teoria della luce e sulla gravitazione, in un lavoro speciale intitolato Éléments de la philosophie de Newton. Da allora il mondo francese divenne più attento alla nuova teoria. Mentre in passato entrambe le dottrine trovavano espressione alternativamente negli atti dell’Académie di Parigi, dopo il 1740 i documenti basati sulla teoria dei vortici sparirono completamente. Non si poteva fare nulla con tale teoria, non si poteva ricavare nulla da essa, mentre dalla teoria di Newton potevano essere ricavati risultati esatti usando solamente la matematica. Tale teoria propose un compito chiaro e grande: procedere dalla legge fondamentale dell’attrazione di tutte le particelle della materia, e quindi mutuamente di tutti i corpi celesti, per calcolare i loro movimenti e per verificarli con osservazioni. Lo sviluppo teorico

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dell’astronomia nel diciottesimo secolo fu dominato interamente dalla gravitazione.

Adesso si facevano avanti degli scienziati per continuare il lavoro di Newton. Non in Inghilterra, dove, una volta che la libertà e l’autonomia erano state vinte, il successo borioso di se stessi soffocava le aspirazioni più alte e tutti gli sforzi erano orientati verso scopi pratici. Nel continente, soprattutto in Francia, la vita spirituale fu stimolata da un forte desiderio per il rinnovamento sociale. L’Inghilterra rimase all’avanguardia nell’astronomia pratica, come in tutte le altre attività pratiche, ma nel continente il tradizionale modo di pensare razionalista, sotto questi nuovi impulsi, si trasformò in un’esplosione di teorie e in una profusione di trattazioni matematiche dei fenomeni naturali. Nacquero una serie di brillanti matematici, fra cui, più eminenti tra tutti, i Bernoulli e Leonhard Euler da Basilea, Clairaut e d’Alembert in Francia; il loro lavoro fu continuato e completato da Lagrange e Laplace.

Dapprima dovevano essere rimodellati i metodi matematici. Newton aveva dato tutte le sue dimostrazioni in modo geometrico e illustrativo ma esigendo una grande ingegnosità nello svolgimento. I matematici del diciottesimo secolo svilupparono il metodo algebrico dell’analisi, in cui il difficile approccio geometrico era sostituito da semplici calcoli, così che potevano essere risolti i problemi più difficili, altrimenti intrattabili. Lo stesso Newton aveva preparato le basi con la sua teoria delle ‘flussioni’, un metodo di investigare i cambiamenti di quantità considerandole nel caso limite di variazioni infinitamente piccole. La stessa idea fondamentale era stata sviluppata nel frattempo da Leibniz, ma formulata in modo differente, come calcolo infinitesimale, per mezzo di formule differenziali e integrali; con questo aspetto “il calcolo” divenne lo strumento più importante e più potente dei matematici nei secoli che seguirono.

Questi non si occuparono solamente dei problemi astronomici. Newton aveva formulato i nuovi principi della meccanica e la sua teoria del moto stabiliva le relazioni

generali fra forze, accelerazioni, distanze e masse. Il compito dei suoi successori era di applicare tutto questo a tutti i diversi fenomeni naturali dei corpi in moto. Essi svilupparono nuove forme dei principi della meccanica che furono importanti per tutti i tipi di moto, sulla Terra e altrove. Ma l’astronomia ricevette un grande contributo da questi sforzi, dapprima per la difficoltà dei problemi posti, i quali erano uno stimolo all’ingegnosità, e poi perché i risultati di un’affascinante teoria, nel risolvere vecchi problemi, potevano essere verificati mediante accurate osservazioni. Quando i corpi nello spazio si attraggono l’un l’altro, le forze su ognuno di essi — quindi le loro accelerazioni — possono essere calcolate dalle loro posizioni relative; sommando le successive accelerazioni, cioè integrando, si ottengono le velocità e da queste, con una seconda integrazione, i cambiamenti di posizione. Ma le posizioni stesse che derivano da questa procedura sono elementi necessari nel calcolo delle accelerazioni iniziali. Quindi la derivazione della traiettoria di questi corpi era un problema complesso dell’analisi, rappresentata dalla soluzione di un sistema di equazioni differenziali.

Per due corpi la soluzione era semplice e fu data da Newton. Per tre o più corpi non si poteva trovare alcuna soluzione. Ai primi matematici del diciottesimo secolo, sfidati dal “problema dei tre corpi”, questo problema non apparve risolvibile in modo diretto e tale rimase. Il loro disappunto può essere ascoltato nel lamento di uno dei più abili fra loro, Alexis Claude Clairaut (1713-65), quando si imbatté nel problema:

«ora può integrare chi sa farlo […] Io ho dedotto le equazioni date qui in un primo momento, ma ho applicato solo un piccolo sforzo per le loro soluzioni, poiché mi sembravano poco trattabili. Forse sono più promettenti per altri. Io ho rinunciato a loro e ho preso a usare il metodo delle approssimazioni».[165] E allo stesso modo Leonhard Euler (1707-

83), un genio della matematica, scrisse, nella prefazione del suo ultimo grande lavoro sulla teoria lunare, del 1772:

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«Per quanto spesso io abbia tentato, in questi 40 anni, di ricavare la teoria e il moto della Luna dai principi della gravitazione, sono sorte sempre così tante difficoltà che sono obbligato a smettere il mio lavoro e le ultime ricerche. Il problema si riduce a tre equazioni differenziali del secondo grado, che, non solo non possono essere integrate in qualsiasi modo, ma pongono difficoltà più grandi anche nel metodo delle approssimazioni del quale noi dobbiamo qui accontentarci; così che non vedo come, mediante la sola teoria, questa ricerca possa essere completata, o meglio, neppure semplicemente adattata a qualche scopo utile».[166] Quello che questi pionieri nel regno della

meccanica celeste accettarono come un ripiego insufficiente risultò essere il metodo più generale per risolvere tali problemi, pur se scomodo e laborioso. Inizialmente, le forze e le accelerazioni sono calcolate come se fossero nell’orbita imperturbata nota; per integrazione, in un primo momento, si calcolano le deviazioni della posizione. Da queste deviazioni della posizione del pianeta attratto le forze e le accelerazioni sono variate di una piccola quantità (piccola relativamente ai loro valori iniziali) e questo causa deviazioni, ancora più piccole, le così dette deviazioni del ‘second’ordine’. Continuando in questo modo per ulteriori approssimazioni, ci si avvicina sempre più a un risultato finale. Poiché, dapprima, le forze perturbatrici cambiano piuttosto irregolarmente con la variazione delle posizioni relative dei corpi, esse sono divise in molti termini periodici, che dipendono in vari modi dalla longitudine, dall’anomalia, dai nodi e dalla latitudine sia del corpo perturbato che del corpo perturbatore. Poiché agli ordini più alti tutti questi termini hanno una reazione reciproca, il loro calcolo completo costituì dall’inizio un compito complicato, quasi inestricabile, richiedendo anni di lavoro — in tempi successivi con standard più alti, anche un’intera vita di intenso e attento lavoro. Tale lavoro, a quel tempo, non era un calcolo tranquillo, spassionato, con formule prestabilite come può apparire adesso nei libri di testo. Era una ricerca pressante nel mondo sconosciuto della teoria, aprendo una via nuova attraverso un bosco folto di alberi ora qui, ora lì, piena di avventure. Gli addetti ai

lavori erano sollecitati soprattutto dai problemi attuali, sempre ossessionati dalle domande: sarà possibile calcolare tutti i moti reali mediante la teoria di Newton? Questa legge di attrazione è la legge universale esatta capace di spiegare da sola tutti i fenomeni osservati? Queste domande diedero tensione al lavoro dei matematici del diciottesimo secolo.

Il primo problema pratico fu proposto dal moto di Giove e Saturno. Già Keplero si era accorto, nel 1625, che c’era qualcosa di sbagliato. Nelle sue tavole del 1695, Halley aveva introdotto un’accelerazione regolare di Giove e un ritardo regolare di Saturno, di una quantità tale che dopo 1.000 anni i pianeti sarebbero risultati spostati di 0°57’ e 2°19’. Se questa variazione fosse proseguita sempre, con l’orbita di Giove costantemente decrescente e quella di Saturno costantemente crescente, allora ci sarebbero potute essere serie conseguenze per il sistema planetario. Quale era la causa? Poteva essere un risultato della reciproca attrazione, come Halley sospettava, e sarebbe stato possibile calcolare il fenomeno mediante la legge di Newton? L’Académie des Sciences di Parigi propose questo problema per ottenere il premio per l’anno 1748 e di nuovo per l’anno 1752. Una prima risposta di Euler, sebbene le venisse assegnato il premio per i molti risultati importanti sulle perturbazioni in generale, non fu in grado di spiegare il problema. E non vi riuscì nemmeno la sua seconda monografia, che proseguiva sempre nella stessa direzione, nella quale mostrava la possibilità di perturbazioni ‘secolari’. Lagrange, nel 1763, pubblicò un metodo del tutto nuovo di trattare il problema dei tre corpi e lo applicò alla reciproca azione di Giove e Saturno: egli trovò, in realtà, un termine secolare per entrambi, ma questo era troppo piccolo per essere identificato con quello osservato. Fu allora che Pierre Simon de Laplace (1749-1827) si occupò del problema con un’accurata ricerca di tutti i termini più piccoli trascurati, di ordine superiore, nel moto medio dei due pianeti. Trovò che quelli si annullavano: le accelerazioni e i ritardi calcolati tornavano

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uguali a zero. Allora Lagrange, nel 1776, estese questo risultato per dimostrare, in modo generale, che le reciproche attrazioni dei pianeti non potevano produrre alcun cambiamento secolare progressivo nelle distanze medie dal Sole e nei periodi di rivoluzione, ma che vi erano solo variazioni periodiche.

E riguardo agli spostamenti osservati di Giove e Saturno? Alcuni anni dopo, a testimonianza del suo imbarazzo, Laplace scrisse:

«Dopo aver riconosciuto la costanza dei movimenti medi dei pianeti, sospettai che i cambiamenti osservati in Giove e Saturno fossero dovuti all’azione delle comete».[167] Fu Lambert ad aprire una nuova strada,

quando notò, nel 1773, che i cambiamenti erano differenti da quanto si era supposto. Un confronto delle osservazioni di Hevelius con i risultati moderni del diciottesimo secolo mostrarono un ritardo nella traiettoria di Giove e un’accelerazione nella traiettoria di Saturno, proprio l’opposto di quello che era stato dedotto dalle prime osservazioni. Quindi, il fenomeno era un cambiamento periodico. Ma un calcolo attento di Lagrange, che includeva tutti i termini contenenti la seconda potenza delle eccentricità piccole, non rivelò alcun termine che fosse della quantità richiesta. Infine, in una memoria presentata all’Académie nel 1784, Laplace riuscì a spiegare l’enigma con la scoperta che la quasi commensurabilità dei moti produce grandi perturbazioni di grandi periodi. Cinque rivoluzioni di Giove e due di Saturno sono quasi uguali, cosicché dopo 59 anni (le ben note tre congiunzioni dell’astrologia antica) i due pianeti si ritrovano di nuovo quasi nello stesso punto dell’eclittica. Una coppia di piccoli termini del terzo ordine, trascurati perché contenevano la terza potenza delle eccentricità, si presenta dopo ogni periodo di 59 anni nello stesso modo, e quindi accumulano i loro effetti in cambiamenti molto percettibili della longitudine dei pianeti. Questo continua finché, gradatamente, la posizione della congiunzione si sposta a longitudini diverse

e opposte, cioè di 180°, e l’effetto si inverte dopo 450 anni.

Così, nella realtà, la perturbazione è un’oscillazione con un lungo periodo, tale periodo è di 900 anni, che cresce di 49’ per Saturno e di 21’ per Giove. Tutte le osservazioni antiche e moderne adesso erano ben descritte dalla teoria. L’importanza di questo risultato fu espresso da Laplace, alcuni anni dopo, con queste parole:

«Le irregolarità dei due pianeti non apparivano, in passato, poter essere spiegate dalla legge di gravitazione universale, mentre ora costituiscono una delle sue prove più straordinarie. Tale è stato il destino di questa brillante scoperta [di Newton], poiché ogni difficoltà che era sorta è diventata per essa una nuova occasione di trionfo, una circostanza che è la caratteristica più certa del vero sistema della natura».[168] E, nel secolo successivo, Robert Grant

scrisse, nella sua History of Physical Astronomy:

«Con questa scoperta di prim’ordine Laplace scacciò l’empirismo dalle tavole di Giove e Saturno e liberò la teoria newtoniana da uno dei suoi più seri pericoli».[169] Un altro famoso argomento di calcolo fu la

cometa il cui ritorno era stato previsto nel 1758 da Halley. Ora si riuscì a comprendere, come risultato della teoria di Newton, che i pianeti avrebbero disturbato il suo moto con la loro attrazione, così che sarebbe potuta tornare prima o dopo di quanto era stato previsto. Fra il 1531 e il 1607 d.C. l’intervallo era stato di 76 anni, fra il 1607 e il 1682 un po’ meno di 75 anni; se il prossimo periodo di rivoluzione fosse stato di 75 anni, la cometa sarebbe potuta riapparire nel 1757. Quando venne il momento, Clairaut si mise al lavoro. Non era possibile qui applicare i metodi usati con i pianeti per trovare le perturbazioni per l’intera orbita come somma totale dei termini. Era necessario seguire la cometa, calcolando il suo avanzamento passo dopo passo, in quanto era influenzato dall’attrazione dei pianeti sulla sua intera traiettoria, sia nei due periodi precedenti che nel periodo attuale. Ansioso, per paura che

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la cometa potesse sorprenderlo con l’avvicinarsi, iniziò i calcoli, aiutato da Mme Lepaute, una matematica di talento, moglie del famoso orologiaio francese. Calcolarono le perturbazioni di Giove e Saturno, lottando giorno dopo giorno, a stento concedendosi il tempo per i pasti.

«Il lavoro che avevo finito di registrare era immenso e non ero stato capace di formulare qualcosa di esatto, circa l’argomento proposto, prima dell’autunno del 1758».[170] La cometa, per fortuna, non li sorprese, ed

egli poté rivelare che, a causa dell’attrazione di Giove e Saturno, la cometa impiegava 618 giorni in più rispetto alla rivoluzione precedente, così che il suo approccio più vicino al Sole non si sarebbe verificato prima dell’aprile del 1759 — con un margine di un mese per le varie approssimazioni. In un saggio all’Académie, letto nel novembre del 1758, egli disse:

«Assumo qui l’impegno di mostrare che questo ritardo, lungi dall’essere ingiurioso verso la teoria dell’attrazione universale, ne è, in realtà, una conseguenza necessaria e che possiamo anche andare oltre, poiché indico nello stesso tempo i suoi limiti».[171] La cometa fu osservata, per primo, alla

fine del 1758, da un dilettante, Palitsch, che viveva vicino a Dresden, in Sassonia. Essa raggiunse il perielio nel marzo del 1759, e fu visibile fino a giugno. Questa previsione e il calcolo del ritorno della cometa di Halley furono considerati giustamente un trionfo della scienza di Newton.

L’apparizione della cometa fu un episodio. Il moto della Luna, al contrario, era il grande e difficile problema che, come una pietra miliare di ingegnosità, dava impulso a numerose ricerche e a nuovi metodi. Le irregolarità principali nel moto della Luna erano, come Newton aveva descritto, le perturbazioni dovute all’attrazione del Sole. La forza perturbatrice esercitata dal Sole è una frazione piuttosto grande (1/89 alla Luna nuova o piena) dell’attrazione esercitata dalla Terra. Poiché si osservano facilmente piccoli spostamenti, per la vicinanza della Luna, l’approssimazione nel calcolo deve

essere estesa sino a termini molto piccoli, i quali, per le loro reciproche influenze e dipendenze, ne producono una moltitudine ancora più confusa. La difficoltà del problema agì come lezione spiacevole per Clairaut all’inizio delle sue ricerche, nel 1746, quando scoprì che l’avanzamento dell’apogeo della Luna era solo la metà della quantità reale, 20° per anno invece dei 40° osservati. Euler e d’Alembert trovarono lo stesso risultato. Una formula universale nei Principia di Newton aveva prodotto pure la stessa piccola quantità; in seguito, fra i suoi manoscritti non pubblicati fu trovato un calcolo che dava il valore esatto. Clairaut dapprima suppose che la legge di Newton non fosse esattamente vera e dovesse, per distanze molto piccole, essere completata con un altro termine piccolo, proporzionale all’inverso della quarta potenza della distanza. Ma, nel ripetere i suoi calcoli, l’inclusione di molti termini prima trascurati d’ordine più alto contribuì così tanto che il primo risultato fu raddoppiato; questo fu confermato anche dai suoi colleghi. Tuttavia, il valore vero non poteva essere constatato in questo modo con sufficiente accuratezza; sebbene il moto dell’apogeo della Luna fosse senza dubbio uno dei problemi lunari più difficili, in un certo modo questo valeva per tutte le perturbazioni lunari. Clairaut e d’Alembert pubblicarono, nel 1754, le loro tavole lunari basate interamente sulla teoria e queste, sebbene fossero superiori alle tavole precedenti, non contenevano esattamente la traiettoria della Luna. Nel 1745 e nel 1746, Euler aveva calcolato le sue prime tavole delle perturbazioni, e presentò un teoria migliorata nel 1755; nel 1772, per la terza volta, ritornò sull’argomento, calcolando ulteriori dettagli. Ma l’accordo con l’osservazione rimaneva insufficiente.

Il motivo era che la teoria non poteva determinare la quantità esatta delle perturbazioni, sebbene avesse successo nell’indicare quali perturbazioni dovevano esserci, con quali periodi, e come esse dipendessero dal Sole, dai nodi e dall’afelio. Per ogni periodo, contribuivano al risultato moltissimi termini di ordine più alto,

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formanti una serie senza fine, così che la loro somma totale rimaneva incerta. Tuttavia le necessità pratiche della navigazione richiedevano le tavole della Luna, calcolate esattamente e in anticipo, e la teoria della gravitazione doveva essere in grado di fornirle.

Fu Tobias Mayer (1723-62) ad avere successo combinando la teoria e la pratica. Egli aveva già acquisito notorietà con le sue misure, con strumenti primitivi, della posizione di numerose montagne lunari, da cui derivò le differenti librazioni della Luna. Successivamente, fu chiamato a Göttingen nel regno di Hanover, dove, sotto il re d’Inghilterra c’era meno ristrettezza d’idee rispetto agli altri piccoli stati della Germania. Lì installò un osservatorio e determinò le posizioni, sopra accennate, della Luna e delle stelle.

Nel 1755, Mayer pubblicò le tavole del Sole e della Luna. Per quest’ultima prese le perturbazioni più importanti dalla teoria di Euler; i valori che ricavò dai dati reali resero le posizioni osservate della Luna le migliori possibili. Includendo non più di 14 termini, egli ottenne il risultato che gli errori in pochi casi ammontavano a solo 1½’. Quando si usa la Luna in mare come orologio celeste per indicare il tempo di Greenwich, un errore di 1’ nella posizione della Luna comporta un errore di 27’ nella longitudine geografica, cioè un’incertezza di almeno 27 miglia marine nella posizione della nave. Dopo la sua morte, le nuove tabelle di Mayer furono esaminate da Bradley, per ordine dell’Ammiragliato britannico, e confrontate con le osservazioni di Greenwich. Dopo essere state corrette in alcuni punti, sembrava che i loro errori rimanessero al disotto, molto al disotto di 1’. Le tavole vennero pubblicate nel 1770 dall’Ammiragliato, con istruzioni e metodi preparati da Mayer stesso, e diedero un importante aiuto per la navigazione; un dono di 3.000 sterline fu assegnato alla vedova di Mayer dal governo britannico.

Il problema della navigazione pratica fu risolto, ma la teoria si trovava ancora di fronte un problema difficile e misterioso. Confrontando le eclissi dell’antichità e

quelle degli arabi con le eclissi moderne, nel 1693 Halley aveva intuito che il periodo di rivoluzione della Luna, quindi anche la sua distanza dalla Terra, gradatamente era diminuito. Questa ‘accelerazione secolare’ della Luna fu confermata da Tobias Mayer; inizialmente egli trovò la quantità di 6,7” per secolo, in seguito, nelle tavole di Londra, usò 9”, e più tardi Laplace ottenne 10”. Ciò significa che la Luna era avanzata, rispetto alla sua posizione senza questo termine, di 10” in 100 anni, di 40” dopo 200, di 90” dopo 300 e che la traiettoria compiuta in un secolo (100 x 13⅓ x 360°) aumentava di 20” per secolo. Se questa diminuzione nell’orbita della Luna fosse continuata nel futuro, la Luna sarebbe infine caduta sulla Terra. Nel 1770, l’Académie di Parigi offrì il proprio premio per indagare come la teoria della gravitazione potesse spiegare il fenomeno; Euler, nel trattato con il quale partecipava al premio, non poté trovare tale spiegazione e scrisse:

«Sembra stabilito, con un’evidenza indiscutibile, che l’irregolarità secolare del moto della Luna non può essere prodotta dalle forze di gravitazione».[172] In un secondo trattato, nel 1772, egli

completò questa conclusione supponendo che, probabilmente, il termine derivava dalla resistenza di un fluido etereo che riempiva lo spazio celeste. Tale resistenza poteva certamente spiegare l’accelerazione, ma in tal modo la Luna avrebbe provocato un’inevitabile catastrofe finale. Dopo molti tentativi inutili di Lagrange e Laplace, quest’ultimo, nel 1787, riuscì a scoprire la causa reale. Per l’azione dei pianeti sulla Terra, l’eccentricità dell’orbita della Terra stava diminuendo continuamente da alcune decine di migliaia d’anni; poiché l’orbita diventava più circolare, la distanza media del Sole aumentava, e il suo effetto di perturbazione diminuiva. L’orbita della Luna, invece, era ingrandita dell’attrazione del Sole; quest’allargamento adesso diminuiva gradatamente per la diminuzione dell’effetto del Sole. Con un calcolo teorico, Laplace trovò la stessa quantità d’accelerazione, 10” per secolo, che era stata dedotta dalle eclissi. Quindi, l’inquietudine

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fu nuovamente rimossa e la convinzione che la teoria di Newton fosse capace di spiegare tutti i movimenti nel Sistema solare divenne persino più forte.

Laplace fece un calcolo teorico completo sul moto della Luna e dei pianeti mediante sviluppi matematici e raccolse tutte queste ricerche nel suo grande lavoro, Traité de mécanique céleste, pubblicato in cinque volumi tra il 1799 e il 1825. In tale trattato egli considerò tutti i moti del Sistema solare come un problema puramente matematico, ponendo il problema nella sua forma più generale. Nel mondo, ogni corpo consiste di piccoli elementi di massa che si attraggono l’un l’altro secondo la legge di Newton e la somma totale di tutte queste forze è la forza esercitata dal corpo nella sua interezza, che, nel caso di una forma sferoidale, devia di una piccola quantità da una forza proveniente dal centro. Questa formulazione generale rese Laplace il portavoce, spesso attaccato e criticato nel secolo successivo, della dottrina meccanicistica del mondo. Non c’è nulla in essa degli atomi e delle molecole della fisica successiva; Laplace introdusse i piccoli elementi di massa solo come un’astrazione matematica. Una volta data la condizione iniziale del sistema, vale a dire la posizione e il moto d’ogni particella, la nuova traiettoria del mondo era interamente determinata e calcolabile, almeno in teoria. Il Sistema solare era considerato come un immenso meccanismo, diretto e guidato dalla forza universale della gravitazione, funzionando in modo calcolabile e prevedibile per l’eternità. A quei tempi, se ne parlava spesso come di un orologio gigante che, una volta posto in moto, va per sempre — essendo allora gli orologi gli strumenti più perfetti fatti dall’abilità dell’uomo — in accordo con l’orientamento generale del pensiero che tentava di capire il mondo come la macchina più ingegnosa e perfetta.

Per i pianeti, Laplace riuscì a ricavare, per centinaia di migliaia d’anni nel passato e nel futuro, le lente variazioni nella forma e nella posizione delle orbite, cioè le perturbazioni secolari di eccentricità, inclinazione, afelio e nodo. Per la Luna, egli riuscì a rappresentare

il suo movimento fino a meno di ½’, mediante un calcolo puramente teorico. Nella sua teoria della Luna — nella variazione dell’apogeo e del nodo — si presentavano dei termini che erano dovuti e dipendevano dall’appiattimento della Terra. E al contrario, egli fu in grado di calcolare questo appiattimento dai valori di quei termini determinati dall’osservazione; il suo risultato, 1/305, fu una gradita conferma del valore calcolato dalla spedizione in Perù. Un altro termine nel moto della Luna, che supera i 2’, dipende dal rapporto delle distanze del Sole e della Luna dalla Terra ed è chiamato “diseguaglianza parallattica”, poiché è collegato con la parallasse solare; dal suo valore empirico Laplace calcolò una parallasse solare di 8,6”, in pieno accordo con i risultati delle spedizioni di Venere.

«È straordinario — egli disse — che un astronomo, senza lasciare il suo osservatorio, confrontando semplicemente le sue osservazioni con l’analisi, può essere capace di determinare con accuratezza le dimensioni e l’appiattimento della Terra e la sua distanza dal Sole e dalla Luna, elementi la cui conoscenza è stata il frutto di lunghi e fastidiosi viaggi in entrambi gli emisferi. L’accordo sorprendente fra i risultati dei due metodi è una delle prove più sensazionali della gravitazione universale».[173] Quest’espressione si trova nella sua

Exposition du système du monde, dove sono spiegati, in un modo piano e non matematico, i risultati di tutte le ricerche teoriche. Il risultato più importante per il lettore comune era la garanzia della stabilità del sistema. Le perturbazioni secolari degli assi maggiori delle orbite planetarie (in quanto alla prima potenza delle masse) sono nulle. Inoltre, poiché quelle delle inclinazioni e delle eccentricità rimangono dentro limiti ben definiti — una conseguenza del fatto che tutti i pianeti orbitano nella stessa direzione — la struttura interna rimarrà immutata per sempre.

Tuttavia, tale struttura non era esistita sempre in questa forma. Immanuel Kant, giovane filosofo tedesco, già nel 1755 aveva sviluppato la teoria che tutta la materia del Sistema solare, all’origine, fosse esistita sotto forma di una massa nebulosa molto

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estesa. Sotto l’azione delle forze interne, si era sviluppata in un disco piatto e rotante, il quale, per contrazione, aveva prodotto i pianeti con le loro orbite. Newton aveva reputato che un’origine puramente meccanica dell’universo attuale, senza l’intervento di un’intelligenza superiore, fosse incompatibile con il suo sistema del mondo. Il progresso del razionalismo del diciottesimo secolo si palesa proprio ora, con l’iniziare ad affrontare il problema delle scienze naturali. In quanto spiegazione razionale del fatto che le orbite planetarie sono situate quasi sullo stesso piano e ruotano nella stessa direzione, la teoria nebulare di Kant fu la prima cosmogonia con una base scientifica. Non conoscendo nulla del lavoro di Kant, Laplace presentò la stessa teoria nella sua Exposition, affermando che il Sistema solare aveva avuto origine evolvendosi da uno stato

originale completamente differente. Adesso si era raggiunta una condizione finale che non sarebbe dovuta esser più disturbata. La teoria del mondo cosmico corrispondeva alla teoria del mondo dell’uomo, il quale, dopo un lungo sviluppo dalla barbarie e dall’ignoranza iniziale, aveva ora raggiunto — o, come si suppose in seguito, quasi raggiunto — la sua condizione finale sotto le regole della libertà, della ragione e della scienza.

Alla fine del diciottesimo secolo, gli astronomi potevano, quindi, guardare con orgoglio alle proprie conquiste. Con un’accuratezza in passato sconosciuta, si potevano osservare i moti dei corpi celesti e, grazie alla legge fondamentale dell’universo, che adesso era stata scoperta, era possibile calcolarli e predirli. È vero che quest’universo era solo il Sistema solare, ma i suoi limiti cominciavano a essere superati.

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PARTE TERZA

L’ASTRONOMIA

STUDIA L’UNIVERSO

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CAPITOLO 31

IL MONDO DIVENTA PIÙ GRANDE Per tutti questi secoli le stelle fisse hanno suscitato interesse solamente come sfondo per il moto dei pianeti. Erano considerate solo come punti fissi per la determinazione dei cambiamenti di posizione della Luna e dei pianeti. Ora, su di esse si iniziavano a conoscere maggiori dettagli; così, ci si accorse di un piccolo cambiamento nella posizione di alcune di queste stelle, cioè si notò la possibilità che avessero un moto proprio. In alcune stelle venne osservato un cambiamento periodico della luminosità, senza che questo suscitasse grande sorpresa, da quando le stelle ‘nuove’ di Tycho e Keplero avevano mostrato la presenza di fenomeni sensazionali. Nel 1596, David Fabricius osservò, nella costellazione della Balena, una stella di terza magnitudine, che col tempo appariva attenuarsi e poi scomparire; per questo la scambiò con un’altra nova. Ma, nel 1638, Holwarda, della Università della Frigia, a Franeker, la vide ancora nello stesso posto, poi la vide scomparire e riapparire e scoprì che alternativamente aumentava e diminuiva in luminosità, fino a scomparire, con un periodo di undici mesi. Anche Tycho aveva osservato questa stella e Bayer l’aveva chiamata con la lettera omicron dell’alfabeto greco; infine, le venne dato il nome Mira Ceti, la stella “miracolosa nella Balena”. Le sue fluttuazioni mostravano delle irregolarità considerevoli; a volte raggiungeva solo la quarta magnitudine, a volte la seconda e una volta, nel 1779, aveva brillato come una stella di prima magnitudine, avvicinandosi, come luminosità, ad Aldebaran. Secondo l’assiriologo Schaumberger, probabilmente essa era già stata annotata in Babilonia; alcune inscrizioni cuneiformi parlano della costellazione di Dilgan (cioè, la Balena e l’Ariete) in termini di ‘infiammarsi’ ed ‘estinguersi’.[174] Nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo seguirono altre scoperte;

nel 1672 a Bologna, Geminiano Montanari, che aveva anche osservato nel 1667 le variazioni di Algol∗, scoprì che bassa nel cielo del sud, nella costellazione della Hydra, una stella oscillava tra la quarta magnitudine e l’invisibilità. Nel 1685, Kirch, a Berlino, trovò un caso simile in una stella di quinta magnitudine nel collo del Cigno, la χ Cygni. Tali scoperte dimostrano che c’erano osservatóri che scrutavano attentamente le stelle, ma l’interesse non era ancora sufficiente per stimolare osservazioni regolari e sistematiche.

Altri oggetti appartenenti a questo mondo di stelle erano gli oggetti nebulari, chiamati ‘nebulae’, i due più cospicui dei quali erano stati osservati nel diciassettesimo secolo. La nebulosa allungata di Andromeda, facilmente visibile a occhio nudo, fu menzionata per la prima volta nel 1612 da Simon Marius, e la nebulosa di Orione, che circonda la stella θ di quarta magnitudine nella Spada, scoperta da Cysat a Ingolstadt, nel 1619, fu descritta da Huygens nel suo diario, nel 1694. Il vantaggio nell’utilizzo dei telescopi è che essi rivelano oggetti molto deboli e molti più dettagli. Poiché, quando tali oggetti venivano osservati per la prima volta, molto spesso venivano scambiati per comete e annunciate come tali, l’astronomo francese Messier, famoso scopritore di comete, per evitare falsi annunci di comete inesistenti, compilò una lista con più di cento di queste nebulose, che venne pubblicata nel 1771. Questo era tutto

∗ Ndr: Montanari fu il primo a scoprire le variazioni di luminosità di Algol (β Persei), osservandola dal 1668 al 1677 e pubblicando la notizia in Sopra la sparizione d’alcune stelle et altre novità celesti (Bologna 1671). Algol, in realtà, è stata la prima binaria ad eclissi scoperta, ma la causa della variabilità venne spiegata solo nel 1782 dall’astronomo sordomuto John Goodricke (vedi Cap. 39).

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ciò che si conosceva sul mondo delle stelle. La loro distanza era ancora sconosciuta, poiché tutti i tentativi di misurare la loro parallasse erano falliti.

William Herschel (1738-1822) discendente di una famiglia tedesca di musicisti di Hannover (vero nome Wilhelm Friedrich), andò in Inghilterra e a Bath divenne un direttore d’orchestra e un buon insegnante e compositore. Herschel portò dalla Germania un vivo interesse verso i problemi scientifici e filosofici, che, intorno al 1773, si convertì in una passione sempre crescente verso l’astronomia.

In quell’anno comprò delle lenti per

telescopio e affittò un riflettore da due piedi, non essendone, però, soddisfatto. Iniziò, allora, la costruzione di un telescopio fondendo e levigando uno specchio concavo. Nel suo diario, nel settembre 1774, troviamo:

«Assistito da 6, 7 od 8 studenti [cioè allievi di musica] ogni giorno, di notte, ho compiuto osservazioni astronomiche con telescopi di mia costruzione»;

e il primo maggio 1776: «Ho osservato Saturno con un nuovo riflettore da 7 piedi»;

e il 13 luglio: «Ho visto Saturno con un nuovo riflettore da 20 piedi che ho eretto nel mio giardino». Con esperimenti sui migliori composti di

metalli (rame con un terzo di stagno) e lavorando e lucidando la superficie nella

giusta forma con estrema cura, egli ottenne specchi di un’eccellente qualità, che producevano perfettamente un’immagine stellare puntiforme. In un confronto diretto con i telescopi dell’osservatorio di Greenwich, essi dimostrarono di essere nettamente superiori. Oltre a questa raffinata qualità, come secondo fattore, ci fu l’aumento nelle dimensioni, dunque nella luminosità e nel potere risolutivo; con l’utilizzo di forti oculari, egli poté incrementare gli ingrandimenti da 200 a 460 volte, fino ad arrivare a valori senza precedenti di 2000, 3168 e 6450 volte. Assistito da suo fratello e da sua sorella Caroline, sua devota assistente prima nelle sue occupazioni musicali e dopo nei suoi lavori astronomici — e che più tardi otterrà il successo come scopritrice di comete — egli costruì telescopi di 7, 10, e 20 piedi (quest’ultimo con specchi da 12 e 19 pollici di diametro) e li impiegò in intense osservazioni. Il suo lavoro rappresentò un progresso considerevole nelle tecniche astronomiche, il risultato di un’abilità e di un’instancabile devozione nell’impegnarsi a costruire strumenti più perfetti possibile. Divenne, così, famoso nel mondo astronomico, grazie alle sue osservazioni sulla rotazione di Marte e di Giove e alle sue misure micrometriche dell’altezza dei monti lunari, negli anni dal 1777 al 1781.

Herschel si preparò a ottenere grandi risultati, tra i quali, principalmente, trovare la parallasse di alcune stelle e presentò le sue idee in un articolo inviato alla Royal Society. Dal momento che le misure sulla posizione delle stelle avevano grossi errori, egli propose di determinare ripetutamente la posizione di una stella brillante rispetto a una stella debole molto vicina. Se la distanza fosse stata di qualche secondo d’arco, si sarebbero potuti stimare ed esprimere in diametri dei dischi stellari — emerge qui l’importanza della forma regolare e circolare di questi dischi — sia la relativa posizione che lo spostamento. Quindi, iniziò a esaminare attentamente tutte le stelle più brillanti con il suo telescopio da 7 piedi, per vedere se avevano deboli compagne vicine, e, nel 1781:

Tav. 9a. Wilhelm Friedrich Herschel

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«Martedì 13 marzo, tra le 10 e le 11 della sera, quando stavo esaminando le piccole stelle nelle vicinanze di H [cioè η] Geminorum, ne ho notato una che pareva visibilmente più grande del dovuto; colpito dalla sua non comune magnitudine, l’ho confrontata con H Geminorum e con la piccola stella nel quartile tra l’Auriga e i Gemelli e, trovandola molto più grande di quelle, sospettai che fosse una cometa».[175] Potendo utilizzare molti ingrandimenti,

egli vide che il disco, aumentato in proporzione all’ingrandimento, misurava da 3 a 5 secondi d’arco, il che non sarebbe potuto accadere per le immagini stellari. Durante i giorni seguenti l’oggetto mostrò un piccolo moto diretto sull’eclittica di circa un primo al giorno; inoltre non aveva coda e mostrava un disco ben definito che, nelle settimane seguenti, aumentò in dimensioni, facendogli supporre che si avvicinava alla Terra. La scoperta di questa nuova e singolare cometa fu immediatamente comunicata al Royal Astronomer, Maskelyne, e ad altri, e fu presto anche osservata in Francia. Dopo alcuni mesi, venne calcolata l’orbita che risultò avere una circonferenza 19 volte più grande dell’orbita terrestre. Dunque, si trattava di un pianeta posto molto al di là di Saturno, che andava ad aumentare di una unità l’antico venerato numero dei pianeti, raddoppiando le precedenti dimensioni del Sistema solare. La fama di tale scoperta indusse il Re ad assegnare a Herschel un salario di 200 sterline, per dargli la possibilità di lasciare il rimunerativo mestiere di musicista e dedicarsi completamente alla sua passione per l’astronomia — cui poteva aggiungere la realizzazione e la vendita di specchi per telescopi. Si può osservare che in un elenco, menzionato nel 1795, di 70 telescopi venduti ad altri, solo uno si sa che sia stato utilizzato in apprezzati lavori astronomici: il telescopio da 7 piedi comprato da Amtmann Schroeter a Lilienthal. La sua gratitudine al Re venne mostrata dando al nuovo pianeta il nome “Georgium Sidus”; negli altri paesi, tuttavia, venne in uso il nome di Urano che sostituì il nome reale.

A Slough, vicino Windsor, dove venne successivamente ospitato, Herschel iniziò la

costruzione, con finanziamenti messi a disposizione dal Re, di uno strumento ancora più grande, un telescopio da 40 piedi con uno specchio da 58 pollici di diametro. Nel 1789 fu completato e Herschel descrisse con entusiasmo come osservasse Saturno per molte ore, meglio di prima. Nel 1795, fornì una dettagliata descrizione della gigantesca struttura fatta di pesanti pali, eretti su fondamenta di muratura e travi di legno, in cui il grande tubo sospeso poteva essere mosso da un sistema di robuste corde e di carrucole. Fu ammirato e glorificato come una meraviglia della scienza e il suo disegno fu riprodotto in libri, giornali e anche su medaglie. Tuttavia, venne usato raramente dal suo autore per le osservazioni. Sembra che l’utilizzo del rozzo colosso fosse piuttosto laborioso e che le immagini non risultassero soddisfacenti, forse perché lo specchio si deformava sotto l’effetto del proprio peso. Tutto l’importante lavoro di scoperta degli anni successivi fu ottenuto mediante il telescopio da 20 piedi e 19 pollici di apertura (Tavola 9b). Esso comprendeva un lavoro di gran valore sui corpi del Sistema solare, come l’osservazione delle macchie solari, dell’ anello e delle bande di Saturno, come la scoperta delle calotte polari di Marte, di due satelliti di Urano e di due nuovi satelliti di Saturno. Il principale oggetto di tutte le ricerche di Herschel, comunque, rimase il mondo delle stelle fisse.

Per prima cosa, egli completò il lavoro

sulle stelle doppie e pubblicò i suoi risultati in due cataloghi, uno di 269 oggetti nel

Tav. 9b. Il telescopio da 20 piedi di Herschel.

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1782, l’altro di 434 oggetti nel 1784. Per ognuno di essi fu data la posizione della stella debole in relazione a quella più luminosa; gli angoli di posizione e le distanze più grandi furono misurate con l’aiuto di un micrometro filare, e le piccole distanze di pochi secondi furono stimate paragonandole con la dimensione dei dischi stellari. Naturalmente, non erano molto esatte a causa della grossolanità del micrometro filare. Infatti, egli affermò:

«I singoli fili di seta con tali lenti da me usate sono così ingranditi che il loro diametro è maggiore di quello di molte stelle» [176]

e aggiunse «quanto difficile è avere viti perfettamente uguali in ogni giro o nella rivoluzione di ogni filo».[177] Quindi, costruì un “micrometro a

lampada”: due stelle artificiali prodotte da lampade brillavano attraverso dei fori, a una distanza di circa 10 piedi, e venivano osservate con l’occhio sinistro mentre l’occhio destro guardava le stelle nel telescopio. Le stelle artificiali potevano essere spostate in qualunque posizione relativa si volesse, così da apparire esattamente come la stella doppia che si stava osservando.

Nel pianificare la sua ricerca sulle piccole compagne delle stelle luminose, Herschel partì dall’idea che le stelle sembravano piccole perché distanti. Assunse che la ‘magnitudine’ di una stella fosse una diretta indicazione della sua distanza e che un stella di quarta magnitudine si trovasse, quindi, a una distanza maggiore di 4 volte rispetto a quella di una di prima magnitudine. La debole compagna poteva così servire per determinare la parallasse e la distanza della stella brillante. Tuttavia, il gran numero di casi in cui stelle piccole erano viste nelle strette vicinanze di quelle più brillanti superava di molto ciò che ci si aspettava da una distribuzione casuale per le stelle deboli. L’idea che molte di queste potessero essere veramente compagne nello spazio, con una piccola brillanza intrinseca, si rafforzò gradualmente in lui. La stessa cosa fu

osservata da Chr. Mayer a Mannheim, il quale, nel 1777, pubblicò la notizia che aveva visto pianeti appartenenti a stelle brillanti; veri pianeti illuminati dal loro Sole, tuttavia, sarebbero stati troppo deboli per essere visibili. Molte delle stelle doppie di Herschel, inoltre, erano così simili che potevano essere dovute a una distribuzione casuale e certamente non potevano servire per le parallassi. Molto presto le avrebbe supposte veri sistemi binari, poiché alla fine del suo articolo aggiunse:

«È troppo presto per elaborare una qualche teoria sulle stelle piccole orbitanti intorno a quelle più grandi».[178] Vent’anni più tardi, tornò sull’argomento

misurando nuovamente le posizioni relative delle componenti di un certo numero delle sue stelle doppie. In due articoli, nel 1803 e 1804, egli descrisse come, per circa 50 di loro, l’angolo di posizione era cambiato di una quantità compresa tra 5° e 51°. In un’accurata discussione, spiegò come questo cambiamento non potesse essere causato da un moto del Sole o dal moto proprio della stella principale; la sola spiegazione ammissibile era un moto orbitale di una piccola stella attorno a una più grande oppure di entrambe orbitanti attorno al loro comune centro di gravità. La sua discussione dimostrò — se ce ne fosse stato bisogno — che la legge di attrazione di Newton regolava anche il moto delle stelle nei lontani regni dello spazio. Nello stesso tempo, dimostrava anche l’esistenza di un altro tipo di sistema planetario, oltre al nostro singolo Sole con i suoi pianeti: sistemi di 2 stelle (alcuni anche di 3 o 4 stelle) orbitanti attorno al loro centro comune.

Fu nei primi anni Ottanta che la sua attenzione si spostò verso il problema del moto del Sole. In un articolo del 1783, Herschel sostenne che, poiché sappiamo che alcune stelle si muovono e che tutte le stelle certamente si attraggono l’un l’altra, si deve concludere che tutte le stelle si muovono attraverso lo spazio con il Sole insieme a esse. Un moto solare deve rivelarsi in un moto apparente opposto delle stelle, che egli

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chiamò, in quanto dipendente dalla loro distanza, la loro ‘parallasse sistematica’. Usò il termine apex per il punto del cielo verso cui è diretto il moto del Sole e fece notare che le stelle situate lateralmente devono mostrare un effetto massimo. Da sette stelle luminose, per le quali Maskelyne aveva dato il moto annuo in ascensione retta e in declinazione, poi portate a dodici da Lalande e in seguito aumentate con ulteriori quaranta stelle da Tobias Mayer, egli dedusse che l’apice doveva essere posto vicino alla stella λ Herculis. Fornì anche ‘pochi indizi lontani’ riguardanti il ‘valore’ del moto solare: la parallasse di Sirio e Arturo doveva essere meno di 1”; il moto apparente di Arturo, dovuto alla traslazione del Sistema solare, era non meno di 2,7” per anno.

«Perciò possiamo stimare in maniera generale che il moto solare certamente non può essere inferiore a quello che ha la Terra nella sua orbita annua». Nel 1805 e nel 1806, Herschel ritornò

sull’argomento, confermando il suo risultato precedente mediante gli accurati moti propri di 36 stelle luminose rilevati da Maskelyne. Il suo tentativo di determinare il valore del moto solare non ebbe successo finché non suppose che la distanza di ogni stella era in relazione alla sua luminosità apparente; conseguentemente, trovò un gran numero di stelle luminose (come quelle che hanno moti propri molto piccoli) che seguono il Sole nella stessa direzione.

Osservando con i suoi telescopi la moltitudine in cielo di oggetti dall’aspetto differente, egli concepì il progetto di identificarli e catalogarli per fare un inventario dell’universo. Oltre a stelle doppie, triple e multiple e a gruppi ben noti, come le Pleiadi, trovò numerosi casi in cui oggetti che sembravano macchie nebulose, nei telescopi più piccoli, si rivelavano, nei suoi grandi telescopi, essere costituiti da milioni di stelle. Inoltre il suo telescopio gli mostrò numerose nebulose più piccole: erano in realtà anche loro ammassi di stelle ancora più piccole? In osservazioni sistematiche eseguite col telescopio in successive regioni del cielo, egli aveva riunito, sin dal 1783, tutti gli oggetti curiosi

incontrati. Così, fu in grado di pubblicare, nel 1786, un Catalogue of one thousand new nebulae and clusters of stars, suddivise in gruppi differenti secondo il loro aspetto e accompagnate da brevi descrizioni. Nel 1789, seguì un secondo catalogo di più di mille oggetti, e nel 1802 aggiunse una terza lista di 500. Non ci fu più alcuna confusione con le comete; le nebulose erano state considerate di diritto come oggetti celesti, come sistemi di soli o come mondi in un universo più grande.

Quanto grande è questo universo? Qual è la sua struttura? È costituito di un immenso numero di sistemi solari simili al nostro? Nel 1750, Thomas Wright aveva già supposto che ciò che vediamo come la Via Lattea che circonda il cielo fosse la proiezione di un sistema gigantesco che si estendeva il più lontano possibile nel piano della zona luminosa. Kant aveva aderito a questa visione. Nel 1761, Lambert elaborò una teoria secondo cui le migliaia di stelle che circondavano il Sole costituivano un sistema e la Via Lattea, composta di un grande numero di tali sistemi, era un sistema di ordine superiore. Ci sarebbe dovuto essere un ancor più grande numero di sistemi come la Via Lattea nello spazio, a formare un sistema di ordine ancor più superiore. Tutte queste opinioni, comunque ragionevoli quando apparvero, erano semplici speculazioni e fantasie. Herschel fu il primo che cercò di determinare l’estensione del sistema stellare per mezzo di osservazioni sistematiche.

Nel primo dei suoi due articoli, On the construction of the Heavens, pubblicati nel 1784 e nel 1785, egli afferma:

«Volgendo il telescopio a una parte della via lactea ho trovato che l’intera apparenza biancastra si risolve completamente in piccole stelle».[179] Lo studio della Via Lattea poté, così,

ridursi a conteggi di stelle. Assumendo che le stelle fossero ugualmente luminose e ugualmente distribuite nello spazio, essendo, cioè, essenzialmente alla stessa distanza l’una dall’altra, poté dedurre dal numero di stelle contate nel campo del suo telescopio quanto lontano il sistema di stelle si

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estendeva in quella direzione e, quindi, la profondità dell’universo stellato. Così, chiamò questo tipo di conteggio “Gaging (gauging) the Heavens” [Scandagliare i cieli] o in breve “star-gauges” [scandagli stellari] Vennero eseguiti più di 3000 conteggi di questo tipo, raccolti nel suo secondo articolo in valori relativi a ben 400 punti del cielo. Il risultato fu il ben noto agglomerato di stelle a forma di disco o lente, che si estende nel piano della Via Lattea oltre 800 volte la distanza media di due stelle — , che fu supposta essere la distanza di Sirio o di Arturo dal Sole — e 150 volte la stessa distanza media perpendicolarmente a questo piano. All’articolo era allegata anche una rappresentazione della sezione perpendicolare del sistema, in cui si mostrava la divisione della Via Lattea in due braccia (circa metà della sua circonferenza). (Tavola 9c)

«Che la Via Lattea sia uno strato più esteso di stelle di varie dimensioni non è più in dubbio; e che il nostro Sole sia in realtà uno dei corpi celesti appartenenti a essa è altrettanto evidente. Io ho ora osservato e scandagliato questa zona brillante in quasi tutte le direzione e l’ho trovata composta di stelle il cui numero, mediante questi scandagli, costantemente aumenta e diminuisce in proporzione alla sua apparente luminosità a occhio nudo».[180]

Herschel non si limitò in questi articoli alla

semplice determinazione di distanze e dimensioni. Nel suo telescopio egli aveva visto così tante forme differenti di agglomerati stellari di diversità graduale che i suoi pensieri furono ovviamente attratti dal problema di quale fosse la loro origine. Spiegò come, a causa della loro attrazione reciproca, le stelle che prima erano disperse

ora dovevano concentrarsi in condensazioni regolari o irregolari, con vuoti lasciati tra loro. Egli chiamò tutto questo “formazione delle nebulose”, volendo indicare che quello che è visto come una nebulosa nel telescopio consiste in un ammasso di stelle molto piccole e lontane. Negli aspetti irregolari e a forma di nube presenti nella Via Lattea questa tendenza ad ammassarsi era chiaramente visibile. Le nebulose estese le chiamò “vie lattee telescopiche”. La nostra Via Lattea è dello stesso tipo delle altre nebulose.

«Ora procederò a mostrare che lo stupendo sistema siderale in cui abitiamo […], costituito di molti milioni di stelle, è, con ogni probabilità, una Nebulosa isolata». All’inizio del capitolo del suo articolo del

1785 che contiene questa discussione è riportata questa tesi:

«Noi abitiamo il pianeta di una stella appartenente a una Nebulosa composta della terza forma».[181] Si capisce facilmente come tali

speculazioni, che estendevano così ampiamente il regno dell’universo, ottenessero un’entusiastica ammirazione in alcuni dei suoi contemporanei, mentre creassero dei dubbi in molti altri; nessun altro astronomo aveva visto tutte queste meraviglie celesti. Le sue idee dell’evoluzione dei sistemi e degli ammassi di stelle sembravano ancora più strane. Herschel era stato allevato nella sua giovinezza al razionalismo critico del concetto di natura tipico dell’Europa continentale del diciottesimo secolo, totalmente estraneo al modo di pensare inglese di quei tempi, libero ma fortemente conservatore. Nella biografia intitolata The Herschel Chronicle, sua figlia maggiore Constance Lubbock, scrive:

«Herschel fu il primo a introdurre un fattore di disturbo in questa visione della Creazione con il suggerimento che fosse stata un lungo processo, non un atto improvviso e completo. Forse, una delle ragioni della freddezza con cui questi articoli furono accolti dalla Royal Society può essere il fatto che il pensiero non era così libero in Inghilterra, come in Francia e in Germania. In

Tav. 9c. La sezione della Via Lattea dai lavori di Herschel.

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questo tempo nessuno poteva ottenere un’alta posizione in qualche università inglese o nella professione dell’insegnamento, a meno che non avesse preso gli ordini ecclesiastici. L’Astronomer Royal era un ecclesiastico, così come il Dr Hornsby a Oxford e il professore di astronomia a Edimburgo. In tali circostanze, era naturale che ci fosse una certa riluttanza nel mostrare approvazione per le teorie di Herschel, che sembravano andar contro l’interpretazione accettata della Creazione secondo il racconto della Bibbia».[182] Le sue idee sugli ammassi e sulle

nebulose, tuttavia, non rimasero le stesse quando, continuando le sue osservazioni, scoprì nuovi tipi di oggetti celesti. Herschel fu meravigliato dall’apparizione di stelle circondate da una debole luminosità lattea, sebbene uniforme. Se questa fosse stata prodotta da innumerevoli stelle deboli, esse dovevano essere eccessivamente piccole oppure, se fossero state normali, la stella centrale doveva essere un corpo enorme:

«Abbiamo quindi un corpo centrale che non è una stella oppure una stella immersa in un fluido brillante di natura a noi totalmente sconosciuta».

Così scrisse nell’articolo On Nebulous Stars, properly so-called del 1791 e continuò:

«Quale nuovo campo è qui aperto alle nostre concezioni!. Un fluido brillante, di una luminosità sufficiente per raggiungerci dalle remote regioni di una stella di 8a, 9a, 10a, 11a o 12a magnitudine, e un’estensione così considerevole da ricoprire 3, 4, 5 o 6 minuti di diametro! Possiamo paragonarlo all’increspatura del fluido elettrico nelle aurore boreale? O al più splendido cono di luce zodiacale che vediamo in primavera o in autunno?» [183] Che esso potesse esistere anche senza una

stella centrale fu mostrato dai non meno meravigliosi dischi nebulosi, circolari o allungati, che a causa della loro luce uniforme aveva chiamato “nebulose planetarie”. Queste, adesso, potevano essere spiegate:

«a causa della luminosità considerevole e uniforme del loro disco apparente che si accorda molto bene con un fluido più condensato e luminoso; mentre il supporre che siano costituite da stelle raggruppate non darà conto altrettanto bene del colore latteo o pallido della loro luce».[184]

Lo stesso ragionamento è valido per la

grande nebulosa di Orione, di cui scrisse nel 1802 che per 23 anni aveva visto molti cambiamenti nella sua forma e luminosità; e aggiunse:

«Cercare anche una spiegazione di cosa questa luce possa essere, sarebbe presuntuoso».[185] Adesso, anche le sue idee sull’evoluzione

venivano ribaltate. La debole luminosità delle piccole nebulose non dissolte in stelle, che precedentemente egli aveva supposto essere agglomerati molto distanti e, come tali, l’ultimo risultato di forze aggreganti, era riconosciuta come sottile materia nebulosa, che veniva collocata all’inizio dell’evoluzione, come una materia prima al di fuori della quale le stelle si formavano attraverso la condensazione. Noi vediamo alcuni di questi dischi nebulosi restringersi in gradi differenti e con stelle centrali di differente luminosità.

«Quando riflettiamo su queste circostanze, possiamo concepire come, forse col passare del tempo, queste nebulose già in stato di compressione possano condensarsi ulteriormente così da diventare delle stelle» (1811).[186]

E alcuni anni più tardi scrisse:

«Noi possiamo vedere che è la stessa e unica forza, uniformemente esercitata, che prima condensa la materia nebulosa in stelle, poi le riunisce insieme in ammassi e che, per mezzo della sua azione, aumenta gradatamente la compressione delle stelle che formano gli ammassi» (1814).[187]

In tutte queste ricerche, Herschel affronta

per la prima volta i problemi ancora aperti e di difficile comprensione sulla struttura e sullo sviluppo dell’universo. Altri fenomeni delle stelle fisse allo stesso tempo attirarono la sua attenzione, specialmente le variazioni nella luminosità di alcune stelle, di cui si occuparono due suoi amici, dilettanti come lui. Nel 1782, John Goodricke scoprì il carattere regolare delle variazioni della stella di 2a magnitudine Algol (β Persei), la cui variabilità era stata intuita da Montanari un secolo prima. Costantemente, dopo un

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periodo di 2 giorni e 21 ore, la stella mostrava una diminuzione fino alla 4a magnitudine, che Goodricke spiegò come un periodico oscuramento da parte di un corpo scuro orbitante attorno ad Algol con tale periodo. Due anni dopo, scoprì le variazioni regolari di δ Cephei e β Lyrae; Edward Pigott, nel 1785, trovò che η Aquilae e una piccola stella nella costellazione dello Scudo erano variabili. Lo stesso Herschel si occupò in questi anni anche delle magnitudine di quelle stelle. Notò che la sequenza di luminosità che osservava in una costellazione spesso deviava fortemente dalle magnitudini assegnate loro dal catalogo di Flamsteed e inoltre contraddiceva la sequenza di lettere greche definita per loro da Bayer. Egli suppose che in molti casi le stelle avessero cambiato, forse gradatamente, la loro luminosità. Per indagare su questi cambiamenti si rese conto di aver bisogno di misure della luminosità relativa delle stelle più accurate di quelle ricavate dal dato grossolano delle loro magnitudini. Così, egli ideò un sistema di segni composto di punti, virgole e trattini per indicare le differenze in luminosità stimate, maggiori o minori. In tal modo, paragonò tutte le stelle numerate da Flamsteed l’una con l’altra, pubblicando tale confronto in 4

cataloghi, nel 1796-99; inoltre, dopo la sua morte, furono pubblicati altri due cataloghi, tratti dai suoi manoscritti, che completavano le costellazioni. La sua speranza di scoprire molte stelle variabili non venne soddisfatta: α Herculis fu la sola stella in cui egli notò, nel 1795, piccole fluttuazioni. Il suo metodo di paragonare piccole differenze in luminosità rimase sconosciuto finché, molto tempo dopo, non gli prestò attenzione Argelander.

Grazie a tutte queste ricerche, il mondo delle stelle fisse fu definitivamente incorporato nell’astronomia vera e propria. Herschel fu in grado di compiere tutti questi lavori, in gran parte, grazie al fatto che era arrivato alla scienza dal di fuori di essa, come autodidatta. Libero dal peso della tradizione, che per coloro che vengono educati nella professione definisce il dominio dei loro doveri e il campo delle attività riconosciute, egli poteva vagare al di fuori di questi, lungo sentieri poco percorsi. E questo è accaduto più volte nell’astronomia. Ora, al culmine di quattro secoli di una costruttiva rivoluzione, venivano spalancati i cancelli agli ampi spazi del mondo stellare e si aprivano le strade per il progresso della scienza nei secoli successivi.

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CAPITOLO 32

LE BASI TECNICHE

«Noi non possiamo illuderci che gli strumenti, pur se ancora suscettibili di perfezione, ci permetteranno di procedere oltre nella conoscenza e di aumentare la precisione delle misure oltre un secondo d’arco. È possibile che Bradley abbia fissato in questi valori i limiti della nostra conoscenza».[188]

Così scrisse nel 1782 il celebre storico

dell’astronomia Jean Sylvan Bailly che negli anni seguenti, come presidente della Costituente, occupò un posto notevole nella Rivoluzione francese. L’ammirazione per il progresso raggiunto — un secondo d’arco è infatti una quantità piccola, rappresentando 1/100 mm su un cerchio di 2 metri di raggio — è in queste parole unita all’ingenuità del cittadino del diciottesimo secolo, per il quale l’evoluzione spirituale e scientifica — come anche quella politica dell’umanità nell’imminente futuro — sarebbe stata completata dal ruolo della ragione e dalla conoscenza dell’ordine naturale del mondo, ora pressoché definito. Chi poteva immaginare che fu solo il preludio a un sempre più rapido movimento d’interminabile sviluppo sociale, che avrebbe trascinato con sé un altrettanto interminabile sviluppo della scienza?

La Rivoluzione industriale, con le sue profonde agitazioni sociali, iniziò in Inghilterra nella seconda metà del diciottesimo secolo. Nel corso del diciannovesimo secolo si diffuse ai paesi adiacenti dell’Europa fino agli Stati Uniti d’America e successivamente al mondo intero. Il progresso tecnico fu la sua base, i piccoli miglioramenti introdotti sui vecchi attrezzi dell’artigiano furono sostituiti da macchine più produttive mosse ingegnosamente dalle potenti macchine a vapore. Fuori dall’artigianato e dai piccoli affari nacque la grande industria capitalistica che controllò sempre di più il sistema economico, fino a cambiare completamente

l’aspetto del mondo. Anche l’uomo stesso cambiò: la fiera competizione da parte dei fabbricanti portò una nuova tensione nella vita sociale e stimolò un’incessante energia.

Nel mondo europeo di assolutismo e privilegio, dominato dalla proprietà fondiaria e dal capitale commerciale nacque una forte classe media di industriali e uomini d’affari, i padroni della nuova società. Con selvagge rivoluzioni (come in Francia) o con profonde riforme (come in Inghilterra), tale classe costruì il suo potere politico e il suo dominio sociale. I suoi ideali fondamentali d’iniziativa personale e di libertà negli scambi commerciali, nel pensiero e nell’agire divennero i principi dominanti della vita umana. In questo sviluppo economico, la scienza esatta divenne sempre di più la base delle nuove tecniche. I vecchi metodi di lavoro tradizionale furono sostituiti dall’applicazione delle scoperte scientifiche. La crescente classe media promosse lo studio della natura fondando università e laboratori, perché sentiva che la conoscenza della natura era buona e benefica. La scienza fu incoraggiata, non solo per il suo uso tecnico e per aumentare la produttività del lavoro, ma anche perché evocava un modo più libero di pensare. Liberò la mente dalla schiavitù della tradizione e divenne un’ispirante potere spirituale di conoscenza e illuminismo, al quale, gradatamente, partecipò una parte sempre maggiore di cittadini. Progresso e illuminismo (Aufklärung) divennero i motti della nuova epoca.

Che quest’interesse per la nuova scienza fosse dovuto non solo alla sua utilità pratica per il progresso tecnico è dimostrato dalla larga parte che l’astronomia occupo in tutto questo. Accanto alla matematica — a quell’epoca la più sviluppata e stimata delle scienze — l’astronomia fu il campo più appropriato per la ricerca disinteressata della

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pura conoscenza. Furono fondati nuovi osservatòri, spesso per amore della scienza, da gruppi di facoltosi privati (come l’Harvard Observatory, fondato nel 1844 dai cittadini di Boston) o in connessione con le università, come primi esempi di quelli che, più tardi, per le altre scienze sarebbero stati chiamati ‘istituti di ricerca’. Era un segno del posto preminente che la scienza pura occupava nella mente dell’uomo del diciannovesimo secolo.

La crescita della grande industria creò la base tecnica per il progresso dell’astronomia. La costruzione di macchine per l’industria e il trasporto richiese lo sviluppo di nuove tecniche altamente specializzate del ferro e dell’acciaio, capaci di produrre pezzi adattabili con estrema precisione e accurati assi circolari per ruote in grado di ruotare velocemente. Questa perfezionata industria del metallo, la base di tutta l’ingegneria del diciannovesimo secolo, rese anche possibile costruire strumenti astronomici più perfetti rispetto a quelli prodotti un tempo dall’artigiano. Fiorirono abili tecnici che nei loro laboratori, con tutta la loro abilità e dedizione, costruirono attentamente, con i nuovi materiali, strumenti rifiniti. Le rinomate aziende inglesi di Ramsden, Cary e, in seguito, Troughton e Simms avevano mantenuto i vecchi standard di produzione; ma ora trovavano concorrenti nei nuovi laboratori tedeschi. Influenzata dallo sviluppo generale dell’Europa, la Germania sperimentò, nell’ultima parte del diciannovesimo secolo, una nuova crescita spirituale in un fiorire di letteratura, di musica, di filosofia che fu seguita, ma non prima della metà del secolo successivo, da una crescita economica e politica. Lo studio delle scienze naturali prese parte a questa crescita e, nel nuovo secolo, la scienza tedesca fu per importanza seconda solo a quelle dell’Inghilterra e della Francia. All’inizio, la Germania giocò un ruolo nel rinnovare e raffinare le tecniche di precisione. Vennero istituiti laboratori per la costruzione di strumenti e, fra questi, i più rilevanti furono quelli fondati da J.G. Repsold ad Amburgo, nel 1802, che rimase all’avanguardia per tutto il diciannovesimo

secolo, e da G. Von Reichenbach a Monaco, nel 1804. Di solito, tali negozi iniziavano con piccoli strumenti — altazimutali per lavori geodetici e sestanti per la navigazione — poi, gradatamente, si avventuravano in lavori più ampi.

Dai laboratori tedeschi emerse un nuovo tipo di strumento per la determinazione delle posizioni stellari. Fissando un cerchio graduato perpendicolarmente sull’asse orizzontale di uno strumento dei passaggi, usato per il transito in meridiano, questi veniva trasformato in un ‘cerchio meridiano’ o ‘cerchio di transito’, adatto a misurare contemporaneamente ascensione retta e declinazione. Adesso, i vecchi quadranti murali, che erano sempre stati strumenti piuttosto rozzi, potevano essere abbandonati. Poiché gli errori di posizionamento e di graduazione erano difficili da determinare, i costruttori cercarono di renderli trascurabili con una costruzione pesante e con solide fondamenta. Con il cerchio meridiano, d’altra parte, si mirava a raggiungere un’accurata rifinitura e una facile determinazione dei restanti errori. L’esattezza delle declinazioni era già stata ottenuta usando un grande raggio del cerchio e aumentandone la maneggevolezza con l’utilizzo di un quarto di cerchio, invece che di un cerchio completo. Ora il raggio veniva preso sempre più piccolo, così che il cerchio era meno deformato dall’influenza della temperatura e dalle flessioni dovute al peso. Gli errori dei cerchi completi, ruotanti con l’asse e letti da microscopi in una posizione fissa, erano più piccoli e potevano essere più facilmente determinati o eliminati. L’accuratezza delle letture era assicurata dai segni di divisione chiaramente incisi, visti attraverso un microscopio e letti all’inizio con un nonio, poi più tardi con un micrometro. Quando una rotazione della vite corrisponde a un primo sul cerchio e la testa della vite è divisa in 60 parti, il decimo di secondo può essere letto direttamente. Il telescopio attaccato nel mezzo dell’asse fu notevolmente perfezionato, mediante un obiettivo acromatico di grande apertura, almeno 4 pollici [c. 10cm], così che l’immagine delle stelle, nitida e circolare,

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poteva essere accuratamente divisa in due parti e le stelle sotto la nona magnitudine potevano essere viste senza difficoltà in un campo illuminato. Grazie al forte ingrandimento una stella passava rapidamente nel reticolo sul piano focale e, movendo lentamente il telescopio, l’osservatore poteva far sì che la stella seguisse esattamente il filo orizzontale; inoltre, ascoltando il battito dell’orologio poteva valutare al decimo di secondo l’istante in cui attraversava i fili verticali. Un metodo diverso per osservare l’istante di transito venne dall’America, intorno al 1844; invece di guardare la stella e ascoltare l’orologio simultaneamente, l’osservatore si limitava a registrare gli istanti di transito sui fili su un cronografo, battendo un tasto che teneva in mano, mentre l’orologio registrava i secondi. L’osservazione dei passaggi fu così resa più semplice e più accurata; l’errore casuale di un transito era di circa 0,06 secondi di tempo solamente e quello del risultato combinato di molti fili successivi era, di conseguenza, più piccolo.

Il solo perfezionamento dello strumento

non avrebbe arrecato alcun vantaggio senza l’intervento dell’astronomo, che con le sue esigenze osservative guidava i tecnici nel miglioramento degli strumenti, dirigendo spesso egli stesso i loro nuovi progetti. Il pioniere nel campo dell’astronomia di precisione, nella prima metà del

diciannovesimo secolo, fu l’astronomo di Königsberg Friedrich Wilhelm Bessel (1784-1846).

Come altri astronomi di primo ordine egli arrivò all’astronomia dall’esterno. Impiegato in un ufficio di un commerciante a Bremen e, aspirando a estendere le sue opportunità nel commercio marittimo, studiò libri sulla navigazione e sulla geografia astronomica e fece ricerche sempre più approfondite sulla teoria e sulla pratica astronomica. Dotato di talento in matematica e non di meno nelle misurazioni pratiche e nel calcolo, svolse tutto il suo lavoro con serietà e molta precisione rispetto alla qualità relativamente grossolana dei dati. Con il suo primo saggio pubblicato, una riduzione delle osservazioni di Harriot della cometa di Halley del 1607, altamente lodato da Olbers e Von Zach, egli fece il suo ingresso nella comunità degli astronomi. Lasciò presto i suoi affari per diventare un assistente all’osservatorio privato di Schroeter, a Lilienthal e, nel 1810, fu chiamato a Königsberg per fondarvi un nuovo osservatorio. Il capolavoro che gli diede un posto preminente nel mondo dell’astronomia fu la riduzione delle osservazioni di Bradley, i cui diari di osservazione erano stati recentemente pubblicati per intero. Poiché Bradley aveva attentamente determinato gli errori dei suoi strumenti o annotato i dati da cui tali errori potevano derivare, questo fu il miglior materiale che il secolo precedente potesse

Tav. 10a. Il circolo meridiano di Reichenbach.

Tav. 10b. Friedrich Wilhelm Bessel

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fornire. Bessel non doveva derivare solo gli errori strumentali dalle stesse osservazioni ma anche le costanti astronomiche necessarie per la riduzione, come l’aberrazione, la nutazione e la rifrazione. Così Bessel poté giustamente chiamare il suo lavoro, quando fu pubblicato nel 1818, Fundamenta astronomiae. L’esattezza delle sua riduzioni, che andava anche oltre la qualità del lavoro di Bradley, definì dei nuovi e più alti standard sia per gli strumenti, che per gli astronomi che li utilizzavano. A Königsberg egli istallò, nel 1820, un nuovo cerchio meridiano costruito da Reichenbach, che poteva costituire l’esempio delle sue idee (Tavola 10a). Successivamente, dopo una vita dedicata all’astronomia pratica, aggiunse, nel 1841, uno strumento ancora più grande, di Repsold, fornito di tutti i nuovi sviluppi strumentali.

Bessel affermò il principio che uno strumento astronomico di misurazione non corrispondeva mai al suo ideale matematico astratto e perciò poteva dare risultati esatti, come fossero stati prodotti da uno strumento ideale, solo determinando tutti i suoi errori e applicando le relative correzioni alle quantità misurate, posto che gli errori fossero costanti a causa della solida costruzione dello strumento.

«Ogni strumento — affermò in una conferenza nel 1840 — in questo modo è costruito due volte, una nel negozio dell’artigiano, in ottone e acciaio, e poi di nuovo dall’astronomo sulla carta, per mezzo della lista delle correzioni necessarie che egli trae della sua indagine».[189]

L’astronomo può misurare con precisione maggiore rispetto a quella con la quale costruisce l’artigiano. Egli deve determinare attentamente tutte le speciali quantità che caratterizzano il suo strumento e tutte le piccole deviazioni dalla forma ideale e calcolare le conseguenti correzioni. L’asse ottico del telescopio non è esattamente perpendicolare all’asse di rotazione, che a sua volta non è perfettamente orizzontale e in direzione est-ovest; i perni d’acciaio su cui poggia l’asse sui supporti a forma di V non sono esattamente circolari e uguali in

diametro. I segni di graduazione non hanno esattamente le stesse distanze, per quanto piccole possano essere le deviazioni nei migliori strumenti. Ci sono dovunque margini d’errore di millesimi o addirittura centesimi di millimetro. Molti di queste deviazioni dipendono dalla temperatura, dal tempo e dall’ora del giorno, in generale, oppure cambiano gradatamente, così che le osservazioni devono essere fatte in modo tale che gli errori possono essere determinati ed eliminati. Inoltre i risultati osservativi devono essere corretti per i cambiamenti che avvengono in cielo per precessione, nutazione e aberrazione. Per facilitare il loro calcolo e farli usare da tutti gli astronomi nello stesso modo e per la stessa quantità, Bessel, iniziando nel 1830, pubblicò il suo Tabulae Regiomontanae (le Tavole di Königsberg), che fu usato da ogni astronomo e alla fine divenne parte integrante degli almanacchi astronomici.

Costruito e utilizzato in questo modo, il cerchio meridiano dominò le misure astronomiche nel diciannovesimo secolo. Fu il principale strumento dei nuovi numerosi osservatòri, di quelli più piccoli annessi a quasi ogni università e anche delle grandi istituzioni centrali, quali Greenwich, Parigi, Washington e Pulkovo — qui integrato da un ‘cerchio verticale’ per le declinazioni. Il cerchio meridiano era continuamente in uso e apparvero a dozzine cataloghi di ascensioni rette e declinazioni, in cui era raccolto il lavoro di molti secoli. Il livello di precisione può essere valutato dall’unità usata, 0,01 secondi d’arco nelle declinazioni e 0,001 secondi di tempo nelle ascensioni rette. Grazie a questo incremento nell’accuratezza del lavoro di Bradley, che nella riduzione di Bessel aveva dovuto fornire tutti gli elementi, adesso mancava solo di ottenere i moti propri delle 3000 stelle. Una nuova riduzione con dati moderni a opera di A. Auwers, pubblicata nel 1888, diede delle buone posizioni, nonostante quelle osservazioni di un secolo prima non fossero adeguate ai nuovi livelli di precisione. Anche questo non era più necessario all’inizio del ventesimo secolo; Lewis Boss, nel derivare i moti propri per un

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nuovo catalogo di stelle, aveva a sua disposizione osservazioni di buona qualità che si estendevano su quasi un secolo. In tutto questo lavoro del diciannovesimo secolo, l’Inghilterra, che era ai vertici nel secolo precedente, aveva seguito più lentamente i progressi del Continente, fino a dopo il 1835, quando G.B. Airy divenne Astronomer Royal e Greenwich fu fornito di un cerchio meridiano di produzione tedesca. Questo ritardo nella qualità fu compensato dalla ininterrotta continuità nella osservazione delle stelle, del Sole, della Luna e dei pianeti. Greenwich poteva essere paragonato a una vecchia struttura di ordinaria amministrazione, conservatrice, di solida reputazione e con una clientela fissa, cioè tutta la navigazione del mondo; fra non molto Cape Town e Washington avrebbero partecipato al lavoro.

L’oggetto di questo lavoro meridiano, alla base dell’accurata conoscenza moderna dell’universo, fu la determinazione delle posizioni delle stelle, con particolare attenzione all’esattezza e all’estensione. Per prima cosa, furono determinate con estrema precisione le posizioni di un piccolo numero di stelle fondamentali (le 36 più importanti di Maskelyne, o le 400 stelle dell’almanacco o anche le 3000 stelle di Bradley), posizioni che vennero ottenute in modo del tutto indipendente, senza prendere alcunché da altre fonti. In secondo luogo, vennero definite le posizioni di decine di migliaia, e più, di stelle telescopiche, riducendole al sistema di stelle fondamentali. Il primo compito —stabilire un sistema attendibile — era il più difficile; i maggiori sforzi dei più abili osservatóri furono dedicati a questo lavoro. D’altro canto, l’importanza, di avere i moti propri di stelle molto deboli era tale che lo stesso Bessel, tra il 1821 e il 1833, dedicò molti anni di osservazione mediante il cerchio di Reichenbach a questo lavoro, che era chiamato “zone work”, poiché le stelle osservate consecutivamente nel passaggio al meridiano dallo stesso sito avevano quasi la stessa declinazione e formavano una zona o una fascia. Una simile quantità di lavoro sulle stelle deboli era già stata fatta da Lalande a Parigi, tra il 1788 e il

1803, con uno strumento più primitivo e altri astronomi avevano seguito il suo esempio. Tuttavia, tutte queste stelle, prese più o meno a caso e distribuite irregolarmente, non costituivano un campione completo. Tale completezza divenne possibile solo quando, nel 1871, l’Astronomische Gesellschaft organizzò il lavoro in modo coordinato. A 13 osservatòri (in seguito aumentati a 16) fu assegnata una zona di declinazione, da 5° a 10° o da 10° a 15° e così via, in cui ognuno doveva osservare, secondo un piano comune, tutte le stelle entro la nona magnitudine da liste preparate anticipatamente. Ci volle una gran quantità di anni prima che questo programma di più di 100.000 stelle fosse completato, anche perché doveva essere esteso al Polo Sud. Ora potevano essere determinati i moti propri per le stelle di Bessel e di Lalande e per alcune altre; infatti, l’idea che stava alla base di questo lavoro, diretto più al futuro che al passato, mirava a fornire una grande quantità di buoni moti propri che sarebbero stati disponibili quando, nel ventesimo secolo, si sarebbe ripetuto lo stesso lavoro.

I metodi di lavoro del cerchio meridiano non rimasero, naturalmente, al livello prima raggiunto. Sorsero numerose difficoltà sulla strada della realizzazione dell’ideale di misura precisa, che obbligarono gli astronomi a migliorare incessantemente i loro metodi di lavoro. Proprio quando, dalle piccole differenze trovate nei singoli risultati, sembrava che si fosse raggiunta un’elevata accuratezza — dell’ordine di alcuni centesimi di secondo — emerse un grande disappunto dalla comparsa, tra i risultati finali dei diversi osservatóri, di differenze più grandi, di molti decimi o anche di interi secondi. Si trattava di differenze sistematiche e fu allora possibile ridurre ogni catalogo a uno medio o standard costruito con i dati migliori, grazie a tabelle di correzione gradatamente variabili in funzione della posizione in cielo. Comunque, non si poteva garantire che un tale catalogo standard non avesse errori sistematici dello stesso ordine di grandezza, dovuti a errori comuni a tutte le osservazioni.

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Le fonti di tali errori, simili per diversi osservatóri e strumenti, erano facili da scoprire. Le ascensioni rette erano interamente dipendenti dalla regolarità di marcia dell’orologio. Il principale orologio astronomico di un osservatorio non serve per dare informazioni sul tempo, ma è, in realtà, uno strumento per misure astronomiche, che indica la regolare rotazione della sfera celeste. Durante l’intero secolo, abili orologiai cercarono, con estrema precisione, di fornire agli astronomi orologi di crescente perfezione. Variazioni nella pressione dell’aria e nella temperatura, specialmente lungo il pendolo, così come piccole irregolarità, vibrazioni e frizioni possono influenzare la sua regolarità di marcia e proprio una piccola differenza in questa regolarità tra il giorno e la notte può causare errori sistematici considerevoli nelle misure di ascensione retta. Per diminuirli, l’orologio principale è spesso racchiuso in una cassa a tenuta d’aria e sospeso da un forte pilastro in una stanza nel sottosuolo. Gli orologi furono migliorati lasciando oscillare il pendolo, per quanto possibile, libero da altre parti meccaniche. Questo principio fu perfettamente realizzato nell’orologio costruito da William Shortt, che entrò in uso intorno al 1924. Si tratta di un pendolo (master clock, l’orologio principale) che oscilla completamente libero, non dovendo fare altro se non mantenere un altro pendolo (slave clock, l’orologio secondario) alla giusta andatura, mentre, a sua volta, è mosso da quest’ultimo mediante piccoli impulsi regolari∗. ∗ Ndr: W. Shortt and F Hope-Jones produssero, nel 1921, il “Shortt-Synchronome free pendulum” (vedi figura nel testo) il sistema a pendolo libero, ideato nel 1889. Il pendolo libero è connesso elettronicamente allo ‘slave clock’, un orologio a pendolo modificato in modo da funzionare elettricamente. Ogni 30 secondi, lo ‘slave clock’ manda un segnale elettrico al meccanismo che si trova sul pendolo libero, dandogli una leggera spinta per mantenerlo in oscillazione. Come questo meccanismo si rimette a posto, manda indietro un segnale ad una unità di sincronizzazione sullo ‘slave clock’ che aggiusta l’oscillazione di quest’ultimo per tenerlo esattamente al passo con il pendolo libero. Non essendoci interferenze nel movimento del pendolo libero, eccetto una leggera spinta ogni 30 secondi, questo può conservare il

Altra fonte di metodiche differenze

nell’ascensione retta sono i così detti errori ‘personali’, già discussi ed evidenziati da Bessel. Spesso, gli osservatóri valutano o registrano il momento in cui l’immagine della stella attraversa il filo metallico con un errore quasi sempre della stessa entità, di solito con un ritardo che può arrivare fino ad alcuni decimi di secondo. L’errore di ogni osservatore ha sempre un valore differente e, con la pratica, questo errore personale non diventa più piccolo ma più costante. Esperimenti con stelle artificiali mostrarono, inoltre, che l’errore dipende in gran misura dalla luminosità della stella e dalla velocità con cui passa attraverso i fili del reticolo. Così, si produssero degli errori sistematici nell’ascensione retta, che dipendevano dalla declinazione e dalla luminosità, per eliminare i quali Repsold, nel 1889, introdusse il filo metallico mobile: girando lentamente una vite, l’osservatore mantiene costantemente divisa in due la stella in movimento, mentre il sistema

tempo in modo molto accurato, entro circa un secondo all’anno. Così, è molto più accurato del solo ‘slave clock’, il cui pendolo deve muovere parti del meccanismo in ogni oscillazione e, per essere tenuto in movimento, necessita di una spinta maggiore del pendolo libero. Il primo orologio di Shortt venne installato ad Edimburgo nel 1921.

Un sistema a pendolo libero di Shortt ancora in uso (Science & Society Picture Library).

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automaticamente chiude i contatti elettrici che vengono registrati e poi letti. Questo metodo di osservazione non è assolutamente libero dall’errore personale — ogni osservatore ha un modo del tutto personale di mantenere il filo metallico alla destra o alla sinistra della posizione giusta — ma questi errori sono un decimo o meno degli errori coinvolti nel vecchio metodo e sono della stessa quantità le variazioni causate dalla luminosità. Con gli errori personali ridotti ad alcuni centesimi di secondo, le cause di errore in ascensione retta sono in gran parte rimosse.

Fu più difficile con le declinazioni. Nel descrivere il meridiano da sud a nord attraverso lo zenit, il telescopio ha una posizione inclinata diversamente in relazione alla gravità e all’orizzonte per ogni declinazione. A causa di irregolarità nelle parti di metallo, si presentano complicate flessioni, non solo dei cerchi ma anche del telescopio, che possono essere derivate solo in modo imperfetto da misure eseguite con particolari espedienti in posizioni sia orizzontali che verticali. Di gran lunga peggiori sono gli effetti della rifrazione nell’atmosfera, che nei secoli precedenti erano un impedimento alla buona determinazione delle posizioni delle stelle. A partire dal citoyen Kramp, a Cologne nel 1800 (anno VII della Repubblica), il cui lavoro fu usato da Bessel, abili matematici svilupparono e migliorarono la teoria della rifrazione durante l’intero diciannovesimo secolo e calcolarono la sua variazione con l’altezza della stella. Ma rimanevano grandi incertezze, specialmente vicino all’orizzonte, soprattutto perché la diminuzione della temperatura e della densità degli strati atmosferici più alti non erano ben conosciuti. Cosa significhi questo si capisce dal fatto che a una altezza di 30°, dove nessun astronomo esita a fare buone misure, la correzione per la rifrazione ammonta a 160”, cosicché, per calcolare la declinazione correttamente a 0,01”, il risultato deve essere certo a 1/16.000 del suo valore. Questa è una delle fonti principali di errori sistematici. E questa non è la cosa peggiore; ancora più serie sono le

irregolarità sconosciute nella rifrazione delle quali non possiamo tener conto. Gli strati d’aria di differente densità possono essere inclinati oppure, come accade spesso con un tempo chiaro, ma ghiacciato, c’è un aumento della temperatura con l’altezza. La temperatura dentro la stanza di osservazione è di solito un po’ più alta rispetto all’esterno, nonostante i tentativi di uguagliarle, e la linea di divisione segue il percorso irregolare dei muri e del tetto. Tutte queste influenze variano con le diverse latitudini a cui gli osservatòri sono situati ma in nessun luogo sono assenti. Così non è sorprendente che i cataloghi ottenuti con le maggiori attenzioni mostrino grandi differenze sistematiche e che anche il sistema standard utilizzato possa essere notevolmente sbagliato. Possiamo capire, allora, il lamento di Kapteyn nel 1922, poco prima della sua morte:

«Non conosco nulla di più sconfortante nell’intero dominio dell’astronomia del dover passare dalla considerazione degli errori casuali nelle nostre posizioni stellari a quella dei loro errori sistematici. Nonostante molti dei nostri strumenti meridiani siano cosi perfetti che, con una singola osservazione, determinano le coordinate di una stella equatoriale con un errore probabile non superiore di 0,2” o 0,3”, il miglior risultato ottenuto da un migliaio di osservazioni in tutto dai nostri migliori osservatòri insieme può avere un errore reale di mezzo secondo d’arco e più».[190] Kapteyn mostrò la probabilità che il

sistema standard di Lewis Boss, allora considerato il migliore, contenesse errori notevoli, perché i moti propri derivati per alcune zone di declinazione erano diretti troppo a nord, altri troppo a sud. Un nuovo sistema standard, derivato da Kopff al Berlin Astronomical Computing Office dalle migliori serie moderne di osservazioni, deviava, infatti, dal sistema di Boss in questi punti. Per risolvere la questione, si richiedeva un metodo di osservazione completamente differente, nel quale le flessioni e la rifrazione non giocassero alcun ruolo nella determinazione delle declinazioni. Per un osservatore posto sull’equatore terrestre, i poli celesti sono situati sull’orizzonte e tutte le stelle della

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stessa ascensione retta con declinazione da +90° a –90° sono situate una accanto all’altra o un po’ sopra l’orizzonte. Le declinazioni possono, allora, essere misurate come degli azimut con un cerchio orizzontale, libero dalla rifrazione. Spinti da queste considerazioni, l’osservatorio di Leida, nel 1931-33, mandò due osservatóri in Kenya, nell’Africa orientale, per misurare le declinazioni per mezzo di un accurato strumento azimutale. I loro risultati indicarono la necessità di correzioni sistematiche, come ci si aspettava (+0,6’’ a –30°; 0’’ a +10°; +0,3” a +30° di declinazione), cosicché il sistema di Berlino si rivelò più vicino al vero. Sembra, così, aperta la strada per un sistema di declinazioni privo di errori, mediante osservazioni ripetute e migliorate.

Torniamo, ora, all’inizio del diciannovesimo secolo per vedere il progresso della conoscenza tecnica in un altro campo, l’ottica. L’introduzione dei sistemi di lenti acromatiche, a opera di Dollond, aveva portato a un grande miglioramento negli strumenti di misurazione. Poiché, tuttavia, le tecniche di fabbricazione dei vetri erano abbastanza imperfette, solo nel diciannovesimo secolo i telescopi stessi acquisirono perfezione e potenza. Una svolta si ebbe, soprattutto, grazie al lavoro di un giovane bavarese pieno di talento, Joseph Fraunhofer (1787-1826). Nel 1806, egli entrò a lavorare stabilmente nell’officina di Utzschneider e Reichenbach [ndr: e Liebherr: il Mathematisch-Mechanische Institut von Utzschneider, Reichenbach und Liebherr in Münich, fondato nel 1802], dove divenne presto capo del lavoro ottico. Nel 1817, i reparti furono separati e, in associazione con Utzschneider, un ricco finanziere con forti interessi scientifici, Fraunhofer fondò un Istituto Ottico a Monaco [Optische Institut von Utzschneider und Fraunhofer] Due imperfezioni dovevano essere superate. In primo luogo, gli indici dei valori della rifrazione per i diversi tipi di vetro erano conosciuti molto imperfettamente,

«così che, pur con tutta l’esattezza nel calcolo di obiettivi acromatici, la loro perfezione è dubbia e di

rado corrisponde alle aspettative».[191]

Inoltre i materiali erano inadeguati, specialmente il cristallo ‘flint’ inglese che «non è mai completamente privo da striature». Fraunhofer fu iniziato ai segreti della lavorazione del vetro dal suo collega P.L. Guinald, un abile lavoratore del vetro franco-svizzero. Dopo 20 anni di esperimenti, Guinald era riuscito, nel 1799, a fabbricare perfetti dischi di flint da 10 a 19cm di diametro e, successivamente, fu in grado di arrivare a 30 e 35cm, fondendo piccoli pezzi di buona qualità in condizioni particolari. Le sue capacità e le sue tradizioni professionali si conservarono poi nelle officine ottiche francesi.

Fraunhofer studiò profondamente la rifrazione della luce di diversi colori in vari tipi di vetro, per mezzo di accurate misure mediante un teodolite. Era continuamente ostacolato dalla difficoltà dovuta al fatto che la luce rossa o gialla, cui le sue misure si riferivano, non potesse essere ritrovata esattamente identica. Alla fine, sperimentando con un prisma lo spettro solare, scoprì le sottili linee nere che lo attraversano, che da allora vennero chiamate con il suo nome, ‘righe di Fraunhofer’.

«Grazie a molti esperimenti e variazioni — scrisse nel 1817 in un articolo per l’Accademia Bavarese — sono adesso convinto che queste righe appartengono alla natura della luce solare e non sono causate dalla diffrazione o da altri aspetti».[192]

Egli contò più di 500 righe e le più forti, che chiamò con le lettere dalla A alla H, potevano adesso essere usate come precisi indicatori di definiti tipi di luce. Misurando i loro indici di rifrazione per ogni tipo di vetro egli fu in grado di calcolare esattamente la combinazione di lenti che produceva il miglior acromatismo. È a questo punto che l’industria ottica, da abile professione qual’era, divenne calcolo scientifico. Il risultato pratico, comunque, non era di

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grande semplicità. Con il suo esperimento Fraunhofer trovò che la rifrangibilità dei diversi colori non era esattamente proporzionale nei diversi tipi di vetro, per cui non era possibile focalizzare tutti i colori nello stesso fuoco, ma rimanevano ancora piccole differenze, che producevano uno “spettro secondario”. Inoltre, la teoria della combinazione delle lenti era troppo complicata e difficile per riuscire a fornire le forme migliori attraverso il semplice calcolo. Tuttavia, con una combinazione di intuizione pratica e conoscenza teorica, Fraunhofer riuscì a costruire eccellenti obiettivi per telescopi, fino a 24cm (9 pollici) di diametro. Questi obiettivi producevano immagini stellari piccole, ben definite e circolari su tutto il campo visivo, mostrando non solo le stelle più deboli, come i più grandi telescopi a specchio, ma anche i dettagli più piccoli sulla superficie dei pianeti e della Luna.

Anche la montatura dei telescopi migliorò.

Nella montatura di Fraunhofer, o ‘alla tedesca’ (fig. 30), il tubo — nei primi telescopi più piccoli in legno, più tardi in metallo — fu attaccato ad angolo retto alla fine di un ‘asse di declinazione’, che a sua volta poteva ruotare attorno a un asse polare fisso. Tutte le parti meccaniche erano accuratamente lavorate in acciaio e ottone, perfettamente montate e bilanciate così esattamente che il grande strumento poteva

essere mosso dalla leggera pressione di un dito. Inoltre, era fornito di cerchi graduati per leggere l’angolo orario e la declinazione e di viti per i movimenti fini. Sotto ogni aspetto, questo tipo di telescopio costituiva un livello più alto di perfezione, facilmente maneggevole in confronto ai telescopi ingombranti di Herschel, con la loro montatura grossolana e i movimenti complicati da pali, corde e carrucole. Questo progresso negli strumenti astronomici può essere paragonato alla transizione dalle rozze bacchette di ferro dei primi motori a vapore del diciottesimo secolo — oggi in mostra al museo di South Kensington a Londra — alle macchine del diciannovesimo secolo, accuratamente finite e levigate, realizzate nelle fabbriche. Un altro importante — anzi indispensabile — miglioramento introdotto da Fraunhofer nei suoi telescopi fu l’inseguimento automatico delle stelle mediante il movimento del telescopio. Mosso da un orologio, l’asse di declinazione gira lentamente con il telescopio attorno all’asse polare, cosicché la stella sembra essere completamente ferma nel campo visivo. Nel diciannovesimo secolo, questo tipo di telescopio fu chiamato ‘rifrattore’, in contrapposizione al ‘riflettore’ che usava uno specchio concavo. Era il risultato della raffinata capacità di appasionati artigiani, che applicavano alla perfezione le tecniche del metallo e dell’industria del vetro, basate su metodi scientifici.

Anche se Fraunhofer fu un pioniere, non fu il solo costruttore in questo campo; Steinheil, in Germania, e Troughton, in Inghilterra, migliorarono i vecchi tipi di telescopio. Inoltre, il riflettore continuava a essere utilizzato ancora, per il grande potere di raccolta della luce, dovuto alla sua ampia apertura,. Dopo 20 anni di esperimenti, William Parsons (divenuto in seguito Lord Rosse) costruì nel 1842-45 a Birr Castle, vicino a Parsonstown, in Irlanda, un telescopio con uno specchio di 6 piedi (182cm) di diametro, con cui scoprì la struttura a spirale di alcune nebulose. Tuttavia, i rifrattori rimanevano gli strumenti preferiti e le officine riuscirono ad

Fig. 30. Il telescopio di Fraunhofer.

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aumentare sempre di più le loro dimensioni. Dopo che il telescopio da 24cm, realizzato nel 1820 da Fraunhofer per l’Osservatorio di Dorpart e considerato un gigante per quell’epoca, ebbe mostrato la sua eccelsa qualità nel lavoro di Struve sulle stelle doppie, alcuni osservatòri tedeschi e russi si dotarono di questo tipo di strumento. Nel 1839, il successore di Fraunhofer, Merz, costruì un rifrattore di 38cm (15 pollici) di apertura e 22 piedi di distanza focale per il nuovo osservatorio, generosamente costruito per ordine dello zar Nicola I, eretto come istituto scientifico centrale sulla collina di Pulkovo, a sud di San Pietroburgo. Uno strumento simile fu costruito per l’ Harvard Observatory a Cambridge, Massachusetts, fondato nel 1843-47 dai cittadini di Boston.

Negli anni seguenti molti osservatòri in Europa furono forniti di questo tipo di telescopio. In Germania, il progresso nella costruzione degli strumenti ritardò e dopo il 1870 fu superato dall’inglese Grubb. Nello stesso tempo, l’arte della lavorazione delle lenti aveva trovato una nuova casa in America, quando Alvan Clark, a Washington, iniziò a produrre lenti di dimensioni senza precedenti. Il suo primo prodotto, superando tutti i predecessori, fu un obiettivo di 18 pollici (43cm) per Chicago e divennne famoso quando il figlio, di Clark, Alvan jr., mentre, nel 1862, testava la qualità delle immagini, scoprì il compagno di Sirio. Quando il nome di Clark si affermò per la qualità del suo prodotto osservatòri europei e americani ordinarono telescopi forniti delle sue lenti: ogni nuova lente superava la precedente in dimensione. Così, nel 1871, Washington acquistò una lente di 26 pollici (66cm), con cui Asaph Hall, nel 1877, scoprì i satelliti di Marte, e Pulkovo, nel 1885, ne acquistò una da 30 pollici (76cm). Altri costruttori seguirono la strada di Clark: Grubb costruì un 25 pollici per Cambridge, in Inghilterra, e i fratelli Henry di Parigi, astronomi loro stessi, nel 1886 realizzarono un rifrattore da 76cm per Nizza e uno da 83cm per Meudon.

A differenza delle consuetudini europee, la tradizione inglese, secondo cui la scienza pura non era un affare di governo si diffuse

anche negli Stati Uniti. I grandi osservatòri non furono fondati da università, ma per lo più da privati. Negli Stati Uniti, nell’ultima parte dell’Ottocento, i milionari, impadronendosi e monopolizzando le ricchezze naturali di un grande continente, erano diventati a poco a poco i padroni del mercato, dominando sempre più la vita economica e sociale della nazione. Alcuni di essi si presentarono come mecenati dell’arte e della scienza: devolvettero denaro alle università e fondarono musei, biblioteche, laboratori e naturalmente osservatòri, che furono forniti degli strumenti più costosi. Poiché, di solito, il movente era la fama, un gigantesco telescopio che superava tutti i telescopi precedenti era un obiettivo ambito. E questo si verificò nell’ultima volontà di un ricco speculatore californiano, James Lick; dopo la sua morte un comitato di amministratori esperti, disponendo liberamente dei suoi soldi, ordinò un rifrattore di Clark da 26 pollici come strumento principale di un istituto astronomico ben fornito, il Lick Observatory, costruito nel 1888 sul monte Hamilton, vicino a San Francisco. Mantois, di Parigi, fornì i dischi di vetro e poco dopo costtruì un’altra serie di dischi di vetro leggermente più grandi, che furono lavorati dai Clark per un obiettivo da 40 pollici [102cm] Per questo telescopio fu fondato lo Yerkes Observatory, nel 1897, a Williams Bay, Wisconsin, come istituto della University of Chicago. Questi telescopi giganti furono costruiti sullo stesso modello dei precedenti, più piccoli, di Fraunhofer; essi mostrano la stessa costruzione, leggera ed elegante, con una lunghezza di circa 20 volte l’apertura e lo stesso tipo di montatura. Furono realizzati con la stessa attenzione e precisione ma su scala 4 volte maggiore. In loro ogni cosa era più colossale, perciò più pesante; tuttavia, erano ugualmente facili da maneggiare, capolavori di ingegnosità costruttiva. Il paragone di questi giganti con i loro prototipi dell’inizio dell’Ottocento illustra il progresso compiuto in tutti i settori della meccanica e della scienza: nella fusione del vetro, nella lavorazione delle lenti, nella costruzione di montature

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metalliche, nel controllo dei meccanismi e nell’organizzazione di grandi istituti. L’America prese allora la guida nel progresso tecnico e, quindi, anche nell’astronomia pratica.

Questo grande sviluppo nell’ottica astronomica dipendeva dal progresso compiuto nella tecnica del vetro, mentre, viceversa, l’incremento della domanda per la ricerca scientifica stimolava questa tecnica. In Francia, l’officina di Mantois e la fabbrica di vetro della St. Gobain, più tardi unite, riuscirono nella fusione di dischi di vetro sempre più grandi e migliori. In Germania, la Carl-Zeiss Werke, a Jena, fondata da Ernst Abbe, guadagnò fama sia per l’eccellenza dei suoi strumenti ottici basati su approfondite conoscenze teoriche scoperte dallo stesso Abbe, che per la sua struttura sociale. La Zeiss collaborava con le fabbriche di vetro della Schott, dove, in continui esperimenti, si tentava di creare nuovi tipi di vetro di qualità particolari, secondo le richieste degli scienziati, cercando, per esempio, di eliminare lo spettro secondario. Sebbene non fosse in competizione con la costruzione di telescopi giganti, la Zeiss fornì gli osservatòri di tutto il mondo di nuovi ingegnosi strumenti.

Si raggiunse, così, il limite delle dimensioni. Lenti di 40 pollici [102cm] di diametro sono così sottili al centro che iniziano a presentarsi effetti di assorbimento della luce stellare e, inoltre, iniziano a deformarsi per effetto del loro stesso peso. Se fossero stati costruiti dischi di vetro più grandi, non si sarebbero potuti usare nello stesso modo.

Torniamo ora sui nostri passi, all’officina

di Fraunhofer. Il suo principale merito non fu quello di aver migliorato i telescopi come strumenti per osservare il cielo, bensì di averli resi strumenti di misura più precisi. Le piccole distanze delle stelle vicine o le dimensioni dei piccoli dischi planetari possono, naturalmente, essere misurati più accuratamente rispetto alle coordinate dei singoli oggetti; molte fonti di errore comuni a punti adiacenti scompaiono nelle loro posizioni relative. Per tali misure furono

utilizzati i micrometri. Fraunhofer dotò ogni telescopio di un micrometro filare, il quale, mediante un’attenta costruzione e un’accurata rifinitura in ogni sua parte, era ora compreso tra gli strumenti della più alta precisione. Una vite a passo piccolo, perfettamente lavorata, muove un filo rispetto a un reticolo fisso e così, sulle divisioni della vite, si leggono con facilità le distanze. Ruotando l’intero micrometro sull’asse del telescopio, il reticolo fisso viene portato nella direzione richiesta delle due stelle e si può leggere l’angolo di questa rotazione. Così la posizione relativa dei due oggetti viene data in coordinate polari, ad esempio come angolo di posizione e distanza.

Ovviamente, per l’uso di un tale

micrometro, è necessario che il telescopio segua le stelle con estrema precisione, così che esse appaiano completamente immobili nel campo di vista; allora il reticolo può essere puntato con precisione nel centro dell’immagine stellare. W. Herschel non poteva fare così, poiché il suo telescopio non era in grado di seguire automaticamente le stelle, quindi, misurando una stella doppia egli poteva solo portare i fili del reticolo a una distanza tale da sembrare uguale a quella delle stelle che percorrevano il campo di vista. Questo spiega l’incremento eccezionale nell’accuratezza che ora si riesce a ottenere. La seconda cifra decimale del secondo d’arco non era più un lusso superfluo o un risultato ottenuto dalle medie, bensì, era la naturale unità di cui gli errori

Il complesso apparato micrometrico oculare del grande telescopio rifrattore da 76cm di Pulkovo: meccanica Repsold, ottica Clark.

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delle misure erano solo un piccolo multiplo. I micrometri filari costituirono un accessorio essenziale e costantemente utilizzato per tutti i rifrattori costruiti, fino a quelli americani giganteschi, in grado di renderli realmente utili.

Anche un altro tipo di strumento di precisione fu sviluppato da Fraunhofer. Nel diciottesimo secolo, Bouger aveva misurato il diametro del disco solare affiancando due obiettivi uguali, a una distanza tale che le due immagini del Sole che entrambi formavano fossero perfettamente a contatto; allora, conoscendo la lunghezza focale degli obiettivi, egli poté ricavare il diametro apparente del Sole misurando la distanza tra i due centri. Ramsden migliorò lo strumento, chiamato ‘eliometro’, utilizzando due mezze lenti, ognuna delle quali produceva la stessa immagine solare completa. Movendo le due mezze lenti l’una accanto all’altra, le due immagini potevano essere portate a coincidere anche se si trovavano lontane: si potevano misurare, così, sia piccole che grandi distanze. Fraunhofer riprese l’idea e accoppiò le due metà di un obiettivo di buona qualità in due montature, in grado di poter essere spostate da una vite, grazie alla quale si poteva leggere la distanza mediante un microscopio su di una scala millimetrica. Costruì, così, per l’osservatorio di Königsberg, uno strumento di precisione di prim’ordine, cui rimase il nome ‘eliometro’, in grado di misurare distanze molto più grandi del micrometro filare, fino ad alcuni gradi. L’eliometro di Fraunhofer fu pronto solo nel 1829, tre anni dopo la sua morte.

Bessel, utilizzandolo per quella che sarà la prima determinazione di una parallasse stellare, lo sottopose ad approfonditi studi teorici e pratici, così da fargli acquisire una rilevante importanza in astronomia, venendo utilizzato fino alla fine del secolo in importanti ricerche su stelle, pianeti, Sole e Luna, dove dovevano essere misurate piccole distanze.

Dalla metà del secolo diciannovesimo, l’eliometro dovette affrontare un valido competitore nell’astronomia pratica: la fotografia, che si sviluppava sempre di più nello studio dei corpi celesti. Le prime fotografie del Sole e della Luna mostrarono, in brevi esposizioni, un’abbondanza di dettagli che avrebbero richiesto ore e mesi di osservazioni dirette per realizzare disegni e mappe. Gli obiettivi esistenti, acromatici rispetto alle osservazioni con l’occhio, non fornivano immagini sufficientemente nitide, in conseguenza dello spettro secondario, nelle regioni blu e violetta, dove era sensibile la fotografia. A New York, nel 1864, Lewis M. Rutherfurd costruì per la prima volta un obiettivo fotografico da 29cm di apertura, con il quale, negli anni successivi, ottenne le prime foto utilizzabili del cielo stellato. Ogni progresso nei metodi fotografici riuscì a trovare delle applicazioni nell’astronomia, come nel 1871, quando il processo a collodio umido fu sostituito dalle molto più sensibili lastre a gelatina secca di bromuro d’argento, sulle quali si riuscivano a impressionare stelle telescopiche deboli con esposizioni brevi. Si capì presto che le immagini stellari sulle lastre, nitide e perfettamente circolari, sebbene piuttosto grandi, erano misurabili molto più facilmente e accuratamente rispetto a quelle delle stelle che, durante l’osservazione a occhio, spesso si muovevano irregolarmente nel telescopio; l’esposizione aveva ‘mediato’ le irregolarità. Apparve, così, una nuova tecnica astronomica: utilizzare il telescopio solo per riprendere immagini fotografiche ed eseguire le misure con comodo il giorno dopo.

Oltre al guadagno in accuratezza, il metodo fotografico presentava altri vantaggi. Per prima cosa, tutte le stelle del campo

Un modello di eliometro di Dollond del 1787 (Museo della Specola, Bologna).

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venivano riprese in una sola esposizione, così le poche e favorevoli notti potevano essere sfruttate appieno. Le loro misure, inoltre, potevano essere rimandate fino a quando non ce ne fosse stato bisogno. Per seconda cosa, ci fu un incremento nelle dimensioni e nella visibilità delle immagini che potevano essere ottenute semplicemente variando la durata delle esposizioni, così che venne accresciuto l’effetto di aperture più grandi sulla luminosità delle immagini stellari. Come terzo vantaggio, si ebbe il fatto che, utilizzando obiettivi con grande apertura angolare — per esempio una distanza focale corta rispetto all’apertura — si otteneva una grande brillanza superficiale. Gli oggetti nebulosi estesi, deboli e quasi invisibili, che nessun sistema ottico poteva rendere più luminosi, per la prima volta, grazie alle lunghe esposizioni, rivelavano il fascino della loro struttura complessa.

L’astronomia approfittò dall’aumentata perfezione delle tecniche ottiche, sviluppata grazie alla fotografia pratica, sin dalla sua scoperta, nel 1839. Laboriosi calcoli teorici, come quelli compiuti da Seidel e Petzval, associati all’inventiva pratica di costruttori come Chevalier, Steinheil, Brashear e Zeiss, crearono, poco a poco, numerosi tipi di sistemi ottici sempre più perfetti, costituiti da differenti combinazioni di lenti. Vi era, tuttavia, la difficoltà di focalizzare, per qualsiasi punto di un oggetto esteso, tutti i raggi emergenti dei vari colori in un unico punto, in modo da formare un’immagine nitida in un campo piano. Le richieste di grande luminosità, campo esteso e assenza di difetti non potevano essere soddisfatte tutte nello stesso tempo: a secondo degli scopi predominava l’una o l’altra richiesta. Così vennero inventati e costruiti numerosi tipi di sistemi ottici differenti: prima semplici tripletti, poi gradatamente migliorati con sistemi di sei od otto lenti. In tutto il mondo, vennero utilizzati, in migliaia di camere fotografiche, obiettivi di grande apertura angolare, usati da fotografi dilettanti Erano stati realizzati appositamente per gli osservatòri, con la stessa apertura angolare di 1:4 o 5, ma in dimensioni maggiori, rendendo disponibile un nuovo

tipo di strumento che consentiva di osservare nuovi aspetti degli oggetti celesti.

Tuttavia, per l’accurata determinazione delle posizioni delle stelle mediante le misure su una lastra fotografica, c’è la difficoltà che un normale obiettivo acromatico, costituito da due lenti, riproduce l’oggetto in maniera piuttosto distorta. Questo difetto può essere evitato usando un sistema di più lenti accuratamente calcolato. Prima che questo sistema venisse definitivamente realizzato, i fratelli Paul e Prosper Henry, a Parigi, riuscirono a fotografare stelle fino alla quattordicesima magnitudine, con obiettivi auto-costruiti. Piena di entusiasmo per questo risultato, una Conferenza Internazionale, convocata a Parigi nel 1889, decise, forse troppo frettolosamente, di realizzare, mediante una cooperazione internazionale, un atlante dell’intero cielo fino alla quattordicesima magnitudine e un catalogo di posizioni stellari, misurate con estrema accuratezza, fino alla dodicesima magnitudine: questa fu la cosiddetta impresa della Carte du Ciel∗. Poiché le lastre erano di soli due gradi quadrati, le distorsioni erano piuttosto insignificanti, ma il numero di esposizioni necessarie era così grande che dopo molte decine di anni la fine non era ancora in vista. Nel 1928, Schlesinger dimostrò che su lastre più grandi, da cinque gradi quadrati, prese con buoni sistemi ottici, le posizioni delle stelle potevano essere determinate con la stessa precisione dei cerchi meridiani. Infatti, l’Astronomische Gesellschaft aveva già stabilito che il suo catalogo AG, iniziato negli anni Settanta, doveva essere ripetuto non mediante osservazioni con il cerchio meridiano, ma per mezzo di lastre fotografiche.

Con tutte queste nuove applicazioni

pratiche, rimaneva aperta la ricerca di una maggiore luminosità degli strumenti, per esempio con aperture degli strumenti più

∗ Ndr: riguardo all’impresa della Carte du Ciel, vedi il volume a cura di I. CHINNICI, La Carte du Ciel. Correspondance inédite conservée dans les Archives de l’Observatoire de Paris, Observatoire de Paris e Osservatorio Astronomico di Palermo, 1999.

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grandi. Il limite raggiungibile a quei tempi per le lenti obiettivo era di non più di 40 pollici [102cm] di diametro e, quindi, per raccogliere più luce, alla fine del diciannovesimo secolo, si tornò al riflettore. Uno specchio che non è attraversato dai raggi di luce, ma li riflette, può essere sostenuto posteriormente per impedire le flessioni dovute al peso. Inoltre, dandogli una forma parabolica, i raggi sono raccolti esattamente nel fuoco. In realtà, il campo corretto è piccolo, ma per studi su singole stelle, come, ad esempio, nel lavoro spettrale, questo non è un problema ed è possibile ottenere immagini nitide su un campo più grande ponendo una apposita lente correttrice tra lo specchio e la lastra fotografica, come ideato da Ross.

Dall’inizio del ventesimo secolo, si costruirono telescopi riflettori di dimensioni sempre più grandi; divennero comuni strumenti da 40 pollici di apertura e presto da 60, 70 e 80 pollici. Spicca, tra questi, il telescopio Hooker da 100 pollici [254cm] dell’osservatorio di Mount Wilson, progettato e costruito da Ritchey ed entrato in funzione nel 1919. Questo telescopio divenne famoso per la sua grandezza, per aver risolto i numerosi problemi di costruzione e ancor più per la quantità e la qualità delle ricerche svolte con esso. L’esperienza acquisita in questa costruzione stimolò un progetto che superava tutte gli altri: la costruzione di un telescopio da 200 pollici [508cm] La storia della sua graduale realizzazione, il sopraggiungere di difficoltà

e ripensamenti, prima che il telescopio fosse costruito su Mount Palomar, suona come un poema epico della tecnologia moderna.

Il moderno sviluppo di strumenti astronomici non sarebbe stato possibile senza l’evoluzione delle tecniche avvenuta nell’industria del diciannovesimo secolo, che rivoluzionò l’intero aspetto della società. La stessa precisione con cui gli esperti artigiani di un secolo prima producevano strumenti di alta perfezione era adesso una parte essenziale nella costruzione sempre più colossale dei moderni telescopi giganti. Come in altre macchine industriali la grande dimensione è qui strettamente unita alla precisione nel dettaglio. Nelle parti vitali, per assicurare l’esatta forma della superficie di vetro della lente o dello specchio, si richiedeva un controllo con una precisione del millesimo di millimetro, cui fornirono il loro aiuto le tecniche moderne. Il fatto che grandi e pesanti strumenti fossero mossi da un dito non era più considerato come eccezionale. Il vetro e le masse metalliche di centinaia di tonnellate sono mosse dai motori elettrici. L’astronomo, difficilmente visibile nella sua cabina vicino al piano focale dello strumento, è, per così dire, il piccolo cervello dell’enorme organismo d’acciaio e dirige tutti i movimenti della maestosa macchina con la semplice pressione di un pulsante. La precisione tecnica nel controllo elettrico degli strumenti giganti è la base materiale della moderna astronomia.

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CAPITOLO 33

DISTANZE E DIMENSIONI La conoscenza delle distanze e delle dimensioni è fondamentale per una buona concezione dell’universo. Alla fine del diciottesimo secolo, si era raggiunta un’idea approssimativa della distanza del Sole e delle dimensioni del sistema stellare, espresse dalla parallasse del Sole. Le dimensioni del sistema stellare, espresse dalla parallasse annua delle stelle, erano, però, completamente sconosciute.

La maggiore precisione raggiunta dagli sviluppi degli strumenti tecnici nel diciannovesimo secolo impose, come primo compito, ciò che si poteva chiamare uno studio ‘geodetico’ dello spazio. In questo, l’uomo si trovava a fronteggiare lo stesso tipo di problema di quando, confinato in pochi metri quadrati nella cima di una collina o di una torre, doveva determinare la distanza di torri o montagne lontane. Si dovevano misurare le parallassi e non si poterono determinare distanze attendibili né la struttura del mondo esterno finché non fu possibile misurare le parallassi al centesimo di secondo d’arco.

Il diciannovesimo secolo si espresse ai suoi più alti livelli con un trattamento più avanzato dei migliori e più importanti dati osservativi tramandati dal secolo precedente; Bessel fornì una nuova elaborazione delle osservazioni di Bradley delle posizioni stellari; Johann Franz Encke (1791-1865), astronomo di Gotha, fece una rielaborazione del transito di Venere per ricavare la parallasse solare. Nel 1788, il duca Ernesto II fondò un osservatorio sul Seeberg, vicino alla sua residenza di Gotha; nella sua piccola corte le scienze trovarono un grande favore, proprio come la letteratura lo trovava nella vicina corte di Weimar. Per un breve periodo Gotha fu in Germania un centro scientifico fiorente: nel 1796 vi si riunì un congresso astronomico e fu pubblicata una prima rivista di astronomia, chiamata Monatliche

Correspondenz, dal direttore F.X. von Zach. Anche Encke lavorò a Gotha, dopo il 1813, e vi si dedicò alle riduzioni delle osservazioni del transito di Venere, prima di essere chiamato a Berlino, nel 1825, ad ammodernarvi l’osservatorio.

In queste riduzioni, pubblicate nel 1822-1824, Encke applicò un nuovo principio ai trattamenti matematici dei fenomeni naturali, sviluppati soprattutto da Gauss negli anni passati. Nei secoli precedenti gli astronomi selezionavano, fra tutte le proprie osservazioni, quelle che sembravano le migliori. In questo modo, si esponevano al rischio di influenzare i dati o di selezionare quelli che mostravano un accordo non necessariamente realistico; non è irragionevole pensare che quei dati che, alla fine, erano in un qualche accordo potessero essere considerati i migliori. Ricordiamo come, con Tycho Brahe, il ciclo di differenze di ascensione retta su tutto il cielo fornisse una somma totale differente da 360° soltanto per pochi secondi, mentre ogni distinta differenza era incerta entro più di mezzo minuto. Nel diciassettesimo secolo, scienziati come Huygens e Picard si resero conto che la media di più misure equivalenti sarebbe stata migliore di una singola misura selezionata da un paio di quelle stesse misure e nel diciottesimo secolo questa media entrò sempre più in uso, sino a quando il concetto di errori casuali o probabili divenne sempre più chiaro. La nozione di ‘leggi del caso’ — già applicata da Huygens (‘plays of luck’), da Jan De Witt e da Halley (‘mortality tables’) — acquistò la sua forma puramente teorica un secolo più tardi, con la teoria degli errori sviluppata da Laplce e Legendre e con la legge quadratico-esponenziale degli errori di Gauss. Tutto ciò fornì agli astronomi che eseguivano i calcoli un metodo di trattamento di una serie di dati osservativi che escludeva qualsiasi

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arbitrarietà. D’ora in avanti si sviluppò un nuovo

atteggiamento, tipico dello scienziato del diciannovesimo secolo nei confronti del suo materiale: egli non doveva più selezionare da una massa di dati quelli che voleva, ma doveva riferirsi a un preciso metodo di esame della natura, una sorta di documentazione degli eventi. Egli trovava definito il suo metodo di lavoro nelle formule di calcolo sviluppate nel 1804 da Gauss, come ‘metodo dei minimi quadrati’. Con la condizione di minimizzare la somma totale dei quadrati degli errori residui, si trova il valore ‘più probabile’ dell’incognita. Adottando questa condizione per ciascuna incognita del problema, il valore più probabile di ognuna può essere tratto direttamente dalle equazioni. Questo nuovo metodo di calcolo fu accolto entusiasticamente dagli astronomi, che dovevano sempre lottare col problema di come ottenere il miglior risultato da numerosi dati; il ‘migliore’ veniva ora definito come il ‘più probabile’; tutte le indecisioni e i dubbi erano sostituiti da solide certezze. Inoltre, gli stessi scarti che rimanevano nei dati osservati, chiamati ‘errori’, permettevano la derivazione di un ‘errore medio’ e di un ‘errore probabile’, come indicatori obiettivi di una ineliminabile incertezza dei risultati.

Questo metodo, usato in seguito per tutte le ricerche astronomiche, fu applicato da Encke alle osservazioni del transito di Venere, che davano i momenti di immersione ed emersione. Se è nota, all’istante intermedio, la posizione relativa di Venere e del centro del Sole nelle due coordinate ed è nota anche la velocità dello spostamento relativo, si possono calcolare gli istanti di immersione ed emersione come se fossero osservati dal centro della Terra e poi, con l’aggiunta della parallasse relativa, per la stazione di osservazione. La differenza fra gli istanti osservati e calcolati (di emersione e immersione) era dovuta non solo a errori di osservazione, ma anche all’errore in ciascuna delle coordinate assunte (le velocità erano note con sufficiente precisione) e all’errore nelle

parallassi assunte. Ciascuna osservazione, da qualunque luogo della Terra, dava una relazione tra queste tre incognite; così esse potevano essere calcolate trattando tutte queste informazioni come un insieme di dati. Inoltre, Encke poteva aspettarsi un risultato sostanzialmente migliore rispetto a quello fornito dai precedenti calcoli, poiché ora erano state meglio determinate le fondamentali differenze di longitudine, rispetto all’Europa, per un certo numero di stazioni lontane a est o a ovest, come Hudson Bay, Tahiti, Orenburg, Pechino e altre; così egli ottenne un risultato per la parallasse solare il quale, dopo una ulteriore correzione nel 1835, fu data con la forma 8,57116 ± 0,0371”.

Una tale forma mostra come l’astronomia, già alla nascita del nuovo metodo di calcolo, rivelasse la capacità di ottenere risultati esatti. Secondo l’errore probabile dopo il segno ±, c’è una uguale probabilità che l’errore del risultato sia più grande o più piccolo di 0,0371”. È chiaro, poi, che i terzi e i quarti decimali nel risultato non sono soltanto senza valore ma persino senza senso, dal momento che il secondo decimale è già incerto. I moderni scienziati avrebbero scritto più ragionevolmente 8,57 ± 0,04”. Da ciò si vede che la reale incertezza era ancora sottovalutata.

Invece dei molti differenti valori, derivati dalle varie combinazioni dei dati, ora abbiamo un valore definito, derivato dalla loro totalità; questo valore è stato accettato e usato per mezzo secolo. Con il raggio conosciuto della Terra di 6377km, questo valore della parallasse solare fissava la distanza del Sole (o più esattamente il semiasse maggiore dell’orbita terrestre) a 153,3 milioni di km. Questa è l’unità astronomica di lunghezza (AU) in cui sono espresse tutte le distanze e le dimensioni del Sistema solare; il raggio solare ora trovato è 714.000km. A questa è legata anche la massa solare rispetto a quella terrestre; secondo la formula di Newton, la terza potenza del rapporto dei raggi delle orbite della Terra e della Luna (cioè, il rapporto delle parallassi della Luna e del Sole) divisa per il rapporto dei quadrati dei loro periodi

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di rivoluzione, dà il rapporto delle masse, per il quale si ottiene 356.000.

Questi sono soltanto numeri, di più o meno cifre. Per capire ciò che essi hanno significato per l’uomo, che ora comprendeva la dimensione dell’universo, dobbiamo analizzare la letteratura divulgativa che, a metà del secolo, diffuse l’interesse e la cultura scientifica tra larghe masse di gente. In questa letteratura, possiamo leggere che, se un cannone posto sul Sole sparasse un colpo verso di noi, verremmo colpiti solo 25 anni più tardi. In un libretto molto letto, An Imaginary Journey through the Universe, uno scrittore tedesco, Adolph Bernstein, trattò in modo piacevole prima l’enorme diametro del Sole e, poi, il suo volume, calcolato essere 3500 miliardi (3,5.1015) di miglia cubiche (un miglio geografico tedesco equivale a 7,5km); poi, in un capitolo intitolato “All respect for a Cubic Mile”, fece un tentativo, virtualmente fallito, di riempire una scatola di un miglio cubico con tutte le città e tutti i popoli della Terra, e ugualmente di contare il numero di queste scatole, il che avrebbe richiesto milioni di anni. Contro questo piacere di trattare con grandi numeri, F. Kaiser, restauratore dell’astronomia a Leida e noto scrittore di successo, puntualizzò che la grandezza dell’universo non consiste nella sua scala ma nel suo ordine come stabilito dalle leggi universali.

Nella prima metà del nuovo secolo, si

affrontò anche il problema delle stelle fisse. Gli astronomi del diciottesimo secolo avevano fallito ripetutamente i loro tentativi di trovare una parallasse annua delle stelle. Fraunhofer, però, aveva fornito strumenti tanto eccellenti che ci si poteva aspettare risultati migliori; per prime dovevano essere esaminate le stelle che si presumeva fossero più vicine a noi, per le quali ci si poteva aspettare una parallasse maggiore. Nel discutere le osservazioni di Bradley, Bessel si era imbattuto in una stella di quinta magnitudine nel Cigno (61 Cygni) che aveva un moto proprio estremamente ampio (di 5,2” all’anno), sicuramente una indicazione di prossimità. Negli anni 1837-40, egli

misurò ripetutamente, con il proprio eliometro, la sua distanza angolare da due deboli stelle, a circa 8’ e 12’ di distanza; poiché le sue misure erano molto accurate (con un errore medio di soli 0,14” per una notte di osservazione), il cerchio parallattico che essa descriveva annualmente era molto ben osservabile. Nel 1838, la parallasse fu trovata essere 0,31”, nel 1840, 0,348”: ne derivava una distanza per 61 Cygni di 590.000AU.

Nello stesso tempo Struve a Dorpat affrontò il problema inserendo un micrometro filare nel telescopio rifrattore 24cm di Dorpat. Egli scelse la stella Vega (α Lirae∗) per la luminosità, il considerevole moto proprio (0,35” all’anno) e la posizione vicino al polo dell’eclittica, cosicché la sua orbita annuale risultava essere praticamente circolare. Le osservazioni di Struve, del 1835-38, fornirono una parallasse di 0,26”. Contemporaneamente, Henderson, direttore del Cape Observatory, e il suo successore, Maclear, osservarono la stella meridionale di prima magnitudine α Centauri. Per molte ragioni, si sospettava che questa stella fosse molto vicina: aveva un ampio moto proprio, di 3,7” annui, ed era una binaria che descriveva in un breve periodo un’ampia orbita, che si poteva supporre apparisse ampia solo per la sua prossimità. Le osservazioni erano fatte per mezzo di un normale circolo murale, quindi, di gran lunga meno accurato; ma ottennero (nel 1839-40) un’ampia parallasse di 0,91”. Successivamente, misure più esatte ridussero questo valore a 0,76”, quella che è ancora oggi la più grande fra tutte le parallassi stellari: così α Centauri rimase il nostro vicino più prossimo nel mondo delle stelle, a una distanza di 270.000AU.

Finalmente, veniva risolto il vecchio problema posto da Copernico con la misura della distanza di tre stelle vicine.

«Mi congratulo con voi e con me stesso, che abbiamo vissuto [...] per vedere la grande, e finora invalicabile, barriera alle nostre escursioni nell’universo siderale, quella barriera con cui ci siamo scontrati così a lungo e così vanamente [...]

∗ Ndt: nel testo originale di Pannekoek è “γ Lyrae”.

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quasi simultaneamente superata in tre punti diversi. È stato il più grande e glorioso trionfo che l’astronomia pratica abbia mai testimoniato».[193]

Così affermò John Herschel, nelle vesti di presidente della Royal Astronomical Society, quando spiegò perché aveva assegnato la Gold Medal a Bessel, e aggiunse che, considerando i molti falsi annunci di parallassi stellari negli anni precedenti, ci poteva essere una certa esitazione riguardo ai risultati di Struve e Henderson. I risultati di Bessel, però, mostrando chiaramente la regolare crescita e diminuzione nelle distanze misurate in un periodo di un anno, non potevano lasciare il minimo dubbio sulla veridicità della parallasse trovata.

È facile comprendere come questi esempi incitassero gli astronomi a seguire la stessa via e a determinare le parallassi di altre stelle, preferibilmente quelle con rapido moto proprio. A questo punto, però, sopravvenne il disappunto. I risultati di diversi osservatóri esperti per la stessa stella, benché derivati da serie di misure fatte con gran cura, mostravano differenze di gran lunga maggiori di quanto ci si aspettasse dopo l’accordo interno di ciascuna serie. Questo era il caso, per esempio, di una stella di 7a magnitudine nell’Orsa, la 1830 del catalogo di Groombridge, che aveva un moto proprio di 7,07”, superiore a quello della stella di Bessel; la sua parallasse, misurata con l’eliometro di Königsberg, risultò essere 0,182”, ma con il micrometro filare dell’Osservatorio di Pulkovo, risultava 0,034”, 1/5 del risultato precedente. Per 61 Cygni, il risultato finale dei parecchi anni di misure continue di Bessel dava 0,35”; ma Otto Struve a Pulkovo trovò 0,51”. Ovviamente queste misure soffrivano di grossi errori sistematici, la cui origine non poteva essere supposta in modo accurato: differenze annuali nella temperatura, differente aspetto per la dispersione atmosferica, errori personali nell’indicare stelle di diversa luminosità, essendo di solito le stelle di confronto più deboli della stella in esame. Così, la determinazione della parallasse divenne la prova più severa della infinita e minuta accuratezza nell’effettuare

misure e nell’eliminazione dell’origine delle sorgenti di errore. L’eliometro rimase lo strumento preferito e fu soprattutto David Gill (1843-1914), prima in Scozia e dopo a Cape Town, che dal 1870 in poi mostrò come, utilizzando questo strumento in modo appropriato, si potessero ottenere risultati affidabili. Gill e il suo assistente, Elkin, misurarono le parallassi di numerose stelle settentrionali, poi questo lavoro fu continuato dal solo Elkin allo Yale Observatory a New Haven, Connecticut, misurando con cura una certa quantità di parallassi di stelle nell’emisfero settentrionale.

I risultati ottenuti per le prime dozzine di parallassi permettevano di trarre alcune conclusioni generali. Valori medi erano già stati tratti negli anni quaranta da Peter a Pulkovo; per la parallasse media di una stella di 2a magnitudine, egli trovò il minuscolo valore di 0,017”, e per stelle più deboli doveva essere ancora più piccolo. Ma divenne sempre più chiaro quanto piccoli dovessero essere questi valori medi. Tra le stelle più luminose misurate da Elkin si trovano alcune grandi parallassi: 0,76” per α Centauri, 0,38” per Sirio, 0,32” per Procione, 0,24” per Altair; ma anche valori molto piccoli come 0,028” per Betelgeuse e 0,008” per Rigel. Quest’ultima, che ha la stessa magnitudine apparente di α Centauri, deve trovarsi, per i valori di parallasse misurati, circa un centinaio di volte più lontana, perciò deve essere 10.000 volte più luminosa. Al contrario, furono trovate grandi parallassi per stelle molto deboli che potevano essere selezionate, tra le altre, come stelle vicine solamente per il loro rapido moto proprio, come Lalande 211885 di 7a magnitudine, con 0,40”, e la stella di Kapteyn di 8a magnitudine, con 0,32” di parallasse. Quest’ultima, essendo alla stessa distanza di Procione, deve avere soltanto 1/1000 della sua luminosità. Si trova, allora, che c’è una così grande varietà nella luminosità delle stelle che una può essere milioni di volte più luminosa di un’altra.

Mentre la conoscenza delle distanze nel

mondo delle stelle più vicine progrediva

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gradatamente, la determinazione della loro unità fondamentale, espressa dalla parallasse solare, era entrata in un’epoca drammatica. La tranquilla assicurazione che, nei risultati di Encke, portava a un errore relativo dello 0,5%, fu scossa, circa alla metà del secolo, da una serie di scoperte. Tra le perturbazioni sull’orbita lunare causate dal Sole, c’è un termine di 125”, chiamato ‘equazione parallattica’ (già menzionata nel capitolo 30), che dipende dal rapporto fra le parallassi del Sole e della Luna. Da questo rapporto, nel 1857 e nel 1863, Hansen, nella sua teoria sulla Luna, derivò un valore di 8,92” per la parallasse solare; allo stesso tempo, Leverrier trovò una parallasse solare di 8,95” dalla massa della Terra, ricavata per mezzo della sua azione perturbatrice su Venere e Marte.

Un’altra critica proviene dai fisici. Precedentemente la velocità della luce era sempre stata derivata da dati astronomici — poiché la costante di aberrazione fissa il rapporto fra la velocità della luce e la velocità della Terra — combinati con la velocità della Terra. La costante di aberrazione, 20,44” secondo nuove misuredi Otto Struve, e la velocità della Terra, 30,56 km/s dalla misura di parallasse solare di Encke, portavano al valore di 308.000 km/s. Ma ora si trovarono dei metodi per misurare direttamente la velocità della luce mediante degli esperimenti fisici: prima (nel 1849), con Fizau, tramite una ruota dentata, poi (nel 1862), più accuratamente, da Focault con uno specchio rotante; questi fornivano valori decisamente più piccoli, 298.000 km/s. La costante di aberrazione non poteva avere una incertezza superiore a 0,1” (1/200 del suo valore), così Focault indicò immediatamente che la parallasse solare adottata era errata e doveva essere ancora accresciuta fino a 8,8”.

Sorse, allora, una sorta di sfiducia per quanto riguardava i transiti di Venere e si rivolse l’attenzione al vecchio metodo di misurare direttamente la parallasse di Marte durante un’opposizione favorevole; adesso, si potevano aspettare dei risultati migliori che nei precedenti secoli, poiché la precisione delle osservazioni era di molto cresciuta. All’opposizione al perielio del

1862, gli osservatòri settentrionali e meridionali effettuarono numerose misure della declinazione di Marte; un’analisi preliminare forniva 8,96” e 8,93” e si credette che il reale valore dovesse essere vicino a 8,90”. Inoltre, una nuova analisi del transito di Venere del 1769 fu intrapresa, nel 1864, da Powalky; poiché aveva a disposizione di un maggior numero e di migliori longitudini rispetto a Encke e interpretando alcune osservazioni in modo diverso, egli ottenne un risultato diverso, cioè 8,83”. Così, i risultati di Encke dovevano essere interamente abbandonati e il mondo dell’astronomia poteva affrontare senza pregiudizi il problema di quale fosse, tra 8,80” e 8,90”, il valore reale della parallasse solare.

Gli astronomi cominciarono a prepararsi per i successivi transiti di Venere, che avrebbero avuto luogo l’8 dicembre del 1874 e il 6 dicembre del 1882. Non si limitarono al metodo di Halley, secondo il quale si osservavano soltanto i momenti di immersione ed emersione, proposto quando c’era poca precisione nelle misure dirette: si poteva trarre il massimo vantaggio dall’avvenimento solamente misurando la posizione di Venere sul disco solare durante l’intero tragitto. Vennero mandate delle spedizioni in tutte le parti del mondo: dieci spedizioni tedesche furono distribuite su tutti i continenti, tutte fornite di eliometri simili, considerati i migliori strumenti per questo scopo; le spedizioni inglesi e americane usarono telescopi fotografici, così che la posizione di Venere sul Sole si sarebbe potuta ottenere misurando le lastre fotografiche in seguito. Nelle riduzioni si spese un’enorme quantità di lavoro: i risultati delle spedizioni tedesche furono pubblicati venti anni più tardi in cinque grossi volumi, mentre il lavoro degli inglesi e degli americani fu solo di poco inferiore. I risultati furono piuttosto deludenti: la relazione inglese fornì 8,76” (Airy), 8,88” (Stone), 8,81” (Tupman); dalle fotografie americane, Todd calcolò 8,88”; dalle misure dell’eliometro tedesco del 1874, Auvers trovò 8,88 ± 0,04”. Non solo differivano i valori di origine diversa, ma gli errori medi

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aggiunti mostravano anche una mancanza di accordi interni. Si può capire, in realtà, come nel misurare le posizioni di un oggetto contro lo sfondo luminoso del Sole, con i raggi luminosi che attraversano strati di aria caldi e turbolenti, ci si trovi in una condizione peggiore di quando si utilizzi lo stesso strumento per l’osservazione notturna delle stelle.

Quando, nel 1877, ci fu una nuova opposizione di Marte al perielio, David Gill portò il suo eliometro dalla Scozia all’isola di Ascensione, vicino all’equatore, per calcolare la parallasse misurando la posizione di Marte fra le stelle, a est di sera, a ovest di mattina. Mentre era richiesta la collaborazione di osservatóri settentrionali e meridionali per l’effetto nord-sud della parallasse, l’effetto est-ovest poteva essere misurato da un unico osservatore, cosicché le differenze personali avevano molto meno importanza. Le stelle potevano essere fatte coincidere con il centro del disco planetario molto accuratamente e il risultato, 8,78”, fu considerato estremamente attendibile.

Precedentemente, era già stata espressa l’idea —da Galle per primo, nel 1872 — che ci si doveva aspettare maggiore accuratezza e specialmente una maggiore indipendenza dagli errori sistematici se invece di Marte si fosse usato un piccolo pianeta con un’immagine puntiforme. Inoltre, si dovevano scegliere degli oggetti con un perielio il più possibile vicino al Sole e alla Terra. Queste distanze minime dalla Terra per i pianetini scelti (Iris, Vittoria e Saffo) sono 0,83 o 0,84 AU, certamente grandi paragonate alle 0,37 AU, la distanza di Marte, cosicché le parallassi da misurare erano molto più piccole. Ci si aspettava comunque che quello che si sarebbe perso per questo problema sarebbe stato guadagnato dall’assenza di errori sistematici. Furono accuratamente selezionate e stabilite le stelle di confronto di uguale magnitudine; fu progettato un vasto programma di misure con strumenti meridiani ed eliometro per le posizioni dei pianeti rispetto alle stelle. Le campagne di osservazione del 1888 e del 1889, cui presero parte numerosi osservatòri a nord e a sud, raggiunsero le aspettative: il

risultato di un’accurata indagine e discussione degli errori eseguita da Gill fu 8,802”.

La convinzione che si fosse sulla strada giusta e che la parallasse solare fosse vicina a 8,80” non poteva essere scossa dai valori discordanti che derivavano dal transito di Venere, dove erano presenti tanti punti sospetti. Inolte, venne rafforzata dai risultati fisici: la velocità della luce fu determinata da Michelson e Newcomb, usando il metodo di Foucault, in 299.860 ± 60 km/s, dunque, con un errore relativo di 1/5000; combinata con una costante di aberrazione di 20,47” ± 0,02” forniva una parallasse solare di 8,80”, con una incertezza non superiore a 0,01”.

Il meglio doveva ancora venire. Nel 1898, Gustav Witt, a Berlino, scoprì un pianetino — il n. 433, in seguito chiamato Eros — la cui orbita non era situata fra Marte e Giove, ma, al perielio, entrava all’interno dell’orbita di Marte, avvicinandosi alla Terra. Solamente grazie a un approccio così ravvicinato era stato possibile scoprire il minuscolo corpo; i calcoli mostravano che nella opposizione del 1900-1901 si sarebbe avvicinato alla Terra a 0,27 AU e, nell’opposizione del 1930-31, ancora più vicino, a 0,17 AU. Con un colpo di fortuna, gli astronomi conobbero un corpo celeste che meglio di qualsiasi altro fornisse la desiderata parallasse solare con un valore della più alta precisione. Da un’analisi completa di tutti i dati di Hinks, l’opposizione del 1900-1901 dette 8,807” ± 0,003” dalle misure fotografiche e 8,806”± 0,004” dalle misure visuali.

Il ventesimo secolo aggiunse nuovi risultati della stessa alta qualità. Le stelle sull’eclittica mostravano variazioni periodiche annue di velocità radiale, perché la Terra alternativamente si avvicina e si allontana da loro. Hough, nel 1912, con misure spettroscopiche, determinò la velocità orbitale terrestre, da cui fu ricavata una parallasse solare di 8,802”; dalle forti perturbazioni su Eros causate dalla Terra, Noteboom, nel 1921, derivò la massa della Terra, che forniva una parallasse di 8,799”. A Cape Town, nel 1924, Spencer Jones derivò un valore di 125,20” per la

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diseguaglianza parallattica lunare, da cui ricavò una parallasse solare di 8,805”; poi De Sitter, a Leida, fece un’esauriente discussione di tutte le costanti astronomiche in reciproca relazione, da cui la parallasse solare risultava 8,803” ± 0,001”; questo non significa che il terzo decimale fosse ora certo. Nel 1929, Spencer Jones fece una nuova analisi di un insieme ancora più completo di occultazioni lunari delle stelle, che fornì una diseguaglianza parallattica di 125,02” ± 0,033” e una parallasse solare di 8,796 “± 0,002”.

Per l’ancora più propizia opposizione di Eros, nel 1930-31, fu organizzata una grande campagna di osservazioni con strumenti meridiani, micrometri e lastre fotografiche, alla quale presero parte, con le loro migliori attrezzature, circa quaranta osservatòri boreali e australi; la riduzione richiese dieci anni e nel 1942, durante la guerra, Spencer Jones, allora a Greenwich, pubblicò il risultato: 8,790” ± 0,001”. Considerando l’ampiezza della collaborazione, la grande quantità dei dati osservativi, la precisione dei metodi usati, l’attenta eliminazione delle sorgenti di errore e l’accurata analisi, si può dire che nell’immediato futuro non ci dobbiamo aspettare un’altra determinazione della parallasse solare di qualità analoga o superiore∗.

Questo non significa che ora va tutto bene e che gli astronomi a questo riguardo sono liberi da ogni preoccupazione. Questo ultimo ‘miglior’ valore si discosta nuovamente dai precedenti ‘migliori’ valori di più di quanto ci si potrebbe aspettare dai loro errori medi: ci devono essere ancora delle sorgenti nascoste di errori sistematici. Eros non è un globo di forma regolare; si sospetta che sia un corpo irregolare e allungato oppure un corpo doppio; per avere dei risultati che non ∗ Ndr: si ricorda che la prima edizione di questo libro è del 1951, pertanto non riporta aggiornamenti successivi. Negli anni Sessanta del Novecento, misure dirette dell’Unità Astronomica sono state eseguite inviando segnali radar su Venere, Marte e Mercurio. Più recentemente, le sonde spaziali hanno migliorato la precisione delle misure. Il valore adottato oggi dall’IAU è 1 AU = 149.597.870 km, che corrisponde ad una parallasse solare pari a 8,79415” ± 0,00001”.

siano influenzati da tali irregolarità, si sarebbero dovute effettuare simultaneamente le fotografie dalle stazioni boreali e australi. Così, l’indicazione 0,001” non dovrebbe essere presa alla lettera; tuttavia, come era avanzata la nostra conoscenza!

La storia della determinazione della parallasse solare è uno dei più straordinari esempi di quella che è stata chiamata la ‘lotta all’ultimo decimale’. Un decimale in più significa progressi enormi, la diminuzione dell’errore possibile a un decimo del suo valore precedente. Alla fine del diciassettesimo secolo, si sapeva che la parallasse solare era circa 9”, con l’incertezza di alcuni secondi d’arco, ovvero di 1/3 del suo valore. Dopo le spedizioni di Venere del diciottesimo secolo, il suo valore era ritenuto essere tra 8,5” e 9”, con un’incertezza di alcuni decimi, 1/30 del suo valore. Verso la fine del diciannovesimo secolo, dopo alcune esitazioni, il suo valore si poteva affermare che fosse vicino a 8,80”, con un’incertezza di alcuni centesimi di secondo d’arco solamente, equivalente a 1/300 del suo valore. E oggi noi possiamo, con una certa sicurezza, aggiungere un terzo decimale, con la certezza che esso è esatto per qualche millesimo di secondo d’arco, cioè 1/3000 del suo valore.

Dalla parallasse solare e dal raggio equatoriale della Terra (6378km), l’Unità Astronomica è ora posta pari a 149,7 milioni di km, 1/37 inferiore al valore di Encke; questa non è solo l’unità per le distanze, ma anche per le dimensioni dei corpi celesti. Per ricavare queste ultime, si devono misurare accuratamente i diametri apparenti e questo divenne possibile nel diciannovesimo secolo per mezzo degli strumenti di Monaco. Poiché i fenomeni di diffrazione dei raggi di luce che attraversano grossi fili impediscono l’uso dei micrometri filari, l’eliometro è lo strumento adottato per la misura di diametri, portando a contatto le due immagini di un disco luminoso. In questo modo, Bessel fu il primo a ottenere risultati utilizzabili; dopo di lui, Johnson e Main a Oxford, Kaiser a Leida (con un micrometro a doppia immagine più semplice, utilizzato accuratamente) e Hartwig a Bamberg lavorarono lungo la

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stessa linea. Il semidiametro di Mercurio trovato fu di 2380km (da Kaiser), di Venere e Marte 6372 e 3370km (da Hartwig); così, con la Terra, essi formano il gruppo interno dei pianeti più piccoli. Per Giove e Saturno, Kaiser trovò un raggio equatoriale di 70.550 e 59.310km, 11 e 9 volte più grandi di quello terrestre; il diametro polare è considerevolmente più piccolo, essendo l’appiattimento 1/17,1 per Giove, 1/9,2 per Saturno. Il semidiametro del Sole, per il quale era richiesta una speciale tecnica di misura, ammonta a 696.400km, 109,2 volte più grande di quello terrestre.

Paralleli a questi sviluppi andavano i problemi connessi alle distanze stellari. Verso la fine del diciannovesimo secolo, quando la fotografia veniva sempre più usata in astronomia, specialmente per la determinazione delle posizioni, si fecero anche i primi tentativi di usarla per le parallassi stellari, inizialmente con scarsi risultati; sembrava che gli errori sistematici viziassero i risultati più che nel caso delle misure visuali. Diverse cause potevano essere trovate nei processi fotografici o di osservazione: la stella in esame, della quale era richiesta la parallasse, era di solito molto più luminosa delle stelle di confronto, che generalmente apparivano sulla lastra come piccoli e deboli dischi. Se per qualche ragione, parte della luce cadeva come una macchia attorno al suo vero punto centrale, l’impressione della stella debole era troppo inconsistente per lasciare una qualche traccia, mentre l’immagine della stella luminosa era in qualche modo disturbata o addirittura leggermente spostata; una tale deviazione poteva essere causata dalla rifrazione, quando, durante l’esposizione, il campo osservato si avvicinava all’orizzonte. L’osservatore, ‘inseguendo’ con il telescopio visuale di guida, manteneva la stella esattamente nel crocicchio, ma, a causa della dispersione atmosferica, l’immagine fotografica deviava gradatamente dall’immagine visuale. Questa spiegazione degli errori sistematici rese possibile la loro eliminazione: abolendo la differenza di luminosità ed esponendo le lastre quando l’altezza della stella non cambiava, cioè al

meridiano. Un tentativo venne compiuto da Frank Schlesinger, che nel 1903 iniziò a esporre lastre per la parallasse col rifrattore da 40 pollici [102cm] dell’osservatorio di Yerkes, proseguendo poi, dal 1905, con un rifrattore fotografico all’Allegheny Observatory. La luminosità era uniformata utilizzando uno schermo con dei settori vuoti adattabili, rapidamente rotanti davanti alla posizione sulla lastra dove si stava formando l’immagine dell’oggetto luminoso, cosicché quella posizione era illuminata solo per pochi istanti; i settori erano aperti a un’ampiezza tale che questa immagine corrispondesse alla misura media della stella di confronto. Poiché, inoltre, le lastre erano prese simmetricamente intorno al meridiano — tra un’ora prima e un’ora dopo il passaggio — e la lunga focale dello strumento forniva una grande scala, i risultati si presentarono subito altamente accurati e affidabili. Gli errori casuali delle sue parallassi erano non più di 0,01” e diminuirono nel corso del lavoro.

Questo tentativo fu subito seguito da altri osservatòri. Ne risultò una regolare collaborazione sulle parallassi stellari con sei osservatòri: Greenwich, Cape Town e quattro americani, dotati di rifrattori a lunga focale o altri strumenti superiori, tutti con lo stesso standard di precisione. Quando si confrontarono i risultati dei differenti osservatòri per la stessa stella, non apparvero più le grosse differenze di prima. Le differenze, al massimo di alcuni centesimi di secondo, testimoniavano il nuovo alto livello di precisione; il numero di parallassi affidabili aumentò nei primi decenni del ventesimo secolo da decine a centinaia e infine a migliaia. Il General Catalogue di Schlesinger, del 1924, conteneva 1870 stelle e questo numero stava crescendo. Ora erano disponibili le misure di parallasse per tutte le stelle facilmente visibili a occhio nudo e per numerose stelle telescopiche con un ampio moto proprio. La conoscenza, precedentemente limitata a poche stelle, viene ora estesa alle migliaia di stelle che formano il nostro più vicino universo. Adesso si possono calcolare le loro distanze; l’unità generalmente usata è il

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‘parsec’, la distanza alla quale la parallasse risulta pari a un secondo d’arco, mentre, nei libri divulgativi, si trova spesso l’anno luce, circa 1/3 di parsec. La disposizione relativa delle stelle che ci circondano, a distanze non troppo grandi, può essere rappresentata in un modello spaziale; ovviamente a distanze non troppo grandi, poiché le parallassi diventerebbero troppo incerte. Se una parallasse è determinata a 0,01”, con una incertezza pure di 0,01”, significa che essa è probabilmente fra 0 e 0,02” cosicché la sua distanza è probabilmente superiore a 50 parsec: di quanto, non lo sappiamo. Si hanno anche valori negativi delle parallassi; significa che una piccola parallasse positiva, per errori casuali, è divenuta inferiore a zero oppure che la parallasse della stella in esame è inferiore alle piccole parallassi delle stelle di confronto. Benché tali parallassi negative

non abbiano significato per una singola distanza, non dovrebbero essere omesse dalle ricerche statistiche che vengono utilizzate per definire i valori medi.

Il problema fondamentale delle parallassi e delle distanze delle stelle fisse è così risolto. Originariamente, mirando a una dimostrazione della veridicità del sistema eliocentrico, questo problema era anche ispirato dal desiderio di acquisire la conoscenza delle distanze nel mondo delle stelle. Una volta calcolate alcune dozzine di parallassi stellari, queste potevano già essere usate per un trattamento statistico delle stelle circostanti più vicine. Con le migliaia di parallassi ora a nostra disposizione ci si può aspettare una comprensione più profonda delle strutture e delle caratteristiche del mondo siderale.

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CAPITOLO 34

LA MECCANICA CELESTE Già con il titolo del suo lavoro, Mécanique Céleste, Laplace aveva definito un programma di astronomia teorica. La meccanica è la scienza delle forze e dei moti. Attraverso la legge della gravitazione di Newton le forze erano conosciute tramite la loro dipendenza dalla posizione; poi si presentò il compito di calcolare le caratteristiche generali delle orbite dei corpi, attraverso l’integrazione delle equazioni differenziali, che esprimevano questa dipendenza. Le particolari dimensioni delle orbite e le costanti che le determinano dovevano essere derivate dalle osservazioni.

L’astronomia divenne così la scienza del paziente calcolo; oltre alla pratica dell’instancabile osservazione e misura, l’infaticabile calcolo vi si affiancò a pari merito nell’astronomia pratica. Consisteva in due tipi di lavoro: il primo, la risoluzione teorica del problema matematico, risultante in un insieme di formule, che mise alla prova l’intelligenza e l’ingegnosità dei più brillanti matematici; il secondo, l’elaborazione pratica di questa teoria in calcoli numerici, che diede vita a colonne di numeri e tabelle senza fine. L’astronomia in questi anni era l’unica scienza della natura in cui l’esatta pratica del calcolo fosse un’attività importante; il calcolo era il compito quotidiano, cosicché le tecniche e i metodi di calcolo erano progettati e migliorati, nell’astronomia, con diligente pratica. Inoltre, l’astronomo che osservava i corpi celesti nel telescopio aveva gli stessi meriti dell’astronomo che, alla propria scrivania, seguiva con la penna i corpi celesti nel loro moto; spesso, entrambi prendevano corpo nella stessa persona.

Presto ci fu molto lavoro da fare, innanzitutto nel campo del semplice problema del moto di due corpi sottoposti alla sola attrazione solare. Le comete apparivano come deboli, piccole nebulose,

ma, nonostante ciò, venivano continuamente scoperte da diligenti ‘cacciatori di comete’ e si dovevano calcolare le loro orbite nel sistema planetario. Tali orbite erano state calcolate anche nel diciottesimo secolo, ma con difficoltà: dopo le prime indicazioni di Newton, vari matematici si erano occupati del problema e Laplace aveva trovato delle formule per il calcolo di una parabola attraverso approssimazioni successive, ma il procedimento era scomodo e poco soddisfacente. L’applicazione degli astronomi che vi si applicarono consentì di giungere alla risoluzione del problema prima della fine del secolo. Nel 1797, Wilhelm Olbers (1758-1840) pubblicò il suo trattato Ueber die leichteste und bequemste Methode die Bahn eines Cometen aus einigen Beobachtungen zu berechnen (“Sul Metodo più facile e più semplice di calcolare l’orbita di una cometa da parecchie osservazioni”). Olbers, medico a Brema con un’intensa attività, era allo stesso tempo un astronomo pratico che, di notte, osservava le stelle e le comete e ne calcolava le orbite. Benché fosse un dilettante, egli era molto stimato dagli astronomi. Aveva escogitato, da solo, un metodo per calcolare le orbite e lo praticò per molti anni, senza sospettare (nella semplicità dell’epoca) che fosse qualcosa di speciale, finché i suoi amici non lo convinsero che meritava di essere divulgato. Durante tutto il diciannovesimo secolo, il suo metodo fu usato da successive generazioni di astronomi giovani e vecchi, alcuni dei quali riuscirono a migliorarlo soltanto nei dettagli.

Ma c’era anche altro, oltre alle comete e alle loro orbite paraboliche. Nella struttura del sistema planetario, aveva spesso richiamato l’attenzione la regione vuota fra l’orbita di Marte e di Giove, proprio quella regione nella quale Keplero aveva inserito il suo tetraedro. Le conoscenze del

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diciottesimo secolo sull’origine del sistema planetario non erano riuscite a spiegare quel vuoto, che apparve ancor più evidente quando la successione delle distanze fu ridotta in una serie, la cosiddetta ‘legge di Titius’ o ‘di Bode’: Titius l’aveva pubblicata in una minuscola postilla di un libro [ndr: di Wolf] tradotto [ndr: nel 1766], e Bode l’aveva riesumata e pubblicata nel 1772. Questa legge fornisce la misura delle orbite dei pianeti da Mercurio a Urano con i numeri:

4; 4 + 3 = 7 4 + 2 x 3 = 10 4 + 4 x 3 = 16

ecc., fino a: 4 + 64 x 3 = 196,

ma 4 + 8 x 3=28

doveva essere omesso: non c’era nessun pianeta conosciuto a quella distanza.

Così l’attenzione fu diretta verso questo presunto pianeta e fu espressa l’opinione che si doveva seguirne le tracce, ma il nuovo pianeta fu trovato per caso. Il primo giorno del nuovo secolo, 1 gennaio 1801, Giuseppe Piazzi, a Palermo, osservò una debole stella di 7a magnitudine che si spostava nel campo che stava osservando. Dapprima la considerò una cometa, dall’aspetto simile a una stella senza nebulosità, ma presto si comprese che doveva essere un nuovo pianeta, con un periodo di rivoluzione di circa 4 anni, in seguito chiamato “Ceres”, il nume tutelare della Sicilia. La scoperta fu fatta conoscere agli astronomi stranieri per lettera, ma la comunicazione in quei giorni era lenta perché l’Italia era piena di eserciti in guerra, così il pianeta, prima di essere osservato da altri, era stato raggiunto dal Sole. Piazzi aveva fatto numerose osservazioni, ma non le divulgò per poterle pubblicare insieme all’orbita calcolata anche dagli altri astronomi. Si dedicò a questo compito senza molto successo, poiché non esisteva un metodo regolare per calcolare un’orbita dalle osservazoini di un arco di soli pochi gradi. Quando si cercò il pianeta nella posizione calcolata, dopo il periodo di invisibilità, esso non era lì, era stato perso e non si poté

ritrovare. Poi, il giovane genio matematico, Carl Friedrich Gauss (1777-1865), che si dedicò al problema delle orbite planetarie, volse la sua attenzione al pianeta perduto. Dalle osservazioni di Piazzi, egli calcolò l’orbita con il suo nuovo metodo e il pianeta venne ritrovato, prima della fine dell’anno, nella posizione da lui predetta, abbastanza diversa rispetto ai precedenti calcoli.

Il successo di un’ingegnosa teoria diede grande importanza al metodo di Gauss per il calcolo delle orbite durante l’intero diciannovesimo secolo. La teoria di Gauss fu sviluppata per esteso nella sua Teoria motus corporum caelestium, che apparve nel 1809: nella forma e nel metodo, il testo più perfetto sul moto lungo orbite imperturbate. Mentre il metodo di Olbers presupponeva che l’orbita fosse una parabola determinata da 5 elementi, il metodo di Gauss non fa alcuna supposizione circa la forma e il carattere dell’orbita; il carattere della sezione conica espresso dall’eccentricità viene derivato come uno dei 6 elementi calcolati.

Questo metodo trovò presto una successiva applicazione. Nella regione dove Gauss ritrovò Ceres, Olbers, nell’aprile del 1802, scoprì un’altra stella in movimento di 7a magnitudine, un secondo piccolo pianeta chiamato “Pallas”, che aveva un’orbita pressoché della stessa dimensione, ma fortemente inclinata rispetto all’eclittica. Negli anni successivi vennero scoperti due altri pianeti: Juno, scoperto da Harding nel 1804, e Vesta, scoperto da Olbers nel 1807. In entrambi i casi, il metodo di Gauss, dopo un breve periodo di osservazione, fornì gli elementi orbitali, per mezzo dei quali i nuovi pianeti vennero confermati e le loro orbite calcolate in anticipo.

Così era colmata la lacuna tra Marte e Giove, ma in un modo abbastanza inatteso: con quattro piccoli pianeti al posto di uno grande. Essi erano oltre un migliaio di volte più deboli di Marte e Giove, somigliavano esattamente a stelle e rappresentavano un altro tipo di corpi celesti, che vennero chiamati ‘pianetini’ o ‘asteroidi’, o semplicemente ‘pianeti minori’. Avevano delle orbite pressoché delle stesse

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dimensioni, 2,3 - 2,8 volte l’orbita terrestre e periodi di rivoluzione fra i 3,6 e i 4,6 anni.

Per circa 40 anni il loro numero rimase 4; gli astronomi però erano convinti che ve ne fossero altri, perciò, per scoprirli nella maniera più semplice, l’Accademia di Berlino organizzò la realizzazione di mappe stellari che coprissero la fascia dello zodiaco e contenessero tutte le stelle fino alla 9a magnitudine. Ciò fu reso possibile con la cooperazione di circa 20 astronomi, ciascuno dei quali si occupava di un campo di 15° quadrati, inserendo le stelle dei cataloghi secondo le loro coordinate e successivamente la grande quantità delle altre stelle con stime visive al telescopio. Così venne favorito, nel 1845, il succedersi di un regolare flusso di nuove scoperte che crebbe rapidamente. Nel 1852, il numero di pianeti minori era salito a 20; nel 1870, raggiunse i 110. Ovviamente, si trattava di corpi sempre più piccoli e la luminosità degli ultimi scoperti scese fino alla 9a magnitudine, poi sempre più in basso, alla 10a, alla 11a e alla 12a magnitudine. Le mappe stellari di Berlino, ora, non erano più utili; i principali scopritori, come C.H.F Peters a Clinton e Palisa a Vienna, dovettero fare nuove mappe, poi pubblicate, per includere stelle più deboli. In seguito, Palisa semplificò il lavoro, usando fotografie ottenute con lunghe esposizioni da Max Wolf a Heidelberg, con un obiettivo a grande campo, e ne pubblicò le riproduzioni. Riuscì, in questo modo ad aggiungere circa un centinaio di asteroidi alla lista.

Un nuovo e più efficiente metodo fotografico fu introdotto da Max Wolf, nel 1891 circa. Quando fotografò un vasto campo stellare, con un’esposizione di parecchie ore della camera fotografica che seguiva con precisione le stelle, il movimento dei pianeti minori durante la posa produsse piccole strisce che, semplicemente con l’esame visivo, potevano essere subito distinte fra le migliaia di immagini stellari puntiformi. Queste scie, quando successivamente venivano misurate, fornivano delle buone posizioni dei pianeti all’istante centrale dell’esposizione. In questo modo Wolf accrebbe rapidamente il

numero dei pianeti minori; nel 1900 il numero salì a 450, elo stesso Wolf ne scoprì ben mezzo migliaio fino al 1927. Altri osservatóri si unirono a lui con strumenti simili o migliori. Attraverso una variazione del metodo, col telescopio che seguiva il moto previsto dei pianetini (cosicché questi producessero piccoli punti, mentre le stelle lasciavano delle strisce), si cercavano oggetti ancora più deboli. In questo modo la loro crescita accelerò: nel 1938 il loro numero era giunto a 1500. Mentre i primi 4 scoperti erano corpi notevoli di 500 o 800 km di diametro, gli ultimi 100 scoperti avevano diametri di soltanto 50, 40 o 30 km.

Questa crescita inattesa pose gli osservatóri e i calcolatori, come pure gli astronomi teorici, di fronte a difficoltà crescenti. Fin dall’inizio, il calcolo delle orbite implicò una grossa quantità di lavoro. Il calcolo dell’orbita ellittica da tre osservazioni — in modo approssimato alcuni giorni dopo la scoperta e più accurato dalle osservazioni di un mese dopo — poteva essere effettuato abbastanza rapidamente col metodo di Gauss. Ma, per prevedere le posizioni negli anni successivi con sufficiente precisione, era prima necessario un grande numero di osservazioni che si riferivano all’intero periodo di visibilità e poi doveva seguire il calcolo degli elementi più probabili tratti da tutte queste osservazioni. Inoltre, il lavoro non finiva mai, poiché ogni nuovo anno portava una nuova opposizione e, quindi, nuove osservazioni. Se questo lavoro fosse stato trascurato, le previsioni sarebbero state sempre più in errore, cosicché i pianetini non si sarebbero più ritrovati fra le stelle e se la scoperta fosse avvenuta troppo in ritardo, non si sarebbero più potuti identificare, con il risultato di produrre una confusione generale. Il problema era se si dovessero ignorare tutti i pesci piccoli e gettarli [dalla rete]: ma dov’è il limite? Era proprio quello raggiunto a seguito dell’intero sviluppo tecnico del diciannovesimo secolo; la gente era trascinata in un lavoro senza fine che non permetteva rallentamenti. Nei primi anni, circa a metà del secolo, l’entusiasmo e la perseveranza dei giovani scienziati e il

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fascino del calcolo astronomico erano sufficienti a soddisfare i bisogni. Quando i numeri crebbero in modo allarmante e quando, per giunta, i corpi più piccoli persero la loro saliente individualità, benché continuassero a venir assegnati loro i nomi, questo serbatoio di lavoro divenne insufficiente. Allora il lavoro era concentrato sempre più in compiti di calcolo, dove la mansione ufficiale e la routine, l’organizzazione e i metodi di elaborazione meccanizzati permettevano di far fronte al sempre crescente flusso, benché con una perdita di accuratezza di un decimale. L’Ufficio di Calcolo di Berlino, dopo che si trasferì a Dahlem e inaugurò il Copernicus Institute, assunse tra gli altri compiti lo studio della maggior parte dei Lillipuziani celesti.

Fosse stato il calcolo delle orbite l’unico compito! Infatti, tutti questi piccoli corpi erano soggetti non solo all’attrazione del Sole, ma anche dei pianeti maggiori; cosicché le loro orbite erano continuamente modificate dalle perturbazioni, che sono addirittura maggiori di quelle dei vecchi pianeti. Prima, perché i pianeti minori sono quelli che più si avvicinano a Giove, il grande perturbatore del Sistema solare, e inoltre poiché le loro orbite hanno, spesso, grandi eccentricità e inclinazioni. Dunque, devono essere calcolate le perturbazioni. Se si dovesse trascurarle, in pochi anni l’orbita calcolata sarebbe di gran lunga scorretta e gli errori sulle posizioni calcolate sarebbero così grandi da rendere inutile l’intera procedura di calcolo. E non potremmo nenache pensare di sviluppare le perturbazioni, una volta per tutte, in una maniera algebrica generale, come aveva fatto Laplace per i sette maggiori pianeti. Mentre, in quest’ultimo caso, nel quale i termini di ordine superiore decrescono rapidamente, la teoria può garantire buoni risultati per oltre una dozzina di anni, per un pianeta minore il numero di termini non trascurabili sarebbe sconfinato. Successivamente, Hansen, nel 1856, indicò un metodo approssimativo e lo applicò ad alcuni dei primi asteroidi scoperti. Ma tutti gli astronomi che per primi si erano

imbattuti nel problema — Gauss, Encke, Olbers, Bessel — concordavano sul fatto che vi fosse un solo metodo pratico di considerare le perturbazioni, lo stesso metodo usato sin dai tempi di Clairaut per le comete: seguire continuamente il pianeta lungo il suo corso, di luogo in luogo, di settimana in settimana o di mese in mese, calcolando per ogni istante le forze perturbatrici, la posizione e la velocità e verificare dove queste lo avrebbero portato. È un lavoro senza fine che richiede ogni anno tanto tempo quanto il precedente. Poiché, però, non c’era altra strada, questo metodo delle ‘perturbazioni speciali’ venne sviluppato, principalmente a opera di Encke, in uno schema pratico, di semplice e prefissata routine, usato da tutti gli abili calcolatori della prima dozzina di pianetini, per dare basi solide alla determinazione delle orbite. Alla fine, però, quando il numero di questi divenne un centinaio, anche con il più grande ardore e la maggiore costanza fu impossibile procedere nel lavoro. Gli uffici di calcolo dovevano adesso trovare dei metodi grossolani per il calcolo rapido e approssimativo dei termini perturbativi per numerose orbite simili. Per poter bilanciare con giudizio entrambe le richieste di un lavoro fattibile e di una precisione raggiungibile, non era essenziale meno abilità di quella che era stata precedentemente necessaria per affrontare i problemi matematici. Tuttavia, gli astronomi devono sempre chiedersi se vale la pena derivare l’orbita di tutti questi ciotoli rocciosi, di alcune decine di chilometri vaganti nello spazio, via via sempre più piccoli.

La ricompensa a tutto questo lavoro prese la forma di nuove scoperte, nuove intuizioni e nuovi interessanti problemi. Nel 1857, quando il numero di pianeti minori era appena sufficiente, e poi di nuovo nel 1866, Kirkwood fece notare che i periodi di rivoluzione non erano ugualmente distribuiti attorno al valor medio di 4,7 anni. C’erano lacune a 5,93 e a 3,95 anni, esattamente 1/2 e 1/3 del periodo di Giove. Quando il numero di pianetini aumentò, questi vuoti si distinsero ancora più chiaramente e

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apparvero anche intervalli meno definiti, a 2/5 e 3/5 del periodo di Giove. Deve essere un effetto dell’attrazione di Giove, che ovviamente non tollera tali proporzionalità semplici e conduce questi piccoli corpi lontano da tali posizioni. Questo fenomeno imprevisto pose la meccanica celeste di fronte a nuovi problemi.

Nel 1906, a breve tempo l’uno dall’altro, furono scoperti quattro nuovi pianetini, (più tardi se ne aggiunsero altri), con periodi di rivoluzione di 12 anni, esattamente identici a quello di Giove. Questi viaggiavano su orbite simili, alla distanza di 5 Unità Astronomiche dal Sole, mantenendo una distanza di circa 60° in longitudine da Giove, alcuni precedendolo, altri seguendolo e formando, in questo modo, un triangolo equilatero con Giove e il Sole. Una situazione di questo tipo era già stata anticipata dalla meccanica celeste: Lagrange aveva indicato teoricamente questi punti triangolari come punti di equilibrio, dove piccoli oggetti, sotto l’attrazione combinata di Giove e del Sole, sono in quiete relativa. Ulteriori analisi mostrarono che dei piccoli corpi possono oscillare attorno a questi punti, secondo delle cosiddette ‘librazioni’, accompagnando sempre Giove a circa 60° di distanza. Questi eccezionali compagni di viaggio vennero chiamati Achille, Ettore, Patroclo, Nestore e con il nome di altri eroi della guerra di Troia; l’intero gruppo fu chiamto ‘pianeti Troiani’.

Notevoli per altri motivi e praticamente più importanti sono quei pianeti minori che al loro perielio oltrepassano l’orbita di Marte e giungono vicino alla Terra. Uno di essi, Eros, lo abbiamo già conosciuto come un eccellente aiuto nel determinare la parallasse solare; le sue variazioni di luminosità, non del tutto regolari, indicavano non trattarsi di un globo perfetto, ma di un blocco più o meno irregolare in irregolare rotazione. Sicuramente, un grande numero di questi massi informi sta affollando lo spazio, ma essi sono visibili a noi solo quando passano a breve distanza dalla Terra. Nel 1932, a Bruxelles, Delporte scoprì un oggetto sulle sue lastre che poteva essere seguito nel suo rapido moto per alcuni giorni, permettendo

di calcolare un’orbita con una certa incertezza; si era avvicinato alla Terra a una distanza di 0,11AU, circa 44 volte la distanza Terra-Luna. Poco tempo dopo, ad Heidelberg, Reinmuth trovò su una lastra la traccia prodotta da un pianetino passante a una distanza di 0,06AU dalla Terra. L’approccio più ravvicinato fu di un oggetto che, il 30 ottobre del 1937, sfiorò la Terra a una distanza di 0,004AU, circa 3/2 della distanza Terra-Luna. Confrontati con gli ordinari pianeti minori, tali corpi sono ancora più piccoli, meno di un paio di chilometri, e sono visibili soltanto a brevei distanza. L’astronomo deve affrontare il problema della misura limite sopra la quale questi massi devono essere trattati come pianeti di cui si vogliano calcolare le orbite. Inoltre, questi corpi posero all’uomo il problema di ciò che sarebbe potuto accadere se fossero passati a distanza inferiore o, addirittura, avessero colpito la Terra. La loro massa è così piccola che una simile collisione non può disturbare in modo percettibile il moto della Terra o della Luna; tuttavia, se colpissero un continente, la trasformazione in calore dell’energia cinetica nell’impatto farebbe esplodere il corpo in un gas a migliaia di gradi di temperatura, causando devastazioni catastrofiche.

Benché su scala più piccola, collisioni di questo genere sono effettivamente avvenute. Antichi racconti parlavano talora di pietre infuocate che cadevano dal cielo, ma nel diciottesimo secolo questi racconti erano relegati nel regno delle fiabe. Quando, nel 1790, caddero dei meteoriti nella provincia francese della Guascogna, l’Accademia di Parigi si rifiutò di accettare una relazione su questo fenomeno, per non incoraggiare “una superstizione indegna dell’età dei lumi”. Il fisico tedesco Chladni dimostrò, però, in uno studio ben documentato, che un certo numero di casi era realmente accaduto e nuovi casi confermarono, poco dopo, il suo punto di vista: una meteorite aveva persino appiccato il fuoco a una fattoria. Nei musei venivano collezionate e conservate piccole meteoriti; in lontani paesi se ne trovarono alcune più grandi, spesso venerate come

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oggetti leggendari. Un grande cratere in Arizona è attribuito all’impatto di un gigantesco meteorite,avvenuto in tempi preistorici. Il 30 luglio del 1908, un meteorite colpì e devastò una regione della Siberia, fortunatamente disabitata, e benché su tutta la Terra si fossero osservati numerosi fenomeni ottici nell’atmosfera, la loro causa rimase sconosciuta fino a quando, dieci anni più tardi, una spedizione scientifica fece luce sull’accaduto.

Dopo questa digressione dai pianeti alle

meteore ora torniamo alle orbite. Dal problema delle orbite planetarie ebbe origine il metodo di Gauss, che, ovviamente, era applicabile a ogni ellisse, persino alla parabola, dove il calcolo avrebbe prodotto un’eccentricità pari a uno, e così questo metodo venne usato anche per le comete. Nella prima metà del diciannovesimo secolo, apparvero numerose comete, piccole e deboli nebulosità, per alcune delle quali divenne immediatamente chiaro che non si poteva utilizzare una parabola. Mediante il metodo di Gauss, in questi casi si potevano dedurre delle ellissi fortemente allungate, di piccole dimensioni e con brevi periodi di rivoluzione. L’orbita più piccola fu mostrata da una cometa scoperta da Pons, a Marsiglia nel 1818, la quale, però, contrariamente all’abitudine, è stata sempre chiamata cometa di Encke, dal nome dell’astronomo che, l’anno successivo, ne calcolò l’orbita. Il suo periodo era di solamente 3,3 anni e si scoprì che essa era sempre stata osservata nelle precedenti apparizioni (1786, 1795 e 1806), senza che venisse riconosciuto come un fenomeno periodico. Dopo Halley, Encke è stato il secondo uomo a prevedere il ritorno di una cometa e, da allora, se ne è sempre calcolato, previsto e osservato ogni ritorno. La sua distanza dal Sole varia tra 0,34 e 4,08 AU, cosicché non oltrepassa mai l’orbita di Giove. L’unico modo per calcolare le perturbazioni era di seguire la cometa continuamente lungo la sua orbita, per mezzo di un accurato calcolo delle perturbazioni speciali. Un risultato di questo lavoro fu un’accurata derivazione della massa di Mercurio, vicino al quale la cometa

era passata nel 1835. Un secondo risultato fu la scoperta del fatto che l’orbita gradatamente si rimpicciolisce e il periodo si accorcia, attribuito da Encke al mezzo frenante che riempie lo spazio fra i pianeti; una tale resistenza si sarebbe potuta manifestare solamente per corpi estesi e rarefatti come le comete. Altre comete, però, non lo evidenziavano e i calcolatori che continuarono il lavoro di Encke su questa cometa (prima Backlund e poi Van Asten), tendevano ad attribuire questa resistenza a incontri con altre comete che attraversavano la sua traiettoria, in particolari regioni della sua orbita.

Poco dopo la prima cometa a breve periodo, ne venne scoperta un’altra, da Biela nel 1826. Questa cometa era già stata avvistata nel 1772 e nel 1805 e aveva un periodo di 6 anni e 3/4: ne riparleremo più avanti. Gradatamente furono scoperte altre comete aventi orbite ellittiche; il loro numero, però, rimase limitato: una dozzina con periodi di circa 5 o 6 anni, qualcuno con 13 e 33 anni. La cometa di Halley ritornò due volte, nel 1835 e nel 1910, e naturalmente fu osservata e calcolata con cura. Una piccola cometa, scoperta da Olbers nel 1815, fu trovata avere un simile periodo di 72 anni e puntualmente si ripresentò nel 1887. Quei periodi cometari che ricorrono in questi gruppi sembrano essere connessi con i pianeti: le orbite ellittiche di 6, 13, 33 e 75 anni hanno il loro afelio alla distanza di Giove, Saturno, Urano, Nettuno. Che una cometa potesse acquisire un breve periodo di 5 anni a causa dell’attrazione di Giove era già stato constatato da Laplace. Se nella sua orbita parabolica passa molto vicina a Giove, la forte attrazione di questo poderoso pianeta può deviarla lungo una traiettoria completamente diversa e catturarlo all’interno del Sistema solare. Si supponeva per gli altri gruppi che un incontro ravvicinato con Saturno, con Urano o con Nettuno avesse prodotto le orbite di 13, 33 e 75 anni. Queste orbite non saranno mai definitive: se nel frattempo non è deviata da altre perturbazioni, la cometa deve tornare al suo luogo d’incontro con il pianeta e può

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subire un nuovo mutamento nell’orbita. Questo è stato il caso di una cometa osservata nel 1770, per la quale Lexell, a San Pietroburgo, derivò un’orbita ellittica di 5,6 anni: non è mai più stata rivista. Secondo i calcoli di Lexell, confermati da Burckhardt, la cometa aveva acquisito questa orbita nel 1767, poco prima della sua apparizione, per un passaggio vicino a Giove; nel 1779, dopo due rivoluzioni, ritornò nello stesso posto dove si trovava Giove e fu deviata su un’ellissi meno eccentrica che la tenne per sempre fuori dalla nostra vista. Successivamente si sono avuti altri casi simili.

Il campo principale della meccanica

celeste non si riduce a tutti questi calcoli di orbite; gli obiettivi più importanti erano le perturbazioni dei pianeti maggiori e della Luna. Dopo che Laplace aveva portato a conclusione il lavoro teorico del diciottesimo secolo, i compiti di approfondire i fondamenti della teoria e di portare gli sviluppi a uno stadio più elevato di precisione fu lasciato al secolo successivo. Il primo compito fu affrontato da ingegnosi matematici, come Jacobi (c. 1830), a Königsberg, e Henri Poincarè (c. 1880) in Francia. L’esatto calcolo delle perturbazioni dei pianeti fu l’obiettivo di molti studi da parte di abili teorici, nella prima metà dell’Ottocento, come Cauchy, Bessel e Hansen; il più completo e accurato trattamento di queste perturbazioni fu il lavoro di Leverrier.

Urban Jean Leverrier (1811-77) dovette la sua fama principalmente alla scoperta teorica del pianeta Nettuno, ottenuta solamente dalle perturbazioni che esso produceva sul moto di Urano. Che il moto di Urano presentasse irregolarità, non attribuibili all’attrazione di altri pianeti, era stato constatato per primo da Alexis Bouvard, un ragazzo di campagna delle Alpi, venuto a Parigi a studiare scienze e divenuto un valido aiutante di Laplace, grazie al suo talento di calcolo. Bouvard calcolò delle tavole per i maggiori pianeti, ma le sue tavole di Urano, derivate da regolari osservazioni durante i 40 anni

successivi alla scoperta, non si accordavano con i precedenti dati, relativi a quando Urano era stato osservato come una stella. Nel 1821, pubblicando le sue tavole, Laplace parlò di «alcune influenze estranee e sconosciute che agivano sul pianeta». Quando, negli anni seguenti, Urano cominciò, nuovamente e sempre di più, a deviare dalle tavole, tra gli astronomi si diffuse l’opinione che ci doveva essere un pianeta sconosciuto che disturbava il moto di Urano.Nei tardi anni Trenta, Bessel fece tentare a uno dei suoi discepoli, F.W. Flemming, un calcolo del pianeta sconosciuto dalle deviazioni di Urano, ma Flemming morì quando il lavoro era appena cominciato. Nel 1842-43, J.C. Adams (1819-92), un dotato studente di matematica di Cambridge, iniziò ad affrontare il problema. Nel settembre del 1845, Adams fu in grado di comunicare ad Airy, Astronomer Royal, e a Challis, direttore del Cambridge Observatory, il suo risultato riguardo l’orbita e la posizione del pianeta cercato; poiché entrambi gli astronomi non si fidavano della sua ricerca — e anche per la sua modestia — il risultato non venne pubblicato e non si fece alcun tentativo per scoprire il pianeta. Nel frattempo, spinto da Arago, Leverrier si mise a lavorare su questo problema; per prima cosa, compì una revisione completa della teoria di Urano, pubblicandola nel novembre del 1845, poi, nel giugno dell’anno successivo, aggiunse i suoi risultati sull’orbita del supposto pianeta sconosciuto e sulla sua posizione in cielo. Quando Airy e Challis videro il suo risultato, in strano accordo con quello di Adams, Challis cominciò a fare una ricerca, in luglio e agosto, registrando in differenti giorni tutte le stelle in un campo intorno alla posizione prevista, per vedere se una di esse cambiasse la propria posizione. Distratto da altri lavori, Challis non riuscì a ridurre e confrontare le proprie osservazioni, altrimenti avrebbe scoperto, con buona probabilità, il pianeta che si trovava tra le stelle osservate. Allo stesso tempo Leverrier, impaziente perché nessun osservatore dava ascolto ai suoi risultati, in una lettera chiese all’astronomo Galle, dell’Osservatorio di Berlino, di

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esaminare col grande rifrattore le stelle attorno al punto indicato, per vedere se una mostrasse un disco. Giusto poco tempo prima, l’Osservatorio di Berlino aveva ricevuto la mappa dell’Accademia di Berlino proprio di questa regione di cielo; all’arrivo della lettera di Leverrier, il 23 settembre, la mappa fu subito paragonata col cielo, e il pianeta venne immediatamente trovato come una stella di ottava magnitudine, assente nella mappa: gli venne dato il nome di Nettuno.

Questa serie di eventi ebbe un profondo effetto nel mondo degli scienziati e anche nel mondo della gente di cultura; da tutti i paesi vennero rivolte delle onoreficienze a Leverrier e la scoperta a tavolino di un corpo mai visto prima fu l’argomento principale per molto tempo. Fu nella metà di questo secolo che la scienza iniziò a dominare le concezioni del mondo della classe media nell’Europa occidentale e, in un travaglio spirituale, a superare gradatamente le tradizionali idee bibliche. Un gran numero di libri scientifici divulgativi, diffondendo le conoscenze, favorirono l’Aufklärung (‘illuminismo’); accolti entusiasticamente fra gli intellettuali e i profani, furono di aiuto nella lotta contro antiquate idee politiche e sociali e istituzioni. In questo clima, questa inaspettata dimostrazione del potere della scienza e la certezza delle sue previsioni divennero come uno scintillante raggio di luce che rafforzava la lotta contro l’oscurità. Sicuramente, avevano ragione gli astronomi che facevano notare come ciascuna delle centinaia di perturbazioni calcolate, usate nelle tavole planetarie, la cui esattezza era confermata dalle successive osservazioni, costituisse una forte dimostrazione, ripetuta silenziosamente ogni giorno, della verità della scienza. Lo splendore di questa scoperta, avvenuta nell’atmosfera intellettuale degli anni che portavano al burrascoso 1848, ne fece un’evento importante nella storia della scienza.

Agli astronomi, tuttavia, la scoperta portò improvvisamente nuovi problemi e nuove preoccupazioni. La difficoltà nella ricerca, inizialmente, era stata dovuta al fatto che si trattava di un problema inverso: derivare non

gli effetti dalle cause ma le cause dagli effetti; il calcolo del corpo perturbante dalle perturbazioni era sostanzialmente una nuova avventura. La seconda difficoltà era l’incertezza dei dati, dovuta al breve periodo di regolari osservazioni di Urano. Così, per non rendere la risoluzione praticamente impossibile per il grosso numero di elementi sconosciuti nell’orbita da determinare, sia Adams che Leverrier avevano assunto 38AU come distanza media dal Sole, in accordo con la legge di Titius; il periodo corrispondente era di 217 anni. Entrambi trovarono un’ampia eccentricità di 0,10 che, intorno al 1820, faceva raggiungere al pianeta una distanza dal Sole di 34AU. In questo modo poterono rappresentare le più vecchie osservazioni di Urano prima della sua scoperta, eccetto quella di Flamsteed del 1690. Dopo che Nettuno era stato scoperto e osservato per qualche mese, Adams (e anche Walker a Washington) trovò che la sua orbita appariva molto diversa: era più piccola, con una distanza media dal Sole di 30AU e un periodo di 164 anni e con un’eccentricità molto ridotta. Il vero Nettuno, perciò, aveva occupato posizioni dello spazio abbastanza differenti e aveva esercitato forze su Urano ampiamente diverse rispetto a quelle del pianeta calcolato teoricamente. I calcolatori americani Peirce e Walker dissero, quindi, che il pianeta scoperto da Galle era un oggetto diverso dal pianeta calcolato e che la sua scoperta vicino alla posizione designata era stata pura fortuna. Gli astronomi europei, tra cui lo stesso Leverrier, cercarono intensamente di rifiutare queste critiche e questi dubbi, che Peirce e Walker, nel loro lavoro successivo, avevano contribuito principalmente a disperdere, mostrando, per prima cosa, che il vero Nettuno, attraverso le perturbazioni ch produceva, poteva rappresentare completamente le osservazioni di Urano, comprese quelle di Flamsteed. Inoltre essi fecero notare che il problema affrontato da Adams e Leverrier, come molti altri problemi matematici inversi, ammetteva parecchie soluzioni diverse, tutte soddisfacenti i dati; assumendo come distanza media 38AU essi avevano ottenuto

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una delle soluzioni, mentre il vero Nettuno ne rappresentava un’altra.

La figura 31, in cui le frecce rappresentano le forze perturbatrici di Nettuno che agiscono su Urano, mostra che tali forze furono rilevanti solo nel periodo tra il 1790 e il 1850, in prossimità della congiunzione dei due pianeti. In questi anni il pianeta ‘vero’ e quello ‘calcolato’, a causa dell’eccentricità del secondo, si trovavano pressoché nella stessa posizione rispetto a Urano; la piccola differenza di distanza che ancora rimaneva poteva essere dovuta a una massa del pianeta ‘calcolato’ di poco maggiore. Le grandi differenze di posizione avvenivano quando le forze perturbatrici erano molto piccole.

Queste ricerche degli scienziati americani

incontrarono una fredda accoglienza in Europa ed essi furono essenzialmente ignorati, in quanto offensivi per l’onore degli scopritori. Kaiser, astronomo di Leida, espresse, in un libro divulgativo sulle scoperte planetarie, la sua sorpresa e la sua disapprovazione su tale condotta non scientifica, affermando che, evidentemente, gli astronomi europei avevano visto la scoperta di Nettuno soprattutto come un mezzo per impressionare il mondo laico con la perfezione della loro scienza — perfezione che in realtà non può mai essere raggiunta — e rigettando da quel pregiudizio ogni aspetto che potesse gettare qualunque dubbio sull’accordo tra previsione e realizzazione.

«Nel Nord America non proclamarono il carattere miracoloso della scoperta, ma lavorarono il più duramente possibile per usarla a beneficio della scienza».[194] Possiamo comprendere le osservazioni e le

critiche di Kaiser, se consideriamo che negli Stati Uniti non c’era bisogno di una lotta di quel genere per il progresso sociale contro i poteri e i sistemi sociali antiquati, come in Europa, dove, al contrario, la scienza naturale militante era un importante fattore della nuova cultura.

Leverrier, direttore dell’Osservatorio di Parigi dal 1853, si dedicò, da lì in avanti, alle perturbazioni dei pianeti. Prima di occuparsi di Nettuno, egli aveva già elaborato un’accurata teoria per Mercurio e ora prese in considerazione tutti gli altri pianeti maggiori. Usando nuovi metodi matematici, poteva estendere le approssimazioni a un ordine di termini più alto rispetto ai suoi predecessori. In tal modo, con una difficile approssimazione a causa della moltitudine e della piccolezza dei termini, raggiunse una accuratezza in precedenza irraggiungibile, ma che era necessaria per tenere il passo con l’accuratezza sempre più crescente delle osservazioni. Mentre all’inizio dell’Ottocento gli astronomi si accontentavano di un accordo di 10” o 20”, ora l’incertezza diminuiva a un singolo secondo o anche meno.

Come risultato delle sue ricerche, che fra il 1855 e il 1877 riempirono molti volumi degli Annali dell’Osservatorio di Parigi, Leverrier poté stabilire un accordo pressoché perfetto tra la teoria e l’osservazione, se si eccettuano poche discrepanze. La longitudine del perielio di Mercurio, secondo la teoria, doveva aumentare di 527” ogni secolo, mentre le osservazioni dei transiti di Mercurio davanti al Sole, sin dal 1631, fornivano, con grande precisione, 565”, circa 38” in più. Inoltre, i nodi dell’orbita di Venere regredivano più lentamente e il perielio di Marte avanzava di 24” oltre le previsioni teoriche. Queste ultime deviazioni vennero spiegate quando divenne chiaro che la massa della Terra, ricavata dalla parallasse solare di Encke, era

Fig. 31. Forze perturbatrici di Nettuno su Urano

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troppo piccola, di 1/10. La larga deviazione di Mercurio, però, non poteva essere rimossa con un qualsiasi cambiamento accettabile nelle masse. Si avanzarono diverse spiegazioni: un pianeta mai scoperto interno all’orbita di Mercurio; materia attrattiva diffusa intorno al Sole; una piccola variazione nella legge di Newton, consistente in una crescita dell’esponente 2 di 1/6.000.000. Nessuna di queste ipotesi era soddisfacente.

Quando Simon Newcomb (1835-1909)

divenne capo dell’ufficio di calcolo per l’American Nautical Almanac, aveva già trascorso una gran quantità di tempo a preparare tavole solari e planetarie per le effemeridi. Abile teorico, Newcomb riuscì, usando i metodi simbolici dell’analisi matematica, a strutturare, organizzare e utilizzare l’intero campo dei termini superiori, così da migliorare il lavoro di Leverrier. Con altrettanta abilità pratica riuscì a raccgliere e a ridurre in modo uniforme tutte le vecchie e nuove serie di osservazioni (spesso non pubblicate) compiute a Greenwich, Parigi, Washington e altrove, che erano state solo in parte utilizzate da Leverrier. Le condensò in tavole di facile utilizzo, opportunamente ordinate, e le usò per derivare i migliori elementi possibili. Questa combinazione di abilità teoriche e pratiche portò a un collaudo accurato della teoria.

Per i quattro pianeti interni, più simili alla Terra, le variazioni degli elementi orbitali mostravano completo accordo tra i valori calcolati teoricamente e quelli sperimentali, rimanendo il più delle volte le differenze al di sotto delle incertezze di misura delle osservazioni, salvo rare eccezioni. Per la recessione secolare dei nodi di Venere, i valori osservati e calcolati erano 1,783” e 1,793”, una differenza di 10” ± 3”; per l’avanzamento del perielio di Marte, erano 1,603” e 1,595”, una differenza di 8” ± 4”; per l’avanzare del perielio di Mercurio, erano 575” e 534”, una differenza di 41” ± 2,1”. I primi due casi implicano differenze nelle posizioni dei pianeti di meno di 2”; per Mercurio le deviazioni nella posizione

possono raggiungere 8”, più di quanto si possa ottenere dal risultato di molte osservazioni accurate. Questo, dunque, rimaneva l’unico punto debole nella solida struttura eretta sulla legge della gravitazione di Newton e, con spiegazioni artificiali, si fece un timido tentativo di rimuovere queste contraddizioni. Come spesso accade in simili situazioni, si doveva aspettare la nascita di nuovi punti di vista, provenienti da campi completamente diversi. Questi nuovi modi di affrontare il problema vennero, nel 1905, dai fisici, grazie al principio della relatività di Einstein.

La teoria della relatività è basata sul fatto che non possono essere osservati moti assoluti, ma soltanto moti relativi. Nel 1914, Einstein enunciò il principio della teoria della relatività generale: la vera forma delle leggi della natura non può dipendere dallo stato di moto dell’osservatore. La legge dell’attrazione di Newton non segue questo principio, il che è abbastanza incomprensibile, dal momento che Newton si era basato sulle nozioni di spazio assoluto e tempo assoluto. Per soddisfare il principio di relatività, la semplice formula di Newton doveva essere modificata e la conseguenza era un movimento del perielio delle orbite. La differenza, dipendendo dal quadrato del rapporto fra la velocità del pianeta e la velocità della luce, è così piccola che solo per Mercurio, il pianeta con moto più rapido, era effettivamente percepibile, consistendo in un avanzamento del perielio di 43” per secolo. La sola seria discrepanza che era rimasta tra la teoria e l’osservazione trovava, ora, la sua spiegazione, in modo naturale, attraverso un raffinamento della teoria e senza alcuna assunzione arbitraria. Per chi avesse dubitato del principio di relatività, c’era un altro effetto a confermarlo: i raggi di luce, passando vicino a corpi massicci, erano soggetti alla loro attrazione e potevano essere deviati dal loro corso rettilineo, proprio come avrebbe fatto una particella che viaggia alla velocità della luce. Questa deviazione, che ammonta a 1,75” per un raggio che passa rasente alla superficie del Sole, venne confermata dalle fotografie del campo stellare intorno al Sole, riprese da due

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spedizioni inglesi durante l’eclissi totale del 1918; successive spedizioni confermarono questo primo risultato. Tutto questo dette certezze alla teoria della relatività nel suo insieme e, in particolare, anche alla sua spiegazione del movimento di Mercurio.

Benché la teoria dei pianeti, specialmente

del moto della Terra riflesso nel moto solare apparente, avesse conseguenze pratiche per l’intera astronomia, era nella teoria della Luna che risiedeva l’importanza vitale della meccanica celeste, per la sua importanza sulla vita pratica e sul commercio. Il risultato del lavoro settecentesco era stata la rappresentazione della traiettoria della Luna a meno di ½ primo d’arco, eseguita, nelle sue formule e nelle sue tavole, da Laplace. Questo risultato era molto superiore agli errori osservativi, cosicché si rendeva necessario sviluppare ulteriormente la teoria. Laplace aveva incluso tutti i termini fino alla terza potenza dell’eccentricità e dell’inclinazione. Nel 1820, l’Académie di Parigi, bandì un premio che richiedeva la costruzione di tavole della Luna interamente fondate sulla teoria. Nella sua risposta, Giovanni Plana [dell’Osservatorio di Torino, discepolo di Lagrange] sviluppò una nuova formulazione della teoria, mentre Damoiseau, seguendo il metodo di Laplace, lo estese ai termini del settimo ordine e raggiunse una precisione di pochi secondi, ancora insufficiente, tuttavia, per le moderne esigenze.

L’elaborazione della teoria era così difficile per la complicazione, la moltitudine e la mutua dipendenza dei termini. I più abili matematici cercarono di superare le difficoltà affontando degli sviluppi che seguivano i nuovi modelli teorici. Nel 1838, a Gotha, Peter Andreas Hansen (1795-1874), mancando di buoni strumenti di osservazione, cominciò a sviluppare delle formule teoriche per il movimento della Luna; questa fu la base di una ricerca che lo occupò per venti anni. Il suo obiettivo era di rappresentare, mediante la sua teoria e con scarti non superiori al secondo d’arco, la serie completa di osservazioni della Luna, fatta a Greenwich fin dal 1750; le tavole

risultanti della Luna furono pubblicate nel 1857 dall’Amiragliato inglese e furono usate per più di mezzo secolo come base per il Nautical Almanac. Nel 1862-64, Hansen aggiunse alle sue tavole un’esposizione dei fondamenti della teoria e tutti i dati usati. Contemporaneamente, in un modo diverso ma ugualmente del tutto generale, Charles Delaunay, a Parigi, sviluppò una teoria lunare e pubblicò i suoi risultati nel 1860 e nel 1867. I loro metodi erano così diversi che, solo più tardi e con una approfondita ricerca, Newcomb fu in grado di paragonare i loro risultati per ognuno dei termini; il grande accordo riscontrato permise di affermare che la teoria aveva fornito un’inequivocabile risposta al problema del moto della Luna.

Tuttavia, c’erano ancora alcuni punti deboli: il rapido avanzare della longitudine del perigeo lunare di circa 40° all’anno, che aveva messo in imbarazzo Clairaut nel Settecento, era finora rimasto un problema. Attraverso un laborioso calcolo a otto termini, Delaunay era riuscito ad approssimare il suo valore a 1/8.000; poiché questo margine ammonta a 18” annui, l’incertezza è ancora troppo grande per essere tollerata. Fu allora che George W. Hill, calcolatore presso il Nautical Almanac Office americano (descritto da Newcomb come «forse il più grande maestro vivente nel più alto e difficile campo dell’astronomia, che ha ricevuto il riconoscimento mondiale per le scienze nel suo paese e il salario di un impiegato»[195]), nel 1877, con un colpo di genio, risolse il problema attraverso un principio di trattamento completamente nuovo. Mentre il metodo comune procede dall’orbita generale del problema dei due corpi, l’ellisse, con la sua eccentricità casuale, a cui si aggiunge l’azione perturbatrice del Sole, egli procedeva dall’orbita del problema dei tre corpi nella sua forma più semplice, senza caratteristiche casuali — un cerchio trasformato dalle variazioni di Tycho — a cui aggiungeva poi l’eccentricità casuale. Questo si adattava così bene con l’essenza stessa del problema che i successivi termini dello sviluppo decrescevano con un fattore

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1/30.000, cosicché un breve calcolo di pochi termini era sufficiente a produrre la quantità desiderata a 1/100.000.000.000 del suo ammontare. Si era, adesso, in buon accordo con le osservazioni? La domanda non può essere posta in questa forma. Oltre all’attrazione solare, il perigeo della Luna avanza a causa dell’appiattimento della Terra, in un modo che dipende dalla distribuzione di densità all’interno della Terra. Se si sottrae l’effetto solare calcolato dal valore osservato, rimane l’effetto di appiattimento. L’appiattimento risultante è l’appiattimento meccanico (cioè la differenza tra i momenti d’inerzia), non l’appiattimento geometrico della forma esterna. Esso può essere usato come dato per ricavare la distribuzione di massa all’interno della Terra. La teoria di Hill venne presa da Ernest W. Brown come base per le sue tavole lunari, che sin dal 1922 hanno rimpiazzato le tavole di Hansen negli almanacchi nautici.

Un secondo punto era l’accelerazione secolare della Luna; Laplace aveva trovato che le vecchie eclissi e il calcolo teorico degli effetti di perturbazione del Sole concordavano nello stabilire il suo valore a 10” per secolo. Hansen aveva trovato, dalla teoria, 11,47” e, dalle osservazioni, 12,18”: una differenza non grande. Nel 1853 però, con calcoli più estesi contenenti i termini superiori, Adams trovò un valore teorico considerevolmente più piccolo, 5,70”. Dapprima fu contraddetto da tutti, esenzialmente perché il valore precedente concordava molto bene con i risultati osservativi; ma, un po’ alla volta, la sua conclusione venne confermata da Delauneay, da Plana e dall’eminente matematico Cayley e, infine, ottenne anche il riconoscimento di Hansen. Questo implica la presenza di un altro fattore che rendesse conto dell’altra metà dell’accelerazione osservata.

Questo altro fattore fu trovato nell’attrito mareale. L’onda dell’alta marea è trascinata dalla rotazione terrestre; la reciproca attrazione della cresta dell’onda mareale e della Luna ritarda la rotazione della Terra e accellera la Luna, aumentandone il momento

angolare. Questo causa un’espansione della sua orbita e un rallentamento del suo moto orbitale; espresso in giorni di maggiore durata, il mese è apparentemente accorciato e il moto accelerato. Venne tacitamente assunto che la frizione mareale delle maree lunari fosse in grado di spiegare metà dell’accelerazione osservata. Nel 1909, però, Chamberlin, geologo a Chicago, dedusse che la frizione delle acque oceaniche contro il fondo marino e i litorali era troppo piccola per produrre un tale effetto. Così questa soluzione sembrò essere esclusa finché, nel 1919, Geoffrey Taylor mostrò che l’energia del moto Terra-Luna si perde attraverso la frizione mareale specialmente nei mari interni poco profondi e nelle baie con forti correnti mareali. Secondo un semplice calcolo, il Mar d’Irlanda poteva produrre 1/56 della perdita necessaria; più tardi si trovò che lo stretto di Bering è responsabile di più della metà del valore necessario, mentre gli oceani contribuiscono debolmente. Non fu ovviamente possibile calcolare l’esatto valore dovuto a tutti i mari della Terra; così, il valore adottato da Hansen deve essere considerato come una quantità determinata empiricamente e non teoricamente.

Nelle longitudini lunari di Greenwich, pur dopo aver tenuto conto di tutte le altre perturbazioni, rimaneva ancora una debole fluttuazione, che ammontava ad alcune decine di secondi. Hansen suppose che questa fluttuazione fosse dovuta a una perturbazione di Venere, con un periodo di 240 anni, che ammontava a 21”. Delaunay, con calcoli teorici, riuscì a trovare per questo termine solamente un valore impercettibile, inferiore a 1”. Tuttavia, visto che le osservazioni di Greenwich lo evidenziavano chiaramente, Hansen lo introdusse nelle sue tavole, fiducioso che la teoria, per mezzo di ulteriori ricerche, sarebbe riuscita a spiegarlo. E così ora questo era un termine empirico, basato su un intervallo di tempo abbastanza breve, di un secolo; le precedenti osservazioni — meno affidabili, è vero — non lo confermavano. Ma c’era di peggio: a partire dal 1860, quando le tavole di Hansen erano state introdotte come base degli almanacchi, la Luna aveva cominciato a

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deviare sempre di più dalle tavole. Negli anni Sessanta, il ritardo fu di alcuni secondi, nel 1880 era gia indietro di 10” e in ogni successiva decade il ritardo crebbe. Allora, nel 1878, Newcomb prese in mano il problema. Egli aveva già cominciato a raccogliere, come verifica per le osservazioni al meridiano, tutte le antiche osservazioni delle eclissi e delle occultazioni stellari sin dall’invenzione del telescopio; le copiò dai dati manoscritti presenti negli archivi degli osservatòri, durante un viaggio in Europa, compiuto nel 1871. L’intera raccolta di dati osservativi poteva essere rappresentata introducendo un termine empirico di 17” su un periodo di 273 anni, praticamente confermando Hansen. Una spiegazione, però, mancava ancora e così non ci si doveva aspettare che negli anni a venire la differenza tra le tavole e le posizioni osservate cessasse. Nel 1894, Tisserand, nel terzo volume del suo classico testo Traité de mécanique céleste, chiuse la sua esposizione della teoria della Luna con le parole:

«La teoria della Luna si trova bloccata dalle difficoltà che noi abbiamo appena esposto; anche ai tempi di Clairaut la teoria sembrava incapace di spiegare il movimento del perigeo. Essa sconfiggerà il nuovo ostacolo che si è presentato; ma una grande scoperta deve essere ancora fatta».[196] La scoperta venne realmente fatta e il

problema risolto, ma in modo inaspettato; la causa delle deviazioni non era nella teoria né nel moto della Luna né nelle forze di attrazione, bensì nelle irregolarità della rotazione terrestre. Newcomb, per un momento, le aveva prese in considerazione, ma nel suo ultimo lavoro sulla Luna, nel 1903, aveva lasciato cadere l’idea come improbabile e poco giustificabile. Tali variazioni del periodo di rotazione terrestre devono ripercuotersi con corrispondenti apparenti irregolarità in tutti i corpi celesti che si muovono rapidamente. Nel 1914, Brown stabilì che nel moto del Sole, di Mercurio e di Venere vi erano le stesse oscillazioni riscontrate nella Luna, allo stesso tempo, ma in una quantità minore.

Venne confermato anche da studi dettagliati svolti da Spencer Jones a Greenwich, nel 1926 e nel 1939. Quando Willem de Sitter (1872-1934), a Leida, analizzò il moto dei satelliti di Giove ed elaborò una teoria completa di tutte le perturbazioni in questo sottosistema, trovò, nel 1927, le stesse irregolarità nel loro moto. Così la conclusione era chiara: il colpevole non era la Luna, ma la Terra. Il termine empirico di Hansen e Newcomb poteva ora essere lasciato cadere, sostituito da più o meno improvvisi aumenti nel periodo di rotazione terrestre. Verso il 1667 si era allungato di 0,0011s, verso il 1758 si era accorciato di 0,0006s, verso il 1784 di 0,0017s e nel 1864 di 0,0027s; questo aveva provocato le allarmanti deviazioni dalle tavole di Hansen. Poi era seguito un allungamento di 0,0017s nel 1876, di 0,0034s nel 1897 e un accorciamento di 0,003 nel 1917.

È notevole, benché non sorprendente, il fatto che le semplici condizioni della struttura del mondo, fornite dall’esperienza primitiva e considerate, attraverso i secoli, il risultato di principi cosmologici e meccanici, non potevano essere conservate a fronte delle raffinate ricerche moderne. Questo era stato il caso della invariabilità dell’asse di rotazione terrestre, come pure ora con l’invariabilità del periodo di rotazione della Terra. La loro buona approssimazione foniva un aiuto importante nello stabilire un semplice e armonioso concetto del mondo astronomico. La grande precisione delle misure del diciannovesimo secolo mostrava una realtà diversa, anche se diversa di molto poco. La meccanica teorica, nelle mani di Euler, aveva dimostrato che, solamente in un caso del tutto eccezionale, l’asse di rotazione di un corpo in rotazione poteva mantenere una posizione invariabile. Nel 1885, a Cambridge (Massachusetts), S.C. Chandler trovò, in una serie di determinazioni di latitudine, dei cambiamenti progressivi di 0,4” in mezzo anno, che non potevano essere attribuiti ad alcun errore, cosicché

«l’unica alternativa doveva essere la deduzione che la latitudine era effettivamente cambiata. Questa appariva all’epoca una conclusione troppo audace per essere registrata […]».[197]

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La stessa cosa era già accaduta in una serie

di osservazioni molto accurate, a Washington, nel 1862-67: gli osservatóri non trovavano alcun errore, ma non si azzardarono a spiegare le deviazioni periodiche come variazioni reali nella latitudine. Nel 1888, Fr. Küstner pubblicò i risultati di accurate misure fatte a Berlino nel 1884-85 per ricavare la costante di aberrazione e spiegò le differenze trovate come reali variazioni di latitudine. Per verificare la spiegazione, un secondo osservatore fu mandato a Honolulu, dall’altra parte rispetto al Polo Nord e così fu accertato che il polo si era mosso, descrivendo una piccola orbita di alcune decine di piedi [c. 1-1,5m] intorno alla fine dell’asse di massima inerzia. Euler aveva calcolato che un’orbita di questo tipo, in una Terra supposta rigida, viene completata in 305 giorni; la ricerca di variazioni in latitudine all’interno di questo periodo ha sempre impedito la scoperta delle reali variazioni. Il periodo vero sembrava ora essere di circa 430 giorni, oltre a un’ulteriore oscillazione annua. Newcomb spiegò subito la differenza, osservando che le acque dell’oceano, obbedendo alla forza centrifuga, cercano continuamente di adattare la loro forma all’asse istantaneo di rotazione, rallentando in tal modo lo spostamento dell’asse. L’annuale spostamento di masse d’acqua tra le regioni artiche e antartiche, per scioglimento e ricongelamento dei ghiacci, come una causa dell’oscillazione annua dei poli, indica altri spostamenti di masse all’interno della Terra come causa delle variazioni polari in generale. Ora che si è scoperto che il periodo di rotazione è incostante dobbiamo fare appello allo stesso tipo di eventi, cioè ai cambiamenti geologici sulla Terra. Poiché il momento totale della quantità di moto è costante, una accelerazione della rotazione significa un restringimento, una sua decelerazione significa una espansione nella distribuzione di massa della Terra. Si deve aggiungere che la redistribuzione della massa necessaria a spiegare gli sbalzi osservati richiede, da un punto di vista

geologico, il trasporto di una enorme quantità di materia.

Per le tavole lunari negli almanacchi la situazione sembrava ora precaria. Non c’era possibilità di prevedere o di calcolare a priori, con una precisione indefinitamente crescente, il corso della Luna misurato attraverso i comuni giorni della rotazione terrestre. Imprevedibili cambiamenti nella rotazione terrestre, dipendenti da sconosciuti eventi geofisici, causano irregolarità nel nostro conteggio del tempo, che appaiono nelle posizioni osservate della Luna. Quel grande ideale di perfette tavole lunari, di cui aveva bisogno la navigazione e sul quale, per parecchi secoli, molti dei più abili teorici e osservatóri avevano speso i loro migliori sforzi e che sembrava quasi raggiunto, doveva, allora, restare irraggiungibile?

La navigazione non aveva più bisogno della Luna. Per il vecchio secolare problema della determinazione della longitudine in mare, nel frattempo, si era trovata una completa soluzione di natura del tutto diversa, ossia l’utilizzo di segnali orari ‘senza fili’. Nel 1886, il fisico Henrich Hertz, a Bonn, fece i suoi primi esperimenti con oscillazioni elettriche propagate come onde. Nel 1895, Marconi introdusse il telegrafo senza fili per mezzo di queste onde radio. Nel 1913, si definì una collaborazione internazionale per spedire segnali esatti di tempo a ogni ora, l’ora di Greenwich; questi potevano essere rilevati dalle navi, da qualsiasi punto dell’oceano. Una volta all’ora viene dato il precise standard time, l’orario preciso del meridiano standard, che, confrontato con l’orario locale, permette di ottenere la longitudine. Il problema della longitudine in mare, un episodio nella storia dell’astronomia, ma molto importante per il progresso della scienza, era ora definitivamente chiuso. Questo problema aveva stimolato fortemente la meccanica celeste, rendendola un importante settore nella conoscenza teorica generale dell’umanità. Al suo posto, adesso, ci troviamo di fronte i fenomeni del nostro pianeta e questo puo essere un punto di partenza per nuovi studi geofisici.

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CAPITOLO 35

UNA PLURALITÀ DI MONDI Un silenzioso impulso alla ricerca astronomica, fra gli scienziati e specialmente nel vasto ambiente di appassionati, fu fornito dal desiderio di acquisire conoscenze sugli altri pianeti come dimore di altri uomini. Ciò che per gli autori dell’antichità era stata solo una mera fantasia era cresciuto, a partire da Copernico e Bruno, fino a divenire una seria, seppure ancora esitante, opinione che, forse, sulla Luna e sugli altri pianeti potessero vivere esseri coscienti, dotati di intelligenza e di ragione. Ora, lo studio dei pianeti, della loro superficie e delle loro condizioni, acquisiva un sempre più profondo interesse.

Fino a quando i telescopi erano stati imperfetti, questo studio doveva rimanere a un livello primitivo. Alla fine del Settecento, un diligente astronomo non professionista, Amtmann Schroeter, di Lilienthal vicino a Brema, realizzò, con il suo riflettore, alcune centinaia di disegni delle montagne lunari e di configurazioni caratteristiche sui pianeti, che appaiono abbastanza grossolani se confrontati con il livello delle osservazioni delle epoche successive. Il livello superiore venne definito, infatti, dai rifrattori realizzati a Monaco che, con le loro immagini nitide e con la loro facilità di utilizzo, aprirono una nuova strada a questi studi.

Il fatto che la Luna fosse abitata era del tutto in accordo con il pensiero razionalista settecentesco. In uno dei primi lavori presentati alla Royal Society, William Herschel aveva espresso la convinzione che esistessero quelli che egli chiamava ‘Lunarians’, ma, dietro consiglio di Maskelyne, cancellò questa affermazione in quanto non sufficientemente fondata. Successivamente, il problema venne sollevato da Gruithuisen, a Monaco, il quale, nel 1816, affermò di aver osservato delle nubi sulla Luna e di aver riconosciuto fortificazioni e altre costruzioni di origine umana in alcune formazioni lunari. Tali

fantasie, però, vennero subito accantonate. Nel 1834, Bessel stabilì che il diametro della Luna, misurato da occultazioni di stelle, non era più piccolo in modo percettibile, rispetto a quello ottenuto da misure dirette, il che stava a significare che i raggi di luce provenienti dalle stelle che sfioravano il bordo lunare non erano deviati dalla rifrazione atmosferica. La rifrazione all’orizzonte, che per l’atmosfera terrestre ammonta a circa 2000”, per la Luna non può essere più di pochi secondi d’arco e, quindi, la sua atmosfera deve avere una densità almeno 1/2000 della densità di quella della Terra. Questo sarebbe del tutto insufficiente per le necessità respiratorie di un uomo o di un animale.

Perché la Luna non ha un’atmosfera percettibile? Se la Luna ha avuto origine dalla Terra, ci si dovrebbe aspettare che abbia trattenuto la sua parte di aria. È possibile, allora, che abbia avuto dell’aria e che in seguito l’abbia persa? Una tale perdita di atmosfera si sarebbe dovuta spiegare in termini di teoria cinetica dei gas. Nel 1870, Johnstone Stoney avanzò l’ipotesi che una piccola percentuale di molecole di gas, con una velocità molto maggiore della media, possa fuggire nello spazio, così che, gradatamente, questo gas scomparirebbe del tutto dal corpo che lo tratteneva. La velocità limite di fuga per particelle che sfuggano all’attrazione terrestre è di 11km/s, dalla Luna è di 2,4km/s; inoltre, a 0°C, la velocità media delle molecole d’idrogeno è di 1,6km/s, del vapor acqueo di 0,53km/s, dell’ossigeno di 0,4km/s. Il fatto che l’idrogeno sia assente nell’atmosfera terrestre dimostra che una velocità di fuga solo sette volte maggiore della velocità media ne consente la scomparsa. La presenza del vapor acqueo dimostra che un rapporto pari a 21 è troppo grande per farlo sfuggire. Successivamente, questa teoria fu

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affinata da Jeans, Milne e altri. Questi dati, applicati alla Luna, ci dicono che tutto il vapor acqueo e l’ossigeno, presenti una volta sulla Luna, devono essersi dispersi nello spazio vuoto.

Agli astronomi non restava altro che realizzare un’accurata topografia del suolo lunare: un affascinante programma per osservare e per ritrarre un altro mondo da lontano! Un piccolo telescopio è già sufficiente a mostrare una tale quantità di minuti dettagli che una raffigurazione complessiva richiederebbe molti anni di paziente e assiduo lavoro. Il primo ad accingervisi, nel 1824, fu Lohrmann, che era proprio un topografo. Per questo motivo, invece di pubblicare i disegni originali, come aveva fatto Schroeter, li riportò su delle mappe topografiche, nelle quali le montagne erano rappresentate come su di una mappa geografica. Di questo lavoro vennero pubblicate solo poche mappe, poiché dei problemi di vista ne avevano impedito la prosecuzione. Nel 1828, un banchiere berlinese, Wilhelm Beer, e un giovane astronomo, J.H. Mädler, iniziarono uno studio comune della Luna in un piccolo osservatorio costruito dal primo, dotato di un telescopio di Monaco da 4 pollici [10,8cm] di apertura. Seguendo, su scala più grande, il lavoro di Thobias Mayer, per prima cosa, come base per la topografia, delinearono un reticolo di punti accuratamente determinati; con un micrometro misurarono le posizioni di oltre un centinaio di punti primari e di molti di più punti secondari, oltre alle altezze di un migliaio di montagne dalle misure delle ombre. Completarono, quindi, la mappa topografica rappresentando, in quattro fogli, l’intera superficie del disco lunare su una scala di un metro di diametro (Tavola 11). Il risultato venne pubblicato nel 1836, dopo otto anni di lavoro in 600 notti di osservazione. Durante tutto questo lavoro, essi non notarono alcun cambiamento nelle formazioni montuose né alcun altro mutamento che potesse suggerire la presenza di fenomeni atmosferici. La superficie lunare restava desolata e immutabile, con le sue ombre color pece: un mondo morto di rocce e sabbia.

Nonostante la mappa lunare di Beer e

Mädler fosse molto più dettagliata e completa di qualunque altra precedente, tuttavia, non conteneva niente di più di quanto fosse visibile con un qualunque piccolo telescopio. Così, per gli astronomi, professionsti e no, rimaneva aperto il problema di compiere studi più accurati con telescopi più grandi e di pubblicare mappe più dettagliate. Un ruolo rilevante ebbe J.F. Julis Schmidt (1825-84) che, ad Atene, con piccoli mezzi strumentali, ma con un cielo migliore, si dedicò con molta diligenza a tutti quei lavori osservativi che sono sovente lasciati agli astronomi non professionisti. I suoi disegni della Luna era sufficientemente completi da poter essere riuniti in una mappa lunare di due metri di diametro, che venne pubblicata nel 1870 (Tavola 11). Nel 1876, Neison pubblicò, in Inghilterra, un libro sulla Luna con ampie descrizioni e numerose mappe dettagliate.

Si era, così, definita una solida base per poter affrontare il problema della presenza o meno di eventuali piccoli cambiamenti sulla Luna. Lo stesso Julius Schmidt, nel 1866,

Tavola 11. Il cratere Hyginus e le regioni limitrofe

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presentò il caso di un indubitabile cambiamento: il piccolo cratere Linneo, disegnato in precedenza da Lohrmann, Beer, Mädler e dallo stesso Schmidt, era scomparso e al suo posto ora appariva una grande macchia biancastra o un buco poco profondo. Occasionalmente, vennero pubblicate altre, più dubbie, osservazioni di cambiamenti che provocarono numerose controversie, poiché non si era in grado di decidere se le mappe erano sufficientemente attendibili per questo tipo di dettagli e, soprattutto, se un oggetto non segnato nelle vecchie mappe fosse del tutto nuovo o se, in precedenza, fosse stato inavvertitamente trascurato.

Per un corpo celeste così ricco di dettagli, la fotografia rappresentò un progresso enorme. Una singola fotografia, permettendo di rappresentare l’intero disco con una sola esposizione, sostituì centinaia di disegni che avrebbero richiesto mesi e anni al telescopio; inoltre, si trattava di una documentazione del tutto attendibile. La prima buona foto della Luna venne ripresa nel 1850 da W.C. Bond, Direttore dell’Harvard College Observatory. Questa venne subito seguita da una ripresa da Warren de la Rue, in Inghilterra, il quale, dal 1852 in poi, lavorò con un riflettore, cui venne applicato, nel 1857, un moto orario. De la Rue ottenne delle foto di 28mm di diametro talmente nitide da poter essere ingrandite 20 volte. In America, Henry Draper, lavorando con un riflettore auto-costruito, riprese, nel 1863, alcune immagini della Luna di 32mm di diametro, che furono ingrandite sino a 90cm. Naturalmente, si trattava delle prime prove che non potevano accrescere la nostra conoscenza della Luna. Un grande progresso si ottenne con l’introduzione, nel 1871, delle lastre al bromuro secco, che riducevano i tempi di esposizione a pochi secondi o anche meno. Le esposizioni potevano essere così corte perché venivano effettuate nel piano focale dell’obiettivo, senza alcun ingrandimento che riducesse troppo la luminosità. Il grande rifrattore da 36 pollici [c. 92cm] del Lick, con i suoi 57 piedi [c. 17m] di lunghezza focale, consentiva di riprendere immagini da 14cm di diametro. L’equatoriale coudé di

Parigi venne regolarmente utilizzato da Loewy e da Puiseux, dopo il 1894, per riprendere delle immagini della Luna da 18cm di diametro. Furono riprodotti e pubblicati alcuni ingrandimenti di regioni particolari di questi negativi: in quelli del Lick il diametro della Luna era portato a una scala di 1m, in quelli dell’atlante di Parigi a una scala di 2,6m. A queste dimensioni il limite della riconoscibilità dei dettagli era fissato dalle dimensioni dei grani d’argento fotografici. Dettagli ancora inferiori si poterono raggiungere su fotografie riprese, con una particolare attenzione, al rifrattore da 40 pollici [102cm] di Yerkes e al riflettore da 100 pollici [2.54m] di Mount Wilson. Tuttavia, queste foto furono poche e non ricoprirono tutta la Luna.

Un atlante fotografico della Luna differisce da uno visuale, in quanto registra gli aspetti dell’istante dell’esposizione, con tutte le ombre di quel momento, e non è una mappa topografica ottenuta dall’astronomo da un gran numero di disegni realizzati nelle differenti fasi lunari. Invece di una mappa, per ogni zona è necessaria un’intera serie di riproduzioni in fasi diverse, senza la quali non si raggiunge la completezza. Inoltre, nel confrontare le differenti rappresentazioni della stessa zona (p.e. il cratere Hyginus con le regioni limitrofe, Tavola 11), si vede come le riprese fotografiche non possano competere in ricchezza di minuti dettagli con il lavoro visuale di attenti osservatóri che utilizzino piccoli telescopi. Questo, ad esempio, era il lavoro di Ph. Fauth, un astronomo non professionista di Landstuhl, il quale, sin dal 1895, aveva pubblicato molte mappe di particolari regioni lunari e questa esperienza mostrò come il lavoro visuale non potesse venir abbandonato. Molti astronomi non professionisti, dotati di buoni telescopi, fino a 4 o 6 pollici di apertura [c. 10 o 15cm], proseguirono le loro osservazioni di dettagli di regioni particolari, soprattutto per verificare la presenza o meno di piccoli cambiamenti. Al contrario, la fotografia conservò il suo ruolo di valore documentario. Osservatóri come Krieger (nelle sue mappe del 1898-1912) e come Goodacre fecero spesso uso della fotografia

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come base del loro lavoro, nelle quali poi aggiungere ulteriori dettagli osservati sotto le opportune angolazioni.

Lo sviluppo della topografia lunare, nell’Ottocento, si trovò a doversi confrontare con due problemi. Il primo era: la superficie della Luna è fissa e invariabile o vi accade qualcosa? In altre parole: quanto sono reali e di quale natura sono le piccole differenze osservate che talora appaiono in una regione, altrimenti invariabile su grande scala? Per rispondere a questa domanda, si rendeva necessaria una stretta collaborazione tra differenti osservatóri visuali. Effetti ritardati delle primitive forze lunari, probabilmente, potrebbero produrre o distruggere piccole buche, colline o craterlets [craterini, con diametro inferiore a 8km] W.H. Pickering riferì di leggere nebbie o tracce di nubi e di macchie simili alla neve, intorno a dei carterini, che aumentavano e diminuivano con la quantità di irraggiamento solare e li attribuì a sottili esalazioni di vapor acqueo dalle fenditure presenti nel suolo. Prestò, inoltre, una particolare attenzione alle zone scure che si vedevano all’interno di alcune pareti circolari durante la Luna piena, quando non vi sono ombre. Descrisse queste strutture come ‘in crescita e con una colorazione variabile’, cioè con un oscuramento delle zone sulla superficie, seguito in seguito da un imbianchimento. Le riprese fotografiche confermarono le caratteristiche generali di questi cambiamenti, ma, a causa della grossa grana fotografica, non riuscirono a fornirne una prova nei dettagli minuti. Per spiegarli, Pickering immaginò la presenza di una forma di vita primitiva, ma in crescita, come se si trattasse di una bassa vegetazione che si sviluppasse crescendo e scomparendo durante i 14 giorni di irraggiamento solare, favorita dall’anidride carbonica proveniente dalle fessure nelle rocce: forse grossi gruppi di organismi primitivi che si muovevano liberamente.

«Qui noi ci troviamo di fronte ad una porta su un mondo vivente, con una forma di vita del tutto differente da qualunque altra che conosciamo sul nostro pianeta».[198]

Questa fu la sua conclusione nel 1921. Secondo queste osservazioni, studiate in dettaglio, la Luna non sarebbe stato il mondo completamente morto che sembrava essere a prima vista.

Il secondo problema era relativo all’origine di tutte queste notevoli caratteristiche del suolo lunare, tanto diverse da quelle presenti sulla Terra, come le grandi pareti circolari, i crateri, i solchi, le montagne e le grandi pianure (chiamate ‘mari’) che costituiscono la superficie solida della Luna. Si tratta di una questione di geologia, anzi, più correttamente, di ‘selenologia’. Il problema principale era: perché le forze geologiche attive sulla Luna producono delle forme così diverse da quelle terrestri? La risposta si orientò in due diverse direzioni. In 1873, Proctor suggerì che i crateri lunari fossero stati prodotti dall’impatto di grandi meteoriti che erano penetrati nella sottile crosta, facendo sgorgare grandi effluvi di lava che avrebbero poi dato origine alle valli circolari circostanti. Impatti simili sulla Terra sarebbero stati meno violenti, per il rallentamento causato dalla resistenza dell’atmosfera, e i loro effetti sarebbero stati cancellati dalle successive influenze climatiche e organiche. La stessa idea venne portata avanti, in tempi successivi, anche dal famoso geografo Kurt Wegener. Tuttavia, l’idea più diffusamente accettata fu che l’origine fosse dovuta alle forze interne della stessa Luna. Fisici e astronomi provarono più volte di riprodurre la formazione della superficie lunare mediante esperimenti con materiali di fusione. Nel 1896, lo stesso periodo in cui riprendeva le sue foto della Luna, Puiseux presentò un’elaborata teoria della formazione delle strutture lunari. Così come aveva fatto in precedenza il fisico Ebert, Puiseux si appellò alle forze di marea esercitate dalla Terra sul corpo della Luna, come causa primaria. A causa della maggiore massa terrestre, queste forze mareali sarebbero dovute essere di gran lunga superiori a quelle provocate dalla Luna sulla Terra. Questo potrebbe spiegare perché gli effetti sono così diversi nei due casi.

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Quando, nel diciannovesimo secolo,

l’interesse nei confronti della Luna scemò poiché era risultata inabitabile, l’attenzione fu principalmente rivolta a Marte che presentava, a questo proposito, le migliori opportunità. Lo studio della superficie del pianeta rimane, però, a un livello abbastanza differente rispetto a quello della superficie della Luna; è più difficoltoso e più limitato. Nell’opposizione più favorevole al perielio, Marte presenta un disco di soli 26” di diametro, dove 1” corrisponde a 260km. Tutto quello che alla fine del diciottesimo secolo Herschel e Schroeter vedevano nei loro rifrattori, oltre alle bianche macchie polari dai margini nitidi, erano solo vaghe, mal definite ombre, nelle quali raramente si potevano riconoscere forme chiare. Per lo più si riteneva che si trattasse di nubi e nebbie. Con l’introduzione dei telescopi realizzati a Monaco, si aprì una nuova epoca. Nel 1830, in una favorevole opposizione autunnale, Beer e Mädler iniziarono a realizzare dei disegni con il loro 4 pollici [c. 10cm] Essi furono i primi a riconoscere un aspetto definito delle aree chiare e scure. La difficile natura di tale lavoro risulta evidente dalle loro parole:

«Di solito doveva passare molto tempo prima che quelle che a prima vista sembravano indefinite vaghe masse si risolvessero in chiare e distinguibili forme».[199] Dal momento che queste forme

ritornavano periodicamente, all’incirca con le stesse caratteristiche, era evidente che non si trattava di formazioni nuvolose passeggere, ma di segni topografici sulla superficie del pianeta. Come risultato del loro lavoro, apparve, per la prima volta, un planisfero di Marte in due emisferi. Per includere le regioni polari fu necessario estendere le osservazioni ad altre opposizioni, dal 1832 al 1839. Dal momento che all’afelio Marte presenta un disco molto piccolo, essi fecero uso, dal 1835 in poi, del rifrattore da 9 pollici [c. 23cm] dell’Osservatorio di Berlino. Ora che i segni potevano essere identificati, era possibile ricavare il periodo di rotazione di Marte,

confrontando i primi disegni con quelli successivi. Dalle osservazioni degli anni 1830 e 1832 si ricavò un periodo di 24h37’23,7”.

Erano così state poste le basi per gli sviluppi successivi. Molti osservatóri fecero e pubblicarono disegni di Marte (Tavola 12); il loro aspetto spesso tanto dissimile mostra quanto fosse difficile delineare con precisione i segni che si osservavano e quanto il risultato fosse strettamente legato allo stile personale. Con l’opposizione del 1862, furono compiuti nuovi progressi; i disegni di Lockyer in Inghilterra e di Kaiser a Leida — questi ultimi assemblati in un globo di Marte — i quali avevano entrambi lavorato con telescopi da 6 pollici [c. 16cm], mostrano un maggior numero di dettagli. Secchi a Roma, dal 1858 in poi, lavorando con un telescopio da 9 pollici, produsse dei disegni a colori, che mostravano tenui sfumature di verde nelle zone scure e di giallo nelle regioni chiare. Kaiser identificò degli antichi disegni di Huygens e Hooke (degli anni 1666-1667) in cui erano evidenti alcuni dei tratti principali del globo e ne ricavò un periodo di rotazione di 24h37m22,6s con un margine di errore di 1/10 di secondo.

Tavola 12. Disegni di Marte

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Tutte queste nuove osservazioni mostravano che, sulla base di una topografia fissa e permanente, si instaurava un gran numero di piccole variazioni nei dettagli. A volte tali dettagli erano sbiaditi da confuse forme nuvolose; le macchie nere erano schiarite oppure le macchie chiare temporaneamente adombrate e anche le figure più precise e i margini mostravano cambiamenti non del tutto attribuibili a differenti direzioni di vista. Gli osservatóri si trovavano in generale d’accordo nel dire che le zone gialle o rosseggianti fossero lande o deserti e quelle scure, per lo più verdastre, acque, probabilmente basse, o vegetazione. Essi assunsero che le bianche calotte polari, che cambiavano periodicamente dimensione con le stagioni, fossero nevi o ghiacci. Da questi dati, si concluse che le condizioni di vita su Marte non dovevano essere molto differenti da quelle sulla Terra: le temperature più basse, l’atmosfera più sottile e asciutta, l’acqua più scarsa, compatibilmente con uno stadio successivo di evoluzione del pianeta.

L’opposizione al perielio del 1877 apportò ancora nuovi progressi e una nuova sorpresa: la scoperta dei canali di Marte. Schiaparelli (1835-1919), lavorando a Milano con un rifrattore da 9 pollici [c. 23cm], portò improvvisamente la ricerca areografica a un livello più alto, eseguendo delle misure micrometriche, dapprima della piccola calotta polare sud, per fissare precisamente la posizione dell’asse di rotazione, e poi di 62 punti ben definiti come mappatura di base. Egli si accorse di alcune lunghe linee scure, strette e diritte, che per la maggior parte attraversavano la metà gialla a nord del pianeta. Le chiamò ‘canali’, senza voler asserire che fossero d’acqua; la scala dell’immagine del pianeta è così piccola che la più sottile linea visibile corrisponde a una larghezza di diverse miglia, e alcuni di questi ‘canali’ erano anche più larghi di così, rappresentando una considerevole larghezza effettiva.

Nell’opposizione del 1879 e in quelle successive, queste osservazioni furono portate avanti, confermate e ampliate. Quindi, a partire dal 1881, si registrò un

nuovo fenomeno: lo sdoppiamento dei canali. Da allora, i risultati di Schiaparelli furono oggetto di continue controversie fra i suoi colleghi. Alcuni disegni di altri astronomi iniziarono a mostrare, con un po’ di esitazione, qualche canale. Mentre non sembrava impossibile l’effettiva esistenza di canali, non si riuscivano a immaginare cause naturali per il loro sdoppiamento. Così, l’abitabilità del pianeta divenne, da pura fantasia, un effettivo argomento di discussione. Marte è abitata da esseri intelligenti, ed è legittimo invocare la loro intelligenza come spiegazione di questo fenomeno? In questo caso, anche lo sdoppiamento poteva essere reso comprensibile, in quanto legato a necessità di navigazione o di irrigazione. Ma, a proposito dello sdoppiamento, la tendenza generale era per lo più scettica. Perrotin, di Nizza, e il suo assistente Thollon furono gli unici a riuscire, nel 1886, a vedere canali doppi con il loro rifrattore da 15 pollici [c. 38cm] Rimane però un fatto curioso: all’inizio, per settimane, questi osservatóri non videro niente di ciò e produssero alla fine disegni del tutto simili a quelli di Schiaparelli. La domanda che ci si pose era fino a che punto il pregiudizio potesse influenzare il riconoscimento di un oggetto ai limiti della visibilità. O forse era possibile che gli effetti fisiologici di un piccolo, insospettato astigmatismo, avessero giocato anch’essi un loro ruolo? A queste critiche Schiaparelli opponeva la veridicità delle forme che aveva raffigurato. Nel 1892, pubblicò un compendio delle sue ricerche sulla rivista tedesca Himmel und Erde, accompagnato da una mappa a colori di Marte in due emisferi, tanto ricca in dettagli che non si poteva non rimanere impressionati dai grandi progressi compiuti nella conoscenza del pianeta. Tuttavia, una seconda mappa che presentava tutti i casi di sdoppiamento dei canali rigettò il lettore nei vecchi dubbi a proposito della loro effettiva realtà e natura.

Fu a quei tempi che venne installato il grandissimo rifrattore da 36 pollici [c. 92cm] all’Osservatorio di Lick. Nel 1888, gli astronomi del Lick, Holden e Keeler, lo

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puntarono su Marte, aspettandosi che il loro potente strumento avrebbe dissolto tutti i dubbi. Fu una delusione, non tanto perché i loro disegni non mostravano traccia dei canali e del loro sdoppiamento, ma soprattutto perché erano così poveri di dettagli che sembravano il prodotto di uno stadio di ricerca precedente. Si è spesso asserito che i grandi telescopi non solo non offrono prestazioni superiori, ma spesso addirittura inferiori rispetto a quelli più piccoli, nello studio della superficie dei pianeti, come si può vedere confrontando i lavori di Beer e Mädler, Lockyer e Kaiser, con quelli di Herschel, Schroeter e Lord Rosse. Lievi differenze nelle ombreggiature, quando si estendono su vaste superfici, sono più difficili da distinguere di quando sono ridotte a piccole dimensioni. Inoltre, i movimenti dell’aria, nell’ampio fascio di luce che entra in un grande obiettivo, confondono l’immagine più che nel fascio più sottile di uno strumento più piccolo. D’altro canto, intricati complessi di oggetti non possono essere distinti da telescopi di minor potenza e sono visti in forme semplificate. Nel caso degli astronomi del Lick, la mancanza di pratica ebbe certamente un suo ruolo. Le osservazioni di Marte rappresentavano per loro una breve interruzione fra altri importanti lavori sulle stelle, mentre, solo occupandosi con continuità e assiduità della superficie del pianeta e di ogni suo singolo oggetto, l’osservatore può riuscire a scoprirne tutti i minuti dettagli — anche se, allo stesso tempo, egli si lega più fortemente a un suo stile personale nell’interpretarli e disegnarli.

Il problema della possibile esistenza dei Marziani esercitava il suo fascino. Il ben noto divulgatore francese di astronomia, Camille Flammarion, pubblicò, nel 1892, un’ampia monografia, La planète Mars et ses condition d’habitabilité; il titolo e il contenuto esprimevano chiaramente la sua convinzione che vicino alla Terra si muovesse un mondo gemello, dotato di manifestazioni di vita autonome e di una natura a noi ancora sconosciuta. Egli scriveva:

«[…] le consistenti modificazioni osservate nella rete delle vie idriche testimoniano che questo pianeta è sede di un’energetica vitalità. Questi movimenti ci sembrano avere luogo silenziosamente, a causa della grande distanza che ci separa; ma, mentre noi osserviamo in tranquillità questi continenti e mari, trascinati lentamente attraverso la nostra visione dall’asse di rotazione del pianeta, e ci domandiamo su quale di questi lidi la vita sarebbe più piacevole, potrebbero esserci nello stesso momento temporali, vulcani, tempeste, agitazioni sociali e ogni tipo di lotta per la vita [...] Tuttavia noi possiamo sperare che, dal momento che il mondo di Marte è più antico del nostro, il genere umano sia lì più evoluto e saggio. Fuor di dubbio sono il lavoro e il fragore della pace che per secoli hanno animato l’abitazione dei nostri vicini di casa».[200]

Diceva inoltre: «L’attuale occupazione di Marte da parte di una razza superiore alla nostra è molto probabile».[201]

Poi indulge a elogi della bellezza e importanza delle conquiste della moderna astronomia:

«Per la prima volta dall’origine del genere umano scopriamo nei cieli un nuovo mondo abbastanza simile alla Terra da risvegliare le nostre simpatie»,[202]

e pensa a un lontano futuro nel quale i popoli dei due pianeti, uniti, procederanno a un grande lavoro comune. Scriveva:

«La Terra diventa una provincia dell’Universo» e ancora

«sentiamo che sconosciuti fratelli vivono là nelle altre patrie dell’Infinità».

Per il momento il genere umano si limitava

a un sacco di storie sui Marziani e ad assidui e continui studi scientifici. Percival Lowell, un facoltoso aristocratico del New England, entusiasta, di grande ingegno e dotato in molti campi, fondò, nel 1894, un Osservatorio a Flagstaff, nel luminoso clima desertico dell’Arizona, a una altezza di 6000 piedi [c. 1000m], espressamente per studiare Marte e i suoi abitanti. Usò dapprima un rifrattore Clark da 18 pollici [c. 46cm], poi uno da 24 pollici [c. 61cm] Venne pubblicato un gran numero di disegni, con circa 180 canali quasi tutti nuovi, scoperti da

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lui e dal suo assistente. Lowell segnalò, soprattutto, cambiamenti nell’aspetto dei continenti, dei mari e dei canali, che subivano periodicamente variazioni con le stagioni marziane, e li motivò con i movimenti annuali delle acque in avanti e indietro, dalle zone in cui è sciolta verso le calotte di ghiaccio che così si ingrandivano. I canali, servendo come espedienti per l’irrigazione per assicurare lo sfruttamento più economico delle scarse risorse idriche, rivelano la presenza di un controllo da parte di esseri intelligenti.

Più fruttuoso e attendibile fu il lavoro dell’astronomo francese Antoniadi, il quale, dal 1909 in poi fece studi su Marte con il rifrattore da 83cm dell’Osservatorio astrofisico di Meudon, vicino a Parigi. Con questo strumento, che superava in apertura tutti i rifrattori europei, e in condizioni climatiche che si distinguevano per l’immobilità delle immagini telescopiche, Antoniadi fu capace di dimostrare che, in tali condizioni e nelle mani di un bravo ed esperto osservatore, gli strumenti grandi superano quelli più piccoli per lo studio dei pianeti. Ciò che Schiaparelli aveva disegnato come canali semplici o doppi era ora risolto fin nei minimi dettagli in piccoli punti, spesso organizzati in serie regolari, ma spesso anche irregolari, o semplicemente in confini di regioni di differenti ombreggiature. Per venti anni egli fu impegnato nel disegnare e descrivere le caratteristiche dell’aspetto di Marte; il suo lavoro portò a un notevole progresso e a un arricchimento del lavoro di Schiaparelli, proprio allo stesso modo in cui quest’ultimo aveva superato i suoi predecessori. Antoniadi vide talvolta nubi bianche, che ritenne essere composte d’acqua, e altre volte gialle nubi di polvere, che nascondevano i tratti del pianeta; ma i fenomeni più rilevanti per lui erano il rafforzarsi e sbiadirsi dei colori in accordo con i cambiamenti di stagione — le zone verde scuro e bluastre, probabilmente le regioni ad altitudini più basse, che asciugandosi in estate divenivano gialle, marroni o rosse, ciascuna a suo modo. Egli considerava il movimento delle acque da

polo a polo — che qui si mescolavano ed evaporavano, là condensavano e si congelavano — essere in qualche modo alla base dei cambiamenti che si osservavano. Il lavoro di Antoniadi spianò la strada ai futuri progressi, mostrando come la crescita delle dimensioni dei telescopi e dell’abilità degli osservatóri può far progredire gli studi sui pianeti, se sommata a perfette condizioni atmosferiche.

Non poteva anche la fotografia aprire nuove strade? Alla fine del diciannovesimo secolo furono scattate diverse fotografie della superficie del pianeta; ma esse sembravano per lo più una confusa copia dei disegni. Riprese direttamente nel fuoco principale, le immagini erano molto piccole, di pochi millimetri di estensione, e la grana dell’emulsione deteriorava i dettagli. Nel registrare immagini ingrandite, a causa della prolungata esposizione, esse risultavano affette da turbolenze atmosferiche, laddove l’occhio di un osservatore poteva attendere i brevi istanti in cui i piccoli dettagli emergevano chiaramente. Le fotografie di Marte, prese da Barnard con il telescopio da 40 pollici [102cm] nel 1909, da Slipher all’Osservatorio di Lowell nel 1922, da Wright e Trumpler con il telescopio da 36 pollici [c. 92cm] del Lick nel 1924 e da Ross con il telescopio da 60 pollici [c. 152cm] a Mount Wilson, mostravano chiaramente le forme generali dei tratti scuri, come le calotte polari. Delle sottili linee dei canali, ovviamente, non era visibile alcuna traccia. Tuttavia, nel confrontarle, queste fotografie erano molto istruttive. Wright scattò fotografie su lastre sensibili a intervalli limitati di colore. Di queste immagini, quelle nell’infrarosso e nel rosso mostravano chiaramente la topografia della superficie, mentre questa era totalmente assente nelle lastre sensibili al violetto e all’ultravioletto; al di là delle bianche macchie polari queste ultime mostravano solo vaghe ombre. Per confronto con i paesaggi terrestri, Wright fu in grado di stabilire che questo effetto era dovuto all’atmosfera di Marte, che è del tutto trasparente alla luce rossa, mentre riflette diffusamente la luce blu. Questa luce riflessa superava, complessivamente, la luce

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blu, proveniente dagli strati più profondi. In anni recenti, si sono raggiunti notevoli

progressi con l’introduzione dell’ingegnoso metodo di Lyot per eliminare la grana nell’emulsione fotografica. Prendendo rapidamente un gran numero di piccole immagini focali e combinandole in un’immagine ingrandita, i grani risultano smussati in uno sfondo continuo. Queste figure mostrano per lo più la stessa quantità di dettagli dei migliori disegni; apportato qualche altro miglioramento a questo metodo esse sarebbero state in grado di superarli.

Nel diciannovesimo secolo gli altri pianeti

diedero luogo a scoperte molto meno sensazionali. Su Mercurio non si scorgevano macchie distinte, finché Schiaparelli, nel 1881, vide un sistema di vaghe e deboli strisce che mantenevano la stessa posizione rispetto al terminatore, il confine fra la zona oscura e quella illuminata del disco. Egli giunse alla conclusione che il pianeta manteneva sempre lo stesso emisfero rivolto verso il Sole, come fa la Luna rispetto alla Terra, e doveva quindi ruotare intorno al proprio asse in 88 giorni, la durata del suo periodo di rivoluzione. Ciò fu poi confermato da Lowell a Flagstaff, ma contestato da Leo Brenner, che aveva lavorato anche sui canali marziani, con un piccolo telescopio, in ottime condizioni atmosferiche, a Lussinpiccolo [oggi Mali Lošinj] in Istria. La questione fu definitivamente appianata da Antoniadi, che, fra il 1924 e il 1929, fece un gran numero di disegni con il grande telescopio di Meudon. Egli confermò il periodo di rotazione di 88 giorni; i suoi disegni mostravano un sistema di larghe bande sbiadite nelle quali egli fu in grado di riconoscere molte delle strisce di Schiaparelli. Erano dei segni fissi sulla superficie del pianeta, ovviamente visibili solo sulla metà illuminata, dal momento che l’altro emisfero rimane sempre in ombra. Inoltre, di tanto in tanto, egli scorgeva chiazze bianche estese e variabili, che suppose fossero nubi di polvere. Non potevano esservi nubi di acqua su Mercurio dal momento che la scarsa gravità avrebbe

lasciato sfuggire il vapore acqueo; tuttavia, anche per trattenere le nubi di polvere, deve essere presente una sottile atmosfera.

Nessun astronomo, osservando Venere, riuscì mai a vedere qualcosa di più di vaghe e mal definite differenze nelle ombreggiature, insufficienti ad accertarne il periodo di rotazione. Schroeter, a Lilienthal, disse di avere visto che uno dei corni di Venere crescente risultava di tanto in tanto smussato — come anche un corno di Mercurio — cosa che spiegò con la presenza di ombre di montagne alte trascinate in un periodo di rotazione di circa 24 ore. Herschel, tuttavia, non osservò questo fenomeno. Nel 1839, Francesco Vico S.J., a Roma, pensò di aver riconosciuto delle forme definite e ne dedusse un periodo di rotazione di 225 giorni, cosicché Venere, come Mercurio, avrebbe sempre rivolto la stessa faccia al Sole. Questo risultato fece sorgere dubbi e contraddizioni; Nel 1898, Villiger, a Monaco, fece notare che una sfera interamente liscia, bianca e opaca, se veniva illuminata lateralmente, mostrava graduali differenze nell’ombra, che per contrasto sembravano deboli segni, che mantenevano la loro posizione rispetto ai confini dell’ombra stessa. Gli osservatóri si trovarono sempre d’accordo sul fatto che di Venere non vediamo la superficie del pianeta, ma solo lo strato più alto di una densa coltre di nubi. La presenza di un’atmosfera su Venere era già stata stabilita al transito del 1761, quando si osservò che la parte scura del disco, lontana dal Sole, era circondata da un anello luminoso. Oltretutto, nel diciannovesimo secolo, si osservò spesso che i corni, nella fase crescente, si estendevano oltre i 180°.

Le osservazioni del pianeta Giove compiute nell’Ottocento non portarono a nulla di così interessante e nuovo come quello che era stato scoperto per Marte e Mercurio, ma si limitarono a confermare la presenza degli aspetti principali, già stabilita in passato. Questi aspetti erano essenzialmente le due fascie parallele all’equatore e separate da una zona equatoriale più luminosa, che mostravano piccole macchie e irregolarità che

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indicavano una rotazione rapida, di circa 10 ore. Dal momento che vediamo solo la zona superiore di una cortina di nubi, le macchie che osserviamo in movimento possono rivelare solo approssimativamente il periodo di rotazione; si trovò che il periodo variava a differenti latitudini, 9h55m nelle fasce scure, 9h50m nella zona equatoriale. Il grande pianeta mostra un’enorme quantità di dettagli in continua mutazione, anche con piccoli telescopi, ed è, quindi, un oggetto interessante per gli astronomi dotati di un equipaggiamento modesto. Durante tutto il diciannovesimo secolo, molti osservatóri produssero assiduamente dei disegni raffiguranti le macchie delle bande nuvolose, senza apprendere nulla più del fatto che esse mutavano continuamente, apparendo e svanendo. Strumenti di maggiori dimensioni potevano dare informazioni sui colori, per lo più gialli o rossastri inseriti fra zone verdeggianti. La sola novità di rilievo fu la comparsa, nel 1878, di una macchia rossa, larga e allungata; la si poteva ritrovare nei disegni del 1859 ed era stata indicata anche nel 1831∗. Dopo la sua scoperta rimase visibile per molti anni, perdendo gradatamente la colorazione rossa, con un periodo di rotazione variabile di circa 9h55m.

Saturno, che presentava un appiattimento maggiore rispetto a Giove e, quindi, sicuramente in rotazione più rapida, mostrava segni molto meno interessanti sulla sua superficie. C’era un’evanescente fascia scura intorno all’equatore, talvolta accompagnata da altre fasce più deboli a latitudini maggiori, e, a intervalli irregolari, comparivano macchie che offrivano la possibilità di determinare un periodo di rotazione. Così, nel 1876, Asaph Hall trovò un periodo di 10h14m24s all’equatore; nel 1894, Stanley Williams trovò 10h12m13s all’equatore e 10h14m15s al di sopra dei 20° di latitudine, mentre, nel 1903, una macchia a 36° di latitudine, osservata da Denning e Barnard, diede 10h38-39m. Anche in questo

∗ Ndr: non si tratta della Grande macchia rossa su Giove, che venne certamente osservata per la prima volta da G.D. Cassini, a Bologna, nel 1665, e che forse corrispondeva ad una formazione notata da Robert Hooke, già nel 1664.

caso si vedevano solo strati di nubi. Urano e Nettuno erano ovviamente oggetti

molto più difficili da studiare; l’aspetto appiattito del verde Urano (con un appiattimento di circa 1/12) indica una rapida rotazione intorno all’asse situato quasi sul piano dell’eclittica. I disegni di Lowell mostravano alcune macchie, la cui effettiva realtà rimase dubbia.

Vanno menzionati anche i satelliti degli altri pianeti, in quanto oggetti equivalenti alla nostra Luna. Le loro dimensioni ridotte e la conseguente assenza di atmosfera vi escludono la presenza di vita, ma, insieme ai loro pianeti primari, rendono completo l’aspetto di un intero mondo. Con i miglioramenti dei telescopi, nell’Ottocento, ne furono ripetutamente scoperti di nuovi. Venere e Mercurio rimasero senza satelliti, pur se ingannevoli immagini riflesse nel telescopio furono spesso annunciate come lune. Nel 1877 [10 e 16 agosto], Asaph Hall, con il 26 pollici [c. 66cm] di Washington, scoprì due lune di Marte [i nomi Deimos e Phobos furono suggeriti a Hall da Madan di Eton], per certo le più piccole conosciute del loro genere, con diametri stimati 12 e 9 miglia [c. 20 e 15 km] Il periodo di rivoluzione del satellite più interno, Phobos, 7h29m, più breve del periodo di rotazione del pianeta, proponeva degli interessanti problemi di teoria degli effetti mareali.

Nel 1892, Barnard, con il rifrattore da 36 pollici [c. 92cm] del Lick, scoprì una quinta luna di Giove molto vicina al pianeta [Amaltea], un piccolo oggetto di forse 100 miglia di diametro [c. 170km] Al di fuori del sistema dei quattro grandi satelliti galileani, furono scoperti, su lastre fotografiche, quattro piccoli satelliti, fra il 1904 e il 1914; questo numero fu poi accresciuto. A causa delle orbite notevolmente deviate, fortemente inclinate ed eccentriche, alcune persino retrograde, molto perturbate dal Sole, erano oggetti interessanti per la meccanica celeste. Venne posta la domanda se essi fossero pianeti di precedente formazione catturati da Giove e, per alcuni di essi, fu data risposta affermativa da Moulton.

Ai sette satelliti di Saturno, noti alla fine

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del diciottesimo secolo, ne fu aggiunto un ottavo [Hyperion], nel 1848, scoperto quasi simultaneamente da W. C. Bond con il rifrattore di Harvard e da Lassell con il suo rifrattore. Un nono satellite molto piccolo, scoperto nel 1898 con mezzi fotografici [da Pickering, Phoebe] molto lontano dalla zona degli altri, somiglia al più esterno dei satelliti di Giove, dal momento che ha moto retrogrado e una grande eccentricità.

Urano, che aveva due satelliti, scoperti da Herschel [Titania e Oberon], ne ricevette altri due scoperti da Lassell nel 1851 [Ariel e Umbriel], entrambi oggetti molto deboli, con orbite quasi perpendicolari all’eclittica. Fu ancora Lassell, poco dopo la scoperta di Nettuno, a scoprire un satellite di quest’ultimo [Tritone], anch’esso con moto retrogrado su un’orbita fortemente inclinata.

Dal punto di vista delle dimensioni, i satelliti si legano ai pianeti formando una serie continua. La terza e la quarta luna di Giove, con un diametro di 5000 km, sono uguali a Mercurio; il satellite di Nettuno è un po’ più grande; la nostra Luna e il sesto satellite di Saturno sono un po’ più piccoli; così si può parlare di una certa sovrapposizione. Gli altri seguono in una serie decrescente fino ai satelliti di Marte, che si muovono paralleli alla serie degli asteroidi. Mentre i secoli precedenti distinguevano il Sole, i pianeti e i satelliti in tre diversi ordini di grandezza, le scoperte del diciannovesimo secolo riunivano le tre categorie in un’unica serie, che continuava con i meteoriti, ancora più piccoli. Il Sole, come corpo celeste solitario e diverso, rimaneva separato da un intervallo dal dieci volte più piccolo Giove.

L’astronomia dell’Ottocento non limitò le sue scoperte alla superficie esterna dei corpi celesti. Essa fu in grado di penetrarne la superficie, poiché era essenzialmente una teoria delle forze di attrazione e l’attrazione gravitazionale dipende da tutta la materia al loro interno. Il primo dato che si ottenne fu la densità media di questa materia. Una volta note le masse dei pianeti rispetto alla massa della Terra — dal moto dei loro satelliti o, con maggiore difficoltà, dalle perturbazioni che esercitano — la misura del loro diametro

ne rivela il volume, da cui la densità media rispetto alla densità media della Terra.

La massa e la densità media della Terra furono oggetto delle più attente ricerche per tutto l’Ottocento, basate sulla misura, difficilmente percettibile, dell’attrazione che essa esercita sui corpi in laboratorio. Ne risultò una densità media di 5,50, più alta della densità delle rocce e dei minerali che costituiscono la crosta terrestre. Perciò, al suo interno, la densità doveva essere molto più alta, pari a quella trovata solo per i metalli.

Ora si poteva ricavare anche la densità assoluta degli altri corpi celesti. Per la Luna si trovò 3,3; per Mercurio, Venere e Marte, rispettivamente, 3,8, 4,9 e 4,0, dello stesso ordine di grandezza, ma un po’ più piccole di quella della Terra, decrescenti con il decrescere delle dimensioni del pianeta. Per i pianeti maggiori si trovò una densità media più ridotta: per Giove 1,3, per Saturno 0,7, per Urano 1,3, per Nettuno 1,6. Il fatto che Saturno avesse una densità media inferiore a quella dell’acqua si può comprendere solo se una larga parte del suo volume è costituita di gas. La superficie della sua parte solida o fluida è situata molto più in profondità e ciò che vediamo al suo posto è la parte superiore di una massa nuvolosa fluttuante in un’estesa atmosfera. La stessa cosa, in grado minore, si deve ritenere che accada anche per gli altri pianeti.

La meccanica celeste diede ancora altre informazioni. Clairaut ricavò una formula secondo la quale l’appiattimento visibile di un pianeta dipendeva dal suo periodo di rotazione, combinato con l’aumento di densità verso il centro; quindi, la variazione nella distribuzione della materia all’interno dei corpi venne rivelata da quantità osservabili. La meccanica celeste si incontrava qui con la sismologia, che aveva organizzato su tutta la Terra la registrazione accurata delle piccole vibrazioni e delle onde sismiche che ne pervadono il corpo. Questa branca della geofisica giunse ad analoghe conclusioni, ma in modo differente. Wiechert, nel 1897, trovò che la Terra consiste di due parti ben distinte: un nucleo di metallo, prevalentemente ferro, con una

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densità di 7,8, circondato da uno strato di rocce, prevalentemente silicati di ferro e magnesio, con una densità di circa 3,3. Nel 1934, Jeffreys espresse l’opinione plausibile che la stessa cosa si dovesse ritenere accadesse per i pianeti simili alla Terra e che la diminuzione della densità media con il volume fosse dovuta al nucleo di metallo, le cui dimensioni decrescono fino alla sua completa assenza nella Luna. Dall’appiattimento di Giove e Saturno si ricavò che l’aumento della densità con la profondità era superiore a quella della Terra, cosicché — come accadeva per Giove — una considerevole parte del volume al di sotto della superficie visibile costituita di nubi doveva essere occupata da gas atmosferici.

Le conoscenze sulle condizioni che

potevano trovarsi sugli altri mondi, acquisite solo con il telescopio, non erano molto soddisfacenti. Un aiuto insperato giunse da un’altra fonte; in questo campo di studi l’astronomia non doveva più contare solo sulle sue forze. I progressi della fisica nel diciannovesimo secolo fornirono nuovi strumenti e nuovi metodi di ricerca che furono applicati ai corpi celesti con sempre maggior successo. Si trattava, essenzialmente, della fotometria, dell’analisi spettrale, della termometria e della polarimetria.

I principi e i metodi della fotometria — la disciplina che misura le quantità di luce — sono così semplici e ovvi che essa avrebbe potuto essere utilizzata anche nei secoli precedenti, ma scarseggiava tanto l’interesse quanto lo stimolo a investigare su ogni cosa. I primi tentativi furono condotti nel diciottesimo secolo da Bouguer, che, nel 1729, fece alcune misure della riflessione diffusa della luce anche da parte di superfici opache, e da Lambert, che, nel 1760, formulò la prima teoria al riguardo. La frazione di luce incidente, riflessa in maniera diffusa da una superficie, fu chiamata da Lambert albedo, parola latina per “biancore”, essendo il suo libro scritto interamente in latino; questa parola latina è rimasta come termine scientifico in uso. La

fotometria astronomica pratica iniziò con John Herschel che, nel 1836, mentre si trovava al Capo di Buona Speranza, misurò la luminosità di un gran numero di stelle. Egli confrontò le stelle con un’immagini puntiforme della Luna ottenuta con una piccola lente; variando la distanza della lente dal punto luminoso e dall’occhio, poteva rendere questa immagine uguali a quella della stella in esame. La più importante delle leggi dell’ottica dice che l’intensità decresce con l’inverso della distanza al quadrato. Dal momento che i risultati ottenuti in giorni diversi erano discordanti, Herschel suppose che un errore sistematico sconosciuto avesse viziato le sue misure. Il vero motivo fu poi indicato da J.C.F. Zöllner (1834-82): Herschel aveva calcolato la luminosità della Luna in differenti giorni utilizzando le formule di Lambert, che in questo caso non potevano essere utilizzate. In realtà, le misure di Herschel erano abbastanza coerenti. Nel 1861, Zöllner realizzò un fotometro in cui la luminosità di una stella artificiale veniva resa uguale a quella della stella in esame. La stella artificiale si otteneva da un piccolo foro posto di fronte a una fiamma e la luce veniva ridotta esattamente alla quantità desiderata interponendo un apparato costituito da due prismi di Nicol. Questo ‘astrofotometro’ trovò larga applicazione in astronomia.

Zöllner utilizzò lo stesso principio — variare l’intensità luminosa usando un apparato polarizzatore — per determinare la luminosità della Luna nelle diverse fasi. Scoprì, così, che la luminosità della Luna piena generava un picco; prima e dopo l’istante esatto dell’opposizione la luminosità decresceva rapidamente, in maniera quasi uniforme con l’angolo di fase (l’angolo che la Luna forma con la Terra e il Sole). Secondo la teoria di Lambert, l’intensità avrebbe dovuto mostrare un appiattimento, come una collina, variabile lentamente vicino al massimo e più rapidamente solo ad ampi angoli di fase. Zöllner comprese presto il motivo di questa discrepanza: la teoria di Lambert valeva per una superficie ideale, mentre la superficie della Luna è piena di irregolarità. Subito

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prima e subito dopo l’opposizione, quando l’angolo di fase è piccolo, le ombre diventano visibili e riducono la luce totale; queste ombre occupano una parte della superficie che cresce direttamente con l’angolo di fase. La diminuzione di luminosità (espressa in magnitudini stellari) per un angolo di fase di 1° — il cosiddetto “coefficiente di fase”, che Zöllner trovò avere un valore pari a 0,025 — può essere presa a misura dell’irregolarità della superficie. I risultati di Herschel, usati ora come misura della luminosità della Luna attraverso quella di stelle note, confermarono a pieno i risultati di Zöllner. Nel 1923, Barabashev misurò la luminosità di zone apparentemente piatte della superficie lunare; queste mostravano la stessa dipendenza dall’angolo di fase che mostra la luce totale, il che indica che queste zone sono piene di piccole irregolarità, fossi e dossi, come una specie di pietra pomice.

Il confronto fra la luminosità della Luna piena e del Sole era molto più difficile, proprio perché la differenza è enorme. Zöllner trovò un rapporto di 618.000. Poco prima, G.P. Bond aveva trovato 470.000. Numerosi fisici e astronomi trovarono poi valori anche molto diversi e la media adottata, 465.000, ha un margine di incertezza di 1/10 del suo valore. Per l’albedo della Luna, Zöllner misurò un valore di 0,17. Da successive ricerche si ricavò un valore inferiore, 0,07, corrispondente circa a una pietra dal colore abbastanza scuro.

Zöllner, il fondatore dell’astrofotometria, misurò, fra il 1862 e il 1864, il rapporto di luminosità tra la Luna piena e alcune stelle luminose e inoltre anche la luminosità dei pianeti. Di questi individuò alcune caratteristiche principali; trovò per Marte un considerevole angolo di fase, che per Giove, invece, risultò nullo. Dalla luminosità dei pianeti rispetto a quella del Sole, calcolò un albedo di 0,27 per Marte, 0,62 per Giove, 0,50 per Saturno, 0,64 per Urano e 0,47 per Nettuno: dal che derivava un alto potere riflettente per i pianeti maggiori.

Il fotometro di Zöllner venne usato dal 1877 al 1893 da Gustav Müller e Paul Kempf, all’Osservatorio Astronomico di

Postdam, per compiere accurate misure della luminosità dei pianeti. I risultati di queste misure si possono riassumere con i valori trovati per i due parametri caratteristici: il coefficiente di fase e l’albedo. Per Mercurio, il primo vale 0,037 (maggiore di quello trovato per la Luna), il secondo 0,07; per Venere, valgono, rispettivamente, 0,013 e 0,59. Con questi semplici numeri si riesce a esprimere la differenza fra i due pianeti molto meglio che con qualsiasi descrizione. Il grande coefficiente di fase e il piccolo albedo di Mercurio indicano che noi ne vediamo direttamente la superficie, non nascosta dall’atmosfera, e, come avviene per la Luna, rocce scure e ombre generano disomogeneità. L’alto potere riflettente di Venere, che la rende la più brillante fra le nostre stelle serali, indica che non vediamo la sua superficie solida ma la regione superiore di uno strato di nubi, il che è confermato dal piccolo coefficiente di fase. Per Marte, Müller e Kempf trovarono un piccolo albedo, indicante una superficie non molto scura, e un piccolo coefficiente di fase, indicante una superficie piuttosto liscia, senza grosse irregolarità. Il grande albedo, 0,56, e il piccolo coefficiente di fase, 0,015, di Giove mostrano condizioni simili a quelle di Venere. Per Saturno e Urano è difficile, a causa della piccola fase, determinare un coefficiente di fase, ma il grande albedo indica anche qui condizioni simili.

Di grande importanza furono le misure fotometriche dell’anello di Saturno. Laplace aveva dimostrato che anelli solidi piatti non possono restare in equilibrio fluttuando liberamente nello spazio. Nel 1859, il famoso fisico James Clark Maxwell, fondatore della teoria dell’elettricità, studiando questi problemi, fece notare che l’anello avrebbe dovuto rompersi per le tensioni generate dalle forze di attrazione e centrifuga. Maxwell suggerì che l’anello di Saturno potesse essere composto di molti piccoli corpi, una specie di anello di meteoriti in libera rotazione, in orbita circolare intorno al pianeta. Questa teoria venne confermata dalla divisione osservata fra l’anello esterno e quello interno, che Kirkwood spiegò allo stesso modo della

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divisione della fascia dei pianetini, come dovuto alla commensurabilità col moto dei più grandi fra i satelliti di Saturno. Un’altra conferma la si ebbe poi dalla presenza del ‘crape ring’ scoperto da Bond nel 1850, un’estensione semitrasparente dell’anello al di là del suo margine interno.

Le misure fotometriche di Saturno compiute da Müller mostrarono che, quando l’anello non era osservabile, Saturno presentava un coefficiente di fase molto piccolo. Quando però esso si presentava con un angolo abbastanza aperto, la luminosità totale cresceva fino a 8/3 del precedente valore (così l’anello forniva più luce del globo del pianeta) e ora il coefficiente di fase saliva, grazie all’anello, a 0,044; cosicché, per il solo anello, esso doveva avere un valore molto maggiore. Seeliger, a Monaco, fornì una spiegazione simile a quella di Zöllner per la Luna. Se guardiamo le particelle dell’anello esattamente dalla direzione dalla quale provengono i raggi solari, ogni particella copre con la sua ombra la particella dietro di sé. Però, non appena la direzione si modifica di un piccolo angolo, ricompaiono i bordi delle ombre. Le misure fotometriche provarono, quindi, che l’anello di Saturno consiste realmente di piccoli corpi meteorici.

Tornando alle altre metodologie fisiche citate sopra, ricordiamo che la polarimetria è una speciale e raffinata estensione della fotometria. La quantità di polarizzazione della luce riflessa diffusamente, positiva (parallela al piano di incidenza) o negativa (perpendicolare), dipende dall’angolo fra la luce incidente e la luce riflessa (chiamato sopra ‘angolo di fase’) in modo diverso per sostanze diverse. Questo metodo di ricerca poté acquisire importanza a livello pratico solo quando gli strumenti di misura divennero sufficientemente accurati. Bernard Lyot, a Parigi, riuscì ad apportare miglioramenti tali che la polarizzazione poté essere misurata allo 0,01%. A partire dal 1924, venne misurata la polarizzazione della luce riflessa dai pianeti e dalla Luna in funzione dell’angolo di fase. Per la Luna, questa dipendenza aveva un particolare andamento irregolare, in parte positiva, in

parte negativa; di tutti i materiali terrestri presi in considerazione, solo la cenere vulcanica mostrava esattamente la stessa dipendenza; da ciò si ricavarono informazioni dirette sulle caratteristiche della superficie lunare.

Per Mercurio, la curva che rappresentava questa dipendenza aveva esattamente la stessa forma. Per Venere era del tutto differente e non era neppure in completo accordo con il comportamento della luce riflessa da nubi bianche. Corrispondeva piuttosto alla luce riflessa da una tenue nebbia ed era perfino possibile riconoscere la dimensione delle goccioline. Così, guardando Venere, non vediamo la regione superiore di uno strato di nubi, ma una spessa atmosfera, non trasparente, costituita di una sottile nebbia bianca. Per Marte, la curva polarimetrica presentava alcuni aspetti in comune con quella della Luna, ma era approssimata meglio da una superficie sabbiosa. Con Marte si hanno variazioni e disturbi che durano molte settimane, che presentano le caratteristiche di nubi di polvere. Tramite l’osservazione visuale, si era anche ipotizzata la presenza di tempeste di polvere, indicanti un’atmosfera molto asciutta. In questo senso, gli studi con i polarimetri hanno permesso di accedere con inaspettata sicurezza a conoscenze importanti sulla natura della superficie dei pianeti. Per Giove e Saturno, con i loro piccoli angoli di fase, si poté solo discernere una piccola differenza fra le regioni equatoriali e quelle polari.

La misura della temperatura dei corpi lontani è sempre state ben più ostica della misura della loro luminosità, perché l’uomo non possiede per la percezione del calore un organo così sensibile come è l’occhio per la percezione della luce. Solo nel diciannovesimo secolo si costruirono strumenti fisici tanto sensibili da poter misurare il calore di altri corpi celesti oltre a quello del Sole. La termopila di Melloni fu applicata alla Luna dal suo stesso inventore, nel 1846, e da Lord Rosse in ricerche più estese, nel 1869-72. Parte della radiazione ricevuta dalla Luna è radiazione solare riflessa e consiste principalmente di onde

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visibili inferiori a 0,7 micron. Il resto è radiazione diretta della superficie lunare riscaldata, che, essendo radiazione a bassa temperatura, consiste essenzialmente di onde lunghe, sopra a 1 micron. Interponendo uno strato sottile d’acqua, che assorbiva interamente le onde lunghe, in modo da separare le due radiazioni e da poter, così, calcolare la temperatura della Luna ricavando l’intensità della radiazione a alte lunghezze d’onda, Lord Rosse trovò che il 14% della radiazione lunare era radiazione solare riflessa, l’86% era radiazione propria. Calcolò, inoltre, che la temperatura della parte di superficie illuminata della Luna fosse 300°C al di sopra di quella della parte in ombra. Questo risultato fu confermato nel 1874 da attente misurazioni di Very, compiute all’Allegheny Observatory; completamente illuminata dal Sole la superficie della Luna era a temperatura superiore a 100°C; al buio essa scendeva fino a pochi gradi sopra lo zero assoluto. Nel 1886, Boeddicker, assistente di Lord Rosse, osservò che durante un’eclissi totale di Luna la temperatura cadeva rapidamente sotto zero; ciò dimostrò che il calore assorbito superficialmente si disperde rapidamente.

L’uso dei sensibili radiometri di Crookes e i rapidi miglioramenti apportati alla sensibilità dei moderni termoelementi resero possibile misurare le temperature dei pianeti osservandoli al fuoco dei grandi telescopi. Interponendo fogli di materiali ad assorbimento differenziato, come vetro e fluorite, fu possibile avere una divisione più netta nella radiazione scura fra le lunghezze d’onda lunghe e corte, per ricavare la temperatura. Nicholson e Pettit, al Mount Wilson Observatory, osservarono l’eclissi lunare del 1927 con un radiometro e trovarono che la temperatura cadeva fra 70°C e –120°C alla fine dell’eclissi. Dalle misure compiute su Marte da Coblentz e Lampland, nel 1926, al Lowell Observatory, Menzel dedusse che la temperatura a mezzogiorno è circa 0°C, se non qualche grado in meno, con la zona scura un po’ più calda delle gialle pianure. Di giorno, la temperatura aumenta rapidamente partendo da –100°C; il polo sud, quando emerge dal

buio della notte autunnale, è a –100°C e nel corso del lungo giorno estivo raggiunge 0°C. Le precedenti teorie, secondo le quali Marte, per effetto di una radiazione solare due volte più piccola, dovesse essere coperto da un sottile strato di ghiacci, le cui fratture sembravano canali, furono smentite da queste misure. La nostra Terra sembrava, dopotutto, il posto migliore per vivere.

Per Mercurio, si misurò una temperatura di 400°C. La parte illuminata di Venere mostrò una temperatura di 60°C e la parte buia di –20°C; il valore relativamente alto di quest’ultimo dato indica che non era possibile che essa non fosse mai esposta al Sole, cosicché il periodo di rotazione non poteva arrivare a essere 225 giorni. La temperatura di Giove risultò pari a –130°C, inaspettatamente bassa; per Saturno, il valore era –150°C; e per Urano era ancora più basso, –200°C. Dal momento che i rapidi cambiamenti nella forma delle nubi di Giove suggerivano processi turbolenti nella sua atmosfera, si era spesso supposto che la superficie del pianeta, al di sotto di essa, fosse calda e che il pianeta, a causa delle dimensioni, non si fosse ancora completamente raffreddato. Jeffreys, nel 1923, assumendo che la materia radioattiva fosse la sorgente del calore osservato all’interno dei pianeti, espresse dubbi a proposito di questa idea. Le temperature misurate concordavano con la supposizione che la radiazione solare, debole considerando la grande distanza, fosse la sola causa effettiva. Qui, come nel caso di Venere, dobbiamo ricordare che le temperature così misurate erano quelle dello strato più alto di atmosfera, la superficie esterna delle nubi.

L’analisi spettrale fu l’apporto più

importante che la fisica offrì all’astronomia nel diciannovesimo secolo. Dopo la sua scoperta, fu spesso applicata alle stelle e ai pianeti, Huggins in Inghilterra e Secchi a Roma, per primi, presto seguiti da Rutherford in America e da Vogel in Germania. Quali informazioni possono fornire gli spettri dei pianeti? La loro luce è luce solare che ha attraversato due volte la

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loro atmosfera; quindi, gli spettri devono presentare le stesse righe di Fraunhofer dello spettro solare, alle quali si devono aggiungere gli assorbimenti dell’atmosfera del pianeta. Se la superficie riflettente è colorata, la distribuzione di intensità nei differenti colori devierà dal puro spettro solare. Quando poi divenne possibile determinare accuratamente le lunghezze d’onda (circa a partire dal 1890), soprattutto grazie all’uso della fotografia, si riuscirono a misurare le velocità lungo la linea di vista, per esempio le velocità di rotazione.

Fu questo il caso di Giove. Se la fenditura dello spettrografo è posta sul disco di Giove lungo l’equatore, la zona a est in avvicinamento verso di noi presenta righe di Fraunhofer spostate verso il violetto, la zona a ovest, che si allontana, verso il rosso; le righe sono inclinate, e questa inclinazione è una misura del periodo di rotazione. Keeler, all’Osservatorio di Lick nel 1895, raccolse allo stesso modo lo spettro di Saturno; lo spettro del disco mostrava righe simili inclinate nella direzione opposta, che indicavano una velocità equatoriale di circa 10km/s, a conferma del suo periodo di rotazione di 10 ore e 1/4. Su entrambi i lati dello spettro del disco, due bande mostravano lo spettro dell’anello e presentavano righe di assorbimento inclinate in direzioni opposte. Ciò è in perfetta corrispondenza con le velocità dei piccoli satelliti che descrivono orbite libere intorno al pianeta: 20km al bordo interno, 16km nella zona più lenta all’esterno. Lo spettro di Saturno portò, così, alla teoria meteorica di Maxwell, nuove e più cospicue conferme, rispetto alle prove fotometriche.

Questi non erano risultati del tutto nuovi. Nel 1911, Slipher riuscì a determinare, dagli spettrogrammi presi all’Osservatorio di Lowell, il periodo di rotazione, ancora sconosciuto, di Urano, pari a 10,7 ore; tale risultato era in accordo con il grande appiattimento, 1/12, ricavato dalle misure compiute sul diametro. Gli astronomi speravano che anche lo spettro di Venere avrebbe permesso di determinare se la rotazione avvenisse in un giorno o in 225. Era un problema delicato perché, nel caso di

una rotazione in un giorno, la velocità equatoriale sarebbe stata di soli 0,4km/s, come per la Terra che ha misure simili. Sempre all’Osservatorio di Lowell, Slipher, con attenti studi di spettrogrammi presi nel 1903, non trovò traccia di inclinazione delle righe spettrali; ciò significava che la velocità poteva essere al massimo di 0,02km/s ovvero che il periodo di rotazione era di qualche settimana e non certamente compreso nell’arco di un giorno.

Per la Luna, priva di atmosfera, la sola differenza rispetto allo spettro del Sole che ci si aspettava era dovuta al colore della superficie. Wilsing, a Postdam, da misure spettrofotometriche, ovvero misurando le intensità relative dei differenti colori nello spettro della Luna e in quello del Sole, trovò che la luce della Luna è più giallastra, come la luce riflessa dalla polvere o dalla sabbia.

Per i pianeti, i principali oggetti di studio era la costituzione delle loro atmosfere. L’assorbimento dell’atmosfera della Terra genera, nello spettro che si osserva del Sole e in tutti gli spettri celesti, tre forti bande di assorbimento nel rosso prodotte dall’ossigeno e indicate dalle lettere A, B e α, oltre a molti altri gruppi prodotti dal vapore acqueo. Se l’ossigeno o il vapore acqueo fossero esistiti nelle atmosfere dei pianeti, questi avrebbero dovuto mostrare nello spettro una sorta di rafforzamento di queste bande. Se questo rafforzamento ci fosse o meno negli spettri di Marte e Venere fu oggetto di molte controversie. Era, questa, un’osservazione molto difficile, non solo per capire se la presenza di queste bande potesse essere accertata e se le si potesse misurare nel debole, quasi impercettibile rosso, ma soprattutto per stabilire se esse fossero più forti che nello spettro della Luna. Negli anni Settanta, gli osservatóri Huggins, Maunder (a Greenwich), Janssen (a Meudon) e Vogel (a Bothkamp) si trovarono d’accordo sul fatto che l’ossigeno e il vapore acqueo fossero effettivamente presenti nell’atmosfera di Marte e Venere e, nel 1894, confermarono queste conclusioni. Certamente, i preconcetti sulla naturale somiglianza che ci dovesse essere fra le atmosfere dei pianeti giocarono in questo

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caso un ruolo importante. Gradatamente, iniziando a usare telescopi e spettroscopi di migliore qualità e con potere risolutivo maggiore, i dubbi sparirono. Nel 1894, Campbell stabilì che con il potente strumento del Lick non si riusciva a scorgere alcuna differenza fra le bande nello spettro del pianeta e quelle nello spettro della Luna quando sono osservati alla stessa altezza.

Finché non fu possibile fotografare gli spettri su lastre sensibili alla luce rossa, non si poté giungere ad alcuna conclusione fondata e anche allora non fu facile. Quando Venere è alla massima elongazione, in avvicinamento o in allontanamento dalla Terra, la serie delle righe che costituiscono le bande deve essere spostata rispetto alle stesse linee prodotte dall’atmosfera terrestre. Slipher non trovò traccia di sdoppiamento o spostamento di queste righe nello spettro di Venere raccolto nel 1908. Evidentemente, l’ossigeno e il vapore acqueo non sono presenti negli strati più alti dell’atmosfera di questo pianeta. A Mount Wilson si ebbe conferma di questo risultato e si trovò un altro gruppo di righe di assorbimento che sembravano dovute all’anidride carbonica. Per Marte, la decisione fu ancora molto più difficile. Nel 1908, Slipher aveva preso anche lo spettro di Marte e, misurando l’intensità delle bande fotometriche, Very trovò che la banda dell’ossigeno era più forte del 15% di quanto non fosse nello spettro della Luna e che vi era più vapore acqueo che nella atmosfera asciutta di Flagstaff. Campbell, tuttavia, nel 1910, non trovò alcuna differenza rispetto alla Luna. Nel 1925, a Mount Wilson, Adams e St John presero degli spettri ad alta dispersione, per vedere se le righe separate di queste bande fossero spostate rispetto alle vere righe metalliche del Sole. Risultò che il vapore acqueo nell’atmosfera marziana era il 3% di quello presente nell’atmosfera di Mount Wilson e l’ossigeno era il 16%. La questione sembrava così appianata. Tuttavia, quando vennero scoperti nuovi prodotti sensibili, grazie ai quali la banda B dell’ossigeno poteva essere fotografata ad alta dispersione, Adams e Dunham, nel 1933, fecero nuovi studi su questo problema e fu possibile

stabilire con certezza l’assenza di qualunque traccia di ossigeno marziano. La quantità di ossigeno libero nell’atmosfera di Marte doveva essere inferiore allo 0,1% di quella che si trova sulla Terra. Inoltre, G.P. Kuiper trovò una traccia di anidride carbonica nell’atmosfera e, così, il risultato di tutta questa ricerca sulle atmosfere è che né Marte né Venere sono abitabili per essere viventi la cui energia vitale dipende dall’uso di ossigeno.

Allora, qual era il significato del colore verdastro delle zone in ombra di Marte, chiamati ‘mari’ e ‘canali’, ma interpretati come vegetazione? Kuiper riuscì a fotografare i loro spettri e trovò che erano assenti le bande di assorbimento nell’infrarosso, caratteristiche della clorofilla. Dal momento che la stessa cosa avviene anche per alcuni muschi e licheni sulla Terra, non si poteva escludere qualche primitiva forma di vegetazione su Marte.

Gli studi sugli spettri dei pianeti maggiori portò a risultati non meno sorprendenti. Negli anni Sessanta, Secchi e Huggins avevano già scorto, nello spettro di Giove, una banda di assorbimento nel rosso, a 6180Å, sconosciuta per qualunque sostanza sulla Terra. Negli anni Settanta, oltre a questa, si scorsero molte altre bande, ancora sconosciute, nel rosso e nel giallo. Un vero progresso si verificò quando i moderni rivelatori ci aprirono la strada per vedere l’estremo rosso e l’infrarosso. Slipher stabilì che tutti i pianeti maggiori mostravano le stesse bande di assorbimento, più deboli per Giove e con intensità crescente al crescere della distanza dal Sole. La loro origine rimase sconosciuta finché, nel 1932, Rupert Wildt a Göttingen evidenziò che molte di quelle bande erano presenti nello spettro del metano, il più semplice degli idrocarburi, e altre erano dovute all’assorbimento da ammoniaca. Questo fu confermato da un accurato raffronto eseguito da Dunham, a Mount Wilson. H.N. Russell dedusse, da considerazioni teoriche sull’equilibrio chimico, che, in assenza di ossigeno, gli atomi di azoto, carbonio e idrogeno, a così basse temperature, al di sotto di –100°C, si devono combinare prevalentemente in

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questo idrocarburo (CH4) e in composti di azoto e idrogeno (NH3), essendo queste le molecole più stabili. L’aumento di intensità che si rivelava da Giove a Nettuno è, quindi, legata all’abbassamento della temperatura. La struttura dei due pianeti più grandi, Giove e Saturno, fu poi descritta da Jeffreys nel 1934: un nucleo di rocce minerarie racchiuso da un involucro di ghiaccio e anidride carbonica solida con densità pari circa a uno; questi sono circondati da un’estesa atmosfera di azoto, idrogeno, elio e metano, nella quale fluttuano nubi di ammoniaca cristallizzata.

Di conseguenza, il problema della pluralità dei mondi ha acquisito, nell’ultimo secolo, un nuovo aspetto. Tre secoli fa la somiglianza fra i corpi celesti oscuri e la Terra doveva essere fortemente enfatizzata per conferire una solida base emotiva alla nuovo concezione eliocentrica del mondo. La convinzione di uno scopo alla base della creazione e l’idea che anche i pianeti fossero destinati a essere sede di esseri viventi contribuirono alla sua graduale accettazione come visione di un mondo armonico. L’astronomia del diciannovesimo secolo, tuttavia, aveva dimostrato, in maniera del tutto convincente, la presenza di sostanziali differenze. Aveva rivelato una molteplicità e una varietà molto più grande di quanto la consapevolezza delle epoche precedenti potesse far sospettare. L’ingenua fede nella presenza di un disegno superiore doveva cedere la strada alle idee scientifiche, secondo le quali le condizioni di altri mondi sono determinate dalle influenze e dalle forze naturali, differenti per ciascun pianeta secondo la sua dimensione e la sua posizione. Il problema delle reazioni e degli equilibri tra differenti atomi e molecole nell’atmosfera di Giove, che sfociano in varie forme e colori, non perde nulla del suo fascino, anche escludendo ogni possibilità dell’esistenza di organismi viventi.

Tuttavia, ciò segnò un fondamentale cambiamento nella nostra concezione del cosmo. Il sogno di una pluralità di mondi abitati, il sogno di altri uomini che vivessero in vicini terre simili alla nostra, era svanito. Certo è che, al momento, non sappiamo

nulla riguardo a queste possibilità in lontani, inaccessibili sistemi stellari, ma, per quello che riguarda il nostro Sistema solare, il genere umano non esiste altrove, se non sulla Terra. Non sentiamo la solitudine, divisi come siamo ancora oggi fra popoli ostili che si guardano l’un l’altro come estranei e provano a sterminarsi. Tuttavia, quando il genere umano sulla Terra riuscirà a unirsi, la coscienza di essere l’unica umanità nel nostro Sistema solare — separati dagli altri sistemi da un’invalicabile distanza — eserciterà un’influenza determinante sulla nostra concezione di vita.

La Terra occupa questa posizione d’eccezione fra i pianeti grazie alla presenza di ossigeno libero nell’atmosfera. L’ossigeno, come costituente fondamentale di un’atmosfera planetaria, è un’anomalia; dal momento che questo elemento si lega facilmente con molti altri, viene rapidamente assorbito e trattenuto nelle rocce minerarie e in altri composti. Sarebbe sparito anche dalla Terra, se non fosse stato continuamente rifornito da processi fotochimici nelle cellule delle piante, cioè la dissociazione dell’anidride carbonica a opera della clorofilla per assorbimento della luce solare. Così, il nocciolo della questione di fronte alla quale ci troviamo adesso è: come ha avuto origine la clorofilla sulla Terra? Quali condizioni speciali — assenti altrove o forse presenti in futuro nell’atmosfera di Venere per il suo contenuto di anidride carbonica — la portarono alla luce, prima che le molecole di proteine si formassero nel primordiale tiepido oceano e si fondessero in materia vivente? Quali condizioni hanno provocato la formazione di questo speciale composto, che ha potuto utilizzare l’energia solare assorbita per la separazione delle molecole di anidride carbonica sia in carbonio, per se stesse, sia in ossigeno, per il mondo animale a venire, aprendo, così, la strada al dominio dell’uomo? Lo studio di questo fondamentale problema è appena iniziato con grande fatica e lo sviluppo dell’astronomia nell’ultimo secolo lo ha portato alla ribalta come un problema specifico per la Terra.

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CAPITOLO 36

COSMOGONIA ED EVOLUZIONE Come ha avuto origine il mondo? Questa domanda occupava la mente dell’uomo già all’alba della civiltà e anche prima, in epoche barbare e, a seconda delle condizioni di vita e dello stato di conoscenza raggiunto, l’uomo ha fornito, attraverso miti e leggende, le più diverse risposte. Queste cosmogonie non appartengono all’astronomia, ma al folklore e alla religione oppure, come avvenne in Grecia in epoche più tarde, furono opera di poeti e filosofi ed erano basate sulle più semplici idee della struttura del Mondo, del quale Cielo e Terra costituivano due metà equivalenti. Di solito il tutto aveva inizio da un caos originario, nel quale gli dèi, con un atto di creazione, portavano ordine e struttura. Una creazione dal nulla andava al di là della loro immaginazione.

Nel Medioevo e nei secoli successivi, le idee cosmogoniche furono definite dalla dottrina cristiana basata sul Libro della Genesi. Il contesto scientifico di quei secoli si occupava della struttura e non dell’origine del Mondo. Tutto ciò cambiò nel diciottesimo secolo: il secolo del razionalismo. Abbiamo già trattato la teoria di Kant e Laplace sull’origine del Sistema solare a partire da una primitiva nebulosa. In quest’epoca, per la prima volta, le leggende primitive lasciarono il posto alla teoria scientifica, la quale, ovviamente, non poteva andare al di là delle conoscenze scientifiche del tempo. La sola disciplina scientifica, a parte l’astronomia, che aveva sviluppato solide basi era la meccanica, la teoria delle forze e dei moti. La cosmogonia settecentesca, perciò, non poteva fare altro che applicare la meccanica allo specifico problema del Sistema solare. Una vera, onnicomprensiva cosmogonia scientifica fu possibile per la prima volta grazie allo sviluppo della fisica nel diciannovesimo secolo.

La teoria atomica all’inizio di questo secolo risvegliò negli scienziati la consapevolezza dell’indistruttibilità della materia. Ciò implicava la nozione di un’eternità del Mondo trascorso e futuro, dominato dalla leggi naturali e in cui non vi era spazio per un atto di creazione. Allora il concetto di “cosmogonia” — anche se la parola rimase in uso — fu soppiantato dal concetto di evoluzione. La scienza dell’evoluzione dell’universo è intimamente connessa con lo sviluppo dell’astrofisica.

L’origine e lo sviluppo, sempre più rapido, dell’astrofisica, fu alla base del più importante rinnovamento dell’astronomia nel diciannovesimo secolo. Gradatamente essa superò la vecchia astronomia delle posizioni e dei moti. In realtà, è proprio la stessa astrofisica la vera astronomia, in quanto conoscenza dei corpi celesti. L’astrofisica si occupa della loro natura fisica, mentre lo studio dei moti si occupa del loro aspetto esterno sotto l’effetto delle forze gravitazionali. La cosa più importante, adesso, non erano più i piccoli e oscuri corpi secondari che potevano essere visti solo quando erano molto vicini, ma i milioni di stelle splendenti di luce propria, le quali, in quanto sorgenti di luce e calore, riempiono l’universo con l’energia irradiata. Fra questi, il nostro Sole, la base della nostra vita, diviene di gran lunga il più importante oggetto della ricerca scientifica.

In questo sviluppo, l’astronomia non era più autonoma, come nei secoli precedenti, quando doveva procedere nella ricerca con le sue sole forze. Ora aveva altre scienze a cui appoggiarsi, specialmente la fisica; il nome ‘astrofisica’ indicava che essa era l’applicazione della fisica alle stelle. Perciò, l’astrofisica dovette aspettare fino a che, verso la metà del secolo, la fisica ebbe sviluppato in primo luogo, leggi e principi teorici validi per l’intero universo dei

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fenomeni e, in secondo luogo, metodi pratici per studiare i corpi lontani. La prima condizione fu realizzata dalla nascita della teoria meccanica del calore, che comprendeva la dottrina dell’energia e dell’entropia, la seconda dalla scoperta dell’analisi spettrale.

La nascita della fisica teorica, specialmente della teoria del calore, era intimamente connessa con lo sviluppo delle macchine a vapore come base tecnica dell’industria del diciannovesimo secolo. Studi pratici e teorici del modo di lavorare delle macchine a vapore costituirono un problema di primaria importanza, sia per la crescita della conoscenza, che per la crescita della produttività. Nelle macchine si vedeva quotidianamente come queste producessero potenza ed eseguissero del lavoro mentre si spendeva del calore. La conclusione ovvia fu che il calore si trasformava in lavoro o in forza lavoro. Dall’osservazione del fatto che macchine a vapore avevano una resa migliore quando il vapore veniva scaldato a temperature più alte, Carnot derivò un’altra spiegazione: l’effetto del lavoro è prodotto dal calore (all’epoca considerato una sorta di materia peculiare priva di peso) che diminuisce passando da alta a bassa temperatura, così come in un mulino ad acqua si produce lavoro quando l’acqua scende da un livello più alto a uno più basso. D’altra parte, durante le loro fasi operative, le macchine mostravano numerosi casi in cui il lavoro speso per contrastare attriti o resistenze si trasformava in calore. Il concetto di energia, che da allora in poi fu sempre più predominante nell’ambito della fisica, era nato, quindi, nelle menti dei fisici, come capacità di compiere un lavoro. Nella legge di conservazione dell’energia, Julius Robert Mayer, nel 1842, stabilì che l’energia era indistruttibile; può apparire in molte forme differenti — una delle quali è il calore — che nei processi fisici si trasformano l’una nell’altra, ma la quantità totale rimane sempre la stessa. Contemporaneamente, James Prescott Joule, a Manchester, stabilì, con diversi esperimenti, quante unità di lavoro erano equivalenti a una unità di calore: la quantità di calore che fa aumentare

la temperatura di 1kg di acqua a 1°C — cioè 1 caloria — è equivalente a 425 kilogrammi-metro, spostando 425kg di 1m. In Germania, Helmholtz dimostrò, nel 1847, la presenza di trasformazione di energia (chiamata Kraft, ‘forza’) in tutti i diversi fenomeni fisici.

La verità sul punto di vista, apparentemente inconsistente, di Carnot venne alla luce più tardi (1850-54), quando Rudolph Clausius, a Zurigo, e William Thomson, in Inghilterra, lo legarono alla conservazione dell’energia. L’energia sotto forma di calore può trasformarsi in energia sotto forma di lavoro solo quando allo stesso tempo una quantità di calore può scendere da temperature più alte a temperature più basse. Spontaneamente il calore si trasmette dai corpi più caldi ai più freddi per conduzione o irraggiamento; spontaneamente l’energia meccanica si trasforma in calore. Questo è il processo automatico, positivo, che avviene in natura. Il processo opposto, negativo, può avvenire solo quando è compensato da un processo positivo simultaneo. Questa legge, chiamata ‘Seconda Legge della Termodinamica’, fu tradotta in forma matematica da Clausius con l’introduzione del concetto di entropia, nome che fu dato al ‘valore di trasformazione’ del calore contenuto in un sistema; questo ‘valore’ di calore è tanto maggiore quanto più bassa è la sua temperatura. La Seconda legge stabilisce che l’entropia (di un sistema chiuso oppure dell’universo) può solo aumentare. Attraverso il processo automatico l’entropia aumenta, tutti i cambiamenti contrari (da temperature più basse a temperature più alte o da calore a lavoro) devono essere compensati da processi positivi simultanei. Queste due leggi della termodinamica — che l’energia totale nell’universo rimane costante e che le trasformazioni di energia hanno luogo in una particolare direzione — divennero enormemente importanti per l’astronomia.

Immediatamente dopo essere stata stabilita per i fenomeni che avvenivano sulla Terra, la prima legge dell’energia venne estesa al cielo e applicata ai problemi che riguardavano il Sole. E questa era una cosa

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semplicemente ragionevole da fare. Tutte le trasformazioni di energia sulla Terra, in tutte le sue differenti forme — energia cinetica, energia potenziale gravitazionale, calore, energia chimica ed elettrica, energia vitale — che costituiscono tutti i fenomeni, hanno origine nell’energia riversata sulla Terra dalla radiazione solare, a eccezione del moto mareale. Ogni discussione sulla conservazione dell’energia deve includere il Sole e porsi il problema di quali altre forme dobbiamo cercare per l’origine dell’energia solare. In pratica, ciò presenta la sconvolgente domanda su come il Sole possa mantenere la forza della sua radiazione costante e inalterata, nonostante la continua enorme perdita per irraggiamento.

Mayer aveva una risposta a portata di mano: il calore deriva dall’energia meccanica. La Terra è continuamente colpita da meteoriti e lo stesso, con intensità molto maggiore, avviene sul Sole. L’energia cinetica dei meteoriti, quando vengono arrestati, si trasforma in calore. Qualitativamente, questa sembrò essere una spiegazione soddisfacente; tuttavia, quando in seguito fu sottoposta a verifica numerica, fallì. La radiazione solare annua ammonta a 2,9x1033 calorie; l’energia di un grammo di materia proveniente da lontano e in caduta sul Sole è di 4,4x107 calorie; quindi, per giustificare la radiazione, deve cadere nel Sole una massa di 6,5x1025g all’anno, un trentamilionesimo della massa del Sole (19,8x1032g). Sembra essere poco ma in realtà è molto, di gran lunga troppo. Con una tale crescita regolare della massa del Sole, i pianeti avrebbero gradatamente aumentato la loro velocità di rivoluzione intorno a esso e avrebbero iniziato a ruotare su orbite sempre più piccole. Poiché in un anno ci sono trenta milioni di secondi, il periodo di rivoluzione della Terra si sarebbe dovuto accorciare di qualcosa dell’ordine di due secondi all’anno. Ciò è impossibile: un millesimo di questa quantità sarebbe stato individuato già da molti secoli.

Nel 1853, Helmholtz spiegò la costanza della radiazione solare in modo differente, a partire dalla sua teoria della contrazione. La contrazione produce calore. Quando il Sole

si contrae, e quindi tutte le sue particelle si avvicinano al centro, la loro energia potenziale gravitazionale decresce e si genera un’equivalente quantità di calore. La radiazione annua è giustificata da una contrazione di 75 metri, cioè un diciottomilionesimo (1/18.000.000) del suo diametro. Si tratta di una quantità talmente piccola che, anche dopo un migliaio di anni, sarebbe inapprezzabile per i nostri strumenti. Perciò, la teoria della contrazione offrì una spiegazione soddisfacente al problema del calore solare e, inoltre, poteva essere connessa alla teoria di Kant e Laplace sull’origine del Sistema solare a partire dalla contrazione di una nebulosa originaria. Nel diciottesimo secolo questa teoria poteva spiegare i pianeti e le loro orbite circolari. Ora l’attenzione si rivolse alla contrazione della materia della nebulosa primordiale nel piccolo corpo del Sole, esclusa la frazione insignificante che aveva dato origine ai pianeti. Questa contrazione, da una nebulosa enormemente più estesa nel volume attuale del Sole, deve avere prodotto una quantità di energia sufficiente ad alimentare, per 18.000.000 di anni, la radiazione oggi presente. Quindi, per la prima volta, l’astronomia fisica avanzava una stima della scala dei tempi in cui dovevano essere espresse l’età del Sistema solare e della Terra.

Procedendo sulla stessa linea di pensiero, il matematico americano James Homer Lane mostrò, nel 1871, che il Sole aveva effettivamente acquisito la sua alta temperatura dalla contrazione e, quindi, che non era più necessario che la nebulosa si trovasse originariamente ad alta temperatura. Lane dimostrò che una sfera di gas, libera nello spazio e in grado di espandersi o contrarsi, può rimanere in equilibrio quando la sua temperatura cambia con l’inverso del suo raggio. Se si contrae perdendo energia per irraggiamento, solo parte del calore generato è necessario per sostenere la radiazione, mentre la restante parte fa aumentare la temperatura. Sembra un paradosso dire che, perdendo energia, un corpo diventerebbe più caldo anziché più freddo, ma lo stesso paradosso è dimostrato

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nella meccanica celeste, dove un corpo che tende a rimanere nella sua orbita aumenta la sua velocità contraendo l’orbita stessa; qui la diminuzione dell’energia potenziale gravitazionale è solo parzialmente necessaria a neutralizzare la resistenza e la restante parte viene usata per aumentare la velocità. La legge di Lane offrì, quindi, una teoria su come il Sole avrebbe acquisito il suo calore tramite una normale evoluzione: una massa di gas, fredda e molto estesa, si evolve, a causa della sua radiazione, in una sfera solare di temperatura crescente, che si contrae sempre di più. Ovviamente, questo sviluppo non prosegue all’infinito; la legge di Lane si basa sulla validità delle leggi di un gas perfetto. Quando la densità è cresciuta tanto che queste leggi non sono più valide, la proporzionalità inversa di Lane, tra temperatura e raggio, perde la sua validità. Gradatamente, la contrazione diviene più difficile e si riduce, l’energia liberata dalla contrazione è minore e non è più sufficiente ad accrescere la temperatura o anche solo a compensare la radiazione. A quel punto, il Sole inizierà a raffreddarsi e alla fine si trasformerà in un piccolo, oscuro e freddo corpo. I risultati di Lane presentavano una prima teoria di evoluzione continua della stelle, che avrebbe dominato le idee degli astrofisici per molti anni.

Non fu per caso che l’idea di evoluzione apparve in forma del tutto diversa dalle idee del diciottesimo secolo. Abbiamo visto come questo secolo intendesse lo sviluppo solo in quanto preparazione a una situazione finale di stabilità. Nel mondo dell’uomo questa era la crescita dalla barbarie e dall’ignoranza fino a una società basata sulla natura e sulla ragione e abbiamo anche già fatto notare come la teoria della nebulosa di Kant e Laplace apparisse come l’immagine cosmologica di questo concetto del Mondo. Il diciannovesimo secolo portò, invece, l’idea di uno sviluppo sociale in continua evoluzione. Iniziata in Inghilterra alla fine del secolo, la Rivoluzione Industriale si diffuse, gradatamente, in tutti i paesi adiacenti, quali Francia e Germania, negli Stati Uniti e, sempre più ampiamente, in tutto il mondo. Vi erano coinvolte tutte le

attività, le condizioni di vita erano profondamente cambiate per tutti e l’aspetto del nostro mondo era mutato, in questo mezzo secolo, più profondamente e più rapidamente che in tutti i secoli precedenti. Così, la mente umana si abituò a vedere il mondo come un continuo processo di sviluppo in cui non si poteva discernere né una fine né un fine.

Questo nuovo modo di vedere le cose si espresse in varie teorie scientifiche e filosofiche. La filosofia di Hegel aveva già presentato il Mondo come un processo ‘dialettico’ di manifestazione dell’Idea di Assoluto. In biologia, dopo la pubblicazione di Charles Darwin, nel 1859, del suo The Origin of Species by Means of Natural Selection or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life, la dottrina di uno sviluppo da forme più basse a forme meglio organizzate trovò grandi riconoscimenti. L’idea di uno sviluppo progressivo trovò la sua espressione fisica nella Seconda legge della termodinamica di Clausius: tutti i processi autonomi in natura vanno in una sola direzione, l’entropia dell’universo può solo crescere e non diminuire. I fisici esprimevano talora questa legge dicendo che l’entropia dell’universo tende a un massimo, che sarà raggiunto quando tutta l’energia meccanica si sarà trasformata in calore e la temperatura sarà la stessa ovunque. L’universo in questa fase finale dovrebbe consistere in una nebulosa dispersa, al cui interno vi sarebbero solo i movimenti delle molecole. In questa presunta condizione finale non si tiene alcun conto della potente forza di gravitazione dell’universo; al contrario, noi vediamo che, secondo i risultati di Lane, una nebulosa isoterma dispersa deve condensarsi in una sfera calda, piccola e densa: un’intensificazione, invece di un livellamento delle differenze di temperatura.

In questi tempi, l’idea evoluzionista prese piede sempre più saldamente nell’astronomia, scoprendo ovunque nell’universo dei processi di sviluppo. George H. Darwin, figlio del grande biologo, in una serie di studi teorici successivi al 1879, indicò la frizione mareale

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come un importante agente evolutivo. Era generalmente accettato il fatto che la Terra e la Luna fossero originariamente state morbide e deformabili a seguito della loro mutua attrazione che genera le maree. Se non ci fosse stato attrito e la Terra avesse subito raggiunto la sua configurazione di equilibrio, i sollevamenti generati dall’alta marea avrebbero quotidianamente ruotato intorno alla Terra, con la Luna sempre esattamente allo zenit (o al nadir). A causa dell’attrito interno, questi andamenti mareali erano rallentati e i sollevamenti seguivano la Luna a una certa distanza, trascinati da questa; per dirlo in altri termini, la Terra in rotazione trascinava quei sollevamenti da una posizione esattamente sottostante alla Luna fino a una certa distanza da essa. Quindi, l’attrazione fra i sollevamenti dell’alta marea e la Luna aveva un’influenza ritardante sulla rotazione della Terra e, simultaneamente, trasferendo momento rotazionale alla Luna, ne allargava l’orbita e ne aumentava il periodo di rivoluzione. Darwin ripercorse questo processo all’indietro nel passato e trovò che originariamente la rotazione diurna e la rivoluzione mensile avevano avuto lo stesso periodo, compreso fra 3 e 5 ore; in queste condizioni, la Luna e la Terra si mostravano sempre la stessa faccia e quasi si toccavano. Poi, quando la Terra si contrasse per raffreddamento e accelerò la sua rotazione, lasciandosi indietro la Luna, la frizione mareale, considerevole a causa della vicinanza, iniziò a operare allontanando la Luna e rallentandone la rotazione. Il giorno e il mese si allungarono entrambi, soprattutto quest’ultimo, fino a che alla fine 29 rotazioni stavano in una rivoluzione. Da qui in poi la crescita del moto lunare rallentò, cosicché oggi questo numero è pari a solamente 27 giorni e 1/3. Ciò porterà a una situazione finale in cui giorno e notte saranno uguali, mentre ora sono circa equivalenti a 55 dei nostri giorni attuali; a una grande distanza, i due corpi di nuovo mostreranno l’uno all’altro la stessa faccia. Quanto abbiamo trattato qui è un caso teorico semplificato poiché, in pratica, l’azione mareale del Sole disturba il corso di questi eventi. Il problema

di come, assumendo corretta questa teoria, una luna possa avere una rivoluzione più rapida della rotazione del pianeta cui è legata (come nel caso del satellite più interno di Marte) fu risolto da Moulton: mentre la maree solari ritardano la rotazione del pianeta, i satelliti di Marte sono così piccoli che, in pratica, non generano alcuna marea e non sono perciò soggetti, a loro volta, a influenze mareali.

Più importante di questo lontano futuro erano le condizioni iniziali alle quali Darwin era stato condotto dalla proiezione di questa teoria nel passato, che indicavano come, in origine, la Luna e la Terra fossero stati, probabilmente, un solo corpo che si era separato in due parti diseguali. Su questo le conclusioni coincidevano con i risultati dello studio sull’equilibrio e la stabilità di corpi fluidi rotanti, compiuto nel 1885 da un grande teorico francese, Henri Poincaré. Nel 1740, Maclaurin aveva dedotto come l’appiattimento di una sfera fluida crescesse con la velocità di rotazione. Nel 1834, Jacobi, a Königsberg, dimostrò che un ellissoide di rotazione appiattito, come Giove e la Terra, non rappresenta l’unica configurazione di equilibrio per un fluido rotante, essendo l’altra, infatti, un ellissoide con tre assi considerevolmente diversi. Poincaré, quindi, studiò le condizioni di stabilità di queste differenti forme. Quando la rotazione (per esempio a causa della contrazione) diventa gradatamente più rapida, abbiamo, per prima cosa, un ellissoide di rotazione con differenza crescente fra il diametro equatoriale e quello polare. Con una rotazione più rapida, questa forma perde stabilità e compaiono due assi equatoriali diversi. Con una rotazione ancora più rapida, anche questo ellissoide triassiale diventa instabile; allora si comprime asimmetricamente in una forma a pera che indica che sta per separarsi in due parti disuguali. Se il periodo della marea solare sulla Terra, che corrisponde al periodo di rotazione, è uguale al periodo di vibrazione propria del corpo, stimato fra le 3 e le 5 ore, allora la deformazione crescerà senza ostacoli e vi potrà essere uno sviluppo catastrofico. In questo modo, Darwin spiegò

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come il corpo originario della Terra potesse essersi diviso in due corpi diseguali; il sistema risultante è il punto di partenza per la sua discussione di un’evoluzione per frizione mareale.

Queste speculazioni fornirono la prima risposta basata su un’accurata analisi scientifica degli antichi, misteriosi e affascinanti problemi cosmogonici sull’origine del mondo attuale. Più tardi, in una serie di ricerche sulla cosmogonia, pubblicate nel 1922, Jeans confermò questi risultati, estendendoli ai casi più generali di masse gassose con differenti distribuzioni di densità. Un risultato interessante fu che, in una massa di gas rarefatto in rotazione, il surplus di materia defluisce da due punti opposti all’equatore, formando due braccia a spirale. Poteva forse essere un’idea per spiegare le nebulose a spirale?

Più degno di nota è, invece, il fatto che tutte queste ricerche di cosmogonia del diciannovesimo secolo non sono applicabili al problema che più interessa il genere umano; non parlano dell’origine del sistema planetario. Ripetute critiche facevano notare che un sistema come il nostro non poteva essersi originato nel modo spiegato da Kant e Laplace. La principale difficoltà sta nel fatto che il 60 per cento del momento angolare totale (che in termini popolari poterebbe essere chiamato ‘quantità di rotazione’) del Sistema solare è fornito dal moto orbitale di Giove, che non possiede più di un millesimo della massa del sistema, e solo il 2 per cento dalla rotazione del Sole. Non è facilmente concepibile che nella separazione iniziale il momento angolare si possa essere diviso così fra l’anello esterno e la massa centrale in contrazione. Né era possibile che una tale quantità di momento angolare si fosse trasferita per frizione mareale dal Sole ai piccoli corpi che gli ruotavano intorno. L’astronomo Moulton e il geologo Chamberlin, a Chicago, che espressero con insistenza queste argomentazioni, conclusero che il grosso del momento angolare doveva essere stato portato nel sistema dall’esterno. Così, nel 1906, formularono la teoria secondo la quale il sistema planetario avrebbe avuto origine

dal passaggio di un’altra stella vicino al Sole. A causa della sua attrazione avrebbero avuto luogo delle eruzioni di materia solare, la quale, per l’attrazione laterale della stella di passaggio, avrebbe acquisito un moto orbitale che avrebbe generato il momento angolare finale. Nei dintorni del Sole si sarebbe condensata in piccoli corpi, chiamati ‘planetesimi’, che, per collisione, si sarebbero agglomerati nei pianeti e da ciò si sarebbe prodotta l’alta temperatura nell’interno solido della Terra.

Questa ‘teoria dell’incontro’ sull’origine del sistema planetario, con molte varianti nei dettagli, incontrò l’approvazione di Jeans, di Eddington e di molti altri astronomi. Jeans fece notare — e Eddington fu d’accordo — che questi incontri ravvicinati di stelle, considerando le enormi distanze reciproche, dovevano essere talmente rari che forse non si era verificato alcun altro caso fra i milioni di stelle del nostro sistema galattico.

«I calcoli mostrano che, anche dopo che una stella ha vissuto la sua vita di milioni e milioni di anni, la probabilità che sia circondata di pianeti è ancora di uno su centomila». (JEANS)[203]

Da ciò segue la probabilità che il nostro sistema planetario sia, forse, unico nell’universo di stelle e che, quindi, la Terra, come dimora di esseri viventi, sia unica nell’universo: «non una, in questa profusione di stelle nella miriade dei loro ammassi, può scrutare scene simili a quelle che avvengono illuminate dai raggi del Sole». (EDDINGTON)[204]

Questa sorprendente conclusione non

poteva certo essere considerata un dogma finale della scienza; se si trova che una causa presunta ha una probabilità infinitamente piccola di verificarsi, una volta su milioni e milioni di casi, rimangono comunque molte altre possibilità apparentemente improbabili. Il fatto che, nonostante il suo carattere ipotetico, questo venisse proclamato come una conclusione probabile non si deve ritenere esclusivamente il risultato di un discorso scientifico, ma anche, e soprattutto, l’espressione di una nuova concezione del Mondo. Fin dai tempi più antichi, lo speciale

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e unico posto dell’uomo nell’universo fu un concetto fortemente legato alla religione. Quando Giordano Bruno divulgò la sua dottrina della moltitudine di mondi abitati, si contrappose alla dottrina accettata dalla Chiesa. Alla metà del diciannovesimo secolo, la dottrina di una moltitudine di sistemi planetari, tutti abitati da esseri intelligenti, era parte di una concezione del Mondo espressa spesso in termini materialistici e razionalistici, in antagonismo al credo religioso dominante. Più tardi, sotto

l’influenza crescente della religione, senza dubbio legata alla crisi sociale, alle catastrofi e alle guerre mondiali, che generavano incertezza sulla vita e sul futuro, le idee materialiste e razionaliste persero, in Europa, molto del loro prestigio. Non è affatto sorprendente che, in simili tempi, un rifiuto delle precedenti dottrine materialiste abbia implicato anche un atteggiamento critico rispetto alla fiducia nell’esistenza di una pluralità di mondi abitati.

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CAPITOLO 37

IL SOLE Cos’è il Sole? La vecchia convinzione che il Sole fosse una pura sfera costituita di fuoco e luce vacillò quando il telescopio rivelò l’esistenza di macchie solari nell’‘occhio del Mondo’. Per analogia col metallo fuso, si pensò fossero impurità. Gradatamente, il loro colore nero pece, suggerì l’idea che di un interno nero del Sole circondato da un oceano di fuoco. Lalande pensava che le macchie solari fossero montagne che si protraevano sopra questo oceano. Ma, nel 1774, Alexander Wilson, a Glasgow, osservò come le tonde macchie regolari, avvicinandosi al perimetro esterno del Sole, mostrassero nel contorno un disco di penombra, esteso nella zona più esterna e che andava stringendosi nella zone più interne, come il bordo inclinato di un buco. Wilson concluse che le macchie fossero buchi nell’involucro brillante, attraverso i quali si vedeva l’interno scuro.

William Herschel abbracciò questa idea e la ampliò, in uno scritto del 1795, supponendo che le zone scure della superficie solare potessero essere tranquillamente abitate da esseri viventi, che dovevano essere protetti dal calore esterno grazie a uno strato di nuvole; ai classicisti questo dovrebbe ricordare la struttura aristotelica del mondo, con il fuoco sopra l’aria. Herschel portò buone argomentazioni contro l’obiezione che il calore esterno avrebbe arso la scura superficie interna, affermando:

«Sulle vette di montagne di sufficiente altezza […] noi troviamo spesso zone di neve e ghiaccio. Ora, se i raggi solari stessi trasportarono tutto il calore che noi troviamo su questo globo, dove la loro corsa è stata minimamente interrotta deve esserci più caldo. Ed inoltre, tutti i nostri aeronauti confermano esserci più freddo nelle zone più alte dell’atmosfera […]». Per spiegare questo fenomeno, egli

ipotizzò che i raggi del Sole producessero

calore solo attraverso il contatto con “la materia di fuoco” contenuta nelle sostanze scaldate; quindi, dobbiamo assumere che l’atmosfera più bassa e la scura superficie del Sole non ‘sono in grado di essere colpiti dai loro stessi raggi’. In questo modo, Herschel riuscì a trovare delle affinità con altri globi del sistema planetario, il che

«ci lascia supporre che sia probabilmente abitato, come gli altri pianeti, da esseri i cui organi sono adatti alle peculiari circostanze di quel grande globo».[205] Nella prima metà del diciannovesimo

secolo questo concetto di uno scuro corpo solare venne generalmente accettato; ciò mostra quanto la consapevolezza fisica fosse indietro rispetto alle conoscenze astronomiche. Non riuscì a farsi largo nessuna ipotesi migliore finché non fu stabilito il concetto di energia. Dopo di che, nella seconda metà del secolo, gli studi sul Sole avanzarono a passi rapidi.

In un primo momento questo studio procedette lungo vecchi sentieri, anche se con più apertura e perseveranza, essendo ristretto soprattutto all’osservazione delle macchie solari. Nel 1826, Schwabe, un chimico di Dessau, in Germania, cominciò a notare e registrare regolarmente le macchie solari, principalmente con l’intenzione di scoprire un eventuale nuovo pianeta nell’orbita di Mercurio. Egli confrontava quanto gli stava capitando con l’esperienza di Saul, il quale se ne andò per trovare gli asini del padre e trovò un impero. Dopo molti anni, nel 1843, confrontando tutti i suoi dati, trovò (pubblicandolo nel 1851) che un gruppo di macchie solari mostravano una variazione periodica. Nel 1828, nel 1829 e anche nel 1836-39, il Sole non era rimasto un solo giorno senza macchie, mentre, per la metà dei giorni di osservazione del 1833 e del 1843 non erano presenti macchie. Il

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numero totale contato nel 1828 fu 225, nel 1833 solo 33, nel 1837, 333, nel 1843, 34. In questo modo i valori massimi e minimi ritornavano ogni 10 anni. Rudolf Wolf, prima a Berna e poi a Zurigo, investigando fra tutti i dati storici riguardo le macchie solari, poté tracciarne la periodicità nei secoli precedenti; il valor medio del periodo era di 11 anni e 1/9, ma con grandi irregolarità tra 7 e 17 anni. Furono fatti numerosi tentativi per trovare le cause di questo curioso fenomeno, cercando, in molti casi, di trovare delle connessioni con il corso dei pianeti, soprattutto di Giove, ma senza risultati. Le forze che producevano le macchie solari dovevano trovarsi nel Sole stesso.

Ancora più importante fu la scoperta di Lamont, uno scienziato scozzese, pubblicata a Monaco nello stesso anno (1851), che le perturbazioni irregolari degli strumenti magnetici e del campo magnetico terrestre erano alternativamente più o meno forti con la stessa periodicità di 10 anni; anche le aurore, connesse a quelle, mostravano la stessa periodicità. Sabine, in Inghilterra, e Wolf, in Svizzera, fecero notare, contemporaneamente, che entrambi i periodi corrispondevano; le perturbazioni magnetiche e le aurore seguivano le macchie solari non solo nella loro stessa periodicità ma anche in tutte le variazioni irregolari. L’apparizione di singole macchie piuttosto grandi produceva sulla Terra perfino tempeste magnetiche e aurore. In questo modo, venne alla luce un importante e misterioso effetto dei disturbi del Sole sui fenomeni terrestri.

La determinazione della posizione e del movimento delle macchie risultò più importante del semplice conteggio. Così come era avvenuto per i pianeti, il primo obiettivo fu di trovare il periodo di rotazione del Sole. Uno dei primi a impegnarsi in questo campo fu Carrington, a Redhill, che determinò la posizione delle macchie solari negli anni 1853-61. Egli apparteneva ai numerosi gruppi di astronomi non professionisti britannici [chiamati amateur astronomers, tradotto in italiano con il termine ‘astrofili’] i quali, per la qualità del

loro lavoro, sono considerati astronomi a tutti gli effetti, nel senso che anche William Herschel, South, Lassell e Lord Rosse non erano dei professionisti. Fin dai tempi più antichi l’Inghilterra ha prodotto una classe di ricchi proprietari terrieri e di mercanti, più tardi anche di industriali e di uomini d’affari, che non si aspettavano nulla dal governo ma facevano ogni cosa per propria iniziativa. Essi fondarono biblioteche e istituirono cattedre accademiche e, se attratti dall’astronomia, costruirono propri osservatòri compiendo delle ricerche scientifiche per proprio conto. Carrington aveva installato un circolo meridiano, col quale la notte faceva osservazioni per completare il catalogo di Bessel sulle stelle a nord e di giorno osservava le macchie solari, scoprendo, così, che il periodo di rotazione cresceva con la distanza dall’equatore solare. Vicino all’equatore il periodo era di 25,0 giorni, a 20° era di 25d18h, a 30° era di 26d11h e cresceva fino a 27.5d a 45°, dove le macchie scarseggiano. Quindi, le macchie non potevano essere la parte fissa di un corpo solare solido. I suoi risultati furono confermati da un lavoro simile compiuto ad Anklam, in Pomerania, da Spoerer (nel 1860-73), anch’egli un astronomo non professionista tedesco. Entrambi osservarono un’altra particolarità. Negli anni in cui le macchie erano più numerose, queste, gradatamente, si avvicinavano all’equatore solare; la loro latitudine decresceva da circa 25° a 10°, e poi scomparivano alla latitudine di circa 5°. Nello stesso tempo (il periodo di numero minimo), alle alte latitudini di 25°-30°, apparivano i primi numeri di un nuovo ciclo, che, nei successivi anni di numeri crescenti, si espandevano alle latitudini più basse. Cioè, la periodicità delle macchie solari consisteva in una successione di serie o di onde continue, che, partendo tutte delle latitudini maggiori, si dilatavano nella discesa alle basse latitudini, dove poi scomparivano.

Naturalmente, dopo la sua scoperta, la fotografia venne utilizzata per ottenere immagini del Sole. In questo caso, al contrario degli altri oggetti celesti, il

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problema era di riuscire a neutralizzare la grande quantità di luce con speciali accorgimenti. In questo modo, era possibile registrare, in mezzo secondo di esposizione, tutti i particolari della superficie solare — macchie, facole e altri dettagli — così che, in un secondo momento, se ne potesse studiare il numero, le dimensioni, l’aspetto e i movimenti. Combinando due fotografie in uno stereoscopio, una delle quali era presa un attimo dopo l’altra, mentre il Sole era ruotato di poco, si ottenne un effetto spettacolare, riuscendo a vedere il Sole proprio come una sfera, con le macchie scure come cavità nelle facole fluttuanti a grandi altitudini. Nel 1858, Warren de la Rue progettò e costruì a Kew un fotoeliografo, che trasferì poi a Greenwich e usò per regolari osservazioni fotografiche e per un lavoro di routine di misura delle immagini del Sole.

Oltre a questo lavoro, che fu utilizzato soprattutto per scopi statistici, vennero messe a punto nuove tecniche per lo studio sia delle strutture delle macchie, fin nei minimi dettagli, che della fine granulazione della fotosfera. Fu l’astronomo francese P. Jules C. Janssen, a Meudon, a distinguersi, negli anni Settanta, per le sue estese fotografie della granulazione e delle macchie. A causa delle variazioni rapide nelle macchie, i dettagli più fini non erano così importanti come nel caso dei pianeti, a eccezione dei granuli. Nel 1905, attraverso un attento confronto di numerose fotografie prese in rapida sequenza, Hansky, a Pulkovo, fu in grado di determinare la vita media di granuli separati in 2-3 minuti; questi poi si dissolvevano e venivano sostituiti da altri.

Fino alla metà del secolo gli astronomi eseguirono osservazioni solamente del Sole stesso, ma, per la prima volta, nel 1842, durante un eclissi di Sole visibile nel sud della Francia e nel nord dell’Italia, la loro attenzione si focalizzò su quei fenomeni luminosi attorno al disco scuro che rende l’eclissi totale di Sole una delle più belle visioni e un importantissimo oggetto di conoscenza: la vasta aureola chiamata ‘corona’ e le piccole rosee ‘protuberanze’,

che si estendono in diversi punti all’esterno del lembo oscuro della Luna. Erano già stati osservati prima, a Gothenburg in Svezia nel 1733, da Wassenius e descritte come nubi rosse nell’atmosfera della Luna ed erano state menzionate anche in cronache di monasteri medievali russi, nelle quali, ad esempio alla data 1 maggio 1185, si trova scritto:

«il Sole pareva un crescente lunare, dai corni del quale fuoriusciva un’incandescenza simile a rossi carboni ardenti. Fu terrificante per gli uomini vedere questo segno del Signore».[206] L’eclissi del 1851, visibile in Svezia, rese

possibile constatare che le protuberanze appartenevano al Sole, non alla Luna, e che si trattava delle parti più alte di un sottile anello rosa (in seguito chiamato ‘cromosfera’) che circondava il Sole. Durante l’eclissi del 1860, osservata in Spagna, la fotografia venne usata su larga scala per accertarsi dell’effettiva realtà di tutti questi fenomeni. Da quel momento gli astronomi, durante le eclissi totali, viaggiarono verso tutte le zone di totalità, in qualsiasi paese si trovassero, per eseguire, durante i pochi minuti disponibili, quelle osservazioni che estesero le nostre conoscenze del Sole con sensazionali scoperte.

Negli anni 1859-62, l’analisi spettrale progredì, soprattutto attraverso il lavoro di Kirchhoff e Bunsen: era, come si suol dire, nell’aria. Diversi scienziati, come Stokes, Foucault, Ångström e altri, avevano intuito che la doppia riga D di Fraunhofer nello spettro solare coincideva con la doppia riga gialla brillante del sodio, dal che derivava l’ovvia conclusione che nel Sole doveva esserci sodio. Stokes descrisse il processo in questo modo: le particelle che hanno assorbito luce di questa particolare lunghezza d’onda da una sorgente luminosa sono state poi in grado di riemetterla. Fu Gustav Kirchhoff (1824-87), eminente fisico teorico, che diede una solida base scientifica all’analisi spettrale, dimostrando che, per ogni lunghezza d’onda, il rapporto fra emissione (quantità di luce emessa) e assorbimento (la frazione assorbita dalla

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luce incidente) è lo stesso per tutti i corpi, è uguale all’emissione di un ‘corpo nero perfetto’ (supposto in grado di assorbire il 100%) ed è una funzione continua della lunghezza d’onda e della temperatura. Così, un gas caldo che assorbe una particolare lunghezza d’onda e che, quindi, produce una forte riga nera nello spettro di una sorgente luminosa emetterà con forza la stessa lunghezza d’onda, mentre le lunghezze d’onda adiacenti, che sono poco o non del tutto assorbite, saranno emesse poco o per nulla. Il significato delle righe di Fraunhofer nello spettro solare era ora chiaro: quelle righe indicavano quali particelle in grado di assorbire erano presenti nel Sole. Kirchhoff misurò, su una scala arbitraria, la posizione di circa un migliaio di righe di Fraunhofer e ne stabilì la coincidenza con le righe emesse da diversi elementi chimici, quali idrogeno, ferro, sodio, magnesio, calcio, ecc. Concluse, infine, che questi elementi dovevano essere presenti nella atmosfera del Sole, in quanto assorbivano le loro particolari lunghezze d’onda dallo spettro continuo emesso dal corpo solare. Ångström, nel 1868, sostituì la scala arbitraria di Kirchhoff con la scala naturale delle lunghezze d’onda, espresse in unità di un decimo di milionesimo di millimetro, chiamata poi col suo nome; in questa scala le lunghezze d’onda dei colori visibili sono espresse da numeri di quattro cifre (rosso, 6.500; verde, 5.000; violetto, 4.000).

L’analisi spettrale spiegò miracolosamente cose che prima erano state dichiarate per sempre incomprensibili, stabilendo la composizione chimica di inaccessibili corpi lontani. Auguste Comte, il filosofo francese del positivismo, nel 1835, con l’intenzione di enfatizzare, nel suo Cours de philosophie positive, il fatto che non si può fare vera scienza senza basarsi sull’esperienza, scrisse, riguardo ai corpi celesti:

«Noi comprendiamo la possibilità di determinare il loro aspetto, la loro distanza, la loro posizione e il loro moto, mentre mai, per nessun motivo, saremo in grado di determinarne la composizione chimica, la struttura mineralogica, e per nulla di studiare la natura degli esseri organici viventi che ne abitano la superficie».

E alcune pagine dopo continua:

«Io persisto nell’opinione che qualsiasi nozione sulla reale temperatura media delle stelle ci sarà sempre necessariamente celata».[207]

Appare chiaramente, così come avvenne per Descartes ed Hegel, che la filosofia compie dei passi falsi quando cerca di stabilire e di prevedere i risultati o anche i metodi della scienza; il suo compito è di usarli per la propria teoria sulla conoscenza, l’epistemologia.

Le nuove scoperte portarono nuove idee sulla natura del Sole. Non era più possibile credere che l’interno del Sole fosse un corpo scuro e freddo. Kirchhoff considerava il Sole una rossa sfera incandescente, solida o liquida — dal momento che il suo spettro è continuo — circondata da un’atmosfera meno calda, contenente gli elementi terrestri in uno stato gassoso, responsabile delle righe di Fraunhofer. Pensava, inoltre, che le macchie solari fossero nubi più fredde in questa atmosfera; era ben consapevole del fatto che l’aspetto relativamente scuro fosse connesso ad una temperatura inferiore e che la legge della fisica negasse l’opinione diffusa che l’essere scuro fosse dovuto a minor potere di emissione. Le sue ipotesi sull’interno del Sole furono corrette nel 1864 da Angelo Secchi S.J. e da John Herschel, che ipotizzarono che fosse anche gassoso, attribuendo lo spettro continuo a piccole gocce fluttuanti, come una sorta di strato nuvoloso, nella profondità dell’atmosfera. Gli esperimenti mostrarono che anche gas molto compressi emettono uno spettro continuo; inoltre, nel 1869, il fisico Andrews scoprì che la materia sopra una certa ‘temperatura critica’ non può esistere sotto forma di fluido ma solo allo stato gassoso. Anche la teoria della nube venne in generale accettata. «Sembra quasi impossibile dubitare che l’atmosfera sia un involucro di nubi», scrisse Young nel suo libro The Sun, nel 1882.[208] Padre Secchi, così come l’astronomo francese Faye, spiegò le macchie solari come delle aperture nello strato di nubi, che in alcuni punti veniva volatilizzato da una fuoriuscita di gas più

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caldi espulsi dalle zone sottostanti a causa della pressione. Ci fu la necessità di ulteriori e più complicate spiegazioni per respingere l’obiezione che in quel caso le macchie sarebbero dovute apparire più calde rispetto alle zone limitrofe. Faye fu particolarmente colpito dal fenomeno turbinoso osservato nelle macchie, e li equiparò ai cicloni terrestri.

Stabilire quali elementi sono presenti in un luminoso corpo celeste, in teoria, è molto semplice, non richiedendo altro se non l’osservazione delle esatte coincidenze delle righe spettrali o l’uguaglianza delle lunghezze d’onda accuratamente misurate. Essendosi ampiamente sviluppate le tecniche di costruzione di strumenti e di lavorazione del vetro, si riuscirono a costruire degli eccellenti prismi spettroscopici adatti a vari scopi. L’introduzione della fotografia non solo offrì gli stessi vantaggi portati anche in altri settori dell’astronomia, ma diede anche l’accesso a un nuovo intervallo di lunghezze d’onda invisibile all’occhio: la parte ultravioletta dello spettro tra 4.000 e 3.000Å. In questo modo gli spettrografi sostituirono sempre più gli spettroscopi.

Un notevole risultato in questo sviluppo si ebbe con la costruzione, nel 1887 a Baltimora, da parte di Henry A. Rowland, di reticoli concavi. Uno specchio metallico concavo, infatti, produce un’immagine nitida della fenditura senza bisogno di lenti. In uno specchio di questo tipo, venne inciso un reticolo di 25.000 sottili linee parallele per pollice, che produceva uno spettro di diffrazione a grande dispersione e di alta risoluzione. Rowland lavorò per molti anni al perfezionamento di una macchina di incisione in grado di tagliare automaticamente le sottili scanalature a distanze esattamente uguali. La ricompensa per questo diligente lavoro consistette in spettri che rimasero ineguagliati per dozzine di anni. Con questi reticoli Rowland fotografò lo spettro solare e nel 1888 pubblicò un atlante di queste mappe spettrali su una scala costante di 1Å = 3mm, in modo tale che l’intero spettro, tra 3.000 e 6.900Å, formasse una striscia della lunghezza di 40 piedi [c. 12m] L’atlante di Rowland contiene

più di 20.000 righe di Fraunhofer in tutte le intensità, da tracce a mala pena visibili fino a intense bande scure. Misurando le fotografie originali, nel 1896 Rowland pubblicò un catalogo di tutte queste righe, dove erano riportate le lunghezze d’onda con tre cifre decimali (quindi, sette numeri) e le stime numeriche della loro intensità: un lavoro standard usato per lungo tempo da tutti gli astrofisici. Attraverso lo studio delle righe, inoltre, poté accertare la presenza nel Sole di 36 elementi terrestri. In una successiva revisione del catalogo, compiuta da St John a Mount Wilson, nel 1928, questo numero fu portato a 51 elementi. Il progresso maggiore si ebbe più tardi, nel 1940, con la pubblicazione a Utrecht, da parte di Minnaert e dei suoi collaboratori, di un atlante fotometrico dello spettro solare, nel quale l’intero spettro, invece che da righe separate, era raffigurato da una curva di intensità continua, così che, oltre alla posizione, la curva mostrava anche l’ampiezza, la struttura e la distribuzione di intensità (il profilo) di ogni riga. Nelle immagini di Tavola 13 si può vedere il progresso nella conoscenza dello spettro solare.

Dobbiamo ora tornare al diciannovesimo secolo per la prima applicazione del nuovo metodo di analisi spettrale a particolari fenomeni solari. La prima eclissi totale di Sole dopo l’introduzione della ricerca spettrale fornì, naturalmente, l’occasione di soddisfare la curiosità per la natura delle protuberanze e della corona appena scoperte. Numerosi osservatóri si recarono in India con i loro strumenti per le osservazioni spettrali in occasione dell’eclissi del 18 agosto 1868. Nelle loro relazioni conclusive furono tutti d’accordo, con piccole differenze nei dettagli, sul fatto che lo spettro delle protuberanze consistesse in poche righe brillanti e che, quindi, le protuberanze fossero masse di gas incandescente. Le righe più luminose erano la riga rossa e la riga verde in emissione dell’idrogeno — designate come Hα e Hβ e coincidenti con la C e la F di Fraunhofer — e, inoltre, una riga gialla, inizialmente associata alla riga D del sodio, ma

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successivamente, riconosciuta differente e chiamata D3. Non si trovava in alcuna corrispondenza con uno spettro terrestre e fu quindi attribuita a un elemento presente solo sul Sole che venne chiamato “elio”.

Le righe di emissione osservate erano così

brillanti che uno degli osservatóri, Janssen, da Meudon, capì immediatamente come non fosse necessaria l’oscurità di un’eclissi per renderle visibili. Il giorno seguente piazzò la fenditura del suo telescopio appena fuori dal lembo solare e, senza difficoltà, poté osservare le righe di emissione in piena luce del giorno. Per alcune settimane Janssen poté studiare il Sole «durante un periodo equivalente a un eclissi di 17 giorni»,come scrisse in una relazione all’Accademia di Parigi:

«Ho redatto delle carte delle protuberanze che mostrano con che rapidità (spesso in pochi minuti)

queste immense masse gassose cambiano forma e posizione».[209]

Nello stesso periodo, Lockyer stava lavorando in Inghilterra allo stesso programma; due anni prima, supponendo che le protuberanze fossero costituite da gas incandescente che emetteva brillanti righe spettrali, aveva già avuto l’idea che potessero essere viste se lo spettro continuo del cielo che le celava fosse stato indebolito con una forte dispersione. Se il costruttore di strumenti non lo avesse fatto aspettare troppo tempo per lo spettroscopio che aveva ordinato, Lockyer avrebbe potuto fare la sua scoperta molto prima dell’eclissi. E così le scoperte di entrambi gli astronomi furono presentate all’Accademia parigina nello stesso giorno del 1868.

La situazione adesso era cambiata considerevolmente. Per studiare lo spettro delle protuberanze non era più necessario aspettare un’eclissi, ma poteva essere fatto durante ogni giorno luminoso. Inoltre, avendo ora abbondanza di tempo, l’osservatore poteva ricavare l’estensione e la forma di una protuberanza muovendo la fenditura. Questa tecnica venne sviluppata ancora di più da Huggins, per primo, aprendo molto la fenditura; se il fondo continuo era sufficientemente indebolito con una forte dispersione, la protuberanza poteva essere osservata per intero e seguita durante i suoi rapidi cambiamenti. Diversi osservatóri misero, così, la regolare osservazione delle protuberanze nei loro programmi di lavoro. Se ne trovarono con maggior frequenza durante gli anni di massima attività delle macchie solari e alla stessa latitudine delle macchie, sebbene si trovassero meno frequentemente alle alte latitudini, fino ai poli, dove le macchie sono del tutto assenti. Se ne poterono distinguere due grandi categorie, rispetto alla forma e alla tipologia: le protuberanze quiete, fluttuanti come nubi rosa nell’atmosfera, e le protuberanze eruttive, che sprizzavano come fontane di fuoco fino a grandi altezze e quindi si dissolvevano o venivano risucchiate nelle profondità delle macchie solari. Qualche volta, nubi tranquille venivano ridotte improvvisamente ad una

Tav. 13. Sezioni dello spettro solare. I: Fraunhofer; II: Kirchoff; III: Rowland; IV: Utrecht. Le lunghezze d’onda aumentano verso sinistra in I e verso destra in II, III e IV. I pallini neri indicano il limite dell’intervallo spettrale riprodotto nell’illustrazione successiva dell’atlante.

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massa di frammenti come disperse da una violenta tempesta. Le stesse velocità, di centinaia di miglia al secondo, venivano indicate anche dalle distorsioni, cioè spostamenti locali delle righe negli spettri da fenditura. Tutto questo affascinante susseguirsi di eventi a una scala di migliaia di miglia presentava nuovi problemi che aiutavano a sostenere l’idea che la causa delle macchie solari fossero le eruzioni.

Durante l’eclissi del 1870 in Spagna, Young scoprì nel debole spettro continuo della corona una sottile riga di emissione verde, ad una lunghezza d’onda inizialmente ritenuta pari a 5.315Å, successivamente a 5.303Å. Non appena si scoprì che non appariva in alcun altro spettro conosciuto, fu ritenuto trattarsi di un secondo elemento solare sconosciuto, chiamato ‘coronio’. Da Young fu fatta un’altra importante scoperta: avendo posizionato la fenditura del suo spettroscopio quasi tangente al lembo solare, nell’istante dell’eclissi vide, come in un lampo, l’esplosione di un’innumerevole quantità di righe di emissione; dopo uno o due secondi scomparvero, appena la Luna coprì il sottile strato di appena 1” di larghezza (cioè 500km). Sembrò come se tutte le righe di Fraunhofer per un attimo si fossero trasformate in righe brillanti, poiché lo strato di gas che le assorbiva era stato visto lateralmente, senza lo sfondo del Sole; per questo motivo venne chiamato lo ‘strato invertente’. Per osservarlo senza un’eclissi, Young sfruttò la particolare stabilità atmosferica della vetta di Mount Sherman; qui vide che lo spettro conteneva lo stesso numero di righe metalliche dello spettro solare, ma per lo più con differenti intensità relative. Le più brillanti di queste righe apparivano anche nelle protuberanze eruttive. Nelle protuberanze quiete, oltre alle righe dell’idrogeno e alla riga D3 dell’elio, si videro anche un piccolo numero di righe sconosciute, ma, dopo la scoperta di Ramsay, nel 1895, dell’elio in sorgenti terrestri — così che si poté studiare il suo spettro completo — quelle righe apparvero essere altre righe dell’elio.

Nel 1875, quando si applicò la tecnica fotografica a questi fenomeni, Huggins

scoprì le serie armoniche delle righe ultraviolette dell’idrogeno, a prosecuzione delle quattro righe da Hα ad Hδ. A separazioni continuamente decrescenti queste righe si fondono, alla fine, a una lunghezza d’onda limite, al di sotto dei 3.700Å. Sulle fotografie appariva, inoltre, che le due righe violette del calcio, coincidenti con H e K di Fraunhofer, a 3.968 e 3.934Å, superavano in luminosità tutte le altre righe cromosferiche; per meglio dire, le stesse H e K sono le righe di assorbimento più forti nello spettro di Fraunhofer.

Lo strumento appropriato per le osservazioni fotografiche delle eclissi solari venne ideato e costruito da Lockyer. Anche Joseph Norman Lockyer (1836-1920), ufficiale del Ministero della Guerra, era un astronomo non professionista, che fu in grado di dedicare il suo tempo libero solo all’astronomia, essendo stimato come uno scienziato di prim’ordine. Egli costruì la ‘camera prismatica’, semplicemente piazzando un prisma prima del sistema di lenti della camera fotografica. Un oggetto che brilla di luce propria risulta, allora, fotografato in tante diverse immagini, quante diverse lunghezze d’onda emette, ed ogni immagine mostra, con la sua forma, la distribuzione degli atomi responsabili dell’emissione di questa riga. Una fotografia ripresa nell’istante esatto del ‘flash’ mostra tutte le righe metalliche dello strato invertente come piccoli archi sottili, mentre le righe H e K dell’idrogeno presentano le protuberanze nella loro forma reale; la riga verde della corona viene riprodotta come un anello luminoso debole e largo, tagliato in modo netto nel bordo più interno dal profilo scuro della Luna. Nel 1893 si ottennero le prime imperfette fotografie che mostravano solo gli archi dell’idrogeno, dell’elio, e di H e K, dal momento che si era mancato l’esatto istante del bagliore. Dopo il 1896, le camere prismatiche furono utilizzate regolarmente in ogni eclissi per la vasta quantità di informazioni che fornivano e, in seguito, nel 1905, Mitchell perfezionò il metodo utilizzando un reticolo di Rowland al posto del prisma.

Le misteriose righe coronali rimasero un

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importante oggetto di studio durante le eclissi solari, poiché tutti i tentativi di renderle visibili durante la piena luce del giorno erano falliti. Il fatto curioso fu che differenti osservatóri durante differenti eclissi rilevavano nuove e diverse righe coronali mai osservate prima. Alcune fra le righe più luminose apparivano regolarmente: insieme alla riga verde, una riga rossa e una violetta, ma per le altre rimase il dubbio se fossero reali e se lo spettro coronale fosse variabile. L’origine di tutte queste righe era sconosciuta e forse vi erano più elementi tipo il “coronio”.

La regolare attività fotografica sulle protuberanze portò a un nuovo metodo di ricerca. Le righe brillanti dell’idrogeno o del calcio erano visibili non soltanto all’esterno del bordo solare ma anche in zone differenti del disco solare fortemente disturbate, soprattutto nelle vicinanze delle macchie. Apparivano come luminose e sottili righe di emissione nel centro delle ampie e scure righe di assorbimento e si pensò fossero provocate dalle masse di gas luminoso negli strati più alti dell’atmosfera. Nel 1890-91, Deslandres a Parigi e Gorge E. Hale a Chicago, indipendentemente e in modi alquanto differenti, costruirono uno strumento, chiamato ‘spettroeliografo’, per fotografare queste alte emissioni. La fenditura di uno spettrografo è fatta per scorrere sull’immagine del Sole; una seconda fenditura, solidamente attaccata dietro al prisma e in grado di consentire il passaggio solo alla sottile riga di emissione, scorre sulla lastra fotografica. Questo tipo di fotografie del Sole, riprese alla luce di una sola lunghezza d’onda, vennero eseguite per la prima volta a Chicago e allo Yerkes Observatory; per condurre studi più approfonditi, Hale fondò il Solar Observatory a Mount Wilson (successivamente il termine Solar venne omesso). Lo studio regolare di queste fotografie, soprattutto nella luce delle righe K del calcio e Hα e Hγ dell’idrogeno, rivelarono una abbondanza di strutture notevoli, specialmente riguardo alle macchie solari, che ricordavano braccia a spirale oppure spire e vortici e che, qualche volta,

connettevano due macchie adiacenti con curve simili alla limatura di ferro su due poli magnetici.

Anche lo spettro delle macchie solari fu oggetto di molte ricerche. Sebbene le macchie solari appaiano nere per il forte contrasto, esse irradiano una luce intensa. Nel 1866, Lockyer trovò, come causa della relativa oscurità, l’allargamento di molte righe di Fraunhofer e l’apparizione di ulteriori numerose righe sottili, ma un loro studio dettagliato doveva aspettare l’utilizzo di spettrografi migliori. Fu solo dopo il 1920 che vennero fatte delle fotografie a Mount Wilson con una dispersione talmente grande che Charlotte Moore, nel 1933, poté pubblicare un catalogo di righe delle macchie, che per la sua completezza si avvicinava all’atlante di Rowland dello spettro solare. Un attento confronto mostrava interessanti differenze: nello spettro delle macchie le cosiddette righe ad ‘alta-temperatura’ erano più deboli e le righe a bassa temperatura erano più forti, mentre apparivano numerose righe sottili appartenenti a bande molecolari. Questo forniva una chiara evidenza che le macchie sono regioni a bassa temperatura.

La maggior parte delle righe metalliche, nello spettro delle macchie ad alta dispersione, mostra una particolarità nel centro: una riga brillante che separa la riga scura in due componenti. Vennero considerate dello stesso tipo delle emissioni brillanti al centro delle righe H e K dell’idrogeno, cioè dovute ad alti strati di gas caldi. Ma, nel 1908 a Mount Wilson, Hale scoprì che la loro origine era completamente differente e, precisamente, che era dovuto a sdoppiamento magnetico delle righe per effetto Zeeman. Le due componenti erano polarizzati circolarmente in direzioni opposte, mostrando che nelle macchie solari stava agendo un forte campo magnetico. Apparve importante il fatto che apparissero campi magnetici opposti anche in coppie di macchie che si succedevano una dietro l’altra durante la rotazione solare e che in Hα spesso mostravano direzioni opposte nella struttura del vortice. Ancora più interessante fu notare che la sequenza di

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polarità in una coppia nell’emisfero nord era opposta alla sequenza nell’emisfero sud. Questo suggeriva un confronto con la direzione opposta di rotazione dei cicloni terrestri a nord e a sud dell’equatore. Hale considerò le particelle cariche in moto vorticoso, nelle due macchie che costituivano una coppia e che avevano direzione opposta, come le due parti terminali di un vortice a forma di tubo, che era posto nelle zone più profonde e che produceva il fenomeno delle macchie laddove terminava sulla superficie. Le molte nuove idee e i relativi problemi sollevati da questo fenomeno acquistarono un aspetto ancora più curioso e misterioso quando, dopo il minimo di macchie solari del 1912, si vide che le polarità dell’emisfero nord e sud si erano invertite. Dopo il minimo del 1922, ci fu una nuova inversione. Si riuscì, allora, a trovare che la reale periodicità delle macchie solari, specialmente nei loro fenomeni magnetici e rotazionali, non era di 11 anni ma di 22.

Gradatamente si acquisì una grande

quantità di conoscenze sui fenomeni solari, grazie a una lunga serie di pazienti ricerche e di entusiasmanti scoperte. Nonostante tutto questo potrebbe ancora essere definito solamente un periodo prescientifico della fisica solare. Mezzo secolo dopo la scoperta dell’analisi spettrale, l’astrofisica era allo stesso stadio della vecchia astronomia prima di Keplero e Newton. Consisteva di una grande quantità di dati e di fatti, senza la base di una solida teoria. Da quel momento, vennero ideate nuove teorie sul Sole da importanti osservatóri per spiegare i nuovi fenomeni appena scoperti, ma erano tutte basate sulle idee dell’epoca, generiche e imperfette. Ci furono le teorie più generali di alcuni brillanti menti che provenivano da ambienti esterni all’astronomia, come August Schmidt, in Germania, che, nel 1891, spiegò molti fenomeni come, ad esempio, il bordo netto del Sole, dovuto alla forte curvature dei raggi di luce. Procedendo sulla stessa idea, il fisico di Utrecht W.H. Julius fornì una spiegazione delle righe di Fraunhofer e delle righe cromosferiche come

conseguenza di una dispersione anomala. In tutti questi tentativi, tuttavia, mancava la rigida certezza di princìpi infallibili.

Questo non era colpa dell’astronomia, che non poteva fare esperimenti con i suoi oggetti, bensì della fisica. L’astrofisica non poteva diventare una scienza esatta fino a che la fisica non sviluppò i fenomeni della radiazione all’interno di una teoria perfetta. Questa venne realizzata solo all’inizio del ventesimo secolo, grazie a una tale fondamentale rivoluzione nei principi della fisica che — come fu spesso detto — per un fisico del 1890 non soltanto le nuove leggi fisiche risultavano del tutto incomprensibili, ma anche i suoi termini costituivano un linguaggio estraneo e indecifrabile.

Questo sviluppo cominciò con la definizione delle leggi generali della radiazione. Nel 1870, queste leggi erano talmente sconosciute che Secchi aveva stimato la temperatura della superficie solare pari ad alcuni milioni di gradi, mentre il fisico Pouilett aveva trovato 2000 gradi. Entrambi i risultati si basavano pressoché sugli stessi valori sperimentali della quantità di radiazione solare, ma in un caso si riteneva che la radiazione crescesse proporzionalmente con la temperatura, nell’altro caso esponenzialmente. Nel 1879, il fisico austriaco Stefan, attraverso accurate misure su un ampio intervallo di temperature, dedusse che la radiazione totale era proporzionale alla quarta potenza della temperatura assoluta. Nel 1884, Boltzmann diede una rigorosa dimostrazione teorica di questa legge. Seguendo la stessa strada, W. Wien, nel 1893, dedusse che la radiazione di un corpo nero perfetto era rappresentabile da una singola funzione della lunghezza d’onda, che con il cambiamento della temperatura si spostava in modo tale che la lunghezza d’onda del suo massimo era inversamente proporzionale alla temperatura. Queste due leggi, applicate ai dati osservativi, stabilirono che la temperatura della superficie solare era di circa 6000 gradi. Nel 1906, trovarono una definizione finale nella formula della radiazione di Max Planck, che espresse la radiazione di corpo nero attraverso una

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funzione che combinava temperatura e lunghezza d’onda. Questa formula divenne famosa, più che il suo stesso contenuto, per il fatto che Planck, per dedurla, aveva assunto che l’energia della radiazione è assorbita ed emessa non con un flusso continuo ma in parti discrete. La sua teoria del quantum di energia lasciò la sua impronta su tutti i fisici successivi.

Nello stesso periodo, fece un grande progresso anche la conoscenza delle regolarità nelle radiazioni monocromatiche degli atomi, che noi osserviamo sotto forma dello spettro a righe di emissione di ogni elemento. Nel 1885, J.J. Balmer, a Basle, pubblicò la sua famosa formula per le lunghezze d’onda delle quattro righe visibili dell’idrogeno, che possono essere espresse esattamente dal valore 3645,6 moltiplicato per i rapporti 9/5, 16/12, 25/21 e 36/32, quindi attraverso la funzione n2/(n2-4), nella quale n è uguale a 3, 4, 5 e 6. Questa formula fu confermata dalle righe dell’ultravioletto che Huggins e Draper avevano fotografato sia nello specchio della stella Vega che e della cromosfera solare. Queste righe corrispondono ai valori maggiori di n da 7 in su, crescendo indefinitamente. Le lunghezze d’onda decrescono con intervalli decrescenti, in modo tale che le righe si raggruppano sempre più vicine, finché si fondono insieme alla lunghezza d’onda limite 3645,6Å. Dopo questa fortunata scoperta, vennero ideate altre formule analoghe, anche se più complicate, per altri spettri, inizialmente da Kayser e Range e quindi, in forma più promettente, da Rydberg. Le numerose righe di questi spettri erano piene di regolarità e di relazioni numeriche; il loro raggruppamento in doppietti, tripletti e altri multipli era collegato alla posizione degli elementi nel sistema periodico degli elementi. Tuttavia, la conoscenza della struttura atomica era ancora troppo insufficiente per ridurre queste relazioni spettrali a proprietà atomiche. Secondo un modo di dire di quei tempi, gli spettri erano una risposta della natura a qualcosa di cui noi non conoscevamo la domanda. I lontani corpi celesti ci trasmettono dei messaggi che

parlano della loro condizione attraverso la luce che penetra i nostri strumenti, ma i messaggi sono in codice e, fino a quando non esisterà la chiave, non potranno essere decifrati.

Il modello atomico di Niels Bohr, costruito nel 1913 sulla base della struttura derivata da Rutherford nel 1911 dai suoi esperimenti, fu la chiave che permise ai fisici di rompere il codice e decifrare i messaggi della luce. Nella successiva dozzina di anni, il rapido progresso nella teoria e nella sperimentazione portò l’intero campo della struttura spettrale e della corrispondente struttura atomica sotto il completo controllo della scienza. Ogni riga di emissione o di assorbimento è prodotta dalla transizione tra due stati atomici di differente energia; il suo numero d’onda (il reciproco della lunghezza d’onda) è la differenza tra due ‘termini’ che corrispondono alle energie di questi due stati. E così, centinaia di righe spettrali poterono essere risolte in poche decine di termini.

Basandosi su questa teoria degli spettri atomici, le righe di Fraunhofer potevano dare informazioni sullo scambio di energia tra gli atomi e, quindi, sulle condizioni fisiche presenti nell’atmosfera solare. Naturalmente, lo spettro solare poteva fornire informazioni solo sugli strati più esterni, gli unici dai quali proviene la luce che entra nei nostri strumenti, ma questa informazione era completa e adesso si poteva accertare lo stato di questi strati. Nel 1905, Karl Schwarzschild (1873-1916), un pioniere in questo come in molti campi, formulò una teoria dell’atmosfera solare basata sul principio dell’equilibrio radiativo, secondo la quale la temperatura in ogni punto è il risultato della radiazione che riceve da ogni parte, in quanto meccanismo principale per lo scambio di calore a queste alte temperature. La teoria della nube per la fotosfera era ora completamente sparita: temperatura e densità crescono regolarmente andando verso il basso. Partendo da queste basi, Milne, dal 1921 in poi, ed Eddington, nel 1923, presentarono un trattamento teorico completo di un’atmosfera di questo tipo, come dovuta ad una graduale diluizione

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degli strati più profondi densi e caldi. Sia lo spettro continuo che le righe di Fraunhofer apparivano, adesso, come il risultato combinato di tutti i livelli più bassi e più alti degli atomi; la distinzione fra fotosfera, strato invertente e atmosfera non corrispondeva più a differenze qualitative reali ma solo a differenze quantitative pratiche.

Così, anche la struttura della riga di Fraunhofer poteva divenire oggetto di studio. Quella che prima veniva chiamato una ‘riga’, con una relativa lunghezza d’onda, in realtà aveva un’ampiezza e una struttura. La teoria aveva mostrato che i processi atomici non consistevano soltanto nell’assorbimento e nell’emissione di radiazione (come aveva ritenuto inizialmente Stokes), ma anche in collisioni nelle quali ciò che veniva trasferita era l’energia termica associata al movimento degli atomi (secondo le leggi di Kirchhoff). Prendevano parte a questi processi lunghezze d’onda adiacenti, anche se con quantità crescenti con la distanza. Dopo l’esempio fornito nel 1927 dalla teoria di Unsöld, negli anni successivi si poté ottenere l’intero profilo di una riga di Fraunhofer, in modo tale che si riuscirono a derivare, dall’intensità della riga stessa, le condizioni dell’atmosfera solare, temperatura, pressione, ionizzazione e abbondanza dei diversi elementi. Un risultato importante e inaspettato fu che l’abbondanza di atomi di idrogeno superasse di un centinaio di volte l’abbondanza di tutti gli atomi metallici.

A questo punto, però, l’origine dello spettro continuo cominciava a presentare delle difficoltà. Intorno al 1870, poteva essere spiegata facilmente attraverso la teoria della nube, poi, verso il 1910, attraverso la radiazione dai gas profondi ad alte densità. Tuttavia, poiché la teoria atomica aveva mostrato che la radiazione era il risultato di salti di energia che producevano le righe spettrali, sorsero molti dubbi su quelle spiegazioni. Nel 1939, Rupert Wildt fece notare che gli atomi di idrogeno sono in grado di attirare e riemettere un secondo elettrone; tutte le lunghezze d’onda dello spettro solare

visibile sono coinvolte in questo processo di assorbimento e riemissione della piccola quantità di energia necessaria alla sua effettuazione. Benché tali processi non siano molto frequenti, tuttavia essi giocano un ruolo importante, poiché gli atomi di idrogeno sono presenti in enorme abbondanza a confronto di altri atomi. È curioso il fatto che l’incomparabile bellezza delle tonalità e delle sfumature di colori che vediamo presenti nello spettro solare continuo — fonte di tutta la luce e di tutti i colori sulla Terra — abbiano origine in un simile processo, accidentale e secondario.

Adesso (siamo circa nel 1930), finalmente, gli astronomi potevano essere soddisfatti del fatto che la natura del Sole fosse conosciuta nei suoi aspetti principali e che si dovessero aggiungere solo dei dettagli. Ma la natura, nella sua inesauribile ricchezza, continuò a stupire con fenomeni inaspettati. Abbiamo menzionato come la fotografia del Sole con uno spettroeliografo fosse diventata, a Mount Wilson, un’attività di routine. Con la sua capacità di fornire una testimonianza documentata di un evento, la fotografia era diventata, sotto certi aspetti, un nuovo lavoro di registrazione, pur riducendo il contatto diretto con il succedersi dell’evento stesso istante per istante. Lo stesso Hale, inventore dello spettroeliografo, non era completamente soddisfatto, perché, con questo strumento, finiva per perdere il fascino di vedere ciò che stava accadendo; così, nel 1926, costruì con lo stesso principio uno ‘spettroelioscopio’ adatto alle osservazioni visuali. Negli anni successivi, questo metodo di osservazione portò alla scoperta di improvvise esplosioni che avvenivano sul Sole, lampi luminosi di radiazione di idrogeno, soprattutto nelle regioni attive delle macchie, che duravano circa 10 minuti e che scomparivano dopo mezz’ora. Ci si ricordò, allora, che, nel 1859, Carrington aveva osservato, senza spettroscopio, una breve scintillante esplosione (flare), simile quasi a una stella, della durata di appena cinque minuti, che associò alla caduta di un grande meteorite sul Sole. Nel 1933, ci si accorse che insospettati affievolimenti nelle trasmissioni

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radio coincidevano con queste esplosioni sul Sole, un nuovo caso di disturbi solari che influenzavano i fenomeni sulla Terra. Ma qual era la loro causa?

Inoltre, si erano rilevati alcuni fenomeni che non rientravano nello scenario complessivo. La presenza di righe di elio ionizzato nello spettro della cromosfera fece pensare come potesse essere dovuto alla presenza di radiazione con un potere di ionizzazione notevolmente maggiore di quello che poteva essere prodotto da una temperatura superficiale di 6.000 gradi. Le righe di emissione della cromosfera erano troppo larghe per corrispondere a questa temperatura e indicavano una maggiore velocità delle particelle, cioè una temperatura superiore, dell’ordine di 30.000 gradi. Nello spettro continuo della corona — luce solare riflessa molto lontana dal Sole — le righe di Fraunhofer erano invisibili e questo suggerì la possibilità che potessero essere indebolite da un moto molecolare rapido. Nel 1930, Lyot riuscì a risolvere il difficile problema dell’osservazione delle righe coronali durante la luce del giorno, escludendo, con estrema attenzione, tutta la luce di disturbo derivante da diffrazione, impurità e atmosfera. Le righe poterono, quindi, essere studiate facilmente e apparvero così larghe che le velocità degli atomi che le producevano richiedevano temperature di milioni di gradi. Ciò sembrò incredibile finché, nel 1941, si riuscì a dimostrare il mistero delle righe del ‘coronio’. Seguendo una indicazione di Grotrian, il fisico svedese Bengt Edlén stabilì che l’emissione più intensa era prodotta da atomi di ferro ionizzati 9, 10 e 13 volte, di calcio ionizzati 11 e 12 volte e di nickel ionizzati da 11 a 15 volte. Per strappare tutti questi elettroni fortemente legati, erano necessarie temperature di molte centinaia di migliaia o addirittura di milioni di gradi. Ci si rese conto, così, che il Sole, con la sua superficie a 6.000 gradi, è circondato, fiino a grandi distanze, da un’ampia ed estesa atmosfera di gas caldi estremamente rarefatti. Questa atmosfera non contribuisce alla radiazione totale del Sole ma vi aggiunge un supplemento di

radiazioni fortemente ionizzate di lunghezza d’onda molto corta. Come questo riscaldamento proveniente da regioni superiori influenzasse i tempestosi processi delle protuberanze rimase oggetto di ulteriori ricerche.

Una risposta completa alla domanda

“cos’è il Sole?” deve comprendere la conoscenza del suo interno. In questo campo vennero compiuti importanti progressi negli stessi anni, intorno al 1920, sulla base delle già ricordate scoperte delle leggi dell’irraggiamento. Negli anni tra il 1878 e il 1883, il fisico tedesco A. Ritter aveva già tentato di derivare, con deduzioni teoriche, dei risultati sull’interno del Sole. Tuttavia, poiché a quel tempo i fenomeni della radiazione costituivano un capitolo sconosciuto della fisica, al suo lavoro erano mancate delle basi corrette. Nel 1907, R. Emden costruì una teoria numerica del tutto generale relativa a sfere di gas nello spazio, applicabile al Sole e alle stelle. Anche in questo caso, Emden non conosceva altro meccanismo di trasporto del calore se non la convenzione e la conduzione e così i suoi risultati non furono soddisfacenti. Però, poté dare una buona spiegazione dei ‘granuli’ visibili sulla superficie solare, considerandoli elementi vorticosi in correnti ascendenti e discendenti. Dove Ritter e Emden avevano fallito, ebbe successo Eddington, grazie al miglioramento delle conoscenze dell’epoca. Nel 1916, Eddington (1882-1944) iniziò la sua serie di ricerche teoriche, estendendo agli strati più interni di una stella, mediante i dati numerici di Emden, il precedente lavoro di

Tav. 19. Sir Arthur Eddington

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Schwarzschild sull’equilibrio radiativo. Fu, così, possibile calcolare esattamente le condizioni fisiche della materia — temperatura, densità, pressione, ionizzazione e coefficiente di assorbimento — in ogni punto dell’interno come una funzione della sua distanza dal centro. I valori trovati apparivano fantastici: al centro del Sole una temperatura di 18 milioni di gradi e una pressione di 9.000 milioni di atmosfere, eppure erano il prodotto di calcoli esatti. Questo non significa, però, che fossero

risultati finali e assoluti, perché in ricerche di questo tipo rimane una certa arbitrarietà nei valori delle condizioni di partenza assunte, che necessariamente devono essere introdotti in forma semplificata. La materia che si trova in queste condizioni estreme, non direttamente osservabili e trattabili, in quanto superano abbondantemente le nostre possibilità sperimentali, diviene ora un oggetto della scienza perché i suoi effetti si rivelano nell’esistenza stessa del Sole e delle stelle.

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CAPITOLO 38

ASTRI PASSEGGERI Aristotele aveva posto il fuoco nella sfera più alta del corruttibile mondo terrestre e tutti i fenomeni luminosi transitori, non ammissibili nei regni celesti dell’etere eterno, trovavano posto lì, sopra l’atmosfera. La sua intuizione, in questo caso, non fu poi così lontana da quelle che furono le idee successive della scienza. Tutto quello che si trovava là in alto venne chiamato da Aristotele ‘meteore’ [ndr: dal greco μετέωρα = luoghi elevati, neutro plurale dell’aggettivo μετέωροσ = che sta in alto nell’aria]; questo nome venne in seguito ristretto al fenomeno comunemente chiamato ‘stelle cadenti’.

Per diversi secoli le stelle cadenti non attirarono l’attenzione degli scienziati venendo considerate una sorta di lampi. Per imparare qualcosa del loro comportamento si doveva dare prima una risposta alla domanda riguardante la loro posizione. A che altezza si infiammavano e scomparivano? Negli ultimi anni del diciottesimo secolo, nel 1798, due giovani scienziati, Benzenberg e Brandes, studenti a Göttingen, cercarono di rispondere a queste domande attraverso osservazioni simultanee da due diverse posizioni. Un’accurata sincronizzazione degli orologi consentì loro di osservare gli stessi oggetti agli stessi istanti di osservazione; i diversi percorsi apparenti degli oggetti, proiettati tra le stelle, resero possibile il calcolo delle loro altezze. Gli osservatóri si accorsero subito che queste altezze erano di gran lunga maggiori di quanto avessero supposto, non alcune centinaia o migliaia di piedi, ma decine e addirittura centinaia di miglia, così che dovevano mettere i loro punti di osservazione sempre più lontano. Le stelle cadenti apparivano e scomparivano nell’atmosfera molto al di sopra delle nubi, dentro e anche sopra quella zona successivamente chiamata ‘stratosfera’.

Nonostante la loro durata fosse difficile da stimare, era chiaro che, trovandosi questi oggetti a tali distanze, le velocità reali erano di decine di chilometri al secondo, paragonabili alle velocità planetarie.

Si dimostrò, così, che le meteore erano corpi che, provenendo dallo spazio planetario, penetravano dentro la nostra atmosfera, dove, a causa della resistenza dell’aria, perdevano la loro velocità e bruciavano. Benzenberg avanzò la supposizione che dovesse trattarsi di piccole pietre, eruttate in tempi precedenti da vulcani della Luna, che, dopo varie peregrinazioni nello spazio, finivano per colpire la Terra. La loro provenienza dalle più lontane profondità del Sistema solare venne dimostrata da un magnifica pioggia meteoritica avvenuta nel 1833. Durante la notte tra il 12 e il 13 novembre, per più di cinque ore le stelle cadenti arrivarono in gruppi densi, come una terribile grandinata di piccole stelle brillanti, che produsse un fantastico spettacolo specialmente nel Nord America. Sembravano tutte irradiarsi da un solo punto del cielo, posto nella testa del Leone; questo punto di provenienza (chiamato ‘radiante’), seguiva il movimento delle stelle, dimostrando, così, che non poteva appartenere alla Terra. Olmsted, a New Haven, giustificò subito la provenienza da un solo punto come un effetto di prospettiva, mentre, in realtà, gli oggetti si muovono con movimenti paralleli. Poiché alla stessa data, anche un anno prima, era stato visto un gran numero di meteore, Olmsted suppose che una nube di piccoli corpi descrivesse un’orbita intorno al Sole in metà di un anno, incontrando la Terra nello stesso punto nello spazio esattamente dopo un anno. Ci si ricordò, allora, che Alexander von Humboldt, alla partenza del suo viaggio attraverso il Sud America, aveva osservato nella città di Cumana una pioggia di meteore

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simile, nel 1799, nella notte dell’11-12 novembre. Nella sua descrizione, Humboldt aveva riportato il fatto che i vecchi abitanti del posto sostenevano che circa 30 anni prima era stato visto lo stesso fenomeno. L’anno successivo al 1834, le meteore di novembre (dette ‘Leonidi’ dal loro radiante) furono molte di meno; Olbers sospettò, allora, che una grande apparizione delle ‘Leonidi’ sarebbe tornata dopo altri 34 anni, nel 1867. Erman, a Berlino, suppose che le meteore delle Leonidi descrivessero un’orbita comune leggermente maggiore di un anno, che intersecava l’orbita della Terra nel punto in cui essa veniva a trovarsi il 13 novembre; le meteore sarebbero state disperse sull’intera orbita non in modo uguale, ma soprattutto raggruppate in una stessa posizione. Perché il denso sciame possa incontrare la Terra ogni 33 anni, il 13 di novembre, il suo periodo di rivoluzione deve essere (1 + 1/33) o (1 - 1/33) anni. Poiché ogni anno, intorno al 10 di agosto, si vedeva un gran numero di stelle cadenti, per le quali si trovò un punto radiante nella parte nord di Perseo (chiamate quindi ‘Perseidi’), venne data una spiegazione analoga; anche se in questo caso le meteore erano distribuite più uniformemente sull’orbita intera.

Nel 1864, H.A. Newton di New Heaven, attraverso delle ricerche storiche, trovò che piogge di Leonidi erano state viste anche in secoli lontani, ma che, curiosamente, nei secoli passati erano apparse in date precedenti, come, per esempio, il 31 ottobre dell’anno 902 a.C. Questo stava a significare che il punto di intersezione con l’orbita terrestre avanzava gradatamente, in longitudine, di circa 1o ogni 70 anni. J.C. Adams applicò le formule della meccanica celeste a questo caso e scoprì che le perturbazioni potevano spiegare completamente lo spostamento per un’orbita di 33 anni, ma non per un’orbita con un periodo di circa un anno. Così, nel 1867, si riuscì a stabilire che lo sciame delle Leonidi descriveva un’orbita intorno al Sole in 33 o 34 anni e inoltre, poiché nel momento e nel punto di incontro la direzione del gruppo relativamente alla Terra veniva fornito dal radiante, fu possibile derivare tutti gli

elementi dell’orbita. Tuttavia, questa non era una scoperta del

tutto nuova; l’anno prima, a Milano, Schiaparelli aveva ricavato con un metodo diverso l’orbita delle meteore di agosto. Si sapeva da tempo che le stelle cadenti sono più frequenti dopo la mezzanotte che alla sera e la ragione è abbastanza chiara. Nel movimento dell’orbita terrestre, le regioni che vedono la luce del giorno si trovano nella sua parte frontale, mentre quelle che vedono il tramonto si trovano sul retro. Le prime, quindi, catturano tutte le particelle che si trovano lungo l’orbita o che le vengono incontro. Il rapporto del numero di stelle cadenti nella prima e nella seconda metà della notte consentì a Schiaparelli di derivare il rapporto tra la velocità media delle meteore e la velocità della Terra. Questo rapporto fu trovato pari a 1,4 = √2, esattamente il rapporto tra velocità parabolica e circolare alla stessa distanza dal Sole. Così, Schiaparelli concluse che anche le meteore, in generale, e tra queste le Perseidi, si muovono lungo orbite pressoché paraboliche. Quindi, calcolando dimensione e posizione, cioè gli elementi orbitali delle Perseidi, scoprì dalla direzione del radiante che corrispondevano all’orbita di una brillante cometa che aveva attraversato il suo perielio il 23 agosto 1862 (designata con la sigla 1862 III) e per la quale si era calcolata una periodicità di 119 anni.

Ne derivò un nuovo e importante risultato: gli sciami meteorici e le comete erano, propriamente parlando, la stessa cosa. A grande distanza, gli sciami meteorici sembrano comete e le comete che passano nelle nostre vicinanze si trovò che erano composti di uno sciame di meteore. Negli anni precedenti, si era prodotto un gran panico per la previsione che l’eventuale impatto di una cometa con la Terra avrebbe creato una catastrofe. Ora invece, era rassicurante sapere che l’unico effetto sarebbero stati dei brillanti fuochi d’artificio, causati dal bruciamento delle piccole pietre con l’atmosfera che protegge la Terra e noi stessi.

Nel frattempo, come previsto da Olbers e Newton, le Leonidi avevano fatto una nuova

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apparizione, nel 1866, questa volta in Europa e quasi brillanti come nel 1833; dopo di che l’apparizione delle meteore si ripeté nel 1867 e nel 1868, il 13-14 novembre. Schiaparelli e Leverrier calcolarono l’orbita e trovarono che era quasi identica a quella della cometa di Temple, 1866 I, per la quale Oppolzer aveva calcolato un periodo di rivoluzione di 33 anni. Nonostante le orbite coincidessero, gli oggetti no; le meteore che colpirono la Terra in novembre, erano sparpagliate, arrivando per ben dieci mesi dopo la cometa, che aveva passato il punto di intersezione in febbraio.

Gradatamente si scoprirono altre coincidenze tra le orbite delle comete e degli sciami. Le meteore che apparivano abbastanza regolarmente intorno al 20 di aprile, col punto radiante sulla Lira (le Lireidi), avevano la stessa orbita della cometa 1861 I. Le numerose meteore osservate da Brandes intorno al 6 dicembre del 1798 e da Heis nel 1838 furono più cospicue. Questi sciami irraggiavano da uno stesso punto vicino alla stella γ Andromedae e vennero collegati alla cometa di Biela (già ricordata nel cap. 34). La cometa era stata scoperta nel 1826 e aveva un periodo di rivoluzione di 6,8 anni; si era spaccata in due nuclei nel 1846 ed era scomparsa dopo il 1852.Si credette che la spaccatura fosse stato l’inizio di una completa dissoluzione in piccoli frammenti invisibili, ma adesso le meteore provenienti dalla direzione di Andromeda [Andromedidi] cominciarono a essere spesso visibili alla fine di novembre e non in dicembre. Il calcolo delle perturbazioni dovute ai pianeti mostrò che il nodo della sua orbita retrocedeva rapidamente, cosicché le date dell’incontro erano sempre più anticipate. Poiché la cometa sarebbe dovuta passare vicino alla Terra nel 1872, Galle predisse un gran numero di Andromedidi per il 28 novembre di quell’anno. Difatti, nella serata del 27 novembre, una pioggia impressionante, durata molte ore, bruciò sull’Europa. Tredici anni più tardi, dopo altre due rivoluzioni, lo spettacolo si ripeté con uguale splendore; la cometa stessa era rimasta invisibile, seguendo lo sciame osservato per 60 giorni,

in accordo con i calcoli. All’apparizione successiva nel 1892, nelle notti del 23-26 novembre, si videro soltanto un esiguo numero di meteore.

Così, giunse alla conclusione questa dozzina di anni di eccitanti e celestiali fuochi d’artificio. Il 14 novembre del 1899, diversi osservatóri attesero le Leonidi, ma non apparve nessuna meteora, solo un numero leggermente maggiore di stelle cadenti rispetto alle altre notti. I calcoli di Berberich e Downing svelarono che le perturbazioni dovute ai pianeti maggiori avevano spostato l’orbita e adesso lo sciame passava vicino alla Terra a una distanza doppia rispetto a prima. Così, non si poterono più aspettare altre apparizioni di meteore dal Leone. Gli sciami meteorici divengono visibili sotto forma di stelle cadenti solo sotto speciali condizioni e molti di essi possono percorrere, attraverso il Sistema solare, delle orbite per noi inosservabili. Certamente, le perturbazioni possono cambiare quelle orbite in modo tale da far intersecare loro l’orbita terrestre e da produrre nuovi sciami.

Durante tutto il diciannovesimo secolo, l’osservazione di stelle cadenti fu un usuale campo di lavoro per i non professionisti. In parte, consisteva nella contemporanea osservazione di un oggetto da due stazioni differenti, in modo da calcolarne l’altezza, sia all’atto della sua comparsa che della sua sparizione; in parte, era lavoro di un singolo rivolto a calcolarne il radiante. Denning, dopo molti anni di osservazione da Bristol, pubblicò, nel 1899, un catalogo di 3000 radianti che però rappresentavano solo in parte i veri sciami, in quanto che, fra di essi, vi era un cospicuo numero di bolidi (fireballs). Olivier, nel 1920, compilò una lista di 1200 radianti, metà dei quali assunse essere reali sciami. Ogni notte, tra le molte meteore isolate, ve ne sono alcune raggruppate. Tutti gli sciami si disperdono nello spazio poco alla volta, sia lungo la loro orbita che al di fuori di essa, diventando meno cospicui, mentre cresce il numero di oggetti solitari. Che nello spazio fra i pianeti ci sia un gran numero di piccoli corpi, condensati nelle vicinanze del Sole, è reso

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manifesto dalla luce zodiacale, ricordata per la prima volta da Cassini, nel 1683, come un fenomeno particolare. La luminosità della luce zodiacale decresce col crescere della distanza angolare dal Sole, ma nel 1854 Brosen fece notare come a 180°, esattamente nella direzione opposta al Sole, la luminosità cresce nella cosiddetta Gegenschein [ndr: tradotto da Schiaparelli come ‘lume dell’opposizione’ e chiamato ‘alba falsa’ dagli antichi astronomi arabi, il fenomeno prende il nome italiano di ‘luce anteliale’ o ‘anteliaca’], che, come una leggera chiazza luminosa, risplende lungo l’eclittica. Zöllner spiegò il fenomeno come dovuto al massimo di luminosità che ogni pianeta mostra all’opposizione.

A volte, tracce di meteore appaiono sulle fotografie, ma in questi casi, per la durata del tempo di esposizione, l’istante esatto di apparizione rimane incerto. La fotografia venne usata all’Harvard Observatory per determinare il dato più difficile: la durata e la velocità del fenomeno. A questo scopo, la traccia veniva interrotta ogni decimo di secondo mediante uno schermo in rapida rotazione posto dinnanzi alla camera fotografica. Le velocità trovate, risultato della resistenza atmosferica, sono state utilizzate per studiare le condizioni fisiche negli strati più alti dell’atmosfera terrestre.

La connessione tra meteore e comete,

trovata nel diciannovesimo secolo, aveva mostrato che le meteore giungono dal vasto spazio al di fuori del Sistema solare e che le comete fanno parte di sottili nubi estese composte di corpi meteorici più piccoli e più grandi. È questo tutto quello che si può dire?

Abbiamo già trattato le comete, ma essenzialmente come oggetti che suscitavano terrore o come oggetti per il calcolo di orbite. Fin dai tempi più antichi le comete impressionarono l’uomo come imponenti luminari celesti; apparendo, soprattutto, come grandi stelle con un appendice che noi chiamiamo ‘coda’, ma che nei tempi antichi era descritta per lo più come dei ‘capelli’ (la parola κομ ήτης significa ‘chiomato’) o come una barba. Il loro aspetto non comune — a volte una striscia luminosa di luce che

copre metà cielo, a volte una debole luminosità spettrale oppure solamente un filo lucente — combinato con la loro apparizione improvvisa e imprevista e con il loro percorso arbitrario fra le stelle, le rese, specialmente nei periodi più agitati, fenomeni che ispiravano un grande timore reverenziale. Soprattutto alla fine del Medio Evo e nei secoli successivi, a parte la comune pratica astrologica, vennero considerati come presagi di calamità e segni dell’ira divina. L’apparizione della cometa di Halley nel 1456, alcuni anni dopo la caduta di Costantinopoli, con la sua forma a scimitarra, venne considerata come un annuncio del pericolo presentato dai Turchi per l’Europa. Anche dopo che Tycho ebbe mostrato che le comete erano corpi celesti nello spazio cosmico, la paura verso questi fenomeni rimase e non scomparve finché, dopo i calcoli delle loro orbite e le previsioni del loro ritorno ad opera di Newton e Halley, queste previsioni non si verificarono, per di più all’interno del clima razionalistico tipico dell’Ottocento. Rimase, comunque, una sorta di istintivo stato di inquietudine che, nel secolo successivo, quando ne venne scoperto un gran numero, si tramutò letteralmente nel terrore di una collisione catastrofica fra la Terra e una cometa. La gran parte di esse erano certamente deboli e innocenti oggetti di aspetto nebulare, e solo quelle luminose sviluppavano quelle code che scatenavano il terrore.

Da dove hanno origine queste code? Come aveva fatto notare Bienewitz (latinizzato in Apianus), ‘Matematico Imperiale’, nel 1531, le code delle comete sono rivolte in direzione opposta al Sole. Keplero, nel 1618, sostenne che la materia luminosa era deviata dalla testa delle comete dalla forza repulsiva del Sole. Olbers intuì, col suo telescopio, la presenza di un nucleo stellare nella grande cometa del 1811, circondato a una certa distanza da un inviluppo parabolico che passava dentro la coda. In una sorta di spruzzo di fontana, anche i getti separati, curvandosi verso l’interno, mostravano uno sviluppo parabolico e, così, Olbers avanzò l’ipotesi che quella materia, eruttata dal nucleo in differenti direzioni e respinta dal

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Sole, mostrava, rifluendo dentro la coda, l’aspetto di un inviluppo luminoso. Sottolineò, inoltre,come differenti forze che si respingevano potessero produrre code di forma diversa:

«La coda più lunga e dritta (della cometa del 1807) doveva essere costituita di particelle respinte più intensamente dal Sole rispetto alla materia che costituisce una coda curva».[210]

E sulla natura della forza repellente disse: «È difficile esimersi dal pensare a qualcosa di analogo alle nostre forze di attrazione o repulsione elettrica».[211] Lo studio di questi fenomeni luminosi

continuò a ogni apparizione di una grande cometa. Quando la cometa di Halley ritornò, nel 1835, Bessel osservò un getto a forma di ventaglio, costituito di materia luminosa e diretto verso il Sole, oscillante con un periodo di circa 4½ giorni, ovviamente deviato lontano dalla repulsione solare. Bessel sviluppò una teoria della forma della coda e calcolò la forza repulsiva del Sole rispetto alla sua attrazione gravitazionale. Il fatto che la coda fosse generata continuamente da nuova materia in rapida fuoriuscita apparve chiaramente dalla brillante cometa del 1843, che in due ore compì un giro di 180° vicino alla superficie solare, mentre la coda veniva rimaneva in direzione opposta al Sole. Nella testa della cometa di Donati, in una eccezionale apparizione nell’autunno del 1858, furono visibili diversi inviluppi luminosi che si espandevano dal nucleo verso l’esterno e poi scomparivano; a volte venivano collegati al nucleo da una sorta di ventagli luminosi (Tavola 14a). Due fenomeni spiccavano spesso in modo molto chiaro: il fluire di materia luminosa dal nucleo dalla parte del Sole e la repulsione di materia in direzione opposta al Sole. A Mosca, in una serie di pubblicazioni dal 1862 in poi, l’astronomo russo Th. Bredichin continuò il lavoro di Bessel sulla forza repulsiva. Egli trovò che le code lunghe e dritte sono prodotte da una forza repulsiva da 15 a 20 volte maggiore della forza attrattiva; le famose code curve, a

‘scimitarra’, si sviluppano se la repulsione è circa una o due volte l’attrazione, mentre nel caso delle particelle pesanti, per le quali l’attrazione sorpassa abbondantemente la repulsione, appaiono code corte e molto curve.

La natura fisica della forza repulsiva non

poté essere derivata dalle osservazioni e rimase materia di discussione. Molti studiosi parlarono di forze elettriche, poiché non si conoscevano altre cause di repulsione. Nel 1900, il famoso chimico svedese Svante Arrhenius, autore di un paio di importanti lavori astronomici, sottolineò come un ruolo importante potesse essere svolto dalla pressione della luce, derivata a livello teorico da Maxwell e successivamente confermata da delicati esperimenti. Nel 1901, un lavoro teorico di Schwarzschild mostrò che questa pressione, per particelle inferiori a un micron, poteva ammontare, al massimo, a 18 volte la forza gravitazionale. Arrhenius spiegò questa maggiore forza repulsiva, che talvolta era stata osservata , assumendo che le particelle fossero porose come nuvole di fumo, riuscendo così a combinare una grande superficie con un

Tav. 14a. La Cometa Donati del 1858 (sopra) e un’immagine ingrandita del nucleo (sotto).

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piccolo peso. In questo caso, dopo aver trovato un

metodo di indagine corretto, la fotografia venne usata con risultati inaspettati. Sebbene già nel 1858 un astronomo non professionista avesse fatto una buona fotografia della cometa di Donati in sette secondi, con una comune macchina fotografica, Draper, nel 1881, ebbe bisogno, col suo telescopio, di un’esposizione di due ore e mezza per ottenere una buona immagine della cometa di Tebbutt, 1881 III. Gli astronomi non capirono che la cosa importante non era l’apertura lineare ma l’apertura angolare della lente, fino a quando un fotografo professionista non fece, nel 1882 a Cape Town, una splendida foto della cometa di Cruls. Una cometa, diversamente da una stella puntiforme, è caratterizzata da una debole luminosità estesa su una grande superficie e per avere una grande intensità superficiale in grado di impressionare la lastra, l’apertura deve essere grande rispetto alla distanza focale. Una volta capito questo, gli astronomi cominciarono a usare lenti fotografiche ‘da ritratto’ e doppietti per fotografare tutti i tipi di sorgenti luminose celesti deboli ed estese. Al Lick Observatory, fotografie della cometa di Swift vennero fatte, nel 1892, da E.E. Barnard e della cometa di Rordame, nel 1893, da J.W. Hussey. Con l’aumento del tempo di esposizione le code delle comete, inizialmente piatte e spettrali, fantasmi difficili da vedersi, ora apparivano sulle lastre come torce brillanti, con ricchi dettagli della struttura, con macchie sia brillanti che deboli, nulla di mai visto né sospettato prima. Immagini di questo tipo, riprese per ogni cometa brillante che appariva (come la Morehouse nel 1908 e la Halley nel 1910, spesso riprodotte in pubblicazioni aia scientifiche che di divulgazione), diedero un nuovo impulso allo studio delle code delle comete (Tavola 14b). Il confronto delle fotografie riprese in giorni consecutivi mostrò che le lucenti condensazioni fuoriuscivano dalla testa. Si poté dedurne, quindi, la loro velocità; Heber D. Curtis, anch’egli un astronomo del Lick, trovò, per la cometa di Halley, che la velocità cresceva

con la distanza dal nucleo, da 5 a 10 fino a 90km al secondo. Lo stesso fenomeno — la repulsione di materiale cometario da parte del Sole — inizialmente dedotto per via teorica dai cambiamenti strutturali osservati telescopicamente nella testa della cometa, era ora reso direttamente visibile in immagini a piccola scala di tutto l’oggetto.

L’origine e la natura della luce proveniente

dalle comete poté essere accertata solo attraverso l’analisi spettrale, che si sviluppò negli stessi anni Sessanta nei quali le comete furono collegate agli sciami meteorici. Questa tecnica venne immediatamente applicata a ogni nuova cometa. Quando apparivano deboli nebulose a grandi distanze, esse mostravano solamente lo spettro solare riflesso, poi, nell’avvicinarsi al Sole, divenivano lucenti e generavano una coda ed appariva uno spettro nuovo. Osservando nel 1864 la cometa di Temple, Donati riconobbe uno spettro a tre deboli bande luminose — gialla, verde e blu — e, dopo di lui, nel 1868, Huggins identificò queste tre bande, che presentavano un drastico taglio nel rosso, con le bande emesse dal vapore di etilene e da altri composti di idrocarburi resi luminosi da scariche elettriche, secondo quanto aveva già descritto Swan (Tavola 15c). Huggins sostenne che la luce della cometa veniva emessa da gas di carbonio luminoso. Le meteore riscaldate in laboratorio emettevano gas costituiti da ossido di carbonio e

Tav. 14b. La cometa Morehose, fotografata il 29 settembre 1908.

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anidride carbonica, idrogeno e idrocarburi e si riuscì in questo modo a capire come gli sciami di queste pietre, riscaldate durante l’avvicinamento al Sole, producessero intorno ai loro nuclei delle atmosfere costituite da quegli stessi gas.

Nei decenni successi, lo sviluppo della

strumentazione per l’osservazione spettroscopica e la sua applicazione a tutte le comete portò a una continua crescita della conoscenza. Gli spettri fotografici mostrarono un gran numero di bande ultraviolette, spesso appartenenti allo spettro del cianogeno composto di carbonio-azoto. Un fenomeno nuovo e inaspettato fu rappresentato dalla cometa di Well, 1882 I: quando questa si avvicinò al Sole lo spettro a bande dell’idrocarburo sparì e fu rimpiazzato dalla brillante riga gialla del sodio. La stessa riga del sodio, accompagnata da diverse righe del ferro, apparve nella brillante cometa di settembre, 1882 II, che fu visibile durante il giorno vicino al bordo solare, sfiorandone la superficie nel passaggio al perielio: in questo caso, non appena la cometa raggiunse una grande distanza dal Sole, le righe del metallo scomparvero per lasciare posto alle bande di idrocarburo. Anche alcune comete

successive, 1910 I e 1927 IX, quando erano vicine al Sole, mostrarono l’emissione del sodio: si trattava, quindi, di un fenomeno regolare, dovuto alla grande intensità della radiazione solare.

La quantità di materia coinvolta in questi fenomeni fu determinata da Schwarzschild e Kron in un esauriente studio, compiuto su poche immagini della cometa di Halley, prese in modo casuale, ma successivamente uniformate. Essi misurarono l’intensità superficiale della coda, ½º dietro la testa e, assumendo che non si trattasse di luce solare riflessa, bensì di energia solare assorbita e riemessa sotto forma di nuova radiazione (detta ‘fluorescenza’), dedussero che dalla testa fluissero nella coda 150g di materia al secondo. La densità di questo materiale luminoso era quindi 1020 volte inferiore a quello della nostra atmosfera, cioè una molecola per centimetro cubo, di poco superiore alla densità stimata per lo spazio vuoto esterno. A fatica può essere definito ‘gas’, perché in un gas i miliardi di collisioni delle particelle, attraverso scambi di energia, producono condizioni medie di equilibrio, mentre, in queste code cometarie, ogni molecola o atomo, una volta eiettati e respinti dalla forza repulsiva solare, continuano la loro corsa senza essere disturbati da mutue collisioni.

I processi indicati in queste vecchie ricerche con i nomi vaghi di ‘luminescenza’ e ‘fluorescenza’ acquisirono una maggior definizione dopo il 1914, grazie alla teoria atomica di Bohr delle righe spettrali: ogni atomo, a causa di scambi interni di energia, emette o assorbe solo determinate lunghezze d’onda. La rapida crescita nella conoscenza degli spettri atomici a righe fu presto seguita da un’analoga crescita nella comprensione degli spettri molecolari a bande. Le molecole costituite di due o più atomi, uguali o diversi, hanno maggior libertà di scambi interni per assorbimento o emissione di energia in quantità piccole e di poco differenti; così lo spettro mostra un’abbondanza di righe vicine che, osservate con strumenti a bassa risoluzione, appaiono come bande. Fin dal 1920, l’interpretazione dello spettro molecolare trovò applicazione

Tav. 15c. Alcuni spettri di Huggins.

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nello studio del numero sempre crescente delle varie bande scoperte negli spettri cometari grazie a spettrografi di sempre miglior qualità. Questo studio mostrò come lo spettro di Swan non avesse nulla a che fare con gli idrocarburi, essendo, invece, prodotto dalla molecola del carbonio, C2. Inoltre, si scoprì che la molecola del cianogeno, CN, contribuiva soprattutto alla luce della testa della cometa, mentre la luce più debole della coda era principalmente dovuta all’ossido di carbonio ionizzato (CO+) e le bande più leggere erano prodotte da molecole tipo CH, CH2, OH, NH e (nella coda) N2

+. Chimicamente, molecole di questo tipo, chiamate radicali liberi, non dovrebbero essere in grado di esistere in un gas in equilibrio, dove la disintegrazione dei composti è neutralizzata dalle ricombinazioni. Ma nel materiale molto sottile della cometa le collisioni e le ricombinazioni sono praticamente assenti, così che ciò che viene dissociato o ionizzato dalla radiazione solare rimane in questa condizione. Quando lo sciame di blocchi e pietre meteoriche giunge vicino al Sole, si sprigionano dei gas proprio come quando quei blocchi e quelle pietre vengono riscaldati in laboratorio: idrogeno, azoto, anidride carbonica, idrocarburi. Quando queste molecole assorbono le giuste lunghezze d’onda dalla radiazione solare, si spaccano; il CO2 produce CO e CO+; C2N2 produce CN; gli idrocarburi producono C2 e CH. Tutti questi formano un inviluppo nebuloso di circa 100.000km di diametro chiamato ‘testa della cometa’ e, attraverso la

pressione di radiazione, fluiscono nella coda. La moderna teoria atomica ha attribuito

una nuova caratteristica a questa pressione di radiazione. Invece della pressione esercitata dalla radiazione totale solare sulle ‘piccole particelle’ globulari descritte da Schwarzschild, abbiamo ora a che fare con atomi e molecole sollecitate soltanto da quella particolare lunghezza d’onda che sono in grado di assorbire. Nell’assorbire questa radiazione che giunge dal Sole, ricevono una spinta diretta nella direzione opposta a quella del Sole, mentre, nel momento in cui riemettono la stessa radiazione, questa viene distribuita, in media, in ogni direzione e non ha, quindi alcun effetto sul moto. Nel 1935, Karl Wurm calcolò che, nel caso di molecole di CO+, questi impulsi ed emissioni sono forti e numerosi, il che spiega la rilevante intensità del CO+ nello spettro della coda e produce una grande forza repulsiva, 80 volte superiore a quella gravitazionale, in accordo con le velocità osservate.

È un fatto curioso che effetti talmente impressionanti derivino da questa semplice base meccanica: sciami di blocchi e pietre, non molto differenti dal materiale terrestre, giungendo vicino al Sole da spazi lontani attraverso le loro orbite allungate, sono in grado di produrre, mediante semplici processi fisici di recente scoperta, quei misteriosi fenomeni luminosi che generarono terrore e soggezione nelle generazioni antiche e generano sorpresa e meraviglia nelle generazioni odierne.

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CAPITOLO 39

STELLE PECULIARI Con l’avvento del diciannovesimo secolo l’attenzione in astronomia si spostò dal Sistema solare al mondo delle stelle fisse. Il suo dominio si allargò con un gran balzo e l’orizzonte si ampliò di milioni di volte. Nei secoli passati le stelle servivano solo come uno scenario fisso dietro i movimenti planetari che avvenivano in primo piano. Certamente, le loro posizioni erano state misurate con attenzione, ma principalmente per fornire una base per il moto dei pianeti e della Luna. Anche nella prima metà dell’Ottocento, l’attenta mappatura telescopica delle stelle era avvenuta per promuovere la scoperta di pianeti minori.

Ora, le stelle fisse divenivano sempre più lo scopo e l’oggetto primario della ricerca astronomica. Dopo il lavoro pionieristico di William Herschel, la nuova era doveva dedicarsi a studiare questo nuovo campo con più attenzione e maggiore accuratezza. Anche se si sapeva che le stelle erano dei soli come il nostro, ma più lontani, tuttavia, non erano del tutto simili. Naturalmente, erano gli oggetti più diversi ad attirare maggiormente l’attenzione, perché in quelli sarebbe stato possibile scoprire nuove cose: questi oggetti peculiari erano stelle doppie, stelle variabili e ammassi stellari.

Le stelle doppie, nella visione del mondo di quei tempi, erano così peculiari che all’inizio si dubitava potessero essere così numerose. La gente era abituata a un unico sole in un sistema. Inoltre, era convinta che un sole unico, che fornisse luce e calore ai pianeti abitabili circostanti, fosse il sistema di mondo più appropriato. Con quale scopo il Creatore o la Natura avevano creato due soli, spesso diversi e di colori differenti? Come si sarebbero potuti muovere i pianeti intorno a questi due centri di attrazione? Ma, anche se non si sarebbero mai potuti osservare, tuttavia, essi presentavano un interessante problema teorico, che venne

trattato più tardi da Ellis Strömgren, a Copenaghen. Il problema del moto delle due stelle componenti il sistema era di un’importanza ancora più diretta, in quanto che, anche se nessuno dubitava che la legge di Newton dell’attrazione gravitazionale si applicasse anche al remoto mondo delle stelle fisse, ciò poteva essere dimostrato proprio dalle osservazioni delle stelle doppie. Due corpi che si attraggono vicendevolmente devono descrivere delle ellissi (o, più in generale, delle sezioni coniche) intorno ai loro comuni centri di gravità e anche l’orbita di una stella relativamente all’altra descrive un’ellisse. Vista obliquamente, questa orbita (relativa) può anche apparire come un’ellisse, ma con una forma diversa e con una differente posizione del fuoco. Così il compito degli astronomi, attraverso accurate misure delle posizioni relative delle due componenti, era di derivare prima le loro orbite apparenti e poi le orbite reali.

Herschel aveva pubblicato elenchi di centinaia di stelle doppie e, nel 1803, trovò i moti relativi delle componenti per circa 50 di queste. Il suo lavoro pionieristico, comunque, non era sufficientemente accurato da consentire delle buone determinazioni delle orbite. L’astronomia delle stelle doppie divenne, così, il campo di applicazione primario per gli eccellenti livelli di precisione raggiunti dai raffinati strumenti del diciannovesimo secolo. Tutto ebbe inizio nel 1824 a Dorpat (ora Tartu), quando F.G. Wilhelm Struve (1792-1864), che nel 1819 aveva già effettuato delle misure di stelle doppie, dedicò al lavoro sulle stelle doppie il nuovo rifrattore da 9 pollici [c. 23cm], il più grande strumento di Fraunhofer. Per prima cosa, era necessario eseguire una rassegna sistematica nel nuovo settore di interesse e, di conseguenza, fu raccolto e pubblicata, nel 1827, un catalogo

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più completo di stelle doppie, contenente circa 3000 oggetti. Nei successivi 10 anni, vennero ripetutamente misurate, con il perfetto micrometro filare di Fraunhofer, le distanze e gli angoli di posizione per ognuna di esse. Gli alti livelli di accuratezza sono mostrati dall’uso, in tutti i dati, di due cifre decimali per i secondi d’arco. Numerosi ricercatori si applicarono o si sarebbero applicati in questo campo — John Herschel, South e Dawes in Inghilterra, Bessel e Mädler in Germania, Kaiser in Olanda — lavorando contemporaneamente a Struve o seguendo il suo esempio; in seguito, continuò il suo operato anche suo figlio, Otto Struve, che gli successe alla direzione del nuovo Osservatorio di Pulkovo. Adesso, dunque, i movimenti all’interno di ogni coppia potevano essere seguiti anno dopo anno, lungo parti dell’orbita sempre più grandi, e presto fu possibile derivare delle orbite complete per le binarie più veloci. Nel 1850, erano state calcolate circa 20 orbite; il più piccolo periodo di rivoluzione (per ζ Herculis) era di 31 anni lungo un’ellisse misurante appena 2,4”.

Questo tipo di lavoro si protrasse lungo tutto il secolo e con il trascorrere del tempo si aggiungessero sempre nuove conoscenze. Quasi tutti gli astronomi che potevano disporre di un buon micrometro bifilare consideravano un dovere il prendere parte a questo lavoro e alcuni fra loro — Dembowski a Napoli e Burnham a Chicago — dedicarono tutto il loro tempo all’osservazione delle stelle doppie. Questa partecipazione generale si dimostrò molto utile perché, prima di tutto, anche gli strumenti più piccoli nelle mani giuste davano risultati buoni quanto i grandi strumenti, e poi perché tutti i dati erano soggetti a errori personali sistematici di varia origine, che finivano per diminuire venendo mediati con le misure di molti osservatóri. Quale è, allora, il vantaggio di utilizzare dei grandi strumenti? Il loro maggiore potere risolutivo. Quelle stelle che in strumenti più piccoli appaiono singole o al massimo un po’ allungate, quando sono viste con maggiori aperture appaiono come due stelle ben separate che possono essere misurate e,

inoltre, anche compagne deboli sono rese visibili da grandi strumenti. La costruzione di telescopi sempre più grandi comportava nuove scoperte, specialmente nella separazione delle doppie strette. Dapprincipio, Otto Struve estese il catalogo del padre, mediante il rifrattore da 15 pollici di Pulkovo, in seguito fu soprattutto S.W. Burnham che, con un piccolo telescopio di Clark da 6 pollici [c. 15cm] e grazie alle sue capacità di osservazione, scoprì, nel 1873, nuove stelle doppie delle quali non si sospettava la natura binaria. Avendo poi a sua disposizione il 36 pollici [c. 92cm] del Lick e il 40 pollici [102cm] di Yerkes, aggiunse alla lista migliaia di nuovi oggetti, tutti attentamente misurati. Si trattava, soprattutto, di binarie molto strette separate da meno di un secondo d’arco e queste piccole distanze implicavano brevi periodi di rivoluzione. Il periodo più breve era quello di δ Equulei, con 5 anni e mezzo e con una distanza di 0,3”. Complessivamente, il 5% delle stelle prese in esame risultarono essere doppie.

I calcoli dovevano seguire le scoperte e le

misure e gli astronomi si trovarono di fronte al problema di calcolare orbite di stelle doppie, mentre, nello stesso tempo, erano

Fig. 32. Moto di rivoluzione della stella doppia α Centauri.

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alle prese con i calcoli di orbite di pianeti e comete. Naturalmente, la soluzione arrivò dalla stessa linea di ricerca. Un’ellisse è determinata da cinque punti e può essere calcolata dalle misure di cinque diverse posizioni relative. Dopo che Savary, nel 1828, aveva sviluppato e applicato un metodo di calcolo basato principalmente su approssimazioni successive, Encke, nel 1830, sviluppò un sistema di formule in qualche modo analogo a quello delle orbite planetarie. Nonostante venisse molto usato, tuttavia, col passar del tempo, si trovò che tale metodo era poco soddisfacente. I vari casi erano troppo diversi; un piccolo errore, per esempio di 0,1” su una distanza di 4”, distorce il moto apparente molto più di quanto faccia un errore di 3” sullo spostamento di 10˚ di una cometa. Così, il più veloce metodo grafico superò gradatamente, in particolare per le binarie più strette, il metodo algebrico, apparentemente più rigoroso. Ogni misura di distanza e angolo di posizione, graficata in coordinate polari, definiva un punto sul grafico e la totalità di questi punti forniva una chiara rappresentazione dell’orbita apparente: dopo di che veniva tracciata un’ellisse ad approssimare l’insieme dei punti osservati il meglio possibile. Infine, la costruzione o il calcolo dell’ellisse vera, di cui l’ellisse apparente rappresenta la proiezione, è un semplice problema geometrico. Il problema è diverso quando in un’orbita grande, percorsa lentamente, ogni piccola parte dell’arco disegnato è ben determinato dalla media di un grande numero di osservazioni. In tal caso, invece, vale la pena usare le formule algebriche esatte e calcolare gli elementi più probabili dell’orbita con il metodo dei minimi quadrati.

Tutto ciò risultò ancor più vero dopo l’applicazione della fotografia alle misure di stelle doppie, avvenuta a Potsdam ad opera di Enjar Hertzsprung. Effettuando numerose esposizioni successive sulla stessa lastra e misurandola attentamente, egli ottenne risultati che superavano, improvvisamente, le misure visuali di un intero decimale; l’incertezza su una lastra non era superiore a

0,01” e i risultati venivano dati con tre cifre decimali. Il metodo fu limitato a quelle binarie larghe nelle quali le immagini erano ben separate. Per eliminare gli errori causati dalle diverse luminosità delle componenti, veniva posto davanti all’obiettivo uno spesso reticolo, che produceva immagini di diffrazione più piccole su entrambi i lati dell’immagine centrale. Con questa avvertenza divenne possibile il calcolo esatto dell’orbita, anche quando erano stati descritti solo dei piccoli archi. Adesso, inoltre, si poteva decidere con certezza la presenza di irregolarità dovute a un terzo corpo perturbante. Le misure della famosa stella doppia 61 Cygni mostravano chiaramente delle deviazioni dovute all’attrazione di un corpo invisibile, che forse poteva essere considerato un grande pianeta, poiché la sua massa era circa 1/60 della massa del Sole. Così, il metodo fotografico aprì una nuova era nell’astronomia delle stelle doppie.

Un interessante episodio ebbe luogo

durante il lento progredire dell’astronomia delle stelle doppie, nel corso del diciannovesimo secolo, la scoperta delle ‘stelle scure’. Nel 1844, Bessel mostrò che sia la luminosa stella Sirio che anche Procione, per entrambe le quali era

Fig.33. Orbita della stella doppia 61 Cygni A sinistra: Ellisse calcolata dalle misure fatte fra il 1830 e il 1940. A destra: Parte dell’orbita fra il 1935 e il 1942, dalle misure fotografiche di K.A.A. Strand.

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disponibile un gran numero di buone osservazioni di posizione con strumenti meridiani, presentavano delle irregolarità nei loro moti. Già nel 1825 e nel 1833, Pond, a Greenwich, aveva sostenuto che questa fosse la situazione per un gran numero di stelle e si era convinto che dipendesse dalla loro mutua attrazione. Bessel, tuttavia, dimostrò come, tenuto conto delle grandi distanze, queste attrazioni dovessero essere impercettibili. Ma con Sirio il problema era diverso: l’irregolarità c’era davvero. Considerando varie possibilità, concluse che dovesse esistere nelle vicinanze di Sirio un corpo invisibile di grande massa il quale, con la sua attrazione, causava le irregolarità. Sarebbe potuto sembrare ironico il fatto che la più luminosa delle nostre stelle fosse soggetta all’influenza di un corpo scuro, invertendo la relazione ritenuta valida sino ad allora, come l’unico ordine naturale delle cose. In realtà, invece, si trattava di due corpi equivalenti, uno luminoso e uno scuro, che, per la loro mutua attrazione a distanze molto piccole, formavano un esempio peculiare di sistema binario. Il moto osservato di Sirio consisteva, dunque, nel suo moto orbitale intorno al centro comune del sistema. L’orbita derivata nel 1850 da C.A.F. Peters aveva un periodo di rivoluzione di 50 anni e un semiasse maggiore di 2,4”. Nel 1862, capitò che Alvan Clark, per testare la qualità del suo obiettivo di 18 pollici [c. 20cm], appena terminato, lo puntasse verso Sirio e riuscisse a percepire, vicino ad essa, una fievole luce, a mala pena osservabile immersa com’era nel bagliore della grande stella. Quando la scoperta fu resa nota e l’oggetto poté essere osservato anche con altri telescopi, le misure mostrarono che il nuovo oggetto si trovava rispetto a Sirio esattamente in direzione del centro dell’orbita e a una distanza due volte maggiore: era la stella scura di Bessel. E così, non era davvero scura, ma solo molto debole, una stella di ottava magnitudine, quasi 10.000 volte più debole di Sirio. E poi, sebbene fosse lontana il doppio di Sirio dal centro di attrazione, la sua massa era la metà della massa di Sirio. Quindi, anche se non si trattava di una stella ‘scura’ in senso stretto,

questa Sirio B, come venne chiamata, rimaneva un oggetto notevole, a causa di questa combinazione di grande massa e piccola luminosità; quanto notevole diverrà più chiaro solo in seguito. Sirio, da allora, è stata misurata come qualunque altra binaria. La compagna scura di Procione fu identificata nel 1895 da Schaeberle, con il telescopio da 36 pollici del Lick, con una stella ancora più debole, di tredicesima magnitudine.

Le binarie sono molto importanti in astronomia perché sono gli unici oggetti che mostrano gli effetti dell’attrazione, cosicché solo da esse possiamo avere informazioni sulle masse delle stelle. La formula dedotta da Newton come estensione della terza legge di Keplero — il rapporto tra il cubo dell’asse maggiore e il quadrato del periodo di rivoluzione è proporzionale alla massa totale — può essere applicata alle binarie non appena se ne conosca la parallasse. Questa, infatti, è necessaria per derivare l’asse maggiore in unità astronomiche dall’asse maggiore osservato in secondi d’arco. Per Sirio, il semiasse maggiore (7,5”, cioè 20 volte la parallasse 0,37”) è 20 unità astronomiche; dal periodo di 50 anni si trova una massa totale pari a 203 : 502 =3,2 volte la massa del Sole. Per questo, le binarie divennero gli oggetti preferiti nella ricerca di stelle interessanti per la misura di parallasse. Poiché per Sirio la distanza della stella principale dal centro di gravità si sapeva essere 1/3 della distanza fra le due componenti, ne derivava che le masse separate delle componenti erano rispettivamente 1/3 e 2/3 della massa totale. Lo stesso calcolo si poté eseguire anche per alcune altre binarie brillanti, quando un gran numero di osservazioni ebbero rivelato il moto della componente luminosa. Le masse così trovate non erano più di 10 volte più piccole o più grandi di una massa solare, anche se le loro luminosità potevano divergere di milioni di volte.

Un nuovo tipo di binarie venne scoperto grazie a osservazioni fotografiche di spettri. Nel 1889, Antonia C. Maury, all’Harvard Observatory, si accorse che, nello spettro di ζ Ursae Maioris, la riga K, l’unica riga

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sottile chiaramente visibile, talora appariva doppia, talora singola; questo accadeva con maggiore regolarità in β Aurigae, dove la riga appariva, in giorni successivi, alternativamente doppia o singola (Tavola 15b). ‘Doppia’ qui significa che la stella ha due differenti velocità radiali, cioè che è composta da due componenti i cui spettri si spostano regolarmente in direzioni opposte, poiché ruotano intorno al comune centro di gravità. Per β Aurigae il periodo è di quattro giorni. Queste ‘binarie spettroscopiche’ vennero scoperte in grandi quantità, andando a formare una classe particolare di binarie, in quanto possono essere rivelate solo quando hanno velocità orbitali molto grandi, di almeno decine e centinaia di chilometri al secondo, sempre che le loro orbite non siano troppo piccole, nel qual caso la loro duplicità non si può osservare neanche con i più grandi telescopi.

Contemporaneamente, intorno al 1890,

Vogel e Scheiner, a Potsdam, stavano fotografando spettri di stelle brillanti con un nuovo eccellente spettrografo, per determinarne le velocità radiali. Si accorsero che in alcune stelle, come Spica nella Vergine e Algol in Perseo, questa velocità periodicamente aumentava e diminuiva. Così anche queste stelle erano binarie spettroscopiche, pur se diverse dall’altro tipo, in quanto il secondo spettro era invisibile. Questo non significava che la stella compagna fosse una stella scura, ma solo che era tanto più debole che le sue righe

di assorbimento erano illeggibili. Le binarie spettroscopiche di questo tipo, con singole righe che si spostano periodicamente, sono molto più numerose di quelle con le righe sdoppiate. Negli anni successivi, Campbell ne scoprì un gran numero al Lick Observatory; il suo catalogo del 1924 ne elenca più di un migliaio. Egli stimò che un terzo di tutte le stelle appartenesse a questa categoria; sebbene le stelle singole come il nostro Sole rappresentino la maggioranza, comunque la molteplicità appare una condizione comune. In questi casi si potrebbero applicare con successo le deduzioni teoriche sulla divisione di corpi in rapida rotazione e sugli effetti della frizione mareale; tuttavia, le binarie larghe con periodi di centinaia di anni appaiono difficilmente spiegabili in questo contesto.

La stella Algol, β Persei (vedi Cap. 31),

era già famosa in astronomia da quando, nel 1782, Goodricke ne aveva scoperto le regolari variazioni in luminosità: dopo un periodo di 2 giorni e 22 ore, la sua luce diminuiva sempre per 4 ore fino a un minimo e poi aumentava nello stesso tempo al suo valore normale di luminosità costante. Algol apparteneva a quel piccolo numero di ‘stelle variabili’, cioè stelle variabili in luminosità, scoperte per caso e poi osservate con maggiore o minore regolarità. Un lavoro di osservazione regolare e ininterrotto su questi oggetti cominciò con F.W.A. Argelander (1799-1875). Egli introdusse il metodo di stimare in ‘intervalli’ o ‘gradini’ [stufen] le piccole differenze in luminosità, migliorando, così, il vecchio metodo di Herschel, mediante valori numerici invece di virgole e trattini. I suoi primi risultati furono pubblicati nel 1843 in uno articolo su β Lyrae e nel quarto di secolo successivo continuò a osservare le variabili conosciute e appena scoperte, determinandone i periodi e le curve di luce. Nel 1844, in un Appeal to Friends of Astronomy, egli indicava agli astronomi non professionisti una serie di importanti oggetti di ricerca che richiedevano solo piccoli strumenti o addirittura nessuno, e che gli astronomi nei

Tav. 15b. Lo sdoppiamento della riga K in β Aurigae (le righe larghe a sinistra e a destra sono la quinta e la sesta delle righe dell’idrogeno).

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loro osservatòri dovevano trascurare perché i loro grandi e costosi strumenti dovevano essere utilizzati per oggetti che presentassero maggiori difficili. Si trattava di luce crepuscolare, meteoriti, luce zodiacale, Via Lattea, luminosità e colore delle stelle e specialmente stelle variabili. Il suo appello e il suo esempio furono di stimolo a molti giovani e studenti, come Eduard Heis a Munster, Julius Schmidt, che ad Atene lavorò su tutti questi oggetti, e Eduard Schönfeld. Oltre a questi, un buon numero di astronomi non professionisti si occupò di stelle variabili, di cui si scoprivano sempre di più esemplari telescopici, grazie al miglioramento delle mappe stellari. Un catalogo, compilato da Chandler nel 1889, ne riportava già 225 voci. I differenti tipi conosciuti nel diciottesimo secolo passarono da alcune stelle brillanti rappresentative a un grande numero. Nel catalogo standard, pubblicato nel 1919 da Gustav Müller e Ernst Hartwig, c’erano 131 variabili del tipo di Algol, che, in realtà, sono stelle normali che si occultano di continuo l’un l’altra. Il tipo β Lyrae, che varia regolarmente soprattutto in piccoli periodi fra due massimi uguali e due minimi disuguali, comprendeva 22 stelle. Le stelle continuamente variabili di breve periodo, chiamate ‘Cefeidi’ da δ Cephei, erano 169. Ma la presenza più rilevante, con oltre 600 esemplari, era di stelle rosse fortemente variabili con periodi dell’ordine di un anno, chiamate ‘tipo Mira’, dopo che per prima era stata scoperta ‘la meravigliosa stella nella Balena’. Ancora, c’erano stelle rosse brillanti che oscillavano di poco, ma piuttosto irregolarmente, come α Herculis, già menzionata fra le stelle scoperte da William Herschel, e Betelgeuse, la cui variabilità venne scoperta da suo figlio, John Herschel, nel 1836.

La causa della variazione in luminosità nel caso di Algol era ovvio. La spiegazione di Goodricke di un occultazione da parte di una stella satellite scura rappresentava un’ipotesi plausibile. Questa ipotesi divenne certezza quando Vogel e Scheiner, nel 1889, scoprirono che la stella visibile Algol si allontana da noi prima del minimo e si avvicina dopo il minimo e, quindi, durante il

minimo di luce è nascosta dal compagno. Questa spiegazione vale per tutte le variabili del tipo Algol che, quindi, sono state chiamate “variabili a eclisse’. Sebbene appartengano alle stelle variabili, stando alla tecnica osservativa, tuttavia, per la loro natura, appartengono alle binarie spettroscopiche. La loro variazione non è fisicamente reale, ma è il risultato di una situazione geometrica che le rende di particolare rilevanza. Di tutte le stelle, escluso il nostro Sole, dobbiamo accontentarci di studiare la luce integrata. Noi le vediamo come punti — ingranditi dal telescopio in dischi spuri [disco di seeing] — e non come dischi reali, così che le diverse parti non possono essere distinte. Durante le eclissi stellari, comunque, un disco copre e scopre l’altro gradatamente e quindi queste sono le uniche stelle in cui le differenze fra parti separate del disco, come ad esempio il centro e il bordo, possono essere oggetti di studio. La diversità dei diametri relativi e della brillanza superficiale delle componenti, insieme alle condizioni dell’orbita, producono una grande varietà di forme delle curve di luce; viceversa, queste curve di luce permettono di derivarne le condizioni fisiche e geometriche. La variabile U Cephei, scoperta nel 1880 da Ceraski a Mosca, che al massimo della luminosità è di magnitudine 6,9, mostra una magnitudine minima di 9,2, che rimane costante per un paio d’ore; ne deriva che un piccolo disco copre o si nasconde dietro a un grande disco. La variabile Y Cygni, scoperta da Chandler nel 1886, presentava un’eclisse ogni giorno e mezzo, durante la quale diminuiva fino a metà della sua luminosità massima. Il periodo inizialmente sembrava essere irregolare, finché, nel 1891 a Uppsala, Dunér scoprì che l’intervallo era alternativamente più piccolo e più grande; le differenze, soprattutto, diminuivano gradatamente finché, una volta passato lo zero, aumentavano di nuovo. Egli poté spiegarle con due stelle esattamente equivalenti che si occultano alternativamente l’un l’altra in un periodo di tre giorni, lungo un’orbita ellittica, in cui l’asse maggiore ruota abbastanza rapidamente. Così, in

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questo caso, abbiamo una perturbazione in un sistema stellare, causata probabilmente da una deformazione dovuta alla mutua attrazione. Numerose variabili a eclisse mostrano due minimi di diversa profondità che si alternano, difficilmente percepibili in tutti i gradi intermedi fra un’esatta uguaglianza e un minimo secondario, se la seconda stella è debole.

Ma il compagno scuro di Algol è davvero scuro? Molti osservatóri provarono invano di individuare un minimo secondario, finché Stebbins, nel 1910, riuscì a scoprirlo grazie al suo fotometro al selenio. Il minimo era profondo solo 0,06 magnitudini, equivalente ad una perdita di luce del 6%∗. Apparve, quindi, chiaro, nello studio delle stelle di tipo Algol, come il metodo di stime a ‘gradini’ di Argelander non fosse sufficientemente preciso per trattare valori di luminosità adatti a essere confrontati con le teorie geometriche, ma si rendessero necessarie misure fotometriche. Alcune di queste erano state fatte, intorno al 1880, all’Osservatorio di Potsdam e ad Harvard, ma solo in un numero troppo piccolo. Fu Dugan che, al Princeton Observatory, nel 1905-1910, determinò fotograficamente delle curve di luce accurate per un gran numero di variabili a eclisse, con soli pochi punti percentuali di incertezza per ogni valore della luminosità. Questa precisione era ottenuta dalla media effettuata su ampie serie di osservazioni. Dal momento che questa fotometria si basava sull’accertare, a occhio, l’uguaglianza di immagini stellari, la sua precisione dipendeva dal limitato potere dell’occhio di rilevare differenze in luminosità; limite che è circa del 5%. Dei progressi fondamentali divennero possibili solo quando si sostituì un apparato fisico all’occhio umano. Il fotometro a selenio di Stebbins, in cui la luce produceva una variazione nella resistenza elettrica, costituiva il primo tentativo di questo tipo e fu premiato con la rilevazione del minimo secondario di Algol. ∗ Come sarà spiegato nel prossimo capitolo, 0,06 magnitudini rappresentano una diminuzione logaritmica di 0,4 x 0,06 = 0,024, che è il logaritmo di 1,059.

Per derivare gli elementi dell’eclisse —dimensioni relative e luminosità delle stelle e dimensioni, forma e inclinazione dell’orbita — dall’andamento della curva di luce si rendevano necessari calcoli molto laboriosi. Alcune formule furono ricavate nel 1880 da Pickering e nel 1895 da Myers, ma una soluzione efficace al problema fu presentata nel 1912 da Henry Norris Russell, di Princeton, nella forma di un pratico schema di calcolo basato su un certo numero di tabelle ausiliarie. Questo metodo venne utilizzato da Harlow Shapley, nel 1913, per un’accurata determinazione degli elementi geometrici per tutte le variabili a eclisse di cui Dugan aveva fornito dati sufficienti. Poiché anche la distribuzione di intensità sul disco era un elemento incognito, Shapley calcolò gli altri elementi in due casi limite: nel caso in cui la luminosità lungo l’intero disco fosse uniforme oppure nel caso in cui diminuisse regolarmente fino a raggiungere lo zero al bordo. Scoprì che, in entrambi i casi, tutti i punti della curva di luce potevano essere ugualmente ben rappresentati, il che voleva dire che il coefficiente di oscuramento al bordo (limb darkening) non poteva essere rivelato in questo modo; le curve di luce calcolate per entrambi i casi (ognuna con i propri elementi) coincidevano quasi del tutto e deviavano solo in pochi punti per alcuni centesimi di magnitudine. Per questo scopo, i dati fotometrici erano ancora troppo grossolani e servivano misure ancora più precise.

Fortunatamente, un metodo migliore era stato sviluppato solo pochi anni prima. Intorno al 1911, i fisici tedeschi Elster e Geitel avevano migliorato la cellula fotoelettrica, rendendola uno strumento estremamente sensibile in grado di misurare piccole intensità di luce. E così il nuovo strumento venne rapidamente applicato alle stelle da Guthnick e Prager, a Berlino, e da Rosenberg, a Tubinga, riuscendo a determinare la luminosità di una stella con una precisione dieci volte maggiore delle stime per confronto a occhio; le differenze in magnitudine, ora, potevano essere espresse con tre decimali, con errori del millesimo di magnitudine e non più del centesimo. Questa

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precisione, non necessaria per stelle normali, era, invece, importante per stelle variabili — i due astronomi berlinesi scoprirono piccole variabilità in stelle nelle quali fino ad allora non se ne era sospettata la presenza — ed era proprio quanto si cercava per le variabili a eclisse. Al Lick Observatory, Gerald Kron costruì uno strumento molto sensibile di questo tipo e, nel 1937-38, determinò la curva di luce della stella 21 Cassiopeiae del tipo Algol, con un errore probabile di non più di 0,002 magnitudini. Fu così in grado di ottenere i coefficienti di oscuramento al bordo, pari a 0,58 ± 0,04, il primo valore attendibile vicino a quello del Sole.

Le variabili a eclisse potevano essere utili anche in un altro modo. La durata dell’eclisse rispetto al periodo definisce le dimensioni delle stelle relativamente alle dimensioni dell’orbita. Il diametro, alla terza potenza, determina il volume; il raggio dell’orbita, alla terza potenza, determina la massa; così, insieme, tutte queste quantità determinano la densità media delle stelle, senza il bisogno di conoscere le parallassi o le reali dimensioni.

Un caso sensazionale fu la stella di terza magnitudine ε Aurigae. Sin dal 1843, Julius Schmidt aveva sospettato di questa stella. perché mostrava piccole variazioni irregolari. Argelander e Heis, nel 1847-48, la videro come una stella di quarta magnitudine, ma negli anni successivi mostrò solo qualche dubbia variabilità. Nel 1875, fu nuovamente osservata essere debole, ma solo per un breve periodo. Quando questo si ripeté, nel 1901, e contemporaneamente si trovò una velocità radiale variabile, Ludendorff, a Potsdam, capì che si trattava di una variabile a eclisse di dimensioni insolite: aveva un periodo di 27 anni, durante il quale la luminosità diminuiva per sette mesi, rimaneva costante per dieci mesi e poi aumentava in sette mesi, fino alla normale luminosità.

La diversità nel fenomeno delle variabili a eclisse è ancora più accentuata dalle variazioni, in alcune di esse, del massimo di luminosità fra le eclissi. Per prima cosa, perché, nel caso di piccole distanze, la stella più debole, fortemente illuminata dall’altra,

fa aumentare la luce totale da entrambe le parti del minimo secondario e, in secondo luogo, perché le stelle si allungano, per via della loro mutua attrazione, e così mostrano, durante la fase di eclisse, le loro superfici ingrandite. Queste stelle sono un elemento di transizione verso le stelle del tipo β Lyrae, le quali, in fase di continua variabilità, mostrano, durante ogni periodo, due massimi e due minimi equivalenti. O, per dirla in un altro modo, le β Lyrae sono esempi estremi di variabili a eclisse. Infine, variazioni periodiche di velocità radiale furono osservate da Lockyer, nel 1893, e da Belopolsky, all’Osservatorio di Pulkovo, nel 1892; le componenti, diverse in luminosità e spettro, ruotano con grande velocità (c. 155km) a così breve distanza l’una dall’altra che dovrebbero quasi toccarsi. Gli elementi di β Lyrae, considerata una stella doppia, vennero calcolati da Myers nel 1896 e da Stein nel 1907, ance se, con i suoi strani cambiamenti nello spettro, rimaneva uno dei rompicapi dell’astronomia.

Delle variazioni periodiche nella velocità radiale furono trovate anche in δ Cephei da Belopolsky, nel 1894, e si scoprì presto che erano una caratteristica di tutte queste variabili a corto periodo. Nel 1907, al Lick Observatory, Sebastian Albrecht fece notare come non solo la curva di luce e la curva di velocità coincidessero, quando si avvicinavano molto rapidamente al massimo della luminosità, ma anche i loro andamenti fossero simili nei più piccoli dettagli. Nessuno a quel tempo aveva dubbi sul fatto che queste Cefeidi fossero binarie spettroscopiche, tuttavia si presentavano alcune difficoltà. La forma irregolare delle curve di luce e di velocità — spesso un rapido aumento e una lenta, a volte interrotta, diminuzione — era difficile da spiegare, anche con una grande eccentricità. Che la temperatura al massimo della luminosità fosse anche più alta che al minimo era già stato dimostrato da Schwarzschild, nel 1899, attraverso misure fotografiche che mostravano una variazione in luminosità una volta e mezzo più grande di quella osservata visualmente, indicando un colore più blu al massimo che al minimo.

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Per spiegare il massimo si invocarono le maree prodotte dall’attrazione del compagno o un riscaldamento della parte frontale durante il moto rapido in un mezzo resistente. In questo caso, comunque, la resistenza avrebbe grandemente modificato il periodo, che, invece, era pressoché costante. La moderata velocità orbitale, combinata con un breve periodo, richiedeva, nel caso di una binaria, una massa molto piccola, meno di un centesimo della massa del Sole. Le grandi dimensioni della stella, ottenute da altri dati, implicavano che il centro di gravità fosse situato profondamente nel suo interno, così che nel suo moto sarebbe stato poco giustificabile distinguere una parte ‘frontale’.

Poi si avanzò la teoria delle pulsazioni; sebbene idee di questo tipo fossero già state espresse da altri, fu Shapley, nel 1914, che le espose e le difese in tutte le loro conseguenze. Gli avvicinamenti e allontanamenti alternati, misurati negli spettrogrammi, sarebbero gli effetti di una espansione e contrazione alternata della stella. Queste variazioni periodiche nelle dimensioni e nel volume sono variazioni adiabatiche, vale a dire che il calore necessario per le variazioni di volume o prodotto dalle variazioni di volume è, rispettivamente, fornito o assorbito dal gas stellare al diminuire (durante l’espansione) o all’aumentare (durante la contrazione) della temperatura. Rimane ancora qualche problema riguardo alle stelle che sembrano stentare a trovare il proprio equilibrio e si alternano in pulsazioni senza fine, fra troppo grandi e troppo piccole, troppo calde e troppo fredde. Questa spiegazione per stelle varabili a corto periodo fu presto accettata dal mondo astronomico, specialmente quando Eddington, nel 1918, sviluppò una teoria delle stelle pulsanti, basata sulle sue ricerche sulla costituzione delle stelle in generale. Ma anche in questa teoria rimanevano delle difficoltà non facilmente risolvibili, specialmente su perché le luminosità e le temperature osservate al massimo, si avessero, invece che al momento di minor volume, a esattamente un quarto di periodo più tardi, quando la stella

si stava già rapidamente espandendo. Per la loro importanza teorica, si avvertì la

necessità di una più accurata determinazione delle curve di luce delle Cefeidi. Durante tutto il diciannovesimo secolo, le curve di luce erano state ottenute da astronomi, professionisti e no, con il metodo delle stime a ‘gradini’ di Argelander, le quali, comunque, non potevano garantire una scala uniforme sull’intero intervallo della variazione. È chiaro che ora si rendevano necessarie delle misure fotometriche. Poiché in questi casi era sufficiente una precisione di 0,01 magnitudini e non era necessaria quella di 0,001, si poteva ricorrere alla fotometria visuale. Fu tentata anche la fotografia, quando si svilupparono metodi di fotometria fotografica, specialmente in connessione ai grandi progetti di realizzazione di mappe stellari, quale quello della Carte du ciel. Su un negativo fotografico di un campo di stelle, la dimensione dei punti neri varia con la luminosità delle stelle. Intorno al 1890, molti astronomi (Charlier, Scheiner e altri) svilupparono delle formule empiriche per derivare le magnitudini stellari dai diametri misurati sulle lastre. Sembrava che gli obiettivi di non eccellente qualità, con molta luce diffusa, cioè, intorno alle immagini stellari, dessero risultati migliori (a causa dei diametri più grandi) rispetto alle lastre prese con buoni obiettivi; ma i bordi indistinti dei dischi stellari, comunque, rendevano questa procedura approssimativa. Vi fu un importante passo avanti — o piuttosto una vera rivoluzione dei fondamenti della fotometria fotografica — quando Schwarzschild, nel 1899, durante gli studi già ricordati, introdusse l’uso delle immagini extra-focali. Ponendo la lastra a una certa distanza, davanti o dietro il piano focale, ottenne, per tutte le stelle, dischi di uguali dimensioni, ma di diverso annerimento, dovuto alla diversa densità di argento neutro depositato. Le differenze in annerimento potevano, così, essere distinte con maggior accuratezza delle differenze in diametro sulle lastre di piano focale. (Tavola 15a)

Una variabile Cefeide (η Aquilae) fu il primo oggetto a essere osservato con questo

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metodo e quello che gli dette origine; metodo che ha fornito delle verifiche molto importanti per questa classe di variabili. In queste prime ricerche, Schwarzschild dovette stimare l’annerimento utilizzando una scala artificiale di sua costruzione, che riportava dei dischi anneriti di confronto. La precisione fu aumentata quando, nello stesso anno, a Gottinga, Hartmann costruì il suo ‘microfotometro’ per la misura delle densità dell’argento, confrontando i differenti annerimenti delle immagini stellari extra-focali con l’annerimento variabile di un cuneo di vetro scuro. Per ridurre le densità misurate a magnitudini, Hertzsprung, nel 1910, risolse il problema di impressionare una scala direttamente su ogni lastra, esponendo le fotografie attraverso uno spesso reticolo posto davanti all’obiettivo. Apparivano, così, le immagini di diffrazione su entrambi i lati del disco stellare, dischi delle stesse dimensioni, ma più deboli, i cui rapporti di luminosità potevano essere calcolati con precisione. Ormai erano state gettate le basi per un’accurata fotometria fotografica delle stelle e molti osservatóri, da allora, hanno contribuito a ottenere le curve di luce delle Cefeidi in questo modo.

Le variabili rosse a grande periodo e grande ampiezza, il tipo Mira, rimanevano il campo appropriato per le stime a ‘gradini’ con il metodo di Argelander. Con un’ampiezza nella variabilità da 4 a 8 magnitudini o anche fino a 10 e con molte irregolarità nella variazione stessa di luce, errori di 0,1 magnitudini risultavano irrilevanti. Questo fu un campo fertile per astronomi non professionisti muniti di piccoli telescopi, anche se i più grandi

telescopi dei professionisti dovevano completare la regolare registrazione dei minimi più deboli, sotto la dodicesima magnitudine. Con l’aumentare del numero di oggetti, aumentò anche il numero di ricercatori in questo campo, che si organizzarono in particolari associazioni, per tenere d’occhio il comportamento delle stelle, giorno per giorno, grazie ad un lavoro coordinato. Anche nelle stelle di tipo Mira si trovò una velocità radiale variabile, ma in questo caso erano più importanti le variazioni spettrali, che presentavano molti enigmi.

Le più peculiari fra le stelle peculiari erano

le stelle nuove, le ‘novae’: altro che innocenti ed eterne fluttuazioni! Ciò che queste stelle mostravano erano catastrofi, allarmando l’umanità e preannunciando gravi problemi per il destino del mondo. Catastrofi stellari erano state presenti fin dalle origini dell’astronomia — se è vero che Ipparco fu portato a redigere il suo catalogo dopo la comparsa di una nuova stella — e luci fiammeggianti erano apparse anche all’epoca della rivoluzione astronomica, quando le novae del 1572 e del 1604 spinsero Tycho verso la ricerca astronomica, e ispirarono Keplero e Galileo. Poi questi fenomeni celesti erano diventati rari; durante tutto il diciottesimo secolo e la prima parte del diciannovesimo, non se ne menziona alcuna. È stato così per mancanza di attenzione? Certamente non erano avvenute tante apparizioni, quante nella seconda metà dell’Ottocento. Il secolo si aprì con una modesta nova di quinta magnitudine nell’Ofiuco, scoperta da Hind nel 1848. Tralasciamo qui la stella η Carinae nella grande nebulosa della Vela, in quanto appartenente a un tipo diverso: dapprima ritenuta di quarta magnitudine, fu osservata da John Herschel, nel 1838, come una stella di prima magnitudine; dopo una pausa, esplose ancora nel 1843 fino a divenire luminosa come Sirio e poi gradatamente sfumò fino alla sesta magnitudine.

Nel 1866, nella costellazione della Corona, apparve una nova di seconda magnitudine; nel 1876 un’altra di terza magnitudine nel

Tav. 15a. Parte di Orione in

una esposizione extra-focale.

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Cigno; una di quarta magnitudine apparve nell’Auriga, nel 1892, e una di prima magnitudine nel Perseo, nel 1901, e negli anni successivi ve ne furono diverse di magnitudine 5a, 4a o 3a e un’altra ancora nell’Aquila, di prima magnitudine, nel 1918.

Tutte mostravano lo stesso andamento: esplodevano improvvisamente, in un solo giorno, fino a una luminosità superiore anche più di diecimila volte la loro luminosità precedente, poi iniziavano a diminuire lentamente, talora con variazioni irregolari o periodiche, fino a quando non si spegnevano. La Nova Aurigae 1892 aveva fluttuato intorno alla quarta magnitudine per molte settimane prima della scoperta, come mostravano le lastre di Harvard prese prima dell’esplosione, il che suggerì a Seeliger la spiegazione (contraria all’opinione allora prevalente che si trattasse di una collisione fra due stelle) che la stella fosse scaldata dall’attrito durante il suo rapido passaggio attraverso una nebulosa di densità variabile. La Nova Persei del 1901, che a sei mesi dalla sua esplosione era ormai una debole stella, fu vista essere circondata da un debole anello nebuloso in lenta espansione, posto a 7” di distanza. Kapteyn e Seeliger lo spiegarono come se fosse il bagliore dell’esplosione che si diffondeva con la velocità della luce sulle masse nebulose circostanti. Fu, così, possibile ricavare per questo oggetto una distanza di circa 200 parsec.

Per essere indipendenti dalle eventuali scoperte o non-scoperte di astronomi non professionisti di vedetta, l’Harvard Observatory organizzò un servizio di sky patrol [sorveglianza del cielo] mediante una

camera a grande campo, che fotografasse continuamente l’intero cielo tutte le notti notte. Ogni oggetto nuovo poteva essere rintracciato immediatamente e di ogni nova appena scoperta si poteva ricostruire la storia precedente. In questo modo potevano essere registrate tutte le novae, molte delle quali, naturalmente, erano telescopiche per le loro grandissime luminosità. Sulla base di questi sviluppi, Bailey stimò che ogni anno apparissero circa dalle 10 alle 20 novae più luminose della nona magnitudine. Supponendo che fossero tutte racchiuse in una distanza di 10.000 parsec e che entro questa distanza vi fossero 10.000 milioni di stelle, si trovò che, in media, ogni stella aveva la possibilità di diventare una nova in un migliaio di milioni di anni, certamente meno della durata probabile della sua vita. La possibilità che ogni stella — compreso il nostro Sole—potesse essere soggetta, una volta o più durante la propria esistenza, a una impetuosa fiammata devastante fornì una nuova inquietante visione del futuro del nostro piccolo mondo. Tuttavia, sarebbe potuto essere possibile che le condizioni di instabilità per l’esplosione di una nova fossero presenti solo in stelle speciali; si conoscevano, infatti, casi di esplosioni ripetute in una stessa stella. Nella sua teoria generale della struttura stellare del 1928, Milne presentò anche una teoria delle stelle che collassano, secondo la quale sarebbero state le instabilità più interne a provocare la catastrofe. Era chiaro, comunque, che solo una profonda conoscenza dei processi che avvengono negli interni stellari avrebbe potuto fornire delle spiegazioni sulle origini delle esplosioni di novae.

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CAPITOLO 40

STELLE COMUNI Le comuni stelle differiscono fra loro per la luminosità apparente e a questo, oltre che ai diversi colori, è dovuto il pittoresco aspetto del cielo stellato. Tolomeo aveva già espresso le differenze in luminosità formando 6 classi di grandezza luminosa, dalla prima alla sesta magnitudine, con l’ultima al limite della visibilità. Dal numero di stelle in ogni classe — 15, 45, 208, 474, 217 e 49 — appare come le due classi più deboli siano molto incomplete. L’uso del termine ‘magnitudine’ [dal latino magnitudo = grandezza] per indicare la luminosità non sta a significare semplicemente che, quando una stella è luminosa, sia automaticamente una stella grande, anche se include l’assunzione che stelle luminose abbiano dimensioni maggiori di stelle deboli. Tycho Brahe assunse che le dimensioni di una stella di prima magnitudine fossero di 2’, di una di terza magnitudine 1’. Poiché l’occhio distingue facilmente differenze in luminosità più piccole di una magnitudine, Tolomeo aggiunse ad alcune stelle la designazione di ‘più piccole’ o ‘più grandi’.

Nei due secoli nei quali l’astronomia venne rivoluzionata, i problemi di posizione e di moto assorbirono così tante energie che poca attenzione venne destinata alla luminosità delle stelle. Nelle antiche mappe celesti, le figure delle costellazioni, di esseri umani o di animali che fossero, erano preminenti rispetto alle stesse stelle, spesso rappresentate con dimensioni irrilevanti. Il passaggio a una cartografia celeste più razionale passò attraverso il lavoro di Argelander. Spostatosi a Bonn nel 1837, durante gli anni nei quali l’osservatorio era in costruzione, e quindi era senza strumenti, realizzò un atlante nel quale si proponeva di rappresentare tutte le stelle visibili a occhio nudo con la loro vera magnitudine, stabilita mediante attenti confronti fra le varie stelle. In questo atlante, pubblicato nel 1843 e

chiamato Uranometria Nova (Tavole 16a, b), quasi un sostituto moderno della Uranometria di Bayer, le frequenze delle stelle nelle varie classi per ogni magnitudine, dalla prima alla sesta, erano 14, 51, 153, 325, 810, 1871, per un totale, comprese variabili e nebulose, di 3256 oggetti. L’aumento regolare nel numero di stelle rivela le incompletezze presenti nei lavori precedenti riguardo alle stelle deboli. Nel catalogo allegato alle mappe venivano indicate anche le stelle più brillanti e più deboli di ogni classe, alla maniera di Tolomeo, designando le sottoclassi, per esempio della terza magnitudine, con 3; 2,3 e 3,4.

Tav. 16. La costellazione di Orione secondo l’Uranometria di Bayer (sopra) e l’Uranometria Nova di Argelander (sotto).

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L’esempio di Argelander venne seguito da Eduard Heis, a Munster, che, per merito della sua vista acuta, era capace di distinguere stelle ancora più deboli, che indicò con 6,7. Il suo Atlas coelestis novus, del 1872, conteneva 5421 stelle, molte più di quello di Argelander. Poiché entrambi gli astronomi vivevano in Germania, la parte meridionale del cielo, sotto i 40º di declinazione, rimaneva esclusa dal loro lavoro. Questo vuoto fu riempito solo quando l’astronomo americano Benjamin A. Gould (1824-96), espulso dall’osservatorio di Albany a causa di una lite con il ‘Board of visitors’ [Comitato dei visitatori], fu invitato a Cordoba in Argentina per organizzare un osservatorio. L’estrema limpidezza del cielo permise a Gould e ai suoi assistenti di aggiungere la settima magnitudine all’atlante e catalogo Uranometria Argentina, apparso nel 1879. La precisione poté essere aumentata grazie ad accurati confronti fra le stelle e le loro luminosità, con l’aggiunta di un decimale, vennero espresse in decimi di magnitudine.

Ma questa maggiore precisione non era una novità. I ‘gradini’ usati da Argelander per le stelle variabili corrispondevano a circa 0,1 magnitudini. I segni (virgole, punti e trattini) utilizzati da William Herschel nelle sue sequenze di stelle indicavano anche piccole frazioni di magnitudine, ma le sue osservazioni, sebbene pubblicate, non erano state ridotte. John Herschel, continuando il lavoro del padre durante la sua permanenza al Capo di Buona Speranza (1834-37), definì delle sequenze di stelle brillanti dell’emisfero meridionale e in questo modo poté esprimere le loro magnitudini con l’aggiunta di due decimali.

È importante sottolineare come l’aggiunta di decimali cambiasse profondamente il carattere della ‘magnitudine’. Da una qualità, una classe, un numero ordinale, una base per le statistiche, era diventata una quantità, una misura, un numero che si può dividere in frazioni, una base per i calcoli. Noi non possiamo parlare correttamente di una stella di 2,78 magnitudini, ma possiamo dire che la sua magnitudine è 2,78.

Qual è la differenza in luminosità espressa

da 1 magnitudine? L’opinione di William Herschel — accettata anche dal figlio — è già stata esposta nel capitolo 31; entrambi ritenevano che se una stella di prima magnitudine fosse stata posta a due, tre o sette volte la sua distanza, sarebbe apparsa come una stella di seconda o terza o settima magnitudine; vale a dire che la sua luminosità si sarebbe potuta rappresentare come 1/22 = 1/4, 1/32 = 1/9, 1/72 = 1/49. Allo stesso tempo, ritenevano che la luce emessa da una stella di prima magnitudine fosse 100 volte quella emessa da una stella di sesta magnitudine. Nel 1835, Steinheil espresse l’opinione che le magnitudini delle stelle non indicassero differenze, ma rapporti fra intensità luminose e derivò un rapporto di 2,83 per una differenza di 1 magnitudine. Questo era in accordo con quanto successivamente venne formulato da Th. Fechner, nel 1869, sotto il nome di ‘Legge psicofisica’ [ndr: seguendo un’idea dei primi del secolo di Ernst Weber]: quello che l’occhio rileva come uguale differenza in luminosità non è una differenza costante, bensì una percentuale costante di quantità di luce. Fechner era giunto a questa conclusione osservando che in una nube le differenze fra le zone bianche e quelle grigie rimangono ugualmente distinte, anche se osservate attraverso un vetro scuro. In modo più generale, egli avrebbe potuto esprimere questa legge dicendo che “l’impressione psichica va come il logaritmo dell’azione fisica”. La legge di Fechner implica che fra successive magnitudini c’è un rapporto costante che va ricavato da misure fotometriche∗.

Abbiamo già menzionato le misure di stelle eseguite nel 1836 da John Herschel al Capo di Buona Speranza. Confrontando queste stelle, nel suo ‘astrometro’, con un immagine puntiforme della Luna, la cui luce ∗ Ndr: è come dire che “un incremento percentuale dello stimolo determina un incremento lineare della sensazione”. Ciò che avviene è che la luce della stella crea sulla retina uno stimolo che produce una sensazione, l’immagine della stella. La magnitudine, quindi, che noi attribuiamo ad una stella e che dipende dalla sensazione che proviamo è funzione dello stimolo ricevuto, cioè della quantità di luminosità pervenutaci dalla stella stessa.

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rende invisibili le stelle deboli, restrinse le osservazioni a 65 stelle brillanti, soprattutto dell’emisfero australe. Circa nello stesso tempo Steinheil aveva costruito un fotometro, mediante il quale immagini extra-focali di diverse dimensioni di due stelle potevano essere rese uguali in brillanza variando le dimensioni dei dischi. Poiché l’uguaglianza di brillanza superficiale si può giudicare con molta precisione, specie osservando la scomparsa dei contorni del bordo, queste misure erano molto precise. Il fotometro di Steinheil venne utilizzato da Seidel, nel 1852-60, per misurare 208 stelle brillanti con risultati decisamente molto accurati. Poiché tali dischi stellari per stelle meno luminose della terza magnitudine sono troppo deboli per poter essere misurati, questo strumento non poteva essere paragonato, dato il gran numero di stelle più deboli, con i fotometri che misuravano le stelle puntiformi, come il fotometro di Zöllner.

Durante queste prime ricerche era evidente che le stelle che venivano dette ‘di prima magnitudine’, in quanto sorpassavano un certo limite, differivano troppo tra di loro per formare una classe completa; ognuno può notare che Procione supera Regolo di un intera magnitudine e che Sirio supera Regolo di molto di più. Nel considerarle tutte insieme, Steinheil aveva trovato rapporti troppo grandi. Fra le classi di magnitudine meno luminose, furono trovati rapporti più piccoli, fra 2,2 e 2,5. Assumendo l’ultimo valore, una differenza di 5 magnitudini dovrebbe corrispondere a un rapporto di (2½)5 = 3125/32, cioè quasi 100. Nel 1850 a Oxford, Pogson propose che questo valore venisse adottato per definizione come quello corretto; ciò significava che si sarebbero dovute usare le magnitudini artificiali ottenute da intensità luminose misurate. Se 5 magnitudini corrispondono a un rapporto in intensità di 100, con logaritmo 2,0, allora una magnitudine corrisponde a una differenza in logaritmo di esattamente 0,40, cioè un rapporto di luminosità pari a 2,512. Questa definizione divenne di uso comune, cosicché, da allora in poi, i risultati delle misure fotometriche furono espressi

mediante queste magnitudini artificiali. La magnitudine definita in questo modo è 2,5 volte il logaritmo negativo dell’intensità, negativo perché le stelle più luminose hanno valori di magnitudine più bassi. Poiché per le stelle dalla seconda alla quinta magnitudine questi numeri corrispondono quasi alle magnitudini tradizionali, le stelle più luminose di prima magnitudine finiscono per avere valori negativi: Aldebaran, 1,0; Procione, 0,5; Vega, 0,1; Canopo, -1,0; Sirio, -1,4. E proseguendo la scala anche fra i pianeti più luminosi, abbiamo Giove che al suo massimo è circa -2,5 e Venere -5. Non ci sono ragioni per escludere il Sole e la Luna da questo semplice metodo di esprimere la luminosità: la Luna piena ha una magnitudine di -11 e il Sole ha una magnitudine stellare di -26,7.

Nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo vennero intraprese due ampie ricerche per determinare la luminosità delle stelle, entrambe sino alla magnitudine 7,5: una all’Astrophysikalisches Observatorium di Potsdam, l’altra all’Harvard College Observatory a Cambridge, Mass. A Potsdam le misure vennero condotte da Gustav Müller e Paul Kempf, negli anni 1885-1905, mediante dei fotometri di Zöllner di differente potenza, con il rigore, sia nella progettazione che nella realizzazione, tipico delle migliori tradizioni tedesche; l’errore medio della magnitudini ottenute, basate solitamente su due misure, era di solo 0,07 magnitudini. All’osservatorio di Harvard il direttore, Edward C. Pickering (1846-1919), inventò un meridian photometer (fotometro meridiano), nel quale, mediante un prisma di Nicols di calcite birifrangente, ogni stella, durante il suo passaggio in meridiano, veniva comparata a una delle stelle intorno al polo. Le misure erano eseguite dallo stesso Pickering che poteva vantarsi di più di un milione di misure fotometriche; aveva iniziato nel 1879 con le stelle più luminose e un po’ alla volta aveva esteso le misure anche alle stelle più deboli. Il suo lavoro, svolto con meno attenzione, con più errori e con tecniche di riduzione grossolane, mostrava un errore medio maggiore (0,10 - 0,15) dei risultati di Potsdam, ma il catalogo

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di Potsdam comprendeva solo l’emisfero boreale, mentre Pickering, che dava maggiore peso alla completezza rispetto alla precisione, aveva esteso il suo studio a tutto il cielo. Infatti, ogni qualvolta una parte del programma veniva terminata a Cambridge, un osservatore con lo stesso strumento o con uno identico era mandato nell’emisfero sud, a Arequipa sulle Ande Peruviane, un sito dall’ottimo clima. Fu proprio per la loro completezza che studi successivi utilizzarono i cataloghi di Cambridge e non i risultati, per quanto più precisi, di Potsdam.

Per ragioni di completezza si deve citare il catalogo di Oxford delle magnitudini delle stelle visibili a occhio nudo (1885), misurate da Pritchard con il wedge photometer (fotometro a cuneo), anche se si tratta di un catalogo inferiore agli altri in accuratezza e in estensione. La luminosità era fornita dallo spessore del vetro annerito [da cui il termine di cuneo ottico] necessario per estinguere la luce della stella. Più importante fu la determinazione della luminosità fotografica delle stelle — detta, quindi, non fotometrica bensì ‘attinometrica’ — realizzata nel 1904-08 da K. Schwarzschild a Gottinga, dove aveva continuato il suo precedente lavoro viennese con immagini stellari extra-focali. Si trattava ancora di misurare densità superficiali di argento neutro depositato e per ottenere con precisione superfici uguali per tutte le stelle, egli costruì una Schraffier-Kassette (porta-lastre reticolato) che distribuisse la luce di ogni stella su un piccolo quadrato. Come ogni lavoro curato da Schwarzschild, anche questo era un modello di accurata ingegnosità e superava tutti i cataloghi visuali per la sua maggiore accuratezza, risultando l’errore medio di appena 0,02-0,04 magnitudini. Tuttavia, ne venne completata solo la prima parte, che comprendeva 3500 stelle fino alla magnitudine 7,5, fra 0˚ e 20˚ di declinazione: questo lavoro poteva essere di modello, ma difficilmente lo si sarebbe potuto utilizzare per ricerche di carattere generale.

Quello che misuriamo in questo modo, cioè la luminosità di una stella, per noi è una caratteristica della stella, ma non per la stella

stessa, per la quale, infatti, si tratta solo della luminosità apparente, la quale determina l’aspetto della volta celeste che, come sappiamo dalla lunga esperienza del genere umano, non è cambiata attraverso i secoli, ma che abbiamo in comune con i nostri barbari antenati e con i nostri classici predecessori. Ma un astronomo moderno sa che le stelle, legate in apparenza a formare quelle costellazioni un tempo venerate, come Orione o Cassiopea, non appartengono realmente a quelle, ma potrebbero trovarsi anche a considerevole distanza una dall’altra. Questo era così evidente che si ebbe una certa sorpresa quando Proctor, nel 1869, e definitivamente Klinkerfues, a Gottinga nel 1878, conclusero che, delle 7 stelle dell’Orsa Maggiore che formano il Carro, solo le 5 nel mezzo sono legate e, come un branco di pesci o una fila di carri su un campo, corrono le une dietro le altre nella direzione dell’Aquila. Una seconda sorpresa fu la scoperta di Hertzsprung, nel 1909, che Sirio tiene il loro stesso passo come un compagno di viaggio e che altre stelle, come si trovò in seguito, si comportano nello stesso modo.

Le magnitudini apparenti, che ci mostrano tutte le stelle più luminose come appartenere a un’unica classe, dipendono grandemente dalle distanze; dalle parallassi si trovò che, per esempio, Sirio, Vega e α Centauri devono la loro luminosità alla loro vicinanza; mentre Canopo, Rigel e Betelgeuse alla loro enorme luminosità reale che le accomuna in una classe speciale di stelle. Non appena gli astronomi ebbero le magnitudini fotometriche e le parallassi stellari a propria disposizione, poterono dedicarsi a calcolare la ‘vera’ luminosità. Questa si esprime attraverso la ‘magnitudine assoluta’, cioè la magnitudine che avrebbe una stella se fosse posta a una distanza fissa definita. Nonostante Kapteyn e altri avessero proposto, secondo la logica, di definire pari a 1 parsec questa distanza fissa, l’uso pratico portò ad adottare 10 parsec, con una parallasse standard di 0,1”. Quindi la magnitudine assoluta (M) si può trovare dalla magnitudine apparente (m) aggiungendo 5 per il logaritmo di 10 volte la

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parallasse [M = m + 5 log(10 p)] Quindi per Sirio (m = -1,4, p = 0,37”), si trova M = 1,4; per α Centauri (m = 0,1, p = 0,76”) si ha M = 4,5; per Rigel (m = 0,3, p = 0,01” al massimo) si ha M = -4,7 (o più luminosa), il che vuol dire 6 magnitudini più brillante di Sirio. Passando alle stelle deboli, troviamo per la stella di Bessel, il sistema binario 61 Cygni (m = 5,6 e 6,3, p = 0,30”), M = 8,0 e 8,7 e per la stella di Barnard (m = 9.7, p = 0,54”) M = 13,3, di nuovo 100 volte più debole. I valori estremi di magnitudine assoluta differivano di 18-20 volte, l’equivalente di un rapporto di 16 o 100 milioni di volte in luminosità. Considerando anche il Sole, con la sua magnitudine assoluta di 4,8, ci si accorse che si trovava a metà fra le stelle 10.000 volte più luminose e quelle 10.000 volte più deboli. Jeans le adottò per loro gli efficaci soprannomi di stelle ‘fari’ e stelle ‘lucciole’.

Mentre le differenze in luminosità delle stelle non possono essere viste, ma solo calcolate, le differenze in colore possono essere osservate direttamente ed erano conosciute fin dai tempi di Tolomeo. Struve era molto colpito dai forti e contrastanti colori – in parte soggettivi- nelle stelle doppie, che lui descriveva come rosse, blu o verdi. Zöllner aveva costruito il suo fotometro perché potesse servire contemporaneamente anche come colorimetro, con il semplice inserimento di una lastra di quarzo nel fascio di luce polarizzata della stella artificiale. I colori prodotti dalla rotazione della lastra di quarzo, tuttavia, erano totalmente differenti dai reali colori stellari, i quali formavano una serie monodimensionale dal rosso, attraverso l’arancione e il giallo, fino al bianco e al celeste; mentre le ombre verdi, che apparivano per contrasto, non erano reali. Questi sono proprio i colori che un corpo incandescente assume man mano che viene portato a temperature maggiori e le differenze di colore sono state considerate, da sempre, indici di differenze di temperature. Quando nubi o atmosfere assorbenti causano arrossamento, i colori rimangono all’interno della stessa serie.

Questo fu riconosciuto chiaramente da

Julius F.J. Schmidt, che studiò i colori delle stelle e li espresse — come aveva fatto anche Herman J. Klein — con un numero, stimato su una scala sulla quale 0 rappresentava il bianco, 4 il giallo, e da 6 a 10 sfumature di rosso di sempre maggiore profondità (o saturazione). Le sue stime di colore, comunque, comprendevano solo un limitato numero di stelle luminose, in quanto, a quel tempo, non vi era un grande interesse verso i colori delle stelle. Durante le loro misure fotometriche anche gli astronomi di Potsdam avevano stimato i colori, ma non li avevano espressi con un numero, bensì con delle lettere che indicavano i nomi: bianco (weiβ�), giallo (gelb), rosso (rot): W, GW, WG, G, RG, GR, R, scala che poi fu rifinita aggiungendo + o -. Le lettere per indicare giallo, arancione, e tonalità di rosso (W, Y, OY, O, OR, R) furono usate anche nel 1884 da Franks, che non limitò le sue stime di colore a una serie monodimensionale, ma utilizzò uno schema a due parametri, aggiungendo un numero per indicare il grado di saturazione. Un importante contributo alla conoscenza dei colori delle stelle fu data da H. Osthoff, un dilettante di Colonia, che negli anni 1883-99 stimò i colori di un migliaio di stelle sulla scala di Schmidt. Grazie a un’attenta tecnica raggiunse una tale precisione che i suoi risultati avevano un errore medio di solo 0,2 unità. Un lavoro altrettanto esteso nelle stime di colore, soprattutto di stelle rosse, fu condotto da Fr. Früger. Più tardi, K. Graff costruì un colorimetro nel quale un cuneo di vetro rosso dava a una stella artificiale tutti i colori dal bianco al rosso e l’uguaglianza dei colori doveva, ovviamente, essere stimata a occhio.

I progressi nella scienza consistono, generalmente, nel sostituire alle stime di una certa quantità le misure della quantità stessa. Così, dalle stime di colore, si passò a una determinazione dei ‘colori equivalenti’, che sono quantità direttamente legate ai colori. Quando si poterono misurare accuratamente le magnitudini fotografiche delle stelle, la differenza fra magnitudini visuali e fotografiche — da 0 per le stelle bianche, fino a 2 magnitudini e oltre per le stelle

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rosse — poté essere usata come un ‘indice di colore’. Un altro colore equivalente, introdotto da G. Comstock, fu la ‘lunghezza d’onda efficace’, cioè la media pesata delle lunghezze d’onda in gioco per produrre l’immagine fotografica. Comstock la determinava inserendo uno spesso reticolo davanti all’obiettivo e quindi misurando la distanza fra il breve spettro e l’immagine centrale della stella; in questo modo per le stelle bianche e rosse trovò rispettivamente 4100Åe 4400Å. Tutte queste differenti indicazioni di colore sono espressioni dello stesso fenomeno di base: la distribuzione dell’intensità sullo spettro che, in accordo con la formula di Planck, con l’aumentare della temperatura mostra un incremento preponderante nella zona a lunghezze d’onda più corte.

Gli stessi spettri svelano le diversità nella

natura delle stelle, la cui reale conoscenza è iniziata per noi con la scoperta dell’analisi spettrale. La nostra scienza, che si occupa di questi corpi luminosi che riempiono con la loro luce l’universo, è nata da quasi un secolo di studi degli spettri stellari. Fraunhofer si accorse nel 1817, descrivendolo poi in dettaglio nel 1823, che le righe scure presenti nello spettro di Castore e di Sirio apparivano chiaramente diverse da quelle presenti nello spettro solare. Purtroppo, all’epoca era troppo occupato con il suo lavoro da ottico per dedicare attenzione a queste cose e morì troppo presto per tornarci sopra. Dopo che Kirchoff ebbe posto le basi dell’analisi spettrale e mostrato il significato delle righe scure, si iniziarono a collegare degli spettroscopi ai telescopi per produrre spettri stellari sufficientemente luminosi da permetterne lo studio. Oltre a Rutherford in America e a Donati in Italia∗, ci furono ∗ Ndr: nel 1860, a Firenze, G.B. Donati, applicando ad una grande lente secentesca da 45cm un sistema di più prismi di vetro crown e flint che scomponevano la luce senza deviarla, realizzato da G. Amici, aveva ottenuto gli spettri di 15 stelle, pubblicandoli in quello che è considerato il primo lavoro di spettroscopia stellare, anche se l’interesse dell’astronomo fiorentino era dichiaratamente rivolto allo studio della rifrazione e di nuove tecniche di

William Huggins, nel suo osservatorio privato a Tulse Hill in Inghilterra, e padre Angelo Secchi S.J., alla Specola Vaticana a Roma, che più di tutti coltivarono questo nuovo campo. Huggins studiò gli spettri di numerose stelle brillanti, identificò le righe scure del sodio, del ferro, del calcio, e del magnesio e, nel 1863, affermò che erano sempre gli stessi elementi a essere presenti nelle stelle, nel Sole e nella Terra. Se prima l’idea che tutto l’universo fosse costituito dagli stessi elementi era solo un’ipotesi, ora veniva dimostrata con certezza.

Secchi, fra il 1863 e il 1868, esaminò gli spettri di oltre 4000 stelle e scoprì che si potevano classificare in quattro tipi con poche forme intermedie o extra (Tavola 17b).

Quelle del primo tipo, più della metà di tutte le stelle visibili, tutte bianche o bluastre, mostravano quattro forti righe di assorbimento, una nel rosso, una nel verde, due nel blu-violetto, tutte dovute all’idrogeno, e inoltre alcune altre righe molto deboli. Il secondo tipo era costituito da stelle gialle (Capella, Arturo, Aldebaran) che mostravano uno spettro simile a quello solare: numerose righe sottili identiche a quelle solari, ma un po’ più forti nelle ultime nominate. Quelle del terzo tipo, stelle rosse

osservazione spettroscopica, più che all’indagine fisica delle sorgenti che avevano prodotto quelle distribuzioni spettrali della radiazione. Vedi DONATI G.B.: “Intorno alle strie degli spettri stellari”, Annali del R. Museo di Fisica e Storia Naturale di Firenze per il 1865, nuova serie, vol. I, 1866, pp. 1-20.

Tav. 17b. Tipi di spettri stellari secondo A. Secchi. Tipo II, Sole e Polluce; Tipo I, Sirio e Vega; Tipo III, a Her, β Peg; Tipo IV, 152 Schjellerup.

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(Betelgeuse, Antares, α Her, Mira), mostravano inoltre bande scure decisamente tagliate nella parte violetta e che sfumavano gradatamente verso il rosso13. La sua accuratezza nelle osservazioni è dimostrata dalla scoperta, nel 1868, di un quarto tipo di stelle, deboli e rosso intenso, che mostravano bande diverse che sfumavano verso il violetto e che corrispondevano in lunghezza d’onda alle bande di emissione delle scariche elettriche negli idrocarburi. Si accorse anche di alcune eccezioni, come γ Cas, e la stella variabile β Lyr, che mostravano righe di emissione brillanti, e studiò anche la nova apparsa nel 1866 nella Corona.

Nel 1864, Huggins puntò lo spettroscopio verso la nebulosa planetaria nel Drago e scoprì che il suo spettro consisteva di una sola riga luminosa e di due più deboli righe di emissione nel verde: una di queste era la riga verde dell’idrogeno (Hβ) e le altre due si credettero dovute all’azoto. Lo stesso spettro si riscontrava nella grande nebulosa di Orione. Tutto questo rispondeva all’interrogativo di Herschel, se potessero esserci delle nebulose che non consistessero di numerose stelle, bensì di un ‘fluido luminoso’. Ebbene, queste nebulose ci sono: lo spettro le mostra come un gas sottile, brillante o luminoso. La causa di questa luminosità non potevano essere indicata con certezza; delle scariche elettriche in un tubo contenente gas rarefatto potrebbero essere un esempio di cosa si intendeva con il termine “luminescenza”. Queste nebulose gassose erano poche e la maggior parte di quelle non risolte — fra le quali la grande nebulosa di Andromeda — mostrava uno spettro continuo, facendo pensare che si trattasse di un ammasso di piccole stelle densamente ammassate.

Huggins fu anche il primo a determinare la velocità radiale di una stella, in accordo con il principio di Doppler, dalla disposizione delle sue righe spettrali (vedi la Tavola 15c, nel Capitolo 38); il suo esempio fu presto seguito all’osservatorio di Greenwich. Le 13 Nelle sue pubblicazioni Secchi rappresentava gli spettri con i loro colori reali, cosa che non appare nelle nostre riproduzioni.

misure, tuttavia, erano così difficili che i dati soffrivano spesso di incertezze dell’ordine di decine di chilometri. Un miglioramento sostanziale si ebbe quando, nel 1887, Vogel e Scheiner, all’osservatorio di Potsdam, costruirono uno spettrografo predisposto contro eventuali flessioni e variazioni di temperatura. In questo modo i dati godevano di una precisione tale che si poteva ricavare la velocità orbitale della Terra dalla variazione periodica nella misura della velocità radiale delle stelle. Si dimostrò, così, la validità del principio di Doppler —messa in dubbio da qualche fisico — e, se ce ne fosse stato ancora bisogno, anche il moto annuo della Terra.

I quattro tipi spettrali di Secchi rimasero in uso come la principale classificazione. Vogel chiamò queste classi I, II, IIIa e IIIb e le considerò come fasi di uno sviluppo naturale; le stelle della classe I, raffreddandosi, divenivano stelle di classe II e, sempre raffreddandosi, quelle di classe II divenivano di classe IIIa o IIIb. La suddivisione nella sottoclasse Ib, per stelle bianche con righe sottili, così come nelle Ic e Ib, guastava la regolarità. Per di più, venne posto il problema se fosse lecito identificare una classificazione formale con una teoria evolutiva. Su questo punto prese l’avvio, a Potsdam, una classificazione di tutte le stelle più luminose della settima magnitudine. Ma, una volta completata la regione di cielo fra 0˚ e 20˚ di declinazione, il lavoro non andò avanti, in quanto che, nel frattempo, la fotografia degli spettri stellari aveva fatto dei passi avanti e aveva sostituito le faticose osservazioni delle deboli bande colorate con un più semplice e affidabile metodo di lavoro.

In questo campo furono pionieri Henry Draper in Virginia e Huggins in Inghilterra. Draper aveva costruito uno specchio da 72cm e, inserendo prima del piano focale un prisma di quarzo (il quarzo, diversamente dal vetro, non assorbe i raggi ultravioletti), riuscì nel 1872, per la prima volta, a fotografare uno spettro stellare, quello di Vega. Negli anni 1879-82, lavorando con un rifrattore da 28cm e uno spettrografo Browning, fotografò gli spettri di 50 stelle.

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Poco dopo Draper, anche Huggins riuscì a fotografare degli spettri stellari (Tavola 17a). La sua attenzione fu poi catturata dalla notevole serie regolare di righe di assorbimento negli spettri di Vega, Sirio e altre stelle bianche; poiché queste serie erano vicine e proseguivano le righe dell’idrogeno nel blu e nel violetto diminuendo le reciproche distanze, non esitò a riferirle all’idrogeno. Erano le stesse righe che erano state fotografate poco prima nello spettro della cromosfera e che poco dopo si sarebbero rappresentate con la formula di Balmer.

Dopo la morte di Draper nel 1882, la

vedova destinò tutti i suoi strumenti e una somma di denaro. come Henry Draper Memorial Fund, all’Harvard Observatory, affinché si continuasse il suo lavoro sugli spettri stellari. Raramente un modico contributo di denaro è stato così ben speso per la scienza. Pickering lo usò per ottenere l’obiettivo di un telescopio a grande campo con prisma obiettivo, un grande disco di vetro fissato a un prisma con un piccolo angolo di rifrazione. In questo modo, le immagini nel piano focale diventano piccoli spettri, e non più immagini stellari circolari; una sola lastra poteva contenere contemporaneamente gli spettri di centinaia di stelle di un grande campo. Questi vennero classificati secondo il loro aspetto e indicati con le lettere A, B, F, G, K, M, N, rappresentando realmente, così, diverse classi di spettri.

A e B corrispondevano alla classe I di Secchi; F, G, K alla classe II; M alla classe III e N alla IV. Il primo Henry Draper Catalogue, del 1890, presentava gli spettri di 10.000 stelle, delle quali, però, si ebbero

molte classificazioni sbagliate, specialmente nel caso di spettri deboli e di righe poco visibili, che sarebbero state corrette più avanti. Il lavoro venne proseguito con strumenti più grandi: il telescopio Bache da 10 pollici [25,4cm] fu fornito di due obiettivi a prisma con angoli di rifrazione di pochi gradi, i quali, usati separatamente, servivano per stelle deboli, mentre, combinati insieme, per stelle brillanti. Usando, ad Arequipa, gli stessi tipi di lastre il lavoro venne esteso anche a tutto il cielo australe.

Antonia C. Maury studiò gli spettri di stelle brillanti ripresi con la maggiore dispersione e li divise in 24 classi, utilizzando i numeri romani I-XXIV, ma questa suddivisione più dettagliata non venne accettata da tutti. In alcune stelle brillanti della costellazione di Orione, i cui spettri erano stati classificati nelle classi I-IV, corrispondenti al tipo B del catalogo di Draper, Miss Maury notò un certo numero di righe caratteristiche, che per il momento vennero chiamate ‘righe di Orione’ e che erano già state trovate anche da Vogel e Scheiner in alcune delle loro stelle. Dopo la scoperta dell’elio sulla Terra, effettuata da Ramsay nel 1895, divenne chiaro come tutte queste ‘righe di Orione’ altro non fossero se non righe dell’elio. Inoltre, distinse in ogni classe stelle con righe larghe, molto larghe e sottili aggiungendo ‘a’, ‘b’ e ‘c’ ai numeri romani. Le righe della sottoclasse ‘c’ non solo erano più sottili di quelle della sottoclasse ‘a’, ma anche diverse in intensità relativa, così aggiunse una lista di righe che sono forti nelle stelle ‘c’ e sottolineò il fatto che, probabilmente, queste righe costituivano un gruppo con caratteristiche separate. L’importanza delle stelle ‘c’ emergerà più tardi.

L’intento principale di Pickering era di estendere la raccolta di spettri stellari fino alla nona magnitudine, utilizzando tutte queste lastre con una vera e propria ‘produzione di massa’, ma un tale lavoro non poteva essere eseguito con spettri a fenditura per ogni singola stella. Infatti, per studi dettagliati delle righe spettrali, si rendono necessari gli spettri a fenditura, che non vengono deteriorati dalla turbolenza

Tav. 17a. I primi spettri ultravioletti di Huggins: 1 – Vega; 2 – Sirio; 3 – η Ursae; 4 – Spica; 5 – Altair; 6 – Deneb; 7 – Arturo. (Philos. Transact. 1880)

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atmosferica, mentre per le classificazioni vengono usati gli spettri ottenuti con il prisma obiettivo, meno nitidi a causa della turbolenza. Fu questo tipo di classificazione il lavoro principale di Annie J. Cannon, che acquisì una particolare abilità nel distinguere piccole differenze di classe spettrale. Lei usò il sistema di lettere dell’Henry Draper Catalogue che così, nonostante la sua strana origine, finì per divenire di uso comune in spettroscopia (Tavola 18). Ci si rese conto di come le differenti classi indicate da queste lettere formassero una serie continua con delle transizioni graduali: dalle stelle B (con righe di elio) e A (con larghe righe di idrogeno), attraverso le F, G (tipo solare) e le K, fino alle stelle M (spettro a bande). Le forme di transizione erano indicate con numeri che formavano una sorta di decimali — B0, B5, B8, A0, A2, A5, A8, F0, ecc. — e le stime non potevano essere eseguite con una precisione maggiore di 1/4 di classe; i decimali esatti sarebbero apparsi solo più tardi come risultati di vere e proprie misure. Il 99% della totalità delle stelle poteva essere classificata all’interno di questa serie, specialmente dopo che furono aggiunte nuove classi: il gruppo R-N (con diversi sistemi di bande) verso la fine e le stelle O all’inizio. Finalmente, dopo molti anni di lavoro, fu completato il grande Henry Draper Catalogue, che presentava magnitudini e spettri di 225.000 stelle e che venne pubblicato fra il 1918 e il 1924 in nove volumi degli Harvard Annals.

La lettera O fu introdotta per alcuni rari spettri peculiari che mostravano righe di emissione brillanti e larghe su uno sfondo continuo; le più intense di queste si trovavano a 4686Ǻ e a 4650Ǻ. Le prime stelle di questo tipo — stelle di quinta e sesta magnitudine in una regione galattica luminosa nel Cigno — erano state già scoperte visualmente nel 1867 dagli astronomi parigini C. Wolf e G. Rayet, per cui questo tipo di stelle prese il nome di Wolf-Rayet stars. Sulle lastre del cielo australe, Pickering individuò una stella di seconda magnitudine nella Vela — γ Velorum — come la più luminosa di questo tipo, talora chiamato ‘tipo quinto’. Ancora

più importante fu la scoperta, nel 1896, del particolare spettro di un’altra stella luminosa, sempre nella Vela, ζ Puppis. Oltre alle righe dell’idrogeno questa mostrava anche altre righe quasi della stessa intensità, spaziate con tanta regolarità che Pickering poté rappresentare le loro lunghezze d’onda con la formula di Balmer utilizzando, invece dei numeri interi 3, 4, 5, ..., i valori 3½, 4½ e 5½. Così questa ‘serie di Pickering’ fu riferita all’idrogeno in un qualche tipo di condizione anomala e sconosciuta. Rydberg fece notare che apparteneva a questo spettro anche la riga con lunghezza d’onda 4686Å, esattamente 5/7 della lunghezza d’onda della prima riga della serie di Balmer, Hα. Dal momento che questa è la riga più luminosa nelle stelle O e poiché, inoltre, le righe della serie di Pickering qui sono poco visibili, ci si collegò alle stelle B0, dove queste righe appaiono come deboli righe di assorbimento. Fu così che le stelle O finirono per precedere le stelle B.

La serie di classi spettrali indicate con

queste lettere, dalla O e B fino alle M e N era una serie di temperature decrescenti. L’idea che costituissero una serie di fasi evolutive

Tav. 18. La classificazione spettrale di Harvard.

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consecutive, dovute al raffreddamento, come già proposto da Vogel, era una conclusione molto evidente, anche se si presentavano alcune difficoltà. Il raffreddamento indica una diminuzione di intensità e i corpi piccoli si raffreddano più rapidamente dei grandi. Monck, nel 1892, fece notare come la frequente scoperta di sistemi stellari doppi, dei quali una componente fosse una brillante rossa e l’altra una debole bianca/blu, contraddicesse questo schema evolutivo.

Una teoria del tutto differente era stata precedentemente proposta da Lockyer. Questi non solo arricchì l’astrofisica di molti strumenti pratici e di nuove scoperte, ma divenne anche famoso per le sue originali, a volte fantastiche, nuove idee teoriche, riportate estesamente nei suoi trattati Chemistry of the Sun (1887) e Inorganic Evolution (1900). Grazie alle sue osservazioni di spettri del Sole e in laboratorio, aveva raggiunto la convinzione, per la prima volta espressa nel 1878, che gli atomi dei nostri elementi chimici non fossero realmente particelle elementari, ma che, in condizioni di alte temperature e forti cariche elettriche, si potessero spezzare in costituenti più semplici che chiamò proto-elements. Questi erano caratterizzati da particolari righe spettrali che si intensificavano andando dallo spettro d’arco di un elemento allo spettro di scintilla ad alta tensione; Lockyer le chiamò enhanced lines [righe rinforzate] ed erano spesso indicate come spark lines [righe di scintilla] Come egli stesso aveva sottolineato nel 1900, si trattava delle stesse righe che Miss Maury aveva trovato essere le più forti nelle stelle ‘c’. Nelle sue numerose fotografie di spettri stellari, Lockyer aveva scoperto che, fra le stelle di una stessa classe spettrale, alcune presentavano enhanced lines molto forti, mentre altre le mostravano deboli; suppose, allora, che le prime, in cui i protoelementi erano più abbondanti, si trovassero in uno stato più primitivo. Fu portato, così, ad immaginare una traccia ascendente e discendente nell’evoluzione delle stelle, in accordo con i risultati teorici di Lane. La sequenza con le temperature in aumento iniziava con le fredde nebulose e continuava

verso le stelle in contrazione con temperature crescenti, passando attraverso stelle del terzo, secondo e primo tipo con forti spark lines: Antares (M secondo la classificazione di Harvard), la Stella Polare (F8), Deneb (A2), Rigel (B8), fino alla stella più brillante della cintura di Orione: ε Orionis (B0). Dopo le scoperte di Pickering, Lockyer aggiunse ζ Puppis e γ Velorum come i più alti picchi di temperatura, considerando le righe di Pickering come lo spettro del proto-idrogeno. La sequenza con le temperature in diminuzione, stelle dal primo al quarto tipo, sottoposte a continua contrazione, era caratterizzata dal fatto che le spark lines erano molto deboli o assenti: Algol (B8), Sirio (A0), Procione (F5), Arturo (K0) fino alle stelle N. Questa classificazione degli spettri stellari, insieme alla teoria di evoluzione, fu poco accettata fra gli astrofisici, soprattutto perché Lockyer l’aveva legata alla sua ‘ipotesi meteoritica’, che assumeva che gli sciami di meteore fossero lo stato originario da cui, attraverso le collisioni, si era generato un calore crescente che aveva portato alle nebulose e infine alla condizione di stella.

Quale valore e quale verità ci fossero in

questa teoria apparve chiaro quando, negli anni successivi, il crescente numero di parallassi e moti propri conosciuti fornì nuovi dati su luminosità, diametri e densità delle stelle. Quando le loro enormi differenze in luminosità vennero collegate alle diversità negli spettri, divennero più chiare le loro reciproche dipendenze. Che le stelle A, e ancora di più le stelle B,

Fig. 34. La sequenza evolutiva stellare secondo Lockyer (I nomi delle stelle tipiche sono stati aggiunti in accordo alla sua teoria del 1900.

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superassero di gran lunga il Sole in luminosità diveniva facilmente comprensibile, perché la temperatura diminuiva con regolarità andando dalle stelle B alle A, alle F e alle G. Tuttavia, la luminosità media aumentava dalle stelle G alle K e alle M, nonostante la temperatura diminuisse. Quest’apparente contraddizione fu chiarita da Enjar Hertzsprung che, nel 1905, mise in evidenza come fra le stelle gialle e quelle rosse ce ne fossero di due tipi, uno formato dalle stelle molto brillanti con diametri e superfici grandi, l’altro formato da stelle deboli, piccole e poco luminose. Le chiamò rispettivamente giant stars e dwarf stars, nomi che sono divenuti da allora di uso generale e che sono indicati da una ‘g’ o una ‘d’ posta davanti al tipo spettrale; il nostro Sole allora diventa di classe dG0. Le nane rosse dei tipi K e M, molto numerose, ma deboli, sono visibili solo quando si trovano in prossimità del Sole, costituendo, così, una piccola minoranza, riconoscibile da grandi moti e parallassi, rispetto alla quantità delle stelle giganti lontane che, sebbene superate in numero dalle nane in un dato volume di spazio, sono visibili a distanze migliaia di volte maggiori, il che ne determina la grande luminosità media.

Nel frattempo, Hertzsprung scoprì anche che le stelle ‘c’ di Miss Maury erano caratterizzate da parallassi impercettibili e da moti propri così piccoli che dovevano certamente essere situate a grande distanza e avere, quindi, una grande luminosità intrinseca; «dovrebbero essere come squali fra pesciolini»[212], come usava dire con una metafora zoologica, sottolineando giustamente la differente tipologia; da allora sono state chiamate supergiants. Poiché Miss Maury aveva trovato delle caratteristiche del tipo ‘c’ nelle variabili Cefeidi, anche queste dovevano essere, come già detto, sfere gassose dalle enormi dimensioni.

Il trattamento di tutti i dati di luminosità, densità e spettro, operato a Princeton da Enjar Hertzsprung e Henry Norris Russell, è sintetizzato nel famoso Hertzsprung-Russell diagram, una rappresentazione grafica della relazione fra caratteristiche spettrali e

magnitudini assolute, meglio conosciuta sotto la forma diffusa da Russell nel 1913. Le coordinate sono la magnitudine assoluta (M) e la classe spettrale; ogni stella è rappresentata da un punto e i cerchi aperti rappresentano i valori ottenuti dalla media di numerose parallassi molto piccole. In questo diagramma si vede che le stelle si dispongono lungo due fasce, una orizzontale a M = 0, con le stelle giganti, appartenenti a tutte le classi, un centinaio di volte più brillanti del Sole; l’altra, invece, inclinata, lungo una sequenza dalle stelle A, con M = 0, scendendo a M = 3 per le F, a M = 5 per le G (fra cui il Sole), fino a M = 7 e 10 per le K e le M. La fascia inclinata, dato che contiene la maggioranza delle stelle, venne successivamente chiamata main sequence [sequenza principale] Nane rosse del tipo M, di luminosità estremamente bassa (M = 10÷15), proseguivano la sequenza principale verso la sua estremità inferiore. Giganti bianche dei tipi B e O (M da -1 a -5) la proseguivano nell’estremità più in alto. Supergiganti sparse di tutte le classi spettrali sono situate sopra la fascia delle giganti comuni.

La versione originaria del diagramma di Hertzsprung-Russell (H.N. Russell, Pop. Astron., 22, 1914, p. 275).

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L’ampio intervallo fra i due tipi di stelle gialle venne spiegato da Russell in modo brillante. Fra le numerose variabili a eclisse, quasi tutte del tipo A e B, ne furono trovate due del tipo G: W Ursae, con un periodo di 8 ore, e W Crucis, con un periodo di 198 giorni. Calcolandone la densità come già spiegato nel capitolo 39, si trovò che, per la prima variabile, era doppia rispetto a quella del Sole, mentre per la seconda era 1/600.000 della densità solare. La prima era una nana normale, la seconda doveva essere un’enorme sfera di gas sottile, cioè una supergigante.

Una piccola stella di decima magnitudine in Eridano — che con una stella più piccola forma il gruppo binario ο2 Eridani, con un periodo di 200 anni — si rivelò essere un oggetto peculiare, estraneo alle due sequenze e rappresentato da un punto solitario in basso a sinistra nel diagramma. Questa stella possedeva un grande moto proprio e una grande parallasse di 0,20”; quindi, si trattava di una nana con una luminosità 400 volte inferiore a quella solare. Dal suo moto orbitale si derivò una massa 0,4 volte la massa del Sole, Massa e luminosità sembravano quelle tipiche di una nana rossa del tipo M, invece si trovò essere una stella bianca di classe spettrale A, primo esempio di una white dwarf [nana bianca] Anche il compagno di Sirio, al quale era già stata dedicata molta attenzione, era una stella debole con una massa modesta. Nel 1915, W.S. Adams, a Mount Wilson, riuscì a fotografarne lo spettro, nonostante fosse immersa nella luce di Sirio: non conteneva altro che larghe righe di idrogeno, dunque doveva essere una stella di tipo A (o al massimo F). C’era, allora, una seconda nana bianca in quel posto particolare del diagramma, oltre alla stella in Eridano. Questo isolamento rispetto a tutte le altre stelle sottolineava il loro carattere del tutto misterioso: bassa luminosità, massa contenuta e forte potenza radiativa. Sia che fosse davvero di piccole dimensioni, con un’enorme densità — 60.000 volte quella solare — sia che fosse una grande sfera scura, con solo una piccola parte di superficie che emetteva radiazione calda e

bianca, si trattava di due ipotesi ugualmente assurde.

Già nel 1913, Russell aveva inserito il suo diagramma nella teoria dell’evoluzione di Lane. La regione di temperature crescenti era rappresentata dalla fascia orizzontale delle stelle giganti. Poiché la diminuzione delle dimensioni era compensata, in questa regione, dall’aumento della temperatura, la luminosità rimaneva costante mentre la stella si evolveva da gigante rossa a nana bianca. Nel ramo discendente diminuivano sia la temperatura che le dimensioni e la stella rapidamente diminuiva in luminosità lungo la fascia inclinata della sequenza principale. Russell sottolineò come Lockyer avesse ragione sulla questione dei due rami, uno in salita e uno in discesa, anche se non era stato accurato nel sistemare le stelle del terzo tipo al ramo crescente e quelle del quarto al discendente. A questo punto, il quadro complessivo riusciva a spiegare anche le differenze spettrali; le enhanced lines di Lockyer, che caratterizzavano il ramo in salita, erano identiche alle righe ‘c’ di Miss Maury che caratterizzavano le più grandi supergiganti.

La correlazione fra la luminosità della stella e l’intensità di certe righe nello spettro, così evidente per le stelle ‘c’, si evidenzia, pur se in maniera minore, anche confrontando le comuni giganti con le nane. Se si fosse riusciti a trasformare queste differenze qualitative in una relazione quantitativa, allora sarebbe stato possibile ricavare la luminosità di una stella dall’intensità delle sue righe spettrali. Nel 1914-18, Kohlschütter e Adams, all’osservatorio di Mount Wilson, svilupparono questo metodo riprendendo gli spettri di quasi tutte le stelle F, G e K osservabili. Per ogni classe o sottoclasse spettrale, vennero utilizzati tutti i dati disponibili di parallassi e moti propri, trasformati in magnitudini assolute, per ottenere delle tavole empiriche delle dipendenze reciproche, che sarebbero servite per ottenere le magnitudini assolute per tutte le altre stelle. Il confronto fra la magnitudine assoluta così ottenuta e la magnitudine apparente avrebbe subito fornito la

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parallasse della stella. Quindi, si riuscì ad ottenere, in un modo del tutto imprevisto, delle parallassi troppo piccole per essere misurate direttamente, parallassi che vennero utilizzate negli studi sulla struttura del sistema delle stelle, con un’affidabilità di circa 1/5 del loro valore. A Mount Wilson si ottennero, così, queste ‘parallassi spettroscopiche’ per più di 1400 stelle del secondo tipo e su questa strada si misero ben presto molti altri osservatòri. Negli stessi anni la fisica aveva compiuto dei progressi così grandi che era ora possibile fornire una base teorica e una spiegazione completa per tutte queste scoperte empiriche. Quando Bohr, nel 1913, espose la sua teoria sugli atomi, presentò nello stesso tempo una spiegazione per la serie di Pickering nelle stelle O: queste erano dovute non all’idrogeno, bensì all’elio ionizzato. Quando l’atomo di elio perde uno dei suoi due elettroni, acquista la stessa struttura dell’atomo di idrogeno, con le righe spettrali in una serie dello stesso tipo ma, avendo una carica doppia nel nucleo, due volte più vicina. Questo comportava che le stelle O, nonostante i loro colori più gialli, dovessero avere una temperatura più alta rispetto alle stelle B con le loro righe di elio non ionizzato. Inoltre, adesso era finalmente chiaro come fossero gli atomi ionizzati degli altri elementi ad emettere e assorbire righe quali le enahnced di Lockyer, le nostre spark e le ‘c’ di Miss Maury. Quindi, Lockyer aveva ragione a sostenere che gli atomi fossero divisibili in parti più piccole ad alte temperature, ma sbagliava a supporre che queste particelle fossero protoelementi primitivi; gli atomi normali, infatti, si separano in atomi ionizzati ed elettroni liberi.

A parte i semplici fenomeni di assorbimento ed emissione, la ionizzazione, singola e multipla, sembrava, adesso, essere il fattore predominante nei vari tipi di radiazione delle stelle. La teoria della ionizzazione divenne terreno fertile per gli astrofisici quando, nel 1920, il fisico bengalese Megh Nad Saha derivò la formula di ionizzazione che esprimeva il livello di

ionizzazione di ogni atomo in funzione dalla temperatura e dalla pressione. In questo modo, l’intensità di una riga spettrale era diventata una quantità calcolabile e dipendente dalle condizioni fisiche dell’atmosfera stellare in cui la riga veniva prodotta; inversamente le condizioni fisiche di una stella potevano essere conosciute dalle intensità delle righe nel suo spettro. Così, la formula di ionizzazione divenne uno strumento di base per la trattazione quantitativa degli spettri stellari. Saha poté quindi spiegare le differenze nelle varie classi spettrali indicate con O, B, …, K, M, come differenze di temperatura. Prima, i nomi ‘stelle di elio’, ‘stelle di idrogeno’ e ‘stelle di metallo’ indicavano differenze nei costituenti chimici delle loro atmosfere, a cui si aggiungevano le differenze in temperatura come un dato non correlato. Ora, invece, era evidente che le varie atmosfere, tutte chimicamente uguali, all’aumentare delle temperature, dovevano mostrare la sequenza spettrale M, K, G, F, A, B, O. Oltretutto, la formula di Saha, che mostrava il crescere della ionizzazione al diminuire della pressione, spiegava la grande intensità delle enhanced lines nelle enormi stelle giganti con le loro ridotte densità. Gli studi sugli spettri stellari poterono passare, così, da qualitativi a quantitativi grazie principalmente al lavoro teorico di H.N. Russell a Princeton, che aveva adattato la formula di ionizzazione all’astrofisica, a quello di E.A. Milne a Oxford, che aveva sviluppato la teoria delle atmosfere stellari e al lavoro pratico di Cecilia H. Payne all’Harvard Observatory, che, dal 1924 in poi, aveva applicato la teoria alla ricca raccolta di spettri di Harvard. Per le stelle ordinarie si trovò che lo spettro dipendeva da due parametri, la temperatura efficace e la gravità alla superficie della stella. La prima è una misura del flusso di energia calorica che fuoriesce dalla superficie della stella, la seconda determina il gradiente di densità negli strati atmosferici, piccolo nelle stelle giganti, grande nelle stelle nane. Si scoprì, inoltre, come l’intensità delle spark lines, che, empiricamente, era parsa essere un effetto misterioso della luminosità delle

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stelle, fosse causata dal piccolo gradiente di densità nelle stelle giganti, cioè dalla bassa gravità superficiale dovuta alle grandi dimensioni della stella. Quindi, quanto avevamo affermato in precedenza riguardo alle stelle binarie, cioè che fossero gli unici oggetti che consentivano di derivare la massa di una stella, non è esattamente vero. Fondamentalmente, anche le righe spettrali lo permettono, purché la teoria e le misure siano abbastanza accurate.

La temperatura appariva, adesso, come il principale fattore in grado di definire l’aspetto di uno spettro, ma quali erano le vere temperature delle stelle? Il primo tentativo di determinarle si basava sulla distribuzione di intensità nello spettro. La legge empirica secondo la quale le stelle più calde del Sole erano più forti nel blu e più deboli nel rosso rispetto al Sole, e viceversa per le stelle più fredde, venne perfezionata in accurate relazioni quantitative mediante la formula di Planck, che permetteva di calcolare le temperature dai rapporti delle intensità misurate. Wilsing e Scheiner, a Potsdam, negli anni 1905-10, misurarono visualmente le intensità rispetto a un corpo nero di temperatura nota, prese come standard di confronto per numerose lunghezze d’onda negli spettri di 109 stelle di differenti classi spettrali, mentre Rosenberg, a Tubinga nel 1914, pubblicò le misure effettuate sugli spettri fotografici di 70 stelle, confrontate con il Sole: i dati apparivano discordanti in modo sbalorditivo. Per le classi A0 e M0 gli osservatóri di Potsdam trovarono 9300° e 3100°, mentre le fotografie di Tubinga davano 28.000° e 2600°. Presto divenne chiaro che la radiazione di una stella, dovendo superare molti strati di differente densità e temperatura, era molto diversa dalla radiazione teorica di corpo nero prevista della formula di Planck. Ogni risultato dovette essere corretto e, con qualche ordine di incertezza, fu adottato un valore di 10.000º-11.000º per le stelle A0 e 3000º per le M0.

Le ‘stelle di elio’ della classe B erano più calde delle stelle A e le loro temperature non potevano essere trovate in questo modo, a

causa dell’assorbimento interstellare, decisamente rilevante, tenuto conto delle loro grandi distanze, che rende i loro colori più gialli. A questo punto, vennero in aiuto le righe spettrali. Osservando la presenza o l’assenza delle righe del silicio ionizzato una, due o più volte nella sequenza delle stelle A, B e O, Cecilia Payne, nel 1924, poté stabilire una scala di temperature per queste stelle: da B5 a B0 le temperature aumentavano da 15.000º a 20.000º. Le prime stelle O (da O9 a O8) avevano temperature di 25.000º-30.000º; andando oltre, l’intensità crescente delle righe dell’elio ionizzato — così come le righe degli atomi di ossigeno, azoto e carbonio, altrettanto difficili a ionizzarsi (fra cui la forte riga di Wolf-Rayet a 4650Å) — indicavano temperature ancora più alte, ma lei non fu in grado di determinarle con esattezza.

In questo riuscì Zanstra, nel 1925, con un metodo totalmente differente. La radiazione di una stella ad alta temperatura —30.000º o più — è composta quasi interamente da lunghezze d’onda nel lontano ultravioletto, invisibili all’occhio e inaccessibili anche alla fotografia, in quanto tutte le lunghezze d’onda sotto i 3000 Å sono assorbiti dallo strato di ozono nella nostra alta atmosfera. Secondo la formula di Planck, la radiazione di una stella di questo tipo ha il massimo alle lunghezze d’onda di circa 1000Å e le lunghezze d’onda sopra i 3000 e 4000Å, nelle quali noi possiamo vedere e fotografare una stella, costituiscono quindi la piccola parte estrema della radiazione della stella. Le lunghezze d’onda invisibili di grande intensità — sotto i 911Å — consistono di grandi quanti di energia che esercitano un forte potere ionizzante sugli atomi di idrogeno nello spazio circostante. Nella ricombinazione ad atomi normali questi atomi di idrogeno ionizzato emettono le righe dell’idrogeno, fra cui la serie di Balmer. I materiali fotografici e i nostri occhi sono sensibili a queste lunghezze d’onda e noi vediamo questa materia circostante come una debole nebulosità (una nebulosa planetaria o ad anello), che emette idrogeno e altre righe. Ecco spiegate le nebulose gassose: il ‘fluido luminoso’ di

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Herschel non è altro che gas d’idrogeno e di altri atomi estremamente rarefatto, illuminato (in un modo abbastanza complesso) da una stella ad alta temperatura. All’osservatorio Lick, Wright aveva stabilito, nel 1918, che la stella visibile al centro delle nebulose planetarie o ad anello era una stella O. La luce vista intorno alla stella, prodotta dalla sua forte e invisibile radiazione, è molto superiore a quella che noi vediamo direttamente come luce stellare. Questa differenza era alla base delle deduzioni di Zanstra: quanto più era alta la temperatura della stella, tanto maggiore era questa differenza fra la nebulosa e la stella centrale. Quindi, per le stelle quasi (o del tutto) invisibili nelle nebulose brillanti egli poté derivare temperature fra i 34.000º e i 40.000º e, in un caso particolare, anche di 70.000º.

Ma la questione non era conclusa. Nel 1926, il fisico californiano Bowen aveva risolto l’enigma del ‘nebulio’, questo elemento fantastico inventato per spiegare le righe sconosciute nello spettro delle nebulose, fra cui le forti righe nel verde che Huggins aveva scoperto per primo e che non si riscontravano in nessun altro spettro sulla Terra. Si trattava delle cosiddette ‘righe proibite’ dell’ossigeno e dell’azoto ionizzato, emesse in transizioni così improbabili e rare da essere sempre anticipate nei gas e nelle atmosfere ordinarie dalle altre transizioni che producono le righe comuni. Quando queste ultime transizioni sono assenti, a seguito dell’estrema rarefazione della materia e della debolezza della radiazione nella nebulosa, allora diventano possibili le ‘righe proibite’. Bowen fece notare come le più corte lunghezze d’onda nella radiazione stellare consistessero di quanti di energia così grandi da non essere interamente utilizzati per ionizzare l’idrogeno e quindi contenenti ancora abbastanza energia per eccitare gli atomi di ossigeno e azoto. Di conseguenza, queste lunghezze d’onda sono le più intense nelle stelle ad altissima temperatura, il che significa che le righe del ‘nebulio’, rispetto alle righe dell’idrogeno, sono tanto più forti quanto maggiore è la temperatura della stella

centrale. Wright aveva già classificato le nebulose come più o meno eccitate, a seconda delle intensità relative delle righe e ora appariva evidente come ciò indicasse, in realtà, una sequenza di temperature. In basso, lungo questa sequenza, si trovavano le brillanti ed estese nebulose di Orione e della Vela, entrambe eccitate da gruppi di stelle di tipo O (in uno dei quali la stella quadrupla θ 2 Orionis è chiamata ‘il trapezio’), con una temperatura ‘modesta’ di 30.000˚. Per le stelle invisibili delle nebulose maggiormente eccitate si trovarono temperature sopra ai 100.000˚.

Volgendoci all’altra estremità di questa scala di temperature, troviamo 3000˚ per una stella rossa di tipo M0 come Betelgeuse. Le bande caratteristiche scoperte da Secchi e che A. Fowler, nel 1907, trovò essere prodotte dall’ossido di titanio ne dominavano lo spettro nelle sottoclassi più fredde. Per queste temperature così basse, sia il massimo che la maggior parte della radiazione sono nella regione calda invisibile dell’infrarosso; solo una coda della radiazione, quella a lunghezze d’onda minori, è visibile come luce rossa. Nelle stelle variabili di tipo Mira, le forti bande di assorbimento non permettono di trovare con esattezza la temperatura attraverso il gradiente di intensità spettrale. Per le stelle N, intensamente rosse, si adottò una temperatura di 2000˚; per Mira e per stelle simili, Pettit e Nicholson, attraverso misure eseguite a Mount Wilson col radiometro, ottennero temperature al massimo della loro luminosità di 2400˚-2000º, che al minimo, invece, diminuivano sino a 1300º o 1400º. Dato che queste stelle irradiano soprattutto nell’infrarosso, sono per lo più invisibili. Con lastre sensibilizzate alla radiazione infrarossa, furono fotografate stelle abbastanza brillanti, totalmente invisibili sulle ordinarie lastre pancromatiche, le cui temperature dovevano essere sotto i 1000º, il che fa pensare che si trovino in una fase di transizione verso le stelle veramente scure, della quali non si sa se possiedano una corrispondente piccola massa.

Quindi, le temperature superficiali delle stelle si estendono su di un intervallo,

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approssimativamente, da 1000º a 100.000º, le cui estremità, da entrambi i lati, sono quasi o del tutto invisibili, per la peculiarità dei nostri organi della vista, adattati alle radiazioni solari. Stelle rosse, che ci appaiono molto luminose, dovrebbero essere anche all’apparenza globi giganteschi. Possiamo dire quanto grandi ci appaiono? Si parla sempre delle stelle come oggetti luminosi puntiformi, sottintendendo il fatto che non ci appaiono come veri e propri dischi di luce, il che si può calcolare facilmente. Se una stella di tipo G, come Capella, ha la stessa temperatura superficiale del Sole, la sua brillanza apparente deve diminuire in modo direttamente proporzionale alla sua superficie apparente. La sua brillanza è 40.000 milioni di volte più piccola di quella del Sole e, quindi, il suo diametro apparente deve essere 200.000 volte più piccolo di quello del Sole, cioè 0,01”. Ma questo è un disco troppo piccolo per poter essere osservato, dato che il disco di diffrazione — per un telescopio da un metro di diametro, D, ad una lunghezza d’onda λ di 5000Å (5 x 10-5 mm) — è pari a 1,22 λ/ D, cioè circa 0,10 secondi d’arco: dieci volte il disco reale della stella. Per ridurre il disco di rifrazione a 0,01” sarebbe necessaria un’apertura di 10 metri.

L’idea che un disco stellare di queste dimensioni potesse essere visto si fece strada, nel 1890, nella mente del fisico americano A.A. Michelson. Se raccogliessimo la luce di una stella con due specchi posti a 10m di distanza e la riflettessimo in un telescopio, l’interferenza dei due fasci di luce produrrebbe sul disco di rifrazione della stella un alternarsi di righe chiare e scure, a una distanza di 0,01”, corrispondente alla distanza di 10m tra i due fasci. Questo, comunque, è valido se i fasci di luce sono perfettamente paralleli, cioè per un’immagine stellare realmente puntiforme. Se la stella è una binaria molto stretta o se ha un disco reale di diametro 0,01”, l’alternarsi delle righe chiare e scure dovrebbe diminuire, e le righe dovrebbero scomparire. Anche se l’idea di fondo venne presto applicata alla separazione e alla misura di binarie strette, non venne completamente

realizzata se non nel 1919, con la costruzione di un ‘interferometro’ a Mount Wilson. Anderson e Pease riuscirono a determinare i diametri di alcune stelle rosse luminose: Betelgeuse, 0,045”; Antares, 0,040”; Arturo, 0,022”; Mira, 0,056”. Si presero in considerazione solo stelle rosse, in quanto le stelle bianche, per presentare diametri di queste dimensioni, avrebbero dovuto apparire centinaia di volte più luminose di quanto apparissero. Pur se queste misure non costituivano una vera e propria nuova scoperta, erano, tuttavia, decisamente importanti poiché stavano a rappresentare un trionfo della teoria fisica sulle limitazioni tecniche.

Tutto quello che conosciamo delle stelle attraverso le osservazioni si riferisce alle loro superfici. Cosa possiamo dire dei loro interni?

Quando abbiamo parlato del Sole, ricordammo le ricerche di Eddington sul suo interno. Ma di tanto si era allargato il campo della moderna ricerca, che il Sole era solo uno degli oggetti in esame, mentre le ricerche si occupavano di stelle in generale. Il libro di Eddington del 1925, che raccoglieva tutti i suoi lavori in questo campo, aveva per titolo The Internal Constitution of the Stars e i suoi dati numerici erano stati presi dalle stelle meglio studiate (Tavola 19, Capitolo 37).

La teoria di Eddington sulla struttura stellare si basava sul concetto di equilibrio radiativo: con le alte temperature di milioni di gradi che si raggiungono negli interni stellari, la radiazione è il principale e praticamente l’unico meccanismo di trasporto di calore all’interno delle stelle.

Nel trattare le condizioni per l’equilibrio, sia termico che meccanico, vennero introdotti tre nuovi punti di vista. Primo, la pressione di radiazione, già dedotta per via teorica molto tempo prima nella teoria dell’elettricità di Maxwell: quasi impercettibile negli esperimenti sulla Terra, la pressione di radiazione può svolgere nelle stelle un ruolo importante trasportando materia, in misura minore o maggiore a seconda dell’intensità del flusso di calore in

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uscita. Secondo, l’alto grado di ionizazzione: queste intense radiazioni possono essere in grado di strappare interi livelli elettronici agli atomi, fino al limite al quale gli elettroni sono soggetti a essere strappati oppure ricatturati dalla ricombinazione. L’energia viene trasportata dagli interni fino in superficie passando attraverso un gioco infinito di ionizzazione e ricombinazione di atomi ed elettroni, con assorbimenti ed emissioni alternati di radiazione. Terzo, la produzione di energia all’interno, che bilancia il flusso di energia diretto verso l’esterno che la stella immette nello spazio. Questi tre tipi di fenomeni determinano le condizioni di materia ed energia nelle stelle: temperatura, pressione, densità, coefficiente d’assorbimento e ionizzazione di tutti i tipi di atomi, in funzione della distanza dal centro.

Il risultato più importante del lavoro di Eddington fu la relazione massa-luminosità, secondo la quale la luminosità di una stella — tranne poche, ma calcolabili, deviazioni che dipendono dalla classe spettrale — è interamente determinata dalla sua massa, secondo una relazione derivata teoricamente. Negli anni precedenti, studiando le masse delle binarie, alcuni astronomi si erano accorti, con una certa meraviglia, che stelle con la stessa massa, ma appartenenti a classi spettrali diverse avevano circa la stessa luminosità. Eddington dimostrò che quanto era apparso come una coincidenza casuale in un piccolo campione di dati era una legge generale di fondamentale importanza. Questa legge aprì nuove prospettive sull’evoluzione stellare e sul significato del diagramma di Hertzsprung-Russell. Se è vero che, a massa costante, anche la luminosità è costante, allora la fascia inclinata della sequenza principale — dalle luminose stelle A alle deboli stelle M — non può essere una sequenza evolutiva dovuta al raffreddamento. La teoria evolutiva che si riteneva fosse illustrata dal diagramma non poteva essere corretta e doveva, quindi, essere rimpiazzata da una nuova teoria. Conservando la propria massa, le stelle devono seguire una linea orizzontale nel diagramma, andando da destra a sinistra

all’aumentare della temperatura e viceversa al suo diminuire; la sequenza principale rappresenta, allora, l’affollamento all’inversione della direzione. Minore è la massa, più in basso nel diagramma è situata la linea evolutiva e inferiore è la temperatura massima.

Eddington aveva ricavato la relazione massa-luminosità assumendo che la materia stellare, come si potrebbe assumere per le stelle giganti, si comportasse come un gas perfetto. Quando, nel 1924, confrontò i suoi risultati con i dati osservativi di numerose stelle, soprattutto per vedere quali deviazioni avrebbero mostrato le dense stelle nane, trovò, con sorpresa, che anche queste seguivano completamente la relazione, comportandosi come se fossero composte di gas sottile. Eddington ne comprese subito la causa: poiché gli atomi che si trovano negli strati profondi della stella hanno perso i propri livelli elettronici più esterni, per l’alto grado di ionizzazione, finiscono per occupare un volume così piccolo che, anche in condizioni di alta densità, possono proseguire liberamente il loro percorso senza scontrarsi l’un l’altro. Ne derivava immediatamente una conseguenza imprevista: questi atomi, spogliati dei propri elettroni, potevano essere impacchettati così densamente da formare materia 60.000 più densa, proprio come si era calcolato per le nane bianche, ritenendolo, pur tuttavia, impossibile. L’anno successivo, Adams fornì la conferma che la nana bianca Sirio B era realmente una stella piccola — con le dimensioni di Urano — ma di grande massa e, quindi, con un grande potenziale gravitazionale sulla sua superficie (20 volte quello del Sole). Einstein aveva dedotto dalla teoria della relatività che la luce emessa in un tale campo gravitazionale dovesse variare la propria lunghezza d’onda. E infatti, riprendendo lo spettro di Sirio B, Adams trovò che le lunghezze d’onda delle righe erano spostate della quantità prevista. La certezza che materia con densità 60.000 potesse davvero esistere poneva nuovi problemi alla fisica: il termine ‘materia degenere’ sta proprio ad indicare come si fosse aperto, in questo modo, un nuovo

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campo della fisica teorica. Proseguendo nel lavoro di Eddington,

Milne, nel 1928, elaborò dei modelli più generali di struttura stellare, trovando che alcuni di questi divenivano instabili e portavano a un collasso fino a un piccolo volume. In una catastrofe stellare di questo tipo veniva liberata una grande quantità di energia gravitazionale che si trasformava in una esplosione di calore. Questo rendeva conto, nello stesso tempo, sia dell’esplosione di una nova che dell’origine delle piccole stelle O di grande densità, come quelle che si trovavano nelle nebulose planetarie e che

forse erano proprio i relitti di precedenti esplosioni di novae.

Il lavoro di Eddington ha consentito di aprire gli interni stellari alla conoscenza scientifica. La scienza dell’astrofisica — cioè lo studio della natura sia interna che esterna delle stelle — assumeva, in tal modo, un ruolo sempre più crescente nella ricerca astronomica e i suoi ultimi sviluppi sono così profondamente connessi con i problemi astrofisici moderni che, difficilmente, possono essere trattati in maniera adeguata come un pezzo di storia.

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CAPITOLO 41

IL SISTEMA GALATTICO Quei milioni di stelle visibili dai nostri telescopi e che occupano i vasti spazi intorno a noi formano un sistema coerente? William Herschel l’aveva accettato come evidente e aveva associato quel sistema a quello che ci appare come Via Lattea. Da allora, la Via Lattea — o, meglio, la sua fascia centrale — divenne il piano fondamentale di tutte le ricerche sul sistema di stelle e la sua struttura fu riferita a coordinate basate su questo piano, longitudine e latitudine galattica.

In una ricerca preliminare, Herschel era penetrato di slancio in questi spazi fino ai limiti più remoti e, mentre si attraversavano, passo dopo passo, gli spazi che ci dividevano dalle stelle, fu compito del diciannovesimo secolo prenderne completo possesso. Questa ricerca doveva procedere in due direzioni: studio della distribuzione delle stelle nello spazio e scoperta delle leggi dei loro moti.

Lo studio della distribuzione spaziale iniziò con l’analisi della sistemazione superficiale delle stelle sul piano sulla sfera celeste, accumulando posizioni e magnitudini. Gli astronomi non si erano posti questo scopo né quando si erano occupati della mappatura di stelle telescopiche per la ricerca dei pianeti minori né quando si erano occupati della determinazione della loro esatta posizione con strumenti meridiani. Per un vero e proprio catalogo, non era necessaria la precisione delle osservazioni meridiane e, d’altra parte, i cataloghi erano troppo incompleti e le magnitudini, considerate secondarie per questo scopo, erano troppo imprecise. Tuttavia, nel 1847, W. Struve aveva mostrato cosa si potesse ottenere da quei lavori, con degli studi sulla distribuzione spaziale delle stelle, basati sul catalogo di Bessel, nei quali aveva derivato la frequenza di affollamento delle stelle

deboli vicino al piano galattico rispetto alla loro bassa densità a grande distanza da questo piano.

Il primo a capire l’importanza di un buon catalogo di stelle fu Argelander, a Bonn, il cui accurato e completo catalogo di magnitudini di stelle visibili a occhio nudo è già stato ricordato nel Capitolo 39. Ora il suo obiettivo era di estenderlo alle stelle telescopiche. Avendo riconosciuto quanto fosse inaccurato e laborioso il metodo di mappatura seguito sino ad allora — quello di confrontare a occhio nudo il cielo e le mappe, inserendo poi le stime a occhio — Argelander trovò un metodo di lavoro migliore. Tenendo il telescopio immobile, l’osservatore vedeva passare nel campo di vista, una dopo l’altra, tutte le stelle che avevano la stessa declinazione. Ogni volta che una stella passava sulla scala graduata nord-sud, egli dava un segnale e il tempo corrispondente, annotato da un collaboratore seduto di fronte a un orologio, forniva l’ascensione retta. Contemporaneamente, l’osservatore dichiarava ad alta voce sia la lettura della scala (che forniva le declinazione), che la stima della magnitudine. In questo modo, un’intera zona, pari in declinazione al campo di vista del telescopio, ma ampiamente estesa in ascensione retta, poteva essere terminata in una sola sessione osservativa. Ogni parte del cielo era coperta due volte da queste zone, così che c’era un controllo e si ottenevano misure più accurate dalla media dai due valori. Avendo tenuto in considerazione la limitazione raggiungibile nella precisione delle posizioni (pochi secondi di tempo in ascensione retta e un decimo di primo in declinazione) e avendo utilizzato una selezione prudente di stelle, fino alla nona magnitudine (con un telescopio da soli 76mm di apertura), fu possibile completare l’intero emisfero nord in sette anni di lavoro,

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dal 1852 al 1859, durante i quali riuscì a mantenersi costante l’entusiasmo degli osservatóri, gli assistenti Thormann, Krüger e Shönfeld. Da questo catalogo, chiamato Bonner Durchmusterung, che contiene circa 324 mila stelle (le più deboli di magnitudine 9,5), si ricavò un atlante di mappe stellari che superò tutte le mappe precedenti in completezza e attendibilità. Sia il catalogo sia l’atlante divennero, negli anni seguenti, un aiuto indispensabile per i lavori astronomici. Ancora oggi, nel ventesimo secolo, questo vecchio catalogo di Bonn non è ancora divenuto superfluo per ricerche statistiche.

Il nome Durchmusterung [survey, rassegna] fu attribuito da Argelander per enfatizzare l’inadeguatezza delle posizioni per un catalogo stellare completo e divenne la designazione internazionale per i successivi cataloghi dello stesso tipo. Il lavoro di Argelander fu completato dal suo successore a Bonn, Eduard Shönfeld, fino a 24° di latitudine sud, per comprendere l’intera eclittica con i pianetini. Nel 1885, Juan Thomé, successore di Gould all’Osservatorio di Córdoba in Argentina, iniziò a estenderlo verso il cielo meridionale, a partire da 22° di declinazione sud. Thomé scelse un telescopio un po’ più grande, che consentiva di osservare stelle fino alla decima e undicesima magnitudine, così che il suo programma risultò più esteso. Alla sua morte, nel 1908, nonostante avesse osservato ben 579.000 stelle, era riuscito a raggiungere solo il parallelo di 62°. Solo nel 1930 altri osservatóri completarono il lavoro fino al polo sud celeste. Per di più, per il tentativo di adattare le stime alle misure fotometriche, il Córdoba Durchmusterung mancava di quella omogeneità così preziosa per le ricerche statistiche.

Inoltre, la scala di magnitudini di Bonn non è completamente omogenea, in quanto basata su stime eseguite su una scala puramente mentale. Magnitudini fotometriche accurate, fornite per primi dai grandi cataloghi di Potsdam e Cambridge, raggiunsero solo la magnitudine 7,5 e furono queste, ovviamente, ad essere usate per lavori statistici. Ottenere misure

fotometriche di tutte le centinaia di migliaia di stelle del Durchmusterung era un obiettivo impraticabile, almeno con stime visuali, mentre fotograficamente sarebbe stato possibile solo con tecniche moderne. Al fine di poter utilizzare le magnitudini del Durchmusterung per studi statistici, Pickering misurò tutte le stelle all’interno di strette fasce di declinazione, larghe 10’, poste a intervalli regolari, 0°, 5°, 10°, … di declinazione. Per mezzo di queste stelle, la scala di magnitudini stimate poteva essere ridotta alla scala fotometrica per tutte le differenti fasce di declinazione.

J.C. Kapteyn (1851-1822) compilò un catalogo del cielo sud in un modo abbastanza diverso, utilizzando un campione completo di lastre fotografiche riprese da Gill a Cape Town, nel 1885-90. Per evitare la laboriosa riduzione da coordinate rettangolari delle lastre a coordinate sferiche, ascensione retta e declinazione, Kapteyn usò un piccolo teodolite puntato verso una lastra posta a una distanza uguale alla distanza focale del telescopio fotografico. Posizionando il teodolite e la lastra in modo opportuno, era esattamente come se il campo stellare fosse guardato a Cape Town proprio durante l’osservazione. In questo modo, le coordinare sferiche di tutte le stelle potevano essere lette direttamente sui cerchi graduati dello strumento, con errori di solo pochi secondi d’arco, più accuratamente, quindi, delle magnitudini visuali di Bonn. Le magnitudini erano ricavate dalla misura dei diametri delle immagini stellari per mezzo di formule empiriche. E così, in 10 anni di misure eseguite in un piccolo laboratorio a Groningen, venne completato il Cape Photographic Durchmusterung, contenente circa 454.000 stelle tra 19° di declinazione sud e il polo sud, fino all’undicesima magnitudine fotografica.

La mappatura dei milioni di stelle più deboli era possibile solo con tecniche fotografiche, ma la loro misura e la loro catalogazione non era più necessaria perché le mappe stesse, sotto forma di riproduzioni, potevano sempre essere a portata di mano. Allora, l’Harvard Observatory distribuì un ‘atlante’ di tutte le stelle fino alla

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dodicesima magnitudine sotto forma di scatole di lastre di vetro che erano copie delle lastre originali. Abbiamo già ricordato il lento procedere del lavoro di collaborazione della Carte du Ciel. Un amatore inglese, Franklin Adams, fu in grado di soddisfare ancor meglio le richieste degli astronomi, grazie a degli eccellenti sistemi ottici moderni, che presentavano immagini stellari nitide e puntiformi fino ai bordi della lastra, su campi stellari estesi. Nel 1902-05, dapprima in Inghilterra e poi in Sudafrica, con un doppietto da 10 pollici di apertura [25,4cm] fotografò l’intero cielo su 206 lastre di 15° x 15°; le lastre vennero, in seguito, riprodotte fotograficamente su mappe, dove la più piccola immagine stellare, di 15a, magnitudine poteva essere vista solo con una lente di ingrandimento (Tavola 20). Catalogarle tutte con delle magnitudini ridotte accuratamente sarebbe stato un lavoro impossibile.

I cataloghi Durchmusterung furono alla

base degli studi statistici sulla distribuzione delle stelle: prima la distribuzione apparente sulla sfera celeste, poi la distribuzione reale nello spazio. Questo campo di ricerca fu

aperto dagli estesi lavori pratici e teorici di Hugo Seeliger a Monaco, in una serie di studi dal 1884 al 1909. Dalle misure di Pickering egli derivò le correzioni da apportare alle magnitudini di Bonn. Queste correzioni variavano sia in funzione della declinazione, che della densità stellare; in campi ricchi di stelle le magnitudini stimate erano più deboli e il loro limite si incontrava a un livello più brillante, come se l’occhio fosse abbagliato dalla loro luminosità totale, mentre nei campi densi si perdevano più stelle deboli rispetto alle regioni povere di stelle. Potendo ora lavorare con delle magnitudini abbastanza accurate, Seeliger riuscì a stabilire differenti regolarità nella distribuzione. Il numero di stelle aumentava in un rapporto da 2,8 a 3,4 per magnitudine e il fatto che ogni intervallo di magnitudine contenesse circa 3 volte più stelle dell’intervallo precedente fu, senza dubbio, un risultato notevole. Infatti, se lo spazio fosse stato riempito di stelle nello stesso modo, ogni intervallo successivo sarebbe dovuto risultare quattro volte più numeroso, poiché ogni sfera successiva, posta a una distanza di √2,5 volte più grande, ha un volume 4 volte maggiore. Così, come primo risultato, Seeliger concluse che la densità spaziale delle stelle (numero di stelle per unità di volume) diminuiva verso l’esterno con una frequenza definita. Naturalmente, questa era una rappresentazione dell’universo fortemente schematizzata.

La densità, tuttavia, non è uguale in tutte le direzioni; infatti, la densità superficiale aumenta in direzione della Via Lattea e questo aumento, difficilmente percepibile per le stelle visibili a occhio nudo, diventa sempre maggiore per le stelle più deboli. Per le stelle di Herschel il fenomeno è nettamente più forte che per le stelle di Bonn. Lo stesso fatto può essere espresso in un altro modo: l’incremento del numero di stelle è piccolo ad alte latitudini galattiche, grande a basse latitudini e molto grande nella Via Lattea. Questo significa che nella Via Lattea la diminuzione di densità stellare con la distanza è piccola, mentre è grande verso i poli galattici.

Questi sono risultati generali del tutto

Tav. 20. Stelle telescopiche nella Cintura di Orione. Sopra, secondo l’atlante di Argelander; sotto, secondo le carte fotografiche di Franklin Adams.

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qualitativi, che non tengono conto delle differenze in luminosità stellare, differenze espresse dalla legge di luminosità, che dà il numero di stelle (in volume unitario dello spazio) in funzione della luminosità. Seeliger trasformò tutte queste relazioni in forma matematica e sviluppò delle formule che esprimevano il numero di stelle contate per ogni intervallo di magnitudine apparente in funzione della distribuzione di densità e della legge di luminosità. Dimostrò, così, che se il numero di stelle doveva mostrare un aumento costante con la magnitudine, la risultante diminuzione nella densità spaziale poteva essere calcolata senza ricorrere alla legge di luminosità. Ma i valori contati non erano conformi a tale supposizione: la frequenza di aumento diveniva più piccola per gli intervalli di magnitudine più deboli. Seeliger spiegò questo andamento assumendo che si era arrivati al limite del sistema stellare. È chiaro, tuttavia, che, per ottenere risultati migliori, è necessaria la conoscenza della legge di luminosità. Detto in modo più generale, non possiamo penetrare completamente nella struttura del nostro sistema stellare solo mediante semplici conteggi di stelle, senza fare uso di parallassi e moti propri.

C’è qualche regolarità o qualche legge da scoprire nei moti delle stelle fisse che ci possano portare, così come per i pianeti, alla conoscenza della struttura spaziale e delle leggi che la controllano? Una di queste regolarità era stata scoperta da un piccolo numero di stelle da William Herschel: le stelle sembravano convergere verso un unico punto nel cielo, perché il Sistema solare si sarebbe mosso nella direzione opposta. Nella prima metà dell’Ottocento c’era una grande controversia su questa questione: Bessel, usando un metodo indiretto, non aveva trovato alcun moto solare nel suo vasto materiale osservativo. Ma nel 1830 Argelander, allora ad Åbo in Finlandia, dimostrò, per mezzo di un gran numero di moti propri (390) accuratamente determinati, che Herschel aveva ragione e che il Sistema solare si muoveva proprio verso l’apice indicato.

Nel corso del diciannovesimo secolo, con l’aumento del numero di buone osservazioni meridiane, si ebbe un incremento nel numero di cataloghi di moti propri. Il più importante fu quello redatto da A. Auwers, nel 1888, con la nuova riduzione delle stelle di Bradley, realizzata con l’uso di valori moderni per tutti gli elementi delle riduzioni. Il catalogo di Auwers-Bradley, che conteneva moti propri attendibili per 3200 stelle, rimase per molti anni la base per tutte le ricerche sui moti propri, fino al 1910, quando venne sostituito dal Preliminary General Catalogue di L. Boss, comprendente 6188 stelle. Tutti i calcoli eseguiti sulla base di questi e altri cataloghi di moti propri confermarono i risultati di Herschel e Argelander; le posizioni trovate per l’apice di moto erano tutte situate nella vicinanza del punto 270° (RA), +30° (Dec). Con un’eccezione: quando Kobold elaborò tutto il suo materiale con il metodo di Bessel, trovò un apice molto più a sud, vicino all’equatore. Il metodo di Bessel si basava sulla posizione delle frecce che indicavano i moti propri, senza distinguere la direzione — avanti o indietro — del moto. Come questo metodo abbia potuto fornire un risultato diverso, che indicava qualche altra regolarità, rimase sconosciuto per lungo tempo.

Allorché si riuscì ad ottenere un numero sufficiente di velocità radiali da misure spettrografiche, queste vennero usate anche per determinare il moto solare e, oltre alla direzione verso l’apice, furono in grado di fornire anche la velocità lineare. Nel 1901, Campbell derivò entrambe da misure di velocità radiali per 230 stelle e, 10 anni più tardi, per 1180 stelle eseguite al Lick Observatory: l’apice trovato era a 268°, +25°, e la velocità circa 20km/s, confrontabile con la velocità orbitale della Terra di circa 27km/s.

In questo modo si trovò una cera regolarità nei moti delle stelle, uno spostamento generale verso un antiapice posto a 90°, -30°. Questo tuttavia non era un moto delle stelle stesse, ma un riflesso del moto solare. Tentativi di trovare regolarità sistematiche nei moti stellari vennero eseguiti nel corso

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del diciannovesimo secolo. Così, nel 1848, Mädler pensò di aver trovato un moto generale verso un centro di gravità posto nelle Pleiadi, ma si trattava di un errore. Una volta liberati dal ‘moto parallattico’ dovuto al moto del Sole, i rimanenti ‘moti peculiari’ mostrarono solo una distribuzione casuale del tutto irregolare. Da tutto questo lavoro si ottenne un ulteriore vantaggio: poiché il Sole in un secolo percorre una distanza che è 420 volte più grande della distanza Terra-Sole, la parallasse secolare di una stella è 420 volte più grande della sua parallasse annua. In questo modo si riuscirono a trovare le distanze di stelle lontane, non per ogni singola stella, a causa dei loro moti peculiari, ma per gruppi di stelle, nei quali, con un’operazione di media, erano stati eliminati i moti casuali di ogni singola stella.

Questo metodo venne usato su grande scala da Kapteyn quando, negli anni Novanta dell’Ottocento, iniziò le sue ricerche sui sistemi stellari. Egli ottenne così le principali distanze delle stelle di terza, quarta e quinta magnitudine e trovò che la loro frequenza di aumento era minore di √2,5, valore previsto dalla loro luminosità. Questo significa che ogni intervallo di magnitudine successivo contiene stelle la cui luminosità media è più piccola di quelle della classe precedente. Ora gli astronomi si dovevano confrontare con la grande difficoltà del problema: la distribuzione delle stelle in funzione della luminosità apparente è un effetto combinato di due fattori: la loro differente luminosità e la loro differente distanza. Il problema di come trovare le leggi sconosciute di entrambi dal loro effetto combinato non poteva essere risolto per mezzo di deduzioni matematiche.

Kapteyn risolse il problema con un ammirabile esempio di ingegnosità pratica. Nel 1901, usando le fonti più attendibili, per prima cosa calcolò le parallassi medie di stelle campione entro certi limiti di magnitudine e moto proprio. Queste furono poi usate per derivare una formula empirica che fornisse la parallasse in funzione della magnitudine e del moto proprio; la parallasse così ottenuta, esprimendo la distanza, dava allo stesso tempo la

luminosità. Questa formula fu, infine, applicata a tutte le stelle di Bradley e alle stelle più deboli come se avessero dei moti propri attendibili e la mancanza di completezza venne corretta con conteggi statistici. Si riuscì, in questo modo, a distribuire tutte queste stelle nello spazio collocandole entro intervalli di distanza definiti, per esempio all’interno di successivi strati sferici. In ogni strato potevano essere calcolate le stelle di differente luminosità e così Kapteyn poté costruire una tabella che dava il numero di stelle entro un certo intervallo di distanza — e quindi anche per unità di volume di spazio a distanze differenti — e entro certi limiti di luminosità. Quest’ultimo passaggio forniva la legge di luminosità sotto forma di una tabella, la quale mostrava come il numero di stelle aumentasse rapidamente con il diminuire della luminosità. Ma tale aumento diminuiva sempre di più per le stelle di più debole magnitudine assoluta, fino a cessare per stelle un centinaio di volte più deboli del Sole, per le quali la frequenza raggiungeva il massimo. I valori numerici potevano essere espressi da una funzione quadratica esponenziali, della stessa forma della legge degli errori di Gauss.

Stiamo incontrando, qui, un nuovo tipo di astronomia, che potrebbe essere chiamata ‘astronomia statistica’. Essa si applica non a singole stelle ma a centinaia, migliaia e a volte milioni di stelle. Quindi, la natura del problema è cambiata: noi non dobbiamo chiederci quali stelle ma quante stelle abbiano certe caratteristiche (colore, spettro, appartenenza a sistemi multipli) o certi valori dei parametri (temperatura, luminosità, densità, magnitudine). I conteggi forniscono le misure. Non ci si occupa di posizioni (nel cielo o nello spazio), ma di densità di distribuzione (sul cielo o sullo spazio). Le leggi statistiche della distribuzione sono l’oggetto e lo strumento di lavoro dell’astronomo che si sta occupando di migliaia e milioni di oggetti celesti.

Grazie alla conoscenza della legge di luminosità, la derivazione della distribuzione spaziale delle stelle divenne molto più

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semplice. Kapteyn affrontò questo problema per primo, nel 1908, determinando il numero di stelle di ogni magnitudine — o, più precisamente, il numero di stelle per grado quadrato sopra un certo limite di magnitudine — in funzione della latitudine galattica. Egli non si limitò alla riduzione a dati statistici dei conteggi di stelle brillanti e del Durchmusterung, in quanto adesso era possibile arrivare alla quindicesima e alla sedicesima magnitudine, poiché le misure fotometriche di stelle di confronto, fatte ad Harvard e da Parkhurst a Yerkes per misurare i minimi deboli di stelle variabili, avevano esteso la scala di magnitudini affidabili fino a questi limiti. Ora si vedeva chiaramente che l’aumento del numero di stelle per grado quadrato per le magnitudini più deboli diminuiva molto in questi intervalli. Il tutto poteva essere descritto abbastanza bene da una gaussiana, differente, naturalmente, per differenti latitudini galattiche. Grazie a una ingegnosa analisi, Schwarzschild mostrò come la funzione di densità (dipendenza della densità spaziale dalla distanza) poteva essere derivata direttamente dalla funzione numero di stelle (dipendenza del numero di stelle dalla magnitudine) e dalla funzione di luminosità, se tutte e tre potevano essere rappresentate esattamente da distribuzioni di probabilità gaussiane.

La distribuzione derivata da Kapteyn presentava una densità quasi costante intorno al Sole, fino a una distanza di 100pc, che diminuiva rapidamente in direzione dei poli galattici e lentamente nel piano galattico. Le superfici di uguale densità erano ellissoidi di rivoluzione fortemente appiattiti, così che si può parlare di una ‘distribuzione ellissoidale’ delle stelle. Nella dozzina di anni successiva, calcoli eseguiti al Groningen Astronomical Laboratory fornirono dei risultati numerici più accurati: una densità di 1/16 della densità centrale intorno al Sole fu trovata nel piano galattico, alla distanza di 3500pc, e verso i poli a 660pc.

Che il sistema stellare di Kapteyn avesse la figura di un ellissoide di rivoluzione non era un risultato, ma solo una supposizione,

poiché, in questa prima approssimazione, le differenze lungo le longitudini galattiche erano state trascurate e mediate ed era stata considerata solo la variazione con la latitudine; il risultato era identico per tutte le longitudini. Di conseguenza, il sistema di Kapteyn era una rappresentazione dell’universo stellare fortemente schematizzata e appiattita; ed era schematizzata anche per quanto riguardava la variazione di densità con la distanza. Infatti, dal momento che le luminosità delle stelle erano ampiamente differenti, come appariva dalla distribuzione allargata della curva di luminosità, tutte le variazioni a corto raggio di densità spaziale con la distanza erano appiattite e appena percepibili nella distribuzione delle stelle rispetto alle magnitudini apparenti.

Finora abbiamo parlato della Via Lattea come una banda luminosa intorno al cielo o, talora, come un piano o uno strato di stelle nello spazio. Adesso, invece, deve essere considerata come un vero e proprio oggetto di studio. Cos’è in realtà la Via Lattea? Per la precisione, si potrebbe dire che si tratta di un fantasma, una sorta di ‘illusione ottica’, ma una illusione così spettacolare e ricca di forme e strutture, di zone luminose e scure, che, vista nelle buie notti d’estate, diventa una delle scene più belle che la natura possa offrire agli occhi dell’uomo. È vero che il suo luccichio è così debole da scomparire dove l’occhio cerca di fissare la vista, in quanto è percepito solamente dai bastoncini e non dai coni della retina, essendo quindi visibile solo con la visione indiretta. Ma quando ogni altro bagliore è assente, ecco che la Via Lattea ci presenta uno spettacolo di luminosa bellezza.

In precedenza (Cap. 14) abbiamo ricordato come Tolomeo, nella sua grande opera, fornisse una descrizione del suo aspetto e delle sue irregolarità. È da sottolineare come, in tutti i secoli successivi, non si sia cercato di ripetere e di migliorare il suo lavoro e di descrivere l’aspetto della Via Lattea, così come appare a occhi nudi. Le mappe stellari mostrano essenzialmente un aspetto indistinto, simile a un fiume

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uniforme dai bordi definiti. Probabilmente, il motivo sta nel fatto che ciò che rimane perennemente immutato non attrae l’attenzione. John Herschel fu il primo, mentre faceva osservazioni al Capo di Buona Speranza, nel 1834-38, a rimanere così fortemente colpito dalla visione non comune della parte meridionale della Via Lattea, non visibile in Europa, da essere indotto a farne uno schizzo. L’appello di Argelander agli astronomi non professionisti, che faceva della Via Lattea uno degli oggetti di studio, fu raccolto da Julius Schmidt ad Atene e da Eduard Heis a Müster. Quest’ultimo presentò un immagine della Via Lattea nel suo atlante del cielo nord, pubblicato nel 1882 e Gould incaricò i suoi assistenti, Thomé e Davies, di fare la stessa cosa per la parte sud della Via Lattea sulle mappe della Uranometria Argentina. In entrambi i casi l’immagine della Via Lattea compariva come un accessorio su mappe dove le stelle erano i principali oggetti di studio, come appare anche dalla mancanza di dettagli accurati. Solo in due pubblicazioni della fine del diciannovesimo secolo, dedicate esclusivamente alla Via Lattea, vennero mostrati più dettagli. La prima, del 1892, di O. Boeddicker, assistente di Lord Rosse a Parsonstown, in Irlanda, l’altra, del 1893, di C. Easton, un amatore olandese di Dordrecht. Sebbene presentassero differenze sostanziali nel modo di concepire i dettagli, queste immagini, così come altre successive, erano in accordo tra loro nel mostrare quanto fosse intricata. Dove un’osservazione superficiale mostrava solo un’ampia fascia luminosa, attenti studi rivelavano, invece, una sequenza di nubi e macchie irregolari connesse da zone luminose di varie intensità, separate da divisioni e interruzioni scure e mescolate con queste. Tuttavia, vi era un’evidente regolarità nel suo aspetto generale, in quanto da una parte del cielo appariva di gran lunga più brillante che dalla parte opposta. Le regioni luminose più brillanti si vedono nel Sagittario, a una longitudine galattica di 330° (riconoscibile dall’intersezione con l’equatore nell’Aquila). In entrambi i lati la luminosità diminuisce,

sebbene risalga ancora a massimi secondari nel Cigno (a 40°) e nella Nave (a 260°), mentre nel Perseo (a 120°) è visibile solo un debole luccichio.

Dopo questo difficile lavoro visuale

l’applicazione della fotografia fu una rivelazione (Tavola 21). Nel 1869, numerosi astronomi — H.C. Russel a Sydney, Max Wolf a Heidelberg e E.E. Barnard al Lick — iniziarono a fotografare la Via Lattea, come si faceva per le comete, con sistemi ottici di grande apertura angolare, essenzialmente F = 1:5, così da avere una grande brillanza superficiale. Dopo circa 3 ore di esposizione apparivano sulle lastre le grandi nubi luminose della Via Lattea con tale intensità e ricchezza di dettagli che non si sarebbero mai potute notare a occhio nudo. Nel 1891, Max Wolf pubblicò delle splendide immagini di una nube luminosa vicino a Deneb, nel Cigno, che per il suo aspetto venne chiamata Nebulosa America. Barnard usò strumenti sempre migliori, fino a quando, grazie ad un finanziamento di Miss Catherine Bruce, riuscì ad ottenere un doppietto da 10 pollici, F = 1:5, che utilizzò per fotografare tutte le zone della Via Lattea visibili dagli Stati Uniti. Queste foto furono riprodotte in un atlante pubblicato solo nel 1927, dopo la sua morte. Ancora più accurato era l’atlante della Via Lattea di Frank Ross, esperto costruttore di sistemi ottici, che ne realizzò uno con più di 20° di

Tav. 21. La regione del Cigno nella Via Lattea.

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campo, dove le immagini stellari apparivano corrette fino ai bordi. C’è da rammaricarsi per la mancanza di completezza di questo atlante, che omette la maggior parte della regione sud, tra 240° e 300° di longitudine.

Ciò che tutte queste fotografie rivelavano era, prima di tutto, che la vera Via Lattea —nubi e strisce luminose — era costituita da centinaia di migliaia di stelle molto deboli, dalla tredicesima, quattordicesima e quindicesima magnitudine in giù, poste a grandi distanze, tra 100 e 10.000pc, laddove il sistema stellare di Kapteyn svaniva nelle regioni esterne sempre meno popolate. Le piccole densità calcolate per il suo universo schematizzato erano dovute a ingannevoli medie tra grandi spazi quasi vuoti e regioni ristrette di grande densità. In quegli spazi esterni apparivano vasti raggruppamenti di stelle, simili o addirittura più grandi della regione centrale fino a 500pc del sistema di Kapteyn, raggruppamenti ora chiamati ‘sistema locale’. Si capisce, quindi, come nel 1869 Proctor abbia immaginato la Via Lattea come un sinuoso anello che circonda a grande distanza la nostra regione solare. In una serie di studi eseguiti tra il 1894 e il 1900, Easton la trasformò in una struttura a spirale, con il nucleo posto nella grande nube del Cigno, tra β e γ Cygni, e il Sole situato in un braccio della spirale.

Il secondo fenomeno notevole mostrato dalle fotografie della Via Lattea e che dava loro un aspetto decisamente pittoresco erano le regioni scure, spazi vuoti, quasi senza stelle e talora nettamente definiti. Questi si presentavano in tutte le dimensioni, dalle più grandi alle più piccole, e nelle forme più strane, come macchie, canali e fasce, intercalate alle grandi stelle brillanti. Fu Barnard ad occuparsene, il quale nel 1919 pubblicò un catalogo di 182 oggetti scuri, successivamente aumentati a 352, in quanto si trattava di nubi scure o strutture di materia assorbente che oscurava la luce delle stelle che si trovavano dietro di esse. I più grandi erano già conosciuti dalle osservazioni visuali: il famoso Sacco di Carbone, vicino alla Croce del Sud, alcune macchie scure nel Cigno e una regione quasi nera, priva di stelle, a sud di θ Ophiuchi. In precedenza,

questi erano stati considerati come spazi vuoti, che interrompevano gli spazi pieni di stelle e che separavano le singole nubi stellari, proprio come il grande squarcio scuro che separa i due bracci della Via Lattea dal Centauro al Cigno. Ma le piccole macchie scure sulle fotografie non riuscirono ad essere spiegate in questo modo.

Regioni con poche stelle vennero trovate anche al di fuori della Via Lattea e ai suoi confini. Sull’atlante di Schönfeld della Southern Bonner Durchmusterung appariva una vasta zona irregolare di Ofiuco con una grande carenza di stelle. Sulle mappe di Franklin Adams si vedevano numerosi vuoti irregolari nella regione del Toro. Dyson e Melotte pubblicarono a Greenwich, nel 1917, un disegno di queste regioni, sostenendo che le nuvole scure che provocavano la mancanza di stelle visibili non erano più lontane di 100-200pc, risultato poi confermato da successive osservazioni di altri astronomi. Per gli spazi scuri più piccoli tra le nubi galattiche si trovarono distanze di 400-500pc. E così queste nebulose scure possono essere confrontate con nuvole e fili di fumo o di polvere con le dimensioni di un mondo, che ci circondano a grandi distanze e ci impediscono la vista delle lontane stelle galattiche, che possono mostrare il loro splendore solo attraverso gli interstizi.

Collegati alla Via Lattea vi sono i vari tipi di nebulose e di ammassi di stelle. Tralasciando le nubi gassose, già discusse nel Capitolo 40, e le due Nubi di Magellano, che appaiono come piccoli frammenti staccatisi dalla Via Lattea, rimangono tre tipi di oggetti, tutti composti di stelle, come mostra il loro spettro continuo. Delle 5000 nebulose descritte nel 1864 da John Herschel nel General Catalogue, numero portato a 13.000 da Dreyer nel 1888 con il New General Catalogue (NGC), la maggior parte consisteva di cosiddette ‘nebulose non risolte’, nelle quali, cioè, le stelle singole non riuscivano ad essere osservate neanche con i più grandi telescopi. Queste mostravano spesso una struttura a spirale, scoperta per primo da Lord Rosse, così che l’intera classe veniva designata con il

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termine di ‘nebulose a spirale’. Si trovò che si accumulavano intorno al polo galattico, nella costellazione della Coma e nelle sue vicinanze, dove risiedevano in una sorta di antagonismo con le stelle. Un secondo tipo comprendeva un centinaio di quelli che erano chiamati ‘ammassi globulari’, le regioni più esterne dei quali erano mostrate da buoni telescopi essere affollate da numerosissime piccole stelle, le quali, fortemente addensate nella parte centrale, formavano una massa luminosa non risolubile in stelle. Questi erano tutti situati in una parte del cielo, nell’emisfero che aveva come centro il Sagittario. Infine, il terzo tipo erano i cosiddetti ‘ammassi aperti’, gruppi di stelle spesso irregolari e apparentemente slegati, concentrati soprattutto nella Via Lattea, di grandezza variabile: dai grandi ammassi, come le Pleiadi o il Presepe nel Granchio, scendendo in dimensioni e luminosità fino ai piccoli gruppi di stelle. Naturalmente, gli ammassi aperti sono più vicini, le spirali più remote.

Quando nel 1930 Trumpler, al Lick Observatory, studiò gli ammassi aperti e gli spettri delle singole stelle, per derivarne la distanza, trovò che le relazioni rilevate tra le magnitudini delle stelle e le dimensioni degli ammassi potevano essere spiegate solo supponendo un assorbimento generale nello spazio, che agiva diminuendo la luminosità delle stelle, ma non le dimensioni dell’ammasso. Il suo risultato fu confermato da Van de Kamp, allo Sproul Observatory, e da altri con lo studio dell’arrossamento di stelle distanti. Si sa, infatti, che piccole particelle di polvere e gas diffondono la luce maggiormente a corte lunghezze d’onda, da cui deriva il colore azzurro del cielo di giorno e l’arrossamento delle stelle distanti, che appaiono più rosse del loro tipo spettrale. Un tale assorbimento generale nelle regioni galattiche piene di stelle poteva spiegare l’apparente accumulo di nebulose a spirale verso i poli galattici. Delle fotografie riprese da Hubble a Mount Wilson mostrarono decine di migliaia di minute nebulose al di fuori della galassia, tra le immagini delle stelle; nebulose che erano del tutto perse nella Via Lattea, in quanto la loro

luce veniva estinta dalla materia assorbente che si estendeva irregolarmente nelle regioni centrali della galassia. Probabilmente, le nebulose scure separate, ricordate prima — tra le quali le estese nebulose assorbenti nel Toro e in Ofiuco — non erano nient’altro se non le zone più vicine e più dense di quella materia, in grado di assorbire, che occupava tutto lo spazio tra le stelle.

Così, il sistema galattico apparve essere composto non solo da milioni di stelle ma anche da materiale assorbente che occupava lo spazio tra le stelle. Lo studio di questo materiale, la natura e la grandezza delle singole particelle solide di cui consisteva, fu un importante campo di ricerca astrofisica. Ma questa non è l’unica materia che riempie lo spazio. Nel 1904, Hartmann scoprì che nello spettro di δ Orionis, che mostrava una velocità radiale fortemente variabile, la riga K del calcio ionizzato non si muoveva, il che dimostrava come non fosse prodotta nell’atmosfera stellare, ma nello spazio esterno. Anche altre stelle mostravano lo stesso fenomeno, suggerendo l’ipotesi che atomi di calcio ionizzato vagassero liberamente attraverso lo spazio interstellare come gas estremamente rarefatto. In seguito, dal 1919 in poi, vennero osservati altri atomi, p.e. sodio e titanio ionizzato. Questi gas rarefatti non mostravano la distribuzione irregolare delle particelle solide assorbenti, bensì le loro piccole velocità radiali indicavano la presenza di correnti nello spazio.

Dobbiamo ora ritornare ai moti stellari. Quando Kapteyn iniziò i suoi studi sui sistemi stellari, non intendeva basarli sulle magnitudini, ma sui moti propri, perché le velocità variavano poco rispetto alle luminosità, e così aveva cercato di stabilire una legge non di luminosità ma di velocità. Ma i moti propri si presentavano refrattari, non inserendosi nel suo schema di formule, per cui iniziò a seguire un’altra strada. Per molti anni lavorò sull’andamento singolare di questi moti propri, fino a quando non riuscì a trovare una soluzione, che presentò per la prima volta nel 1904 al meeting astronomico di St Louis, Missouri, e poi nel

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1905 al meeting della British Association: la teoria delle due correnti stellari.

Se le velocità di tutte le stelle sono

rappresentate da frecce che partono da un’origine, i punti di queste frecce formano il diagramma di velocità e si trovò che la densità di questi punti, che indicano la frequenza delle velocità, decresceva dal centro verso l’esterno. Come conseguenza del moto solare nello spazio, queste velocità dovevano mostrare una direzione preferenziale dei loro moti propri, puntando verso l’antiapice. Kapteyn trovò che in ogni regioni i moti propri mostravano due direzioni preferenziali, puntando verso due punti differenti, che egli chiamò ‘vertici’ apparenti e che si poteva pensare fossero prodotti da una combinazione del moto solare verso l’apice e del moto delle due parti della totalità di stelle relativamente al loro comune centro di gravità. Quest’ultimo, quindi, doveva trovarsi nella direzione opposta, verso i veri vertici opposti l’uno all’altro, trovati a 91°, +13° e a 271°, +13°. Queste erano all’incirca le direzioni trovate da Kobolt per mezzo del metodo di Bessel. I risultati di Kapteyn furono confermati nel 1907 da una ricerca più estesa svolta da Eddington, i cui diagrammi di distribuzione di velocità, a causa della loro forma curiosa, furono ricordati come “i conigli di Eddington”. Contemporaneamente, con un’accurata analisi teorica, Schwarzschild aveva mostrato che il fenomeno poteva essere descritto abbastanza bene anche in un

altro modo, per esempio come una distribuzione ellissoidale delle velocità nella regione esaminata. Le superfici di uguale densità in questo diagramma, secondo la teoria di Schwarzschild, non erano sfere ma ellissoidi, allungate nelle direzioni dei vertici veri, che è la direzione delle velocità più frequente. Naturalmente, apparve da ricerche successive di altri astronomi che il fenomeno è molto più complicato: vi erano diversi gruppi di stelle che mostravano particolari moti delle correnti. Ma il fenomeno principale era oramai accertato; era stata trovata una regolarità nei moti propri e ora occorreva trovarne una spiegazione. Kapteyn suppose che il sistema galattico era un miscuglio di due tipi di stelle che ruotavano in direzioni opposte, così che la sua forma appiattita poteva essere spiegata senza introdurre la rotazione dell’intero sistema. In realtà, si sarebbe trovato successivamente che la spiegazione corretta era abbastanza differente.

Non tutti i calcoli del moto solare portavano allo stesso apice a 270°, +30°, situato piuttosto a nord del circolo galattico, posto a 23° di longitudine. Se certi gruppi di stelle avessero avuto un moto particolare rispetto al sistema principale, il moto solare calcolato da quei gruppi sarebbe risultato differente. Nel 1896, Stumpe aveva derivato il moto solare da gruppi di stelle separati per moto e magnitudine, trovando l’apice più spostato verso maggiori longitudini galattiche, tanto di più quanto più piccole e più lente erano le stelle — e quindi, probabilmente, quanto più lontane — fino a 60° di longitudine galattica per le più distanti. Per gli oggetti più lontani con moti propri impercettibili, potevano essere misurate e, quindi, utilizzate solo le velocità radiali. Nel 1923-24, G. Strömberg, a Mount Wilson, affrontò questi punti e derivò il moto e le velocità di differenti tipi e gruppi di oggetti relativamente al Sole. Per i più remoti ammassi globulari, come per le nebulose a spirale, per le quali Slipher al Lowell Observatory aveva misurato numerose velocità radiali, Strömberg trovò che mostravano una velocità comune di 300km/s verso un punto situato a 250° di

Fig. 36.

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longitudine, un po’ a sud del circolo galattico. Per dirlo in un altro modo, rispetto a questi oggetti distanti, il Sole si muove con questa enorme velocità verso un altro apice, posto a 70° di longitudine galattica. Questo moto è in comune con le altre stelle che lo circondano, rispetto alle quali ha una velocità di appena 20km/s. Un altro fenomeno curioso era presentato da numerose racer star [stelle corridori], che mostravano velocità abnormi, sopra i 60km/s e anche fino a 100 o 200 km/s, e che si muovevano tutte verso un’unica direzione del cielo, centrata circa a 234° di longitudine, mentre nessuna si muoveva nella direzione opposta. Se si fosse adottato il sistema degli ammassi lontani e delle nebulose come punto zero stazionario dell’universo, questi apparenti corridori sarebbero stati i punti immobili nel sistema dei compagni del Sole in rapido movimento.

Le stelle di tipo spettrale B, che sono quasi tutte situate nella Via Lattea, non mostravano le due correnti, bensì, presentavano un altro fenomeno, chiamato ‘effetto K’, cioè un eccessivo allargamento di tutte le lunghezze d’onda. Solo più tardi, si dimostrò che questo era un effetto relativistico, dovuto all’intenso campo gravitazionale superficiale originato dalla grande massa delle stelle. Nel 1922, Freundlich e Von der Palen, all’Einstein Institute di Potsdam, trovarono che, sovrapposto a questo effetto K, le velocità radiali presentavano una variazione periodica con la longitudine galattica, un massimo di recessione a 0° e 180° di longitudine e un minimo (cioè un avvicinamento) a 90° e 270°. Altre stelle con piccoli moti propri, quindi probabilmente poste a grande distanza, mostravano le stesse fluttuazioni. Più tardi, nel 1927, J.H. Oort, a Leida, partendo dagli studi teorici di Linblad sulla rotazione dei sistemi stellari, dedusse che nel caso della rotazione di un intero sistema galattico intorno al centro posto nel Sagittario, dove erano situate le più dense nubi stellari, doveva presentarsi proprio un simile periodico alternarsi di velocità radiali positive e negative. Se il Sole e le stelle circostanti descrivono orbite circolari

intorno a questo centro di attrazione, come i pianeti fanno con il Sole, allora le stelle più vicine al centro avranno una velocità più elevata rispetto al Sole, mentre quelle più lontane dal centro più bassa. Nel primo caso, le stelle che stanno davanti si stanno allontanando dal Sole, quelle che stanno dietro lo stanno raggiungendo; nel secondo caso, invece, che stanno davanti sono raggiunte dal Sole, quelle dietro se ne allontanano. Così, come mostrato in fig. 37, esse presenteranno velocità radiali alternate con la loro posizione relativa al Sole e in aumento con la distanza dal Sole. Considerando la velocità di 300km/s verso la longitudine di 70° — quasi perpendicolare alla direzione della nubi stellari nel Sagittario a 330° di longitudine — come la velocità orbitale del Sole e delle stelle circostanti, avremo che le stelle tra circa 0° e 180° di longitudine si allontanano dal Sole, mentre quelle a circa 90° e 270° si avvicinano, entrambi le situazioni percepibili solo a una distanza di qualche centinaio di parsec.

In questo modo si poté dimostrare che il

sistema galattico era un sistema in rotazione. Oort espresse la sua teoria più in dettaglio, trovando il centro galattico a una distanza di circa 6000pc, con un centro di attrazione equivalente a 60 miliardi di masse solari e un tempo di 140 milioni di anni per una completa rivoluzione del Sole. Inoltre, Oort dimostrò che quando le stelle vicino al Sole avevano dei moti che per caso si allontanavano da un cerchio esatto, le loro velocità rispetto al Sole dovevano mostrare una direzione preferenziale verso il centro. Il fatto che quest’ultimo deviasse di soli 20° dalla direzione preferenziale derivata da

Fig. 37.

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Schwarzschild (il vertice di Kapteyn) era la spiegazione, pur se con qualche piccola irregolarità, delle correnti stellari. Limblad, poi, calcolò una distanza dal centro di 9400pc ed un periodo di rivoluzione del Sole di 200 milioni di anni. Infine, J.S. Plaskett e J.A. Pearce, al Victoria Observatory, trovarono, dai loro spettri di stelle B, che anche il gas interstellare partecipa alla rotazione.

Le caratteristiche principali del sistema stellare a cui appartiene il nostro Sole, la sua forma e le sue condizioni di moto furono, così, definite in modo sostanzialmente differente da quanto era stato ricavato dai lavori pionieristici di Kapteyn. Noi dovremmo chiamare tutto ciò ‘sistema galattico’: quegli splendenti aspetti che vediamo nelle bande luminescenti della Via Lattea e quelle nuvole di stelle brillanti che appaiono sulle fotografie sono dovute a migliaia di milioni di stelle di questo sistema. Ma, in parte coperte e oscurate da gigantesche regioni scure di materia assorbente, le dense masse centrali sono visibili solo in piccole parti nelle brillanti nubi galattiche nel Sagittario. Il nostro Sole non è situato nel centro, ma si trova molto lontano da esso, da qualche parte nelle regioni esterne — come nel caso della

rivoluzione copernicana, ecco un’altro duro colpo alla superbia dell’uomo quale centro del mondo — così che, guardando verso l’esterno, possiamo vedere solo il debole scintillio galattico nel Perseo. Se ci fosse solo una condensazione locale nelle vicinanze del Sole o se il ‘sistema locale’ fosse una mera impressione prodotta dalla materia assorbente, rimaneva ancora indefinito.

La definizione del sistema galattico non era la fine, bensì l’inizio di una nuova ricerca, ponendo a questa dei chiari obiettivi. Come erano stati necessari molti secoli per comprendere il contenuto la struttura, i dettagli, le caratteristiche del Sistema solare e le leggi che lo governano, lo stesso avveniva adesso per il sistema delle stelle. Si erano raccolti molti dati osservativi e si erano ottenuti molti risultati sulla distribuzione e i moti di classi particolari di stelle, quali, ad esempio, le stelle B, il loro raggrupparsi quasi a cornice del sistema, le cefeidi, le stelle ‘c’ e le nebulose. La spiegazione di tutti i problemi di struttura presentati dal sistema delle stelle e dalle nubi scure, come la loro origine e la loro evoluzione, costituiva un programma enorme per le future ricerche.

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CAPITOLO 42

NELLO SPAZIO INFINITO Il nostro Sistema solare, così grande rispetto alla Terra e ancora più grande rispetto al nostro ambiente vitale e a noi stessi, era ora inserito, come una piccola particella, in un più grande sistema galattico, milioni di volte più esteso e composto da miliardi di milioni di soli, la cui estensione e la cui dinamica erano appena state comprese. Ma il sistema galattico non è l’intero universo. Cosa si trova al di fuori di esso? Con questa domanda entriamo adesso in un nuovo campo, una terza piattaforma nell’indagine dello spazio cosmico.

Qui ci troviamo di fronte ad altri problemi rispetto a quelli trattati nei capitoli precedenti e la storia, in questo caso, è solo un preambolo al futuro. Quanto era stato scoperto, non nell’Ottocento, ma nella prima parte del Novecento, costituiva solo una prima rassegna, una strada appena aperta, un’occhiata superficiale ai problemi di fronte ai quali si trovavano gli scienziati. Quello di cui ora ci occuperemo non è tanto una retrospettiva sul passato, quanto uno sguardo verso il futuro.

Abbiamo già imparato a conoscere alcuni oggetti al di fuori del sistema galattico: gli ammassi globulari, le nebulose non risolte (spesso a spirale), le Nubi di Magellano. Gli ammassi globulari occupano un emisfero, con centro nel Sagittario. L’esemplare più brillante, visibile nell’emisfero sud, è un piccolo disco nebuloso, con una luminosità pari a quella di una stella di 14a magnitudine e chiamata ω Centauri. Nell’emisfero nord se ne possono vedere altri più piccoli, appena visibili a occhio nudo come una stella di 16a magnitudine, designati con i numeri del catalogo di Messier M13 e M92 in Ercole e M5 nel Serpente. La Piccola e la Grande Nube di Magellano, vicino al Polo sud, sembrano dei pezzetti staccatisi dalla Via Lattea, a 33° e 44° di longitudine galattica. John Herschel, al Cape

Observatory, scoprì che consistevano di un denso agglomerato di stelle, ammassi, gas e altre nebulosità, tutti oggetti che egli catalogò.

Nel 1895, Bailey, studiando all’Harvard Observatory numerose fotografie degli ammassi globulari M3, M5 e ω Centauri, scoprì nelle loro parti esterne un grande numero di stelle variabili. Altre ne furono trovate, in seguito, in una trentina di altri ammassi. La maggior parte di queste stelle variabili mostravano un periodo di circa mezza giornata, pur se erano presenti anche periodi di più giorni. Si vide che tutte queste variabili appartenevano alla classe delle cefeidi e, grazie ad un grande numero di lastre, se ne determinarono i periodi e le curve di luce. Successivamente, vennero trovate altre variabili anche nella Piccola Nube di Magellano e, nel 1912 ad Harvard, Miss Leavitt scoprì una esatta relazione tra il periodo delle cefeidi e la loro luminosità media (dalla media tra le magnitudini al massimo e al minimo). Quanto più erano luminose, tanto più lente erano le loro pulsazioni. Per un periodo di due giorni la magnitudine media era 15,5; per 5 giorni era 14,8; per 10 giorni era 14,1; per 100 giorni era 12,0. Poiché la differenza tra la magnitudine apparente e quella assoluta è la stessa per tutte le stelle di un ammasso, quel risultato stava a significare che generalmente il periodo delle cefeidi variava regolarmente con la luminosità. Questa relazione non poteva essere trovata dalle cefeidi del nostro sistema galattico, perché queste erano situate a distanze diverse e sconosciute. Assumendo che questa legge fosse valida in generale per tutte le cefeidi, Hertzsprung, nel 1913, fu in grado di definire la scala delle loro luminosità. Dai piccoli moti propri di 13 cefeidi galattiche, tra la seconda e la sesta magnitudine, ridotte a uguale distanza, derivò il loro moto parallattico e da questo le

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loro parallassi e luminosità medie. Così, trovò che a una magnitudine assoluta media di -2,3 corrispondeva a un periodo di 6,6 giorni. Per stelle con questo periodo, Miss Leavitt dette una magnitudine fotografica, nella Piccola Nube, di 14,5, corrispondente alla 13a visuale: ne derivava che le magnitudini apparenti erano 15,3 volte più deboli delle magnitudini assolute, il che stava a significare che la distanza della Piccola Nube di Magellano era di 11.000pc. In seguito, si scoprì che la scala delle magnitudini per le deboli stelle meridionali era notevolmente errata e una ripetizione del calcoli, eseguita nel 1918 da Shapley, con dati migliori, portò la distanza a 29.000pc, maggiore delle dimensioni del nostro sistema galattico.

In questo modo, le variabili cefeidi fornirono la grandezza campione con la quale misurare le distanze nello spazio celeste. Stelle ‘faro’ erano state chiamate da Jeans, per il loro periodico illuminarsi; ora, invece, questi fari guidavano gli astronomi nelle profondità dell’universo. Shapley le utilizzò per primo nello studio degli ammassi globulari, eseguito con le fotografie che aveva ripreso dal 1916-17 con il 60 pollici [c. 152cm] di Mount Wilson. Misurò le magnitudini fotografiche e fotovisuali delle stelle più brillanti e delle variabili in alcuni ammassi e dalle variabili ricavò le distanze. Trovò che le stelle più brillanti erano rosse e di 1 magnitudine e mezzo più brillanti di numerose cefeidi con periodo di 0,5 giorni: si trattava, quindi, di supergiganti. Inoltre, Shapley trovò che più piccolo era l’ammasso, tanto più deboli erano le stelle e più debole era anche la sua luminosità totale, come aveva già notato Holetschek a Vienna. Questo indicava che tutti gli ammassi globulari avevano la stessa origine e che i loro differenti aspetti erano dovuti alle diverse distanze. Distanze che ora poterono essere calcolate per tutti gli 86 ammassi globulari: per quelli più luminosi e più vicini dalle cefeidi, per quelli più piccoli dal diametro apparente e dalla luminosità totale. Il più vicino è il brillante ω Centauri, a una distanza di 6500pc, il più remoto è un ammasso di magnitudine 9,7, a 67.000pc.

Tutti occupavano una grande regione di spazio, con il centro a 20.000pc, verso il Sagittario, a 325° di longitudine, ma erano assenti nel piano centrale della galassia, evidentemente oscurati dal forte assorbimento di questo piano. Sebbene fossero posti al di fuori del sistema stellare galattico, Shapley riteneva che appartenessero a questo sistema, quasi attorniandolo. Il suo lavoro fu la prima chiara indicazione che il sistema galattico si estendeva in direzione del Sagittario molto più lontano di quanto prima si pensava. Nel 1921, stimò le dimensioni complessive del sistema pari a circa 100.000pc, molto di più di quanto indicato dal risultato di Cort che poneva il centro a 6000pc. Queste dimensioni erano decisamente troppo grandi, forse perché non era stata considerata l’attenuazione della luminosità degli ammassi più lontani dovuta all’assorbimento. Le due Nubi di Magellano, poste a 26.000 e 29.000pc e con diametri di 4000 e 2000pc, costituivano due specie di satelliti del sistema galattico.

Il problema successivo fu di scoprire dove erano situate le nebulose non risolte, se al di fuori o al di dentro del sistema galattico. Le opinioni prevalenti possono essere tratte da una discussione che ebbe luogo nel 1921, tra Harlow Shapley e Heber D Curtis, su The Scale of the Universe. [discussione meglio nota come The Great Debate] Curtis sosteneva che si trattasse di una sorta di ‘universo-isola’, cioè sistemi stellari isolati, posti all’esterno del nostro sistema galattico e confrontabili in dimensione con questo, che stimava non più grande di 10.000pc. Inoltre, criticava l’esatta relazione periodo-luminosità di Shapley adottata per le cefeidi e le distanze che da essa venivano derivate, ma su quest’ultimo punto, tuttavia, non aveva ragione. Shapley, d’altra parte, puntando verso l’addensamento delle spirali verso i poli galattici, non le riteneva galassie lontane, bensì appartenenti al nostro sistema galattico, considerato come un ‘universo continente’. Il fatto che, nonostante lo spettro risultasse continuo, non si vedessero stelle in queste nebulose non troppo distanti era dovuto, secondo lui, alla materia delle

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nebulose fortemente dispersa al loro interno. Avanzava, quindi, l’ipotesi che le ‘spirali’ non fossero composte da stelle comuni, ma che si trattasse di veri e propri ‘oggetti nebulosi’.[213] Il suo argomento principale — il loro addensamento verso i poli e l’assenza nella Via Lattea — perse, tuttavia, la sua validità quando ci si rese conto che era solo un effetto dovuto all’assorbimento sul piano galattico.

Il numero di queste nebulose era andato gradatamente aumentando. La ricerca fotografica di Max Wolf e Palisa (allo scopo di trovare dei nuovi pianetini) ne aggiunse molte migliaia alle 13.000 del New General Catalogue di Dreyer del 1888; le mappe di Franklin Adams e le lastre di Harvard ne incrementarono ulteriormente il numero, con oggetti sempre più piccoli. Ma erano oggetti realmente piccoli o le loro dimensioni erano dovute alla distanza? Quest’ultima ipotesi divenne a poco a poco quella dominante. Quegli oggetti, però, non erano fatti tutti nello stesso modo. Tra i molti aspetti, rotondi o appiattiti, molte nebulose mostravano una distribuzione di luminosità piatta, decrescente verso i bordi, altre, come le spirali, mostravano grandi bracci a spirale che partivano da un piccolo nucleo oppure sottili spire serrate attorno a un ampio corpo e potevano essere viste nella loro forma reale quando erano osservate frontalmente, come le splendide M33 nel Triangolo e M99 nei Cani da caccia . Altre, viste obliquamente, apparivano fortemente schiacciate, come la più grande di queste, la nebulosa di Andromeda M31, i cui bracci a spirale vennero visti per la prima volta su delle foto prese nel 1890 da Isaac Roberts (Tavola 22).

Nel 1885, una nuova stella, una nova, apparve nella regione luminosa centrale della nebulosa di Andromeda. Era sì possibile che, per pura coincidenza, una nova comune fosse apparsa proprio di fronte alla nebulosa, nello stesso campo di vista, ma si pensò che una connessione con la nebulosa stessa non fosse da escludere. Negli anni seguenti, quando vennero riprese delle fotografie a grande scala delle sue regioni esterne, si trovarono numerose stelle

che comparivano improvvisamente e dopo poco diminuivano lentamente di luminosità sino a scomparire, proprio come fanno le novae comuni. La loro massima luminosità, tuttavia, era sempre tra la quindicesima o la diciottesima magnitudine e, quindi, se si trattava di novae, la nebulosa doveva essere molto lontana. Negli anni dal 1919 al 1926, Hubble fece un grande numero di lunghe esposizioni con i telescopi da 60 e 100 pollici del Mount Wilson, in particolare delle regioni esterne e dei bracci sia della nebulosa di Andromeda che di M33. Finalmente, grazie a queste foto la nebulosità venne risolta in un gran numero di piccole stelle. Esami accurati rivelarono, oltre a 67 novae in Andromeda, anche circa 40 variabili cefeidi in entrambe le nebulose, con un periodo compreso tra 10 e 80 giorni e con magnitudini di 18-19 al massimo sotto al limite di visibilità sulle lastre al minimo, il che spiega anche l’assenza di cefeidi a corto periodo. I massimi di lungo periodo, comunque, furono sufficienti per calcolare la distanza. Un confronto con la Piccola Nube di Magellano mostrò come M33 fosse nove volte più lontana, quindi a una distanza di 260.000pc, e la nebulosa di Andromeda a 275.000pc. Il diametro della prima risultò, quindi, pari a circa 5000pc, della seconda, invece, circa 14.000pc.

Si riuscì, così, a stabilire che a una

distanza di alcune centinaia di migliaia di parsec si trovavano altri sistemi stellari del tutto simili al nostro sistema galattico:

Tav. 22. La nebulosa di Andromeda, M31. In alto a sinistra: disegno di Kaiser. In alto a destra: foto di L. Roberts. In basso a sinistra: foto di Mount Wilson dell’estrema regione sud-ovest. A destra: foto del 1901 di Ritchey e Pease.

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dunque, altri sistemi galattici che apparivano come nebulose a spirale occupavano i lontani spazi intorno a noi. Quanto lontani? Non vi è alcuna ragione per supporre che solo le regioni di cielo a noi più vicine debbano essere favorite e, inoltre, nei cataloghi si trovano numerose nebulose più piccole. A distanza 10 volte maggiore esse devono apparire 10 volte più piccole e 5 magnitudini più deboli; quindi, le nebulose sotto la decima o l’undicesima magnitudine devono occupare lo spazio fino a 3 milioni di parsec.

E queste erano solo le più luminose. Ora che le nebulose erano divenute oggetto di studio, ne venne intrapresa una ricerca sistematica. Negli anni precedenti, Pickering aveva ripreso delle lastre a grande campo con lunghi tempi di esposizione. Shapley, suo successore all’Harvard Observatory dal 1921, le fece esaminare accuratamente da Miss Ames, allo scopo di scoprire e catalogare tutte le più piccole nebulose appena distinguibili dalle stelle dalla 13a alla 16a magnitudine. Le migliaia e decine di migliaia di oggetti trovati mostrarono che quei lontani sistemi galattici riempivano le profondità dello spazio a distanze di 20, 30, sino a 50 milioni di parsec. Abbiamo già ricordato la ricerca sistematica svolta da Hubble a Mount Wilson, che comprendeva circa 60.000 delle nebulose più piccole.

Lo spazio esplorato dagli astronomi crebbe, così, immensamente e il numero di sistemi galattici poté essere stimato in centinaia di migliaia. «Una galassia di galassie» affermò Shapley. Non si distribuivano uniformemente o a caso, ma la maggior parte si condensava in gruppi o agglomerati. La condensazione nel polo galattico di spirali vicine abbastanza brillanti aveva già suscitato interesse nel diciannovesimo secolo; ora apparivano gruppi più deboli in differenti regioni del cielo e all’interno di ogni gruppo vi erano differenze in dimensioni. Shapley stimo che la nostra galassia fosse una delle più grandi. Per questi gruppi fu possibile ricavare una ‘funzione di luminosità’, che venne poi usata per derivarne la distanza. Evidentemente, anche in questo grande universo c’è un

qualche tipo di struttura. Nacque ora una nuova domanda: possiamo procedere infinitamente per questa strada? Nello spazio infinito, 50 milioni di parsec non hanno più senso di 1 parsec o di 1 centimetro. Ma lo spazio è infinito? Sin dai tempi delle speculazioni di Gauss sugli assiomi della geometria, agli inizi dell’Ottocento, e delle discussioni di Riemann sugli spazi non euclidei, a metà dello stesso secolo, molti scienziati hanno ritenuto che non possiamo essere certi dell’assoluta validità della geometria euclidea per il nostro universo. Ci potrebbe essere una piccola deviazione verso una geometria di Riemann, in cui due rette parallele si intercettino a grande distanza, la somma totale degli angoli in un triangolo sia maggiore di 180° e lo spazio, seppur illimitato, non sia infinito. In analogia al caso delle due dimensioni, in cui il piano è sostituito da una superficie sferica, venne introdotto il termine ‘curvatura dello spazio’; se questa è piccola, le deviazioni da uno spazio euclideo sono percepibili solo a grandi distanze. Il nostro sistema galattico è troppo piccolo per poter mostrare una qualche deviazione, mentre nel sistema di galassie, migliaia di volte più grande, potrebbero trovarsi, al riguardo, delle indicazioni nella distribuzione apparente, per esempio in una diminuzione del loro numero nelle classi più deboli.

Tuttavia, in attesa di nuove e inaspettate scoperte, la trattazione di queste questioni fu abbandonata o, piuttosto, venne inclusa in nuovi e più ampi problemi. Abbiamo parlato, in precedenza, di misure spettrografiche di velocità radiali degli ammassi globulari e delle spirali più luminose, da cui si era ottenuta la velocità orbitale del Sole di 300km/s. Erano rimaste escluse le velocità peculiari di alcuni oggetti singoli, che presentavano deviazioni di centinaia di chilometri. Slipher e Pease, a Mount Wilson nel 1916-17, misurarono le velocità radiali di un gran numero delle nebulose più deboli, per aumentare il campione su cui poter lavorare. Nel 1919, Shapley si rese conto che quelle velocità

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peculiari erano tutte positive e da questo suppose che tutte quelle nebulose si stavano allontanando da noi. Nel 1929, Hubble dimostrò che le velocità di allontanamento aumentavano regolarmente con la distanza dell’oggetto (Tavola 23). Per dimostrare questa supposizione, era necessario fotografare gli spettri di galassie deboli, dalla 14a alla 18a magnitudine: tutta la luce raccolta dai 50 piedi quadrati del telescopio da 100 pollici di apertura venne raccolta in un piccolo spettro lungo appena ¼cm. Le uniche righe visibili in questo spettro continuo (composto essenzialmente da stelle del secondo tipo) erano il doppietto H e K del calcio ionizzato e, talora, il gruppo G e Hγ. Si trovavano troppo spostate verso il rosso rispetto alla loro lunghezza d’onda a riposo, decine e anche centinaia di Ångström, indicando velocità di allontanamento di decine di migliaia di chilometri al secondo. La più elevata velocità misurata, nel 1936, era di 42.000km/s per una galassia di magnitudine 17,9, la più brillante nell’Orsa, la cui distanza venne stimata pari a 72 milioni di parsec.[214]

La scoperta che le galassie lontane si stavano allontanando con velocità che aumentavano con la distanza — 500 o 600 km/s per Mpc — presentò uno fenomeno tanto strano e curioso da capovolgere tutte le precedenti concezioni di universo. Questo non voleva dire che la nostra galassia rimaneva immobile al centro dell’universo, ma che questo universo di galassie si stava espandendo uniformemente, in modo tale che tutti i suoi membri si stavano allontanando a vicenda. Poiché 500km/s corrispondono a 0,52pc per 1000 anni, il ritmo di espansione annua era pari a 1/2.000.000.000 della distanza attuale. Assumendo che ogni galassia avesse sempre mantenuto la sua velocità di allontanamento, questo voleva dire che due miliardi di anni fa tutte queste galassie erano ammucchiate insieme.

Ed ecco che, tutto a un tratto, ci si trova di fronte ad un’epoca del più remoto passato che mai avremmo potuto sospettare. Tutte le più o meno fantastiche teorie cosmogonie,

che compivano ardite estrapolazioni dai processi osservati, presupponevano che uno sviluppo abbastanza regolare potesse essere esteso indefinitamente nel passato, il che, tuttavia, provocava alcune difficoltà, del tipo di quelle che sorgono sempre quando, incautamente, ci avventuriamo a parlare di infinito. Adesso, come si diceva, ci si trovava, inaspettatamente, ad avere a che fare con una data iniziale, non precisamente relativa alla creazione, bensì relativa a un punto di partenza dell’evoluzione attuale, oltre il quale non era possibile guardare più indietro nel passato.

Questo, se è vero, è basato interamente

dall’assunzione che la velocità di ogni galassia sia stata sempre la stessa, in accordo con il fondamentale ‘principio di inerzia’ della meccanica, ma senza assoluta certezza. Inoltre, dobbiamo aggiungere che, per l’evoluzione delle singole stelle, era richiesto un tempo decisamente molto più lungo. Ora, comunque, l’attenzione venne diretta verso altri fenomeni che puntavano nella stessa direzione. La percentuale di materiale radioattivo in minerali e meteoriti,

Tav. 23. Velocità radiali delle galassie (da Hubble, “The Realm of the Nebulae”). Lo spostamento del doppietto H e K (le interruzioni nello spettro continuo indicate dalle frecce sopra lo spettro) determina la velocità di allontanamento (1 miglio = 1,6km; 1 anno-luce = 1/31/4 parsec).

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confrontata con la frequenza di decadimento conosciuta, indicavano una data di origine di qualche miliardo di anni fa. Si era supposto che gli ammassi aperti nel nostro sistema galattico si fossero sviluppati da concentrazioni più dense, che, a causa dell’attrazione di altre stelle, si erano gradatamente dissolte, in un tempo finito, stimato dello stesso ordine di grandezza. L’equipartizione dell’energia — il fatto, non ancora completamente compreso, che stelle con massa più elevata presentassero velocità più basse — poteva essere spiegata da mutue attrazioni di stelle solo se in tempi più remoti queste fossero state completamente raggruppate. Tutte queste considerazioni, anche se non fornivano una prova stringente, puntavano alla stessa conclusione: che il presente sviluppo fosse iniziato un paio di miliardi di anni fa, quando le galassie e, forse, anche le stelle erano molto più vicine l’una all’altra. Oppure, per dirlo in un altro modo: che un sistema, in origine unito, fosse stato costretto, da una sorta di esplosione, a frammentarsi e che da allora i frammenti con differenti velocità costanti avessero iniziato il loro viaggio verso l’infinito. E così, nella rappresentazione di un passato uniforme, che si offuscava lentamente con la distanza, apparve un’interruzione, un istante particolare, che aveva dato origine a dei contrasti e a delle strutture nella storia successiva. È vero che questa storia era piena di inconcepibili misteri, ma, nello stesso tempo, stimolava nuove ricerche.

La scoperta dell’allontanamento delle galassie fu seguita da profonde discussioni sullo spazio e sul tempo. La teoria della relatività generale di Einstein, formulata nel 1916, ridusse la gravità a curvature locali, prodotte dalla materia, nella struttura dello spazio tempo a quattro dimensioni. A causa della totalità di materia attraente, lo spazio doveva avere una curvatura positiva, cioè dimensioni finite. Le formule dedotte da Einstein e De Sitter mostravano che lo spazio non poteva essere in equilibrio stabile e, secondo le soluzioni teoriche avanzate nel 1927 dallo scienziato belga Lemaître, la curvatura doveva cambiare continuamente. Questi aspetti teorici, combinati con il

comportamento osservato delle galassie, portarono alla teoria dell’‘universo in espansione’. In questa concezione, gli elementi materiali dell’universo, le galassie, si stanno allontanando non a causa di un loro moto, ma perché lo spazio nel quale si trovano si sta espandendo; in uno spazio bidimensionale accadrebbe la stessa cosa per dei punti posti su un palloncino che si sta gonfiando.

Le grandi velocità delle galassie, da poco scoperte, trovavano, in questo modo, una spiegazione naturale o, piuttosto, una descrizione teorica più completa, in quanto effetto delle qualità dello spazio. Nel 1931, Eddington estese questa teoria e la collegò alla struttura atomica di materia. Fu, così, in grado di calcolare, con la sola teoria, il numero totale di elettroni e protoni nell’universo (1,3 x 1079 ognuno), la loro massa totale (1,08 x 1022M )e le velocità delle galassie (528km/s). Le intricate difficoltà connesse all’idea di un universo in espansione sollevarono più volte il problema se il redshift negli spettri delle galassie più lontane potesse o meno essere dovuto ad altre influenze subite dai raggi di luce nel loro viaggio di miliardi di anni. A partire dal 1932, Milne sviluppò, in una serie di lavori, una differente teoria cosmologica, nella quale la nostra libertà di scegliere la misura di tempo quando estrapoliamo dal presente verso un più remoto passato veniva utilizzata per costruire una struttura semplice dello spazio. Di conseguenza, il redshift osservato sarebbe stato indicazione del fatto che, in quel remoto passato, le oscillazioni degli atomi, se espresse nel tempo della dinamica newtoniana, sarebbero avvenute sempre più lentamente.

Ancora un volta, l’astronomia si trovava di fronte a nuovi problemi. E non problemi, come in precedenza, puramente astronomici, bensì problemi dello spazio-tempo e della scienza dell’universo, comprendenti fisica, matematica e astronomia. Problemi relativi a ciò che fino ad allora, in mancanza di conoscenze definite, era semplicemente chiamato ‘l’infinito’ e che, invece, adesso si scopriva essere una combinazione di astronomia, fisica, matematica ed

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epistemologia: a tutto questo venne dato il nome di ‘cosmologia’∗. Problemi che vennero trattati dai più acuti teorici che utilizzarono le più moderne scoperte dell’astronomia, le principali idee fisiche e i più astratti metodi matematici, con attente riflessioni sui fondamenti del pensiero e della conoscenza. In questa fusione con altre discipline, l’astronomia, la scienza delle stelle, si era trasformata nella scienza dell’universo.

∗ Ndr: la prima volta in cui venne usato il termine ‘cosmologia’ risale al 1740, all’opera Philosophia rationalis di Christian Wolff: «La cosmologia è la scienza del mondo» ovvero è quella «parte della filosofia naturale che tratta dei corpi del mondo in quanto tali e insegna in che modo il mondo sia composto da essi».

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CAPITOLO 43

LA VITA DELLE STELLE Nel Capitolo 6 ricordammo come, nelle loro istruzioni per il computo, gli astronomi babilonesi denotassero lo spostamento diurno di Sole e Luna con un termine che stava a significare la ‘vita’ dei due luminari. Per loro, la caratteristica della vita era il movimento, mentre, per la scienza moderna, la vita degli esseri viventi consiste, in primo luogo, in trasformazione di energia. I processi vitali di ogni organismo formano una parte del grande ciclo di trasformazioni di materia ed energia in natura: ogni attività dei fenomeni della vita è un interscambio di energia con l’ambiente circostante e la sorgente di tutta — o quasi tutta — l’energia che circola sulla Terra è la radiazione solare. Tutti i processi vitali negli organismi sono un effetto, indebolito, della forte radiazione che la Terra riceve dal Sole e questa radiazione è, a sua volta, un effetto, indebolito 50.000 volte per la grande distanza, del flusso di energia irradiato dagli strati superficiali del Solare, composti di materia riscaldata a 6000K. Così, per usare una metafora, possiamo dire che la nostra vita è la più lieve e lontana increspatura prodotta dalla ‘vita’ del Sole e delle stelle, cioè delle trasformazioni di energia che avvengono al loro interno.

Chiedersi quale sia la sorgente di tutta la vita dell’universo, inclusa la nostra stessa vita, equivale, allora, a chiedersi quale sia l’origine dell’energia delle stelle. Abbiamo fronteggiato questo problema quando abbiamo trattato la costanza del calore solare, ma la risposta fornita non era soddisfacente: i 20 milioni di anni attribuiti all’età del Sole dalla teoria della contrazione gravitazionale erano troppo pochi per spiegare i processi geologici di disintegrazione, i depositi di limo e le formazioni rocciose, per la cui formazione i geologi richiedevano un periodo di qualche centinaio di milioni di anni. Fisici e

astronomi del tempo, tuttavia, non furono in grado di fornire risposte più soddisfacenti.

Ma il problema si presentò di nuovo, anche se questa volta con maggior chiarezza, quando, nel 1916, Eddington iniziò le sue ricerche sulla costituzione interna delle stelle. Le equazioni matematiche che definivano la struttura interna esprimevano il fatto che, in uno stato di equilibrio, l’energia irradiata verso l’esterno da un guscio sferico della stella dovesse essere uguale a quella prodotta nei suoi strati interni. L’energia prodotta negli interni stellari era, quindi, un dato fondamentale del problema: si doveva capire dove era prodotta, da quale tipo di materia e sotto quali condizioni. Per farla breve, non si sapeva alcunché su di essa. E così Eddington sviluppò i suoi calcoli avanzando due ipotesi estreme: una produzione di energia uniforme attraverso l’intera massa oppure una produzione di energia da una sola ‘sorgente puntiforme’ posta nel centro, dove prevalevano le più alte temperature e pressioni. Fortunatamente, i due risultati non differirono di tanto.

Si sarebbe potuto identificare una sorgente in grado di rinnovare l’energia prodotta? Ebbene, questo fu possibile a seguito della rivoluzione portata da Einstein nelle idee fondamentali della fisica. Il principio di relatività implicava il fatto che massa ed energia fossero identiche. Per esempio, 1 grammo di massa è equivalente 9 x 1020 erg. L’immensità di questa quantità appare evidente quando consideriamo che l’energia prodotta da una comune combustione (combinando 1 grammo di carbonio e ossigeno) è solo 1 parte su 10 miliardi della massa. Quindi, la produzione di nuova energia doveva aver luogo per annichilazione della massa: irradiando energia, la stella diminuisce gradatamente in massa e la sua materia è, per così dire, ‘bruciata’, in un senso molto più generale di

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quanto si intende comunemente per ‘bruciare’. Nel classico libro The Internal Constitution of the Stars del 1926, Eddington avanzò solo due ipotesi: o annichilazione diretta di materia dall’unione e dalla mutua distruzione di un protone e un elettrone, così che le cariche scompaiono e la massa è trasformata in radiazione di alta frequenza (raggi gamma), oppure, seguendo un’altra strada, dalla trasformazione di idrogeno in elio. Quando quattro nuclei di idrogeno e due elettroni si combinano nel nucleo di un atomo di elio, lo 0,0124 della massa — 1/320 del peso combinato — viene perso e trasformato in energia. Per compensare la radiazione annua del Sole, (30.106 erg/g), si richiede una trasformazione in elio di una quantità di idrogeno pari a 1/1011M . La vita media del Sole che ne risultava era ora sufficiente, ma il problema successivo era se questo processo avvenisse realmente o, meglio, sotto quali condizioni potesse avvenire.

Per trovare una risposta l’astronomia cercò aiuto nella fisica, specialmente nella nuova fisica nucleare, allora in rapido sviluppo. Poiché nel 1919 Rutherford aveva trasformato un nucleo atomico in un altro, mediante il bombardamento di particelle estremamente veloci che penetravano nel nucleo stesso, molti fisici si diedero ad utilizzare questo metodo. Si venne, così, ad acquisire una conoscenza dettagliata di tutte queste trasformazioni, dei loro bilanci energetici e delle loro frequenze. La grande velocità delle particelle (elettroni, fotoni o particelle alfa) necessaria a penetrare il nucleo atomico è presente in natura solo in caso di altissime temperature, di milioni o centinaia di milioni di gradi e queste temperature erano previste poter esistere solo negli interni stellari. Le stelle erano grandi fornaci cosmiche che, alimentate dall’energia prodotta in quelle trasformazioni, riesciuvano a mantenersi nello stato di intenso calore richiesto.

Anche l’interno delle stelle, insieme all’interno dell’atomo, viene ora dischiuso agli occhi degli scienziati. Negli spettri stellari della superficie più esterna delle stelle, a temperature di circa 10.000K, noi

vediamo gli elettroni più esterni che saltano su e giù o fuggono dall’atomo e ne sono ricatturati, in un incessante gioco di assorbimento ed emissione della radiazione, che accompagna i processi di eccitazione, ionizzazione e ricombinazione. Interi livelli elettronici vengono strappati agli atomi negli strati stellari più interni, a temperature di centinaia di migliaia di gradi, dai quali la radiazione non fuoriesce. Solo gli elettroni fortemente legati, più vicini al nucleo, venendo alternativamente liberati e catturati, trasportano l’energia sotto forma di assorbimenti ed emissioni. Potremmo chiamare questa la ‘vita interna’ della stella, ma questa è solo una vita passiva, un passaggio di energia dagli strati più interni a quelli più esterni. Alla fine, quando a maggiore profondità abbiamo a che fare con temperature di milioni di gradi, troviamo questi atomi completamente schiacciati, nuclei nudi, incapaci di organizzare la corsa disordinata degli elettroni liberi in sistemi stabili.

Ma questo non è tutto. A temperature e velocità ancora superiori, all’interno delle parti centrali più dense delle stelle, possono avvenire dei nuovi processi nei nuclei atomici. Alcune particelle (protoni e particelle alfa) muovendosi molto velocemente penetrano in nuclei più pesanti creandone dei nuovi. La maggior parte di questi si disintegrano rapidamente producendo elettroni negativi o positivi oppure dividendosi con l’emissione o l’assorbimento di radiazione gamma. Alcuni dei nuclei formati in questo modo saranno stabili; altri risultano essere stabili e così si verranno a formare nuclei di atomi più pesanti. Tutti questi processi, che grazie ai progressi della fisica sperimentale, adesso possono essere trattati teoricamente, con i loro bilanci energetici e le loro frequenze dipendenti dalla temperatura e dalla densità, costituiscono la vera vita attiva delle stelle. È un continuo gioco di trasformazioni, costituzioni e demolizioni di nuclei sotto condizioni estreme di velocità, temperatura e pressione, per i quali dobbiamo far uso di milioni di numeri, proprio come quando abbiamo a che fare con le dimensioni

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dell’universo. Rimaneva la difficoltà che le temperature centrali delle stelle risultavano insufficienti per questi processi. Il problema fu risolto da Gamow il quale, mediante la meccanica ondulatoria, dimostrò che anche se la velocità delle particelle era troppo piccola per penetrare nel nucleo, esisteva, tuttavia, una sia piccola percentuale di particelle — sufficiente per produrre l’effetto — che riusciva a penetrarlo.

La scienza delle trasformazioni nucleari era ancora ai suoi primi stadi, ma ora era aperta la strada verso la soluzione di molti problemi sull’origine, la vita e il futuro delle stelle. Uno studio di Bethe del 1938 portò alla scoperta di un ciclo di processi di formazione e divisione dei nuclei di carbonio, azoto e ossigeno, in grado di produrre nuclei di elio dai protoni in una quantità tale da poter spiegare la radiazione del Sole. Era così finalmente risolto il vecchio problema della sorgente di calore del Sole. Inoltre, dalla conoscenza di questa sorgente si poteva derivare la dipendenza del calore da temperatura e densità e constatare come questo calore fosse prodotto nel più profondo centro del Sole. L’ostacolo che aveva bloccato le ricerche di Eddington era stato rimosso e si poteva ora calcolare con grande accuratezza la costituzione interna delle stelle.

Così si iniziava a conoscere qualcosa dei processi vitali di una stella, ma la vita non è soltanto una ripetizione senza fine delle stesse trasformazioni di energia: la vita è evoluzione. Così come in ogni organismo la vita non consiste solo nei processi interni ma anche nella sua crescita, nella genesi e nello sviluppo dell’individuo e della specie, la stessa cosa si verifica per le stelle. La vita è cambiamento progressivo: è un processo guidato, senza ritorno, in accordo con la seconda legge della termodinamica. La vita è invecchiamento, è nascita e morte.

Qui stiamo trattando il vecchio problema dell’evoluzione delle stelle, che ora appare in un nuovo contesto: come evolvono le stelle e come si modificano da un tipo stellare in un altro. Anche in questo caso, come quando, nel secolo precedente, le osservazioni avevano aperto nuove

prospettive e si era cercato di rispondere a queste domande in modi differenti, negli ultimi anni si cercò di utilizzare il diagramma di Hertzsprung-Russell. Ma non poteva esservi alcuna certezza: la vita dell’uomo è troppo corta per poter percepire dei cambiamenti nelle stelle; noi vediamo solo la moltitudine delle forme, ma come una di queste si evolva in un’altra e quali di tali formi costituiscano l’aspetto più vecchio o più giovane di una stessa evoluzione può essere solo immaginato e studiato teoricamente e questo sarà possibile quando si conosceranno completamente i processi atomici.

Adesso, però, questi cambiamenti iniziano a essere conosciuti. Noi vediamo un progressivo cambiamento nei processi che si sviluppano nella profondità interna di una stella. Dalle sostanze primarie — i protoni — si ottengono nuclei di elio e, quindi, nuclei di atomi più pesanti. Il contenuto di idrogeno della stella diminuisce gradatamente, perciò il peso medio delle particelle cambia, con il risultato che cambiano anche la densità e la temperatura degli strati successivi. Cambia così anche la produzione di energia e il tipo spettrale. Bengt Strömberg ed Eddington identificarono la progressiva diminuzione degli atomi di idrogeno come fattore determinante dell’evoluzione stellare. Per quanto possiamo vedere, la stella si estinguerà quando tutto il suo contenuto in nuclei d’idrogeno si sarà esaurito. È possibile, naturalmente, che a quel punto vi prendano parte altri processi nucleari a complicare il corso dell’evoluzione.

Effettivamente le osservazioni dei fenomeni astronomici mostrano che ogni cosa non si muove lungo il piano percorso di una ben definita stabilità. Solo dalla scienza dei processi nucleari potremo aspettarci conoscenze in grado di spiegare quella mancanza di stabilità che appare nelle pulsazioni delle cefeidi e, ancor più, i maggiori fenomeni di instabilità che appaiono improvvisamente in quelle catastrofi stellari che vediamo sotto l’aspetto di esplosioni di novae.

L’analisi spettrale, venuta alla luce proprio

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in coincidenza con l’esplosione di molte novae brillanti, è stata in grado di stabilire cosa effettivamente succedesse. All’atto della prima esplosione, che riuscì ad essere rilevata solo in pochi casi, la stella mostrava uno spettro comune di tipo A o B. Dopo un giorno diventava uno spettro con larghe righe di emissione; uno strato o un guscio di gas caldi si espandevano con una velocità che superava a volte i 1000km/s, chiaramente scagliati nello spazio dall’improvvisa enorme pressione provenienete dall’interno. Espandendosi continuamente, questo strato si raffreddava, così che la radiazione e la luminosità diminuivano e alla fine scompariva. Ciò che rimaneva era una piccola stella con la luminosità di prima dell’esplosione, ma più calda e più densa, come una stella di tipo O. Si trovò che la Crab Nebula, nel Toro, era il resto in espansione della ‘stella-ospite’ cinese, la nova del 1054 (v. alla fine del Capitolo 8).

Le cause dell’instabilità che portavano a quest’improvvisa esplosione della stella rimanevano un problema. Per di più si presentarono anche altri problemi, più importanti delle novae comuni: se la nova di 7a magnitudine, apparsa nel 1885 nella nebulosa di Andromeda, avesse effettivamente fatto parte di quella lontana galassia, allora avrebbe dovuto avere una immensa luminosità, 10.000 volte maggiore di quella delle numerose novae della nostra Galassia, che raggiungevano solo la 6a o la 7a magnitudine. Una tale stella di magnitudine assoluta -15, posta a una distanza paragonabile a quella delle stelle più vicine, avrebbe dovuto avere una luminosità molto maggiore di quella della Luna piena! Nel 1934, in California, Baade e Zwicky svilupparono la teoria secondo la quale potesse esistere realmente questo tipo di ‘supernovae’, la cui luminosità non era tanto minore della luminosità dell’intera galassia cui appartenevano. Con ricerche sistematiche furono trovati altri casi simili di novae brillanti in piccole galassie a spirale, naturalmente molto meno frequenti delle novae ordinarie: la stima era di 1 supernova ogni 500 anni per ogni galassia. Baade e

Zwicky supposero che, per la lunga visibilità e il lento declino, la ‘stella nuova’ di Tycho fosse stata una supernova, come anche la nova cinese del 1054. Ancora oggi le supernovae presentano agli astrofisici numerosi problemi.

Ritorniamo, ora, ai processi nucleari nelle stelle comuni. La produzione di energia nel loro interno è collegata alla trasformazione di nuclei atomici, che producono nuclei stabili più pesanti. Adesso il problema nelle mani degli scienziati si era ampliato e la domanda era: qual è la sorgente del continuo flusso di energia che scaturisce dalle stelle? La risposta che veniva fornita aveva a che fare non solo con l’origine della loro energia, ma anche con la loro stessa origine. Ne scaturiva un’ulteriore domanda: qual è l’origine di tutti quei differenti atomi, leggeri e pesanti, trovati in determinate proporzioni in ogni dove, sulla Terra, sui meteoriti e sulle stelle? L’idea a portata di mano era che tutti gli attuali atomi stabili si fossero formati, con una lunga evoluzione, dal grosso dei protoni originali, le cui tracce apparivano negli spettri delle stelle di tipo A, nelle protuberanze solari e nell’acqua sulla Terra, elemento fondamentale per tutti gli organismi, compresi noi stessi: senza acqua non ci sarebbero stati né i protoplasmi né la vita. Ciò vuol dire che in quelle fornaci cosmiche — nelle profonde regioni centrali delle stelle — si era formato e ancora si stava formando l’intero universo, sia gli elementi che costituivano la sua materia, che le radiazioni che costituivano la sua vita. È questa vita che appare, fortemente indebolita, alla calda superficie delle stelle e poi, ancor più indebolita di migliaia di volte, trasformata in energia vitale degli esseri viventi.

Ma sorgeva un’ulteriore difficoltà: per penetrare nei nuclei pesanti e formare gli atomi più pesanti, la teoria richiedeva densità e velocità dei protoni molto maggiori, che corrispondessero a temperature di centinaia o migliaia di milioni di gradi, temperature che non si trovavano neanche negli interni stellari. Potevano, forse, i nuclei più pesanti, di uranio, di piombo, di oro, essere stati

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presenti nell’universo come materia primordiale? E allora, cosa significava in questo contesto il termine ‘primordiale’? Oppure, si sarebbe dovuto pensare che quelle condizioni richieste fossero esistite una volta, nel passato, ma ora fossero scomparse, così che quegli atomi pesanti altro non sarebbero che residui, una sorta di resti archeologici, di condizioni oramai trascorse? Potrebbe essere plausibile legare le necessità di alte temperature alle condizioni originarie di forte raggruppamento in ci si sarebbero trovate le galassie e le stelle 2 miliardi di anni or sono. Ma tutte queste idee non sono altro che un brancolare a tentoni in un oscuro passato.

E allora, anche qui, troviamo un campo senza fine di nuovi problemi che richiedono una spiegazione, un campo nel quale sono

state smosse solo le prime zolle. Anche qui abbiamo a che fare con ‘milioni’, non relativi a distanze e dimensioni, adesso, bensì a intensità di energia. A questo punto il nostro percorso non ci porta verso l’infinitamente grande, a studiare l’enorme struttura dell’universo, ma verso l’infinitamente piccolo, a studiare le più minuscole strutture della natura, di ciò che, con il linguaggio approssimativo dei sensi, viene chiamato ‘materia’ e ‘radiazione’.

E, di nuovo, tutto questo deve essere perseguito mediante una combinazione di più scienze, di fisica teorica e di matematica astratta, messe alla prova dalle osservazioni della materia e della radiazione dei numerosi oggetti celesti. Qui, infine, l’astronomia è partecipe attiva della spiegazione dell’essenza del mondo.

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APPENDICI

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Fig. 38.

APPENDICE A

IL METODO DI ARISTARCO PER DERIVARE LA DISTANZA DEL SOLE

La 7a Proposizione di Aristarco è la più importante, poiché è in questa che viene ottenuto il risultato numerico essenziale. [ndr: la 7a Proposizione dell’opera di Aristarco De magnitudinis et distantiis Solis et Lunae afferma che: «La distanza del Sole dalla Terra è maggiore di 18 volte, ma minore di 20 volte la distanza della Luna dalla Terra»] Per la sua importanza per l’astronomia successiva, la dimostrazione è di tale interesse, da meritare di essere qui brevemente riprodotta.

Nella figura 38, A rappresenta la posizione del Sole, B della Terra, C della Luna quando

è esattamente tagliata in due [ndr: da cui il termine di ‘metodo della dicotomia lunare’] Quindi, l’angolo EBD = angolo BAC = 3°. Sia l’angolo FBE (= 45°) bisecato da BG. Poiché il rapporto tra una grande e una piccola tangente al cerchio è maggiore del rapporto tra gli angoli e gli archi sottesi, il rapporto GE su HE sarà maggiore del rapporto di 1/4 su 1/30 di un angolo retto; cioè maggiore di 15/2. Inoltre, FG : GE = BF : √2, maggiore di 7/5; quindi FE/GE è maggiore di 12/5. Combinando questo con la prima diseguaglianza, troviamo che il rapporto di FE su HE è maggiore di 15/2 x 12/5 =18; e il rapporto AB/BC che è uguale a BH/HE, quindi un po’ più grande di BE/HE, è certamente maggiore anche di 18. Applicando, d’altronde, la proposizione secondo cui il rapporto tra una corda grande e una piccola è più piccolo del rapporto tra gli archi sottesi, tra DE, che sottende 6° nel semicerchio BDE, e il lato di un esagono regolare, uguale al raggio, che sottende un arco di 60°, troviamo il rapporto di ½BE su DE più piccolo di 10, quindi il rapporto tra AB e BC più piccolo di 20.

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Fig. 39.

APPENDICE B

IL METODO DI APOLLONIO PER DERIVARE LE STAZIONI PLANETARIE

Il calcolo delle stazioni dei pianeti nella teoria degli epicicli fu ridotto da Apollonio al problema geometrico della conduzione di una linea che intersechi l’epiciclo in modo tale che la sezione abbia un raggio definito.

Mediante la rivoluzione dell’intero epiciclo verso sinistra, il pianeta posto sulla sua circonferenza si muove dal punto 1 al punto

2 per una distanza uguale alla velocità angolare di questa rivoluzione moltiplicata per la distanza Terra-pianeta. Contemporaneamente, il pianeta sul suo epiciclo si muove verso destra, dal punto 1 al punto 3, per una distanza pari alla velocità angolare sull’epiciclo moltiplicata per il raggio dell’epiciclo. Quest’ultimo spostamento è visto dalla Terra in prospettiva nello stesso rapporto che esiste tra le distanze pianeta-punto di arrivo della verticale e centro-pianeta. Il pianeta sembra essere fermo [in ‘stazione’] quando i due spostamenti, visti dalla Terra, appaiono compensarsi. Questo avverrà quando le due distanze pianeta-punto verticale e pianeta-Terra avranno il rapporto inverso delle velocità angolari. In altre parole: il pianeta ha una ‘stazione’ quando la distanza Terra-pianeta e la semicorda dell’epiciclo si trovano ad avere lo stesso rapporto che vi è tra il periodo di rivoluzione e il periodo sinodico.

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Fig. 40.

APPENDICE C

LA DIMOSTRAZIONE DI NEWTON DELLA LEGGE DELLE AREE

Nella Proposizione I dei Philosophiae naturalis principia mathematica, Newton deriva la legge di Keplero delle aree, supponendo che un corpo in rivoluzione è soggetto a una forza centripeta diretta verso un punto fisso.

Per la dimostrazione, Newton fa uso di intervalli di tempo finiti uguali, dopo ognuno dei quali la forza dà al corpo un impulso finito, diretto verso il centro S.

Durante un intervallo, da A a B, il moto rimane lo stesso; quando poi è in B, viene improvvisamente cambiato dal moto aggiuntivo BV. Nel secondo intervallo, invece di proseguire il moto lungo Bc = AB, il corpo segue il percorso risultante BC. Poiché, geometricamente, le aree SAB e SBc sono uguali e poiché l’impulso BV è diretto verso S, le aree SBc e SBC saranno uguali e l’area SBC sarà uguale all’area SAB. Questo vale per ogni ulteriore intervallo: ogni area triangolare successiva sarà uguale all’area precedente. Così, tutte le aree triangolari descritte in intervalli di tempo uguali sono uguali e giacciono tutte nello stesso piano. Questo vale anche quando si considerino intervalli di tempo sempre più piccoli e il loro numero sempre più grande con la stessa frequenza. A quel punto, finalmente, avremo una forza che agisce continuamente e un’orbita curva, per la quale le aree descritte sono proporzionali ai tempi impiegati a descriverle.

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APPENDICE D

IL METODO DI NEWTON PER DERIVARE LA FORZA DI ATTRAZIONE

Nella Proposizione XI dei Philosophiae naturalis principia mathematica, per il caso di un’orbita ellittica, Newton deriva la forza centripeta dalle leggi di Keplero. Nel disegno dell’orbita, dove le linee sono indicate da lettere minuscole, il pianeta si trova in P e il Sole occupa il foco S. La piccola deviazione del moto del pianeta dalla tangente verso il fuoco è indicata con e, il moto stesso con s. La deviazione è proporzionale alla forza e al quadrato del tempo, quindi la forza si ottiene dividendo la deviazione e per il quadrato dell’intervallo di tempo. Per la legge delle aree [II legge di Keplero], l’intervallo di tempo può essere sostituito dall’area descritta dal raggio vettore. Prendendo l’intervallo di tempo e il moto s sempre più piccoli, l’area può essere rappresentata sempre più esattamente del triangolo SPQ. Newton ottiene che PE = a, semiasse maggiore.

Conducendo la perpendicolare p da Q al raggio vettore e la perpendicolare h da P a b’

(2a’ e 2b’ sono diametri coniugati), abbiamo che l’area SPQ = ½rP; poiché i triangoli PQV e PEW sono simili, abbiamo che p : h = s : a o p = h x s/a; h = ab : b’; quindi per l’area si trova ½rs (b : b’).

La deviazione e è legata alla piccola distanza d sul diametro da d : e = a’ : a. Per la distanza e si ha, considerando l’ellisse come la proiezione di un cerchio, la relazione e x 2a’ : s2 = a’2 : b’2, così che

e = ½ (a’/b’2) s2; d = ½ as2 : b’2.

Allora, la forza è: ½ (as2/b’2) : ¼ r2s2 (b2/b’2) = (2a/b2)(1/r2).

Dove tutte le quantità che dipendono dalla posizione del pianeta sulla sua orbita sono scomparse. Così, per tutti i punti dell’ellisse, la forza va con l’inverso del quadrato della distanza dal Sole.

Fig. 41. Fig. 42.

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DUE BIOGRAFIE DI ANTON PANNEKOEK Stante la complessa personalità di Pannekoek — astronomo e politico — e l’importanza delle sue attività in entrambi i settori, ci è parso opportuno aggiungere alla sua biografia scientifica (tratta dal “Dictionary of Scientific Biography”) anche una brevissima biografia politica, tratta da un sito Web francese dove il nome di Pannekoek compare assieme ad altri personaggi di rilievo della storia della sinistra europea, quali Rosa Luxemburg, Léon Blum, Antonio Gramsci, Willy Brandt, Enrico Berlinguer, Pierre Mendés-France, François Mitterand e altri. [ndr] PANNEKOEK ANTONIE (N. Vaassen, Olanda, 2 gennaio 1873; m. Wageningen, Olanda, 28 aprile 1960), astronomia.

Pannekoek era figlio di Johannes

Pannekoek e di Wilhelmina Dorothea Beins. Nel 1903 si sposò con Johanna Maria Nassau Noordewier, insegnante di letteratura olandese. La sua famiglia apparteneva alla classe media rurale e, grazie alla moglie, Pannekoek entrò nei circoli letterari e musicali. Era membro della Royal Netherlands Academy of Sciences a membro onorario dell’American Astronomical Society. Inoltre ricevette la laurea ad honorem dalla Harvard University e la gold metal dalla Royal Astronomical Society.

Appassionato di astronomia sin dalla giovane età, Pannekoek studiò astronomia all’Università di Leida. Iniziò la carriera nel 1895 come geodeta e divenne osservatore al

Leida Observatory nel 1898, ma rimase deluso dal vecchio lavoro di osservazioni con strumenti meridiani, che considerava di scarso interesse scientifico. Insegnante di teoria marxista alla scuola di Berlino del Partito Socialista dal 1905 e poi a Brema, finì per diventare un oppositore del crescente opportunismo nel Partito Socialista tedesco.

Allo scoppio della I Guerra Mondiale, Pannekoek tornò in Olanda, dove divenne insegnante nelle scuole superiori. Sin da quando aveva lasciato l’osservatorio, aveva seguito lo sviluppo dell’astronomia e aveva scritto diversi articoli scientifici. A questo punto, terminò il suo libro De wonderbouw der wereld [“La meravigliosa costruzione del Mondo”, 1920], un’introduzione storica all’astronomia, eccellente e originale. Fortemente interessato all’astronomia babilonese, pubblicò numerosi lavori su questo argomento, mentre continuava le sue lezioni sul marxismo a Leida. La sua nomina a vicedirettore dell’Osservatorio di Leida non venne accettata dal Ministro dell’Educazione, ma la città di Amsterdam, che non dipendeva dallo Stato, gli dette l’incarico di lezioni di matematica e astronomia presso l’Università Comunale, dove fondò un modesto, ma molto attivo, Istituto di Astronomia. Nominato professore nel 1925, venne allontanato durante il governo d’occupazione tedesco del 1941.

Una lettura casuale dell’articolo di Saha sulla ionizzazione nelle atmosfere stellari

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spinse Pannekoek ad avvicinarsi all’astrofisica, divenendo il fondatore della moderna astrofisica in Olanda. Le sue ricerca sulla struttura della Galassia che comprende il nostro Sistema solare si estesero per oltre sessant’anni. Egli eseguì accurati e dettagliati disegni, comprese le isofote, delle regioni nord e sud della Via Lattea, ripetendo successivamente tale lavoro su fotografie extrafocali. Migliorando il lavoro di Kapteyn, studiò la nostra Galassia in funzione della longitudine e della latitudine galattica. Insoddisfatto dall’uniformità dei valori medi che si ottenevano, si dedicò interamente alle nubi di polvere e alle nebulose oscure. Scoprì quei raggruppamenti tipici di stelle giovani che, più tardi, presero il nome di associazioni stellari.

Nel campo della teoria della ionizzazione e della composizione delle atmosfere stellari, Pannekoek fu il primo a modificare il lavoro di Henry Norris Russell, presupponendo una massiccia preponderanza di idrogeno, idea successivamente confermata. Fu anche il primo ad applicare ‘l’analisi dettagliata’ alle atmosfere stellari, considerando il cambiamento nelle proprietà fisiche degli

strati successivi. Insieme a M Minnaert, pubblicò la prima analisi quantitativa dello spettro flash [ndr: spettro d’emissione della cromosfera solare] durante un’eclissi di Sole. Richiamando l’attenzione al valore sorprendentemente basso di gravità che può essere dedotto dagli spettri delle stelle giganti, interpretò la fase di massima brillanza delle Cefeidi come emissione di shell gassose.

Il lavoro di Pannekoek sulla storia dell’astronomia, che culminò nel suo De Groei van ons Wereldbeeld [“L’evoluzione della nostra concezione del Mondo”, 1951; A History of Astronomy nell’edizione inglese del 1961], mise in evidenza le grandi linee di sviluppo della disciplina e le relazioni tra astronomia e società. Di ambito ancora più vasto è il suo Anthropogenesis, nel quale tracciò le origini dell’uomo e della sua evoluzione in Homo sapiens.

M. MINNAERT

da: Dictionary of Scientific Biography, C.C. Gillispie

(a cura di), C. Scribner's Sons, New York, 1970-80, pp. 289-91.

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ANTON PANNEKOEK (1873-1960). Teorico marxista olandese, nato nel 1873. Astronomo di formazione, Pannekoek aderisce, nel 1902, al Partito Social-Democratico olandese e si occupa per tre anni della rivista teorica Nieuwe Tijd [“Nuovo tempo”], prima di trasferirsi in Germania, dove insegna nelle scuole della SPD. Successivamente va ad abitare a Brema. Aderisce all’ala sinistra della SPD, che critica le teorie di Kautsky sulla social-democrazia, la rivoluzione e la questione della guerra, e si unisce a coloro che, dopo il convegno dei partiti socialisti europei, tenutosi a Zimmerwald nel 1915, si espressero contro la guerra.

L’anno della fine del conflitto, Pannekoek partecipa attivamente alla fondazione del Partito Comunista olandese, ma rompe, sulla questione dei consigli operai, con l’Internazionale Comunista, che intendeva, infatti, sottometterli ai partiti.

Pannekoek resta un teorico molto influente dei consigli operai ed è a questo titolo che sviluppa numerose analisi sul sindacalismo nei diversi paesi e sui suoi rapporti con il capitalismo.

«Il sindacalismo apparve come la forma primitiva del movimento operaio all’interno di un sistema capitalista stabile. Il lavoratore indipendente si trova senza difesa nei confronti dell’impiegato capitalista. Anche gli operai si sono organizzati in sindacati, i quali li raccolgono nell’azione collettiva e utilizzano lo sciopero come arma principale. In questo modo, viene, più o meno, realizzato un equilibrio del potere; equilibrio che arriva a pendere di più dalla parte degli operai, poiché i piccoli impiegati isolati si trovano impotenti davanti ai grossi sindacati. È per questo che, nei paesi dove il capitalismo è più sviluppato, i sindacati degli operai e dei padroni (essendo, questi ultimi, associazioni, trust, società ecc.) sono costantemente in lotta». (1936)

Pannekoek mostra che il fine ultimo del

sindacalismo non è assolutamente quello di sostituire il sistema capitalista con un altro sistema di produzione, ma di migliorare le condizioni di vita all’interno dello stesso capitalismo.

Contrariamente a una tradizione ereditata dalle idee anarchiche dell’Ottocento, l’essenza del sindacalismo non è, secondo Pannekoek, rivoluzionaria, bensì conservatrice. Il sindacalismo non può rappresentare che una parte, necessaria ma infima, della lotta di classe. Nel suo sviluppo, deve entrare in conflitto con la classe operaia che vuole andare più avanti. Sono i momenti nei quali ci si deve preoccupare della rivoluzione. Questa teoria ha un certo aspetto di modernità, se si considera il ruolo del sindacalismo nella social-democrazia, che consiste, in effetti, nell’agire all’interno del movimento sociale per trasformare la società, mentre il partito, da parte sua, tenta di conquistare il potere legalmente e, al suo livello, di favorire l’avvento del socialismo. da: Pluriel. Rassemblons la jeune gauche,

http://pluriel.free.fr/pannekoek.html.

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REFERENZE

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Dover Publications, Inc. New York, 1989

Prima edizione olandese: De Groei van ons Wereldbeeld, Wereld-Bibliotheek, Amsterdam, 1951 Prima edizione inglese, A History of Astronomy, G. Allen & Unwin Ltd., London, 1961

Copyright © 1961 by George Allen and Unwin Ltd.

Traduzione a cura degli studenti di STORIA DELL’ASTRONOMIA del Corso di Laurea in Astronomia dell’Università degli Studi di Bologna.

Revisione a cura del titolare del corso: FABRIZIO BÒNOLI. Febbraio 2004

LUCA AMATI (Cap. 22, 23, 24; a.a. 2001/02); GIACOMO BECCARI (Cap. 27, 38; a.a. 2001/02); FEDERICA BIANCO (Cap. 35, 36; a.a. 2000/01); LORENZO BRANDI (Cap. 15, 18; a.a. 2002/03); GIULIA CAMPANA (Cap. 11, 12; a.a.

2001/02); MILENA CARBONI (Cap. 3, 4; a.a. 2001/02); ALBA CHERUBINI (Cap. 13); FRANCESCA CIVANO (Cap. 1, 2, 5; a.a. 2001/02); DAMIANO DELLA GROTTA (Cap. 14); DANIELE FANTIN (Cap. 19, 20; a.a. 2002/03); STEFANO

FERRETTI (Cap. 25, 26; a.a. 2002/03); MARIA CATERINA FIORE (Cap. 10, 21; a.a. 2001/02); AGOSTINO GALFO (Cap. 27, 28, 29, 30; a.a. 2000/01); RAFFAELE GIOVANDITTI (Cap. 41, 42, 43; a.a. 2002/03); CLAUDIA GRECO (Cap. 39, 40; a.a. 2001/02); LAURA MALAGOLI (Cap. 6, 7; a.a. 2002/03); ELEONORA MONGE (Cap. 8, 9; a.a. 2001/02); ANDREA SIMONCELLI (Cap. 31, 32; a.a. 2000/01); ENRICO TAGLIATI (Cap. 33, 34; a.a. 2000/01); SILVIA TOMATIS (Cap. 16,

17; a.a. 2002/03); ANDREA ZAMBONI (prima revisione di alcuni capitoli).

Page 386: L’EVOLUZIONE DELLA NOSTRA

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Bozzetto per un monumento a Copernico, realizzato dall’artista polacca Teresa Zarnower (1895-1949), donato alla Specola di

Bologna da Janet e Arturo Abramowitz di Boston e Guido Horn d’Arturo, nella prima metà del Novecento.