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"Nugae" n.5

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Page 1: "Nugae" n.5

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Page 2: "Nugae" n.5

Rivista letteraria trimestrale autogestita a cura dell’Associazione Culturale “Nugae”

Presidente: Fabio De Santis

cell. 347-3098430

Sede legale: via Guinizelli, 14 Sc. A-22

84091 - Battipaglia (Sa)

Direzione, Redazione, Amministrazione:

via XX Settembre, 23 - Battipaglia

e-mail :

Direttore responsabile: Alfonso Amato

Redazione: Vito Cerullo; Fabio De Santis; Antonia di Dario (correzione bozze); Massimo Longo; Paola Magaldi; Adriana Mazzella; Michele Nigro.

Pubblicità: Paola Magaldi (cell. 335-8384148)

Tesoriere: Salvatore Colitti (cell.338-2025760)

Stampa: Centro copie “Duc@s”

via E. De Nicola, 24 - Battipaglia

Registrazione del Tribunale di Salerno:

N° 20 del 28/Giugno/2004

Editore: “Edizioni Nugae”

via XX Settembre, 23

84091 Battipaglia (Sa)

Chiuso in Redazione: 15 Aprile 2005

“Nugae—Scritti Autografi”

Norme per la collaborazione : la collaborazione è aperta a tutti ed è completamente gratuita. Gli elaborati vanno inviati tramite e—mail o all’indirizzo della Redazione nitidamente dattilo-scritti e firmati, ove non fosse possibile l’invio di floppy disk o cd-r . I testi non dovranno superare la lunghezza di 8 cartelle. La Redazione non restituirà il materiale pervenuto presso la sede del periodico. Si avvale, inoltre, della prerogativa di non pubblicare gli elaborati non ritenuti idonei. La riproduzione, anche parziale, della presente rivista, è consentita die-tro autorizzazione scritta della Direzione e con la citazione della fonte. Gli organizzatori dei premi letterari dovranno far pervenire i testi dei bandi almeno quattro mesi prima. Gli ar-ticoli, i racconti e le liriche riflettono le opinioni dei loro Autori, che di essi risponde-ranno direttamente di fronte alla Legge. Gli scritti inviati dovranno essere inediti e accom-pagnati dalla seguente dichiarazione: “LO SCRITTO INVIATO E’ UN MIO PERSONALE LAVORO E NON E’ MAI STATO PUBBLICATO”. Gli scritti pubblicati e inediti sono di esclusiva proprietà degli Auto-ri e fa fede la data di pubblicazione sul presente periodico.

In copertina:

Foto realizzata da:

Antonia di Dario e Marco Vecchio

Disegno “su pelle”:

Marco Vecchio

L’EDITORIALE Nigro 1

La stanza del pittore Casella 2

Poesia Meis 8

Nuova passione Piccolomini 10

Poesia Della Rocca 16

La stazione Carbone 18

Saluto a vista De Santis 20

LA RECENSIONE Nigro 23

Poesia Dalmiglio 26

Della vertigine cosmica Cerullo 28

RACCONTINANI 31

L’incertezza e il tavolo del poeta De Santis

32

riVISTE 38

INTERVISTA Nigro 39

SOTTO IL PORTICO 44

CONTROEDICOLA 3ª

SOMMARIO PAG.

[email protected]

Page 3: "Nugae" n.5

1

L’editoriale

Il laboratorio/rivista “Nugae – scritti autografi” giunge, così, al suo tenero numero 5 ed un salutare cambio d’aria si manifesta attraverso una serie di novi-tà: dal punto di vista dei contenuti, co-me assetati rabdomanti abbiamo cercato la collaborazione di nuovi scrittori, otte-nendola, nei terreni infiniti della scrit-tura e, manco a dirlo, (per la prima volta nella breve storia di scritti autogra-fi) la narrativa di questo numero divie-ne territorio quasi autogestito da parte di “colleghi” che, pur non appartenendo alla redazione, hanno raccolto “da lonta-no” l’appello con simpatia e partecipa-zione, inviando i propri scritti! Risco-priamo, grazie a tali preziose collabora-zioni, il valore delle note biografiche quale strumento adoperato da chi vuol far conoscere non solo i propri scritti ma anche l’essere umano che c’è dietro e la storia personale che determina la na-scita e l’evoluzione di uno stile narrati-vo o poetico. La saggistica guadagna nuovi spazi nella struttura della rivista, segnando un nuovo punto a favore del-la dotta discussione; guadagnamo, altresì, un fiocco rosa sulla porta di casa grazie alla neonata rubrica dedicata alle riviste letterarie con cui entriamo in contatto ed inaugurata dal trimestrale “Pick Wick” di Besana in Brianza (Mi) e dalla rivista “Steve” del Laboratorio di Poesia di Modena. Nuova è anche la “galleria” (Sotto il portico) che ospita le p o e s i e d i a l c u n i L e t t o r i /Collaboratori… Ed infine evidenziamo la joint-venture instaurata con l’artista salernitano Marco Vecchio il quale, disegnando un motivo azteco-picassiano sulla schiena di una nostra paziente amica, ha reso possibile la realizzazione della foto di copertina. Lo stesso artista ha messo a disposizione alcuni disegni che troverete nelle pagine interne...

Insomma: c’è fermento !

Lascio per ultimo, non me ne vogliano i co-redattori per questa nota di parte, quello che definisco l’evento realmente rivoluzionario di questo numero di “Nugae”: mi riferisco alla completa e, spero, definitiva apertura del portone giubilare nei confronti della letteratura fantascientifica. Una trascurata “cugina” che aveva già, in passato, debuttato timidamente sul trimestrale e che, a partire da questo numero, comincerà a godere dello spazio necessario per una conoscenza approfondita e sistematica. Testimone di questa tappa evoluzioni-stica è l’intervistato Flavio Casella, autore di narrativa con un background fantascientifico. Approfondiremo, con il suo aiuto, solo una minima frazione - purtroppo! - degli argomenti che gravi-tano intorno alla Fantascienza...

Sperando che non si tratti solo di un fuoco di stoppie e che anche altri collabo-ratori ci aiutino ad animare “l’angolo fantascientifico” di “Nugae” con raccon-ti, recensioni e ogni altro strumento letterario che valorizzi un “genere” trop-po a lungo relegato nei comodi ghetti delle fanzines.

Chiudo ricordandovi che il 23 Aprile, alle ore 18 (molti leggeranno il numero 5 dopo questa data, ma voglio ugual-mente rendervi partecipi dell’evento), presso la Provincia di Salerno, “Nugae” aprirà le danze della rassegna “L’Altrolibro per la liberazione” dedicata alla Piccola e Media Editoria italiana, con particolare attenzione alle numerose forme d’auto-produzione (vedi “Nugae”). Poiché il simbolo di questa rivista è “il calamaio incatenato” non potevamo mancare lì dove si parla di Liberazione.

Buona lettura!

di Michele Nigro

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2

… per un attimo, il pittore rima-se rapito di fronte all’opera che aveva compiuto: ma subito do-po, mentre ancora egli guardava, divenne tremante e pallidissimo, e inorridito, e gridando a gran voce: – Questa è davvero la vita stessa! – subitamente si volse a guardare la sua amata – ella era morta.

(Edgar Allan Poe)

La piccola locanda che mi accolse, sul finir dell’e-

state di quell’ormai lontano 19.., nel cuore del-

l’Appennino toscano, pareva tratta di peso da uno

di quei tenebrosi romanzi dell’ottocento, dove

anziani e stanchi nobiluomini, in preda ad inquie-

tudine e stanchezza, si aggirano pensosi per miste-

riche foreste e fosche magioni stregate, agitando

nell’intimo del cuore i cupi fantasmi della desola-

zione.

Intendiamoci: io non sono certo un antico nobi-

luomo, e a quei tempi neppure avrei potuto defi-

nirmi anziano; ma i miei pensieri ed i moti dell’a-

nimo, mentre annoiato mi aggiravo senza meta

per le amene regioni dell’Italia centrale, mi cau­

savano una certa ideale comunanza coi personaggi

di quei libri che così spesso amavo rileggere.

La scienza moderna ha rivestito di rigorose nota-

zioni le antiche e oscure sensazioni che anch’io

provavo – stress, depressione, esaurimento nervoso

erano i termini che il mio dottore mi ripeteva, nel

consigliarmi sempre più perentoriamente un lun-

go periodo di riposo, e a lungo aveva dovuto insi-

stere per convincermi – finalmente – ad abbando-

nare le mie consuete occupazioni e ad intrapren-

dere quel viaggio che a bella posta avevo iniziato

senza la minima organizzazione, senza fissarmi

una meta, con l’unica compagnia della mia auto,

di una piccola valigia e di un taccuino dove ogni

sera annotavo avvenimenti e sensazioni della gior-

nata. Nessun sollievo avevo provato nel frequen-

tare le ancora affollate spiagge dell’Adriatico, né

nel visitare le antiche e suggestive cittadine dell’-

entroterra riminese, e già mi trovavo, deluso, ad

affrontare la strada di un mesto ritorno, cavalcan-

do la ripida dorsale degli Appennini per scendere

poi sul litorale tirrenico, quando, nel transitare

per una nascosta stradina secondaria a pochi chilo-

metri dalla città di ***, m’imbattei in un vecchio

e consunto cartello che annunciava la presenza di

una locanda.

Era l’imbrunire, e presto avrei dovuto pensare a

procurarmi un letto per la notte: quei boschi o-

scuri e deserti mi parvero preferibili alle luminose

cittadine della Versilia dov’ero diretto, e m’inol-

trai quindi decisamente per la stretta strada ster-

rata che il cartello indicava.

Più volte, nel traversare la fitta e tenebrosa pine-

ta, ormai avvolta dalle prime ombre della sera,

ebbi il dubbio di aver sbagliato strada, nel vederla

restringersi ad ogni curva, ed il bosco farsi via via

più buio e folto, ma infine mi trovai su uno spiaz-

zo coperto di ghiaia, su cui sorgeva una vecchia

casa a due piani con ampie finestre di legno scuro

La stanza del pittore

di Flavio Casella

Page 5: "Nugae" n.5

3

ed il tetto di tegole rosse.

Nel piazzale non v’era traccia d’auto: solo alcuni

cavalli, legati ad un palo a lato della casa, brucava-

no pigramente i pochi fili d’erba che crescevano ai

margini della radura. Il rombo del mio motore

quasi mi parve un’aggressione, un insulto a quel-

l’immagine fuori del tempo, e subito lo spensi,

quasi intimorito. All’interno della locanda, mi

guardai attorno incuriosito: ai tavoli di nudo le-

gno stavano seduti alcuni avventori, che iniziava-

no allora a cenare o giocavano a carte alla luce

fioca di poche lampade a gas, che traevano corru-

schi bagliori dal consunto bancone di zinco; l’oste

– un uomo corpulento e cordiale – parve quasi

scusarsi del fatto che il suo locale fosse così insoli-

tamente frequentato: – Sa, – disse con tono im-

barazzato – mi son capitati d’improvviso questi

turisti… sono escursionisti a cavallo, e si son fer-

mati qui per la notte, e le mie camere son po-

che… Certo – proseguì dopo una pausa – una

m’è rimasta, la migliore… la stanza del pittore…

costa un po’ di più, ma se lei vuole… se gradi-

sce…

Mi guidò per le consunte e scricchiolanti scale di

legno, reggendo in alto un lume a petrolio per

rischiararmi il cammino: – Qui la luce elettrica

non è ancora arrivata; – mi disse col solito tono di

scusa – ci tocca andare all’antica, col gas e col

petrolio. Ma non è poi così scomodo, quand’uno

ci fa l’abitudine.

La stanza che mi mostrò era grandissima e tetra,

con mobili scuri ed un enorme letto a baldacchino

ricoperto da un drappo purpureo: – Le piace? –

chiese ansioso – A tanti fa impressione… ma lei è

un signore di città, son sicuro che non baderà a

certe fole… eppoi il letto è comodo, vedrà che si

troverà bene…

Mi fece sorridere la sua timorosa premura, e volli

rassicurarlo: in realtà, già mi sentivo singolarmen-

te attratto dalla cupa atmosfera di quella stanza,

quasi i miei nervi scossi e malati ne traessero un

morboso motivo d’interesse. In particolare conti-

nuavo a scrutare il grande quadro che appena in-

travvedevo a fianco della vasta specchiera del co-

mò, e del quale la fioca e tremolante luce del lu-

me a petrolio non mi permetteva di distinguere i

particolari.

– Perché l’ha chiamata la stanza del pittore? – chiesi

– È quello che ha dipinto quel quadro?

Il mio interlocutore parve d’improvviso farsi an-

cor più imbarazzato: – Sì… – borbottò – ha vis-

suto qui per un po’ di tempo; ma è una lunga

storia… se vuole, domani glie la racconto. Allo-

ra? – proseguì poi, riscuotendosi in modo un po’

brusco – La vuole, la stanza? Scusi se le faccio

fretta… ma sa, con tutta quella gente da servi-

re…

L’indomani mattina, risvegliandomi nel grande

letto a baldacchino, mi sorpresi stranamente di-

steso e tranquillo, quale da lungo tempo non

accadeva di sentirmi: dalle imposte accostate fil-

trava tenue la luce del giorno, e un sottile raggio

di sole, battendo sul bordo dello specchio, si fran-

tumava in tutti i colori dell’iride.

Page 6: "Nugae" n.5

4

adatta alla conversazione, rispondendo alle mie

parole unicamente con timidi sorrisi e monosillabi

sussurrati a bassa voce. Presi quindi a passeg-

giare per i dintorni, respirando a pieni polmoni

l’aria frizzante del mattino e gustando la serena

sensazione di quiete che sentivo, di momento in

momento, rafforzarsi nel mio animo. Percorren-

do un sentierino che scendeva in dolce declivio

dietro la locanda, serpeggiando tra boschi già sfol-

goranti dei colori dell’autunno, giunsi in breve

sulle rive di un piccolo lago, che non tardai a rico-

noscere come quello raffigurato nel dipinto: tutto

era come nella tela, le alte e verdi cime degli abe-

ti a far da cornice, le acque scure e profonde,

tremule alla lieve carezza del vento, la pietra piat-

ta da cui il giovane del quadro protendeva la ma-

no verso la diafana apparizione.

E su quella pietra sostai a mia volta, contemplan-

do pensoso il placido e scuro stendersi della liqui-

da superficie, socchiudendo gli occhi al tiepido

contatto della brezza, quasi sembrandomi di sen-

tir sorgere, dalle profondità del lago, una lontana

voce di donna, un triste canto d’amore e di mor-

te. Rabbrividivo, mentre folate di vento più in-

tense m’investivano, e quasi mi sorprendevo,

riaprendo a tratti gli occhi, nel non scorgere da-

vanti a me quell’apparizione che da un momento

all’altro mi aspettavo di veder comparire. A lun-

go rimasi in quel luogo misterioso e solitario, in

preda ad una crescente eccitazione che quasi mi

fece dimenticare il trascorrere del tempo, fanta-

sticando sui misteriosi protagonisti di quella che

doveva essere stata – già lo intuivo – una tragica

storia, ed era pomeriggio inoltrato quando infine

Rimasi a lungo disteso sul letto con gli occhi soc-

chiusi, cercando invano di ricordare gli oscuri e

confusi sogni della notte precedente ed assaporan-

do le nuove, intense sensazioni che la mia mente

provava. Alla luce del sole, il misterioso quadro

che la sera innanzi mi aveva incuriosito si mostra-

va adesso nella sua interezza: raffigurava un pae-

saggio alpestre, un piccolo lago dalle acque scure

e profonde, incorniciato di alti e folti alberi; dal-

l’acqua sorgeva fino alla cintola una giovane don-

na nuda, esile e bionda, un braccio teso davanti a

sé; inginocchiato sulla riva, un giovane uomo bar-

buto tendeva la mano verso la magica apparizio-

ne, il volto atteggiato ad un’espressione di dispe-

rato dolore. E proprio al centro del quadro spic-

cava il convulso intrecciarsi delle loro mani – la

delicata mano di lei che quasi scompariva nella

robusta stretta dell’altro – chiuse in un definitivo

ed estremo tentativo di congiunzione che sem­

brava, da un momento all’altro, doversi sciogliere

in un addio senza speranza.

Mi colpiva il singolare contrasto tra le espressioni

dei due esseri umani presenti nel quadro: l’uomo

sembrava voler trarre con tutte le sue forze la

fanciulla fuori dall’acqua, mentre ella, al contra-

rio, aveva l’aria di volerlo attirare a sé, nel suo

mondo, consapevole di non poter vivere al di

fuori di quella fredda e scura profondità. Risolsi

di chiedere all’oste notizie sul mistero che intuivo

agitarsi all’interno di quello strano dipinto, ma

quando scesi a far colazione la mia aspettativa

andò delusa: l’uomo si era infatti allontanato a far

provviste, e sua moglie, una donnina minuta e

gentile ma di poche parole, non si rivelò persona

Page 7: "Nugae" n.5

5

riuscii a riscuotermi dal mio assorto torpore e a

far ritorno alla taverna.

La locanda era ora deserta, abbandonata dalla

rumorosa e allegra compagnia che la sera prece-

dente l’aveva frequentata: cenai da solo, in silen-

zio, nell’ampia sala appena rischiarata dalla fioca e

sibilante luce delle lampade a gas. Dopo cena,

mentre mi accendevo la pipa – già cominciando

ad avvertire un caldo e languido torpore invader-

mi le membra – convinsi il taverniere a sedersi al

mio tavolo: con l’ausilio di un paio di bicchierini

d’acquavite, lo indussi a narrarmi la storia del

pittore e del misterioso quadro.

– Il pittore – mi raccontò – venne qui per consi-

glio del suo medico: doveva curarsi i nervi, pove-

retto! dopo la tragedia che gli aveva sconvolto la

vita. Il giovane artista, appresi, aveva amato

d’un amore intenso ed esclusivo una fanciulla, da

cui era ardentemente ricambiato. Ma un giorno

infausto – quando già i due giovani stavano per

coronare il loro sogno d’amore unendo per sem-

pre le loro esistenze – ella aveva incontrato una

improvvisa e penosa morte.

– Non so bene che sia successo. – diceva l’oste a

voce bassa, fissando assorto il suo bicchiere – Pare

che fosse sonnambula, e che nell’andare in giro di

notte sia scivolata in un fiume e sia annegata. Il

corpo non fu mai ritrovato, e il fidanzato quasi

impazzì per il dolore.

Mandato lontano per curarsi, il pittore aveva tro-

vato alloggio proprio in quella locanda, dove a

lungo aveva soggiornato. L’oste lo ricordava co-

me un giovane triste e taciturno, perennemente

immerso nei suoi pensieri: aveva voluto quella

grande camera che da anni nessuno usava più –

l’arredo risaliva a tempi antichi, quando il fabbri-

cato era adibito a casino di caccia di qualche nobi-

le del luogo – e l’aveva resa ancora più tetra, re-

staurando di persona i mobili e ridipingendoli in

colori più scuri dell’originale. E in essa trascorre-

va lunghe e silenziose ore, allontanandosene sola-

mente per brevi e assorte passeggiate sulle rive

del laghetto.

– Le dico la verità: – mi confidò l’oste – per un

po’ di tempo ho avuto paura che una volta o l’al-

tra ci si buttasse dentro. Sa, nelle sue condizio-

ni… e con quel che gli era successo… Così lo

spiavo di nascosto, quando usciva a passeggiare.

Ma i timori del taverniere si dimostrarono infon-

dati, ed anzi, un bel giorno, il pittore gli chiese di

procurargli colori e pennelli. Egli fu lieto di que-

sta richiesta, interpretandola come un segno di

miglioramento delle sue condizioni di salute. Dal

giorno della scomparsa dell’amata, infatti, il gio-

vane non aveva più messo mano ai suoi attrezzi.

Prese a lavorare alacremente ad un grande qua-

dro, e di mano in mano che il lavoro procedeva

sembrava rifiorire in lui l’interesse per la vita, con

gran gioia del locandiere, che a quel giovane triste

s’era affezionato come a un figlio, e che sempre

più spesso veniva fatto oggetto delle sue confiden-

ze.

– Ahimè! – sospirava ora, scuotendo il capo –

Quanto mi sbagliavo! Era proprio matto, pove-

r’uomo: pensi… – e nel dire questo esitò ed ab-

bassò la voce, curvandosi verso di me, quasi te-

Page 8: "Nugae" n.5

6

messe di non esser creduto – pensi che era con-

vinto di aver visto la fidanzata nel lago. Proprio

nell’acqua, sotto la superficie. E gli parlava, an-

che!

Nell’esaltazione della sua mente malata, il giova-

ne pittore s’era convinto che, quando fosse riusci-

to a ritrarre la fanciulla nell’atto di emergere dal-

l’acqua, ella davvero si sarebbe ricongiunta a lui

per sempre. A quel lavoro dedicò ogni sua risor-

sa, con sempre più febbrile energia, finché un

giorno il grande quadro fu terminato ed una sera,

esaltato e commosso, egli invitò il suo ospite ad

ammirarlo per primo. Il dipinto gli era sembrato

b e l l i s s i m o , r i c o r d a v a l ’ o s t e

– e non stentavo a crederlo, avendolo potuto

vedere di persona – la fanciulla emergente dal-

l’acqua pareva viva, e quasi provocava allo spetta-

tore l’irresistibile impulso di stendere una mano

per toccarla. Il mio interlocutore tacque, e mi

accorsi che aveva le lacrime agli occhi, nel ricor-

dare quei lontani e tragici avvenimenti.

– Fu l’ultima volta che lo vidi. – proseguì, la voce

rotta dalla commozione – Da vivo, voglio dire.

Pochi minuti dopo che ero sceso, mia moglie salì

per portargli la sua solita tisana, ma lui non rispo-

se. Bussammo a lungo… niente! La porta era

chiusa dall’interno, così alla fine la sfondammo…

ma la stanza era vuota! Ne ritrovarono il cadavere

due giorni dopo, nelle buie profondità del piccolo

lago. I parenti, avvisati, vennero a ritirare la sal-

ma, e con essa i suoi pochi oggetti. Ma non volle-

ro il grande quadro, e il locandiere non ebbe ani-

mo di rimuoverlo dal luogo dove il suo sventura-

to autore l’aveva collocato. Non ero sorpreso

che la tragica storia si fosse conclusa con un suici-

dio, che anzi mi sembrava esserne il logico, quasi

inevitabile coronamento. Ma quando lo dissi al

mio ospite, questi scosse il capo, quasi irritato: –

Non è stato un suicidio! – esclamò.

Poi, come se si fosse pentito del suo impulso,

esitò a lungo prima di proseguire:

– Almeno, non un suicidio come pensano tutti.Si

curvò di nuovo verso di me, abbassando la voce:

– Anche la polizia ha archiviato il caso come suici-

dio. Non mi hanno creduto, quando ho racconta-

to che la porta e le finestre erano sbarrate dall’in-

terno: han detto che mi sbagliavo… Ma io son

sicuro di quel che dico. E poi… – abbassò ancor

di più la voce, guardandosi intorno furtivamente

– e poi c’è un’altra cosa… Badi bene, sa, è una

cosa che non ho mai detto a nessuno… ma lei mi

pare una persona a modo, e bisogna ben che lo

racconti a qualcuno, se no divento matto an-

ch’io… Continuava a balbettare vaghe allusioni,

incapace di liberarsi del tutto dell’inquieto segreto

che celava nell’animo, e a mia volta mi trovai

intento a curvarmi verso di lui, ansioso di udire la

fine della storia.

– Quella sera… – alitò infine, in un soffio –

Quando mi fece vedere il dipinto finito, la sua

figura non c’era, nel quadro: c’era solo la don-

na… la donna era sola, nel quadro!

Page 9: "Nugae" n.5

7

NOTE BIOGRAFICHE

FLAVIO CASELLA nasce a Genova nel 1949. Durante

l'adolescenza scrive numerosi racconti e poesie, che

rimangono tuttavia chiusi nel classico cassetto: lavori

d'introspezione psicologica

e, come s'usava dire in quel

periodo, “di protesta”, ma

già caratterizzati da sfuma-

ture surreali e fantastiche.

Nel 1974 si laurea in inge-

gneria, si trasferisce a Mila-

no e comincia a lavorare

nell'industria metalmeccani-

ca. Nello stesso periodo na-

sce in lui un interesse quasi

esclusivo per la fantascienza

e la letteratura fantastica in

generale. Dal 1976 inizia a

collaborare con le principali

riviste del settore, sia profes-

sionali che amatoriali (fanzines) con racconti e articoli.

Dal 1980 ricomincia ad alternare a lavori fantastici

altri di narrativa tradizionale. Qualche tempo dopo, in

aperta polemica con l'ambiente del fandom e con la

visione ghettizzata e di genere che caratterizza la lette-

ratura fantastica, se ne allontana definitivamente,

dedicandosi alla narrativa mainstream (sia pur mante-

nendo una predilezione di fondo per atmosfere e am-

bientazioni fantastiche). A metà degli anni ’90 rico-

mincia a cercare sbocchi editoriali per le sue opere,

pubblicando racconti su giornali e periodici culturali e

partecipando a premi letterari, dove ottiene alcuni si-

gnificativi riconoscimenti. Autore di conferenze e spetta-

coli teatrali (l’ultimo è “MOVENZE D’INCOGNITO

AZZURRO” *, messo in

scena in prima esecuzione

alla Pieve di Someglio –

Passo del Brallo (PV) nel

Luglio 2003), è attento so-

prattutto allo stile, all'atmo-

sfera della storia e al detta-

glio delle situazioni e dei

personaggi, ma per contro

scarsamente interessato alla

creazione di trame, predilige

la misura del racconto di

media lunghezza (da dieci a

trenta pagine) in cui può

meglio sviluppare lo studio

psicologico dei personaggi e la descrizione d'ambiente,

mantenendo la stessa impostazione – a capitoli chiusi

ed autosufficienti – anche in opere a misura di roman-

zo.

* “Movenze d’incognito azzurro” (racconti)

Prospettiva editrice - Civitavecchia (RM) 2002

pagg. 146

Page 10: "Nugae" n.5

8

Passi notturni

Vento di frecce gelate

finestre chiuse per paura

lento come trecce legate

ginestre muse di calura.

Di giorno schivo traffico

gironi di bollette e calunnie

ritorno privo e mastico

bocconi di saette e paturnie.

Ma la notte, di notte

pregiudizi dormienti

mele cotte e ricotte

per più vizi e tormenti.

Ritrovo prospettiche perse

colonna sonora di passi

un rovo d’isteriche gerse

di donna che dimora tra sassi.

L’odio diventa pace.

(1° coro:“Materialismo hegeliano!”)

Podio di lenta brace.

(2° coro:“Onanismo freudiano!”)

Libero da sguardi, guardo

deserti angoli di libertà

suoni di fontana in lontananza

tuoni di lontana somiglianza.

Incerti trampoli di verità

albero di dardi. Io, bardo…!

Prologo a “Sentori”

Dall’etichetta di un profumo maschi-le: “Una profumazione studiata per l’uomo metropolitano. L’intensità dell’ incenso e del patchouli, la raffinatezza di legni e muschio: un mix di energie che riflette la com-plessità di una vita moderna e at-tiva.”

Sentori

Sarà il deriso fiore

bagnato dal pregiudizio

a profumare le insperate notti

delle insoddisfatte mogli

del tramonto.

Parrà un intriso cuore

d’intrecciato palmizio

per frantumare le errate sorti.

Pelle fredda di latte e germogli

che chiede il conto.

D’efficiente uomo metrò

t’impongono sentori

di ingannevoli studi.

Deprimente luogo retrò

dove sorgono sudori

su spregevoli nudi.

Muschiati legni

d’isterica complessità,

incensi senza chiesa

per cimici vincenti.

Raffinati segni

d’asfittica sensualità,

censi di una scienza arresa.

Energetici escrementi.

Ettore Meis poesia

Page 11: "Nugae" n.5

9

Febbre

Inutile attesa

è la tua…

Futile pretesa

di chi conta respiri.

Vela di prua:

picchi d’onda e viri!

Febbre che non passa

punte bagnate

ebbre del suon di cassa

smunte e rimate.

Discorsi di sostanza

che si tengono in piedi

soccorsi senza speranza.

Celsi svendono rimedi…

Amorevoli consigli

su ideologiche follie.

Ragionevoli sbadigli

sublimatiche eufonìe.

Immobile

Lascia che il fremente mondo

si strugga su gustosi insulti,

pascia gemente e verecondo

e poi fugga su erbosi virgulti.

Perdonatemi, se resto qui!

Immobile e ignorante

rifiuto immaturo dell’etica.

Svegliatemi, se questo è il dì!

Ignobile e arrogante

aiuto imperituro della scettica.

Sospeso tra giudizi

come malta péi mattoni

mi ritengo necessario

presuntuoso, sogno, in quanto che

se son sceso tra i supplizi

croce alta dei santoni

ne convengo (né contrario,

né orgoglioso): c’è bisogno di epochè!

Libertà

Il meschino tramutava sconfitte

sotterrando letame nelle vite altrui

e sebbene chino agganciava bitte

imponendo un legame alle sortite di Lui.

Sul palcoscenico della tradizione

sfilava con moglie e figli

talco igienico di bella apparizione

di chi sbava tra doglie e artigli.

Libero prigioniero di se stesso

piaga purulenta con petali di rosa

riverbero menzognero di un re depresso

saga incruenta tra cembali di sposa.

Pantomimica libertà imposta

infima regia dell’ignoranza

vanto di una tipica arroganza

intima elegia di una viltà riposta.

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G. non aveva mai corso così veloce. Sembrava avesse delle piccole ali sotto le piante dei piedi. Era scalzo, e andava filato come un lampo sulle pietre aguzze, che tuttavia non avvertiva minima-mente punzecchiarlo o scorticargli la morbida epidermide. Erano di mosca, oppure di libellula. Sbattevano freneticamente producendo un ronzio fastidioso, che G. non riusciva a sopportare. Co-sicché egli era quasi sospeso fluttuante nell’aria, e volava sulle pietre aguzze che riempiono i binari ferroviari.

Ad un tratto, mentre correva sospeso nell’aria a folle velocità, sentì un fischio dietro di sé. Si voltò e, nel pieno di quella pazza corsa, perse l’equili-brio. Cadde, inesorabilmente e col muso sulle pietre. Cadde e si ruppe il muso. Dalla fronte iniziarono ad uscire fiotti di sangue. Dal naso il vitale liquido rosso scorreva a fiumi. E, come se non bastasse, le piccole ali di mosca o libellula, che producevano quel ronzio così fastidioso, con-tinuavano a spingerlo ad una velocità crudele e sovrumana, mentre lui, steso sulle pietre aguzze e fameliche, continuava a strisciarci e batterci col muso sopra. E continuava a sanguinare.

Il fischio si faceva sempre più insistente. Cos’era quel dannatissimo fischio? Incombeva come la sirena della morte. Come la tromba del giudizio universale. Ad ogni tratto diventava sempre più forte, tanto che G., ad un certo punto, dovette tapparsi le orecchie tutte schizzate di sangue. G. capì che così non poteva continuare; presto sareb-be morto dissanguato, e della sua testa sarebbero rimasti soltanto pochi sporchi e putrefatti bran-delli di carne e capelli attaccati ad un teschio lace-rato. Il fischio incombeva sempre più. Stava per investirlo. E lui non sapeva nemmeno donde ve-nisse. Quel fischio. Sempre più vicino. Sempre più forte e ruggente in quella pazza corsa. Così, G. mise le mani a terra e tentò di fermarsi. Non vi riuscì. Le ali erano troppo più forti. Piccole ali di mosca o libellula ronzanti fastidiose. G. non

sopportava più quel ronzio. Decise di fare un altro tentativo per fermare quelle maledette pic-cole ali di mosca o libellula. Stavolta, però, si aggrappò con la mano sinistra al binario, si tenne saldamente. Le gambe superarono il punto in cui il braccio era ancorato al binario. Le gambe erano ormai preda di quelle piccole ali di mosca o libel-lula. Il fischio tuonò di nuovo. Incombeva. G. protese la mano libera, la mano destra, verso la gamba sinistra. Afferrò la pianta dei piedi e strap-pò via quelle piccole ali, che vide essere ali di libellula grigie e lunghe. Poi tentò di cambiare mano. Nel tentativo, perse la presa, e la gamba ancora preda di quelle frenetiche ali, lo trascinò via per qualche metro. Cozzò fortemente con la testa sulle pietre aguzze. Cominciò ad uscire san-gue anche da lì. Il sangue usciva da un buco pro-fondo che si era aperto all’altezza del cervelletto. In compenso il fischio si era leggermente allonta-nato. G. si fece forza. Si aggrappò al binario con la mano destra e ripetè con la sinistra la stessa operazione di disinnesto delle ali. Ora era libero da quel fastidioso ronzìo. E poteva finalmente fermarsi. Si alzò, stavolta posando saldamente le piante dei piedi a terra, e sentì la gravità incom-bere pesantemente sul suo corpo martoriato. Poi sentì il fischio. Si voltò dietro e cercò donde quel fischio venisse, mentre del sangue gli scorreva abbondante sugli occhi, offuscandogli parzialmen-te la vista. Notò, con grande stupore, che dietro di lui c’era un treno fumeggiante che viaggiava ad una folle velocità nella sua direzione. Si faceva sempre più vicino. Il suo faro lampeggiava all’o-rizzonte. Era come una valanga di ferro che stava per travolgerlo.

Tentò di buttarsi su uno dei lati del binario. Ma ben presto si accorse di non poterlo fare. Era cir-condato da un mare di scarafaggi, serpenti, insetti e rettili vari. Era un vero e proprio mare che lo circondava da tutti e due i lati, e si muoveva ac-calcandosi sulle grosse linee ferroviarie come onde sulla riva. Quel mare si perdeva a vista d’oc-

Nuova passione

di Antonio Piccolomini d’Aragona

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chio. Riempiva l’orizzonte, tranne nel punto in cui la ferrovia continuava a correre. Era un mare viscido e rumoroso. Serpenti, vipere, lucertole, gechi, scarafaggi, cimici, ragni, api, mosche, zan-zare, tutti l’uno sopra l’altro, viscidi, striscianti, ma soprattutto rumorosi. Si agitavano e ondeggia-vano. Facevano un rumore disgustoso. Sotto la luna pallida nel cielo della notte, le loro viscide epidermidi e scorze brillavano di un bagliore sof-fuso, rilucevano come laghi di argento. Proprio come un mare, un oceano infinito. E, proprio come un mare, ondeggiavano e si accalcavano sulle sponde di ferro. Il fischio si faceva sempre più vicino. G. si voltò di nuovo verso il treno. Stavolta lo vide distintamente. Spruzzava vapore nerastro. Era un’antica locomotiva tutta nera, con la cabina di comando illuminata. Era un grosso serpente di ferro che correva attraverso un mare di viscidi rettili e insetti disgustosi. Alla fine, G. si convinse che la zona delimitata dai binari fosse l’unica davvero sicura, immune da quel mare di disgustose e orribilmente rumorose creature. Decise di rimanere nel binario. Ma, naturalmen-te, per farlo, doveva cominciare a correre, dove-va fuggire a quel treno di ferro nero, fumante nella notte.

Lentamente mosse le gambe. Erano come atrofiz-zate. Al posto delle ali, adesso, aveva sotto le palme dei piedi due ferite minuscole, che si allar-gavano e sanguinavano sempre di più, man mano che le pietre dei binari le penetravano con le loro punte taglienti. G. iniziò a correre in queste di-sperate condizioni, mentre il treno alle spalle fischiava e ruggiva e sbuffava sopra quel manto di rettili ed insetti vari. Il treno lo incalzava, poteva sentire il vento sollevarsi alle sue spalle e risuc-chiarlo come in una voragine. Correva. Scappava. Ormai aveva preso velocità. Una buona velocità. Le sue mani e le sue gambe si muovevano ritmica-mente in una perfetta coordinazione. Era l’effetto della paura. Era il treno dietro di lui. Tutto quell’ ammasso di nera ferraglia. Quel nero ser-pente di ferro che tentava di mangiarselo. G. lo

sentiva dietro. E così correva e correva, correva senza mai fermarsi, scappava, lungo quel binario che sembrava essere senza fine nell’orizzonte sem-pre irraggiungibile. Correva. Il treno gli era die-tro. Cosa incredibile, tentava di risucchiarlo verso di sé, di maciullarlo sotto le sue ruote di metallo arrugginito, eppure nello stesso tempo lo spingeva in avanti, lo lanciava, lo faceva correre velocissi-mo. In maniera inumana. E G. correva davvero veloce come un lampo. Non si era mai visto un uomo correre così veloce. Quasi come se avesse ancora le ali sotto i piedi. Solo che ora, sotto i piedi aveva due stimmate sanguinanti e continua-mente trafitte da aguzze pietre e piccole scaglie di roccia. G. correva. Correva ormai da un’ora. Forse di più. Veloce come una saetta. Il treno gli stava dietro. Sbuffava. Ruggiva. Voleva mangiar-selo. Non era distante più di cinque o sei metri. G. iniziò a sentire la stanchezza. Sanguinava dalla faccia e dai piedi. Sudava sangue dalla fronte. Il sangue gli cadeva davanti agli occhi. Ma questo non era importante; ora doveva solo correre drit-to, lungo quel dritto binario di infinità. E non aveva bisogno di guardare davanti. Doveva solo correre. E infatti correva. Correva ma era stanco. I polmoni iniziarono ad arrancare. Il respiro co-minciò a farglisi pesante. Nei bronchi iniziò a se-cernere muco in quantità abbondante. Nelle gi-nocchia iniziò a formarsi acido lattico. G. entrò in apnea. Una fitta lancinante nel fianco cominciò a farlo contorcere ed accasciare in quella folle cor-sa. Non ne poteva più. Il treno lo incalzava e lui stava per venire meno. Iniziò a pensare che sareb-be morto. Iniziò a immaginarsi il suo corpo mar-toriato sotto quel treno. Le sue membra schizzare in ogni direzione e finire in pasto agli insetti e ai rettili tutto intorno. Che orrenda fine! Ma forse sarebbe stato meglio morire, piuttosto che conti-nuare a correre. G. stava per iniziare a piangere, ma ben presto si accorse che quella corsa era cosa ben più tremenda che una fine, seppur lenta e dolorosa. E così ricominciò a sperare. Sperava di stancarsi fino allo strenuo. Sperava di finire sotto quel treno e interrompere quella corsa straziante.

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Grondava di sangue. Sangue sul volto, sangue dalle palme dei piedi. Sangue dovunque. Correva e la-sciava dietro di sé una scia di sangue. Una lunghissi-ma scia di sangue.

Tutto ad un tratto, quando G. sentiva le forze final-mente venire meno e stava per abbandonarsi alla voracità del serpente di ferro dietro di lui, il treno iniziò a rallentare. Si sentirono i freni stridere for-temente. Fischiavano tutti come un coro di demoni ghignanti. G. si bloccò e si voltò verso il treno. Era fermo. Il treno si era fermato. E tutto fu avvolto dal silenzio e dall’oscurità della notte lunare. G. crollò a terra. Era sfinito. Cadendo, finì con en-trambi i palmi delle mani sulle punte di due pietre aguzzissime. Le mani affondarono. Furono letteral-mente trapassate da quelle rocce. Sangue cominciò a uscirne fuori a fiotti. Era una fontana di sangue. Sangue dalla fronte. Sangue dai piedi. Adesso anche sangue dalle mani…G. era disperato. Straziato. Voleva che il treno ricominciasse a correre e lo travolgesse definitivamente. La morte, il premio della sua sofferenza. Invece no. Era solo e fermo in quel mare di serpenti e rettili vari. Sopra quel bina-rio interminabile. Era abbandonato.

Si guardò intorno. Notò che parallelo a lui, ad una decina di metri di distanza, scorreva un altro bina-rio. I due binari erano separati da un unico enorme viscido serpente squamoso. G. lo notava per la pri-ma volta. E vide una donna camminare su quel bi-nario. Camminava nella direzione opposta a quella in cui lui aveva corso fino ad allora. G. si alzò in piedi di scatto. Poi si tolse il sangue dagli occhi. Cercò di vedere chi fosse quella donna. Mise a fuo-co e scrutò attraverso la notte: era sua madre. La riconobbe da quella tipica anziana camminata che l’avrebbe contraddistinta tra mille agli occhi del suo unico figlio.

“Madre!” gridò “Sono io! Sono qui!”

La donna si girò e lo guardò. Era calma. Appagata. Rassegnata. Alzò il braccio e lo agitò a destra e sini-stra in segno di saluto.

“Madre! Madre!” G. continuava a ripetere commos-

so. La donna parlò: “Oh, mio piccolo G. Come sei ridotto. Grondante di sangue da fronte, piedi e mani. E le tue ali? Dove sono finite le tue ali da libellula?”

“Le ho strappate madre! Producevano un ronzìo fastidioso. Mi stavano uccidendo e non riuscivo a controllarle!”

“Oh te meschino e disgraziato! Hai strappato le ali che io ti avevo donato. Adesso avrai solo le tue gambe per muoverti, e camminerai ogni giorno toccando la terra dura e rovente. Non ti staccherai mai più da essa, e sarai per sempre schiacciato dal peso di cieli infiniti! Eri una libel-lula, e guarda adesso cosa sei! Disgraziato!”

“Madre! Madre!” G. iniziò a piangere come un disperato e a strapparsi i capelli. “Non riuscivo a controllarle, quelle ali. Ronzavano insopporta-bilmente. Mi stavano uccidendo.” Continuava a scusarsi. Si scusava e si scusava. Le sue scuse risuonavano nel silenzio desertico di quel luogo.

“Me ne vado”

“Dove vai, madre! Non lasciarmi qui! Vieni qui da me!”

“Non posso tornare su quel binario. Sarai tu un giorno a venire sul mio, e a ripercorrere all’in-dietro il cammino.”

“Ma stai attenta ai treni, madre. Te ne prego! Sei anziana, tu non puoi correre veloce come me. Verrai investita e morirai. Madre! Stai at-tenta! Vieni qui da me!”

“Mio piccolo G., qui non passano più i treni. Qui non c’è fretta. Il tuo binario termina. Non ne vedi la fine, ma questa prima o poi arriverà. Sul mio invece, non esiste capolinea. Non passa-no treni, e non c’è fretta. Non c’è bisogno di correre. Qui bisogna solo camminare e aspetta-re. E tutto arriva senza che tu abbia bisogno di cercarlo.”

Detto questo, mentre G. continuava a chiamarla e a piangere, a strapparsi i capelli,la donna si

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rimise in cammino. Riprese la sua marcia verso il nulla in quell’oceano di rettili e serpenti. E pian piano scomparve all’orizzonte. G. si calmò. Le ferite continuavano a sanguinare senza tregua. La sua vista era di nuovo ricoperta di sangue. All’im-provviso vide qualcosa in lontananza. Cominciò a camminare veloce verso questo qualcosa. Il treno lo seguiva muovendosi lentamente. G. non pensa-va al treno. Voleva vedere cosa c’era. Notò che quel qualcosa era una specie di isola di marmo su quel mare di rettili e serpenti. Si trovava in mezzo ai due binari. Era come un tempio. Decise di rag-giungerla. Per farlo doveva immergersi in quel mare e nuotarvi attraverso. Ma non importava. Ora doveva vedere quel tempio che si ergeva ma-estoso nel deserto.

Mise il piede fuori del binario e lo immerse tra i viscidi animali ondeggianti sotto di lui. Il piede affondò. Poi mise anche l’altro piede, e si trovò totalmente immerso in quel carnaio di rettili e insetti viscidi e ronzanti. Era disgustoso. Poteva sentirli strisciare sotto i suoi piedi nudi e insangui-nati. A volte ne afferrava alcuni con le mani, ma poi li rilasciava immediatamente colto dallo schi-fo. Poteva sentirne alcuni, come gli scarafaggi, schiacciarsi sotto il suo peso. Facevano un rumore legnoso. Crack! La loro corazza era lucida e dura. Ora era immerso fino al collo. Quel mare sem-brava avere una profondità infinita. Su cosa pog-giavano tutti quegli insetti e quei rettili ammuc-chiati e ondeggianti, viscidi e rumorosi? Su niente. G. capì che era il contrario. Che tutto il mondo, tutto l’universo, tutto si poggiava su di loro. Su quel mare embrionico che era il pavimento del cosmo intero. Alcuni insetti e serpenti lo morse-ro. Il veleno iniziò a insinuarsi rapidamente nelle sue vene. Alcuni insetti e ragni e rettili gli entra-rono nella bocca. Li sputò via. E intanto nuotava, muoveva le braccia e le gambe in quel putrido mare. Aveva quasi raggiunto il bordo del tempio. Ora era immerso fino agli occhi. Ben presto fu totalmente sommerso, e non riuscì a vedere più niente. Quando ecco, annaspando e agitando le

mani alla superficie, afferrò qualcosa di solido. Il bordo del tempio. Si issò velocemente tenendosi aggrappato. Aria! Finalmente respirava di nuovo. Sorprendentemente, addosso non aveva alcun insetto o rettile o ragno. Gli erano scivolati via nel momento in cui era uscito da quel mare, pro-prio come fossero stati acqua. Ma il veleno che gli avevano iniettato e scorreva a pieno circolo nelle sue vene.

G. si incamminò per le strade del tempio. Erano silenziose e vuote. Il tempio aveva la forma di una T. Aveva la forma della croce del Cristo. G. si trovava di fronte il corridoio centrale. Alla sua destra ed alla sua sinistra c’erano stretti colonnati percorsi dalle ombre argentate della luna. G. en-trò nel corridoio centrale. Sul lato destro c’era una piccola stanza con tante poltroncine allineate contro il muro. Era come la sala di attesa di una stazione ferroviaria. La saletta era illuminata da un pallido neon pendente dal tetto e oscillante nell’aria calma. C’era un uomo seduto. Stava fumando una sigaretta. G. entrò e vide che quel-l’uomo era suo padre. Si sedette accanto a lui. Continuava a grondare di sangue. Quando il pa-dre lo vide, volle abbracciarlo teneramente, pro-prio come quando G. era piccolo.

“Oh padre…padre…te ne stai qui, solo soletto, in questa pallida stanza. Cosa fai? Cosa fai padre?” G. lo afferrò per le guance e gli disse queste paro-le guardandolo con occhi compassionevoli e ba-ciandogli la fronte.

Il padre, con le povere rughe che cascavano sotto gli occhi stanchi, lo guardò dal basso verso l’alto. Teneva la bocca aperta e piangeva. Un pianto in dignitoso silenzio. Poi, guardandolo dal basso verso l’alto, e piangendo:

“Oh figlio…figlio…perché mi hai abbandonato?”

G. fu colpito come da un fulmine. Lasciò il padre. Lo guardò terrorizzato. Si alzò. Si avvicinò alla porta camminando all’indietro e barcollando. Il padre gli stava davanti, misero e disperato, le lacrime scivolavano percorrendo gli anfratti delle

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rughe attorno agli occhi. Il suo lamento era mono-tono. Dondolava avanti e dietro sulla sedia. Teneva le mani congiunte, sembrava voler pregare suo fi-glio. Pregarlo di rimanere con lui. Ma G. era terro-rizzato. Uscì dalla stanza. Il lamento del padre era monotono e frustrante. Iniziò a correre verso il fondo del corridoio principale. Sanguinava dalle fronte, dai piedi e dalle mani. “Figlio! Figlio!”, il padre continuava a strepitare disperato. Prolungava la parola come con un eco di morte.

G. arrivò ad una porta. Sulla porta c’era scritto “Uscita”. La aprì. E si trovò davanti l’universo infi-nito. Se avesse fatto un passo sarebbe precipitato nel vuoto. Quella porta dava allo spazio più remoto ed arcano. Immense strade di stelle si dischiusero ai suoi occhi. Pianeti, soli, satelliti, meteoriti. Tutti nella loro infinita ed avvolgente, dispersiva immen-sità. Soffiava un vento tiepido. Cori di muse vi si accompagnavano intonando note di arpa.

G. era impressionato da questo spettacolo cosmico. Se ne stava a bocca aperta appoggiandosi alla porta e tenendone la maniglia. All’improvviso una mano gli afferrò la spalla.

“Giovanotto!” disse una voce prepotente “Giovanotto!”

G. si voltò. Era una specie di gendarme con tanto di divisa, cappello e stivali lucidi e brillanti. L’uo-mo ripetè : “Giovanotto, mi segua!”

G. gli concesse le mani. Venne ammanettato. Fu portato di nuovo fuori del corridoio principale, lungo il colonnato adombrato d’argento lunare. Passando davanti alla sala di attesa vide suo padre. Aveva il mento appoggiato sulla spalla destra e die-tro la testa, sul muro, c’era un’enorme chiazza di sangue spiaccicato. Uno schizzo di rosso sangue. Quello stesso, medesimo sangue, che lui adesso stava perdendo a fiumi dalla fronte, dai piedi e dalle mani. Il padre teneva nella mano destra una pistola ancora fumante. Si era ucciso.

G. fu portato davanti ad un enorme banco degli imputati in una saletta lungo il colonnato sinistro. Stette un paio di minuti ad attendere, col gendarme

a fianco che lo sorvegliava. Era sfinito. Distrut-to. Grondava sangue dalla fronte, dai piedi e dalle mani. Venne poi un giudice. Aveva la par-rucca con i riccioli bianchi, come i giudici sette-centeschi. Teneva in mano un libro. Sopra c’era scritto: “SACRA BIBBIA”. A G. fu ordinato di mettervi il palmo della mano e dire: “Giuro di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”. Giurò così che sarebbe rimasto in silen-zio. E che anche gli altri sarebbero dovuti rima-nere coscienziosamente muti. Quando staccò la mano dal libro, vi lasciò l’impronta insanguinata della sua mano. Il sangue si coagulò all’istante, sebbene fosse fresco. Rimase per sempre im-presso su quel libro.

Il giudice iniziò a parlare: “Dunque, signor G., lei ha aperto la porta proibita, non è così?”

“L’ho aperta perché vi ho letto un cartello con su scritto “Uscita”. Volevo uscire, signor giudi-ce.”

Il giudice ed il gendarme si guardarono allibiti. Poi il giudice gridò furente: “Ma tu guarda le mie povere orecchie cosa devono sentire! Quale ignominiosa impudenza!”

“Bastardo cafone!” il gendarme urlò nelle orec-chie di G. e poi lo colpì col manganello nella schiena, lasciandogli un grosso segno rosso. G. cadde a terra. Poi si riposò. Si rialzò dopo alcuni secondi, durante i quali il giudice ed il gendarme non avevano fatto altro che sputargli addosso. Quando si rialzò, il giudice gli disse in tono so-lenne: “Non lo sai che non è concesso uscire di qui?”

“Ma allora perché quel cartello dice “Uscita”?”

“Ah, maledetto! Quello non è un cartello, è un confine ! Non è un invito, ma un divieto!”

G. si fermò e rimase per un pò a pensare. Poi chiese con l’innocenza di un bambino:

“Ma allora a cosa serve un uscita, se non possia-mo uscire?” Il giudice fu di nuovo sconvolto da quelle parole irriverenti. Il gendarme colpì nuo-

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vamente G. nella schiena. G. ricadde. Poi, fatico-samente, si rialzò.

“Basta! Basta! Basta! Io ti condanno! Sei condan-nato! Sei colpevole! Maledetto demone, tu sarai annientato!”

Quelle parole di condanna risollevarono G. “Si, condannatemi! Si, annientatemi! Io non ne posso più!” Era stanco, sfinito, dissanguato. Grondava ancora sangue dalla fronte, dai piedi e dalle mani. “Condannatemi alla pena di morte!” disse gettan-dosi ai piedi del gendarme e congiungendo le mani in segno di preghiera.

“Ah la morte! Splendida fuga! È troppo facile mo-rire dinanzi alla vita, mio caro.” Il giudice rideva come Satana Trimegisto. E come Satana Trimegi-sto celebrò il suo trionfo dinanzi alla croce di Cri-sto, così pure lui sbeffeggiava la sua vittoria in faccia al povero G. “Troppo facile morire, e ri-congiungerti con il tuo padre morto anche lui, là fuori, dove prima hai tentato di andare. Fuggi! Con la morte vuoi fuggire il dolore degli uomini! Ma se adesso decidessi di condannarti alla morte, sarebbe stato inutile impedirti di attraversare quella porta e uscire. Sarebbe stato inutile impe-dirti di varcare la soglia dell’Uscita. No! Il tuo sacrificio sarebbe troppo finto. Quale sacrificio! Sarebbe piuttosto un premio. No, mio caro, la morte è per noi un premio. Perciò io, ora, ti con-danno alla VITA! Vivi, maledetto! Vivi e purifica-ti!” Queste parole colme di rabbia furono accom-pagnate da sguardi di fuoco e folli gesti. E fu così che Satana giudicò il Cristo.

Il gendarme prese G. per le manette. Lo condusse fuori. Sul colonnato. Sul bordo. Gli tolse le ma-nette e lo spinse nel mare viscido e pungente di insetti rumorosi e squamosi serpenti di veleno. Il mare si mosse come risvegliandosi dalla calma piatta. Produsse un movimento ondeggiante e una forte corrente. Spinse G. verso il binario e lasciò che il suo corpo si arenasse su di esso. Il gendar-me rientrò nel corridoio. Il tempio piombò di nuovo nel silenzio. Tutto quel deserto piombò

nel silenzio.

G. era sfinito, annientato. Si rialzò. Grondava sangue dalla fronte, dai piedi e dalle mani. Vide il treno fermo stargli accanto. Non ne poteva più. La madre gli aveva detto che da qualche parte avrebbe trovato la fine del binario. Non sapeva quanto lontana essa fosse. Forse milioni di anni luce. Forse era stata solo una menzogna di mater-na consolazione. Tuttavia si rimise in cammino nella direzione opposta al treno. Camminava len-tamente e barcollando. Quando si fu allontanato un centinaio di metri, il treno cominciò a far fi-schiare le sue giunture arrugginite e a sbuffare di nuovo. Prima lento, poi sempre più veloce. Cor-reva incombente verso G. G., allora, ricominciò di nuovo a fuggire per non essere sopraffatto dal treno. Correva e correva. Sudava, ansimava e grondava di sangue. Da allora in poi, ogni volta che si sarebbe fermato, anche il treno avrebbe interrotto il suo sbuffare ruggente e ritmante nel cuore della notte. E tutte le volte che G. si fermò, rivide tutto da capo. Visse ogni volta tutto quello strazio. Di nuovo tutto quel dolore. Rivide la madre sull’altro binario camminare silenziosa e paziente nella direzione opposta. Rivide il tempio e nuotò di nuovo nel mare di insetti e rettili visci-di e pungenti. Rivide il padre. Di nuovo quella straziante domanda di dolore e disperazione. E di nuovo fuggì fino all’uscita. L’universo gli si di-schiuse per un altro brevissimo istante di eternità. Di nuovo fu ammanettato dal gendarme e portato attraverso il corridoio centrale. Poi, rivide ancora il padre coricato sulla spalla, con la macchia di sangue sul muro e la pistola fumante nella mano. E, ancora una volta, quell’assurdo processo. Poi di nuovo la condanna. La spinta nel mare. E di nuovo si ritrovò arenato su quel binario. E tutto ricominciò da capo e si ripetè per tante, infinite volte.

E così visse. E scontò la sua pena.

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Dalle interviste eseguite per il Progetto sugli esiti della regolarizzazione nelle regioni meridionali e i per-corsi di mobilità geografica e professionale dei lavoratori, regolarizzati in seguito alla sanatoria Bossi-Fini dell’anno 2002, con il Patrocinio dell’Unione Europea, Obiettivo Sud, del Ministero dell’Interno, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

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Raccontare con “ fare poetico” un fenomeno quasi straripante, di forte attualità, quale l’immigrazione nel nostro paese può essere un modo per far sì che, invece, a straripare siano le sfumature … La poesia, le comunica, una dietro l’al-tra: le racchiude.Una struttura che fa ricordare di cimentarsi e vedere dov’è andato a finire quel tanto ricercato mo-dello di tolleranza... Per cominciare, Collaborazione, in questo senso assume connotazioni del tutto diverse, ricorda un’appartenenza, un sano contatto con la realtà, un ridimensionamento di quel che si ha, di quel che si può fare, una sostituzione alla polemica.

Voci di mobilità

E’ insieme un sogno & una speranza: uno sbarco Italiano, Europeo...

Poi,

un’incessante ricerca di stabilità.

Sarei un potenziale portatore di gioia, benessere, per una famiglia che m’at-tende...

lontano, lontano da qui

Vado al phone center, sì, e li sento tutti...

Qui… oserei dire: “dalla padella alla brace”.

Giorni di duro lavoro.

Altalenando… su e giù per l’Italia, scelgo il sud.

Attesa di permessi per soggiornare, il tempo passa...

Da uomo, ho riscoperto un ritorno ad un contatto più assiduo con “nostra Ma-dre Terra”,

se non fosse per questo timbro di “precario” che sembra essere a noi destina-to.

Le mie mani impastando,

sanno, ora più che mai… cosa s’intende per costruzione.

Costruzione di edifici al momento...

Cerco moglie, mi piacciono le italiane, non sono come le nostre donne.

Io, donna, mi chiedo… ci sarà pure un modo per respirare quel che si chiama distrazione, si dice così?

così da riempire questi giorni interi… impregnati di assistenza.

Qua e là, compromessi… che scuotono l’intimo: “Vorrei cantare”.

Delva Della Rocca poesia

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Una regolarizzazione a pagamento, direi...

Se avessimo le risorse, nessun problema,

spesso, domande a risposte multiple mi chiedono come mi trovo qui,

dico… poca comprensione in giro...

Pioveva, il vento soffiava gelido, un giorno,

febbraio… in quel giorno… andai più in là di quanto detto poco fa...

Un incontro lo prospettò come nebbia che confonde...

Erano Inviati a rilevare esiti di tre anni ormai...

Ebbene, udii: “un Paese che t’accoglie pur sempre”...

Cuore

O cuore

quale resistenza

quale sorgente che dona sollievo

quale antidoto alchè

la spada di verità trafigge

pensaci tu ad ogni cambio di nota,

risana le fratture.

Più in là o nella violenza dell’uragano,

placa

rievoca il ricordo

O cuore d’origine

Appelli

Un servizio che comunica dalla tivù

un’inviata immersa nel suo dono alla vita

una madre che piange,

una vita che muore,

un grido che si disperde,

un’ancora di salvataggio: ci son pure quelli che fanno ridere

e tuttosommato è l’eco di “quel che è nostro e non ci si spiega”

tutto fa brodo

nei ritorni che ritornano

Disegno di Marco Vecchio

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Quando le prime luci dell’alba asciugano la notte e i radi rumori riecheggiano inesausti, come am-plificati dal torpore dei caseggiati, lentamente schiude gli occhi il gracile Ferdinando. Facendo forza sulle braccia avvizzite, si mette in piedi e vi rimane per un po’, mezzo incurvato, l’aria inter-detta, lo sguardo impervio. Barcollando, a piccoli passi, abbandona il suo giaciglio di buste e cartoni guadagnando le note vetrate, vi preme poi sopra le dita annerite. Niente, non è ancora ora d’aper-tura! Con uno sbadiglio si scuote di dosso il gelo d’una vita, inizia una nuova giornata, sospesa ed identica. Finalmente i guardiani aprono i battenti, Ferdinando, avanzando, assume un contegno severo, da predicatore, l’indice destro teso ver-so l’alto ed attacca con la solita salmodia, la stessa da nessuno sa quanti anni. “E’ qui, in questo luogo maledetto che l’alleanza tra Dio e l’uomo viene a cadere, -s’intuiva che la voce era frutto d’un notevole sfor-zo, ciò nonostante arrivava a picchi d’intensità ragguardevoli- io parto da Dio e a Dio ritorno, ma quando ho chiesto da dove dovevo partire tutti mi hanno detto di venire qui. Tuttiii”. Quell’ultima parola, seguita da un prolungato silenzio, era ef-fettivamente urlata con tale disperazione da spin-gere gli astanti ad arrestarsi per arginare il rivolo di brividi innescato. Ma solo chi non lo aveva mai visto poteva allarmarsi davvero. Alcuni dei pendo-lari sfruttavano questa pausa per avvicinarlo por-tandogli qualcosa da mangiare o una piccola offer-ta. Sapevano bene che non era prudente interrom-perlo. Dopo poco ricominciava, la stessa frase, lo stesso sforzo, lo stesso insondabile precipizio nei suoi occhi. La Polfer usava un certo riguardo nei suoi confronti, gli permetteva di sdraiarsi sulle

panchine e sui grigi muretti che affiancano i binari tanto da suscitare le invidie degli altri clochard, scomodati ogni ora dalle ronde di rito. Fortunata-mente già da mesi non gli capitava più di accanirsi su singoli individui, inseguendoli affannosamente per rivelar loro “la sua verità”, ora semplicemente vagava fin quando il suo corpo lo sorreggeva, intento a proferire quei fonemi, unico, crudele lascito della ragione.

Nella penombra meditata dagli enormi pilastri gli appostamenti entrano nel vivo, ogni lurido anfrat-to può essere sfruttato: le persone sembrano più

sospettose, vigili, ma di ignari e d’ingenui se ne trovano sempre. Un ragazzo, forse un bambi-no, comincia oggi il suo apprendistato e trema d’orgoglio e di paura quando mostra la lama e si trova per la prima volta a cogliere sul volto di un estraneo quello smarrimento ansioso e

quel terrore spasmodico che solo una rapina può regalare. I manuali di antropologia urbana inse-gnano che ogni agglomerato ha i suoi luoghi dove convogliare ogni sorta di tensione: le stazioni, in qualunque remota città del pianeta, assolvono a questa funzione. Mentre lo sferragliare dei treni si rincorre ogni ora con maggior frenesia, un viag-giatore si abbandona alla contemplazione di quel-lo strano luogo. Assorto, sempre più assorto. Strisciante stridore delle frenate, strade ferrate incandescenti, impiegati con il loro strascico di insoddisfazioni e malinconie, strascinìo delle code agli sportelli tra strattoni e proteste, sudici strac-ciaioli rassegnati, strilloni seduti nelle edicole, stranieri turlupinati da truffatori da strapazzo, strabuzzare d’occhi di chi ancora si meraviglia di fronte ad un simile disordine, brancolare strabal-

La stazione

di Luigi Carbone

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zoni degli ubriachi, tassisti ansimanti sotto i baga-gli di signore che ostentano vistose spille di strass, cani che si disseccano su sporco strame di città, fiacche teorie di straccioni, strofinio improvviso degli attacchini, striscioni minacciosi ostentati con spavalderia da treni speciali stipati all’inverosimi-le, abiti stropicciati dall’irrequietudine del tragit-to, strepiti e sterpi avvinghiati al dolore della lon-tananza che verrà. Ora che il mattino mostra un volto più maturo e l’altoparlante semina a spaglio città, paesi e ritardi, la stazione cresce, si gonfia, inoltra al cielo il frastuono scortese dei suoi passi, migliaia di andature, moto scolpito dal tempo, dall’urgenza d’un orario. Mani tese, indici che scorrono veloci su tabelle gialle o bianche, corse a perdifiato, soddisfazione del primo gradino del vagone, vergogna del bagno-rifugio per un viag-gio clandestino, sguardi che si sfiorano dai fine-strini, tendine tirate a negare la gioia di un miste-ro che si perpetua. Su un binario morto da tem-po, le erbacce si piegano pigre soccombendo al lento incedere d’un silenzioso convoglio. Un vec-chio treno a vapore lucente di polvere avanza timido e impacciato, quasi timoroso di non ricor-darsi come si fa. Un frate sorride indifferente. Un gruppetto di curiosi con un gruppetto di giornali sotto il braccio presume d’aver capito. “Che pro-duzione sontuosa!” esclama un signore sulla ses-santina, “Come ai miei tempi! Che cinema, allo-ra!” Il capostazione, esterrefatto per il nuovo o-spite, accorre incredulo, cerca un elemento rassi-curante, il segnale con l’indicazione del numero del binario. Niente. “L’ennesima trovata pubblici-taria” si dice col tono di chi vuol fugare ogni pre-occupazione “ma questa volta mi faccio rispettare, questa volta faccio un casino anche col prefetto se occorre”. Una nuvola di vapore che perde tutti nel silenzio. L’attesa è palpabile, è un’attesa cari-ca. Il convoglio non giunge all’ormeggio, s’arre-sta, s’intravede solo un braccio che sporge dalla locomotiva, un libro riposto sulla superficie irre-golare della massicciata. “E’ la giacca di Marinetti, l’ ho riconosciuta!” grida eccitato un bambino, lasciando cadere lo zaino dalle spalle. Tutti si pre-

cipitano verso quel treno già irrimediabilmente lontano, suole esagitate infieriscono sul volume appena donato alla città calpestandolo a ripetizio-ne. Senza ritegno, senza pudore. Senza memoria. Dimentichi dell’ultimo minuto donato dal passa-to. Il capostazione non si è unito al tumulto, im-mobile osserva. Viene avvicinato da un giovane avvolto in un paltò un po’ desueto che gli porge un foglietto di carta e, senza proferir parola, s’in-cammina verso l’obliteratrice. “Stazione: dichiara-zione poetica, innalzo il sogno d’errare alla volta dei tuoi fragori”. Un uomo d’ogni religione dal vagone che incontra il tramonto segue per l’ulti-ma volta le architetture del tempio, ombra della ragione. Cattedrale sommersa da lacrime atee, dalla disperazione del benessere, dall’ovvietà che ogni meta comporta. Sempre una nuova destina-zione, un altro punto d’arrivo, la vitrea Colonia, Aquileia d’ambra, la rovina d’un mausoleo roma-no nelle campagne bulgare… Frontiere che disfa-no o assecondano l’ordito della natura. La loco-motiva si ferma impotente dinanzi al Vallo di A-driano, spegne le macchine. Respira. Contempla.

Immagini passeggere in un giro immortale.

La stazione, crocevia di destini in transito.

NOTE BIOGRAFICHE

Luigi Carbone nasce a Torino nel 1980, si trasferisce a Napoli nel 1990.

Matura un particolare interesse per l'archeologia (si impegna nella ricerca archeologica in diversi siti della Magna Graecia), il cinema e il teatro.

Consegue la laurea in Lettere classiche presso l'ateneo federiciano nel febbraio 2005.

Collabora da poco più di un anno con la redazione Cultura del "Roma" e con l'agenzia sportiva "Mediapress".

Interessato soprattutto alla scrittura drammaturgica, sta lavorando ad un atto unico sul mito di Erigone.

E' alla prima collaborazione con una rivista letteraria.

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Il pomeriggio degli aquiloni

Il pomeriggio degli aquiloni

lo cercammo a tastoni nella tiepida

sabbia dei morti. Non sembravano buoni

i friarielli di novembre. A piedi

c’incollavamo ai trapezi in aria.

Leggevo forte io ricordi? L’opinel,

la birra a sorsi. Lei, la procellaria

orfana, impiegata, donna del

terzetto sconosciuto. “E’ la prima

volta?” non chiedeva nessuno. “Certo”,

rispondevamo ognuno. In rima,

i calzini, i nastri, il tempo, aperti

gli aquiloni nostri austeri.

Insomma, sembravamo ignari e veri.

Sulla strada di S.Damiano

Sulla strada dei salmi, lì davanti

al chiostro di campagna, quello dei

poveri sai, gli amanti, i fanti,

la processione di noi, già rei

di essere troppo seri, già all’alba.

Dal medioevo nebuloso distano

poche campane delle sette. Scialbi

ci raccontiamo in vapori, festa

alle sorti che spremiamo in tanti,

lì davanti, la cunetta…lì cadesti.

Saluto a vista

di Fabio De Santis a Seb

Un compleanno di qualche anno fa

Son venuti in tanti, eccolo lì

il nostro ragazzo, alquanto giovane

e magro. Le candele quelle sì

si mescolano in fretta con la torta

di mele…lo spumante dell’anno

scorso, i sorrisi inceneriti sulla

crema. Le corde alla chitarra danno

Sant’Antuono lu nimico dellu

dimonio, e ridono, e ridono ché

la guerra non c’è più ormai…è finita.

E la sera non c’è più sai, ché

andati siamo tutti, in salita.

Erranti

Vaganti e forse siamo stanchi su

queste strade eterne. Malandati

accucciati sulla pietra del

medico, la nostra domanda amata

è forte, ha troppa vita sulle vocali.

Ma io…non chiedermi più niente. Già

che fa l’aria infinita? Lì, che fa

un cane abbaia, viene, sul fondale

un branco, nel vuoto, ridiamo,

la birra al sacco, considerazioni

sulla sera, poi le orazioni

effervescenti, noi devoti siamo.

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La luce in perdita, anche la voce

non la ricordo più. Ricordo stelle

tante, le smagliature degli snelli

avambracci dei castagni. Nuoce

l’ago del freddo che spinge ancora

un riccio sulla mia perplessità

su cos’è vita ricordata ancora

notte vissuta nell’aldiquà.

Il rifiuto delle suore

Chissà ci siamo illusi di essere

normali nell’estate dell’orrore

delle nuore. Nessuna delle more

ci ha creduti capaci in feste.

Dunque noi a spremere limoni sulle

rosse lastre di una stagione cruda

dei carpacci, rabbiosi giochi e drudi

avidi di fresco e suoni sulla pelle.

Movimenti

Noi ci consumano le porte aggredite

su anziani ballatoi. Quelle vite

esauste ragionano soltanto.

La libertà del ragionare. Intanto

ci stiracchiamo sul tappeto del

davanzale. Vogliamo l’agnello ben

cotto, leggiamo novelle e arricciando

tabacco per l’aria. Giovani andando

pizzicati da oscuri desideri

ben argomentati, così seri

talvolta c’incateniamo bene

all’uscio malchiuso. A tante pene

ci consegna il nostro saltellare,

l’attenta visione dell’andare,

tra soglie e anime con divisori.

Abbiamo solo un po’ d’usura in più e [tremori.

Saluto a vista

Fra le onde la roulette, il berretto

in mani gialle, il rollio, il cassero,

la sigaretta stretta nel masso

dentale, arrostito da un netto

rocambolesco fuoco, ricordi?

Hai riso per la semplicità

delle strisce bianche e blu a bordo,

quelle dei mozzi, della sobrietà.

Hai rastrellato mediterraneo,

l’argento, il corallo per amante,

navigato lontano, distante.

Rammenti la diffusione di un erroneo

amore per tutto? lascivo scivolo

nel risvolto del cielo che nuoti

a pieni polpacci ancora frivoli,

ancora mai legati. Disponi

la vista rara al mare, seduto

che aspetti morte a mente

singhiozzante, ma umida e suadente,

muto ingordo marinaio perduto.

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Nota

L’opinel e la birra a sorsi sono citazioni di due racconti di Philip Delerm inclusi nel libro La prima sorsata di birra. Sono incappato in questo testo in un meraviglioso pomeriggio di sole in novembre. Su una spiaggia napoletana ci deliziammo leggen-do questi piccoli racconti, ritratti di oggetti ed azioni quotidiane. I friarielli, a Napoli, sono i broc-coli fritti.

La strada di S.Damiano è una stradina, percorribi-le solo a piedi, che unisce una cappella del medio-evo dedicata a S.Masseo ed il convento di S.Damiano appunto. Quindici minuti di cammino.

Un compleanno di qualche anno fa è sostanzial-mente un plagio. Ad essere saccheggiato è stato Claudio Lolli del 1970: “Si porta in tavola torta di mele con su piazzate tante candele e lo spumante dell’anno scorso tenuto in frigo, rimasto lì. Eccolo lì il nostro ragazzo, eccolo lì, giovane e forte non avrà paura della morte, non farà la stessa sporca nostra vita. E la guerra non c’è più ormai, la guer-ra è finita sai.” Sant’Antuono lu nimico dellu de-monio invece è una canzone lucana, scherzosa, dedicata a S.Antonio Abate, festeggiato il 17 gen-naio.

Che fa l’aria infinita? proviene dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi: …e quan-do miro in ciel arder le stelle;/dico fra me pensando:/a che tante favelle?/che fa l’aria infinita, e quel profon-do/infinito seren? Che vuol dir questa/solitudine im-mensa?ed io che sono? (vv 84-89)Dalla stessa poesia ho preso un altro spunto: “Ancor non sei tu paga/di riandare i sempiterni calli?” (vv 5-6). Sempre in Er-ranti il medico è S.Giuseppe Moscati; il riferimento è il Santuario a lui dedicato a Serino, in provincia di Avellino.

In Movimenti i giovani…pizzicati è una citazione di una canzone di Vinicio Capossela Il ballo di S.Vito dove si dice: vecchi e giovani pizzicati dalla tarantola.

Marinaio perduto, infine, è il titolo di uno straor-dinario caso raccontato da Oliver Sacks nel testo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello.

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Disegno di Marco Vecchio

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Per alcuni rappresenta un episodio “classico” nella storia dei media; per gli “scienziati dell’anima” è stato uno degli esperimenti più riusciti, su larga scala e mai eseguito prima, sulle nevrosi colletti-ve; per gli amanti del teatro, una performance dal realismo sconvolgente. Ed infine, per il mondo dell’informazione, un chiaro esempio di possi-bile manipolazione della notizia.

Fatto sta che quando la trasmissione andò in onda, descrivendo un immaginario sbarco dei marziani nel New Jersey, si verificò un fenomeno straordinario di schizofrenia collettiva a livello nazionale e quella che doveva essere un’interpretazione tea-trale trasmessa via radio divenne il notiziario più equivocato della storia!

“La guerra dei mondi” di Orson Welles*(libero adattamento radiofonico dal racconto War of the Worlds di H. G. Wells) non è un libro, se con questo termine intendia-mo andare al di là del foglio stampato, ma semplicemente uno strumento cartaceo con cui avvi-cinarsi ulteriormente al “fenomeno Welles”.

La pubblicazione, infatti, accompagnata dalla pre-fazione di Fernanda Pivano e da un’interessante e scientificamente coerente postfazione di Mauro Wolf, non è nient’altro che la fedele trascrizione (con doppio testo inglese-italiano) del radiodram-

ma trasmesso dai microfoni della CBS di New York la sera del 30 Ottobre 1938 e che rese cele-bre il già apprezzato enfant prodige del cinema americano. E non per volontà sua! Orson Welles, insieme al suo gruppo teatrale - The Mercury Thea-tre on the Air - , desiderava “semplicemente” au-

mentare il realismo dell’-azione, come era già successo con altri radio-drammi regolarmente trasmessi, e donare più autenticità all’opera let-teraria (che nel 1898 non era ancora etichettata come fantascienza) del celebre Wells: il papà, per intenderci, della “macchina del tempo” !

E ci riuscì! Milioni di americani in preda al panico, si riversarono in strada diretti verso loca-lità sufficientemente lontane dall’epicentro dell’attacco marziano; suicidi; isterismi; riti religiosi di massa; gesti inconsulti; migliaia di telefonate ai centralini della polizia… Il caos!

N e l 1 9 4 0 , d o p o “l’incidente” causato da Welles, uno studioso di

tali fenomeni, Hadley Cantril, realizzò una ricer-ca pubblicata per la Princeton University Press con il titolo “The Invasion from Mars. A study in the Psychology of Panic” grazie alla quale si mise, final-mente, un po’ di ordine nella vicenda e furono chiariti i cosiddetti “fattori predisponenti” a causa dei quali il radiodramma di Orson Welles ebbe il riverbero psicologico che noi tutti conosciamo.

La recensione

“La guerra dei mondi” di Orson Welles

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La tanto edulcorata società americana degli anni ’30, che una certa Hollywood vorrebbe farci cre-dere essere popolata da “tipi dritti” e “supereroi” (infatti Superman, quando si dice “i casi della vita”, fa la sua comparsa il 10 Giugno 1938 su "Action Comics", una nuova rivista della National Comics. E a crearlo furono due giovani autori, lo scrittore Jerry Siegel e il disegnatore Joe Shuster), possedeva già il suo bravo bagaglio di tipiche psi-cosi postindustriali: dalla paura di eventi bellici allo spauracchio di Hitler che ancora non si era “espresso” pienamente (molti pensarono, infatti, che le macchi-ne volanti dei sedicenti marziani altro non fossero che aerei tede-schi camuffati); la crisi economica del ‘29 ancora “calda” e la disoc-cupazione che ne seguì; il pensie-ro di un futuro inquieto ed incer-to; città congestionate e schiaccia-te dal peso dell’aberrante “miracolo americano”. Anche l’Italia aveva il suo “supereroe”: un ditta-tore pelato che avrebbe inneggiato ad improbabili “spezzamenti di reni” e che catalizzava, in altro modo, le insicurezze della peniso-la italica. Ritornando agli States…

Tale contesto sociale condusse a situazioni personali di ansia latente, insicurezza e disorientamento.

Orson Welles non credeva nei supereroi, ma nella fragilità della gente comune. Definito da alcuni “la bestia nera del conformismo statunitense”, Welles riuscì, più di molti altri ossequiosi cineasti tutti “patria e bandiera” (gli stessi che avrebbero credu-to fermamente nella patriottica figura di John Wayne), a frustare l’ american way of life.

E il fatto che l’evento psicotico abbia avuto origi-ne sfruttando uno scenario fantascientifico già noto ai lettori, rinforza ulteriormente la mia demo-cratica convinzione che non esiste ancora, e mai esisterà, una nazione abbastanza forte dal punto di

vista tecnologico in grado di tener testa all’igno-to, ai disseppelliti incubi del nostro cervello, alle sfide della psiche e delle più profonde paure ap-partenenti alla natura umana.

Inevitabile, credo, sia il confronto con i nostri giorni… Nel 1938 non era stata ancora raggiunta la “saturazione da immagini” che caratterizza, invece, le nostre “vite moderne”: dvd, immagini scaricate da internet, pubblicità onnipresente, fo-tografie sui e dai cellulari, telecamere persino

negli intestini quando abbiamo problemi di salute, radio e televi-sioni che trasmettono incessante-mente e con fede maniacale il “tutto” ed il “contrario di tutto”!

La facilità d’informazione, che rappresenta il leit motiv delle no-stre esistenze, è innegabile: noti-zie fresche che ci raggiungono sui cellulari anche in fondo agli ocea-ni; quotidiani distribuiti gratuita-mente nei metrò. Gli stessi “marziani”, credo, non potrebbe-ro più fare tanto affidamento sull’-effetto sorpresa perché i telescopi, orbitanti e non, della Nasa vomita-no sulla Rete, ventiquattro ore su ventiquattro, immagini prove-

nienti dallo spazio …! Forse nessuno ci “cascherebbe” più nell’involontaria burla di Welles, se la si volesse riproporre in un audiovisivamente congestionato anno 2005.

Ma non siamo, per questo, immuni da pericoli: la soglia di credibilità della realtà si è innalzata vertigi-nosamente. L’artigianato tecnologico al servizio dell’alterazione della realtà è divenuto scienza (accettata e ricercata da tutti); il problema della manipolazione sollevato dalla vicenda accaduta nel 1938, si è inesorabilmente invertito. Se in pas-sato era facile far credere alla gente che un rac-conto fantastico fosse realtà, oggi è estremamente difficile compiere l’azione contraria: far credere che la realtà non sia fasulla.

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Scrisse Guy Debord ne “La Société du Spectacle”: “tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come u-n’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappre-sentazione”.

E sicuramente lo “scherzetto” di Orson Welles rappresenta una degna e (lasciatemelo dire) no-stalgica premessa di tale accumulazione.

Ricordo ancora con una certa ilarità mista a scon-forto, l’esperienza raccontatami anni fa e che a-vrebbe visto protagonista un giovane napoletano il quale, durante l’attacco aereo alle Torri Gemelle di New York, l’11 Settembre 2001, entrando in un negozio di scarpe di Corso Umberto a Napoli e notando che commesse e clienti guardavano in-cantati lo schermo di un televisore sintonizzato sulle immagini di un aereo che “s’infilava” in un grattacielo, avrebbe domandato seriamente e ad alta voce, sfruttando pienamente le proprie facoltà di intendere e di volere: “scusate! … ma per caso è l’ultimo film di Bruce Willis?”

Michele Nigro

* Edizioni Baskerville – Collana Blu – pagg.187 ; € 16,50

Foto pag. 24 : Orson Welles

Disegno di Marco Vecchio

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Storia di Marta

Circostanze, necessità e memoria

Le danze ed i canti

dei nostri padri

non sono legati

a rime vistose

un’ombra ordinata

nascosta nel fiato

un gesto scavato

nel giro del sole.

Marta guardava

il suo amore partire

la visiera su gli occhi

la distanza di allora

due gambe straniere

ed un ventre eloquente

la portiera che geme

ed accoglie il suo peso.

“Parti in fretta

ricuci il tuo sguardo

adegua i passi

a quei capelli di fieno”

d’istinto il vestito

le cinse i fianchi

le gambe ben strette

composte e sicure.

Scomparve nell’auto

costretto al guinzaglio

torceva la testa

voltandosi spesso

i rimpianti non servono

a consolare

quel saluto tradito

col vestito da festa.

La guerra si accese

sfumandone il viso

scese in picchiata

ad arare le piazze

nei campi induriti

fra le danze disperse

il gelo soffiava

a bruciare le porte.

Negli ultimi sguardi

fra uomini e donne

non c’era più tempo

per verificare

migliaia di mani

ogni giorno in coperta

farfalle impazzite

tracolle lucenti.

Marta vestita

di un nuovo candore

prese un anello

ad un uomo sudato

lo vide partire

nel tempo concesso

esitando il saluto

fra le case ed il porto.

Il ricordo più vivo

al suo ritorno

è il fustagno rugoso

Davide Dalmiglio poesia

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di quei calzoni

la nuca pulita

e la stoffa graffiante

lo slancio rimasto

a gonfiarle il ventre.

Le danze ed i canti

dei nostri padri

non sono legati

a rime vistose

un’ombra ordinata

nascosta nel fiato

un gesto scavato

nel giro del sole.

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rivista “NUGAE—scritti autografi”

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La fenomenologia della vertigine astrale si mate-rializza attraverso il precipitare dell’individuo per l’atmosfera terrestre (Chavez) o tra gli astri (La vertigine) in opposto e contigua allo stesso tempo alla caduta del cielo sulla terra e sugli esseri umani, come già vedemmo in passato. Anche se, in eccezione, per D.Gnoli di Fra terra ed astri un’atipica vertigine da fermo si compie col protagonista del poemetto che da una sua eretta posizione di stasi venuta a determinarsi, sente gli astri scivolargli sotto le punte e precipi-tare giù per lo spazio. Considerando, intanto, una prima esperienza di volo che ci riferisce pascoli nell’Aquilone(Primi poemetti) dall’avvio alle fasi progressive della sua caduta “ondeggia” “urta” “sbalza” “ventata/di sbieco”, sublimazione a distanza della morte di un fanciullo, si denota l’azione di un oggetto (1) che in rappresentanza dell’uomo, consente di limitare al minimo il fattore-rischio determinando comunque parziale appagamento del sogno di volo. Seguitando per un altro esercizio pascoliano compreso in Odi e inni, La piccozza, il coefficiente di difficoltà relativo al compiersi dell’impresa appare decisa-mente basso, poiché l’ascesa al monte(in questo caso) “con la piccozza d’acciar ceruleo” ricordata nell’omaggio dannunziano della Contemplazio-ne della morte, si compie a piedi. La caduta, quindi, non si attua fisicamente ma é rinvenibile in una sorta di appagamento morale; conseguen-za dell’aver raggiunto la meta “sul puro limpido culmine”(2)e voler “restare solo con l’aquile”,(3) lassù, senza nessun’altra attesa possibile a-vendo ormai veduto tutto. L’eroe comune ai componimenti Chavez e Andrée si espone note-volmente in prima persona nel cielo terrestre, in un quadro di rappresentazione di costellazioni quali spettatrici ancora neutre, di cornice (come

nella Piccozza) anche se non manca idealizzazione attiva “mirano gli astri, -le aquile- se ne venga un suono...”, o di un volo “di là della Grande Orsa”. Appunto, quello dell’esploratore svedese dato per disperso per molto tempo in pallone aerostatico. I possibili segni di vita (4) Pascoli li fonde voluta-mente al grido di varia ornitologia (la procellaria, i gabbiani, la skua…) per ricavarne effetto suggesti-vo. La latitanza di Andrée consente al poeta di rico-struirsi in modo originale la vicenda, già rovesciata nella parte mediana del poemetto, con sovrapposi-zione d’elementi “nube” come “fango” “vento” co-me “suolo”, sino all’apoteosi definitiva con la morte del protagonista (desiderata), per fedeltà a quel progetto pascoliano in cui ascendere equivale a ca-dere, conoscenza a non ritorno.

Percepito, quest’ultimo, in successione di segnali interiori e acustici di attendibile angosciante profe-zia: dall’annunziare a se stesso “Son giunto!”, al dato sonoro colto nel “inno degl’iperborei sacri cigni” in maniera di suono di sconosciute lire, per citare qualche esempio. Sensibile al mito di Andrée verso impassibili testimonianze del sole, va ricorda-to G. Cena attraverso una sua lirica dal titolo “Altrove”. Proseguendo la nostra analisi per un altro componimento parallelo a quello appena trat-tato, dunque Chavez in Odi e inni col precedente, realizziamo come la discesa conseguenziale all’asce-sa non avvenga propriamente nel senso materiale, e questo vale anche per il caso precedente. E non poteva risultare diversamente, sperimentata la vo-lontà di sublimazione della morte (per compensa-zione di un sempre latente orrore del vuoto) che ritrova efficace possibilità di rappresentazione attra-verso processi ossimorici (5) mediante cui possiamo comprendere come un “Discende?” diventi impe-riosamente “Ascende!”; con l’aeroplano, evidente-mente ascende l’intrepido aviatore. E quindi, ripro-poste in una sorta di falsopiano (6) la salita e la ca-duta, si svilupperà in successione d’equazione effet-

Della vertigine cosmica di Vito Cerullo (parte prima)

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to del “su l’alto cielo ei cade” rimodulato con più precisione in “Cade... sempre salendo”, secondo un onirismo cosciente e folle al contempo. Sen-tenziato definitivamente col semiverso “Ed ora sì, che vola!”. Abilità ossimorica che Pascoli mette in pratica non soltanto per la tematica cosmica, ma ne riferisce anche in chiave generica: estesa alle fasi stagionali, a quelle temporali, e altro. (7)

NOTE

(1)Presente al Pascoli non mancherà l’aspetto di quella particolare “cometa” in mezzo a “ordignetti e strumentini “vari, rinvenibile in un racconto di I. Nieri, Vita infantile e puerile lucchese, Lucca 1898, ovvero Giuochi fruttuoso per la sua antolo-gia Fior da fiore. Attendibile fonte per il nostro, risulterà ancora il Sully di Etudes sur l’enfance che M. Perugi pone in rilievo nel suo James Sully e la formazione dell’estetica pascoliana, in “Studi di filologia italiana” XLII, 1984. Un’ulteriore digressione in “velivoli” si riscontra in una prosa di G. D’Annunzio: Sudore di sangue, in Prose di ricerca, di lotta, di comando, Vol. I, Milano 1966. Da “tavolette” con forme “d’angeli”, a “disegni” con sagome “di velivoli” ai “margini” di “quaderni”. A seguire il percorso storico relativo all’adozione di questo termine, sintetizzabile da Ennio a Chateaubriand, ci delucida A. Andreoli, Pascoli - D’Annunzio alla luce di documenti ine-diti, in AA. VV., Nel centenario di “Myricae”. Atti del convegno di studi pascoliani, San Mauro Pascoli, 19-20 maggio 1990, Bologna 1991. Figu-re dalle denominazioni dialettali non traducibili (come “scricchiarulo”, per intenderci, equivalente alla lontana di “schioppetto” messo insieme con la saliva) ricorrono nel lessico poetico sinisgalliano, come ad esempio in Ritrattino, un racconto di Belliboschi, Milano 1979. La passione, insomma, “per i giocattoli poveri” ribadita in Antichi giuo-

chi, in La vigna vecchia. In relazione a questo ar-gomento vedi più diffusamente R. Aymone, Il poeta e l’artigiano in Sinisgalli, in Poeti ermetici meridionali, Salerno 1981. Tirando le somme, risulterà probabilmente imperiosa l’esigenza (riferita al problema dell’esser poeta a un tempo artigiano) di comprendere lo scarto passante “tra l’opera artigianale e l’opera d’arte”(R. Aymone, op. cit., p. 117) problema di cui si é occupato esaustivamente A. Baratono, in Arte e poesia, Milano 1966.

Ricordavamo dell’abilità del “maggior fabbro, fonte dantesca, (R. Aymone, L’età delle rose. Note e letture di poesia, Napoli 1982, p. 72) nel saper assemblare i tasselli per la composizione del mosaico, e in questo senso Praz riconosce al poeta Eliot il sistema d’uso “di collages e photomonta-ges”.(Introduzione a T.S. Eliot, La terra desolata, Firenze 1958, p. 10). Per altre generiche conside-razioni che esulano dalle analisi di strumenti in se stessi, Cfr. inoltre, P. Bonfiglioli, Pascoli, Gozza-no, Montale e la poesia dell’oggetto, in “Il Verri”, n. 4 dic. 1958.

(2)Il senso d’essere dell’ ”eroe solitario della poe-sia” in opposto alla prosaicità e alla “bassezza del mondo borghese”. La fine dell’esistenza come simbolo che esalta “il valore supremo... raggiunto sulla vetta del mondo”(Barberi Squarotti, in voce Pascoli, in Dizionario critico della letteratura ita-liana, Torino 1986, Vol. III, p. 370.

(3)Del famigerato “complesso dell’aquila” ascrivi-bile anche a V. Hugo sembra non esserne immune neppure l’autore di Myricae. (C. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972, p. 129).

(4) ”notizia di grida umane...udite nel So-fjord”(Lettere del Pascoli ad Alfredo Caselli,(1898-1910), a cura di F. Del Beccaro, Milano

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1968).

(5) Il lavoro filologico pascoliano opera diversi fondamentali passaggi secondo esigenze di “esegesi“ “costituzione” e per contro decostituzio-ne “del testo”; risulterà che “Conservazione e ri-costruzione” concorrano a salvare “quanto più testo é possibile” (Cfr. P. Ferratini, I fiori sulle rovine, Bologna 1990).

(6) Il registrato appianarsi vige già in premessa alla Mirabile visione e circostanziato nell’enunciato “Discende con la scienza, ascende con la volon-tà” (Pascoli, Prose, II, a cura di A. Vicinelli, Mila-no 1971). Circa la rappresentazione pascoliana di spazio e di valenze del sociale rivoltate e ridefini-te, si rimanda a V. Roda, Riflessioni sull’evoluzio-nismo pascoliano, in AA. VV., Testi ed esegesi pascoliana Atti del Convegno di Studi pascoliani. San Mauro Pascoli, 23-24 maggio 1987, Bologna 1988.

(7) Intanto, in riferimento ancora a dicotomie astronomico-temporali, leggiamo: ”sole delle fiammee sere”, equivalente di sole del tramonto, somiglianza del destino di Chavez a quel “sole” cangiante colore sia all’alba nel “salire” che al tra-monto nel “cadere”. Costante dell’ossimoro, dun-que, ribadita nel poemetto Gli emigranti nella luna (I, III), nell’espressione “Il sole cade; e l’uo-mo fa l’aurora!”. L’elemento temporale nei suoi due opposti ci viene riproposto in un ‘annotazione a La messa d’oro, in Prose, I, cit., in cui si rimar-ca di un indoramento similare a “una bell’alba”, o meglio a “un puro tramonto”. Ancora di un’ ”alba e tramonto” si registra nella lirica Nel giardino. Dei “brevi dì che paiono tramonti/infiniti...”, in I gattici, in Myricae, emerge una “combinazione di opposti e reduplicati costituenti”(R. Aymone, Fioralisi e rosolacci. Letture di “Myricae”, Salerno 1992, p. 211). Ricordavamo sopra delle valenze

stagionali riproponibili nelle serie ottobre/marzo, primavera/autunno sempre in Nel giardino. (“estate,/fredda, dei morti”, in Novembre). An-cora nella lirica precedente a quest’ultima, di stampo floreale si rivelano le serie in bacca/bocciuolo. Del motivo poetico che riflette di una condizione stagionale e ricorrente nella poesia di D’Annunzio e Gozzano, si veda di R. Aymone Le ultime prove del reduce, in Circostanze crepu-scolari, Napoli 1991. Nelle Varie, Ad Alfredo Caselli, si registra: ”nel verno sorgere giugno”; tema propriamente “topico” di un D’Annunzio e di un pascoli che s’irradia a Pasolini, per cui si consulti E. Sanguineti, Laboratorio pascoliano, in Giornalino 1973-1975, Torino 1976. M. A. Gi-rardi attraverso il suo Pascoli e Gozzano, in Inter-pretazioni pascoliane, Napoli 1990, n. 25, in rela-zione all’argomento suggerisce in aggiunta quel Moretti che già ci sembra pertinente per una si-tuazione letteraria rinvenibile in Domenica, da Poesie scritte col lapis: ”l’autunno é aprile”, negli esiti ulteriori di un “autunno” serbante “un prima-verile incanto”.

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Il destino del legno

E nel mentre che l’anziano Professore Egidio Quaranta - Ordinario di Metrica presso l’Univer-sità di Tediopoli - si apprestava a concludere l’an-nosa lezione trita e ritrita (intitolata: “Misurare la poesia, misurare la vita”), tutti udirono quel sinistro scricchiolio che preannunciava la tanto agognata liberazione…

La vecchia cattedra, ormai porosa, cedette rovi-nosamente sotto il peso degli anni, a suo dire na-vigati , della sedicente saggezza di cui il “Prof “ si fregiava con gli amici poveri e le donnine engagé del Caffè in viale Europa e delle inutili parole colme di quell’educato e accorto pessimismo che avevano caratterizzato il lungo periodo della sua pedante carriera universitaria diluita con sprazzi di militante intellettualismo.

Squadre insonni di irriverenti e nevrotiche tarme votate all’antiaccademismo concludevano, così, la loro necessaria missione pluridecennale a dispetto di ammuffiti compendi e manuali privi di entusia-smo. Un chimerico buonismo piccolo borghese, ricco di arrugginenti offerte in denaro e consigli paterni intrisi d’insicurezza, aveva fatto il resto su chiodi e giunture…

La cattedra era inesorabilmente persa !

Ci vollero diverse ore per estrarre il corpo del vegliardo da sotto le macerie legnose.

E, quel che è peggio, nessuno dei “cari”, ad ecce-zione della sua anziana colf ucraina, che non aveva mai rappresentato per lui una minaccia intellettua-le, si accostò all’obitorio. Forse gli sprovveduti temevano che, destandosi dal sonno eterno e in preda a riesumati attacchi di igienismo culturale, il Professore recriminasse sull’arredamento inter-no della bara, sul doppiopetto gessato con cui l’avrebbero inumato e sulle diversità dendrologi-

che esistenti tra il ciliegio del suo “vicino di cassa”, un giovane impiegato delle Poste ucciso da un’in-definita malattia contratta in un ristorante cinese, e il platano in cui giaceva senza nemmeno il con-forto del vessillo di partito.

Michele Nigro

Il camposantiere

Durante le soleggiate giornate di primavera lo si poteva facilmente incontrare al cimitero, sotto un cipresso o seduto su una vecchia lapide, mentre leggeva i suoi libri.

Non era un becchino e né tanto meno un fanta-sma…

Sembrava, tutt’al più, una spensierata coccola ca-duta per caso tra il silenzio dei morti ed il profu-mo dei fiori. Lieto di abbandonare il clamore dei vivi, s’immergeva nella forzata indifferenza dei defunti con i quali condivideva rancori e speran-ze.

Macabro “Walden” di un Thoreau di città.

Michele Nigro

Raccontinani

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Nel quotidiano al linguaggio si chiede, qualun-que sia la funzione di riferimento, di essere stru-mento di verità: io passo un’informazione al mio interlocutore per generare una situazione che le sia inerente, ad esempio chiedo un cucchiaino di zucchero nel caffè e voglio un’azione coerente con la richiesta. Succede, sempre nel quotidiano, che le aspettative premesse dal linguaggio non trovino corrispondenze: ricevo una tazza di caffè con due cucchiaini di zucchero per un errore di comprensione; faccio tardi ad un appuntamento per un errore di trascrizione o per un impedi-mento.

La non conformità tra l’azione evocata dal lin-guaggio e la sua effettiva realizzazione, sottolinea un tratto costitutivo del linguaggio ed è l’incer-tezza, generata dall’inafferrabilità del mondo, in quanto non si può predeterminare un impedi-mento che scompigli un prossimo futuro pianifi-cato insieme agli altri e con l’ausilio della parola.

Ma l’incertezza - e l’impotenza del linguaggio - si sperimenta anche quando siamo chiamati a spie-garci degli eventi strani o straordinari o qualsiasi circostanza non esplicabile con l’uso di un lin-guaggio asciutto, ossequioso dal punto di vista logico-sintattico.

Utilizziamo il linguaggio per plasmare il mon-do, per darne una versione plausibile, ma non sempre esso riesce ad assimilare adeguatamente l’ambiente. È questa la ragione dell’esistenza di forme linguistiche paradossali come certe figure semantiche quali la metafora o la metonimia; figu-re logiche come l’ossimoro o l’ironia. Hanno la funzione di restringere le maglie larghe dell’in-certezza generata dalle limitazioni delle forme idiomatiche, ponendosi coscientemente di fronte all’indeterminatezza del mondo e all’impotenza del codice linguistico davanti all’indecifrabilità propria di questo mondo.

La metafora, la sineddoche, ecc., sono “oggetti” linguistici di uso comune e, per la verità, non

vengono usati solo per la descrizione di fenomeni di complessa decifrazione. Il nostro lessico fami-liare è pieno di dimostrazioni del genere. È capi-tato a tutti di esclamare a tavola: “ho mangiato proprio un bel piatto”; una metonimia, un’inver-sione semantica che scambia il contenente per il contenuto.

Nel testo Sulla materia della mente Gerald Edel-man spiega che “Sugli oggetti del mondo non ci sono etichette che ne specifichino le dimensioni o i codici; le ripartizioni e le aggregazioni di oggetti cambiano a seconda della persona e del momento. La semantica prestabilita della rappresentazione mentale non può rendere conto del presentarsi delle novità nel mondo e…i codici di definizione rigorosa non possono coprire per intero il significato delle espressioni linguistiche. Il significato rifiuta di essere vincolato da un insieme prestabilito di termini appartenenti a uno specifico sistema di codifica…Il pensiero non consiste nella ma-nipolazione di simboli astratti, con un riferimento privo di ambiguità alle cose del mondo che ne legittimi la semantica…L’oggettivismo fallisce…

…Quando i simboli non corrispondono al mondo in maniera diretta, gli esseri umani, al fine di stabilire connessioni, usano la metafora e la metonimia, oltre all’immaginazione.”

La motivazione dell’utilizzo di figure che infran-gono la linearità semantica, sintattica o logica, risiederebbe nell’impossibilità di oggettivare la realtà. L’infrazione linguistica, rispetto alla rigo-rosità dei codici, altri non è che l’incessante ten-tativo di adattamento al reale, per rendere una versione del mondo convincente.

Il paradosso o il motto di spirito non sono, allo-ra, delle costruzioni logiche assurde, ma restitui-scono una versione dell’assurdo, dato da un’e-splosione di ambiguità presente nell’ambiente. A tal riguardo mi viene da riportare che la Gestapo aveva un dipartimento dei motti di spirito, la cui funzione era quella di ricercare ed identificare gli autori delle battute politiche. Evidentemente in

L’incertezza e il tavolo del poeta di Fabio De Santis

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un clima repressivo l’ironia diventava una modali-tà – apparentemente innocente – di manifestare l’insofferenza al regime. Attraverso il motto di spirito era possibile la realizzazione del pensiero critico. Altrettanto evidentemente la polizia nazi-sta non era all’oscuro delle potenzialità di tale pratica.

Le figure sono il “pane quotidiano” del poeta. Egli agisce su una linea di continuità con il quoti-diano. Si potrebbe dire che il poeta porta all’ec-cesso ciò che comunemente accade, il suo intento è la creazione di un evento linguistico memorabi-le che possa restituire adeguatamente uno spacca-to dell’esistere, inglobando tutta l’ambiguità e l’indefinitezza a cui si faceva riferimento prima. “La poesia consiste, insomma, in questa specie di lavoro: mettere parole come/in corsivo, e tra virgolette: e sfor-zarsi di farle memorabili, come tante battute argute/e brevi: (che si stampano in testa, così, con un qualche contorno di adeguati segnali/socializzanti): (come sono gli a capo, le allitterazioni, e, poniamo, le solite meta-fore):” I versi sono di Edoardo Sanguineti.

La poesia agisce perciò sul terreno della quoti-dianità. Utilizza parole ed accessori linguistici di uso comune. La sua funzione potrebbe essere quella di specificare i tratti caratteristici del lin-guaggio umano. Da questo ne abbiamo una prima considerazione: il poeta non s’innalza, è profon-damente umano. Una seconda: egli può esistere perché consapevole dell’incertezza del linguaggio e non, viceversa, possessore della scienza oggetti-va dell’idioma. Poi ancora una terza considerazio-ne: il poeta è sempre uno sperimentatore, sposta in continuazione l’orizzonte del linguaggio, in quest’ambito è sempre un avanguardista.

Le tre questioni sono collegate. Sulla prima si è gia accennato: il poeta dà un contributo a far e-splodere le ambiguità della realtà, creando una versione del linguaggio che rappresenti un aggiu-stamento della concezione umana del mondo, in breve non sfugge l’esistente, tenta una ridefinizio-ne che assimili più realtà possibile, sporgendosi così sull’orlo dell’inesprimibile. Si fa carico dell’-

ambiguità del mondo per aderirvi in maniera più intensa e vera. Forse è questa la spiegazione del perché la poesia sia spesso sorda al richiamo della comprensibilità, ma sposti l’interesse su altre esigenze. Montale ha affermato che “nessuno scrive-rebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire”. Allora il poeta assume tutta l’incer-tezza del linguaggio, il suo movente non è la pre-cisa co-scienza della lingua, ma la sua inadegua-tezza. Nella sua attività parte libero, si muove tra confini franosi, inadatti ad impedirgli il movimen-to. Non è un caso che il mastro poeta italiano (e non solo) sia Dante, un autore fiorito in un’epoca di estrema indeterminatezza della lingua italiana.

Convergendo così al terzo punto, si può affer-mare che il poeta tenta inevitabilmente di riscri-vere la lingua, di scoprire nuove potenzialità di un idioma. L’intervento è chiaramente palese nelle avanguardie. Lo è altrettanto in chi fa poesia im-piegando un linguaggio comune, fatto di soluzioni grammaticali, gergali anche. In verità credo che la tentazione di operare una ridefinizione logico-semantica-sintattica di una lingua sia il carattere distintivo della poesia. Il poeta compie l’inter-vento con la strumentazione che è propria della poesia e sulla base di un’intenzionalità che affonda comunque le ragioni in un mistero della vita.

Egli agisce su più livelli simultaneamente; crea simmetrie o rotture di simmetrie sul piano fono-prosodico, usando ritmi e suoni per suggestionare il lettore. Sanguineti potrebbe affiancare l’agget-tivo solite anche ad allitterazioni. Nei passaggi più crudi dell’Inferno Dante allittera suoni gutturali in modo da creare, su un diverso livello linguisti-co, un’atmosfera infernale che deve suggestionare il lettore rendendolo partecipe di una realtà plau-sibile. Mentre sfoglia le pagine il lettore non si chiede se esista per davvero ciò che viene descrit-to, non si pone il problema dell’autenticità o vi-sionarietà delle immagini infernali. Ciò che esiste è il linguaggio; il suo problema è se esso risulti essere credibile, se renda una versione del mondo plausibile o meno. Dante sa di essersi spinto in

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Oggi ci incantiamo a tanta sapienza poetica e so-prattutto ci meravigliamo di quanto possa essere attuale il verso della Divina Commedia.

La maestria di Dante ci propone una comunica-zione a più livelli. Simultaneamente ad una più esplicita fatta di immagini che evocano sorpren-denti scenari, ci muoviamo su un piano allegorico che ci trattiene fortemente nella nostra condizio-ne umana, poi ancora sui livelli più su accennati. L’orrore che Dante trova nel nono cerchio, e-spresso nel XXXII° canto, è un esempio di come la poesia operi su più terreni. Dante deve fare attenzione a non calpestare le teste dei condanna-ti, i traditori immersi in un lago gelato; battono i denti come le cicogne il becco; gracidano come le rane “col muso fuor de l’acqua”; hanno lacrime che non fanno a tempo a scendere perché gelano negli occhi rinserrandoglieli. Le immagini, che espri-mono dolore, sono puntellate dagli artifici sonori a cui facevo riferimento poc’anzi. I suoni gutturali abbondano in questo passo. Ne cito solo alcuni: calchi; lago; gracidar; spigolar; vergogna; lacrime; spranga; cozzaro; cricchi; Osterlicchi; Tabernicchi; ghiaccia; becchi; ecc. C’è da sottolineare che questi ed altri termini non elencati si aggregano nello spazio di pochi versi.

È chiaro che il poeta, nell’atto di ricreazione del linguaggio, cerca di svilupparne le infinite poten-zialità e lavora così su diversi piani. In questo mo-vimento non è impossibile che egli inventi nuovi termini, che hanno poi una loro genesi. Un esem-pio noto è il velivolo di Gabriele D’Annunzio. Un termine semplice che nasce dall’accostamento di due parole bisillabiche e paronomasiche veli-volo o vele-volo. Ma anche i termini reiterati in una lin-gua sono occasione di ridefinizione, meglio anco-ra dire di specificazione nell’opera di un autore. Si prenda Il sabato del villaggio di Giacomo Leo-pardi. Un’espressione “ovvia” diviene grondante di connotazioni e va ad innestarsi significativa-mente nell’opera del poeta e oltre: chiunque, nella vita, provi la gioia dell’aspettativa del sabato sera e l’apatica delusione della domenica, non

un’impresa audace, impegnato a spostare l’oriz-zonte della lingua. Sospetta (o finge?) di non esse-re in grado di restituire al lettore una descrizione credibile di un mondo complesso e terrificante; una lingua immatura non può pretendere di spie-gare l’universo. Invoca allora l’aiuto delle muse ispiratrici:

S’io avessi le rime aspre e chiocce,

come si converrebbe al tristo buco

sovra ‘l qual pontan tutte l’altre rocce,

io premerei di mio concetto il suco

più pienamente; ma perch’io non l’abbo,

non sanza tema a dicer mi conduco;

ché non è impresa da pigliare a gabbo

discriver fondo a tutto l’universo,

né da lingua che chiami mamma o babbo.

Ma quelle donne aiutino il mio verso,

ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe,

sì che dal fatto il dir non sia diverso.

Sono proprio le rime aspre e chiocce a dare un grosso contributo alla poesia contemporanea, ed è bello constatare che si debba anche ad uno straor-dinario espediente tecnico la capacità di farci coinvolgere, e direi anche travolgere, in un ma-gnifico viaggio, supportato anche dalla scelta rit-mica. Il ritmo è sostenuto, dinamico, impone un movimento. Solo analizzando i primi 27 versi della Commedia registriamo che gli attacchi di ogni singolo verso sono tonici, eccetto 8 che han-no il primo accento sulla seconda sillaba.

Ma la reiterazione di certi suoni, che tanto affa-scina la poesia odierna, non ha incontrato sempre benevolenza. Per il Bembo, nel suo procedere per coppie di perfetti, relativamente a poesia e prosa, Dante ha finito per essere l’anello debole delle tre corone (Dante, Petrarca e Boccaccio).

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Un altro esempio che agisce ancora su un livello semantico lo si può fare con Maurizio Cucchi. Ne “Il disperso” il poeta milanese comincia una lunga opera che ha come cardine la morte del padre, ma anche l’angoscia dell’autore, che vede l’evento incombere continuamente sulla propria esistenza. “Il disperso” risulta essere allora una condizione che accomuna padre e figlio, li unisce dopo il distac-co.

Il termine in Cucchi ha specifiche connotazioni ed esistono in quel modo solo nella sua opera, pur essendo un aggettivo comune. Egli stesso afferma che “Il disperso è un titolo che potrebbe comprendere tutte le mie poesie, anche quelle degli altri libri o futu-re, chissà”

La conversione semantica di un termine avviene come per dilatazione, nel senso che una parola comincia ad assimilare altri significati. Da ciò si può percepire una certa ambiguità della parola poetica, ma in realtà così non è, perché essa non esiste al di fuori di un contesto ed è sempre a tale contesto che fa riferimento, perciò il suo signifi-cato, o anche nuovo significato, è da ricercarsi in un sistema chiuso di segni. Il sistema ha anche varie aperture però. Si è visto che “Il sabato del villaggio” ha assimilato i significati dell’intera ope-ra di Leopardi, della sua stessa vita. Possiamo dire ugualmente de “Il disperso” di Cucchi; lo ha riferito egli stesso. “I limoni” inglobano i temi degli Ossi. I margini di un sistema poetico sconfinano spesso anche in territori “altri”, si prenda la citazione macbethiana di Roberto Roversi in una sua poe-sia: “anch’io guardavo il bosco/il bosco in quel momen-to/il bosco cominciò ad avanzare.” Nel riprendere un’immagine già usata, egli si preoccupa comun-que di reinventarla in una ristrutturazione sintat-tica che comprende il chiasmo e l’anafora legate in proprietà transitiva.

Il sistema spesso è chiuso nello spazio di una singola poesia e basta osservare le alchimie opera-te in un piccolo testo per rendersi conto della straordinaria maestria del poeta. Si legga questa poesia di Giovanni Raboni:

può che ripensare a questa poesia. L’accostamen-to innocuo giorno della settimana-villaggio scate-na nella versione del mondo del poeta una medi-tazione sulla vita, un pensiero totalizzante che assimila la giovinezza e la speranza, la maturità e la gravosità.

L’operazione si potrebbe denominare conver-sione dei significati. Il poeta prende un oggetto e partendo da alcuni suoi tratti lo lavora per am-pliarne le connotazioni ricavandone altri campi semantici. Il movimento si svolge specificamente sul piano verbale.

Prendo in considerazione la poesia di Eugenio Montale I limoni. Il poeta comincia col dissociarsi dai “poeti laureati” che “si muovono soltanto fra le piante/dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti”. In opposizione predilige i comuni “limoni”. Si noti che dopo il proemio in versi questa è la poesia che apre gli Ossi di seppia, la prima raccolta di Monta-le. I limoni potrebbe essere definita il manifesto dell’autore. In tal modo egli comincia con l’av-vertire il lettore che non è un “poeta laureato” ma un autodidatta. La sua è un’origine “povera”, non aristocratica: “la nostra parte di ricchezza/…è l’odo-re dei limoni…” La sua poesia è radicata e confina-ta nel paesaggio: “quest’odore/che non sa staccarsi da terra” e provoca tormento: “piove in petto una dol-cezza inquieta”. Tuttavia tra gli “erbosi/fossi” e le “pozzanghere” sogna di aspettarsi “uno sbaglio di Natura” che possa bucare il mondo per trovarsi “nel mezzo di una verità”. “Ma l’illusione manca”, e tra i frastuoni, “la pioggia”, “il tedio”; “i gialli dei limoni”, questi oggetti comuni, a portata di mano, divengono degli elementi distanti, da sbirciare, per caso, attraverso “un malchiuso portone”.

I limoni è il preambolo ad un’opera fatta d’im-magini legate alla terra, immobili ed inanimate. La verità è una realtà impossibile, viene sospettata solo al cospetto dello sguardo sulle cose ed è un “luogo” che è sempre al di là, oltre la “muraglia/che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”; al di là del mare, sulla linea azzurra della direzione degli uccelli.

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buon esempio dell’arte di reinventare, propria del poeta.

Ho detto che il poeta parte avendo una grande libertà, che è poi la possibilità di modellare il lin-guaggio come un materiale plastico. Una volta cominciata l’opera la libertà si annulla nel tema emerso da quella stessa libertà. Il testo poetico comincia a funzione sullo slancio dato dall’impo-stazione iniziale scaturita dal nulla, o quasi, per divenire un sistema chiuso di segni. La poesia è linguaggio formale, vive di corrispondenze, i versi in qualche modo li leghi, se non sono rime saran-no assonanze, allitterazioni, ma è chiaro che il verso è libero fino a quando non si scrive il pri-mo. In quel momento è il poeta stesso a creare la regola.

Dunque il suo lavoro consiste nel decodificare e codificare continuamente la lingua, egli la riscrive incessantemente e senza sosta la disfa. Il suo mo-vente trae origine dall’incertezza e all’incertezza torna. Non si contraddice, tutt’altro, semplice-mente non accetta l’orizzonte preposto, perché non credibile, ambiguo. Crea egli stesso un oriz-zonte altrettanto irraggiungibile e scivoloso, ma sarà forse proprio l’eccesso a cui lo espone a ren-derlo affascinante, magnificamente autentico, ustionato da un’insondabile incertezza che è poi quello sguardo sul mondo che unisce ogni uomo.

Testi consultati:

Cucchi M. – Il disperso, Guanda 1994

Cucchi M. – Poesie 1965-2000, Mondadori 2001

Dante - La Divina Commedia

Edelman G.M. – Sulla materia della mente, Adelphi 1993

Freeman W.J. – Come pensa il cervello, Einaudi 1999

Leopardi G. – Canti

Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno

dopo l’altro ti lascio, anima mia.

Per gelosia di vecchio, per paura

di perderti – o perché

avrò smesso di vivere, soltanto.

Però sto fermo, intanto,

come sta fermo un ramo

su cui sta fermo un passero, m’incanto…

Mi sembra che la poesia ruoti intorno alle due anafore più evidenti: “Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno/dopo l’altro ti lascio, anima mia” e “…sto fermo…” In queste il poeta sottolinea una condi-zione esistenziale quale la vita che scorre e si per-de minuto per minuto, fino ad una conclusione attesa perché certa: “…avrò smesso di vivere, soltan-to”, dove il termine della vita viene evidenziato da un rallentamento ritmico provocato dall’incontro di due trisillabiche, di cui la prima sdrucciola: “…vivere, soltanto” (espressione su più livelli). L’ac-corgimento ritmico è in corrispondenza con l’al-tro identico dell’ultimo verso: “…passero, m’in-canto…”

L’”incanto” conclude gli ultimi tre versi sostenuti dall’altra anafora che dicevo. Con questa emerge la risposta del poeta, che di fronte alla condizione irreversibile quale il dissolversi della vita, “sta fermo…/come sta fermo un ramo”, guarda l’esistenza bruciare, s’incanta!

Così l’”incanto” si dilata, si sgranano significati quali sublimazione o stupore e va ad assimilare un significato come l’incoscienza, del “ramo”, del “passero”, dell’uomo che non ha parole di fronte alla realtà, se non ambigue e polisemiche.

Certo, anche in questo caso, il tema proposto dalla poesia si collega ad un nucleo centrale dell’-opera di Raboni, ma il termine incanto lo possia-mo circoscrivere a questi otto versi e ritenerlo un

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Marazzini C. – Da Dante alla lingua selvag-gia, Carocci 1999

Marchese A. – L’officina della poesia, Mon-dadori 1985

Montale E. – Ossi di seppia

Sanguineti E. – Mikrokosmos, Feltrinelli 2004

Vitiello C. – Antologia della poesia italiana contemporanea (1980-2001), Tullio Pironti 2003

Watzlawick P. – Il linguaggio del cambia-mento, Feltrinelli 1980

Punti vendita “Nugae — scritti autografi”:

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Proposte distributive “Nugae”

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‘PICK WICK’ è un “trimestrale di letteratura, poesia e cultura varia” creato a conferma delle già esistenti attività letterarie dell’omonimo “Circolo Letterario” di Besana in Brianza (Mi). Per informazioni, collaborazioni o semplicemente per richiedere una copia saggio: [email protected]

riVISTE

‘STEVE’ è una storica rivista di poesia fondata nel 1981 dal Laboratorio di Poesia di Modena. Il numero 28 s’impernia, sin dalla sua veste grafica (curata da Elena Vadacca), sul senso di un’auscultazione del presente, dei suoi fraintendimenti, dei suoi inganni, delle sue storie che ci proiettano dove c’è una comparsa. Si susseguono così i reportages poetici: sullo spettacolo “Sinfonietta rock”, libero adattamento da Jean Tardieu (del quale C.A. Sitta presenta anche una prova inedita di “riduzione progressiva”, e non solo traduttiva, dal titolo ‘La verità sui mostri’); quello sul Festival di Filosofia (ospite Maurizio Cucchi); il canone nuziale composto per il ‘matrimonio poetico’ del 5 settembre; gli interventi critici di Victoria Surliuga su Giampiero Neri, M. Luisa Vezzali su V. Boni-to, Mario Moroni sui ‘Racconti dell’uomo in grigio’ di Gian Marco Visconti. Di respiro interdisciplinare il ricco racconto a più voci per immagini e libri sull’anno 1979 a cura di Rossella Bonfatti. Chiu-dono questo numero i seriali estratti in prosa poetica di Massimo Bernardi (‘In un circo fuori fuoco’) e Paolo Valesio (‘L’uomo che perse una Pasqua’); infine ‘La carta dei libri’, firmata da Carlo Alberto Sitta, rubrica fissa a mezzo tra il journal intime e diario bibliomnemonico in cui s’incontrano poesia e vita, si sofferma stavolta sulle ultime pubblicazioni di Alberto Bellocchio, Arnaldo Ederle, Cesare Lievi, Carlo Marcello Conti e sul saggio di John Butcher e Mario Moroni dal suggestivo titolo “From Eugenio Monta-le to Amelia Rosselli”.

...contattate e segnalate da “Nugae”

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Partendo dal presupposto che ogni rivista conservi gelosamente all’interno del suo nucleo storico le motivazioni che la spingo-no ad esistere … Quali dovrebbero essere, secondo te ed in base all’esperienza matu-rata in seno alla rivista “Pick Wick”, le ra-gioni di una rivista letteraria?

“Pick Wick” rappresenta forse un caso un po’ particolare: condivide con la maggior parte delle riviste amatoriali, la volontà di essere vetrina per autori non ancora noti ma meritevoli di essere presentati ad un pubblico (tale credo sia la ragione essenziale della nascita di questo tipo di pubblica-zioni); ma, essendo nata, otto anni fa, da un Cir-colo Letterario funzionante da tre anni, che già aveva consolidato una sua attività (serate lettera-rie, un concorso, collaborazioni sul territorio), ha voluto porsi anche e soprattutto come bolletti-no di circolo, per mantenere e consolidare quei contatti, spesso transitori ed effimeri, che le altre iniziative creano. Ancora oggi, infatti, al di là del contenuto tipico di una rivista culturale (racconti, poesie, saggi), in ogni numero non mancano mai le cronache dei nostri incontri, le notizie su ini-ziative passate e future e così via. Ed è lo stesso intento che ci ha recentemente spinti alla crea-zione di un sito Internet, nonostante nessuno di noi sia un patito del Web. Molti periodici, in passato, alcuni per breve tempo mentre altri per diversi de-cenni (tra i quali citerei: l’effimero “Mondo Beat” di Melchiorre Gerbino; “la Zanzara” irriverente del liceo Parini di Milano negli anni ‘60; o le riviste dedica-te alla fantascienza: “Amazing Stories” del 1926; “Astounding Stories” del 1930…ecc.) hanno segnato, più o meno consapevol-mente, l’inizio di un’epoca, di un genere letterario o per lo meno hanno collabora-to, tramite la parola scritta, alla descrizio-ne di un pensiero, di una condizione so-ciale, di un’aspirazione… Secondo te una rivista, al di là delle personali inclinazioni letterarie dei singoli Autori, rispecchia sempre, nel suo insieme, l’epoca in cui “vive”, o no? Credi nella “politicità” (non in senso partitico) di una rivista? E se sì,

come la si può evidenziare e sviluppare? Credo che una politicità possa (e magari anche debba) esistere. Credo inoltre che una rivista rispecchi forse più il carattere del suo direttore (e/o della sua redazione) che non quello dei sin-goli autori. Quanto a rispecchiare la sua epoca sin-ceramente non saprei… Qualcuno mi ha rimpro-verato addirittura un’eccessiva classicità per “Pick Wick”… un situarsi, per l’appunto, un po’ al di fuori del tempo e dell’attualità… Ma anche questa, a ben vedere, si può considerare una scelta politica in senso lato.

Nel 1997, quasi al termine del tuo saggio “TRA LUDOVICO ARIOSTO ED ISAAC ASIMOV – LA FANTASCIENZA: genere letterario o letteratura del presente?” , lasciavi in eredità ai Lettori un dubbio alquanto “scomodo”: l’avvicina-mento della fantascienza alla letteratura mainstream, anche dal punto di vista della “critica”, comporta diverse interpretazio-ni e, citando dal saggio, “…non saprei dire se tale fenomeno sia un segno di vitalità e di crescita della FS o, al contrario, un cupo pro-dromo della sua morte imminente.” Per altri rappresenta, senza dubbio, la tanto ago-gnata “uscita dal ghetto”… A distanza di 8 anni, credi di poter dare una risposta definitiva a tale interrogativo o è ancora presto per un’analisi?

Premesso che nel più recente periodo non ho seguito la SF come la seguivo vent’anni fa, l’im-pressione che ho è che effettivamente ci sia stata una sorta di sdoganamento della letteratura fanta-scientifica, nel senso che molti autori ed opere di SF vengono ora accolti ed esaminati criticamente nell’ambito del mainstream; però (e spero che gli appassionati non me ne vogliano), quando ho avuto – di recente – modo di frequentare il fan-dom ho avuto un’altrettanto forte impressione: che molti degli appassionati più attivi non abbiano alcuna intenzione di evadere dal ghetto, perché ci si trovano benissimo… tal quale vent’anni fa!

In altre parole, se molti appassionati di letteratura non snobbano più la SF bollandola come sottogene-re, troppi fan di SF continuano ad ignorare la let-teratura… Lo stesso atteggiamento che, a quei

Intervista a Flavio Casella scrittore, saggista, direttore

del trimestrale letterario “Pick Wick”

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tempi, mi allontanò da un ambiente del quale anch’io ho fatto parte.

Inisero Cremaschi, uno dei principali pro-motori della fantascienza italiana, conian-do il termine neofantastico negli anni ‘80, volle così descrivere le nuove tendenze della narrativa fantastica. Quali evoluzio-ni ci sono state, ammesso che ce ne siano state, nell’ambito neofantastico? Purtroppo, come sono costretto a ripetere, cono-sco troppo poco i più recenti sviluppi della fanta-scienza, soprattutto in ambito italiano. Mi sembra tuttavia che l’idea che Cremaschi aveva in mente (e della quale ero un entusiastico sostenitore) abbia attecchito poco: si trattava, per chiarire, di un indirizzo narrativo più orientato verso esempi come Calvino e Primo Levi (quanti appassionati di SF sanno che il dolente cantore dell’olocausto è stato un incredibile autore di fantascienza? quanti hanno letto i racconti di Storie naturali, Vizio di forma e Lilìt?) che non verso i canoni classici della hard SF anglosassone.

Racconterò un breve aneddoto: qualche anno fa, ad un dibattito (erano presenti nomi come Vitto-rio Curtoni, Franco Forte, Luca Masali) che se-guiva la premiazione di un concorso di narrativa fantastica, citai (provocatoriamente) Quando le radici di Lino Aldani, un bellissimo romanzo di SF italiana degli anni ’70… Come mi aspettavo, venne fuori una polemica incandescente tra quelli che, come me, lo consideravano un capolavoro della SF ed altri (probabilmente in maggioranza) che continuavano a protestare: – Ma quella non è fantascienza!

Il Presidente degli USA, George W. Bush, ha recentemente annunciato: “…stiamo per tornare sulla Luna…e con una base fis-sa!” ; in vista, soprattutto, della successiva tappa riguardante la colonizzazione di Marte. Non ti chiedo una “profezia” ma, in base a tali aspirazioni politico-astronautiche, pensi che la space-opera potrà ricevere in futuro nuovi impulsi e nuovo materiale da utilizzare o credi che si tratti di una vena ormai esaurita e in preda al disincanto?

Non trovo che la domanda sia posta del tutto in termini corretti: nel senso che il rapporto causa–effetto andrebbe, secondo me, ribaltato. La fanta-

scienza (che sia space opera o altro), è sempre stata più avanti della realtà, quasi per definizione. Quindi le conquiste scientifiche non hanno mai dato e non daranno impulsi alla SF, al massimo potranno limitare e/o contraddire le opere pre-cedenti, ma solo sotto il piano profetico, per l’ap-punto, non sotto l’aspetto letterario. Ad esem-pio: il fatto che noi oggi sappiamo che Marte è disabitato non toglie alcun fascino a La guerra dei mondi di Wells o alle Cronache Marziane di Bra-dbury; lo sbarco sulla luna rese obsoleta l’ipotesi di partenza di 2001: Odissea nello spazio, che risali-va appena all’anno precedente, ma non ne sminuì il valore. E così via…

Quale è l’opera letteraria, in ambito fanta-scientifico, che preferisci? O, se vuoi, l’-Autore? E perché?

Non mi sento di citarne uno solo. In ogni modo, anche nella SF, le mie preferenze vanno a chi sa usare il mezzo letterario con peculiare intensità, al di là dei contenuti… Per essere più espliciti, troppi autori di fantascienza, pur affrontando temi e trame interessanti, scrivono da cani… e questi non mi piacciono.

Ciò premesso, citerei: Philip K. Dick, un grande (anche se troppo prolifico per non essere discon-tinuo): La svastica sul sole è un capolavoro assolu-to, e anche Cronache del dopobomba, I simulacri e altri sono grandi romanzi; Ray Brabdbury con Cronache Marziane e – soprattutto – Fahrenheit 451; Theodore Sturgeon con Nascita del superuomo e Cristalli sognanti; e poi certe cose di Leiber, Ballard, Zelazny… l’umorismo di Frederic Brown e Robert Sheckley… non si finirebbe più!

Preferisco dedicare qualche parola ai tanto bi-strattati italiani: ad Aldani ho già accennato, e ribadisco che è un grande scrittore in assoluto; lo stesso Cremaschi ha scritto cose molto buone; Renato Pestriniero è un autore poco conosciuto, ma insuperabile creatore di atmosfere fantastiche. E ce ne sarebbero ancora…

Tu affermi simpaticamente, parlando del successo, in un’intervista rilasciata a “Prospektiva” : “…non riesco a immaginar-mi in forma di etereo spirito che dall' al di là contempla soddisfatto la sua raggiunta gloria “post mortem”… Per cui mi accontenterei di entrare nelle classifiche dei best-seller da vi-vo…” Come interpreti il “fenomeno Phi-

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lip K. Dick” alla luce, principalmente, dell’-enorme rivalutazione editoriale e cinema-tografica che ha caratterizzato il periodo successivo alla sua morte?

Di Dick ho letto recentemente la Trilogia di Valis. Non mi ha entusiasmato né convinto del tutto, ma mi sembra emblematica di quella sorta di dicotomia letteraria che pare aver perseguitato questo autore per tutta la vita, sempre oscillando tra il raggiunto successo nell’ambito fantascientifico e la voglia di essere considerato un grande scrittore tout court…

Paradossalmente Dick c’è riuscito proprio dopo morto… e dopo aver steso questa sorta di testamen-to spirituale che non è comunque la sua opera mi-gliore, né sotto l’aspetto fantascientifico né sotto quello letterario.

Le donne e la fantascienza. Alcune Autrici, a dire il vero ancora troppo poche, hanno dato un prezioso contributo alla letteratura fantascientifica. Basti ricordare la mamma di “Frankenstein”, Mary Shelley, passando per la femminista Ursula Le Guin… E’ sba-gliato o esagerato credere, secondo te, che l’innegabile sensibilità femminile applicata alle tematiche fantascientifiche possa deli-mitare un’area particolare nell’ambito della FS? Con tutta sincerità sì. Nemico come sono delle etichettature, provo un sincero fastidio a sentir par-lare di SF di destra e di sinistra, femminista o maschili-sta… Che esista una sensibilità femminile è indubbio, ma nel campo dell’arte, secondo me, l’hanno anche molti uomini (Bradbury ne è un esempio, a mio vedere). E molte autrici scrivono come maschi… Alice Raccoon Sheldon, negli anni ’70, si firmava James Tiptree jr, e tutti la prendevano per un uo-mo, nonostante agitasse tematiche femministe an-che esasperate.

Fantascienza e Cinema: due mondi da sem-pre felicemente conviventi e, recentemen-te, grazie all’ultima realistica generazione di effetti speciali computerizzati, magistral-mente ibridati. Non credi che le trasposi-zioni cinematografiche di certe opere lette-rarie fantascientifiche ne abbiano alterato il significato puro, “inquinando”, in un certo modo, l’immaginario del Lettore?

In ogni campo letterario l’incontro/scontro tra parola e immagine pone problemi di ibridazione, di

inquinamento… per non parlare dell’irrisolta e irrisolvibile questione della fedeltà al testo… In fantascienza c’è l’aggravante che spesso la fanta-sia dell’autore (del romanzo) crea situazioni al di là del reale, che il lettore può riuscire ad im-maginare nella sua mente… ma che è difficilissi-mo rendere per immagini senza cadere nel ba-nale.

D’altro canto la possibilità cinematografica di narrare per immagini e di creare effetti speciali può a sua volta generare esiti sorprendenti, addirit-tura, in certi casi, superare con la magia dell’im-magine narrazioni non proprio impeccabili sul piano dell’atmosfera.

Un paio di esempi: L’ultima spiaggia di Stanley Kramer è decisamente superiore, sul piano arti-stico, nel rappresentare l’angosciosa ambienta-zione da fine del mondo, rispetto al romanzo di Nevil Shute, ugualmente efficace nel contenuto ma decisamente povero stilisticamente.

E La storia infinita di Wolfgang Pedersen ha un impatto fantastico forse superiore al romanzo di Michael Ende, bello ma un po’ pesante e prolis-so.

L’editoria che si occupa di fantascienza, sembrerebbe aver aperto i battenti a nuovi ibridi letterari che spesso sfociano in squallide chimere dal successo effime-ro. Non sarebbe il caso, ti chiedo in qua-lità di lettore, di abbandonarsi, invece, ad una salutare rilettura dei cosiddetti “padri fondatori” quali Edgar Allan Poe, Jules Verne, Herbert George Wells… Riesaminandoli con gli occhi smaliziati di chi vive nell’anno 2005?

Inevitabile rispondere di sì: come nel mainstream nessuno nega che si possa – e si debba! – rileg-gere Dante e Ariosto e Manzoni prima di ap-prodare ai giorni nostri, così nel genere SF la stessa operazione (fatte le debite distinzioni) può riguardare, oltre i padri fondatori, anche altri autori fondamentali degli inizi, come Love-craft e Merritt, o i classici degli anni ’40 come Asimov, Clarke, Van Vogt e Simak. In un paese come l’Italia in cui si verifi-cano continue “fughe di cervelli”, l’opera straordinaria di Isaac Asimov, a metà strada tra la fantascienza e la divulgazio-ne scientifica (con tutto il rispetto per il

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nostro Piero Angela!), sembrerebbe poco auspicabile per non dire sprecata. La fan-tascienza, quindi, non è solo un genere letterario ma un’autentica cartina al tor-nasole per testare la qualità scientifica e tecnologica di una società?

La SF è nata, come genere, nei paesi anglosasso-ni, dove l’aspetto tecnico-scientifico è più accet-tato in campo culturale… Da noi il termine cultu-ra identifica l’ambito umanistico-filosofico: quin-di sì, in effetti questo fatto è rappresentativo del-l’attitudine (più che della qualità, direi) scientifica e tecnologica di un popolo. La nostra fantascienza è prevalentemente umanistica… e normalmente, ribadisco, non viene considerata fantascienza ma mainstream, proprio perché anche da noi si tende a considerare SF solo il filone avventuroso-tecnologico… Questo porta anche a delle stortu-re paradossali, dovute a scarsa conoscenza della materia e/o preconcetti… Torno un attimo su Primo Levi: Levi è tecnologico, nei suoi rac-conti fantastici (non a caso era un chimico), e molti di questi racconti hanno sorprendenti so-miglianze con quelli di Isaac Asimov (con la diffe-renza che Levi è di gran lunga superiore ad Asi-mov nello stile letterario e va un po’ più in pro-fondità nello spazio interiore umano); ma nessuno riconosce Levi come autore di SF…

Ti dirò di più: un romanzo come Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, con le sue implicazioni simboliche, potrebbe essere anche stato scritto da un autore di fantascienza inglese del periodo New Wave, e là sarebbe considerato un’opera SF… Le cosiddette anti-utopie, basate su reali-stiche descrizioni di scenari totalitaristici (vedi “1984” di Orwell; “Il mondo nuovo” di Huxley; “Fahrenheit 451” di Bra-dbury…), dando credito a ciò che dicono i più paranoici, sembrerebbero non essere tanto lontane dall’avverarsi. Dal tuo pun-to di vista, i pericoli descritti nelle opere citate sono stati superati o stiamo già vi-vendo nuove forme di un più subdolo to-talitarismo?

Alcuni aspetti di queste opere sono senz’altro superati: Orwell, nello scrivere 1984 e La fattoria degli animali, prendeva a modello e a bersaglio il socialismo reale sovietico e stalinista, che si è prati-camente sciolto come neve al sole una quindicina

d’anni fa, dalla caduta del muro di Berlino al disfacimento dell’URSS. L’invadenza dei mezzi di comunicazione di massa, la prevalenza dell’im-magine rispetto alla parola che stiamo vivendo nel periodo attuale sembrerebbero piuttosto dar ragione a Bradbury, a distanza di oltre cinquant’-anni… Anche i modernissimi schermi televisivi giganti somigliano in modo impressionante a quelli descritti in Fahrenheit 451 (e così ben rap-presentati da Truffaut nell’omonimo film)…

Sono comunque d’accordo anch’io sul fatto che queste nuove forme di totalitarismo siano più subdole che effettive… Nessuno, penso, ci impe-dirà mai con la forza di leggere libri… piuttosto le leggi di un mercato globale, se dovessero vera-mente imporsi, potrebbero portare a far decidere di non produrre più libri, se non di puro e sem-plice consumo… E questa tendenza, purtroppo, in una certa misura la trovo già in atto, al giorno d’oggi: basta guardare gli scaffali e le vetrine delle librerie…

Ci sono ancora molti “irriducibili” che non si rassegnano dinanzi al fatto che la letteratura fantascientifica non è un “sottoprodotto”, bensì un genere lettera-rio da non distinguere e separare, in mo-do razzistico e sciocco, dalla cosiddetta letteratura “ufficiale”… Cosa senti di po-ter dire a questa schiera di puristi del mainstream ? Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire… è quindi difficile trovare parole adatte a questi casi. È forse vero che la SF, per poter vivere in eterno nell’ambito della letteratura, deve prima morire, come hanno detto paradossalmente in molti… ed è quello che anch’io in qualche modo esprimevo, con quella mia frase che hai citato alla domanda 3).

Intendendo con ciò che solo un’unione totale, senza barriere e steccati, nell’ambito della lettera-tura, può portare alla pari dignità di ogni genere letterario… Ma questo, in ultima analisi, com-porta anche la scomparsa dei generi letterari…

Nel 1982, in una lettera alla rivista The Time Ma-chine, edita dal Club Padovano di Fantascienza e con la quale collaboravo da tempo, scrivevo: Sono sempre più convinto che la letteratura fantastica possa e debba elevarsi al rango di vera letteratura, ed anzi porsi come forza trainante della letteratura moderna…

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sguardo per non ricadere in una nuova epoca di “Régression” (come J. Sadoul de-finì il decennio ‘73/’84 dal punto di vista della produzione fantascientifica)?

Verso tutti i nuovi mondi, le nuove inquietudini, i nuovi orrori… che le si presenteranno agli occhi di giorno in giorno… Se già li conoscessimo o im-maginassimo, qui ed ora, non ci sarebbe più al-cun piacere nel leggere e nello scrivere… Perché la letteratura è sempre stata più avanti della real-tà… e la SF in modo particolare, nel rivolgere l’attenzione (mi si perdonerà se utilizzo ancora le parole conclusive di quel mio saggio che hai cita-to in precedenza) ai misteriosi, inquietanti e impenetrabili destini dell’uomo…

Michele Nigro

…Mi sto invece convincendo – contrariamente alle mie idee di un tempo – che questa operazione di “elevazione” del fantastico debba essere condotta non dall’interno, bensì dall’esterno, cioè nel grande e con-fuso grembo del mainstream…

Era, come si comprende, una sorta di addio a un ambiente che avevo amato e nel quale cominciavo ad essere conosciuto, ma dove mi sentivo irrime-diabilmente stretto… Nell’ambito letterario senza etichette mi sono trovato decisamente meglio, per esistendo, anche qui, molti irriducibili coi quali è difficile ragionare…

Concluderei con la speranza che il loro numero, sull’una e l’altra sponda, vada man mano ad esau-rirsi…

Quale è, insomma, la “missione” della Fan-tascienza? E verso quali mondi inesplorati, verso quali “…nuovi orrori, nuove in-quietudini…” dovrà rivolgere il proprio

Lino Aldani

R.Bradbury

Ursula Le Guin Lovecraft P.K.Dick

Isaac Asimov

Van Vogt

G. Orwell

A. Clarke H. G. Wells

R. Heinlein

T. Sturgeon Mary Shelley Clifford Simak

I. Cremaschi

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Stasimo mattutino

Davanzale marmoreo ghiacciato

Nella brina aurorale di una

Coscienza veggente – e tenace virgulto

Che s’erge al serpente metallico

Giù nel torrente di gas.

Domestica pace agognata su

Mura ingiallite, finestre

Urbane con ticchettìo della

Pioggia paterna.

Vento tedesco calunnia

Alberi epilettici e calvi con magre

Braccia alzate al cielo e cenerentole

Foglie salutate da lunghi singhiozzi –

Ma è solo il vento

Ed io cerco il senso

Nella catarsi

Del rugiadoso mattino.

Antonio Piccolomini d’Aragona

Onde

Vorrei che io e te fossimo come due onde

Che si rincorrono nell’oceano infinito

Spinte da venti, rapite da correnti,

Piccole labbra su lande argentante.

Incontrami nel mare notturno

Mentre vaghi da sola sotto la luna

[silenziosa.

Incontrami mentre il mondo dorme

E l’oceano custodisce i suoi sogni.

Antonio Piccolomini d’Aragona

Quando sarai nella mischia, massa

Gioca le carte della vita E stupisci i sensi altrui Quando un urlo ti lancera' Nella mischia di una fossa Che mai capira' la tua culla di quale materiale e' fatta

Rossella Liotino

Lo dice la tua immagine (a mia madre)

Quanto e' lieve e ingenua e beata la tua aria : i tuoi capelli vergini la tua giovinezza ancora luminosa ... Guardi alla tua destra perche' li e' il figlio madre non conscia di quello che la vita voleva da te La hai poi assecondata e ancora oggi l'assecondi in un caldo sapore di bonta'.

Rossella Liotino

“Sotto il portico” galleria di poesie

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“Controedicola” In alternativa alla cultura dilagante del “ best seller da edicola” e all’ “enciclopedia da su-permarket”, Nugae - Scritti Autografi è lieta di presentare ai propri Lettori una piccola rubri-ca dedicata ai cosiddetti “libri particolari” - sconosciuti o quasi ; famosi un tempo, ora di-menticati -, agli “sfortunati” delle classifiche, ai “figli stampati di un dio minore”… A tutti quei testi, insomma, che un po’ per le tematiche affrontate e, in parte, a causa dell’ombra crea-ta dai “grandi successi”, non hanno mai aspirato e mai aspireranno a risalire le “ top ten ” dei libri più venduti. Libri, antichi o moderni, che hanno ancora tanto da raccontare…

“Grammatica della fantasia”

Gianni Rodari

<<Quello che io sto facendo è di ricercare le “costanti” dei meccanismi fantastici, le leggi non ancora approfondite dell’invenzione, per renderne l’uso accessibile a tutti. Insisto nel dire che, sebbene il Romanticismo l’abbia circondato di mistero e gli abbia creato attorno una specie di culto, il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne consegue di felicità di espri-mersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti >>. Da questa ricerca, che Gianni Rodari ha condotto per molti anni, è nata questa Grammatica della fantasia, una proposta concreta che in-tende rivendicare all’immaginazione lo spazio che deve avere nella vita di ciascuno. Attraverso le più svariate tecniche dell’invenzione, Rodari ci offre con questo suo libro non un «Artusi delle favole» ma un efficace ed utile strumento «a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola».

Gianni Rodari (1920-1980): giornalista di professione, scrittore per ragazzi, vincitore del Premio Andersen (un Nobel per la letteratura infantile), le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo. Einaudi ha pubblicato: Filastrocche in cielo e in terra; Favole al telefono; Il Pianeta degli alberi di Natale; Il libro degli errori; La torta in cielo; Gli affari del signor Gatto; Il palazzo di gelato e altre otto favole al telefono; I viaggi di Giovannino Perdigiorno; Novelle fatte a macchina; Marionette in libertà; Tante storie per giocare; C’era due volte il barone Lamberto; La gondola fantasma; Il gioco dei quattro cantoni; Storie di re Mida; Giochi nell’Urss; Il secondo libro delle filastrocche; Gli esami di Arlecchino; Prime fiabe e filastrocche (1948-1951); I cinque libri.

Piccola biblioteca Einaudi € 13,43

“Noi ed io”

Millenovecentosessantotto ed altre poesie

di Salvatore Malinconico

Una originale contaminazione di temi politici e privati.

Alla parola in pubblico, ottimista e propositiva, corri-sponde la difficoltà dell’articolazione verbale nei soliloqui. Anche lo stile, letterario e talvolta ricercato, testimonia di un rapporto irrisolto con la tradizione dei “padri”.

Al di là del valore poetico, una testimonianza acco-rata della generazione degli anni ‘70, una generazio-ne capace di tenere fragilità e di terribili durezze.

SALVATORE MALINCONICO (Palma Campania - NA, 1954) vive e svolge la sua attività di insegnante a pochi chilometri da Napoli. Ha partecipato attivamente ai movimenti giovanili ed operai della « nuova sinistra ». Ha pubblicato saggi su Marx. Attualmente collabora stabilmente al periodico OFFICINA.

Editrice Imbarco - Acerra € 5,00

“Concerto” – Collana Premium

Autori Vari

Il volume collettaneo “Concerto” rappresenta lo sbocco naturale del Concorso Nazionale organizzato a Contursi Terme (Sa) dal Centro di Cultura Popo-lare UNLA.

Dedicato alla memoria di Angelo Mazzeo, l’evento letterario accoglie ogni anno numerosi partecipanti i quali, spinti dalla comune passione per la scrittura, “mettono in gioco” i propri lavori alimentando, così, quella fucina sperimentale, tipica di quegli ambienti (concorsi, riviste, laboratori…) in cui, da sempre, ci si ritrova per verificare idee e parole… Un modo intelligente e pratico per aiutare gli autori emergenti nella difficile, e a volte impossibile, “scalata” verso l’affermazione editoriale.

“Concerto”, infatti, rappresenta anche l’ennesimo, umile schiaffo morale dato a tutti gli “snob dalla penna aristocratica” che credono in una visibilità basata esclusivamente sugli investimenti di mercato e sulle previsioni di vendita…! Non è una novità nel panorama dei riconoscimenti letterari (già altri concorsi premiano i vincitori con la pubblicazione), ma è pur sempre un coraggioso “fuori programma” che va ad affiancare dignitosamente le possenti pubblicazioni dei mammasantissima dell’editoria.

Enrico Brambilla Arosio, Michele Nigro, Ferdinando Colzani, Giovanni De Matteo per la narrativa; Adolfo Silveto, Antonietta Lestingi, Alfredo Di Marco per la poesia: questi gli Autori ospitati nel Premio Pubbli-cazione - edizione 2004 – del “Fauno d’oro”.

Per maggiori informazioni: IL FAUNO EDIZIONI s.n.c. , Via Mainante – Contursi Terme (SA).

€ 8,00

Vuoi segnalare a “Controedicola” un “libro particolare”, antico o moder-no, fuori catalogo o comunque sfio-rato/ignorato dalla pubblicità di massa?... Manda un’ e-mail a :

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“Grammatica della fantasia”

di Gianni Rodari

<<Quello che io sto facendo è di ricercare le “costanti” dei meccanismi fantastici, le leggi non ancora approfondite dell’invenzione, per renderne l’uso accessibile a tutti. Insisto nel dire che, sebbe-ne il Romanticismo l’abbia circondato di mistero e gli abbia creato attorno una specie di culto, il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne consegue di felicità di esprimersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti >>. Da questa ricerca, che Gianni Rodari ha condotto per molti anni, è nata questa Grammatica della fantasia, una proposta concreta che intende rivendicare all’immaginazione lo spazio che deve avere nella vita di ciascuno. Attraverso le più svariate tecniche dell’invenzione, Rodari ci offre con questo suo libro non un «Artusi delle favole» ma un efficace ed utile strumento «a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola».

Gianni Rodari (1920-1980): giornalista di professione, scrittore per ragazzi, vincitore del Premio Andersen (un Nobel per la letteratura infantile), le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo. Einaudi ha pubblicato: Filastrocche in cielo e in terra; Favole al telefono; Il Pianeta degli alberi di Natale; Il libro degli errori; La torta in cielo; Gli affari del signor Gatto; Il palazzo di gelato e altre otto favole al telefono; I viaggi di Giovannino Perdigiorno; Novelle fatte a macchina; Marionette in libertà; Tante storie per giocare; C’era due volte il barone Lamberto; La gondola fantasma; Il gioco dei quattro cantoni; Storie di re Mida; Giochi nell’Urss; Il secondo libro delle filastrocche; Gli esami di Arlecchino; Prime fiabe e filastrocche (1948-1951); I cinque libri.

Piccola biblioteca Einaudi € 13,43

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