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Musica Leggera n.1

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SHOWCASE: BEATRICE ANTOLINI

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Il 17 ottobre è uscito A DUE. Finalmente un discovero, registrato in studio e non in una camera,no?Sì, uno studio. Ma l’ho sentito come una casa, per-ché potevo lavorarci in tranquillità e libertà, comefosse casa mia.

Quali differenze trovi con il tuo primo album? Questo è emotivamente più carico. Nel primo avevosicuramente un approccio con la vita un po’ diverso.In questi due anni sono diventata più riflessiva ecredo che si senta.

Quindi è un disco un po’ più cupo…Più denso, e anche più doloroso. Ci sono delle partidove credo di essermi sfogata, che ne so… Partimolto tese, in cui sentivo di dover tirare un urlo inpiena libertà, e l’ho fatto! E stato quasi un album te-rapeutico.

BIG SALOON, il tuo disco d’esordio, è stato unasorpresa straordinaria. Quando hai capito cheera il momento di pubblicarlo?Ho sempre suonato e fatto un sacco di demo, manon mi sono mai sentita pronta di farli sentire: houn’alta concezione della musica, la rispetto moltis-simo, per cui non mi sentivo degna, o meglio, nonancora arrivata al livello a cui volevo arrivare.Quindi mi tenevo quasi tutto per me.

Sei parecchio autocritica…In un modo pazzesco. Quando ho fatto sentire iprovini e mi han detto che erano pubblicabili, io cisono rimasta: «Ma come sono pubblicabili? È im-possibile! Un disco non si fa mica così…». Per me idischi sono fatti anche con dei materiali e dei mezziimportanti, che io sentivo di non avere. Per fortuna

sono stata spronata a tirar fuori dal cassetto i mieiprovini.

Spronata da chi? Essenzialmente da Federico della Madcap

Collective, la mia prima etichetta: è ri-masto molto colpito dalla mia mu-

sica e ha deciso subito di13

pubblicarmi. Però quello non lo ritengo proprio undisco, è più una raccolta di fatti, di idee dei mieiventitré, ventiquattro anni.

Ho l’impressione che stavolta tu abbia dato piùrilevanza alla voce: in BIG SALOON era missataalla stessa altezza della musica, qui ha un pesomaggiore. Può essere che qui la voce esca di più.

Anche il sound ha subito una evoluzione…Nel disco precedente c’erano più sintetizzatori - suo-nati, sia chiaro. Qui invece mi sono concentrata sullachitarra e sulla batteria. La mia è musica suonata, fac-cio pochissimo editing, con qualche errore, con quelche succede, mi piace l’approccio “alla vecchia”…

Fai una musica che guarda fuori dall’Italia. Credisia un problema, dal punto di vista del mercato?Mi auguro di no. Per quanto mi riguarda, mi sentototalmente un’artista italiana, e non credo nem-meno di fare musica inglese: sono italiana e mi inte-ressa suonare, qui o ovunque. Comunque, da noi èdifficile poter fare certa musica.Chi ti piace? Cito e citerò sempre i Jennifer Gentle, uno dei mi-gliori gruppi italiani: suonano in maniera strepitosa,al pari dei grandi del rock. Marco Fasolo è uno deipochi musicisti veri che mi è capitato di incontrare,le sue canzoni son bellissime. Fra quelli che fannomusica italiana in italiano citerei Morgan, che è dav-vero bravo.E del passato?Ce ne sono tantissimi. Dico Piero Ciampi, anche sepersonalmente lo posso ascoltare con parsimonia,perché mi condiziona la giornata, anche con senti-menti negativi.Se dovessi ringraziare un gruppo o un musicistache credi ti abbia aiutato a diventare quello chesei, chi nomineresti? Parlando di gruppi rock sono tradizionalista, quindidico i Beatles, ma anche i Queen, i Led Zeppelin emolti altri. Nei Beatles però trovo tutto, proprio tutto

TESORI D’ITALIA

Intervista di Gisela Scerman

Servizio fotografico di Roberto Baldazzini

Ha ventotto anni e due dischi all’attivo. Adora le canzoni dei Beatles ma nonrinuncia al suo Mozart, cita il teatro di Ionesco e i quadri di William Turner,entrerebbe volentieri in giuria al Festival di Sanremo (per farlo a pezzi) esi dice disposta a tutto pur di difendere la sua purezza. Sarà mica matta?

LA PIANISTACHE STA IN PIEDI

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Come entrasti in contatto con Lucio Battisti?Attraverso la RCA americana, che aveva legami con sua etichetta discografica italiana. Mi fu dettoche un cantante italiano desiderava registrare in uno studio americano con una sezione ritmica

americana. Era stato deciso di realizzare anche delle versioni inglesi, immagino perché la loro espe-rienza di pubblicare in America dischi di artisti che cantavano nella loro lingua d’origine, anche semolto popolari, non aveva prodotto risultati.

Per quale motivo scelsero proprio te?Forse perché in quel periodo stavo producendo Tom Waits ed ero abbastanza in vista. E poi alla RCA miconoscevano molto bene: qualche anno prima mi avevano affidato il famoso “comeback special” diElvis Presley. Così mi chiamarono, mi chiesero se ero interessato e io risposi di sì: mi era già capitato dilavorare con artisti internazionali, ma prevalentemente in campo jazz, così pensai che sarebbe stataun’esperienza nuova e stimolante.

Ti informasti sull’artista, prima di accettare?Quelli della RCA mi fecero ascoltare uno dei suoi precedenti lavori. Nonostante il mio italiano fosseterribile e io non capissi granché delle liriche, intuii che una sezione ritmica americana avrebbe fun-zionato molto bene in quel contesto e che il risultato finale avrebbe potuto essere più eccitante ri-spetto ai suoi dischi precedenti.

Pare che Lucio avrebbe preferito avere con sè i suoi abituali accompagnatori…Che lui avesse tentato di portarsi dietro i suoi musicisti io neppure lo sapevo. Comunque, i cre-

diti del disco lo indicano come produttore, il che in un certo senso è corretto: lui eral’autore delle canzoni, lui decise quali inserire, lui elaborò gli arrangiamenti in-

sieme ai musicisti. Io sono stato più che altro un interprete musicale, mi sonolimitato a lavorare in studio per ottenere i risultati che Lucio desiderava.

Fosti tu a scegliere i musicisti?Sì, i musicisti li scelsi tutti io. Avemmo solo qualche problema

con la loro disponibilità, perché il lavoro si protrasse molto alungo, assai più del previsto.

Mi risulta che le session durarono dal dicembre1976 al febbraio 1977: 25 giorni di registrazioni,

per un totale di 170 ore. Non è così: iniziammo in ottobre. La mia

agenda dice che il primo turno avvenne il 4ottobre 1976. Era un lunedì.

L’AVVENTURA AMERICANA

Sulla breccia dalla metà degli anni 50, BonesHowe ha fatto dischi con i più grandi: da Presleya Sinatra, dalla Fitzgerald a Waits. Ma quandoconosce Lucio Battisti capisce che nella vita tutto

può succedere. Cronaca di un incubo durato 150giorni.

MASTER TAPE: Lucio Battisti

SOGNANDOCALIFORNIA

Conversazione con Bones Howe. Di Maurizio Becker

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in America in quel periodo, si trattava di unprodotto molto semplice. La sezione ritmicafaceva un lavoro piuttosto elementare, ba-

sico, soprattutto se confrontato con produzionicomplesse come quelle di Michael Jackson. Alcontempo, era un sound singolarmente traspa-rente. Lucio era molto esigente al riguardo: volevache ogni singolo elemento fosse udibile con chia-rezza e pretendeva un’assoluta assonanza fra isuoni e il significato dei testi. Ricordo che passaimolto tempo a discutere con lui le sfumature deiversi, per capire cosa volessero dire veramente. Letraduzioni non erano letterali, per cui molto si per-deva.

È vero che in alcuni brani furono utilizzatetracce che provenivano dall’Italia?No. Prima di iniziare le registrazioni non ho sen-tito niente altro se non il disco che mi aveva datola RCA. Affrontammo il lavoro dall’inizio, equando io sono uscito di scena il disco era finito,missaggi compresi. Che io sappia, dopo sono statisolo riscritti alcuni dei testi inglesi. Non so se poiabbiano anche registrato nuove piste. Mi ricordosolo che un giorno incontrai Joe Reisman e midisse: «Credo che non finiremo mai».

Lucio fu sempre presente durante lalavorazione?Stava tutto il tempo con me in cabina di regia eogni giorno, alla fine dei turni, io gli davo unacassetta con i missaggi provvisori di quanto ave-vamo appena registrato. Lui se la portava in al-bergo, la ascoltava e la mattina dopo mi faceva lesue osservazioni.

Ti sembrava nervoso, insicuro? Se lo era, non dava a vederlo. Si mostrava al con-trario sempre molto deciso, molto convinto dellesue idee.

Come arrangiatore scegliesti Mike Melvoin,un musicista del quale ti fidavi ciecamente… Mike è un talento straordinario: è un eccellentepianista, ha un orecchio brillante e possiede unaimpressionante velocità nel trascrivere la musica.Questo ci facilitò molto la vita: Lucio gli cantavauna canzone e in tempo reale Mike annotava lenote e gli accordi. Lavorare così ti consente di pas-sare abbastanza rapidamente alla fase della regi-

Ne sei certo?Ho un’agenda molto precisa, nella quale trascrivoogni singolo giorno che trascorro in studio. Nonposso fare altrimenti: visto che non ricordo,salvo! In America c’è un vecchio detto che consi-glia di conservare qualsiasi cosa, anche i lacci dascarpe, perché un giorno potranno esserti utili.Quindi ho preso l’abitudine di prendere appuntidettagliati su tutto e di non buttare via niente.Anche perché può capitare di tornare su unprogetto e di aver bisogno di punti di riferi-mento, per non dover ricominciare tutto dacapo.

Dunque 5 mesi: era consuetoimpiegare tanto tempo per realizzareun disco?No. I dischi di Tom Waits li facevo indue settimane. Questo fu un lavorolunghissimo.

Come mai?Perché tutte le mattine Lucio veniva in studio eaveva cambiato idea su qualcosa. La sua teoriaera che registrare un disco è come dipingere. Midiceva così: «Ogni giorno aggiungo un po’ di co-lore sulla tela e un giorno il quadro sarà finito».Quindi si trattava di un processo sempre aperto,sempre in divenire. Tanto che alla fine di novem-bre io fui costretto a mollare, perché avevo unaltro impegno: dovevo registrare i Timberland,una rock band del Mid West sotto contratto conla Epic Records. Il disco di Lucio fu completato daJoe Reisman.

Le registrazioni si svolsero a Hollywood, nelloStudio B della RCA: lo conoscevi già?Ci avevo appena finito un album con una cantau-trice di nome Kelly Garrett, sempre per contodella RCA. Era un buono studio, con un bancoNeve e delle macchine Sculley a 24 piste. Nel

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Nato a Minneapolis nel 1933, DaytonBurr “Bones” Howe si diploma inelettronica e suona la batteria jazz.Nel 1955 va in California, dove siafferma come ingegnere del suonolavorando al servizio di Mel Torme,Ella Fitzgerald, Ornette Coleman, PatBoone, B.B. King ed Elvis Presley. Nel1965 diventa produttore: registrerà fragli altri con The Turtles, TheAssociation, The 5th Dimension, TheMamas & the Papas, Jerry Lee Lewis eFrank Sinatra. Nel 1968 firma il“Comeback Special” di Elvis Presley,nel 1969 vince un Grammy per laproduzione di Aquarius, dal film“Hair”. Dopo la lunga collaborazionecon Tom Waits (7 albums), nel 1986accetta un incarico alla ColumbiaRecords. Nel 1992 torna in sala, esubito ottiene un premio dal NARAS(National Academy Of RecordingArts & Sciences) per il cd jazz COUNT PLAYS DUKE.

Bones Howe e Shorty Rogers, durante una session allo studioRadio Recorders. Hollywood, 1958. Foto di Bill Claxton.

1980 ci sono tornato per farci HEARTATTACK ANDVINE di Tom Waits.

Come organizzasti il lavoro?Per prima cosa misi insieme una sezione ritmicaadatta al tipo di musica che avevo ascoltato nellesue incisioni precedenti.

Tu ami fare dischi con “i musicisti che respirano la stessa aria”. È una tua espressione. Sono esattamente le parole che mi piace usare.

Facesti così anche per il disco di Lucio?Certo.

Come ti sembrava, la musica che avrestidovuto registrare?Tenendo conto del tipo di musica che si produceva

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Sono sempre stato attratto dai personaggi chenei Paesi del comunismo reale conducevano

un’esistenza in bilico tra l’ufficialità e la dissidenza,con un gusto di provocazione, autostima, integrità.Ne feci alcuni ritratti televisivi. Uno fu dedicato aBulat Okudzava, il grande bardo della poesia inmusica. Mi ero occupato anche di Jurij Trifonov, au-tore fra l’altro di un romanzo intitolato La casa sullungo fiume. In quel libro si raccontava di un ca-seggiato costruito sulle rive del fiume Moscova edestinato ai funzionari di partito, un edificio tuttoraesistente nel quale ogni tanto, durante gli anniTrenta, la polizia aveva l’abitudine di fare irruzione:tutti trattenevano il respiro per sapere a chi sa-rebbe toccato. Il giorno dopo, il mobilio del poverodiavolo arrestato nella notte era già in strada e ilnuovo inquilino pronto a prendere il suo posto.Benché si riferisse alle purghe che erano state fattea Mosca nel periodo brezneviano, diventò un be-stseller da centinaia di migliaia di copie. Negli anni70 in Russia il problema del dissenso era ovvia-mente ancora presente, ma rispetto al periodo sta-

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liniano molte cose erano già cambiate e la Sibe-ria non aveva già più quella funzione che avevaavuto fino alla morte di Stalin.

Dunque proposi alla RAI un documentario su Vla-dimir Vysotskij. Anche lui occupava una posizioneintermedia, a tratti ambigua, in un certo senso ti-pica dei tempi di Breznev: il quotidiano «Pravda»vendeva 11 milioni di copie al giorno, ma non credoche il nome di Vysotskij vi fosse apparso una solavolta. Eppure, tutti conoscevano a memoria le suecanzoni, tutti le cantavano. Negli anni 70 Vysotskijaveva perfino potuto acquistare nel centro della ca-pitale una casa che costava un patrimonio. Si trat-tava di un appartamento di 4 o 5 stanze. In base auno standard europeo forse lo definiremmo mo-desto, ma per la Russia era un’eccezione: lo Statoconcedeva infatti abitazioni con 9 metri quadrati apersona e le 4 o 5 stanze della casa di Volodja rap-presentavano un autentico lusso. Pro prietarioanche di una Mercedes di cui andava molto fiero,Vysotskij poteva insomma dirsi un uomo ricco. Alla

Settant’anni fa nasceva a Mosca VladimirVysotskij, il cantautore più amato e rimpiantodal popolo russo: un artista scomodo, a lungodimenticato e ora oggetto di un’appassionatariscoperta. L’unico giornalista italiano cheriuscì a portarlo in tv lo ricorda così.

QUEL REPORTAGE CHE NESSUNO VOLEVA FINIRE

TRE UOMINIA ZONZO PER MOSCA

Da una conversazione con Demetrio Volcic

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