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58 Le Scienze 514 giugno 2011 www.lescienze.it Le Scienze 59 Darren Braun MEDICINA Il nemico dentro Un nuovo modello di resistenza agli antibiotici che sta diffondendosi a livello globale potrebbe lasciarci presto senza difese contro un gran numero di pericolose infezioni batteriche di Maryn McKenna

Medicina Il nemico - Katawebdownload.kataweb.it/mediaweb/pdf/espresso/scienze/...della maggior parte dei continenti. È l’autrice di SUPERBUG: The Fatal Menace of MRSA (Free Press,

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58 Le Scienze 514 giugno 2011 www.lescienze.it Le Scienze 59

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Medicina

Il nemico dentro

Un nuovo modello di resistenza agli antibiotici che sta diffondendosi a livello globale potrebbe

lasciarci presto senza difese contro un gran numero di pericolose infezioni batteriche

di Maryn McKenna

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in commercio, negli anni quaranta. E per quasi tutto quell’arco di tempo i medici avevano lanciato l’allarme riguardo il rischio di re-stare senza farmaci a causa dalla diffusione globale di organismi resistenti alla penicillina negli anni cinquanta, proseguita con la resistenza alla meticillina negli anni ottanta e con quella alla van-comicina negli anni novanta.

Questa volta, però, la previsione di una catastrofe post-anti-biotica arrivava da una parte diversa del mondo microbico. I geni che danno resistenza ai carbapenemi, non solo quello che codifi-ca per NDM-1, sono comparsi negli ultimi dieci anni in un gruppo di batteri chiamati gram-negativi. Questa denominazione indica la risposta a una colorazione che riguarda la membrana cellulare. Il suo significato però è più complesso. I batteri gram-negativi sono promiscui: possono scambiarsi frammenti di DNA, quindi un ge-ne per la resistenza comparso, per esempio, in Klebsiella può dif-fondersi velocemente in E. coli, Acinetobacter e altre specie gram-negative. Al contrario, i geni dell’antibiotico-resistenza dei batteri gram-positivi tendono a raggrupparsi nella stessa specie. I batteri gram-negativi sono più difficili da eliminare con gli antibiotici, perché hanno una membrana a doppio strato difficile da penetra-re anche per i farmaci più potenti, e hanno particolari difese cel-lulari. Inoltre ci sono meno opzioni per combatterli. Attualmente le aziende farmaceutiche producono un piccolo numero di nuovi antibiotici, addirittura per i batteri gram-negativi non c’è nessun nuovo composto in produzione. Complessivamente, questa sfor-tunata coincidenza di elementi potrebbe diffondere il disastro dai centri medici a comunità più vaste.

La resistenza ai carbapenemi ha già causato infezioni in am-biente ospedaliero, come nel caso del paziente svedese infettato da Klebsiella, quasi incurabile. Oltre ai carbapenemi, i medici han-no a disposizione pochi altri farmaci (alcuni risalgono al periodo dei primi antibiotici), incapaci però di raggiungere tutti i nascondi-gli dei batteri nell’organismo o con effetti collaterali tanto gravi da non poter essere usati con sicurezza.

Anche se le infezioni collegate all’assistenza sanitaria sono dif-ficili da curare, di solito si scoprono perché i pazienti – anziani, persone debilitate o in terapia intensiva – sono sotto stretta os-servazione. Lo scenario che fa trascorrere notti insonni alle au-torità sanitarie prevede una diffusione silente di geni in grado di conferire resistenza ai carbapenemi in batteri che causano malat-tie quotidiane come E. coli, che oltre a essere molto diffuso è re-sponsabile della stragrande maggioranza delle infezioni del tratto urinario. Walsh fa l’esempio di una donna che va dal medico per

Brya

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ristie

Maryn McKenna è una giornalista scientifica free-lance. Ha raccontato epidemie della maggior parte dei continenti. È l’autrice di SUPERBUG: The Fatal Menace of MRSA (Free Press, 2010) e di Beating Back the Devil: On the Front Lines with the Disease Detectives of the Epidemic Intelligence Service (Free Press, 2004).

ll’inizio dell’estate 2008, Timothy Walsh dell’Università di Cardiff, in Galles, ricevette una mail da un suo conoscente, Christian Giske, medico del Karolinska Institut. Giske aveva in cura un uomo di 59 anni ospedalizzato a gennaio 2008 ed era preoccupato da un batterio che una normale coltura aveva inaspettatamente mostrato nell’urina del paziente. Walsh di-rigeva un laboratorio di genetica della resistenza batterica agli an-tibiotici, e dunque poteva dare un’occhiata a quel germe.

Dopo molte analisi Walsh scoprì che si trattava di Klebsiella pneumoniae, un batterio che nei pazienti ospedalizzati è una delle cause più frequenti di polmoniti e infezioni ematiche. Quel ceppo, però, aveva un gene mai osservato da Walsh. Il gene rendeva Kleb-siella, già resistente ad antibiotici usati in casi critici, insensibile all’ultimo gruppo di sostanze che si era dimostrato affidabile e si-curo: i carbapenemi. L’unico farmaco che mostrò qualche effetto fu la colistina, il cui uso era stato interrotto da anni a causa di effet-ti tossici sui reni. Walsh chiamò l’enzima prodotto da questo gene New Delhi metallo-beta-lattamasi, o NDM-1, dalla città in cui l’uo-mo aveva contratto l’infezione prima di ritornare in Svezia.

Walsh pensò che probabilmente c’erano altri casi, e insieme a Giske cercò di rintracciarli. Nell’agosto 2010 pubblicarono i risul-tati su «Lancet Infectious Diseases»: avevano scoperto 180 sogget-ti portatori del gene. NDM-1 era distribuito in Klebsiella in India e in Pakistan, e si era già diffuso nel Regno Unito portato da persone che avevano viaggiato in Asia meridionale per cure mediche o per visitare amici e parenti. La brutta notizia era che in alcuni casi si era diffuso a un genere batterico diverso: da Klebsiella a Escheri-chia coli, che vive nell’intestino di ogni organismo a sangue caldo ed è diffuso nell’ambiente. Quel trasferimento fece ipotizzare che il gene non rimaneva confinato alle infezioni ospedaliere, ma si spo-stava nei batteri dell’intestino, diffondendosi con strette di mano, baci e maniglie di porte senza essere scoperto.

C’era anche un’altra possibilità: il delicato equilibrio fra batteri e farmaci, messo in moto nel 1928 con la scoperta della penicilli-na, cominciava a pendere in modo definitivo dalla parte dei batte-ri, e molte infezioni letali tenute a bada per decenni dagli antibio-tici avrebbero potuto colpire di nuovo.

Altro modello di resistenzaLa fine del miracolo operato dagli antibiotici non è un argo-

mento nuovo. Da quando ci sono gli antibiotici, c’è l’antibiotico-resistenza: il primo batterio resistente alla penicillina fece la sua comparsa addirittura prima che questo antibiotico venisse messo

In un gruppo di batteri indicati come gram-negativi è emersa una resistenza che minaccia di rendere incurabili molte infezioni comuni.In particolare, alcuni geni conferiscono resistenza ai

carbapenemi, un gruppo di antibiotici visti come «ultima risorsa». Due dei più importanti geni di resistenza sono indicati come NDM-1 e KPC.La resistenza ai carbapenemi nei batteri gram-negativi è

particolarmente preoccupante perché questi batteri sono molto diffusi e si scambiano facilmente i geni. Inoltre, ancora non è stato sviluppato alcun nuovo farmaco per combattere questi microrganismi.

Questo insieme di fattori implica che molte persone negli ospedali e in comunità più grandi potrebbero morire a causa nuove e incurabili infezioni ematiche, del tratto urinario e di altri tessuti.

I n b r e v e

O r I g I n e d I u n b at t e r I O c at t I vO

K. pneumoniae resistente (portatore del gene KPC)

K. pneumoniae

Primo ciclo di antibiotico

Secondo ciclo di antibiotico

K. pneumoniae resistente

Gene per KPC

Cromosoma batterico

Plasmide

Antibiotico

Enzima KPC

E. coli resistente

E. coli

Copia del geneper KPC

La roulette della resistenzaL’uso costante di antibiotici, che favorisce la resistenza ai farmaci in numerose spe-cie batteriche, ha prodotto una nuova, tremenda minaccia. Il nuovo ceppo, descritto nella figura qui sotto, ha avuto origine da alcuni batteri del genere Klebsiella portato-ri del gene KPC, che li ha resi insensibili ad antibiotici noti come carbapenemi. Due ci-cli di trattamenti inefficaci hanno spianato la strada alla proliferazione di batteri porta-tori del gene KPC. Fatto ancora più preoccupante, come mostrato a destra, Klebsiella e altri batteri gram-negativi condividono facilmente geni KPC e altri geni di resistenza, il che potrebbe renderli impermeabili a tutti i farmaci.

un trattamento esteso favorisce i ceppi resistentiIn un ambiente inondato dagli antibiotici, come le unità di terapia intensiva, riescono a sopravvivere e quindi a moltiplicarsi solo batteri con geni che conferiscono resistenza. Nell’immagine qui sopra, il gene KPC ha codificato per un enzima (verde) che attacca l’antibiotico carbapeneme (arancione), addirittura prima che il farmaco attraversi lo strato esterno della doppia membrana del batterio.

A

La resistenza si diffonde alle altre specie battericheIl gene KPC che conferisce resistenza ai carbapenemi si trova su filamenti circolari di DNA, i plasmidi, esterni al cromosoma cellulare. Durante la riproduzione sessuale batterica, due cellule formano un ponte, consentendo al plasmide e ai suoi geni di trasferirsi da una cellula all’altra. I batteri gram-negativi sono abili in questo tipo di trasferimento, che permette a cellule mai trattate con antibiotici di diventare resistenti. La resistenza KPC aumenta la sua pericolosità quando si trasmette a E. coli e ad altri batteri gram-negativi che causano infezioni comuni.

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quella che sembra una semplice cistite. Non essendoci i presuppo-sti per sospettare una resistenza agli antibiotici, il medico prescri-verebbe farmaci che non sono più efficaci, mentre la diffusione dell’infezione potrebbe procedere senza ostacoli lungo il tratto uri-nario fino a raggiungere reni e, con conseguenze devastanti, san-gue. «Non avremmo niente con cui curarla», conclude.

Perdere l’aiuto degli antibioticiIl conflitto in atto da 83 anni fra batteri e farmaci creati per di-

struggerli si colloca a metà strada fra un gioco del tipo «tiro al ber-saglio» e una strategia di distruzione totale. Per quasi ognuno degli antibiotici prodotti fino a oggi, i batteri hanno sviluppato un fat-tore di resistenza che li protegge dall’attacco dei farmaci. Per qua-si ognuno dei fattori di resistenza le aziende farmaceutiche hanno prodotto un farmaco più aggressivo. Fino a oggi, appunto.

Nel corso dei decenni il conflitto si è spostato a favore dei batteri, come un’altalena che lentamente si allontana dal suo pun-to d’equilibrio. In fondo, i batteri hanno l’evoluzione dalla loro parte: impiegano 20 minuti per dare vita a una nuova genera-zione mentre ai ricercatori servono dieci anni o più per svilup-pare un nuovo farmaco. Inoltre, qualsiasi uso di antibiotici, anche quello ragionevole, causa resistenza, sollecitando quella che è chiamata pressione selettiva. In genere, solo pochi batteri con mutazioni casuali favorevoli sopravvivo-no all’attacco di un antibiotico. Questi batteri si riproducono, occupando lo spazio vitale che l’antibiotico ha liberato uccidendo i fratelli sen-sibili, e trasmettono i geni che li hanno protet-ti. (Ecco perché è importante fare un ciclo com-pleto di antibiotici: per eliminare tutti batteri che causano un’infezione, non solo quelli più sensibili). Ma la resistenza non si diffonde solo per via ereditaria. Scambiandosi frammenti di DNA, i batteri possono diventare resistenti sen-za essere esposti a farmaci.

È possibile osservare un modello di resisten-za-che-vince-il-farmaco-che-vince-la-resisten-za nell’evoluzione di Staphylococcus aureus, un batterio gram-positivo: inizialmente insensibi-le alla penicillina, poi alle penicilline sintetiche – inclusa la meti-cillina, per cui è stato chiamato MRSA (acronimo da Methicillin-resistant Staphylococcus aureus) – poi alle cefalosporine come il Keflex e infine alla vancomicina, potente farmaco usato come ul-tima risorsa. I batteri gram-negativi hanno seguito uno schema si-mile, inattivando penicilline, cefalosporine, macrolidi (eritromici-na e azitromicina, o Zithromax) e lincosamidi (clindamicina). Ma fino a poco tempo fa i carbapenemi eliminavano anche le infezio-ni più resistenti in maniera sicura e affidabile, rendendo questi an-tibiotici l’ultima risorsa per i batteri gram-negativi, la barriera fi-nale che separa le infezioni curabili da quelle non curabili. Erano a buon mercato e a largo spettro, cioè erano efficaci contro numero-si organismi, oltre che estremamente potenti.

Potremmo trovare una via d’uscita con un’altra classe di anti-biotici, almeno fino a quando i batteri non ci raggiungeranno di nuovo. Ma se nei prossimi dieci anni non ci sarà all’orizzonte una nuova classe di farmaci capaci di eliminare questi recentissimi su-pergermi, potremmo dover convivere con il rischio di molti tipi di infezioni incurabili per un tempo particolarmente lungo.

«È stato difficile scoprire nuovi composti attivi contro i batteri

gram-negativi e al tempo stesso non tossici per la salute umana», afferma David Shlaes, medico e consulente per lo sviluppo di far-maci. «Con un antibiotico tentiamo di uccidere qualcosa dentro di noi, senza farci del male. Quando ci si pensa, è stimolante». L’ulti-mo nuovo antibiotico autorizzato per infezioni causate da batteri gram-negativi è stato il doripenem, un carbapeneme approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) nel 2007.

La situazione sarebbe già abbastanza grave se si limitasse al-le poche centinaia di casi portatori del gene NDM-1 scoperti fino a oggi. Ma negli ultimi cinque anni un altro gene che conferisce una resistenza simile grazie all’enzima KPC, cioè Klebsiella pneumoniae carbapenemasi, si è diffuso sul pianeta. E sembra seguire il model-lo degli organismi resistenti alla penicillina degli anni cinquanta, e dagli MRSA degli anni novanta: all’inizio provoca epidemie in pa-zienti ospedalieri vulnerabili, e poi si diffonde nella comunità.

Scoprire una minaccia nascostaQuando Walsh e Giske hanno pubblicato i risultati relativi a

NDM-1 su «Lancet Infectious Diseases», l’articolo suscitò un cla-more immediato. I funzionari sanitari indiani gridarono allo scan-

dalo, affermando che i medici occidentali, spinti dall’invidia, stavano cercando di minare la fio-rente industria del turismo medico del Subcon-tinente indiano.

La scoperta della KPC invece non provocò al-cun tipo di fermento. Arrivò silenziosa, in uno delle centinaia di campioni raccolti nel 1996 in ospedali statunitensi. Il progetto per cui erano stati prelevati i campioni si chiamava Intensi-ve Care Antimicrobial Resistance Epidemiology (ICARE) ed era un’iniziativa comune dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) e della Emory University. ICARE doveva monitorare il modo in cui erano usati gli antibiotici nelle uni-tà di terapia intensiva e in altri reparti ospeda-lieri, nella speranza di capire dove avrebbe po-tuto emergere un nuovo organismo resistente.

In un campione inviato da un ospedale del North Carolina fu trovato Klebsiella. Non era inusuale. Klebsiella provoca una comune infe-

zione ospedaliera, a causa di una conseguenza quasi inevitabile dei trattamenti intensivi a cui vengono sottoposti i pazienti: eleva-te dosi di antibiotici a largo spettro distruggono l’ecologia del trat-to intestinale, e causano diarrea che contamina l’ambiente circo-stante, i pazienti e le mani di medici e infermieri che li curano. «Se pensiamo a un paziente in un’unità di terapia intensiva, sedato, in ventilazione forzata, ci rendiamo conto che non può alzarsi e an-dare in bagno», spiega Arjun Srinivasan, direttore dei programmi di prevenzione dei CDC per le infezioni associate alle cure sanita-rie. «Se sono incontinenti, il personale dovrà pulirli. Molti stru-menti si trovano vicino al paziente e ci sono numerose superfici che potrebbero contaminarsi».

L’infezione da Klebsiella in un’unità di terapia intensiva non era stata una sorpresa, mentre lo era stato il risultato delle analisi. Co-me atteso, il campione del North Carolina era resistente a una lun-ga lista di antibiotici, inclusa la penicillina. Ma il campione era re-sistente anche a due carbapenemi, imipenem e meropenem, a cui Klebsiella aveva sempre risposto. Il campione non era totalmen-te resistente, ma i risultati dei CDC indicavano che sarebbero sta-te necessarie dosi elevate di carbapenemi per curare un’infezio- Ge

orge

Ret

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ne. L’enzima che dava quella resistenza attaccava i carbapenemi prima che potessero attraversare la membrana interna della pare-te cellulare.

Prima di allora non era mai stato osservato uno schema di resi-stenza come quello della KPC. Quindi gli epidemiologi iniziarono a lavorare al problema con una sgradevole sensazione di allarme. «Si trattava di un nuovo genere di resistenza, ma quando hai a dispo-sizione solo un unico campione non è possibile prevedere quanto potrebbe diventare comune», afferma Jean B. Patel, vice-diretto-re dell’ufficio dei CDC che si occupa di resistenza antimicrobica. «E per lungo tempo non ci furono altri campioni simili a quello».

Epidemia a New YorkPer diversi anni il campione di Klebsiella del North Carolina ri-

mase un inquietante caso fortunato. Poi, nel 2000, alcuni pazien-ti ricoverati in quattro unità di terapia intensiva al Tisch Hospital del Langone Medical Center dalla New York University, a Manhat-tan, svilupparono infezioni da Klebsiella insolitamente aggressive e resistenti a quasi tutte le classi di farmaci che un medico di tera-pia intensiva avrebbe voluto usare. Era la prima volta che i medici della New York University osservavano infezioni resistenti ai car-bapenemi. Quattordici pazienti svilupparono polmoniti, infezioni chirurgiche e setticemie altamente resistenti ai farmaci, e altri die-ci risultarono portatori asintomatici del germe KPC. Otto di quei 24 pazienti morirono. Le analisi mostrarono che quel Klebsiella aveva lo stesso gene KPC del North Carolina.

Presto l’ospedale avrebbe capito quanto era difficile contene-re quel batterio resistente. Con un numero così elevato di farma-ci inefficaci, l’unica opzione era il vecchio protocollo che preve-deva una rigorosa pulizia per essere certi che il batterio resistente non si diffondesse sulle mani di inconsapevoli operatori sanitari. Il Langone Medical Center mise i pazienti infetti in isolamento, chie-dendo a chiunque entrasse nelle loro stanze di indossare camici e

guanti e controllando che le persone si lavassero e disinfettassero le mani. Quando queste misure non furono più sufficienti, le solu-zioni di lavaggio usate nelle unità di terapia intensiva furono so-stituite. E quando le infezioni tornarono alla carica i medici si con-centrarono sulla cura dei pazienti infetti, scoprendo che alcuni con infezioni del tratto urinario erano stati colpiti da schizzi durante il cambio delle sacche in cui l’urina era raccolta: gli schizzi avevano contaminato anche gli operatori sanitari e l’ambiente. Ci volle un anno per riprendere il controllo dell’epidemia.

Due anni dopo lo stesso batterio altamente resistente compar-ve chissà come negli ospedali di Brooklyn, mostrando ancora una volta quanto possa essere difficile contenere Klebsiella portatrice del gene KPC. Un ospedale scoprì due pazienti infetti nell’agosto 2003, li mise in isolamento e iniziò le procedure per il controllo dell’infezione. Tuttavia, dalla fine del febbraio 2004 furono dia-gnosticati 30 nuovi casi che si diffusero in tutta la struttura. Un altro ospedale identificò un paziente nel dicembre 2003, ne sco-prì altri due nel febbraio 2004 e alla fine di maggio alla lista si ag-giunsero altri 24 pazienti, nonostante gli sforzi aggressivi per bloc-care la diffusione del batterio.

I batteri portatori del gene KPC si diffusero all’Harlem Hospital, dove nella primavera 2005 causarono un’epidemia di sette settice-mie a cui sopravvissero solo due pazienti. Questi batteri arrivarono anche al Mount Sinai Medical Center, dove i ricercatori testarono tutti i pazienti ricoverati nelle tre unità intensive sperando di ca-pire le cause della rapida diffusione dell’epidemia. Ciò che scopri-rono aiutò a spiegare perché i batteri stavano diventando un pro-blema. Il 2 per cento dei pazienti nelle unità intensive era portatore del ceppo resistente: non manifestavano i sintomi, ma costituiva-no un rischio infettivo per gli altri.

Gli ospedali di New York erano diventati terreno fertile per i batteri resistenti, un evento che i numeri nazionali confermarono. Nel 2007 il 21 per cento dei campioni di Klebsiella raccolti a New

Minaccia globaleNei quattro anni successivi al primo isolamen-to del gene KPC in uno sconosciuto ospeda-

le del North Carolina, nessuno fu in grado di trovare alcuna prova della sua diffusione.

Ma una volta che i batteri portatori del gene hanno innescato epidemie in di-versi ospedali di New York, l’assalto era ormai in atto. Questi batteri viag-giarono velocemente verso Francia, Colombia, Canada, Grecia e Cina. Un’epidemia scoppiata in Israele si è diffusa in Regno Unito, Norvegia, Italia e diversi altri paesi europei.

North Carolina, 1996New York, 2000Parigi, 2005Casi successivi

Stati dove nel 2010 è stata confermata la resistenza KPC (37 in totale)

e p I d e m I O L O g I a

Senza lo sviluppo di nuovi farmaci

in grado di sconfiggere i nuovi

ceppi di batteri resistenti

potremmo dover convivere per

lungo tempo con il rischio di

contrarre infezioni impossibili da curare

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York aveva il gene KPC, a confronto con il cinque per cento rac-colto nel resto del paese. Nel 2008 un ospedale di New York riferì che il proprio tasso di KPC era salito al 38 per cento.

Per definizione, i pazienti delle unità intensive sono gravemente malati: hanno subito traumi, soffrono di tumori, insufficienza dei principali organi, senza singola causa quindi i loro decessi posso-no essere complicati da decifrare. Ma nei casi che coinvolgono la KPC non c’è alcun dubbio, afferma John Quale, professore associa-to di medicina al Downstate Medical Center della State University of New York, che ha curato alcuni dei primissimi pazienti. «Ci sono stati casi in cui il trattamento ha fallito nonostante gli sforzi», spie-ga. «E i pazienti sono morti».

Diffusione mondialeDa New York, il ceppo di Klebsiella portatore del gene KPC si

diffuse in altre aree degli Stati Uniti. All’inizio fu scoperto in zo-ne dove spesso i newyorkesi si recano e dalle quali tornano – New Jersey, Arizona e Florida – poi molto più lontano.

La resistenza ai carbapenemi non è una malattia da segnalare alle autorità sanitarie, il che significa che se un laboratorio di ana-lisi scopre un ceppo del genere non è obbligato a informarne le autorità. Perciò l’ampiezza glo-bale della diffusione del gene KPC non è no-ta. Nel 2009, però, metà degli ospedali di Chica-go avevano scoperto il gene KPC in alcuni loro pazienti. Un anno dopo la percentuale era sa-lita al 65 per cento. Alla fine del 2010 i batteri con KPC avevano fatto ammalare seriamente i pazienti ospedalizzati in 37 Stati federali. Una volta che i CDC hanno iniziato a seguire le trac-ce del batterio, hanno scoperto che gli ospeda-li non erano preparati al suo arrivo. «Abbiamo constatato più e più volte che un campione che ci era stato spedito da un ospedale finiva per non essere il primo», dice Patel. «Quando i sanitari cercavano nei loro archivi scoprivano dati che, semplicemente, non avevano cat-turato l’attenzione di nessuno».

Nel febbraio 2005 un ottantenne di Parigi che viveva da cinque anni con un tumore alla prostata si recò d’urgenza in ospedale. I medici scoprirono che aveva introdotto in ospedale Klebsiella con il gene KPC; probabilmente era stato infettato da quel ceppo in se-guito a un’operazione eseguita a New York mesi prima. Si è trat-tato del primo caso noto di diffusione della KPC dagli Stati Uniti a un altro paese, ma non dell’ultimo. Presto furono scoperti cep-pi di Klebsiella con il gene KPC originari di New York in pazien-ti in Colombia, Canada, Cina e Grecia. Questi ceppi hanno causa-to una piccola epidemia che ha colpito 45 persone nell’ospedale di Tel Aviv e che, tramite pazienti e operatori sanitari, si è diffusa a Regno Unito, Norvegia, Svezia, Polonia, Finlandia, Brasile e Italia.

Che cosa ci attende in futuro?Oggi le autorità considerano la diffusione della resistenza ai car-

bapenemi – a partire da KPC, NDM-1 e da altri geni – «un evento di sanità pubblica di interesse internazionale», secondo la dichia-razione che ha reso l’Organizzazione mondiale della Sanità nel no-vembre 2010. Questa dichiarazione è dovuta anche al fatto che si può fare poco per fermare la diffusione di organismi resistenti ai carbapenemi: attualmente funzionano ancora solo pochi antibioti-ci, e sono ben lontani dall’essere perfetti.

La maggior parte di queste infezioni risponde ancora alla ti-

geciclina, un farmaco più recente, e alla colistina, già in uso da un decennio. La tigeciclina, messa in commercio nel 2005, è sta-to il primo di una nuova classe di antibiotici chiamati glicilcicline. Visto che in passato i batteri non hanno sperimentato il mecca-nismo di azione di questo antibiotico, non hanno ancora svilup-pato una resistenza significativa nei suoi confronti. Ma la tigecicli-na non si diffonde bene nel sangue o nella vescica, e ciò la rende inefficace per infezioni ematiche e del tratto urinario causate dal-la KPC e dalla NDM-1. (Inoltre, lo scorso anno la FDA ha aggior-nato le informazioni riportate nei foglietti illustrativi dell’antibio-tico, con un avvertenza relativa al fatto che per alcuni pazienti con infezioni gravi aumenta inspiegabilmente il rischio di decesso). La colistina, invece, appartiene a una piccola classe di farmaci chia-mati polimixine, che risale agli anni quaranta. Anche la colistina ha controindicazioni: oltre a danneggiare i reni, non riesce a pene-trare bene nei tessuti. Questi problemi hanno impedito per decen-ni a questo antibiotico di essere usato in modo diffuso, e potrebbe-ro averne conservato l’utilità così a lungo; negli ultimi anni però l’aumento dell’uso di colistina ha prodotto anche un aumento del-le resistenza nei suoi confronti.

Oltre a tigeciclina e colistina, però, non ab-biamo quasi nulla. Tra il 1998 e il 2008, la FDA ha approvato 13 nuovi antibiotici. Solo tre ave-vano nuovi meccanismi di azione, cioè qualche caratteristica che i batteri non avrebbero rico-nosciuto rapidamente, e nessuno debellava le infezioni causate da batteri gram-negativi. Nel 2009 la Infectious Disease Society of America ha fatto i conti della ricerca sui nuovi antibioti-ci e ha scoperto soltanto 16 antibiotici in fase di sviluppo, a fronte di centinaia di domande per nuovi farmaci inviate ogni anno alla FDA. Otto dei 16 antibiotici erano pensati per curare infe-zioni da batteri gram-negativi, ma nessuno sa-

rebbe stato utile contro gram-negativi estremamente resistenti co-me i batteri KPC e i NDM-1.

Queste statistiche spiegano la situazione: senza dirlo esplicita-mente, la maggior parte delle industrie farmaceutiche ha deciso che i farmaci per infezioni resistenti ai carbapenemi sono troppo impe-gnativi da sviluppare e che si possono usare solo per un breve pe-riodo di tempo prima che si sviluppi resistenza, quindi non vale la pena investire. «Stiamo arrivando al punto in cui dobbiamo inizia-re seriamente a investire molto denaro in nuovi composti, cioè in molecole che noi e soprattutto i batteri non abbiamo mai visto», di-ce Walsh. «E non ce ne servono una o due, ma dieci o venti».

L’espansione dell’epidemia ha costretto gli ospedali a riconside-rare le misure di sicurezza. Le strutture che sono riuscite a control-lare i batteri sostengono che gli sforzi richiedono estrema determi-nazione e concentrazione. I loro protocolli includono il lavaggio quotidiano dei pazienti con antisettici e la pulizia delle superfi-ci nelle camere, senza trascurare neppure le più piccole giunture e gli angoli di monitor e computer, addirittura ogni 12 ore. «Mi pre-occupa la disinfezione delle superfici. Di solito è il punto in cui gli ospedali falliscono», dice Michael Phillips, responsabile del con-trollo sulle infezioni al Langone Medical Center, da dove si è svi-luppata l’epidemia a New York. Phillips ha contribuito a crea-re Clean Team, un progetto che promuove la collaborazione tra esperti di controllo delle infezioni e personale ospedaliero. Nei suoi primi sei mesi di attività, il progetto è riuscito a stroncare l’insor-gere di diverse infezioni. He

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I rapporti più recenti su KPC mostrano quanto devono essere ossessivi gli operatori sanitari in fatto di pulizia. Lo scorso anno 28 pazienti in due ospedali francesi sono stati infettati da un ceppo di Klebsiella resistente nel corso di una visita con endoscopi, son-de flessibili a fibre ottiche che passando per la gola raggiungono il tratto digerente. Gli ospedali pensavano di avere sterilizzato le loro attrezzature, ma Klebsiella si era intrufolato ugualmente.

Anche le squadre sanitarie stanno incrementando la sorveglian-za, nella speranza di identificare i pazienti che sono portatori e isolarli prima che infettino gli altri. La Francia, per esempio, ha istituito un’analisi obbligatoria che impiega strisci rettali per i pa-zienti ospedalizzati in altri paesi a causa di un’infezione a resisten-za multipla; l’analisi viene eseguita il giorno stesso del ricovero in una struttura francese. «Nel mio ospedale, è stato trasferito dal Ma-rocco un paziente che era portatore di resistenza ai carbapenemi», dice Patrice Nordmann, capo dei dipartimenti di batteriologia e vi-rologia all’Hôpital Bicetre di Parigi, che nel 2005 ha curato il pri-mo caso francese di KPC. «Abbiamo isolato il paziente, abbiamo dato l’allarme e abbiamo evitato un’epidemia».

Nel 2009 i CDC hanno pubblicato linee guida per aiutare gli ospedali a controllare i batteri resistenti ai carbapenemi. Le linee guida non raccomandavano però di testare ogni singolo pazien-te, come invece prevedeva la strategia francese, sostenendo che i batteri sono distribuiti nei continenti in modo ancora troppo irre-golare per giustificare costi e tempo dello staff necessario.

Mantenere gli organismi resistenti ai carbapenemi fuori dagli ospedali è importante non solo per controllare le epidemie fra i pa-zienti debilitati, ma anche per prevenire la diffusione alle perso-ne che lavorano nella sanità. John Quale e altri medici che hanno documentato la diffusione di KPC nella città di New York ritengo-no che alcuni di questi batteri possano essere stati trasportati in-consapevolmente da medici, infermieri e personale ausiliario che svolge mansioni diverse in differenti istituzioni. Motivo ancora più importante, si deve impedire che questi batteri condividano i lo-ro geni con altre specie batteriche come E. coli, che si trovano ne-gli ospedali e sono molto diffusi nell’ambiente. Un E. coli rinforza-to dal gene KPC potrebbe sfuggire da un ospedale, sottraendosi a ogni schema di sorveglianza.

Questa fuga si è verificata almeno in un caso. Nel 2008 alcu-ni medici israeliani avevano curato in ospedale un anziano mol-

to malato, ma senza segni evidenti di resistenza ai carbapenemi. Durante la sua prima settimana in ospedale, si era infettato con batteri KPC. Nel giro di un mese il gene KPC si era spostato dall’in-fezione causata da Klebsiella a un E. coli nell’intestino dell’uomo, creando un ceppo molto resistente ma che rispondeva ancora a do-si elevate di antibiotici. Questo trasferimento di geni si era verifi-cato in ospedale, sotto la pressione evolutiva dei farmaci che l’uo-mo stava ricevendo. Ma a gennaio di quest’anno alcuni ricercatori di Hong Kong hanno riferito che il fenomeno si stava verificando anche fuori dagli ospedali. Un paziente che si era recato in una cli-nica locale per un day hospital si era rivelato portatore silente di un ceppo di E. coli che aveva acquisito NDM-1. E non c’erano dati relativi all’ospedalizzazione di questa persona.

Guardando al futuro, gli scienziati prevedono che potrebbero emergere ceppi batterici gram-negativi completamente resistenti, che si formeranno molto tempo prima della produzione dei far-maci che li potrebbero sconfiggere. Alcuni scienziati non devo-no nemmeno immaginare un evento del genere: lo hanno già os-servato nella realtà. Tre anni fa i medici del St. Vincent Hospital di Manhattan, a New York, hanno curato due casi di Klebsiella resi-stenti a qualsiasi arma farmacologia a disposizione. Un paziente è sopravvissuto, l’altro è deceduto. «Per un medico nei paesi svilup-pati è assai raro assistere al decesso di un paziente per un’infezio-ne che prende il sopravvento, e per la quale non ci sono alternative terapeutiche», hanno scritto in una rivista medica. «Non avevamo alcun trattamento efficace da offrire». Presto casi del genere po-trebbero diventare fin troppo comuni, a meno che l’evoluzione dei batteri rallenti, o lo sviluppo dei farmaci acceleri. n

L’Organizzazione mondiale della

Sanità ha dichiarato

la resistenza agli antibiotici un evento di sanità

pubblica di interesse globale

c O n t r O L L O d e L L’ I n f e z I O n e

Un protocollo meticolosoGli operatori sanitari sono spesso portatori involontari di resistenza batterica. Gli ospedali con epidemie controllate di infezioni resistenti ai carbapenemi so-no stati costrette ad adottare rigorose misure igieniche e di sorveglianza.

IdentificarePer evitare di non scoprire ogni potenziale caso, gli ospedali francesi usano tamponi rettali per testare pazienti che stanno per essere ospedalizzati e che hanno una storia di precedenti infezioni resistenti a diversi tipi di farmaci.

SterilizzareMedici e infermiere devono lavarsi le mani per prassi e indossare guanti. I pazienti vengono detersi ogni giorno con antisettici. Tutte le superfici delle loro stanze sono igienizzate, comprese le tastiere dei computer.

analizzareI campioni di laboratorio sono continuamente analizzati e si aggiornano le misure per il controllo delle infezioni fino all’eliminazione completa dei germi con resistenza multipla agli antibiotici.

Carbapenem-Resistant Enterobacteriaceae: A Potential Threat. Schwaber M.J. e Carmeli Y., in «Journal of the American Medical Association», Vol. 300, n. 24, pp. 2911-2913, 24 dicembre 2008.

The Spread of Klebsiella pneumoniae Carbapenemases: A Tale of Strains, Plasmids, and Transposons. Munoz-Price L.S. e Quinn J.P., in «Clinical Infectious Diseases», Vol. 49, n. 11, pp. 1736-1738, 1° dicembre 2009. http://cid.oxfordjournals.org.Does Broad-Spectrum Beta-Lactam Resistance Due to NDM-1 Herald the End of the Antibiotic Era for Treatment of Infections Caused by Gram-Negative Bacteria? Nordmann P. e altri, in «Journal of Antimicrobial Therapy». Pubblicato on line il 28 gennaio 2011.

p e r a p p r O f O n d I r e