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FELICE TANTARDINI MARTELLO, ROSARIO E PIPA_2 FRATEL FELICE TANTARDINI E I MISSIONARI LAICI DEL PIME «A Taunggyi incontrai, insieme ad altri missionari del Pime, fra- tel Felice Tantardini, conosciuto da tutti come “il fabbro di Dio”’. Era arrivato in Birmania nel 1922 da un villaggio vicino a Como e aveva fabbricato tutte le finestre, le lanterne, le vetrate, i candela- bri e le croci di tutte le chiese de- gli Stati Shan. Bei personaggi, gente con una tenacia che oggi pochi sembra- no avere. Questi erano personag- gi con una sola idea, ma quella era ferma, sicura. Era anche gen- te con poche scelte e forse proprio per questo la scelta che facevano era più dura e, in fondo, più felice. La loro è una di quelle belle storie che si è persa l’abitudine di rac- contare. Specie sui giornali. Forse è perché i protagonisti sono gen- te fuori dell’ordinario e il mondo d’oggi sembra più interessato a glorificare il banale». Tiziano Terzani , giornalista e scrittore FELICE TANTARDINI MARTELLO, ROSARIO E PIPA_1 MARTELLO, ROSARIO E PIPA Questa mostra è stata realizzata per far conoscere la figura e le opere di fratel Felice Tantardini, missionario laico del Pime, vis- suto per 69 anni in Birmania e morto nel 1991, all’età di 93 anni. Viene promossa dal Pime, con l’intento di suscitare altre voca- zioni missionarie laicali a vita, sulle orme di santità lasciate da fratel Felice, nell’anno dedi- cato a lui e alla spiritualità dei missionari laici. Coordinamento redazionale: Gerolamo Fazzini Progetto grafico: Mariangela Tentori

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FELICE TANTARDINI MARTELLO, ROSARIO E PIPA_2

FRATEL FELICE TANTARDINI E I MISSIONARI LAICI DEL PIME

«A Taunggyi incontrai, insieme ad altri missionari del Pime, fra-tel Felice Tantardini, conosciuto da tutti come “il fabbro di Dio”’. Era arrivato in Birmania nel 1922 da un villaggio vicino a Como e aveva fabbricato tutte le finestre, le lanterne, le vetrate, i candela-bri e le croci di tutte le chiese de-gli Stati Shan.

Bei personaggi, gente con una tenacia che oggi pochi sembra-no avere. Questi erano personag-gi con una sola idea, ma quella era ferma, sicura. Era anche gen-te con poche scelte e forse proprio per questo la scelta che facevano era più dura e, in fondo, più felice.

La loro è una di quelle belle storie che si è persa l’abitudine di rac-contare. Specie sui giornali. Forse è perché i protagonisti sono gen-te fuori dell’ordinario e il mondo d’oggi sembra più interessato a glorificare il banale».

Tiziano Terzani, giornalista e scrittore

FELICE TANTARDINI MARTELLO, ROSARIO E PIPA_1

MARTELLO,ROSARIO E PIPA

Questa mostra è stata realizzata per far conoscere la figura e le opere di fratel Felice Tantardini, missionario laico del Pime, vis-suto per 69 anni in Birmania e morto nel 1991, all’età di 93 anni. Viene promossa dal Pime, con l’intento di suscitare altre voca-zioni missionarie laicali a vita, sulle orme di santità lasciate da fratel Felice, nell’anno dedi-cato a lui e alla spiritualità dei missionari laici.

Coordinamento redazionale: Gerolamo FazziniProgetto grafico: Mariangela Tentori

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Nato nel 1898 a Introbio (Lecco), sesto di otto figli, a 10 anni Felice comincia a lavorare in una ditta del paese per aiutare la sua fa-miglia. A 13 rimane improvvisa-mente orfano del padre, Battista, vittima di un tragico incidente.

A 17 anni trova lavoro all’Ansal-do di Genova come tornitore. Ma nel 1917, nel pieno della prima guerra mondiale, viene arruolato e all’età di soli vent’anni è scara-

FORGIATO DALLE PROVE E DALLA GUERRA

ventato in prima linea. Durante il conflitto vive l’esperienza duris-sima della prigionia e della fame. Riesce a fuggire in modo rocam-bolesco e, dopo alcuni mesi, torna a casa sano e salvo, dalla Grecia, attraversando i Balcani.

Fin da subito, il carattere di Feli-ce viene forgiato nel fuoco della prova e della sofferenza. Anco-

ra giovane egli sperimenta che il pane quotidiano va guadagnato col sudore della fronte e impara ben presto a comprendere l’im-portanza del lavoro come espres-sione concreta della vocazione dell’uomo, chiamato da Dio a cu-stodire il creato.

«Dopo due mesi di istruzione sommaria, venni invia-to al fronte e precisamente a Montefiore. Dopo ap-pena due giorni, io e sessanta miei compagni, esposti come esca ai tedeschi per attirarli sotto il fuoco delle nostre artiglierie, fummo fatti facilmente prigionieri».

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Su Felice - grande lavoratore, serio e onesto -

mette presto gli occhi il suo da-tore di lavoro, il quale accarez-za l’idea che il giovane sposi la maggiore delle sue tre figlie, maestra, che tiene la contabili-tà della ditta.

Ma il Signore ha altri progetti su Felice. Scrive il futuro missiona-rio: «Mi posi a leggere i vecchi numeri de Le Missioni Cattoliche (oggi Mondo e Missione, ndr) che

la mia sorellina aveva accumu-lato nella mia stanza. Bastò la lettura di alcuni episodi di vita missionaria per innamorarmi di quest’ideale e accendermi in cuo-re un vivo desiderio di farmi Fra-tello missionario.

In poco tempo lessi tutti i numeri della rivista che trovai nel cas-setto. Leggevo con entusiasmo sempre crescente e m’infervora-

vo sempre più della brama di vola-re in terra di missione».

Il 20 settembre 1921 Felice entra nel Pime. Meno di un anno dopo, il 2 settembre 1922 parte con due confratelli per la Birmania (oggi Myanmar).

«Non facevo che sognare le missioni. Quando vedevo un tramonto, io pensavo che il sole allora discendeva a illuminare quelle lontane regioni, che già conside-ravo come mia patria d’azione. L’asprezza della vita in missione e le lingue strane di quelle genti, niente mi faceva paura».

LA VOCAZIONE MISSIONARIA

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Nel corso della sua lunga e inten-sa vita missionaria, fratel Felice è stato un compagno discreto e prezioso per tanti. In molte foto lo vediamo sorridere, perché quel-lo era il suo marchio di fabbri-ca: una semplicità da bambino e una grande fiducia in Dio, che gli garantivano sempre la sere-nità pur in mezzo alle difficoltà.

Padre Igino Mattarucco, missio-nario del Pime in Birmania, ha detto: «Felice era il nome che fo-tografava il suo volto e la sua ani-

ma: sempre allegro, sorri-dente, di amabile

FELICE DI NOME E DI FATTO

compagnia e conversazione, con-dita da gustose battute e briose allusioni alla sua lunga vita. Era impossibile non rimanere con-quistati dalla sua simpatica per-sona, dalla sua semplicità, che era un connubio di ingenuità fan- ciullesca e candore angelico».

«In qualunque tempo, in qual- siasi luogo o circostanza voi incontrate fratel Felice

- ha scritto il beato Clemente Vi-smara - vedrete sempre affiorare sul suo labbro un sorriso sereno, pacato, spontaneo come di chi è amico di Dio, amico degli uomini e nemico di nessuno».

«Mia madre, nel mandarmi al battesimo, non sape-va che nome impormi e lo domandò alla levatrice, la quale senz’altro suggerì il nome di Felice. Questo nome mi fu dato. Io sono grato a quella buona donna per un tale nome, che esprime l’ideale della mia vita: sforzarmi di essere felice, sempre e ad ogni costo, ed essere intento a far felici gli altri».

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«I nostri fratelli, prima di esse-re costruttori, tipografi, falegna-mi, pittori, artisti, sono apostoli. Hanno il medesimo fuoco nostro che li consuma. Questo mi pre-me far notare perché non si pen-si che i nostri fratelli siano dei forti e a volte geniali lavoratori, come un qualunque operaio d’I-talia, ma non facciano del vero lavoro apostolico».

Vale anche per fratel Felice quan-to scriveva padre Alfredo Cremo-nesi (futuro martire), a proposito

della folta brigata di mis-sionari laici che

APOSTOLO NEL QUOTIDIANO

hanno operato, nel corso di vari decenni, in Birmania. Molto va-riegato lo spettro di attività eser-citate: tipografi, pittori, muratori, falegnami, carpentieri, fabbri...

Fra tutti, fratel Felice si distin-gue per la sua instancabile e ge-nerosa disponibilità, che il beato Clemente Vismara descrive con queste parole: «La sua felicità è il lavoro; non lo troverete maicon le mani in mano;nessun lavoro

gli è estraneo, chiede anzi, che, terminata un’opera, subito glie- ne indichiate un’altra. Dove lo chiamano va, senza volgersi indietro, né chiedere spiegazio- ni. Lavora in silenzio, lavora con passione, lavora forte, lavora sempre».

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«Noi fratelli (missionari laici, ndr) per formare questi giovani aspiranti, va bene che si studi, ma l’impegno maggiore dev’essere il lavoro. Il nostro Patrono San Giuseppe ha lavorato accanto al Signore, i calli sulle mani devono essere il contrassegno di riconoscimen-to dei buoni e genuini fratelli».

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L’umiltà è un tratto essenziale

della spiritualità di fratel Tantardini. Su richiesta dei su-periori scrive l’autobiografia, che poi distrugge, essendosi convin- to che non interessasse più. Gli tocca riscriverla e lo fa con pazienza, e senza lamentarsi.

Nella didascalia a una curiosa foto, per

sottolineare la sua bassa sta-tura, egli scrive di essere «alto come le piante del riso».

Nel 1922, poco dopo l’arrivo di fratel Felice in missione, un suo confratello, fratel Pompeo Na-suelli, scriveva a un missiona-rio: «Sono arrivati un padre e due fratelli: uno di bell’aspetto e belle maniere ed è anche pittore. Farà certo buona riuscita. L’altro, mi-

nuto e con un testone, è un fabbro ma non sa neanche servire Messa. Chissà che ne sarà di lui!».

Cinquant’anni dopo nel redige-re la sua autobiografia, Felice commenterà: «Quella volta il buon Pompeo si sbagliò di gros-so. Il fratello pittore e di bell’a-spetto dopo pochi anni abban-donò la missione e l’Istituto, e io, col mio testone, sono ancora qui per grazia di Dio e spero di restarci per sempre».

«In obbedienza al mio veneratissimo Vescovo mons. Alfredo Lanfranconi, nonché al suo successore, mons. Giovan Battista Gobbato, scrivo qualche cosa della mia vita, come mi riesce di ricavarlo dalla memoria dopo tanti anni».

« ALTO COME LE PIANTE DEL RISO»

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Di fratel Fe-lice ha sempre col-

pito tutti l’energia racchiu-sa nel suo corpo così minuto. Pa-dre Mattarucco ricorda: «Pareva non fosse mai stanco, nonostan-te il lavoro massacrante. Sotto le sue braccia sembrava che il ferro si trasformasse in gomma».

Padre Gerardo Brambilla, confratello

in Myanmar, così lo ritrae: «Il Felice non ha sede fissa. Pianta la sua tenda dove c’è la-voro. Un vero fabbro missiona-rio. Sui monti ha fatto cancelli, croci di cimitero, impalcature di fabbriche, trappole per tigri e tante altre cose. Se, girando tutta la nostra missione ai mon-ti e al piano, voi v’imbattete in un lavoro di ferro, dite pure che quello è stato fatto dal Felice».

Il molteplice impegno di fratel Felice fu premiato il 3 novembre 1973, quando l’am-basciatore italiano in Birmania, Elio Pascarelli, gli consegnò, a nome del Presidente della Re-pubblica, la Stella al merito del lavoro, un’alta onorificenza per gli italiani distintisi all’estero per meriti eccezionali, insieme al titolo di Maestro del lavoro. Riconoscimenti che imbarazza-no l’umile fratel Felice.

« PAREVA NON FOSSE MAI STANCO...»

«Mancava anche questa per mettere al colmo la mia riluttanza di queste manifestazioni. Alle mie proteste dicono che è per la gloria del Signore e in ringrazia-mento di tanti anni concessimi a lavorare nella sua vi-gna in missione e per fare onore al mio Istituto. Spe-riamo che sia solo per questi due motivi e nient’altro».

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Quando Felice giunge in missione, il vica-

riato apostolico di Toungoo era esteso 79.800 kmq (poco meno di un terzo dell’Italia) e comprende-va i territori di tre diocesi attuali: Toungoo, Taunggyi e Loikaw.

Fratel Tantardini percorre molte volte in lungo e in largo questo territorio senza strade e in gran parte inesplorato, per aiutare a impiantare varie residenze mis-sionarie. Viaggi faticosi, a piedi

o a cavallo, fra colline e valli, su erti picchi, precipizi, in foresta o guadan-do fiumi senza ponti, sotto il sole cocente o le piogge torrenziali, a volte incontrando serpenti e be-stie selvatiche.

Di lui ha scritto il beato Visma-ra: «I padri hanno dimora fissa, un campo di lavoro determinato. Fratel Felice, invece, abita dove c’è lavoro, non ha un focolare pro-prio, cambia casa, letto, cucina,

ma non cambia l’incudine e il martello. E di questo laborioso vagabondaggio qua-le la ricompensa? Di danaro non parliamone neanche: fratel Felice è un signore, non ne sente il bi-sogno. Gli necessita solo il lavoro che protrae fino al tramonto».

«Allora ero un camminatore formidabile. Partii con quei tre padri, di cui solo due avevano un cavallo: l’altro padre e io facemmo a piedi le necessarie quat-tordici ore di cammino e arrivammo alle otto di sera alla prossima stazione, Hoya. Fortuna che c’era la luna a rischiararci il percorso».

« DI QUA E DI LÀ, DI SU E DI GIÙ...»

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Tantardini ha sempre avuto una predilezione evangelica per i pic-coli e gli ultimi. Orfani e lebbrosi, testimonia chi l’ha conosciuto, erano in cima ai suoi pensieri.

«Non ho mai avuto paura della lebbra e anche sopporto facil-mente l’odore sgradevole che i lebbrosi emanano - annota fra-tel Felice nella sua autobiogra-fia - . La vista delle loro piaghe,

di quelle mani e piedi senza dita, di quei moncherini e di quelle facce sformate, non è certo una cosa piacevole. Ma ci sarebbe una forte ragione di andarsene sulla luna per sfuggire al fetore di questa pestilenza che è il pec-cato, tanto più nauseante della lebbra del corpo».

Per i lebbrosi ha realizzato an-che diversi lavori, coinvolgendoli

nell’attività. Nel settem-bre 1965 così scrive da Taunggyi: «Mi trovo qui nella lebbroseria di Loilem, sto facendo 300 letti di ferro per i lebbrosi; sei lebbrosi sono i miei aiutanti, ne facciamo 50 a settimana».

«Chissà quanti di questi infelici hanno l’anima puli-ta e bella, ammirata dagli angeli, mentre tanti, con il corpo sano, hanno l’anima sfigurata dal peccato e sono oggetto di orrore per gli angeli».

LEBBROSI E ORFANI, I PREDILETTI

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Fratel Felice era letteralmente innamorato della «cara Madon-na». La speciale devozione che nutriva per lei si intensificò dopo che nel 1924 fu guarito miracolo-samente grazie al suo intervento materno: il missionario promise

LA DEVOZIONE ALLA CARA MADONNA

da allora di recitare il Rosario in-tero per tutta la vita e mantenne sempre tale promessa.

Scrive Felice: «Incomincio la giornata verso le 4 del mattino, recito il Rosario completo, poi in chiesa a preparare l’altare per la Messa e le preghiere fino alla Santa Messa che finisce verso le 7 e un quarto, poi un po’ di caffè e pane e attacco subito al lavo-

ro che mi attende fino alle 11 e mezza per un bel piatto di riso con un uovo o un po’ di carne. Le brevi preghiere di mezzogior-no, poi incomincio, cioè continuo il lavoro e incombenze per i pa-dri e suore; alle 8.30 a letto, pri-ma però una mezz’oretta di let-tura spirituale». «Prego sempre il buon Dio come i due discepoli di Emmaus che pregavano il Si-gnore di rimanere con loro che ormai era sera e l’oscurità cala-va inesorabilmente».

«È indispensabile stare uniti il più possibile al buon Dio e alla cara Madonna. Se si crede di fare a meno di Questi, o presto o tardi il fallimento è certo».

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Fratel Felice pregava costante-mente con un’intenzione spe-ciale: «Io mi getto ai piedi della Madonna perché interceda Lei per la conversione dei non cri-stiani». Padre Mattarucco ha detto di lui: «Si sentiva mis-sionario al 100%, mandato dai superiori a servizio di tutti: sa-cerdoti, cristiani, pagani e so-prattutto i poveri. Chissà che il suo esempio abbia a suscitare tra i giovani qualche vocazione di dedicarsi alla causa missio-

naria tutta la vita».

MISSIONARIO...ANCHE IN PARADISO

Nell’ultimo periodo della sua esi-stenza, Felice, in obbedienza al vescovo, aveva smesso di lavora-re e passava il tempo pregando. Il Rosario se l’era messo al collo, così avrebbe potuto dimenticare la pipa, ma non quello.

La sua autobiografia si chiu-de con una pagina che pare un testamento spirituale: «Bramo

tanto e prego sempre il buon Dio e la cara Madonna che mi conservino una perenne giovi-nezza di spirito e mi concedano la perseveranza nella mia bel-la vocazione missionaria, bella che non c’è l’eguale, credo».

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«Una volta in Paradiso - spero di andarci - inten-do continuare da lassù a fare il missionario: non più picchiando l’incudine, ma martellando senza posa il cuore del buon Dio, per strapparne tante grazie per questa povera gente che ora vedo attorno a me».

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All’indomani della morte di fratel

Felice si sviluppò una forte devozione popolare nei suoi con-fronti. Nel maggio 1991 una sua veste talare venne tagliata in pez-zi quadrati (cm. 9,5x4,5) cuciti su un foglio di carta, sui quali è stato scritto a macchina: «This cloth is taken from the cassock of Brother Felice. Ask him Help and will re-ceive it» (Questa stoffa è stata presa dalla talare di fratel Felice, chiedi a lui aiuto e lo riceverai).

Lui, che in vita aveva amato con affetto privilegiato i poveri e gli umili, si ritrovò ad essere venerato proprio dalla gente più semplice che aveva visto in lui un vero uomo di Dio.Padre Paolo Noè, superiore re-gionale del Pime in Birmania, ha scritto che fratel Felice «era co-nosciuto e stimato più del vesco-vo. I pagani e i musulmani erano suoi amici e per lui erano dispo-sti a fare qualsiasi cosa».

Sono numerose le persone che, lungo gli anni, testimonia-no di aver ottenuto grazie e gua-rigioni per intercessione di fratel Felice. Nel 2000 si è aperta la sua causa di canonizzazione.

LA DEVOZIONE DI UN POPOLO

«Un abitante di Lo U Kunthà era da tempo amma-lato, incapace di alzarsi da letto. Nel 1993 la moglie chiese una reliquia di fratel Felice. Padre Tin disse alla donna di pregare Felice affinché intercedesse per lui. Dopo un po’ la donna ritornò dal padre dicen-dogli che il marito era perfettamente guarito».

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TESTIMONIARE IL VANGELO NELLA FERIALITÀ

«La missione è di tutto il popolo di Dio... La partecipazione dei laici all’espansione della fede risulta chiara fin dai primi tempi del cristianesimo, a opera sia di singoli fedeli e famiglie, sia dell’intera comunità... Il Vaticano II ha confermato questa tra-dizione, illustrando il carattere missionario di tutto il popolo di Dio, in particolare l’apostolato dei laici, e sottolineando il contributo specifico che essi sono chiamati a dare all’attività missionaria».Redemptoris missio n. 71

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MISSIONARI LAICI PIME

I missionari del Pime sono dei battezzati che hanno ricevuto un carisma particolare (espresso nei quattro pilastri: “ad gentes”, “ad extra”, “ad vitam”, insieme) che essi donano alla Chiesa. Ma vivono tale carisma con modali-tà diverse, specifiche per ciascu-no: tutti come battezzati, alcuni come ministri ordinati.

LA MISSIONE È “AFFARE” DI TUTTI

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BREVE STORIA DI UNA PRESENZA

Tra i primi sette missionari del Pime che partirono per la pio-nieristica missione in Oceania il 10 aprile 1852, due erano missionari laici, a quel tempo chiamati catechisti: Giuseppe Corti e Luigi Tacchini. Pochi mesi prima del marti-rio del beato Giovanni Battista Mazzucconi, il 17 marzo 1855, Corti morì, a causa delle febbri tropicali, primo di una lunga li-sta di missionari che daranno la propria vita per il Regno di Dio.

Il Capitolo di aggiornamento Pime del 1971 ha discusso a lungo dei “fratelli” (così veni-

vano chiamati un tempo), met-tendoli sullo stesso piano dei padri: «Il fondamento del no-stro appartenere al Pime è la vocazione missionaria, che in se stessa è uguale nei sacer-doti come nei fratelli: sacerdo-zio e laicato sono modi diver-si di attuare questa vocazione fondamentalmente uguale».

L’Assemblea generale Pime del 1989 a Tagaytay, così come suc-cessivi interventi dei Superiori generali, ha ulteriormente riaf-fermato il ruolo dei missionari laici all’interno dell’istituto.

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La missione oggi necessita spesso di professionalità e di contributi specifici alla Chiesa locale, che ormai è fondata, ha assunto i ruoli di responsabi-lità e buona parte della pasto-rale ordinaria. Il missionario “generico” e “tuttofare” da tempo è sorpas-sato; a lui si chiedono servizi particolari. Questa professionalità molto spesso si addice maggiormen-te a un missionario laico che non a un prete e riguarda molti campi: sanitario, amministra-tivo, sociale, legale, educativo, comunicativo.

UNA SCELTA ORIGINALE, UNA VOCAZIONE PREZIOSA «Oggi missionari laici non si diventa per ripiego: la nostra scelta ha le sue precise caratteristiche che la rendono unica, diversa sia da quella dei preti che da quella dei volontari internazionali. Anzitutto la scelta di vita. Ci sono delle presenze che un volontario potrà difficilmente intraprendere, perché richiedono tempi molto lunghi, oppure una preparazione troppo specifica o ancora un lavoro in situazioni ambientali o geografiche particolari. Dall’altro lato esistono ambiti dove ad un prete potrebbe essere interdetto l’accesso o comunque l’apostolato suo proprio. Il missionario laico, invece, cerca la sua strada anche lì». fratel Fabio Mussi