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Numero Due

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Cadillac Magazine - Numero Due, Aprile 2012

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CADILLAC MAGAZINENumero Due - Anno Primo

Aprile 2012Pubblicazione Trimestrale Riservata

Associazione Culturale Cadillac Society Milano

Direttore responsabileAlvise Moncretona

RedazioneNatan Mondin, Michele Crescenzo, Giulio D’Antona

CollaboranoAlessandra Montrasio, Roberta Venditti, Mauro Maraschi, Marco Candida, Andrea Ferrari, Francesco Gallone

Hanno partecipato a questo numeroAndrea Ferrari, Mauro Maraschi, Alessandra MR D’Agostino, Gianluca Pizzingrilli, Michele Crescenzo, Fabio Visintin, Alice Beniero, Manfredi Damasco, Matilde Quarti, Marco Lupo, Kjell Ola Dahl, Nicolò Cavallaro, Margherita Barrera, Francesco Bevilacqua

Grafica e impaginazioneGiulio D’Antona

Illustrazione di copertinaGiulio D’Antona

Abbonamentowww.rivistacadillac.com

[email protected]

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Quando le anatre abbandonano gli stem-mi delle automobili, da quel momento

inizia il declino e restano soltanto gli allori. Il ritmo si spegne, rimane il primato. Parte

rallentato, arriva a centoventi battiti al minuto e si sintonizza con i giri del motore. La coppia massima del ciclopico otto cilindri la senti a quattromila e quattrocento giri al minuto. Cin-quecento pollici cubici, quattrocento cavalli. Ne aveva meno il francese che ha fondato Ville d’Etroit; in Italiano suona male, in inglese suo-na Detroit.

Con Berry Gordon ho cenato diverse volte, andavamo in un posto non distante da La Salle Street. A.P. Sloan non approvava, entrava nel mio ufficio. Odiavo quel cubicolo che sapeva di cane bagnato per colpa della moquette ama-ranto. A.P. Sloan entrava e si gingillava con la spilla fermacravatta. «Odio la musica di quel negro» berciava, mettendo da parte il suo con-tegno «il suo successo non ha niente di scien-tifico».

Costanza e stile. Berry Gordon mi diceva di lasciar perdere,

di avere costanza. Davanti a T-Bone grondanti sangue «il ritmo è tutto» mi ripeteva che il rit-mo è tutto.

Etta James, Diana Ross e Marvin Gaye. Il loro duetto. Costanza. Il cilindro accoglie il pistone, che imprime forza alla biella; il su e giù diven-ta tutto tondo e il tondo trasmette da destra a sinistra, da sinistra a destra, in obliquo, tra-sversale, verticale od orizzontale, un vortice di leghe metalliche, gomma e asfalto. Rollio che spinge, ammortizzato da sofisticati sistemi di sospensione, oppure assicurato da un sempli-ce schema Mcpherson. È la chiave di tutto. Co-stanza e contenuti. Andare avanti, continuare perché i sequel non sono più brutti della prima uscita, perché se funziona così per il cinema, non è così per le riviste; la serialità porta alla perfezione se ogni volta si aggiunge un pezzo nuovo. Si arricchisce, si migliora. Aumentia-mo le rubriche, aggiungiamo spazi. Perché si possa scorrazzare lusso non banale, lusso con contenuti. Design, Performance, Tecnologia. Sotto un cofano, sotto acciaio e mani di vernice stese fino alla nausea, anti-neve, anti-pioggia, anti-corrosione, batte un cuore da ottomila e due di cilindrata, capace di un’accelerazione

che ti spalma sul sedile. Connolly e tweed, lus-so in periodo di crisi. Carta patinata.

La mia Detroit non è quella delle case che crollano, dei viali abbandonati, dei teatri muti, dei lucernari in frantumi. Motown ha perso il ritmo, ha perso Supremes, Temptations e Jackson Five. Jacko è morto, lontano dal Lago Michigan e l’ottavo miglio è orfano di Eminem. Otto ore, i turni delle catene di montaggio han-no girato fino a spegnersi, una alla volta. Dopo cent’anni sono ferme. Il ritmo si è interrotto, il beat di strass e cromature ha lasciato colo-nizzatori e impresari al loro destino e mi si è appiccicato addosso in un bar in zona Bocconi. La Strada non è più un modello Fiat dal nome politically correct, è il sentiero di rinascita che parte da un bar in zona Bocconi. Niente mo-quette. Niente più spille fermacravatta. •

editoriale di Alvise Moncretona

4000 E400AL MINUTO

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NON FIORDI, MA OPERE DI BENEDAHL GRANDE NORD (CON STIMA)Intervista esclusiva a Kjell Ola Dahl p.6

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODEREFOTTUTO MENGELEdi Marco Lupo p.11

IL PERIODO YAYOIdi Matilde Quarti p.16

LINCOLN’S CORNER NEWS p.21LEI NON RISPOSEdi Alessandra MR D’Agostino P.23

LE RIGHINE DEGLI YANKEESdi Gianluca Pizzingrilli p.25

LA MANO DI DIOdi Nicolò Cavallaro p.31

SE FOSSIMO NATI MORTIUNO STARNUTO COSMICOovvero: Douglas Coupland p.33

IN QUESTONUMERO

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NON FIORDI, MA OPERE DI BENE

a cura di Andrea Ferrariillustrazione di Fabio Visintin

NON FIORDI,MA OPEREDI BENE

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Ero partito alla grande e con la giusta vena polemica per bastonare un po’ la così

tanto incensata letteratura giallo/noir prove-niente dalla Scandinavia, quando mi sono im-battuto nei libri di Kjell Ola Dahl, autore norve-gese di professione psicologo. Mi sono armato di tutta la sua bibliografia in Italiano (che qui a Cadillac hanno promesso di rimborsarmi), edita da Marsilio, e con un po’ diffidenza ho iniziato a leggere.

La diffidenza è passata alla decima pagina del primo libro, e si è tramutata in simpatia verso metà, per poi farsi stima quando ho avu-to l’audacia di contattare direttamente l’auto-re via facebook.

Ora, Ola Dahl non è proprio il primo scemo che passa per la via. In patria ha all’attivo ben otto romanzi tradotti, peraltro, in svariate lin-gue, e appartiene di diritto all’elite del thrilling scandinavo. Bene, questo signore sulla sessan-tina non ha avuto remore a chiacchierare del più e del meno con me per qualche tempo, poi ha addirittura pensato bene di chiedermi cosa ne pensassi del suo lavoro e si è interessato anche del fatto, per lui un po’ strano, che io sa-pessi scrivere in Norvegese.

Ecco, alla fine di questo panegirico, ho deci-so di chiedergli un’intervista per Cadillac e fra poco ve ne darò conto.

La mia vena polemica verso la rappresen-tazione mediatica del giallo/noir scandinavo non è certo passata, ma a ragion venduta e per onestà intellettuale verso voi, prodi lettori di Cadillac e di questa rubrica, sottolineo una volta di più il grande gap che separa la lettera-tura di genere nostrana da quella del grande nord. Un vecchio slogan pubblicitario di una ventina d’anni fa (cito pari pari perché la pub-blicità è l’anima del commercio, come ben sa-pete) diceva: “PROVARE PER CREDERE” e io vi dico: provate a contattare uno qualunque fra gli italici scrittori sopra le 10/15 mila copie e mi saprete dire.

Tornando a noi, di Kjell Ola Dahl possiamo dire che è uno scrittore un po’ atipico nel pa-norama ormai classico del giallo scandinavo. La sua serie di polizieschi si ambienta in una Oslo contemporanea e molto attaccata al rea-le, e tratta tematiche estremamente vicine alla gente comune con tratti umani che a volte si

avvicinano al poetico. I suoi due personaggi principali, Frølich e Gunnarstranda, struttu-rano nel corso della narrazione una dicotomia continua fra presente e passato intesi come macro categorie non solo temporali, ma an-che del vivere quotidiano e simboleggiano due differenti approcci alla realtà norvegese tinta chiaramente di quel giusto punto di noir che ogni romanzo procedurale dovrebbe avere.

Ora, bando alle ciance e lasciamo la parola a Dahl:

Ciao Kjell, come Cadillac siamo molto felici di ospitarti sulla nostra rubrica e ti ringraziamo per la tua disponibilità. In questa chiacchierata virtuale ti chiederemo di Frølich e Gunnarstran-da, i due poliziotti che animano la tua serie di libri e, in generale, del tuo modo di intendere la scrittura all’interno del tessuto sociale moder-no.

Qui in Italia abbiamo solo tre dei tuoi roman-zi, potresti dirci a che numero sei arrivato re-almente e introdurci un po’ i tuoi personaggi principali?

Frølich e Gunnarstranda sono una coppia speciale: Gunnarstranda è un uomo un po’ complicato, attaccato al passato e che si cura poco di se stesso e nella serie è il superiore di Frølich. Frølich è più giovane, un tipo sincera-mente più socievole e con la cattiva abitudine

DAHL GRANDENORD(CON STIMA)Intervista a Kjell Ola Dahl

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di invaghirsi di donne che spesso risultano essere pericolose. I due insieme si completa-no e questo aspetto è molto presente nel libro che in talia è uscito come Il Quarto Complice. Sia questi due personaggi che il loro univer-so all’interno dei libri (inteso come ciò che li circonda) sono andati sviluppandosi nel corso delle varie pubblicazioni.

In Norvegia siamo all’ottavo libro, Isbade-ren, dove, ad esempio, Gunnarstranda lavora con una donna poliziotto che si chiama Lene, e Frølich ha un ruolo più marginale. In quel-lo prima invece, Kvinnen i Plast, Frølich lavora praticamente da solo.

Potresti parlarci del tuo rapporto con Oslo, sia come città norvegese che come capitale eu-ropea?

Chiaramente l’azione, all’interno dei miei romanzi, si sviluppa per lo più ad Oslo perché i due poliziotti lavorano in quel distretto.

Quando scrivo questa serie il lavoro divie-ne anche un modo per esplorare e indagare la città, e per sviluppare al meglio i personaggi. La mia conoscenza nei loro confronti natu-ralmente aumenta di avventura in avventura. Allo stesso tempo mi dedico ad esplorare Oslo, trovare i luoghi e gli ambienti sociali in cui la trama riesca dipanarsi al meglio. Questo è un aspetto del quale mi faccio via via più coscien-te durante il processo di scrittura di un libro,

dato che Oslo è la mia città. Non rappresenta solo un luogo dove am-

bientare una storia. Oslo riflette l’Occidente così come io lo vedo, e in un certo senso riflette anche l’Europa come insieme culturale. Quello che noi percepiamo in Europa come cambia-menti, come la crisi finanziaria e l’insicurezza comune, interessano certamente anche la Nor-vegia solo, generalmente, in scala minore. D’al-tro canto, lo stato del welfare norvegese esce prepotentemente nei miei libri, perchè i ro-manzi cosìdetti noir indagano le relazioni fra poveri e ricchi, fra la criminalità e le relazioni sociali in Norvegia.

Tu che in Italia sei uno fra i più conosciuti scrittori scandinavi di genere, potresti spiegar-ci quali sono le ragioni del grande boom che la letteratura di genere scandinava sta avendo nel mondo?

Per ciò che riguarda la grande esplosione del giallo/noir scandinavo, a livello internazio-nale, credo che dipenda da due fattori distin-ti. Il primo è la tradizione; nel periodo fra gli anni settanta e gli anni novanta è stata prepa-rata una ottima base, da autrori come Sjowall e Walooh (di cui abbiamo parlato nel primo numero NDA) e Henning Mankell, dai quali il giallo scandinavo è stato davvero rappresen-tato internazionalmente.

Dall’altro lato, credo che il giallo scandina-

NON FIORDI, MA OPERE DI BENE

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vo abbia comunque abbastanza tradizione per essere molto realistico e con un profilo sociale molto attaccato alla quotidianità. Vi si trovano vicende contemporanee che si focalizzano sui problemi della gente comune. I gialli scandina-vi, sono costruiti spesso su flashback per cui e le azioni del passato provocano conseguenze nel presente. Così la maggior parte delle opere si fa attuale ed è in grado di coinvolgere molti lettori.

Quale è stata la reazione di Oslo e della Nor-vegia alla tragedia del 22 luglio scorso?

In merito ai fatti del 22 luglio scorso (La strage di Oslo e di Utøya NDA), il paese ha re-agito in molti modi. La prima reazione è sta-ta quella di determinare che fosse stata tutta opera di un unico estremista fascista. Quanto successo poi è stata una lezione che ha porta-to molte critiche alla polizia e ai servizi segre-ti. Il fatto che la polizia fosse all’oscuro delle precedenti azioni di Breivik rappresenta uno scandalo. E rappresenta un altro scandalo il modo con il quale la polizia ha condotto l’azio-ne. (Mio nipote di quindici anni era sull’isola, ma è sopravvissuto).

Un altro punto focale è rappresentato dal fatto che sia stato colpito il partito di maggio-ranza al governo (Socialdemocratici – Centro sinistra NDA). Detto questo, anche il partito di maggioranza non è esente da critiche.

Quanto successo il 22 luglio alimenterà il di-battito per gli anni a venire. L’ultimo scandalo è che gli psichiatri deputati abbiano definito Breivik solo come un folle dalla personalità eccentrica. D’altro canto è positivo che noi non fossimo pronti ad una tragedia simile.

Come ultima domanda una cosa certamente più leggera: La serie di Frølich e Gunnarstranda proseguirà? E quante storie hai deciso di dedi-care loro? E in ultimo, quali sono i grandi gialli-sti del passato che ti hanno influenzato?

Certamente mi piace scrivere di questi due personaggi, ma voglio anche scrivere di altre cose. Sono comunque sicuro ci saranno al-tri libri di Frølich e Gunnarstranda. Più vado avanti con loro e più mi avvicino al mio pro-

L’illustrazione compare per gentile concessione dell’autore e di Marsilio Editori.

Kjell Ola Dahl ha pubblicato in Italia:

Il piccolo anello d’oro (Marsilio, 2000); L’uomo in vetrina (Marsilio, 2001); Il quarto complice (Marsilio, 2005);

Informazioni: www.kjelloladahl.no

Si sentì uno sguardo bruciante sulla guan-cia e girò la testa. Era Annabeth. E lo sguardo di Annabeth non lasciava dubbi. Per un motivo o per l’altro doveva aver capito qualcosa. Il nodo che le serrava lo stomaco si raggelò tutt’a un tratto. An-nabeth lo sa, pensò Katrine. Quella brutta cretina. Lo sa. E Bjørn sa che lei sa.

- Un Piccolo Anello d’Oro -

getto ideale per i due personaggi e per Oslo. I grandi giallisti che mi hanno influenzato di più sono certamente Raymond Chandler e R.D. Wingfield. Ma sono stato sicuramente influen-zato anche da altri tipi di letteratura. Ora ad esempio sto leggendo un libro di Don De Lillo che mi sta entusiasmando.

Grazie mille Kjell e a presto.

Grazie a voi, e soprattutto non vedo l’ora di leggere l’intervista, sebbene non sappia l’ita-liano! •

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a cura di Mauro Maraschiillustrazioni di Manfredi Damasco

UNA COSAPICCOLACHE STA PERESPLODERE

Chiamalo, se vuoi, sottobosco. È composto da entità dissimili: alcuni di loro sono

aggiornati sul mondo dell’editoria, vanno alle presentazioni e si informano sulle cinquine. Al-tri sono scrittori allo stato puro, spesso bravi, ispirati, prolifici. Ma a noi interessano i primi, perché è più probabile che imbocchino il sen-tiero giusto. Questa rubrica (che non si occupa di scouting “puro”) si pone tra loro e gli editori quale osservatorio sulla fertile risorsa offerta da riviste, antologie e concorsi letterari.

Approvvigionatevi.

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE

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So perché racconto questa storia. Nessun altro potrebbe.

La storia inizia con due gemelli monozigoti. Stanno giocando nella camera da letto dei loro genitori. Hanno sette anni, sono alti come la tacca segnata sul muro in cucina, sono bion-di e hanno gli occhi verdi. Stanno infilando le mani nell’armadio dei genitori. Da una parte, a sinistra, ci sono i vestiti della madre, le ca-micette, i tailleur, le gonne. Dall’altra, a destra, i pantaloni del padre, le camicie, i pullover, le giacche. Il gemello A si sbottona i pantaloni e li lascia cadere a terra. Si infila una gonna blu. Il gemello B lo aiuta con la cerniera lampo. Il gemello A chiede al gemello B come sto? Il ge-mello B sceglie una giacca di velluto marrone, la indossa dicendo benissimo. Il pomeriggio è freddo come l’inverno che ha raso al suolo il prato di fronte a casa. Gli alberi dal tron-co bianco aspettano la lama delle cesoie e la brace del camino. La casa è grande, ha gran-di finestre, camere dai grandi letti con grandi testiere e soffitti protetti da travi di legno. Lo scricchiolio è come un orologio da parete, non smette mai. I gemelli corrono lungo i bordi del corridoio, saltano sulla cassapanca, strisciano sotto il pianoforte a coda in soggiorno, spri-macciano il pelo del tappeto, mimano la posa delle corna dell’alce appeso in un angolo. La grande casa è vuota, l’Argentina è una terra accogliente, i gemelli sono felici, il giardiniere carica sacchi di foglie morte su un furgoncino bianco, i genitori dei gemelli stanno tornando a casa. La casa è grande e calda.

La macchina guidata dal padre dei gemelli entra dal cancello appena riverniciato verso le 15:30 del 12 luglio 1958. A Buenos Aires, quel giorno, 120 bambini vedono la luce dell’in-verno, 27 uomini scoprono di essere morti,13 donne fingono svenimenti per non parlare più. La madre dei gemellini gioca con la col-lana di perle nere e risponde a un domanda. La voce inquirente appartiene a un uomo vici-no ai cinquanta, baffi neri, rughe rassicuranti che spianano la fronte. Lasciano la macchina vicino alle scale che portano all’ingresso prin-cipale. I gemelli vedono i genitori e l’ospite da una grande finestra in soggiorno. Corrono a ritroso verso la camera da letto, verso l’arma-dio. Il gemello A si fa aiutare con la cerniera

della gonna dal gemello B. Rimettono i vestiti nella stessa posizione in cui li avevano trovati. Quando i genitori e l’ospite entrano in casa, lo scricchiolio si ferma.

Lo stesso suono di fibre che si divarica-no, nella primavera di quindici anni prima. A partire dalla mattina del 30 maggio 1943, un laureato in antropologia e me-dicina prende servizio ad Auschwitz-Birkenau. Nome cognome Josef Menge-le. Detto l’Angelo della Morte, l’Angelo bianco, zio Mengele o semplicemente: Dr. Morte. Sua moglie, Irene Schoenbein, è bionda. A Ire-ne piacciono molto Wagner e Liszt. Quest’ul-timo le piace nonostante fosse ungherese. Jo-sef Mengele, invece, ha denti bianchi e capelli neri. Li pettina spesso, almeno dieci volte al giorno. Nella maggior parte delle fotografie ha la riga al lato sinistro. Le orecchie sono proporzionate rispetto al corpo. Tra i segni particolari, uno spazio lieve che separa gli in-cisivi. Il 30 maggio del 1943, il genetista Ott-mar von Verscheur accoglie il suo ex studente nei laboratori medici di Auschwitz-Birkenau. La giornata è luminosa, il cielo è turchese. Il futuro della medicina zittisce ogni voce, ogni scricchiolìo.

Josef si accarezza le guance rasate con il dorso della mano e pensa, devo rimboccarmi la maniche. Lo fa.

La prima cosa da fare è circondarsi di perso-nale specializzato. Josef trova quindici medici tra i prigionieri del campo. Sono uomini di va-rie nazionalità, accomunati dalla passione per la scienza medica e dall’impotenza. Josef orga-nizza il laboratorio in meno di una settimana. Promettendo migliori condizioni di vita, Josef ottiene ciò che gli manca. Una ventina di in-fermiere professionali. C’è solo una cosa di cui Josef ha ancora bisogno: un archivio fotogra-fico dei pazienti. Tra i prigionieri del campo

FOTTUTOMENGELEdi Marco Lupo

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c’è una graziosa disegnatrice. Farà lei i ritratti ai pazienti. Quindi iniziano le analisi, le mi-surazioni, le sperimentazioni. Josef è affasci-nato dalle possibilità della ricerca sui gemelli monozigoti. Ad ogni vagonata di merce, Josef chiama personalmente a raccolta i gemelli. Zwillinge heraus, dice, Zwillinge heraus!

C’è da dire che Josef apprezza anche i nani. I nani e i gemelli diventano il suo campo di spe-cializzazione. Dormono separati dagli altri pri-gionieri, in una baracca speciale, nel blocco 14 del lager BIIf. Qui il vitto e le condizioni igieni-che sono accettabili, qui i letti sono comodi e i prigionieri sono esentati dal taglio dei capelli, almeno per qualche giorno. Sono tutti picco-li, i prigionieri della baracca speciale. I soldati hanno istruzioni precise sul trattamento dei piccoli. Nessuno deve colpirli. Non è permesso uccidere nessun nano e nessun gemello, senza l’autorizzazione scritta di Josef. Nessuno può fare niente, senza che Josef lo sappia.

Gli esami vanno a gonfie vele e la merce è ab-bondante. Perciò la vita media dei gemelli non può superare le tre settimane. Sono sicuro che qualcuno dei lettori starà soffiando, in questo momento, o sbuffando. Sono sicuro che alcuni di voi stiano pensando che non è necessario, sapere tutto questo non è necessario.

I gemelli vengono uccisi simultaneamente con un’iniezione al cuore.

Sono il gemello B. Mi chiamo Bernard. Mio padre era un famoso psicologo tedesco. Mia madre era una casalinga. Io e il mio fratello ge-mello siamo nati a Buenos Aires il 13 luglio del 1951. I miei genitori si sono trasferiti in Ar-gentina nel 1945. Da allora non sono mai tor-nati in Germania. Sono morti a Buenos Aires. Sono morti qualche giorno fa, se ricordo bene. Simultaneamente.

Nell’inverno del 1958 Josef Mengele venne a farci a visita. Mio padre lo rispettava come me-dico e come antropologo. Da un po’ di tempo i miei genitori erano preoccupati per l’atteg-giamento di mio fratello, il gemello A. Il fatto che si travestisse da donna. Non riuscivano a capirlo. Mio padre, che era uno psicologo ri-spettato, non sapeva cosa fare con mio fratel-lo. Chiese aiuto a molti colleghi, ma nessuno riuscì a cambiare nulla della natura di mio fra-

tello. Il 12 luglio del 1958 Josef Mengele entrò in casa mia. Mio fratello, il gemello A, morì il giorno dopo, il giorno del nostro compleanno.

Quell’anno Thomas Bernhard pubblicò In hora mortis. Josef apprezzò quelle poesie. Gli parlavano di morte. Aveva l’impressione che fossero la vivisezione della sua vita. Erano po-tenti quelle parole. E lui le amava.

Signore lasciami dimenticare/la mia anima/e il tormento degli occhi/e il pugnale di stanche labbra/e il fuoco verde di lontane ca-panne/la bocca di ogni stagno/dimenticare/Signore/mio Dio/il giorno/che mi ha squar-ciato il grido/che gridai/e il corteo dei molti uccelli/è in pezzi la mia ira/e libero il mio san-gue/in fiumi.

E questo non è tutto. Questa è una parte, è sola la punta dell’iceberg. Mengele vive, respi-ra bene. Io cresco. I miei mi mandano in Euro-pa. Studio a Parigi, a Berlino, a Lisbona. Poi a Roma. Vado a vivere da uno zio, Tobias, pancia larga e occhi grigi. Ha i baffi color senape, fuma la pipa, mangia in piccole trattorie che lui chia-ma gioielli. Finisce per parlarmi di cose di cui non avrebbe voluto parlare. Mi racconta di Hit-ler, di mio padre, di mia madre, di mio fratello. So molte di quelle cose. Ma lo ascolto. Finisce per parlarmi di Kafka, di Varlam Šalamov, di Aleksandr Solženicyn, di Heinrich Böll, di Gün-ter Grass, di Kafka ancora. Imparo a rispettare i tramonti. Guardo la luce tremolante che si infi-la tra le statue di ponte Sant’Angelo. Imparo la lingua che arrota le R e asciuga le consonanti. Sulle gambe mi crescono piccoli peli biondi. Il pene si inturgidisce casualmente. Ascolto tutto quello che sento. Il cuore striscia in un angolo ogni volta che mio padre e mia madre mi chia-mano. So che non mi chiederanno di tornare, ma ho paura lo stesso. Mio zio poi muore. Lo saluto con gli amici del bar, in un cimitero mo-numentale circondato da marmi e gatti. Nes-suno piange. La sera mi portano a mangiare in una vecchia osteria. Dicono che non sarò solo. Di non preoccuparmi. La mattina dopo bussa-no alla porta. Sento male, una specie di cerume alcolico occlude i timpani. Aperta la porta, mio padre e mia madre entrano con pellicce visto-se e occhi asciutti. Dicono di andare.

Dobbiamo andare.Dico che non è necessario.

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE

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Dicono che è ora.Dico che il cimitero è vicino.Dicono che il cimitero è lontano.Dico mi fate schifo.Dicono è normale, non ci pensare.Dico lo so che è normale, fate schifo.Dicono smettila ora muoviti.Dico no.Dico no.Dico no.Così sono il gemello B, quello scampato. Di-

mentico ogni cosa di mio fratello. So tutto, ma non posso scegliere. Devo cambiare. Devo ri-cordarmi di essere un uomo. Lascio tutto quel-lo che ho. Mio padre mi disereda. Mia madre prova a chiamarmi di nascosto. Urlo, quando lo fa. Mi innamoro. Odio. Perdo oggetti, case. Cambio case e ritrovo tramonti. Seguo la scia della sabbia color zafferano. Corro sulle spiag-ge di Ostia. Ho qualche amico, pochi, essen-ziali. Cambio posto troppo spesso. Nessuno si ricorda di me, nessuno mi chiede come va. Studio, nel frattempo. Copro giornate intere con il cuore che striscia sui libri. Cresco anco-ra. Piango, ogni tanto. Faccio a pugni, anche. Mi tingo i capelli. Non posso guardarmi allo specchio. Non posso vedere mio fratello, il no-stro marchio di fabbrica, la nostra condanna. Ho i capelli castani, ora, la barba anche. Scri-vo, lentamente scrivo. Arrivo a capire qualco-sa, della mia scrittura. Amo qualche donna. Amo qualche uomo. Viaggio, ma ritorno sem-pre in questa città. Ogni 13 luglio mi travesto. Esco di casa quando il tramonto lascia il cielo ai pipistrelli. Cammino male con i tacchi, ma ho imparato a non cadere. Uomini con grandi pance sorridono e mi accarezzano le natiche. Scendo per i vicoli di Trastevere, le ombre dei fili rossi della parrucca sui muri del ghetto. Vado in giro tutta la notte, ogni anno, per anni. Continuo a scrivere. Scrivo storie di uomini, di cani. Scrivo storie senza umorismo, sen-za nessuna vena ironica. Non riesco a ridere. Non ce la faccio. Poi immagino di scrivere di mio fratello. Sogno di scrivere. Incubi, arri-vano presto. Ho paura, imparo ad ammetter-lo. Paura di mio padre. Paura di mia madre. Paura che leggano ciò che scrivo. Un amico essenziale mi dice di inviare tutto a gente che conosce, gente che può fare qualcosa. Dico no.

Lavoro come facchino negli alberghi per turi-sti. Guadagno il necessario. Il cuore della città cambia. Cambiano gli archi, cambia la traiet-toria del passeggio. La gente inizia a rientrare prima. Paura. Hanno paura di qualcosa. Leggo i giornali. Leggo di uomini che fanno la rivolu-zione. Nei bar la gente parla. Poi tutti a casa. Continuo a tingermi i capelli. Mia madre ormai non ha più notizie di me. Una notte, a fine ago-sto, chiamo a casa dei miei. Risponde mia ma-dre. Le chiedo soltanto, è ancora vivo?

Parto il primo gennaio del 1979. Ho 27 anni. La prima settimana a Buenos Aires. Passo due volte davanti a casa dei miei. Non vedo mai nessuno. Il giardino è lo stesso, la stessa pu-lizia. Riconosco da lontano il giardiniere. Mi nascondo e lo guardo lavorare per ore. Viaggio ancora. Prendo corriere notturne. Attraverso campi, foreste. Piccoli contadini con la pelle scura mi guardano. Ho smesso di tingermi i ca-pelli. Dopo un mese di viaggi, decido di pren-dere una stanza in affitto a Sao Paulo. La trovo al 5551 di via Alvarenga. Il quartiere è pove-ro, strade sterrate, baracche di lamiera e case improvvisate con residui di cantieri. Imparo a conoscere il cuore dei brasiliani. Passo le notti del carnevale con il cuore che striscia su ma-terassi unti. Sento il sudore, il cuore degli altri come fuochi d’artificio. Bevo nelle notti che di-

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menticano tutto. Rido, ricomincio a muovere quei muscoli dimenticati. Una notte sogno un uomo che mi accarezza mentre qualcuno dice svegliati. Mi sveglio all’alba. Vedo il colore in-cresparsi, l’arancione diventare rosso. Mangio uova, quel mattino. Ricordo bene la forchetta. Il manico leggermente distorto. Quando esco le strade sono ancora vuote. Poi sento una porta aprirsi. Mi giro. Vedo il numero scritto a mano sul muro. 5555. Qualche vicino mat-tiniero, penso. Mi va di parlare con qualcuno. Ho bisogno di ascoltare una voce. Stamattina, penso in quel momento, devo scegliere. L’uo-mo che esce dalla porta verde indossa un cap-pello. Ha i capelli bianchi. Dice qualcosa, ma parla a se stesso.

Lo guardo. Seguo la linea dei pantaloni ca-chi. Risalgo e vedo il movimento dei gomiti, gli avambracci scoperti, le maniche della camicia ripiegate in un certo modo. Non so spiegarlo. Non posso. So che ricordo. In quel momento ricordo. So che è lui. Che lo devo seguire. Che se smetto di pensare e forse fingo di cercare qualcosa tra i rifiuti non si accorgerà di me. Cerco qualcosa tra i rifiuti. Lui mi passa ac-canto. Sputa nel mucchietto di bottiglie in cui fingo di cercare. Sento il rumore di un motore. Una macchina. Si fermano davanti a lui e lui sale. Partono.

Corro. Corro sulla strada che porta a un piccolo spiazzo. Da lì si può tagliare, lo so. C’è una bicicletta lasciata all’angolo da un magnaccia. Lo conosco, lo chiamano tut-ti Jimenez. Lui dorme ora. Nessuno pren-derebbe mai la sua bicicletta. Io la prendo. Taglio per la strada. Tra i mucchi di spazzatu-ra ci sono ratti e bambini. Il cuore dell’alba è fermo. Scende la luce che riscalda i secchi sui balconi. Pedalo, sento nei muscoli il formicolio del sangue. Attraverso altre strade. Baracche, palazzi, distributori di benzina, mendicanti as-sopiti agli angoli, sotto le tettoie. Vado veloce, il cuore che striscia nelle vie di Sao Paulo. Vedo l’ombra dei miei capelli su un muro su cui qualcuno ha disegnato un uomo con un fucile.

Vanno lontano, lo capisco. Così faccio una cosa che non avrei mai pensato di fare. Taglio per una piccola strada che porta a una stra-da più grande. Ho sognato quella strada, una volta. Quando giro, la macchina mi prende in

pieno.Salto il passaggio che dovrebbe spiegare

cosa succede dopo. Dico solo che entro in mac-china. Parlo in tedesco, loro parlano tedesco. Parliamo nella lingua che ho cercato di dimen-ticare. Devo sforzarmi. Ogni articolo, ogni so-stantivo, pesa come pugni in bocca. Mi chiedo-no di me. L’uomo che guida si chiama Bossert. La moglie gli siede accanto. Dietro, invece, siamo io e l’uomo che si fa chiamare Wolfgang Gerhard. So chi è. So che è lui. Attraversiamo piccole città, altre strade sterrate. La moglie di Bossert mi offre dell’acqua. Ammetto di esse-re uno scrittore. Wolfgang Gerhard mi chiede se conosco Bernhard. Dico no. Lui sorride. Da lontano il cuore della piccola città di Bertioga si estende sulla superficie dell’oceano. Vedo la spuma delle onde, i palmizi, il colore del-la sabbia simile allo zafferano, ma più scuro. Così la macchina si ferma. I Bossert scendono per primi. Lui si stiracchia premendo il sedere sul cofano, mentre lei indossa i suoi occhiali da sole. L’uomo che si fa chiamare Wolfgang Gerhard resta in macchina. Siamo soli, io e lui. Non dice niente. Guarda l’Oceano Atlanti-co. Penso a come farlo fuori. Penso che questo sia il momento. Lui guarda le onde e io lo uc-cido. Ma come ucciderlo, come non lo so. Esce, lui esce. Il vento corre sulla sabbia. I Bossert vanno in spiaggia tenendosi mano nella mano. Lui cammina lentamente. Come un uomo sulla luna. Un passo. Un altro. Lo seguo dal finestri-no della macchina. Poi i Bossert si girano, mi chiamano. Dicono vieni. Dico arrivo.

Lui cammina, un passo, la sabbia che ingoia i piedi, e ancora un passo. Lo vedo spogliarsi. La camicia. Lo vedo che si toglie i pantaloni. Lo vedo che lascia un oggetto sui vestiti. Esco dal-la macchina. La sabbia si richiude come sabbia mobile. Entri ed esci. Ma devi fare forza. Ogni passo costa. Lui, Mengele, perché è lui, è Men-gele, sta a riva. Scivola con i piedi nell’acqua. Mormora qualcosa ai Bossert. Loro ridono. Continuo a camminare. Ormai mancano venti metri. Lui si ferma. Si asciuga la fronte con il dorso della mano. Si tuffa. Entra nell’acqua.

Cammino ancora. Ho solo cinque metri da-vanti a me. I Bossert si baciano. Lui è in acqua, la sua testa bianca illuminata dal sole. Vedo qualcosa. Cerca di dire qualcosa. I Bossert si

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baciano ancora. Lui, Mengele, si muove male in acqua. Sembra un uomo sulla luna, o uno a cui hanno morso un piede. Apre la bocca, la richiude. Io resto fermo. Posso entrare, pos-so farlo. Ma resto con i piedi sulla sabbia. Lui sprofonda. Scende. I Bossert si baciano. Si ba-ciano ancora. Guardo la scia di bolle. I Bossert si baciano. La scia di bolle che sale in super-ficie. La spuma che la copre. Devi stare atten-to, mi dico, guarda bene. Crea un diversivo. I Bossert ancora si baciano. Crea un diversivo. Ma intanto conto. Trenta secondi. I Bossert si baciano. Quaranta secondi. Lui la accarezza. Cinquanta secondi. Lui le dice qualcosa nell’o-recchio. Un minuto. Lui si gira. Guarda l’ocea-no. Si gira ancora. Guarda me. Fingo, fingo di avere gli occhi incollati al palmizio che decora la spiaggia. Urla qualcosa, Bossert. Dice Josef, poi dice Wolfgang, poi se ne fotte e urla solo Josef. Ma Josef è colato a picco. Josef è dentro. Josef è andato. •

Nato a Heidelberg negli anni ‘80, Marco Lupo comincia subito a scrivere ma non pro-pone niente fino al 2006. Quindi compare su diverse antologie, entra nella redazione da TerraNullius e, nel 2011, è finalista di Esor-dire. A maggio pubblicherà, a quattro mani con Luca Moretti, Mai Morti, per Dissensi. È alle prese con un romanzo che non sa quan-do finirà. Sfoggia una scrittura caustica, spiazzante, citazionistica. Unica pecca: posta troppa roba su Facebook: a quest’ora il romanzo sarebbe pronto. Di lui riproponiamo Fottuto Mengele, apparso su Scrittori Precari nel luglio 2011.

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La cosa che Ginevra ha sempre saputo fare meglio è ascoltare. Le braccia conserte, la

testa leggermente reclinata, da ormai quattro mesi segue storia moderna alle dieci e trenta del lunedì, del martedì e del giovedì mattina. Ginevra non prende appunti, non li ha presi neanche una volta, e indossa una piccola borsa di cuoio a tracolla in cui un quaderno di quelli piccoli entrerebbe a stento. Ginevra non pren-de appunti, ma non deve neanche dare l’esame del corso, né di quello che sta seguendo né di qualunque altro. Ogni tanto chiude gli occhi, poi li riapre. Mancano solo cinque minuti alla fine della lezione, allunga il braccio destro ver-so sinistra, puntando l’indice nel vuoto come se stesse suonando un campanello. Lo fa istin-tivamente, sembra non farci neanche caso, e un istante dopo tira un colpo leggero, sempre con l’indice, sulla testa di Roberta, seduta da-vanti a lei.

«È scoppiato? » le chiede Roberta.«Sì, è tornato minuscolo».Roberta si volta e ricomincia a scrivere.

Ginevra ha diciannove anni, di cognome fa Paleari. Suo padre è il capo di qualcosa di non ben definito in uno degli uffici che danno su Piazza Affari. Ogni volta che Ginevra ha prova-to a chiedergli di cosa si trattasse, lui l’ha guar-data, poi ha guardato le proprie mani e alla fine si è allontanato con una scrollata di spalle. Sua madre invece fa la moglie di un marito capo di qualcosa di non ben definito in Piazza Affari, il suo ruolo implica la compulsiva organizza-zione di cene a più portate e l’accurata scelta di centrotavola coordinati ai tovaglioli. Suo fratello, Guglielmo, di quattro anni maggiore, dopo aver studiato in un collegio in Germania è volato a New Haven a studiare economia, Gi-nevra di lui sa soltanto che ha un bel sorriso, ascolta buona musica, ed è l’unico tra i suoi parenti a preoccuparsi di chiederle come sta.

Ginevra, nata e cresciuta in un palazzo pri-vato dietro Corso Venezia, possiede tutte le piccole nevrosi quotidiane che si confanno ad una giovane donna della Milano perbene; non ha mai accostato delle scarpe marroni a un ve-stito nero, pulisce ogni superficie di proprietà statale prima di sedercisi sopra, e chiama le

lumache escargots e il coniglio lapin, ma solo quando rivestono il ruolo di portata. Oltre a queste, però, ne possiede un’altra sua parti-colarissima, talmente nevrosi e talmente quo-tidiana da aver suscitato l’interesse di più di un esperto, facendola entrare dalla porta d’in-gresso nell’elenco dei loro casi irrisolti. Gine-vra Paleari vede puntini.

Vede puntini all’incirca dall’anno della prima elementare, ricoprono tutto il suo campo visi-vo e a seconda dell’intensità e del genere delle sue emozioni cambiano di colore e dimensioni. Quando Ginevra è serena i puntini sono picco-li come capocchie di spillo, di colori tenui, ma mano a mano che le sue sensazioni diventano più forti, virando dalla rabbia all’imbarazzo, al dolore, alla gioia, i colori si fanno più accesi e i pallini diventano sempre più grandi, rag-giungendo il volume di un pallone da calcio, o ancora maggiori, tanto da oscurarle la vista con un’opaca e impenetrabile patina colorata. In questi casi, per farli tornare alle dimensio-ni originali, Ginevra è costretta a scoppiarli. È un gesto che ormai le risulta automatico, come scostarsi una ciocca di capelli dagli occhi. Così Ginevra punta l’indice nel vuoto, e con movi-menti veloci scoppia i pallini, uno dopo l’altro, finché non sono tutti tornati di dimensioni ac-cettabili.

Ginevra alla fine della lezione si sporge ver-so Roberta.

«Corro a casa, tra poco tornano. Di’ a Marco che co

minciamo stasera».Poi esce veloce, con il cuore che le batte sem-

pre più forte mentre scende le scale. Arrivata nell’atrio Ginevra si ferma un secondo, scop-pia i pallini che le stanno annebbiando la vista,

IL PERIODOYAYOIdi Matilde Quarti

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si calma. Ancora non è riuscita ad abituarsi a questa nuova sensazione di libertà che avver-te in ogni muscolo mentre aspetta la 94, men-tre fa colazione al bar di fronte all’università. Al piacere segreto e clandestino di mangiare la pasta al formaggio della mensa, di fumare una sigaretta in chiostro dopo il caffè stantio della macchinetta, di parlare con quelle stesse persone con cui ha mangiato la pasta al for-maggio della mensa e ha fumato la sigaretta in chiostro dopo il caffè. Guarda questi studenti passarsi l’accendino o salutarsi con una mano sulla spalla con la stessa scioltezza con cui lei fa saltare uno dopo l’altro i pallini che le con-fondono la visuale. E ogni volta le sembra im-possibile, di fare parte anche lei del quadro. Poi i pallini le offuscano di nuovo la vista, e Ginevra li scoppia con la punta della sigaretta.

Quando, quattro mesi prima, aveva spiegato a Marco e Roberta il suo disturbo, lo aveva fatto con la certezza che sarebbero scappati senza neanche lasciarla finire di parlare. Era succes-so all’entrata, davanti al tabellone dell’orario dei corsi. Ginevra aveva deciso di seguire sto-ria moderna. Le piaceva la storia, era un lungo racconto che non necessitava di analisi e for-mule, ma solo di una buona memoria. Poi si era bloccata, sommersa da nomi di corsi sem-pre più specifici, con orari che si accavallava-no e intrecciavano tra loro senza alcuna logica apparente. Era rimasta ferma con lo sguardo rivolto verso un punto imprecisato e le braccia rigide lungo i fianchi. Aveva pensato che era sbagliato cercare di infiltrarsi in un mondo che non la riguardava, stare lì con la testa piegata all’indietro per scoprire in che aula si tenesse-ro le lezioni, fingendo di essere simile a tutti quegli studenti che si muovevano, cercavano, trovavano intorno a lei. E mentre si convinceva che sarebbe immediatamente dovuta tornare a casa i puntini erano diventati sempre più grossi e, prima che Ginevra potesse renderse-ne conto, il suo indice era finito nella narice di Marco.

Marco aveva fatto un salto indietro, metten-dosi la mano davanti al naso, Roberta, in pie-di accanto a loro, aveva riso. Aveva riso molto forte, con gli occhi sbarrati e le sopracciglia inarcate. E quando Ginevra scusandosi aveva

spiegato che doveva proprio scoppiarli, i palli-ni, Roberta e Marco invece di guardarla come faceva ogni volta sua madre, con gli occhi tri-sti e il labbro arricciato, le avevano chiesto di spiegarlo meglio. E quando lei lo aveva spie-gato meglio, le avevano chiesto di spiegarlo ancora.

Ginevra percorre veloce la strada dall’uni-versità a casa, passa per Piazza Fontana, supe-ra velocemente la confusione di Corso Vittorio Emanuele e San Babila, taglia dalle viuzze la-terali alla circonvallazione interna stupendo-si, come ogni giorno, che la folla di lavoratori in pausa pranzo del primo pomeriggio non la infastidisca. Stringe in mano il cellulare, spera che non vibri, che non ci sia nessuna telefona-ta da casa per sapere dove sia finita.

Quella di Ginevra non è mai stata una pri-gionia conclamata, di quelle con ceppi ai polsi, stanze buie, e cibo passato da uno sportello nella porta. Ginevra non è mai stata la tragica eroina di una fiaba per bambini, nessuno ha mai chiuso a chiave la porta di casa impeden-dole di uscire. Quella di Ginevra è una reclu-sione dorata, in un palazzo del centro città di tre piani più una terrazza con piscina. La sua è una prigionia fatta di parole e allusioni, di cenni col capo derisori e occhiate indiscrete. Appena era stato scoperto il suo problema, Ginevra era stata trascinata in una girandola di dottori, neurologi, psichiatri, tutti affaccen-dati a scoprire quale fosse la causa scatenan-te di quei puntini che le davano la visione di un mondo con la varicella. Ma tutti i lumina-ri avevano dovuto, con mal celato imbarazzo, spiegare al signor Paleari che il disturbo della figlia non aveva un esito prevedibile e, soprat-tutto, non poteva essere curato in alcun modo se non con il tempo. Così, facendo trapelare ad ogni parola in più la vergogna e il disappunto che la diversità della bambina suscitava, in fa-miglia era stato categoricamente proibito di-scuterne. Ogni volta che Ginevra allungava il braccio per scoppiare qualche pallino sfuggito al controllo, riceveva un sonoro schiaffo sulla mano, e quando lamentava di non riuscire a vedere niente e di doverli proprio scoppiare, i pallini, suo padre e sua madre continuavano imperterriti qualsiasi attività nella quale fos-

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sero impegnati, fingendo che niente e nessuno stesse cercando di attirare la loro attenzio-ne. Soltanto Guglielmo provava compassione per la situazione della sorella, e così cercava di consolarla e di farsi raccontare di nascosto i colori e la disposizione dei puntini. Ma con la sua partenza per il collegio tedesco che lo avrebbe trasformato nel degno successore di suo padre, e l’incidente della moglie dell’am-basciatore, la vita di Ginevra era, se possibile, peggiorata ulteriormente.

L’incidente della moglie dell’ambasciatore risaliva al suo ottavo compleanno. Come con-sueto nei salotti della Milano perbene, sua madre aveva organizzato un pranzo in piedi invitando parenti, amici, e colleghi del padre, i più fortunati dei quali avevano un figlio di un’età più o meno vicina a quella di Ginevra da vestire bene e portarsi appresso. Ginevra, per l’emozione di una giornata dedicata solo ed unicamente a lei, da quella mattina era tor-mentata da pallini che non facevano altro che continuare a gonfiarsi poco dopo essere stati scoppiati. Aveva raggiunto il massimo dell’ec-citazione che una bambina di otto anni può provare al momento dell’apertura dei regali; in quel momento teneva tra le mani una sca-tola cubica rivestita di carta traslucida rossa, con un nastro viola che la stringeva ai quattro lati per poi annodarsi in un tripudio di onde. Due macchie verdi cangianti, delle dimensioni di due palloni aerostatici, il cui centro si trova-va esattamente sulla pancia dell’ambasciato-re argentino e sul seno destro della moglie, le avevano impedito di trovare il capo del fiocco. Ginevra per qualche secondo si era contenuta. Poi, con le mani che ancora stringevano il re-galo protese in avanti, non aveva potuto fare a meno di slanciarsi alla cieca, procurando la ro-vinosa caduta della moglie dell’ambasciatore e della sua anca.

Ginevra apre la porta di casa. È sola, si to-glie la maglietta che puzza di fumo e, ferma in reggiseno in mezzo al corridoio, ascolta il si-lenzio. Dal piano di sopra arrivano attutiti il ronzio della lavatrice e il rumore dei passi di Anya, la cameriera russa. In segreteria c’è un messaggio di Guglielmo. Dice che il soggiorno

alle Cayman è stato favoloso, che durante l’ul-tima immersione ha visto persino uno squalo, e che è appena arrivato a casa e spera che lo vadano a trovare presto. Il messaggio è rivolto ai genitori. Ginevra non andrà a trovarlo a New Haven, come non è mai andata in Germania, né ha mai fatto viaggi, oltre i canonici due mesi estivi in Liguria nella villa in collina del nonno.

Se Ginevra fosse nata in una famiglia norma-le, forse la donna che avrebbe fatto cadere il giorno del suo compleanno sarebbe stata una grassa amica della madre e forse non si sareb-be presa altro che uno scappellotto e una se-rata di prediche. Invece non era andata così. Ginevra vedeva puntini e li vedeva nella fami-glia sbagliata. Dopo l’incidente della moglie dell’ambasciatore era stata ritirata da scuola. Studiava da sola a casa, con degli insegnanti privati, e vedeva gli altri studenti solo per gli esami statali alla fine di ogni anno scolasti-co. Aveva finito in questo modo le elementa-ri, e poi tutte le medie e il liceo. Ginevra non prendeva mai appunti e non amava leggere. Le lettere, coperte e spezzate dai puntini, si confondevano tra loro fino a formare un brail-le indecifrabile. Per non dover passare troppo tempo a concentrarsi nella lettura cercava di imparare tutto a memoria, dalle formule delle equazioni alle Critiche di Kant. Ricordava per-sino la maggior parte dell’Inferno di Dante, ma

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con il Purgatorio e il Paradiso aveva dichiarato bandiera bianca.

Poi, dopo le lezioni, Ginevra passava il resto della giornata cucinando, suonando la chitar-ra, ascoltando la musica, tutte attività che non potevano essere in alcun modo intralciate dai puntini. Aveva cominciato a suonare a tredi-ci anni, ripetendo fino alla nausea gli accordi di Sparks, degli Who, che suo fratello le aveva fatto sentire a Natale. Guglielmo durante le va-canze le portava gli album dei Rolling Stones, di David Bowie, degli Smiths. Da allora, quan-do era sola in casa, inseriva un disco nello ste-reo e lo seguiva con la chitarra canzone per canzone, tutte le tracce di Strangeways here we come, o (What’s the story) Morning glory?.

Ginevra amava l’arte, ma i musei erano per lei zone ad alto rischio. Amava il cinema, ma la paura di tirare scappellotti a quelli seduti nel-la fila davanti la costringeva a guardare i film dallo schermo al plasma che aveva sistemato di fronte al letto. Come ogni altra adolescente aveva pianto guardando Come eravamo e Sis-si, pensava che Tim Burton fosse un genio, e si era innamorata di Aragorn del Signore degli anelli. L’unica differenza era che per lei Viggo Mortensen aveva l’aspetto di chi ha appena contratto il morbillo.

L’incontro di Ginevra con i suoi genitori è breve e imbarazzato. Suo padre entra parlan-do al cellulare, ha lo sguardo vitreo e annuisce al vuoto. Lo segue la moglie trafelata, tiene la borsa nell’incavo del gomito e gli occhiali in mano.

«Sei uscita stamattina?» chiede a Ginevra.«Ho fatto solo una passeggiata».Sua madre sospira rumorosamente. Spera

che non abbia incontrato nessuno di cono-sciuto, ma non glielo dice. Non capisce perché non possa limitarsi ad andare in piscina quan-do vuole prendere aria; lo pensa, ma non dice neanche questo. Chiama invece Anya, la prima volta quasi in un sussurro. Quando capisce che il suo pensiero non può attraversare i soffit-ti chiama più forte, Anya si materializza fuo-ri dall’ascensore, con quattro bagagli enormi dietro di sé. Pochi minuti ed escono di nuovo, questa volta accompagnati dalla cameriera, con la stessa velocità con cui sono entrati, sen-

za baci, senza carezze. Informano la figlia, con un piede già fuori dalla porta, che vanno a ri-lassarsi in montagna, saranno di ritorno entro dieci giorni. Le raccomandano di uscire solo se è proprio necessario. E di non farsi male, an-che.

Ginevra non si è mai fatta male, in verità. Prima dell’inizio del semestre non era nean-che mai uscita di casa da sola per fare qualcosa di più complesso di un giro del quartiere. D’al-tra parte non avrebbe avuto neanche senso farlo non conoscendo nessuno, all’infuori dei figli degli amici dei genitori che incontrava alle feste e alle celebrazioni formali. A Ginevra non era mai stato proibito niente, fuorché la dignità di una vita normale. Aveva passato tutti quegli anni a vergognarsi, a nascondersi, a pensare di essere diversa dagli altri perché qualcuno glie-lo aveva fatto credere. E poi improvvisamente era tutto finito, e Ginevra non sapeva neanche quando fosse avvenuto esattamente, tra l’in-contro con Roberta e Marco davanti al tabel-lone degli orari e quel pomeriggio in cui i suoi genitori e Anya erano partiti per la montagna.

Mentre Ginevra si sdraia sul divano ad aspettare l’arrivo di Marco e di Roberta i pun-tini sono minuscoli, fitti e di color arancione tenue. Marco e Roberta arrivano facendo una gran confusione, si attaccano al citofono fin-ché Ginevra non risponde, infrangono l’au-sterità di quella palazzina sepolcrale. Entrano sbattendo a destra e a sinistra secchi di verni-ce, rulli e pennelli. Roberta è sbalordita dalle dimensioni della casa, dalla scalinata, dall’a-scensore privato, dai piani di stanze enormi, dai soffitti altissimi. Continua a ripetere se, per favore, prima di finire il lavoro potranno fare un bagno in piscina. Marco sorride, cerca di toccare la mano di Ginevra passandole i sec-chi di vernice, più volte, perché un po’ lei gli piace. Perché è l’unica ragazza che conosce che lo vede a puntini.

Decidono di cominciare il lavoro dal salone, la parte più difficile, e di volta in volta muo-versi attraverso tutte le stanze fino alla terraz-za. Si mettono i guanti in lattice, delle vecchie magliette rovinate, e aprono il primo secchio.

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Matilde Quarti, milanese, giovanissima (1987), studia filosofia, collabora con la casa editrice No Reply e cogestisce la rivista letteraria Follelfo. Ha pubblicato racconti un po’ ovunque, da inutile a Colla fino al prossimo Atti Impuri. Tutti la vogliono, e non è difficile capire perché. Malinconica quanto ironica ha uno stile asciutto supportato da strutture narrative quadrate e, soprattutto, da ottime intuizioni (risulta chiaro che non improvvisa mai, che non si muove se non in seguito a un’idea precisa). Un plauso all’estro nella scelta dei titoli. Di lei riproponiamo Il periodo Yayoi, pubblicato sull’an-tologia Clandestina (Effequ, 2010), curata da Federico Di Vita ed Enrico Piscitelli.

Ricoprono i mobili di vernice bianca, tutti. Il divano, il tavolo, il cassettone, la libreria, le poltrone, tutte le sedie, il camino e il minibar. Ovviamente i muri e il soffitto. Poi passano ad ogni cornice, ogni bicchiere, ogni soprammo-bile, ogni oggetto che per caso si trova nella stanza, lasciano intatti solo i libri, i quadri e i tasti dell’enorme pianoforte a coda. E quando tutte le superfici attorno a loro sono comple-tamente bianche le ricoprono di pallini, della dimensione e del colore di cui li vede Ginevra in quel momento. E così passano di stanza in stanza, le cinque camere da letto, i tre bagni, la cucina, la dispensa, lo sgabuzzino, i locali della cameriera, lo studio del padre, la sala giochi, la taverna. E ogni camera è completamente bian-ca, ogni camera è sommersa da pallini di diffe-renti colori e grandezze. Quelli della sala sono giallo acceso, grandi come arance, quelli in cucina verde chiaro, del diametro di un anel-lo, nella camera dei genitori blu elettrico, delle dimensioni di un 45 giri. Per dipingere tutto impiegano otto giorni, lavorano dalla mattina fino a notte inoltrata. Poi Ginevra va a dormire da Roberta, per non soffocare nell’odore acre della sua liberazione. Quando si svegliano fan-no colazione e attingono dalla generosa carta di credito di Ginevra per comprare altra ver-nice.

Alla fine del lavoro Ginevra resta sola, nel-la casa immensa e silenziosa come la notte in montagna. Si lava, ride tra sé quando i rubinet-ti dell’acqua, bianchi a puntini viola, cigolano mentre li apre. Poi fa la valigia, con calma, in fondo mette tutti i soldi che riesce a trovare nei cassetti, nella scrivania del padre, nelle ta-sche interne delle borse della madre. E sono tantissimi, più di quelli con cui un lavoratore medio pagherebbe sei mesi di affitto. Di vestiti

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ne prende molti, pochi libri, tantissima musi-ca. Percorre un’ultima volta la casa, le stanze bianche che non somigliano più a quelle dove è cresciuta. Osserva ridendo i puntini del suo sguardo che si sovrappongono ai pallini dipin-ti sui muri e sui mobili creando fantasie mera-vigliose. Poi Ginevra prende la valigia che ha lasciato all’ingresso ed esce. Qualche secondo e torna dentro, tiene in mano le chiavi di casa. Si guarda intorno di nuovo, soppesandole, e un attimo dopo le poggia sul mobiletto all’entra-ta. Esce di nuovo, chiudendosi piano la porta alle spalle. E non rientra più. •

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Dio com’è difficile scrivere gli editoriali.Niente, ci sono questi tre racconti, che

per un motivo o per l’altro abbiamo deciso di pubblicare. Perché li abbiamo chiesti noi agli autori, perché ci piace come scrivono, perché ci piacciono loro come persone.

Partiamo dal principio, dal numero due (che avete tra le mani, e già questa è una novità): la sezione racconti ha un nome. E mica un nome qualunque: Abramo Lincoln, sinonimo di retti-tudine e integrità morale. Lincoln ha liberato gli schiavi, ha fondato la nazione, non ha mai detto bugie. O era George Washington? In tutti i casi: Lincoln viveva nella casetta di legno ai margini del bosco che lui stesso si era costru-ito, e questo, per me che vivo in affitto in via Padova, è già un grande esempio di rettitudine e integrità morale. Ecco, i racconti li abbiamo scelti come si scelgono le assi per costruirsi una casetta di legno: un po’ andando sul si-curo, un po’ cercando i rami flessibili, un po’ andando a caso e sperando di non aver raccol-to dei legni marci e pieni di limacce. Ci è anda-ta bene, abbiamo chiesto e ci è stato dato, con prontezza e qualità. Dai vecchi amici: Gianluca Pizzingrilli, che scivola sopra i rimasugli di un pranzo casereccio e sfiora un argomento a me caro: il baseball. Dai nuovi amici: Alessandra MR D’Agostino. Questioni irrisolte, città a mi-sura di niente, e pancioni su tacchi altissimi. Dagli amici degli amici: Nicolò Cavallaro, che ci ha omaggiato di un atmosfera McCartiana da sud del confine, di una situazione irrisolta ma che è a un passo dallo scarto finale e del cameo più ambito: Joseph Ratzinger, detto il Papa (ma cosa volete che ne sappia, io?). Ci è stato dato e noi abbiamo pubblicato, scegliendo le assi e compiacendoci quando abbiamo visto che sta-vano in perfetto equilibrio pur venendo da tre alberi completamente diversi. Autori, alberi, Lincoln avrebbe capito. •

LINCOLN’SCORNERNEWSeditoriale di Giulio D’Antona

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Lui si svegliò. Guardò l’ora. Poi il cellulare. Due messaggi. Che cancellò, senza leg-

gere.Si alzò dal letto. Si avviò in cucina. Preparò

la moca. Sul ripiano accanto al microonde un post-it.

Sbuffò, intuendo. Lo afferrò. Lo lesse, veloce. Lo stracciò. Non c’era spazio. Finalmente l’ave-va capito. E aveva tolto il disturbo. Finalmente anche quello.

Tornò al suo caffè. Tornò al suo letto. Appog-giò la tazza sul comodino. Rimase un po’ sedu-to, appoggiato ai cuscini contro la testiera. Pre-se di nuovo il cellulare. Compose il numero. Un paio di volte fece suonare. Poi desistette e lo appoggiò sul parquet. Si mise steso. La mano sulla fronte, a pensare.

La sveglia suonò di nuovo. La spense.Si girò da un lato. Si riaddormentò.Lei preparò tutto. Su un biglietto lasciò det-

to. Mise le scarpe nuove.Aprì la porta. Chiuse la porta. Scese le scale.

Incontrò quella del primo che le ricordò che il cane le pisciava ogni giorno sullo zerbino, scendendo.

Disse che le dispiaceva, che avrebbe provve-duto affinché non accadesse più. Che però do-veva andare, ora doveva proprio andare. E così lasciò quella del primo, quella grassa separata due figli a carico, beh lasciò quella del primo guardarla scendere le scale, stretta nel cappot-to grigio sciancrato alla vita.

Squillò il cellulare. Si fermò. Lo prese dalla borsa. Guardò. Non sorrise. Anzi. Lo spense, direttamente. Lo rimise in borsa. Poi continuò a scendere.

Si fermò poi, ancora un istante. Pensò che non aveva salutato il cane. Così fece per torna-re su, ma si fermò, di nuovo, e pensò che sareb-be stato meglio così e continuò quindi verso il portone, uscendo.

Attraversò la strada, tenendosi il pancione, sotto.

Camminava piano. Camminava a fatica su quelle scarpe nuove dai tacchi altissimi. Quelle costate tantissimo.

Girò attorno all’isolato e arrivò davanti a quel portone. Si fermò al citofono. Cercò. R.S. Lo sfioro col dito quel tasto coperto da nastro adesivo. Fece per suonare. Ma non suonò. Si

massaggiò invece un po’ la pancia, nel punto dove scalciava di più. Continuò a camminare.

Incrociò per strada per caso la portinaia sce-sa a prendere il latte per il gatto che le disse che aveva ritirato una raccomandata per lei, giusto il giorno prima, e che forse avrebbe do-vuto passare a prenderla che magari era cosa urgente. Suggerì che forse magari avrebbe do-vuto farle una delega per il ritiro di certe cose così quell’inconveniente ora non lo avrebbe avuto. E magari sarebbe stato necessario an-che un mazzo di chiavi in copia che si sa mai cosa succede si rompe un tubo delll’acqua una perdita di gas qualsiasi cosa insomma e non la puoi prevedere. A quel punto lei prese le chia-vi dalla borsa, quelle di casa, e gliele mise in mano. Alla portinaia. Che non fece in tempo a dire, né chiedere niente insomma. Perché lei la salutò e continuò a camminare. Sempre più veloce. Sempre con quella mano appoggiata ferma alla base del pancione.

Arrivò al corso. Attraversò al semaforo. Sce-se di corsa le scale della metro, fino al binario. Guardò il display: solo tre minuti di attesa.

Si mise seduta. Respirava a fatica. La pancia, da dentro, scalciava, sempre più forte.

Chiuse gli occhi. Cercò di ricordare quella sera. Poi il rumore della metro ringhiosa sui binari la fece trasalire. Così si alzò. Si avvici-nò al vagone che stava fermandosi. Entrò. Una donna la fece sedere. Grazie, disse, resto in piedi. Fa niente. La donna sorrise, scocciata, e si rimise al suo posto. Lei rimase in piedi, reg-gendosi a fatica sul braccio appoggiato al so-stegno metallico.

Poi una voce la chiamò. Riconoscendola, lei non si voltò. Ma quello insistette. E lei, di nuo-vo, non si voltò. Fin quando una mano appog-giata alla sua spalla non la costrinse a girarsi.

LEINONRISPOSEdi Alessandra MR D’Agostinoillustrazione di Francesco Bevilacqua

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Eri tu.Lei non rispose.Non mi avevi riconosciuto.Lei non rispose.Come stai?Lei non rispose.Come sta andando?Lei non rispose.Ma stai bene? Sei pallida..Lei non rispose.Il vagone si fermò.Devo scendere, disse lei.Così scese, senza neanche salutarlo.Lui rimase su. Attonito, nel suo disappunto.Lei rimase sulla banchina con le mani ser-

rate sulla pancia. Sola, sulla banchina di una metro. •

Alessandra MR D’Agostino nasce nel villaggio operaio delle Falck, a Sesto San Giovanni.Germanista, vive e lavora a Milano e dintorni. Ha pubblicato Voice recorder, Ed. Untit-led; Salva con nome, Lulu; Vertoiba 5 Ed. Zona; La regola dei salici Ed. Leggere Legge-re. Giorni, Ed. Zona Contemporanea, è il suo quinto romanzo. Suoi racconti hanno vin-to concorsi letterari. Blogger splinderiana, recentemente passata a wordpress (www.dicosaparliamoquandoparliamodiparole.wordpress.com), scrive per musica, teatro, arti visive. Conduce laboratori di terapia della scrittura. È fautrice e tutor del progetto Human book del quartiere Crescenzago di Milano. E’ altresì fautrice del progetto Ol-trecorpo su storie di transgender. Fotografa la vita e ne sorride. Adora i teletubbies. È un gatto nero.

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Era la prima volta che vedeva la sua fron-te. In più di trent’anni. Ampia, molto alta,

visto che era praticamente calvo. Si indovinava un termine alla fronte per il cambio di colore della cute, come una differente densità della pelle della testa, una volta destinata a ospitare i capelli.

Lo fissava, mentre mangiavano seduti sul piccolo tavolo da pranzo grigio della cucina. Un pasto semplice: fusilli con un sugo alle oli-ve preconfezionato, affettati, formaggio e po-modori. Un pasto da uomini. Soli e senza pas-sione per la cucina. Non poteva lamentarsi, un pranzo del genere era un notevole passo avan-ti rispetto a quelli a cui si era abituato negli ultimi tempi, dopo la separazione. Suo padre non amava mangiare panini o piadine e si era improvvisato cuoco.

Era seduto di fronte a lui, chino sul piatto, ingobbito mentre affondava la forchetta tra i fusilli. Al dente: i condimenti non erano il suo forte, ma sulla cottura non si poteva dire nulla.

La fronte era rossa. E rugosa. Quante erano le rughe? Dieci, undici? non riusciva a contar-le, continuava a confondersi. I profondi solchi orizzontali andavano e venivano, a seconda dell’espressione che assumeva il volto del pa-dre.

«Manca di sale», sentenziò mentre mastica-va il primo boccone.

«No, va bene così». Paolo pensò che un po’ di sale effettivamente mancava, ma non era poi così importante per lui.

«Ne metto sempre troppo poco. A casa è mia moglie che cucina».

«Va bene così».«Bé, io ci voglio un po’ di sale. Me lo passi?»,

era fatto così: perfezionista e testardo.

Paolo distese il braccio e arrivò facilmente alla saliera, sulla mensola accanto al tavolo, anch’essa grigia. Nessuno sforzo per il ginoc-chio operato. Sollevò il contenitore di terracot-ta azzurra e lo posò sul tavolo.

«Non esagerare», si raccomandò.«Non esagero», il padre sollevò il coperchio

di terracotta e infilò la mano, «È quasi vuota. Bisognerà ricomprarlo».

«Vedremo. Non lo uso quasi mai».«Ma io sì. E poi si fa fatica ad arrivare in fon-

do al barattolo. Dove l’hai presa questa salie-ra?»

«Ricordo di un viaggio».

Davvero non aveva mai visto la fronte spa-ziosa di suo padre? No, non riusciva a ricorda-re di averla mai veramente notata. In sé, come entità a parte. Come parte di un corpo, di una persona, di un uomo.

Aveva sempre e solo visto suo padre, e que-sto bastava. Un tutt’uno, riassunto in quattro lettere: papà. Un concetto unitario, monolitico. Ogni volta che lo aveva osservato, aveva visto suo padre, in ogni parte l’insieme. Non c’era mai stato spazio per i dettagli.

Ma adesso, questa parte lo aveva colpito come una novità, come se fosse stata indossata per la prima volta.

«Quale viaggio?» Ettore si era alzato per to-gliere i piatti fondi, ormai vuoti. Li posò nel la-vabo e prese una coppa trasparente contenen-te pomodori tagliati e conditi.

«In quale viaggio hai comprato il portasa-le?», insistette.

«Boh, mi sembra in Sicilia. Non ne sono si-curo».

«Bel ricordo», osservò sarcastico il padre.«Già, gran bel ricordo», rispose asciutto Pa-

olo. Non ricordava dove l’aveva preso, ma certi occhi e certi sorrisi erano ancora riconoscibili sulla terracotta.

Suo padre si riempì il piatto con i pomodo-ri e tagliò del formaggio. Posò pure quello nel piatto. Poi si guardò attorno in cerca di qual-

LE RIGHINEDEGLIYANKEESdi Gianluca Pizzingrilliillustrazione di Manfredi Damasco

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cosa.

«Pane?», domandò.

Paolo prese la scatola di plastica trasparente che conteneva le sfoglie che usava al posto del pane e gliela passò.

«E questo lo chiami pane?», si lamentò Etto-re con disgusto e disprezzo.

«Potevi comprarlo».«Con questo non si può fare la scarpetta.

Nun mi da ‘usto. Questo magut, kaput...».«Si chiama kamut. Te l’ho già detto: mangio

questo pane perché sono intollerante al fru-mento».

«Sì, come tua madre».«È intollerante al frumento?»«È solo intollerante. Specialmente a me!»

le rughe sulla fronte ricomparvero, sorridenti per la battuta.

Ancora loro. Non che fosse nulla di impor-tante: notare le rughe di una fronte, o un naso storto o le sopracciglia. Però sentiva che qual-cosa di diverso c’era.

Sì, era la prima volta che vedeva Ettore. Un uomo di sessantacinque anni, occupato a pren-dersi cura di un figlio trentaseienne immobi-lizzato a casa per un’operazione al ginocchio. In una città che non era la sua per di più.

A vederlo adesso, con una felpa sformata dei New York Yankees, ingobbito sul piatto, non sembrava un granché. Ma lui sapeva che, a discapito delle apparenze, quell’ometto lì era una forza.

Ne aveva combinate in vita sua. La squadra, il giornale, la radio, la televisione, i festival, le notti in bianco. I successi, i fallimenti, le fughe in avanti, le confusioni, i ripensamenti. Non l’avresti detto di un ometto così dimesso. Un ragioniere per giunta.

Di alcune avventure portava ancora i segni sul corpo. Come il naso, per esempio. Grande lo era di famiglia, il suo era pure storto. Se lo era rotto in un modo che proprio non si poteva immaginare vedendolo.

«Sai che hai proprio un brutto naso?»«Oggi sei in vena di complimenti?»«Te lo sei ridotto così giocando a baseball,

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giusto?»«Lo sai».«Io non c’ero».

Ettore guardò in cielo, come per dire: non ho già pagato abbastanza?

«Sì me lo sono rotto su un campo di base-ball: erano i playoff per salire in A».

Paolo la storia l’aveva sentita tante volte, confusa nei ricordi dei personaggi che vi ave-vano assistito, gonfiata dai sentito dire di chi non c’era, storpiata dal sarcasmo della madre, non avrebbe saputo dire cosa fosse realmente accaduto.

«È difficile credere che tu fossi a un passo dalla serie A», disse.

Il padre lo guardò sorpreso, quasi risentito, «A quel tempo erano in pochi a giocare a ba-seball. Non era poi così difficile. E comunque eravamo una bella squadretta. Alcuni dei miei ragazzi finirono anche in nazionale».

«E tu?»«Io cosa? Li allenavo».«Come ti eri improvvisato allenatore?»«Non mi ero improvvisato. Da ragazzo mi

sono imbattuto in alcune foto di Joe di Maggio e Babe Ruth. Mi sono innamorato delle divise».

«Le divise?»«Certo. Hai mai visto gli Yankees giocare? In-

cantano tutti con quelle righine lì. Gran classe, te lo dico io».

«E poi?»«E poi avevo scritto alla federazione italiana

per avere attrezzature e aiuti».«E hai creato una squadra dal nulla».«Già».«In quanto tempo arrivaste ai play-off?»Ci pensò qualche secondo, mentre cercava

di intingere la sfoglia di kamut nell’olio dei po-modori, «Sette anni. Proprio un bel periodo».

«La storia del premio è vera?».«Certo che è vera! Come miglior allenatore

delle serie minori. Niente di che».

Niente di che, diceva lui. Il ginocchio lanciò una fitta di invidia.

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«Peccato che ora non puoi più allenare».Ettore scrollò le spalle, «Meglio così, mi ero

comunque scocciato».«Dai racconta, non farti pregare», Paolo vo-

leva sentire ancora una volta la versione del padre, come quando era bambino.

Ettore sospirò, poi si arrese a raccontare. «Quella partita la giocavamo contro una squa-dra importante dell’Emilia. Noi eravamo lì quasi per caso. Almeno così la vedevano loro».

«Loro chi?»«Loro tutti. Gli avversari, che sembravano

aver vinto già dal riscaldamento: continuava-no a parlare di dove sarebbero andati a cena, di chi avrebbe pagato la pizza. Gli spettatori, che ci guardavano dall’alto in basso, ne ave-vano più loro a quella partita che noi in tutta la stagione. Persino il campo sembrava snob-barci: avevano un diamante immacolato, erba vera dappertutto, non come noi che giocavamo su un vecchio campo sterrato, dove se provavi a scivolare ci lasciavi divise e carne.

Avevano persino le tribune!»

Ettore posò la forchetta.

«Li dovevi vedere: prima della partita il loro allenatore si avvicinò masticando il tabacco - ti rendi conto? Da noi il tabacco da masticare manco si sapeva. Insomma si avvicina e mi fa “complimenti a lei e ai suoi ragazzi per essere arrivati fin qui”. Capito? si sentiva talmente su-periore che poteva farmi i complimenti»

«E tu?»«E io che gli dovevo dire? Ho fatto i compli-

menti anche a lui e gli augurato buona fortuna! Poi mi sono girato e gli ho detto di andarsela a pigghià ‘ntercule!»

«Eri nervoso?»«No. Tutto sommato eravamo tranquilli, non

era mica la prima volta che ci sottovalutavano. Eravamo una squadretta di provincia dal cen-tro Italia: non ci prendeva mai sul serio nessu-no. Poi però è iniziato il primo inning, e Dino ha cominciato a lanciare»

«Trivella?»«Sì, Trivella. Lo chiamavano così perché ave-

va una palla veloce che il battitore si doveva fare il segno della croce. Infatti, i primi tre li lasciò sul piatto: tre strike-out. Da non creder-

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ci. Dovevi vedere che facce che avevano nella panchina avversaria: avevano smesso di fare casino, era iniziata la quaresima.

«Il secondo inning partì allo stesso modo, un altro strike-out. E allora quel pezzo di merda del loro allenatore cominciò a protestare con l’arbitro: cominciò a contestare tutte le chia-mate, non era d’accordo sugli strike, si lamen-tò per la posizione in pedana di Dino che se-condo lui non era regolamentare»

«Ed era vero?»«Tutte cazzate, voleva solo innervosirci. Ar-

rivò persino a chiedere di cambiare la palla perché secondo lui Dino usava il grasso»

«Per truccare i lanci?»«Da non crederci, insistette finché non riu-

scì a farla cambiare»«E Dino?»«Non dice nulla, prende la palla nuova, sale

sulla pedana, si mette in posizione, tocca la pe-dana con la punta della scarpa come sempre, carica e spara una curva lenta che fa abboccare il battitore come un tonno: quello sventola a vuoto la mazza con tanta foga che cade a terra per lo slancio»

Ettore sorrideva adesso; aveva lo sguardo perso oltre la testa di Paolo, oltre la cucina abitabile, oltre la finestra che dava sul cortile interno, era di nuovo sul campo.

«Però, a furia di protestare, l’arbitro eviden-temente cominciò a pensare pure lui che noi eravamo lì per sbaglio».

Si versò un po’ di vino bianco e lo bevve d’un sorso.

«Dopo cinque inning, Dino cominciò a calare e loro

iniziarono a toccare. Erano bravi, non c’è che dire: due punti li segnarono. Poi però al setti-mo Fausto, che non aveva combinato nulla fino ad allora, va in battuta e il lanciatore gli mette una veloce al centro del piatto».

Paolo sorrise, questa parte la ricordava, «È vero che ha ancora la palla del fuoricampo?»

«Verissimo: fece il giro delle basi e poi corse fuori dal campo a cercare la palla! Segnò lui il nostro unico punto»

«E il naso?»«Seconda metà del nono, sotto di un punto.

Due eliminati. Uomo in terza».«Chi era?»

«Pigi, te lo ricordi?»«Quello bassetto che fumava come una cimi-

niera?»«Bravo. Ha sempre fumato, ma correva come

il vento. Ha rubato più basi lui che punti a sco-pa tuo nonno. Faceva degli scatti fenomenali e poi rientrava in panchina e diceva “Ho bisogno di un panino” e si accendeva una sigaretta.

«Insomma, eravamo sotto di uno e con due eliminati, ma avevo l’uomo giusto in terza. Io ero lì al suo fianco perché facevo anche il sug-geritore di terza. Stava lì che fischiettava a due metri dalla base, lo vedevi che scalpitava, che voleva partire, e lo vedeva pure il lanciatore avversario. Un paio di volte lanciò delle pallet-te debolucce in terza per vedere se lo beccava fuori dalla base. Figurati, erano talmente len-te che Pigi aveva il tempo anche di lamentarsi prima di rientrare.

«Alla fine quello si decide a lanciare al bat-titore. Ma era talmente spaventato da Pigi che sparò una schifezza inguardabile: la palla volò oltre il ricevitore. E io diedi il segnale di ruba-re»

Ora i muscoli del viso si erano contratti.«Pigi era una scheggia. Arrivò a casabase

che la palla era ancora in volo. Salvo per un’e-ternità».

Si interruppe, quasi si afflosciò.«E?»«Lo sai».«L’arbitro chiama l’eliminazione».«E io prendo una mazza e gliela do in faccia».«In faccia?»«Aveva la maschera protettiva, non s’è fatto

niente. Mafioso di merda».«E tu?»«Per fermarmi mi hanno fatto questo bel ri-

cordino».Quel piccoletto lì davanti a lui s’era fatto

squalificare a vita per una rissa con un arbitro.«L’unica contenta fu tua madre. Non potevo

più passare il mio tempo libero in giro a gioca-re a baseball».

«Contenta per poco».«Già. Per poco».Ripresero a mangiare in silenzio.«Come mai hai smesso con la televisione?»,

la domanda gli uscì seguendo il flusso di pen-sieri, senza quasi che l’avesse pensata.

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Il padre rimase con la forchetta a mezz’aria. I pomodori e il formaggio sembravano tratte-nere il respiro. Gli occhi grigi si offuscarono fissando qualche punto del proprio passato.

«Non era compatibile con la famiglia», sen-tenziò alla fine per chiudere l’argomento, so-prattutto con se stesso.

«Non lo era nemmeno quando avevi inizia-to».

Il padre sorrise e abbassò lo sguardo, so-praffatto dall’evidenza di quella frase e quasi mormorò, «quando mi proposero di venire quassù a lavorare capii che non ci sarebbe sta-to verso di continuare».

Era vero, aveva provato a vivere per un po’ a Milano per seguire quella sua passione; aveva raccontato, a se stesso e alla moglie, che chissà magari se avesse funzionato si sarebbero po-tuti trasferire tutti.

«E poi?»«Poi? lo sai già. Ho mollato tutto e sono tor-

nato».«Ti manca mai?»«La televisione?»«Quell’esperienza».«Un po’. Era divertente fare il regista. Creare,

anche se per una piccola emittente locale».«Perché hai smesso?»«Te l’ho detto. Per voi».«Avresti voluto continuare?».«Avrei voluto?» ci pensò un po’ «Non me lo

ricordo».«Non te lo ricordi?»«Avevo voglia di scrivere, sperimentare, di

provare», si fermò un istante, per mettere a fuoco i ricordi, «ma non a tutti i costi. E poi mi mancava il mare».

Si alzò per togliere i piatti piani e pure i resti del formaggio e del pane di kamut. Armeggiò un po’ nel frigorifero e poi con il lavello. Quindi posò sul piccolo tavolo due pesche gocciolanti. Cominciò subito a lavorare con cura la buccia di una delle due. Paolo prese l’altra e diede un morso deciso.

«Sarebbe meglio che la pulissi», fu il com-mento del padre.

Nelle ultime due settimane Paolo c’aveva provato a mostrarsi adulto, passando ore al telefono con l’ufficio, sbraitando ordini, par-lando inglese a più non posso, leggendo e scri-vendo e-mail. Tutto per marcare le differenze e sottolineare la propria indipendenza. Tutto inutile: chi gli dava da mangiare? Chi gli ricor-dava le

medicine da prendere? Chi lo scarrozzava in giro per la città?

Suo padre. Non c’era scampo: era un figlio.

«Allora verrai con me?», domandò distratta-mente Ettore mentre rimuoveva l’ultima trac-cia di buccia.

«Te l’ho già detto. È il minimo che possa fare», Paolo aveva quasi finito il suo frutto.

«Non ce n’è bisogno, lo sai».«Lo so. Non ce n’è bisogno. Ad ogni modo io

non farò nulla. Mi limiterò ad accompagnarti».«Basta una cartina».«Certo che basta, lo so. Non è la prima volta

che vieni qui».«Basta che mi dici dove devo andare».«Ti accompagno, facciamola finita. Piutto-

sto, quanto tempo pensi che ci vorrà?».«Non lo so. È tanto che non la vedo. Sembra-

no millenni a pensarci».«Almeno vent’anni. Non ti ha chiesto cosa

volevi per telefono?»«No, non ce n’era bisogno. Lo sa benissimo».«Ah sì?»«Sono vent’anni che rimandiamo questo

momento».«Allora ci vorrà un bel po’».«Te l’ho detto: non serve che vieni».«Sì, me l’hai detto. Facciamo così, mi compro

un giornale e ti aspetto in un bar. Mi chiami quando la cosa è sistemata».

«Quando la cosa è sistemata. La fai sembra-re un regolamento di conti».

«Non lo è?»«Non vado mica ad ammazzarla. Dobbiamo

parlare».«Certo. Solo parlare. Conoscendovi, sarebbe

più facile ammazzarvi».«Conoscendoci. Come se tu ci conoscessi».«La cocciutaggine è un marchio di famiglia!

Tu e tua sorella siete uguali».

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Avevano parlato in quei giorni, avevano sorvolato le loro storie e il loro passato. Ma lo avevano fatto come sempre: da due sponde opposte del fiume. Da due trincee opposte di un campo di battaglia. Non erano mai riusciti a essere due uomini che parlavano. Erano solo e sempre un padre e un figlio. Il secondo cercava di rinfacciare torti e conseguenze sulla propria vita, il primo continuava a domandarsi dove aveva sbagliato. Il dialogo si era anche inaspri-to quando ne era stata evidente l’inutilità: arri-vavano sempre dove erano già, giacché faceva-no sempre la stessa strada circolare.

Dopo due settimane però, era la prima volta che notava la fronte di quell’uomo davanti a se. I pochi capelli bianchi e grigi che ne circonda-vano le tempie, come una coroncina di alloro vecchia e stanca. Quei particolari gli parlavano di Ettore, senza ricordargli di essere suo figlio. Pezzi di un uomo che non aveva mai conosciu-to davvero perché mai aveva provato.

Sapeva che quella sensazione sarebbe du-rata lo spazio di un pranzo, ma l’assaporò con piacere, cercando di arraffare quanti più parti-colari riusciva.

In basso, poco sopra gli occhi: sopracciglia folte e incolte, color cenere, formavano un buf-fo altorilievo. Peli di una lunghezza insoppor-tabile si intrecciavano a fare ombra agli occhi chiari.

«Non le tagli mai le sopracciglia?», osservò Paolo.

«No», il padre sembrò sorpreso «perché?»«così, tanto per dire».«Mi piacciono così».«Se vuoi ho una macchinetta per sistemare

barba e basette».

Suo padre sembrava non capire.

«Possiamo tagliare un po’ di quei pelacci».«No, grazie. Mi piacciono i miei pelacci».

Gianluca Pizzingrilli è nato nel 1971 ad Ascoli Piceno. Vive a Milano da vent’anni sen-za essere riuscito a prendere l’accento. È un ingegnere. Atipico. Come dicono tutti gli ingegneri.

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«Sì? come mai?»«Perché sono miei. E sono gli unici che mi ri-

mangono in testa. Ormai nemmeno più la bar-ba cresce bene. Non ha più voglia». Si passò la mano sul mento e sulle guance, effettivamente la rada barba di un paio di giorni, cresceva a chiazze.

«Ormai? Che io ricordi, hai sempre avuto po-chi peli».

«Alla tua età avevo le basette più lunghe del-le tue, anche se non portavo il pizzo. A propo-sito, perché non lo tagli? Ti sporca il viso».

Paolo passò una mano sul pizzo incolto. No, quello non se lo sarebbe tagliato mai. Delle volte sentiva che quel perimetro di peli intor-no alla bocca fosse l’unica parte vera della sua faccia.

«E comunque stai perdendo i capelli anche tu. Fra qualche anno smetterai di fare lo spiri-toso», profetizzò il padre.

Sì, aveva cominciato a perderli. E si rendeva conto di quanto si somigliassero. Non soltan-to nei capelli. Dentro. Le stesse acque scure, le stesse scogliere, le stesse maree. Due uomini simili.

Ettore cominciò a sparecchiare, mentre Pao-lo lo scrutava attentamente.

«Prendi il Clorane», gli ordinò senza guar-darlo.

Ecco, la sensazione se n’era andata. •

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La settimana scorsa ho sparato al papa. Ora mi trovo in Messico, in un al-

berghetto tutto colorato, bevo un margari-ta e scambio due chiacchiere con Alejandro. Alejandro non ha la faccia del barman, sembra più un galantuomo, uno di quelli all’antica. È molto cordiale. Ha una sessantina d’anni, folti baffi bianchi, e l’aria di chi è vedevo da sempre.

Alla tv è un gran parlare, tutto il mondo ha gli occhi puntati su Roma, sul policlinico Ge-melli. Migliaia di telecamere, ore e ore di ser-vizi, registrazioni, approfondimenti, intervi-ste, menate. Ratzinger sta lì dentro da cinque giorni, all’inizio intubato, poi in progressivo miglioramento. Ovviamente, ce la farà.

Da quello che arriva qui in Messico, Roma è un tappeto di fedeli. Al confronto, l’inesorabile agonia del vecchio tremante Woytjla, con i suoi successivi funerali, non è stato che un raduno per pochi intimi. Il fatto è che stavolta, fin da subito, nonostante le condizioni fossero gravi, l’impressione era che Ratzinger potesse scam-parla, potesse sconfiggere la morte, che le pre-ghiere dei fedeli potessero andare a buon fine. E quando si ha la sensazione di poterla vin-cere, una battaglia, la si combatte con molto più ardore, con un vigore sconosciuto. In ogni caso, è diventato ormai impossibile quantifi-care l’afflusso di gente, ardito farne una stima, seppur approssimativa. Tutti gli alberghi sono pieni, le piazze traboccanti, le strade una ten-dopoli, il traffico paralizzato.

«Alejandro, otro, por favor». Il galantuomo mi prepara un altro margarita, buonissimo. Poi torna sulla tv.

Gli ho sparato mentre salmodiava l’Angelus, affacciato alla finestra del suo palazzo, sopra le teste delle sua folla. Gli ho sparato mentre dispensava la sbobba, il rancio melmoso servi-to nelle scodelle dei disperati in coda. Non ho mai amato così tanto il mio mestiere.

Ciò che ha seriamente rischiato di fare anda-re a puttane tutto l’affare è stata la violentissi-ma tentazione di fargli esplodere quella faccia grinzosa. In diretta mondiale. Lui lì che parla, recita, e all’improvviso bum!, un proiettile al posto di un occhio, lo sbalzo all’indietro, la te-sta schizzata, aperta, inondata. Io, proprio io. Io potevo.

Ma ho resistito, per fortuna. Del resto, sono

un professionista serio, io. Sono il migliore. Per questo hanno scelto me. Quindi ho punta-to dove dovevo puntare e ho fatto fuoco, con precisione millimetrica, la mia precisione mil-limetrica.

Tutto liscio, tutto perfetto. Come questo margarita.

Hanno messo immediatamente dentro uno qualsiasi, un musulmano, un turco, un cazzo di qualcosa qualsiasi. Forse l’avevano già pron-to. Forse hanno pagato anche questo tizio per farsi vent’anni, o dieci o cinque di galera, e poi via, una bella pensione dorata. Spero per lui che sia così. Spero non sia un’altra vittima.

A me invece mi hanno fatto sparire in un ba-leno: dopo un’ora ero già in volo verso il Mes-sico.

Qui è estate. Sarà estate per altri cinque mesi.

LAMANODI DIOdi Nicolò Cavallaroillustrazione di Margherita Barrera

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Oggi pomeriggio, finalmente, il momento agognato dalle orde: Ratzinger ha parlato.

In una conferenza stampa in diretta, il por-tavoce riferisce che il primo pensiero il papa lo ha rivolto a tutti coloro che hanno pregato per lui. Il portavoce, citando testualmente, dice che il papa ha sentito due miliardi di anime battere dentro il suo cuore e tenerlo in vita.

«Que pena», dice Alejandro, con gli occhi fis-si sul televisore.

«Sì, que pena», gli rispondo. Poi gli chiedo di versarmi un bicchiere di acqua ghiacciata e due dita di whisky.

Il portavoce prosegue, racconta gli umori, la sua stessa commozione. Poi rivela un breve aneddoto. Sostiene di aver detto al papa che il proiettile è passato a meno di un centimetro dall’aorta, senza sfiorare, miracolosamente, alcun organo vitale. È stata la mano di Dio a guidarlo, gli avrebbe quindi risposto Ratzin-ger.

Io mi osservo il dorso della mano, mentre Alejandro mi versa da bere. Muovo le dita. Quindi esamino il palmo, passo in rassegna tutte le linee, mi accarezzo i polpastrelli sfre-gandoli con il pollice. «Non immagini nem-meno quanto tu abbia ragione», dico a mezza voce.

Poi butto giù un sorso d’acqua e il whisky, saluto Alejandro, e vado a fare un bagno nell’o-ceano trasparente. •

Nicolò Cavallaro è nato a Palermo nel 1981. Dal 2006 vive a Roma, dove ha frequentato il corso per redattori editoriali dello studio Oblique e lavorato come redattore, editor e lettore per Gaffi, Nutrimenti, Fanucci, LeggerEditore, 66thand2nd, Gremese, L’airone. Attualmente gestisce l’agenzia di servizi editoriali Duemila battute. Ha pubblicato il racconto lungo Reale utopia (Di Salvo, 2005), tratto dalla sua tesi di laurea in Relazioni e politiche internazionali, il racconto Dirimpettaia all’interno dell’antologia Pazzità (Navarra, 2008). Nel 2009 ha partecipato con il racconto Fegato di maiale alla prima edizione del concorso letterario 8x8, organizzato da Oblique e Fandango. Ha pubbli-cato i racconti Gaza dolce Gaza (In vino veritas, Perrone, 2011) e La voce bianca (La pagina bianca, Perrone, 2011).

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a cura di Michele Crescenzoillustrazione di Alice Beniero

SEFOSSIMONATIMORTI

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Dicembre 1989. Tanta neve copre Vancouver. Douglas

Coupland lavora in un ufficio nel cuore della città. In un momento imprecisato della matti-na starnutisce. Il più grande starnuto della sua vita, il più rumoroso che i colleghi abbiano mai sentito. Mentre lo fa, sputa qualcosa sul tavolo:

«C’era questa cosa - ricorda l’autore in un’in-tervista al quotidiano The Guardian - il forma-to, il colore e la forma ricordava quella di un chicco d’uva verde circondato da piccole vene, come un alieno malvagio!»

Coupland, preoccupato, si reca in ospedale per un controllo, ma il me-dico lo rassicura. Tutto nella norma.

«Da allora devo usare tappi per le orecchie ogni notte. Non sono mai stato in grado di indi-viduare i suoni. Non è tanto il rumore quanto la direzionalità di quel rumore».

Forse è proprio questo l’elemento in co-mune di tutti i tredici romanzi di Cou-pland: non hanno direzionalità, una nar-razione standard o personaggi prevedibili. Già dalle prime pagine, il lettore si rende conto di trovarsi dentro un piccolo mon-do, fatto di cultura pop, meteoriti e video-giochi, citazioni dei Simpson o dei R.E.M., dialoghi brillanti, colpi di scena, situazioni paradossali, personaggi con disturbi osses-sivi compulsivi e ricerca della spiritualità. Coupland non dà punti di riferimento, e lo fa ironizzando sui legami sociali della nostra società e sugli effetti sempre più influenti che la tecnologia e la globalizzazione han-no sul linguaggio e sulle vite delle persone. In La Sacra Famiglia (Frassinelli) o nella nuova traduzione, più fedele al titolo originale, Tutte le Famiglie Sono Psicotiche (ISBN), l’autore , in modo ironico e tagliente, denuncia i falsi miti del matrimonio e, senza semplici moralismi, regala alla famiglia la nuova definizione di “mi-cro-mondo” di amore e perversione in cui ogni singola, privatissima azione di un membro, condiziona ed influenza il destino degli altri. In Jpod, costruisce una trama intorno alla vita di uno sviluppatore di videogiochi che

agisce come uno dei suoi personaggi virtua-li, eseguendo in modo passivo le richieste, senza troppe valutazioni di merito o morali su quello che sta facendo. Una storia surre-ale, nella quale il protagonista è costretto a relazionarsi con una madre omicida e colti-vatrice d’erba, un fratello attivo contribuen-te all’immigrazione clandestina e addirittura con il suo stesso autore, Douglas Coupland. Generazione X, sua opera prima, resta sicu-ramente il romanzo più “adirezionale”, con meno punti di riferimento. All’uscita, nel 1991, il libro fu talmente apprezzato che la-sciò in eredità all’umanità la definizione ge-nerazionale ancora oggi utilizzata nel mar-keting, nelle scienze sociali e nella cultura popolare. Generazione X: i giovani degli anni novanta, identificati come apatici, cinici, sen-za valori o affetti, ma intraprendenti in am-bito tecnologico (a loro si deve in gran par-te l’espansione e del successo di internet). A quasi vent’anni dall’uscita di questo roman-zo, Coupland scrive Generazione A, opera dalla prosa visionaria e a tratti esilarante, in cui l’au-tore si cimenta con una favola postmoderna, immaginando un 2020 senza più api nel quale cinque persone in diversi punti del globo ven-gono misteriosamente punte. Il titolo riprende

UNOSTARNUTOCOSMICOOvvero: Douglas Coupland

SE FOSSIMO NATI MORTI

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le parole di Kurt Vonnegut pronunciate all’a-pertura dell’anno accademico alla Syracuse University, discorso durante il quale l’autore americano non volle definire questa nuova generazione con una lettera a due dalla fine dell’alfabeto, ma all’inizio, dando ai giovani il compito di ricostruire il futuro.

«Come Adamo ed Eva, migliaia di anni fa». L’adirezionalità non si sviluppa solo in ambi-

to narrativo, Coupland non è solo uno scritto-re, ma anche un visual artist e stylist; in questo campo i suoi studi lo hanno portato a Milano, all’European Design Institute. In una recente intervista gli è stato chiesto cosa ricordasse di quel periodo, lui ha replicato: «Ricordo solo una profonda depressione clinica. E’ stato un periodo terribile. Ho ancora dei problemi solo a leggere la parola “Milano” (mi spiace Milano, non è colpa tua)».

Il suo interesse verso l’arte visiva è presente anche nelle sue opere. Ad esempio in La vita dopo Dio c’è un’illustrazione per ogni pagina che rappresenta lo stato d’animo del protagonista, mentre quasi tutte le edizioni di Generazione X sono state pubblicate con bordi bianchi più ampi del normale per permettere l’inserimen-to di fumetti, disegni e soprattutto di una spe-cie di dizionario dei nuovi sentimenti condivisi. In un’intervista al Morning News, spiega que-sta ulteriore sua caratteristica.

«Non credo che i libri debbano essere sem-pre intuitivi. Ci deve essere qualche sperimen-tazione critica. Vengo da una scuola d’arte, e in questo mondo, quando si fa uno spettacolo, ognuno deve sperimentare. Dio vi aiuti se il prossimo spettacolo è come l’ultimo!»

La lettura di Coupland è una lente d’ingran-dimento sul presente che ci circonda, è un terremoto sulle nostre sicurezze sociali, è un rumore lontano, come un forte starnuto del quale è difficile stabilire la provenienza. •

L’illustrazione compare per gentile concessione dell’autrice e di ISBN Editore.

Interviste citate: The Guardian (www.guard-ian.co.ik) - Douglas Coupland: the writer who sees into the future, 7 Settembre 2009, D. Ait-kenhead; LINK Magazine (www.linkmagazine.blogspot.com) - Non sai nulla del mio lavoro!, 21 Novembre 2011; The Morning News (www.themorningnews.org) - Douglas Coupland, 4 Settembre 2003, R. Birnbaum.

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SE FOSSIMO NATI MORTI

“Il destino è quello per cui lavoriamo. Il futuro non esiste ancora. La fatalità è solo per gli sfigati.”

- Fidanzata in Coma -

“Quello che considerate un piccolo dettag-lio pittoresco della vostra vita, per me rap-presenta l’anti-evoluzione della specie.”

- Generazione A -

“Le ragazze ai miei tempi erano molto educate, questo è il motivo per cui ora sof-friamo tutte di colite.”

- Tutte le Famiglie sono Psicotiche -

“Nella vita c’è un giorno in cui passiamo il segno e ci rendiamo conto di avere bi-sogno di proteggerci da noi stessi.”

- La Vita dopo Dio -

In Italiano:

Generazione X (Interno Giallo, 1992; Mondadori, 1996); Generazione sham-poo (Corbaccio, 1994; TEA, 1997); La vita dopo Dio (Tropea, 1996); Microservi (Feltrinelli, 1998); Fidanzata in coma (Feltrinelli, 1998); Miss Wyoming (Frass-inelli, 2001); La sacra famiglia (Frass-inelli, 2003; ISBN, 2012, col titolo Tutte le Famiglie sono Psicotiche); Eleanor Rig-by (Frassinelli, 2005); Jpod (Frassinelli, 2006); Hey, Nostradamus! (Frassinelli, 2007); Generazione A (ISBN, 2010); Le ultime cinque ore (ISBN, 2012).

Memoria Polaroid (Tropea, 1997); Mar-shall McLuhan. La biografia pop dell’uomo che aveva previsto il futuro (ISBN, 2011).

Informazioni: www.coupland.com

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