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Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia Psichiatria

Psichiatria - Siti Xoomxoomer.virgilio.it/cattolix/appunti/Appunti di Psichiatria.pdf4. disturbi dell'umore; molti alcolisti sono depressi. E' importante ricordare che alcuni depressi

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Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia

Psichiatria

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Introduzione

Lo psichiatra deve avere la capacità di assumere due diversi assetti mentali. Uno è

quello tipico della medicina tradizionale, per il quale esiste una precisa classificazione

dei disturbi (in questo caso si tratta di disturbi mentali) e la prescrizione di farmaci;

l'altro assetto mentale, invece, si basa non già sul mondo della sostanza, ma su quello

della forma, cioè della comunicazione. Questo secondo assetto mentale va ad attingere a

riferimenti quali ad esempio il modello sistemico; secondo il modello sistemico si

considera una persona non come singolo soggetto, ma come facente parte di un sistema

più ampio (società, famiglia...).

Un intervento psicoterapico può dunque di diversi modelli (psicoanalitico,

psicodinamico, comportamentale, cognitivo-comportamentale, etc.); tali modelli vanno

considerati come delle teorie cui seguono specifiche prassi. Le diverse teorie sono a loro

volta derivate dai modelli della mente; infatti la mente non è conoscibile attraverso i

sensi, e quindi per raggiungerla si ha bisogno di modelli.

Per ottenere una ottimizzazione della visita psichiatrica è necessario, oltre che effettuare

un corretto inquadramento diagnostico e prescrivere un farmaco, prescrivere anche un

comportamento, o un "programma" da fare a casa, etc.

I diversi disturbi mentali vanno pertanto affrontati sia sul versante farmacologico che

psicologico.

Accanto alle malattie psichiatriche vere e proprie, ci sono anche dei problemi che non

possono definirsi propriamente psichiatrici, ma in cui lo psichiatra può intervenire

anche solo per un consiglio, come per esempio nei casi di un funzionamento intellettivo

limitato, nel declino cognitivo, dei disturbi scolatici, nel lutto, nei problemi lavorativi,

religiosi, spirituali.

Non bisogna inoltre dimenticare della correlazione tra mente e corpo. Infatti ci sono

persone che, ad esempio, in seguito ad un dispiacere sviluppano un tremore. Il 25% dei

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soggetti che vanno dal cardiologo per un dolore al petto non cardiaco soffrono di

disturbi di attacchi di panico, in cui la sensazione di sofferenza è maggiore di quella

dell'infartuato.

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Il DSM IV

Il DSM IV è la quarta edizione del Manuale Statistico e Diagnostico dei disturbi mentali

elaborato dalla Associazione degli Psichiatri Americani. Si tratta di un volume poderoso

in cui sono descritte le caratteristiche dei vari quadri clinici patologici che ogni

psichiatra può osservare e descrivere. Esso contempla anche una classificazione di tali

disturbi, in diverse sezioni.

Il DSM IV è suddiviso in "assi"; gli assi del DSM IV costituiscono il minimo di

informazioni di cui ogni psichiatra dovrebbe disporre nell'approcciare un malato. In

pratica gli assi sono aspetti del quadro osservabile. Questi assi sono:

- asse I : disturbo clinico vero e proprio;

- asse II : disturbi di personalità, ritardo mentale;

- asse III : condizioni mediche generali potenzialmente rilevanti;

- asse IV : problemi psicosociali e ambientali;

- scala di valutazione globale del funzionamento sociale, psicologico e lavorativo in

riferimento al momento della valutazione.

Ogni paziente va valutato secondo la sua posizione su ognuno di questi assi.

La parte del DSM che si riferisce ai disturbi dell'infanzia, fanciullezza e adolescenza

non viene trattata perché è compito della neuropsichiatria infantile.

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Disturbi cognitivi

Esistono disturbi psichiatrici che hanno una base biologica chiara, cioè nascono da una

noxa che colpisce il cervello.

In linea generale si può dire che tutti i quadri che riporteremo sono riconducibili ad una

"regola" unica: se la noxa agisce acutamente si hanno quadri di confusione mentale (=

delirium), se la noxa agisce cronicamente si hanno quadri di demenza.

Delirium per intossicazione da sostanze

Ad esempio, da alcol. Preso a forti dosi l'alcol dà la cosiddetta "sbronza", cioè un

torpore mentale, con lentezza di riflessi, stato di vuoto. Nei soggetti che fanno uso

cronico di alcol (anche più di un litro al giorno) si realizzano invece danni cerebrali veri

e propri.

I soggetti che interrompono l'assunzione di alcol vanno incontro a un quadro clinico

detto delirium tremens, caratterizzato da confusione mentale, con immagini di animali

piccoli o grandi, fortissimo stato di ansia, disturbi cardiocircolatori. In questi casi è

necessario tenere in vita il soggetto con i classici strumenti della medicina (condizioni

fisiche generali compromesse). La terapia della confusione mentale consiste dunque

nell'intervenire subito per mantenere il cuore e il circolo, evitando la tendenza al

collasso e quindi alla morte; successivamente si cercherà di capirne la causa.

Il termine delirium si riferisce proprio a questo stato confusionale, ed è caratterizzato da

un disorientamento nel tempo e nello spazio; questi soggetti non sanno riferire la data

attuale, né il luogo in cui si trovano. Sono anche caratterizzati da un'incoerenza del

pensiero, e spesso hanno anche dei deliri grossolani. Il termine delirio invece si riferisce

ad una costruzione mentale errata ed incorreggibile. Questi deliri sono spesso associati

ad allucinazioni (le allucinazioni sono percezioni di cose inesistenti); ad esempio,

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vedono oggetti che non ci sono, o ascoltano suoni e voci che non esistono, oppure

hanno delle sensazioni cinestesiche senza nessun substrato organico.

Tra i vari disturbi correlati all'abuso di alcol, vi sono:

1. intossicazione alcolica acuta; è la "sbronza" di cui abbiam detto. Alcuni soggetti

possono avere delle reazioni abnormi, per cui possono avere momenti di grande

violenza, o sviluppare dei deliri di persecuzione; è cioè possibile avere dei quadri

patologici veri e propri, con l'assunzione di anche piccole quantità di alcol;

2. demenza persistente; una assunzione di alcol continuata per anni porta alla demenza

(un danno cerebrale anatomico, con perdita dell'intelligenza). A volte vi sono quadri

di demielinizzazione del corpo calloso, con deficit nella trasmissione nervosa;

3. disturbo amnestico persistente; è la cosiddetta sindrome di Korsakoff. Si tratta di

un'amnesia di fissazione, cioè è un disturbo specifico della memoria di fissazione.

La memoria si divide in memoria di fissazione (permette ai ricordi di fissarsi nella

mente), di ritenzione (permette ai ricordi di soggiornare nella memoria) e di

rievocazione (consente di attingere ai ricordi fissati). Esiste una memoria di

fissazione a lungo termine (per ricordi che dureranno nel tempo) e una a breve

termine (per ricordi fugaci). I soggetti con la sdr di Korsakoff ad es., non sanno dire

cosa hanno mangiato a pranzo; ogni volta che verrà loro fatta tale domanda, essi

risponderanno in maniera sempre diversa. Essi cioè suppliscono alla lacuna mnesica

con invenzioni (cosiddette confabulazioni). Questa malattia è seria, non facilmente

curabile; ha un riscontro anatomopatologico (atrofia in regione ippocampica);

4. disturbi dell'umore; molti alcolisti sono depressi. E' importante ricordare che alcuni

depressi cercano di curarsi con l'alcol peggiorando la situazione, poiché la

depressione aumenta con lo sfumare dell'effetto dell'alcol. Molto spesso quindi

l'acolismo può essere considerato l'equivalente di uno stato depressivo;

5. disturbi sessuali; l'alcol porta spesso ad impotenza, la quale porta talvolta a deliri di

gelosia verso il coniuge. Infatti, non risucendo ad avere rapporti sessuali, costoro

sviluppano l'idea che la moglie abbia un altro uomo, e ciò può anche portare a

violenza nei confronti della moglie;

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6. disturbi del sonno; l'alcol inizialmente facilita il sonno, poi ha invece un effetto

contrario (azione bifasica), portando ad un risveglio precoce, con stato di malessere

fisico e mentale.

La somministrazione di triclici è assolutamente vietata in concomitanza con assunzione

di alcol, in quanto si può verificare un collasso, con un grave malessere fino alla morte.

Inerente al problema alcol, soffermiamoci un po' nel cosiddetto mondo della forma:

l'alcolista è sempre perdente. L'atteggiamento dell'alcolista ha in sé il meccanismo del

perdente.

L'alcolista, infatti, quando comincia a bere solo un sorso, da quel sorso ricade

nell'alcolismo.

E' come se egli sfidasse la bottiglia, che è sempre vincente. L'alcolista è convinto di

poter bere piccole quantità senza cadere nell'alcolismo; vuole cioè dimostrare di essere

un "forte".

E' come se lanciasse una sfida contro la bottiglia. Gli alcolisti anonimi hanno come

prima regola quella di convincere il soggetto di essere un perdente, ponendo così fine a

questa "simmetria" che esiste fra l'alcolista e la bottiglia.

Disturbi correlati all'assunzione di anfetamine

Col tempo le anfetamine danno luogo a dei deliri di persecuzione; i pazienti che

utilizzano questi farmaci hanno inizialmente un effetto positivo (la loro mente funziona

bene), però per poco tempo. Finita l'azione, si ha l'effetto contrario. Inoltre le

anfetamine perdono efficacia nelle somministrazioni protratte, per cui il soggetto

continua a star male nonostante prenda dei farmaci.

Disturbi correlati alla caffeina

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Anche i pazienti possono bere una quantità modica di caffè (3 o 4 tazzine); esistono

soggetti, però, che vanno incontro a caffeinomanie, ingerendo quantità enormi di caffè.

Disturbi correlati a sedativi, ipnotici o ansiolitici

Si tratta di farmaci comunemente utilizzati in psichiatria; è quindi considerevole un

effetto iatrogeno. E' possibile giungere a vere e proprie tossicodipendenze: ci sono

soggetti che arrivano ad assumere anche 40 compresse di TAVOR al dì.

Per inciso, quando si somministrano benzodiazepine non si può interrompere

bruscamente la loro somministrazione, ma occorre ridurre il dosaggio gradualmente

(rischio di astinenza).

I triciclici assunti in forti dosi sono letali.

In sospetto di iperdosaggio farmacologico, bisogna praticare una lavanda gastrica; il

soggetto va poi in terapia intensiva.

Demenza

E' possibile descrivere la demenza come la perdita dell'intelligenza, o come un

impoverimento del pensiero.

Tra le forme primitive di demenza vi è la malattia di Alzheimer. Esiste, di questa

malattia, una forma senile ed una pre-senile [?, NdR]. Si verifica una atrofia progressiva

della corteccia cerebrale con comparsa di certe formazioni definite placche senili, che

nel corso degli anni portano ad un vero e proprio sfacelo mentale.

Inizialmente la malattia si manifesta con piccoli disturbi della memoria (ad es., riporre il

sale al posto dello zucchero), ma poi si arriva progressivamente a non ricordare neanche

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gli avvenimenti recentissimi. Tutti i tre tipi di memoria sono compromessi o comunque

indeboliti. Il paziente arriva a non ricordare più nemmeno come si cammina, o come si

deglutisce; il danno al SNC è molto marcato. Il danno riguarda inizialmente la corteccia

frontale e temporale, e poi si estende a quella temporo-parieto-occipitale.

Attualmente è possibile una terapia con un inibitore dell'Ach-esterasi, che aumenta

l'attività colinergica che in questi pazienti è carente; ma va preso precocemente.

Inoltre nella demenza si ha un'alterazione del pensiero, con un'erroneo riconoscimento

della realtà. Il paziente può, ad es., rubare in casa, e pensare di essere stato derubato

poiché non trova più i suoi oggetti; è possibile lo sviluppo di spunti persecutori che

possono sfociare in veri e propri deliri di persecuzione.

Oppure, questa patologia può comportare un quadro depressivo; la RMN riesce ad

eliminare qualunque dubbio diagnostico. In realtà è vero anche il contrario, cioè soggetti

che sembrano dementi sono in realtà depressi.

Ad ogni modo, come complicanza della malattia di Alzheimer si possono avere come

complicanze deliri e depressioni dell'umore.

Avere un demente in casa comporta numerosi problemi, oltre a rappresentare un rischio

continuo (ad es., possono dimenticare il gas aperto). D'altra parte di solito il ricovero

peggiora la situazione. Un compromesso è rappresentato dal tener tranquillo il malato

con la somministrazione di neurolettici, ad es., LARGACTIL (clorpromazina).

Diversa dalla m. di Alzheimer è la demenza vascolare. In questa il soggetto è cosciente

che il suo cervello non funziona più, e questo gli causa una grande angoscia. Inoltre,

mentre la malattia di Alzheimer ha un andamento progressivo, in questa il

deterioramento è discontinuo; c'è un alternarsi di miglioramenti con peggioramenti.

Questo è dovuto al fatto che, quando si riossigenano i tessuti, si ha un miglioramento

del trofismo delle cellule nervose che riprendono a funzionare. La base della demenza

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vascolare è difatti un insulto ischemico cerebrale. Si tratta infatti di pazienti che possono

avere una anamnesi positiva per accidenti vascolari cerebrali, quindi hanno dei segni la

circolazione cerebrale non va bene, o la circolazione sistemica generale (ad es., infarto

del miocardio, problemi renali, ipertensione).

Altre demenze sono quella che consegue ad infezione da HIV, tipicamente nei soggetti

giovani, e quella che può conseguire ad un trauma cranico. Ancora, è possibile

osservare quadri demenziali nel Parkinson e nella corea di Hungtinton.

Quest'ultima malattia, su base ereditaria, è caratterizzata da movimenti coreici per

alterazione del sistema extrapiramidale; si associa spesso demenza. La malattia

esordisce intorno ai 30 anni, per progredire con diversa velocità negli anni successivi,

invalidando progressivamente il soggetto.

I neurolettici di vecchia generazione danno, come effetto collaterale, dei segni

parkinsoniani; questi farmaci possono essere utili nei coreici, in quanto portano ad una

normalizzazione degli squilibri biochimici extrapiramidali.

Disturbi mentali dovuti ad una condizione medica generale

I farmaci possono produrre dei disturbi anche mentali; anche farmaci che vengono

somministrati comunemente, quali i Calcio-antagonisti nei cardiopatici, possono portare

ad una certa apatia, o a mal di testa, che peggiorano la qualità della vita. E' importante,

quindi, prima di prescrivere un farmaco, porsi il problema se quel farmaco sia il più

giusto o se invece non sarebbe opportuno darne un altro che abbia meno effetti sulla

psiche.

Un esempio è la reserpina, utilizzata in psichiatria, conduceva ad una depressione vera e

propria a causa della deplezione di alcuni neurotrasmettitori.

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Schizofrenia

Nella schizofrenia c'è un 40% di predisposizione genetica ed un 60% di etiologia

ambientale; studi effettuati su gemelli monovulari hanno mostrato che l'ammalarsi

dell'uno coincide solo nel 40% dei casi al fatto che anche l'altro si ammali.

Si tratta di un quadro clinico che generalmente inizia in giovane età. Si distinguono

varie forme di schizofrenia:

1. schizofrenia di tipo paranoide; qui prevalgono i deliri (ad esempio, i deliri di

persecuzione, in cui il soggetto vede il mondo come contro di sé). Questi soggetti

hanno pertanto una visione del mondo diversa da quella delle altre persone;

2. schizofrenia di tipo disorganizzato; è caratterizzata dalla dissociazione mentale, cioè

dal fatto che questi soggetti hanno un cosiddetto "pensiero scucìto", che li porta ad

avere discorsi incoerenti. Quando una persona normale parla e fa un discorso ha

sempre una meta, che viene raggiunta attraverso una serie di passaggi, organizzati

da un punto di vista linguistico, secondo tutta una serie di regole. Il non rispettare

queste regole rende il discorso privo di senso, come nel caso di questi soggetti i

quali, peraltro, non presentano neanche una coerenza per quanto riguarda i

comportamenti;

3. schizofrenia di tipo catatonico; è caratterizzata dai disturbi della psicomotilità. Noi

sappiamo che nel soggetto normale vi è un collegamento tra "progetto" e "azione"; il

rapporto esistente può alterarsi per un disturbo della volontà, venendo così a

mancare un qualcosa che fa passare dal progetto all'azione. I soggetti catatonici,

infatti, sono come completamente privi di volontà: in qualsiasi posizione vengano

messi, essi rimangono come statue di cera, e quindi come se la volontà non esistesse

più. In altri casi si osservano fenomeni di tipo opposto, cioè i soggetti si comportano

in maniera esattamente contraria (se ad es., si cerca loro di allungare un braccio,

questi lo retraggono), ponendo in essere un comportamento di antitesi. Oppure, in

altri casi, essi sembrano costretti a ripetere in continuo la stessa azione (ad es.,

cantare lo stesso ritornello, o effettuare sempre lo stesso movimento - in questo caso

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si parla di stereotipia -), e il modo di parlare è quasi inumano (come se fossero dei

grandi attori);

4. schizofrenia di tipo indifferenziato; quando non c'è nessuna di queste caratteristiche;

5. schizofrenia di tipo residuo; si tratta di una forma di schizofrenia che, non guarendo

del tutto - cosa che accade soltanto nel 20% dei casi -, migliora ma lascia una mente

non del tutto normale; cioè restano degli aspetti patologici, ma essi sono molto

leggeri (è come se queste persone si fossero impoverite: l'eliminazione delle

allucinazioni, che sono presenti in tutte le forme di schizofrenia, sembra impoverire

la percezione). Si tratta in pratica di ciò che residua dalla fase acuta.

Nel tipo paranoide si verificano deliri, come quelli di persecuzione. Occorre essere

molto attenti ai termini da utilizzare. Non bisogna dire al paziente: "tu hai delirio di

persecuzione", ma: "tu vedi il mondo contro di te". Quest'ultima frase viene accolta

molto meglio, mentre la prima può apparire come un insulto.

In tutte le forme di schizofrenia molto spesso sono associate allucinazioni, soprattutto

uditive, come ad es., voci che insultano, che comandano, che parlano fra di loro con

varie tonalità.

Per fare diagnosi di schizofrenia si fa riferimento a vari criteri:

1. criterio clinico;

2. criterio funzionale;

3. criterio cronologico.

Da un punto di vista clinico, è possibile individuare nella schizofrenia due tipi di

sintomi, cosiddetti sintomi positivi e sintomi negativi. I sintomi positivi sono definiti da

alcuni autori come "aspetti della difesa mentale da parte del paziente", e consistono in

deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento grossolanamente

disorganizzato o catatonico. I sintomi negativi riguardano invece aspetti deficitari, e

sono riscontrabili nell' appiattimento dell'affettività, nell'alogia, nell'abulia. Tenendo

conto di questo, negli anni scorsi fu introdotta una tipizzazione della schizofrenia -

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tipizzazione che, in realtà, oggi comincia già ad essere superata - in due "tipi". La

schizofrenia tipo 1 e tipo 2. Nella "tipo 1" prevalgono i sintomi positivi e nella "tipo 2" i

negativi.

I sintomi positivi rispondono molto bene al trattamento neurolettico; non così avviene

invece per i sintomi negativi, perlomeno con i farmaci di non recentissima introduzione.

Nella "tipo 1" non vi sono reperti radiologici alterati, mentre nella "tipo 2" in alta

percentuale si osservano dilatazioni dei ventricoli laterali, soprattutto a carico del corno

temporale, insieme ad una atrofia della corteccia (una sede interessata è quella frontale).

In realtà questa distinzione va considerata più che altro come un modello operativo di

approccio al quadro schizofrenco; infatti dalla schizofrenia tipo 1 si può passare alla

tipo 2, ma non viceversa, poiché probabilmente la schizofrenia tipo 2 sarebbe la

cosiddetta schizofrenia di tipo residuo, cioè l'evoluzione deficitaria della schizofrenia

tipo 1.

Sintomi positivi

(caratterizzati da produzioni da parte del paziente)

allucinazioni (es., voci dialoganti fra loro)

delirio di persecuzione

" di gelosia

" di colpa

" di grandezza

" di influenzamento

" di lettura del pensiero

" di diffusione del pensiero

" di inversione del pensiero

" di furto del pensiero

comportamento bizzarro aggressivo

" disinibito

" stereotipato...

disturbo formale positivo del pensiero

deragliamento

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tangenzialità

incoerenza

illogicità...

Sintomi negativi

(deficit del soggetto)

appiattimento affettivo

riduzione dei movimenti spontanei

immobilità dell'espressione facciale

povertà della gestualità affettiva

perdita del contatto visivo

affettività inappropriata

alogia

con povertà dell'eloquio

a contenuti vaghi e astratti

apatia

deficit di pulizia ed igiene personale

anergia fisica

anedonia

asocialità

compromissione dell'attenzione

Da un punto di vista funzionale, la schizofrenia si caratterizza per una marcata riduzione

del funzionamento sociale, lavorativo, affettivo, sessuale.

Da un punto di vista cronologico, occorre osservare una durata di almeno 6 mesi, di cui

almeno uno con sintomatologia attiva.

Naturalmente per poter parlare di schizofrenia è necessario escludere altre condizioni,

quali i disturbi dell'umore o altre condizioni mediche.

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Ora, da tutti questi criteri diagnostici - riportati anche nel DSM IV - sembrerebbe che la

schizofrenia sia per definizione una malattia che non abbia una spiegazione etio-

patogenetica.

La schizofrenia può avere vari tipi di decorso; il peggiore è quello che porta ad una

demenza progressiva; questo si verifica nel 30-40% dei casi, e si tratta di forme che non

rispondono né ai farmaci né alla psicoterapia. Un vecchio nome della schizofrenia è

infatti "demenza precoce", sebbene non tutti i casi osservati portino di fatto a demenza.

Un dato certo è invece che più la schizofrenia è precoce, tanto peggiore è la prognosi,

così come la prognosi peggiora con il perdurare più o meno a lungo dell'episodio

psicotico. In pratica, ci sono degli indicatori che permettono, per grandi linee, di predire

l'evoluzione della malattia.

Nella schizofrenia la terapia fondamentale è costituita dai neurolettici. Ce ne sono

moltissimi, ad esempio SERENASE (aloperidolo).

In che termini si può parlare di guarigione della schizofrenia? In passato si riteneva che

esistesse una schizofrenia a prognosi favorevole e una a prognosi sfavorevole; altri

invece sostenevano che la schizofrenia fosse solo quella inguaribile: se guariva non era

schizofrenia.

In realtà dalla schizofrenia si guarisce; è comunque un disturbo cronico, che deve durare

almeno sei mesi. Nel 10% dei casi la malattia scompare senza trattamento.

L'impressione è che ci sia come uno spegnimento del processo schizofrenico: dopo 5-10

anni c'è uno spegnimento dei disturbi.

Nei paesi del terzo mondo la prognosi è migliore rispetti ai paesi più civili, e questo

perché nei paesi sviluppati c'è una aspettativa infausta maggiore che influenza la

prognosi stessa. Nei paesi più poveri, invece, c'è una visione più arcaica della follia, più

accettabile, tollerabile.

Note:

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Nel delirio di influenzamento il paziente prova l'esperienza soggettiva che le sue

sensazioni od azioni siano controllate da qualche forza esterna.

Sappiamo che i disturbi del pensiero possono riguardare la FORMA del pensiero, cioè il

"come il pensiero si articola" oppure il CONTENUTO del pensiero (si tratta dei deliri).

Molta della sintomatologia negativa può essere ricondotta al trattamento neurolettico.

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Disturbi psicotici

Disturbo schizofreniforme

Prima di parlare di schizofrenia è necessario che vi sia un decorso dei disturbi osservati

abbastanza prolungato. Prima di 6 mesi non si può parlare di schizofrenia. Se l'episodio

è acuto e dura poco tempo si parla di disturbo schizofreniforme.

Disturbo schizoaffettivo

Si tratta di un quadro misto in cui ci sono degli elementi caratteristici della schizofrenia

ed altri elementi che sono invece caratteristici di altri disturbi affettivi.

Disturbo delirante

In passato definito come paranoia, è caratterizzato da un delirio allo stato puro. Non vi

sono né allucinazioni né dissociazione del pensiero. C'è invece il delirio, che ne è

l'aspetto dominante. I deliri possono avere molti temi:

1. erotomania, cioè il delirio di essere amati da personaggi importanti;

2. di grandezza, in cui ci si sente delle persone molto importanti, quasi divine;

3. di gelosia, nei confronti del coniuge e basata su cose inesistente; il più delle volte è

rivolta anche verso persone anziane, e quindi immotivabile;

4. di persecuzione, quando ci si sente perseguitati, e il mondo appare come contro il

soggetto (ad es., il soggetto riferisce che c'è qualcuno che vuole ucciderlo, o che

vuole fare del male a lui e alla sua famiglia);

5. di tipo somatico, cioè un delirio riferito al corpo

Disturbo psicotico breve

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Un episodio psicotico dalla brevissima durata, anche di pochi minuti.

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Disturbi dell'umore

L'umore è lo stato affettivo basale, abituale, che influenza costantemente l'esistenza di

ogni individuo.

L'umore è quindi lo stato emozionale interno di un individuo, che ne condiziona la

qualità e l'intensità dei vissuti, oltre che la attività cognitiva, volitiva e

comportamentale.

L'umore pertanto, inteso come emozione duratura che colora l'intero stato psichico, ha

un proprio tono (una propria caratteristica di espressione, cioè il tono dell'umore), che

può presentarsi alterato: o nel senso di una deflessione (condizioni depressive) o nel

senso di una esaltazione (mania, ipomania). Per definizione, le emozioni sono stati

affettivi di breve durata, reattivi, a brusca insorgenza, mentre le passioni sono i

sentimenti, cioè componenti dell'affettività più duraturi e stabili.

Disturbi depressivi

Sono disturbi in cui vi è un abbassamento del tono dell'umore. Si distinguono:

1. disturbo depressivo maggiore; in questo l'entità della depressione è molto forte. Può

mostrarsi come un episodio singolo (un solo episodio nella vita, e poi sta bene)

oppure può essere ricorrente, con episodi di depressione circoscritti nel tempo e

periodici;

2. disturbo distimico; si tratta di un disturbo depressivo non così forte come la

depressione maggiore, ma più leggero e cronico; esso infatti deve durare non meno

di due anni. Dunque è una depressione leggera ma costante, che quasi sfuma con la

personalità depressiva;

3. disturbo depressivo Non Altrimenti Specificato (NAS).

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Si possono osservare disturbi della sfera neurovegetativa, come debolezza, insonnia,

inappetenza. Naturalmente il paziente può presentare una facies "triste".

Nella depressione maggiore vi possono essere dei deliri, come il delirio ipocondriaco

(cioè la convinzione, la certezza incorreggibile, di avere una malattia fisica), o il delirio

di rovina (la convinzione che la famiglia andrà in rovina economica, tanto da non poter

più mangiare), o il delirio di colpa (il soggetto si sente colpevole di diverse cose; a volte

questo delirio è molto grossolano, ad es., il soggetto si sente colpevole di tutti i mali del

mondo). Nella depressione maggiore vi possono essere questi tre tipi di delirio (di

colpa, di rovina, ipocondriaco).

Criteri diagnostici per l'episodio depressivo maggiore: cinque (o più) dei seguenti

sintomi sono stati contemporaneamente presenti durante un periodo di tempo di due

settimane e rappresentano un cambiamento rispetto al precedente livello di

funzionamento; almeno uno dei sintomi è costituito da umore depresso o perdita di

interesse/piacere. Non bisogna includere i sintomi chiaramente dovuti a una condizione

medica generale o a deliri o allucinazioni interagenti con l'umore. I sintomi sono:

1. umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato

dal soggetto, o come osservato da altri; nei bambini e negli adolescenti l'umore può

essere irritabile;

2. mancata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la

maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto o asserito

da altri;

3. significativa perdita di peso in assenza di dieta o significativo aumento di peso (per

es., un cambiamento di più del 5% del peso corporeo in un mese), oppure

diminuzione dell'appetito quasi ogni giorno; nei bambini bisogna considerare

l'incapacità di raggiungere i livelli ponderali attesi;

4. insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno;

5. agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (asserito dagli altri, e

non semplicemente sensazioni soggettive di essere irrequieti o rallentati);

6. faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno;

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7. sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi, inappropriati di colpa

(possono essere deliranti) quasi ogni giorno (non semplicemente autoaccusa o

sentimenti di colpa per il fatto di essere ammalato);

8. diminuzione della capacità di pensare o di concentrarsi, o difficoltà a prendere

decisioni quasi ogni giorno (come impressione soggettiva o osservata dagli altri);

9. ricorrenti pensieri di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicida

senza elaborazione di piani specifici, oppure un tentativo di suicidio o

l'elaborazione di un piano specifico per commettere il suicidio.

Dunque vi sono aspetti fisici (perdita di peso, insonnia, faticabilità), e aspetti cognitivi

(perdita di capacità decisionale, pensieri di morte, sensi di colpa).

Generalmente una depressione maggiore dura almeno 1-2 mesi; la durata dipende anche

dalla latenza della azione farmacologica, che quando si attua migliora la sintomatologia.

Nel caso della depressione maggiore, il 25% dei soggetti trattati guarisce, il 50% si cura

bene ("responder"), il 25% non reagisce né a terapie farmacologiche, né ad approcci

psicoterapici.

Nei disturbi depressivi la terapia fondamentale è costituita dagli antidepressivi:

triciclici, inibitori del reuptake della serotonina (SSRI), e altri ancora.

Tra i triciclici il più importante è ANAFRANIL (clorimipramina). Circa la

somministrazione di questo farmaco ci sono diverse scuole di pensiero. Se non si ha

fretta si dà un confetto da 10 mg la mattina e un altro alla sera. Dopo 3 giorni i confetti

da utilizzare passano a 25 mg (1 da 25 mg la mattina, 1 altro da 25 mg la sera). Dopo

una settimana, ancora, i confetti passano a 3, introducendo un altro confetto da 25 mg a

mezzogiorno. Quest'ultimo è il dosaggio terapeutico (75 mg/die). ANAFRANIL

(crorimipramina) va associato a un ansiolitico, EN (delorazepam) in gocce: 8 gtt la

mattina, 8 gtt a mezzogiorno, 8 gtt alla sera. Nel caso di depressione maggiore

ricorrente non si somministra l'ansiolitico, ma solo il farmaco antidepressivo. Con

questo trattamento il miglioramento è previsto dopo un mese, e di ciò il paziente va

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informato. Ottenuto il miglioramento la cura va mantenuta per almeno 6 mesi, dopo i

quali si "scende" molto lentamente. Da 3 cpr di ANAFRANIL (clorimipramina) da 25

mg si passa a 2 cpr per alcuni mesi, e poi ad 1 cpr per altri mesi; in molti casi si lascia 1

cpr da 25 mg per sempre.

Di SSRI ce ne sono molti. Ricordiamo SEROXAT (paroxetina). Si prescrive 1 cpr e

dopo 7-8 giorni se non sono stati ottenuti miglioramenti si passa a 2 cpr; in ogni caso

non si superano le 2 cpr/die (cioè 40 mg/die). PROZAC (fluoxetina) si somministra in 1

cpr singola e si associa a LARGACTIL (clorpromazina), poiché da solo, in certi casi,

può dare stati di eccitazione.

Dosaggi di alcuni farmaci antidepressivi:

1. LAROXYL (imipramina) - 150-300 mg/die;

2. ANAFRANIL (clorimipramina) - 45-100 mg/die;

3. Tranilcipromina - 10-20 mg/die;

4. Fenelzina - 45-75 mg/die;

5. PROZAC (fluoxetina) - 5-10 mg/die;

6. SEROXAT (paroxetina) - 20 mg/die;

7. DUMIROX (fluvoxamina) - 150 mg/die.

Disturbo disforico premestruale

Fa parte dei disturbi depressivi Non Altrimenti Specificati (NAS). Presente nella

maggior parte dei cicli durante l'anno con sintomi (umore modestamente depresso, ansia

marcata, labilità affettiva marcata, ridotto interesse per le attività) che si presentano

regolarmente durante l'ultima settimana della fase luteinica, con remissione entro pochi

giorni dall'inizio delle mestruazioni. Questi sintomi devono essere abbastanza gravi da

interferire marcatamente con il lavoro, la scuola o le attività abituali, ed essere

completamente assenti per almeno una settimana dopo le mestruazioni.

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La disforia premestruale riconosce una etiologia ormonale, come un aumento del

rapporto Estrogeni/Progesterone, o un aumento dell'influenza degli ormoni sui neuroni

aminergici. Un'altra depressione su base ormonale è quella post-partum, che si verifica

al momento della montata lattea.

Disturbo bipolare

E' caratterizzato da periodi di depressione e periodi di eccitamento. E' detto bipolare

perché il soggetto si muove tra una tonalità dell'umore all'altra, e quindi va da un ton

dell'umore depresso ad un tono dell'umore molto elevato, e cioè a periodi di eccitamento

maniacale.

Per quanto riguarda la fase maniacale, è importante che il paziente conosca è riconosca

gli indicatori del disturbo, cioè i sintomi premonitori, che sono insonnia, disinibizione e

aumento di energia, in modo da iniziare subito la terapia (che è costituita

fondamentalmente dal litio).

Anche questo disturbo bipolare può essere un singolo episodio oppure presentare varie

possibilità:

1. andamento bipolare (classico), cioè D (depressione) - M (mania) - D - M - D - M -

ecc;

2. casi di M - M - M - M - M - M - M - ecc;

3. casi di D - M - M - D - M - M - D - ecc;

4. depressioni forti con manie leggere.

Ciò che caratterizza comunque questo quadro è la variazione notevole del tono

dell'umore.

Per i disturbi bipolari la terapia è basata sugli stabilizzanti dell'umore, che rendono

l'umore stabile. Questi farmaci sono fondamentalmente tre. Il LITIO, che il realtà è

carbonato di litio, è uno di essi; va somministrato in dosaggi talchè la quantità nel

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sangue sia compresa tra 0,6 e 1 mEq. Concentrazioni inferiori a 0,6 mEq non servono a

niente, superiori a 1 mEq possono intossicare. Si inizia con certi dosaggi bassi e poi si

sale, finchè nel sangue non arriva a questi livelli.

Il litio viene somministrato in capsule da 300 mg. Si inizia con il somministrare 2

cpr/die, una al mattino, una alla sera. Dopo una settimana, a 12 ore dall'ultima

somministrazione, si valuta la concentrazione di litio nel sangue e si vede se il livello

minimo (cioè 0,6 mEq) è stato raggiunto. Di solito con 2 cpr non si arriva, e quindi si

sale a 3 cpr/die, e quindi si valuta nuovamente la litiemia. Se neanche in tal modo si

raggiunge il valore minimo, si procede a somministrare 4 cpr, 2 al mattino e 2 alla

pomeriggio (2+2). Il nome commerciale del litio carbonato è CARBOLITHIUM.

Il litio è efficace anche durante gli episodi di eccitamento maniacale, poiché li spegne.

Questi periodi sono molto fastidiosi dal momento che i pazienti non vogliono curarsi,

sentendosi in forma perfetta; spesso interrompono la cura. Per questo occorre che

imparino a riconoscere i segni premonitori della fase maniacale.

Nell'attesa che il litio raggiunga le concentrazioni adeguate e quindi manifesti i suoi

effetti si somministrano dei neurolettici; si "fa" la cosiddetta "triplice", e cioè:

1. una fiala di SERENASE (aloperidolo);

2. una fiala di DISIPAL (orfenadrina);

3. una fiala di LARGACTIL (clorpromazina).

In realtà anche le benzodiazepine, e.v. o i.m., aiutano molto. L'importante è calmare

subito queste persone, poiché nelle fasi maniacali sono capaci di tutto e sono molto

pericolosi; sono superficiali, e hanno mancanza critica.

Altri stabilizzanti dell'umore sono il TEGRETOL (carbamazepina) e il DEPAKIN

(sodio valproato), che in realtà sono antiepilettici. Vanno in realtà utilizzati quando il

litio non è tollerato o è inefficace.

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Nella fase maniacale si somministrano litio e neurolettici. Nella fase depressiva invece

si danno antidepressivi e stabilizzanti dell'umore; questa associazione è indispensabile,

poiché se si fa a meno degli stabilizzanti dell'umore il paziente va in crisi maniacale

iatrogena.

Disturbo ciclotimico

Si tratta di un disturbo che ha la caratteristica di avere una andamento per cui ci sono

periodi in cui l'umore è elevato e altri in cui è più basso, però rispetto al disturbo

bipolare le "escursioni" del tono dell'umore sono molto più leggere. Secondo il DSM IV

il disturbo ciclotimico fa parte dei disturbi bipolari.

Psicoterapia nei disturbi dell'umore

Nei disturbi dell'umore alla terapia farmacologica bisogna sempre associare la

psicoterapia fatta da uno psicoterapeuta e finalizzata a far sì che il paziente conosca la

sua mente; esistono diversi approcci (psicoanalisi, psicoterapie psicodinamiche, terapia

cognitivo-comportamentale, terapia relazionale, terapia interpersonale - quest'ultima è

poco usata in Italia).

Circa la terapia relazionale, bisogna dire che qui a Bari è privilegiata ed è considerata la

prima terapia. Il contesto di vita nel quale queste persone vivono è fondamentale. Nelle

forme bipolari il coniuge conosce la situazione e può riconoscere i segnali premonitori,

aiutando così il terapeuta. Le situazioni che vanno a finir meglio sono quelle in cui

collabora il coniuge.

Anche nella semplice visita psichiatrica, oltre ai farmaci, bisogna dare qualcosa in più.

Quando si convoca la famiglia si danno alcuni consigli:

1. non minimizzare;

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2. non appellarsi alla volontà del paziente; questi soggetti hanno un super-io

gigantesco ad appellarsi alla loro volontà significa schiacciarli. Va detto che il 18%

dei depressi profondi si suicida;

3. ciò che bisogna fare è comportarsi da testimoni partecipi, cioè ascoltare e non dire

nulla.

I familiari devono collaborare, per non portare il processo alla cronicizzazione.

La Scuola di Bari tende a non fare un discorso di "causa/effetto", poiché la ricerca delle

cause appare inutile. E' invece necessario ascoltare il discorso degli altri e concentrarsi

sulla sofferenza di quel momento.

C'è un modello, un programma, in cui vi sono dei movimenti oculari da seguire; nel

frattempo il paziente cerca di rivivere la sua sofferenza, ma non può farlo poiché è

operativo, e non può fare due cose contemporaneamente. Questo serve per riorganizzare

la mente del malato.

Depressione e infarto del miocardio

L'antica scissione tra soma e psiche è in realtà un artificio mentale; si tratta infatti di due

aspetti diversi di un'unica entità. Vedremo infatti quali strette connessioni ci siano tra

depressione (psiche) e infarto del miocardio (soma).

E' stato fatto uno studio su 2000 persone per 13 anni; si è visto che l'8% delle persone

che, tra queste, avevano sofferto di depressione maggiore, e il 6% di chi aveva avuto

una depressione più leggera, aveva avuto un infarto, contro il 3% degli altri (cioè di

coloro i quali non avevano mai sofferto di depressione): una correlazione significativa.

Raffinando meglio lo studio si vede come i soggetti che avevano avuto una depressione

maggiore avevano una probabilità 4 volte maggiore di sviluppare un infarto del

miocardio, rispetto ai soggetti che non avevano avuto depressione maggiore.

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La psiche ha dunque una influenza sul soma, ma è vero anche il contrario, cioè

condizioni patologiche che riguardano il soma possono avere pesanti risvolti psichici

fino a sfociare nella patologia psichiatrica.

Il 10% di coloro che hanno avuto un infarto del miocardio va incontro ad una

depressione maggiore se il rilievo viene eseguito entro il mese successivo all'attacco

cardiaco. La percentuale sale al 34% de il rilievo viene eseguito ad un anno di distanza.

Questo perché all'infarto del miocardio segue un "infarto dell'Io", poiché persone che si

ritenevano invulnerabili vengono drammaticamente messe di fronte alla loro caducità,

ricevendo così una grave ferita narcisistica. Solitamente gli infartuati appartengono ad

una categoria di individui che vuole emergere, dotati di notevole aggressività e che

investono molto nella loro figura, e per questo poi è facile che sviluppino una

depressione.

Quando un coniuge soffre d'infarto, l'altro va incontro a disturbi psichiatrici in misura

doppia rispetto alla popolazione di controllo, e otto volte superiore se è avvenuta la

morte del coniuge.

Interessante è anche notare il rapporto tra depressione e ricovero per infarto. Degli

infartuati ricoverati il 27,5% ha sofferto di uno o più episodi di depressione maggiore

nella storia passata. DI questi il 7,7% è depresso nell'anno precedente l'infarto. Di

questa popolazione il 31% sviluppa una depressione nel ricovero in ospedale o nell'anno

successivo alla dimissione. In un campione di 70 persone:

1. 35 depressi durante il ricovero;

2. 30 depressi nel periodo fra la dimissione e 6 mesi;

3. 5 depressi nel periodo fra i 6 e i 12 mesi dalla dimissione.

Anche la cardiochirurgia è correlata con la depressione: il 61% dei pazienti che subisce

un intervento cardiochirurgico al cuore è depresso.

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Le persone anziane possono tendere ad una depressione ingravescente. Per quanto visto

subito prima, peraltro, in loro la possibilità di infarto, di ictus o di morte aumenta molto

significativamente.

Depressione e farmaci

Possono dare depressione iatrogena farmaci cardiovascolari (alfa-metildopa, reserpina,

propranololo, digitale, clonidina, tiazidici, guanetidina), farmaci neurologici

(amantadina, carbamazepina, levodopa), psicotropi (benzodiazepine, barbiturici,

neurolettici), antineoplastici, steroidi, FANS, altri (metoclopramide, ranitidina, cocaina,

anfetamine).

Una domanda interessante è: "è possibile associare antidepressivi tra loro?". In genere

all'inizio si usa un antidepressivo da solo, ad esempio un triciclico: se dopo un mese non

ci sono effetti, allora si può provare un altro antidepressivo, un SSRI, aumentando

gradualmente il dosaggio senza mai superare le dosi terapeutiche. Le asociazioni di più

antidepressivi sono pericolosissime e anche mortali: non è possibile associare

ANAFRANIL (clorimipramina) e SEROXAT (paroxetina). Per quanto attiene gli SSRI

è da evitare l'interazione con gli I-MAO (farmaci inibitori delle MonoAminoOssidasi,

un'altra categoria di antidepressivi assieme ai triciclici e agli SSRI), a causa della

possibilità di indurre una sindrome serotoninergica potenzialmente fatale a seguito di un

aumento eccessivo della serotonina (gli SSRI ne bloccano il re-uptake, gli I-MAO ne

impediscono la degradazione).

In cosa consiste la sindrome serotoninergica?

In vari sintomi:

1. crampi addominali, meteorismo, diarrea;

2. tremore, mioclono, disartria, incoordinazione motoria, ipereflessia, Babinski+;

3. tachicardia, ipertensione;

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4. eccitamento, confusione, disforia, stato maniacale;

5. ipertermia;

6. collasso cardiocircolatorio che porta a morte.

Sempre per quanto riguarda gli SSRI, c'è da dire che SEROXAT (paroxetina) ha un

maggior tendenza alle interazioni farmacologiche rispetto a PROZAC (fluoxetina) o a

SEROD (sertralina); queste interazioni possono verificarsi con vari farmaci, anche di

uso internistico, che al pari di essa vengono metabolizzate dall'enzima epatico cytP450.

Ad esempio TAGAMET (cimetidina) può aumentare le concentrazioni di SEROXAT

(paroxetina).

Riguardo agli I-MAO la pericolosità risiede nel cosiddetto "effetto formaggio" legato

alla tiramina, una monoamina che non potendo più essere metabolizzata si accumula,

dando crisi ipertensive importanti, anche fatali.

Fonti di tiramina sono: vino Chianti, birra, formaggi fermentati, minestre conservate [?],

concentrati di cardne, fegato, selvaggina, aringhe, fichi conservati, fave, cioccolato,

banane. Per lo stesso motivo non si possono somministrare insieme I-MAO e

simpaticomimetici.

Come dissuadere un paziente dal suicidio

(ricordati che tocchi il fondo, ma poi risali)

Ai pazienti che molto probabilmente - vista la loro condizione - potrebbero suicidarsi la

Clinica Psichiatrica consegna un piccolo testo contenente una serie di proposizioni che

dissuadono il paziente dal suicidio:

1. Prima di suicidarti pensaci bene, e renditi conto della reale situazione in cui ti trovi.

Spesso le soluzioni ai tuoi problemi sono vicine, anche se non ti sembra così.

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2. Ricordati che prima di trovarti nell'attuale situazione avevi pensato ai suicidi come a

dei pazzi; rifletti quindi del fatto che se tu ti suicidi gli altri ti riterrebbero un pazzo,

anche se questo non è vero perché sappiamo che chiunque viva ciò che tu stai

vivendo sarebbe legittimato a pensare al suicidio. Ad esempio, ricordi il generale

Delfino? Ha tentato il suicidio prendendo la rincorsa e sbattendo la testa contro il

muro. Per una persona come lui, un carabiniere, che ha una struttura di personalità

rigida, l'aver reso di pubblico dominio la sua vicenda giudiziaria e stato causa di una

tensione "invincibile".

3. Non tenere i problemi per cui vorresti morire chiusi dentro te stesso; la soluzione

dei problemi nasce sempre dall'interazione con altri.

4. Se il motivo per cui ti vuoi suicidare è la solitudine, noi conosciamo delle tecniche

per risolvere questo problema.

5. Vi sono cose che fanno male a tutti, che bruciano. Non è sbagliato essere depressi,

non è stupido essere depressi, non è un peccato essere depressi: è solo una maniera

umana di reagire agli eventi di cui tutti noi sofriamo. Ricorda però che la

maggioranza delle depressioni scompaiono da sole, e che comunque anche quelle

che hanno una forte componente biologica possono essere curate facilmente.

Ricorda che la maggior parte dei depressi guariscono entro sei mesi, con o senza

trattamento, e che se prendi dei farmaci questi ti tireranno fuori in poche settimane.

6. Se vuoi possiamo aiutarti anche a gestire la rabbia.

7. Se sei troppo disperato per sperare: coloro che hanno studiato scientificamente la

"disperazione appresa" hanno scoperto che le persone che sperimentano

ripetutamente e a lungo il fallimento imparano che qualsiasi tentativo facciano per

gestire la loro vita sono incapaci a gestirlo, entrando in depressione e in un altro

stato mentale, la disperazione, che alla depressione segue. E' la disperazione e non

tanto la depressione a farti desiderare la morte.

8. Attenzione: l'alcol può renderti improvvisamente disperato e farti suicidare. Non

permettere ad una bottiglia di prendere questa grave decisione su di te.

9. Il tuo istinto di sopravvivenza, che è più forte di qualsiasi tua volontà potrebbe

impedirti di morire; inoltre le circostanze potrebbero fare lo stesso. Il tuo

insuccesso, però, può segnarti a vita, e potresti sviluppare una menomazione

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persistente (paralisi, paraplegia). Stranamente questi soggetti una volta menomati

non tentano più il suicidio.

10. Il suicidio non riguarda solo te, potrebbe far male a chi ti sta attorno.

11. Il tempo guarisce. Infatti molti soggetti in lista d'attesa per un colloquio psichiatrico

in Ospedale non si presentano ai colloqui perché la crisi è passata.

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Disturbi d'ansia

Ci sono diversi quadri di disturbi d'ansia.

Attacchi di panico

Di che si tratta? Ci sono persone che, improvvisamente, vanno incontro ad uno stato di

malessere molto intenso, fino quasi a sentirsi morire; si realizzano disturbi

neurovegetativi, senso di soffocamento, di vertigine, di instabilità. Molto spesso questi

soggetti si recano al pronto soccorso, e possono dare l'impressione di avere un'angina in

atto. I disturbi durano poco ma sono molto intensi. Queste persone hanno sempre il

timore che tale "attacco" possa ricomparire (cosiddetta ansia di attesa).

Negli attacchi di panico il soggetto vive un periodo di intensa paura o disagio, durante il

quale quattro o più dei sintomi che seguono si sono sviluppati improvvisamente, ed

hanno raggiunto il picco in dieci minuti:

1. palpitazioni, cardiopalmo, tachicardia;

2. sudorazione;

3. tremori fini o a grandi scosse;

4. dispnea o sensazioni di soffocamento;

5. sensazione di asfissia;

6. dolore o fastidio al petto;

7. nausea o disturbi addominali;

8. sensazione di sbandamento, instabilità, di testa leggera o di svenimento;

9. derealizzazione (cioè sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati

da se stessi);

10. paura di perdere il controllo o di impazzire;

11. paura di morire;

12. parestesie (torpore o formicolio);

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13. brividi o vampate di calore.

Dunque una sintomatologia multiforme. E' importante quindi effettuare una corretta

diagnosi differenziale. Negli attacchi di panico c'è un quadro psichico specifico, in

quanto il paziente avverte un senso di catastrofe imminente, un'intensa ansia psichica,

paura di morire, di impazzire, di perdere il controllo. Errore possibile nei periodi

intercritici è una tachicardia parossistica sopraventricolare.

Patologie psichiatriche associate a disturbi di attacchi di panico sono disturbi depressivi

(50%), fobici (40%), ossessivo-compulsivi, alcolismo, uso di sostanze stupefacenti.

L'associazione più tipica è con l'agorafobia.

Un po' con i farmaci, un po' con la psicoterapia e un po' con l'autogestione di queste

sensazioni i soggetti poi si sentono meglio. In sostanza, si tratta di quadri che si riescono

a curare con una certa efficacia. Il farmaco da utilizzare è XANAX (alprazolam), unica

benzodiazepina che funziona; gli ansiolitici non vanno bene, al massimo si danno

antidepressivi. XANAX (alprazolam) è una benzodiazepina ad emivita breve; il suo

dosaggio è 3-6 mg/die. L'alprazolam va dato all'inizio fino a quando non subentra

l'azione degli antidepressivi, evento che può verificarsi anche dopo un mese; è

possibibile utilizzare ANAFRANIL (crorimipramina) o SEROXAT (paroxetina), o altri

SSRI.

La guarigione completa si ha solo nel 10-20% dei casi, però l'evoluzione,

complessivamente, è favorevole, con occasionale comparsa di qualche crisi nel 50% dei

casi. La guarigione si ha anche perché il paziente, col tempo, impara a conoscere sé e il

proprio organismo.

L'ottimizzazione della visita psichiatrica negli attacchi di panico prevede:

1. Insegnamento di una respirazione più funzionale; l'espirazione completa aiuta

moltissimo dato che normalizza il ritmo respiratorio. Se notiamo bene, gli ansiosi

"respirano a metà";

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2. Esercizi per rinforzare il sistema neurovegetativo, per ridurre l'ipersensibilità del

proprio corpo. Un esercizio utile è quello in cui facciamo fare un certo numero di

respirazioni forzate al paziente, e questo entra in uno stato di malessere che gli

ricorda il panico. Noi calcoliamo quanti atti respiratori sono necessari per provocare

l'attacco. Supponiamo che essi siano 10. Piano piano gli facciamo aumentare il

numero delle respirazioni (11, 13, 15, etc.) regolarizzando il sistema

neurovegetativo;

3. Tecnica del "correre-correre", da utilizzare con l'aiuto della famiglia. In pratica si fa

l'opposto di ciò che si fa con l'infartuato, cioè si fa correre il paziente, così che in lui

l'organismo riprenda il funzionamento abituale;

E' importante ad ogni modo valutare quali esercizi consigliare prima di somministrare

un farmaco: lavorare nel biologico e nello psicologico dà sempre ottimi risultati.

Disturbi di panico con agorafobia

Sono situazioni in cui la persona, spaventata da un intenso stato di malessere (quello

dell'attacco di panico già descritto), finisce con l'aver paura ad uscire di casa (difatti

agorafobia significa "paura della piazza"). Queste persone non riescono ad uscire di

casa, ne hanno paura; a volte dicono di aver paura di stare in mezzo alla gente. Il non

poter uscire di casa rende queste persone prigioniere di sé stessi. Comunque il disturbo,

se curato, molto spesso scompare del tutto.

Abbiamo così presentato il quadro dell'agorafobia con disturbi di panico. Però esiste

anche un'agorafobia senza attacchi di panico. Oppure, ci sono casi di attacchi di panico

che vengono successivamente complicati da agorafobia, o, ancora, casi in cui c'è una

agorafobia "semplice" che poi si complica con attacchi di panico.

Nell'agorafobia l'ottimizzazione della visita psichiatrica prevede "uscite e rientri", nella

situazione che genera la fobia, programmati, e sempre più prolungati, eseguiti con

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controllo scritto circa il tempo di esposizione al fattore fobico; si cerca di aumentare

sempre più tale tempo di esposizione, fino a quando il soggetto guarisce.

Altre fobie e fobia sociale

Oltre all'agorafobia, ci sono tantissime altre fobie; possiamo fare qualche esempio,

come le fobie per gli animali, per il sangue, per i temporali o per i topi. In pratica

qualsiasi oggetto può diventare oggetto di fobia (cioè di paura).

Una forma interessante è la fobia sociale; si tratta di persone che, trovandosi in luoghi

affollati, ove c'è molta gente accalcata, siviluppano un senso d'ansia molto intenso, che

arriva a farli star male.

Disturbo ossessivo-compulsivo

Tutto parte da idee che persistono e che non si riesce a mandare via, radicate come sono

nella mente. Si possono associare a dei comportamenti che vengono definiti

"cerimonali"; queste persone, per compensare la situazione di disagio psicologico in cui

si trovano ricorrono a tecniche per stare meglio. Ad esempio, se hanno l'idea dello

sporco si lavano le mani per molte volte; a volte possono passare anche ore e ore in

bagno, con la conseguenza di perdere tempo e, cosa ancor più grave, di procurarsi gravi

danni alla cute.

Tutto questo succede perché quando costoro compiono un'azione, essi non sono

"presenti al 100%", ma "solo al 50%", per cui è necessario che l'azione venga sempre

ripetuta. Non vi è un totale investimento nella azione. Sono ossessionati dal dubbio, e il

dubbio è il fondamento di questa situazione. La personalità di questi soggetti è molto

scrupolosa, essi tendono sempre a controllare.

Disturbo post-traumatico da stress

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Quando una persona va incontro a degli stress molto forti (lutto, donne violentate, e così

via) si ha in sé una modifica. Queste persone hanno ogni tanto dei flash-back, cioè ogni

tanto viene loro in mente l'avvenimento stressante, e il suo ricordo, e poi hanno una

modifica del carattere che subisce, spesso, un irrigidimento.

Che fare in questi casi? Bisogna che questo trauma venga sviscerato fino in fondo,

esprimendo ciò che è successo e lo stato d'animo provato. Solo questo è in grado di far

uscire queste persone dalla situazione in cui si trovano. Esistono delle tecniche per

superare il problema.

Altri disturbi

Sono dati dal disturbi acuto da stress e dal disturbo d'ansia generalizzato, in cui l'ansia si

manifesta con sintomi fisici.

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Disturbi somatoformi

Disturbo di conversione

E’ quello che ai tempi di Freud veniva chiamato isteria. I soggetti affetti da disturbo di

conversione vanno incontro a disturbi fisici importanti di tipo funzionale, cioè senza un

danno anatomico vero e proprio (ad es., attacchi epilettici). Spesso si tratta di paralisi

che nascono dalla grandissima angoscia di questi soggetti, angoscia che trova una difesa

nel trasferimento (“conversione”) nel corpo. Infatti, questi soggetti diventano molto

tranquilli quando realizzano la paralisi, a differenza da ciò che avviene di norma. Con

questa “via di scarico” somatica i soggetti eliminano, con un meccanismo di difesa, la

loro ansia e la loro angoscia. Giusto il termine “conversione”, cioè convertire dallo

psichico al somatico (ansia – malattia fisica).

Anche per questo genere di disturbo la terapia si avvale di tecniche ben codificate. E’

possibile far regredire la paralisi molto velecemente agendo sulla motricità del soggetto:

la paralisi, con queste tecniche, scompare perché il paziente non può

contemporaneamente tenere il corpo paralizzato e muoversi [“…muoverlo sotto la

spinta di una protezione…”], per cui si sbloccano subito. Fatto questo, che serve per il

temporaneo, bisogna poi lavorare sul motivo di fondo che li porta alla conversione.

Il disturbo di conversione si può manifestare con:

1. sintomi o deficit motori;

2. attacchi epilettiformi o convulsioni;

3. sintomi o deficit sensitivi (es., anestesia isterica);

4. sintomatologia mista;

5. disturbo algico.

Nell’ambito dei disturbi di conversione si individuano anche altre patologie che un

tempo erano separate, poiché sono di origine molto diversa. Esse vengono illustrate qui

di seguito.

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Disturbo ipocondriaco

Si riferisce alla convinzione di avere una malattia fisica importante (tumori, malattie del

sangue, AIDS, e così via).

Disturbo dismorfico corporeo

Il soggetto vede il proprio corpo deformato, trasformato. Tale “costruzione propria”

deriva da un disturbo patologico che fa vedere il corpo in una certa maniera, deforme. A

volte arrivano a sottoporsi a interventi chirurgici per eliminare qualche difetto che

diventa fondamentale nella loro vita. Questo è un atteggiamento da scoraggiare, poiché

molto spesso dietro questo problema c’è una situazione psichica compromessa;

eliminando il problema queste persone vanno incontro a problemi psichici importanti.

Cosa succede, in realtà? Una convinzione forte, ben radicata nella mente, serve anche ad

eliminare le oscillazioni, le ambivalenze. Cioè, quando un individuo è ambivalente, è

insicuro: e allora, se vi è una convinzione assoluta, in lui viene eliminato il dubbio.

L’idea forte agisce come “attrattore”; se questo attrattore viene meno il soggetto

precipita nel dubbio e nella insicurezza. La convinzione forte, in questo caso, è quella di

avere un difetto corporeo. Se andiamo a eliminare il difetto corporeo, eliminiamo anche

la convinzione forte, che può darsi sia l’unica cosa che serva a mantenere integro il

resto della mente.

Il disturbo di dismorfismo corporeo si ha anche nelle anoressiche le quali si trovano a

descrivere, specialmente quando sono sole, il loro corpo in maniera del tutto irreale.

Disturbi fittizi

Detta anche “sindrome di Munchausen”, si tratta di condizioni per cui la persona ha la

necessità assoluta di essere considerata malata. La simulazione non avviene per

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vantaggio economico (ad es., per una pensione d’invalidità), ma solo per il bisogno

assoluto di far credere alla gente di essere ammalati. Sono bravissimi, tanto che se uno

non ci sta attento rischia di operarli; a volte sono veri e propri “collezionisti di

operazioni”. Riescono molto bene a ingannare i medici, perché fanno un lavoro molto

accurato, si documentano per bene e simulano. Possono simulare anche malattie

psichiatriche.

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Disturbi dissociativi

Sono un gruppo di fenomeni caratterizzati da un deficit del normale processo di

integrazione delle funzioni mentali, coscienza, memoria e identità. La funzione della

dissociazione è quella di proteggere il soggetto dall’angoscia connessa ad eventi della

realtà esterna o da impulsi disturbanti della realtà interna. La dissociazione così intesa è

diversa dalla dissociazione propria della schizofrenia, dove essa indica un processo di

profonda destrutturazione dell’intera personalità e dell’insieme delle sue funzioni

psichiche.

Amnesia dissociativa

E’ una perdita di memoria di tipo funzionale, senza una base anatomica (come invece

accade, ad es., nel morbo di Alzheimer).

Questi soggetti possono dimenticare alcuni episodi della loro vita, oppure tutta la loro

vita, mantenendo però le capacità apprese (ad es., leggere). Ci sono persone che dopo

l’amnesia si sono rifatte una vita completamente diversa. Il recupero di questi pazienti è

possibile, ma è solo parziale, e comunque ha bisogno di tempi lunghi.

Disturbi di depersonalizzazione

E’ il più frequente fenomeno dissociativo. Il paziente si sente osservatore di se stesso.

Manca “il calore del corpo” perché manca il fenomeno dell’unicità; si diventa “freddi

osservatori” e ci si sente come separati da se stessi, la realtà appare distante.

Esiste una depersonalizzazione rispetto a se stessi ed una rispetto alla realtà.

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Disturbo dissociativo dell’identità – Disturbo da personalità multipla

In questo disturbo in una persona convivono più identità che non si conoscono fra di

loro. Il prof. De Giacomo racconta: “Una volta ho curato una ragazza che in alcuni

periodi diventava come una bambina piccola, parlando, muovendosi e comportandosi in

modo incosciente, ad esempio scagliando oggetti. Fu curata dicendo ai genitori di

imitare il comportamento della ragazza durante la crisi; poi la ragazza doveva imitare se

stessa, nonostante non ricordasse niente, e così guarì”.

La storia dei disturbi da personalità multipla origina dal caso di una donna che accudiva

la madre ammalata che, prima di morire, cadde dal letto e fu da questa aiutata. Questo

episodio angoscioso fu dalla donna dimenticato, salvo rivivere in alcuni momenti quella

scena, rifacendo gli stesi gesti. La dissociazione è come una coscienza che si è staccata

dall’altra. Famoso è il caso di Anna O. raccontato da Freud.

Fuga dissociativa

I pazienti prendono il treno, vanno via, come una parte di sé si staccasse dal resto;

quando si riprendono è come se si risvegliassero, e tornano a casa.

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Disturbi di personalità

Si intende con questi specificare un certo modo di essere, cioè un qualcosa che è una

caratteristica dell’individuo, non una malattia. Si tratta di un qualcosa che è continuo

nella vita del soggetto; in questi disturbi vediamo elencate tutte le caratteristiche

dell’umanità. La normalità sarebbe l’equilibrio tra tutte queste situazioni. Naturalmente

ognuno di noi tende verso uno particolare di questi aspetti.

Disturbo paranoide

I pazienti non hanno un delirio vero e proprio, ma dei piccoli deliri (deliroidi), che gli

fanno vedere il mondo contro di loro.

Disturbo schizoide

Si tratta di persone ritirate nel loro mondo.

Disturbo schizotipico

Tipi bizzarri, che pensano alla magia, alla fattura, in modo esagerato. Hanno in minus le

caratteristiche della schizofrenia.

Disturbo antisociale

Criminali per tendenza che non provano alcun pentimento. Uccidono senza scrupolo e

nelle bande diventano i capi o, meglio, i killer.

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Disturbo borderline di personalità

Caratterizzato dalla grande variabilità anche nel giro di poche ore. Questi soggetti sono,

in minus, manico-depressivi. La loro caratteristica è l’incostanza. Anche la

considerazione che hanno di sé cambia nel tempo.

Disturbo istrionico

Vedono la vita come un palcoscenico, vivono per gli altri. Sono attori e mancano di

genuinità; stanno attenti a chi sta loro di fronte assumendo gli atteggiamenti secondo

loro richiesti dal momento.

Disturbo narcisistico

Vivono in funzione di una loro immagine ad alto livello (si vedono molto belli, molto

bravi, molto capaci) e organizzano la vita in modo da avere conferma del loro modo di

essere.

Non riescono ad amare, e gli altri esistono solo per una propria gratificazione.

Se, ad esempio, parlando con un altro, questo dà segno di annoiarsi, vanno in crisi,

poiché si accorgono di non riuscire a mantenere una immagine di alto livello, e a volte

possono anche tentare il suicidio. La cura si basa sulla terapia familiare.

Disturbo evitante di personalità

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Si tratta di grandi timidi, che evitano i contatti interpersonali per paura di subire

frustrazioni.

Disturbo dipendente di personalità

Sono i gregari, i sottomessi; persone che non hanno una capacità di iniziativa, e che

vivono in funzione dei capi.

Disturbo ossessivo-compulsivo

Rigidità di pensiero. E’ un disturbo più leggero del precedente [?]; c’è la tendenza a

mantenere la propria scrupolosità e, secondo Freud, sono avari. Lo psichiatra li

riconosce subito perché questi soggetti parlano in modo monotono, ed è seccante sentirli

parlare. Essi devono mantenere i loro programmi ed è inutile interromperli, anche

perché facendo così non si fa altro che contrariarli.

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Disturbi della sessualità

Si distinguono in disfunzioni sessuali e parafilie.

L’atto sessuale viene distinto in diverse fasi:

1. Desiderio; è caratterizzato dal fatto di voler praticare l’attività sessuale e dalle

fantasie sessuali;

2. Eccitazione; consiste in un soggettivo senso di piacere sessuale e nei cambiamenti

fisiologici associati (erezione del pene, lubrificazione e congestione dei genitali

esterni femminili);

3. Orgasmo; consiste in un picco di piacere sessuale che si accompagna

all’eiaculazione nel maschio, e alla contrazione dei muscoli pelvici perivaginali

nella donna;

4. Risoluzione; questa fase comprende un senso di rilassamento generale, di benessere

e di rilassamento muscolare. Durante questa fase gli uomini sono refrattari

all’orgasmo, mentre le donne possono avere orgasmi multipli senza un periodo

refrattario.

Disfunzioni sessuali

Le disfunzioni sessuali sono caratterizzate da un disturbo nei processi che costituiscono

il ciclo di risposta sessuale oppure da dolore nell’atto sessuale; si classificano in:

1. Ia classe = disturbi del desiderio, a loro volta classificati in disturbi del desiderio

ipoattivo (molto spesso la causa è la depressione) e in disturbi da avversione

sessuale;

2. IIa classe = disturbi dell’eccitazione, che comprendono i disturbi dell’eccitazione

sessuale maschile e quelli dell’eccitazione sessuale femminile;

3. IIIa classe = disturbi dell’orgasmo, ripartiti in disturbi dell’orgasmo maschile e

femminile e eiaculazione precoce;

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4. IVa classe = disturbi da dolore sessuale, classificati i disturbi da dolore sessuale e

vaginismo;

5. Va classe = disturbi sessuali dovuti a condizioni mediche generali; molti farmaci

prevedono una condizione di questo genere, come ANAFRANIL (clorimipramina).

Tutti questi disturbi sono curati abbastanza bene facendo lavoro di coppia mediante

terapia comportamentale senza ricorrere ai farmaci. Più difficili da trattare sono i

disturbi dell’eccitazione e dell’erezione.

Nel disturbo da desiderio sessuale ipoattivo le fantasie sessuali e il desiderio dell’attività

sessuale sono persistentemente o ricorrentemente carenti, se non del tutto assenti.

Nel disturbo da avversione sessuale vi è persistente o ricorrente estrema avversione ed

evitamento di tutti (o quasi tutti) i contatti sessuali genitali con il partner sessuale.

La prima condizione è più comune della seconda. Si stima che il 20% della popolazione

abbia un disturbo da desiderio sessuale ipoattivo. L’affezione è più comune tra le donne.

Il desiderio dipende da numerosi fattori quali: condotta biologica, adeguata autostima,

precedenti esperienze con il sesso, la disponibilità di un partner appropriato, buoni

rapporti con il proprio partner in campi non sessuali. Il deterioramento di uno qualsiasi

di questi fattori può risultare in una diminuzione del desiderio.

I pazienti con problemi di desiderio spesso usano l’inibizione del desiderio come difesa

per proteggersi dalle paure inconsce del sesso. Non tralasciamo di ricordare che la

mancanza di desiderio può conseguire ad una depressione, e dunque i disturbi del

desiderio vanno sempre affrontati dallo psichiatra.

Il disturbo dell’eccitazione sessuale maschile consiste in un disturbo dell’erezione,

caratterizzato dall’incapacità ricorrente o persistente, parziale o completa, di

raggiungere o mantenere un’erezione fino al completamento dell’atto sessuale;

rappresenta il 55% dei disturbi sessuali maschili.

Il disturbo dell’eccitazione sessuale femminile consiste nell’incapacità persistente o

ricorrente, parziale o completa, di raggiungere o mantenere la risposta “lubrificazione-

turgore” dell’eccitazione sessuale fino al completamento dell’atto.

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Questi disturbi – così come le altre disfunzioni sessuali - possono essere curati con una

terapia comportamentale per la quale non bisogna avere remore morali, in quanto si

tratta di atti terapeutici.

Nel maschio l’impotenza potrebbe dipendere dal considerare e limitare la sessualità ai

soli organi genitali; in realtà numerose reazioni neurovegetative, quali l’aumento della

frequenza cardiaca, l’iperpnea, la sudorazione, testimoniano che l’atto sessuale è

compiuto con tutto il corpo, e con tutta la mente, che è focalizzata sul rapporto. Dunque

è importante che i soggetti impotenti mutino concezione della sessualità attraverso degli

esercizi, detti “di focalizzazione primaria e secondaria”, dove per “focalizzazione” si

intende “concentrare l’attenzione”:

1. I due partner devono carezzarsi reciprocamente su tutto il corpo e in tutte le

maniere, concentrandosi sulle sensazioni provate; all’inizio non bisogna includere i

genitali;

2. Quando l’uomo ha “imparato” ad avere un’erezione completa potrà avvenire una

copula, anch’essa finalizzata al riconoscimento delle sensazioni provocate;

3. Le posizioni che i partner avranno sono, in sequenza: donna a cavalcioni, posizione

laterale, uomo sopra/donna sotto.

La prevalenza del disturbo dell’eccitazione nella donna è sottistimata; spesso a questo si

associa anche un disturbo dell’orgasmo (anorgasmnia). Questo disturbo dipende da una

particolare concezione psicologica del rapporto: in queste donne manca il collegamento

tra psiche e organi genitali, in più il maschio è considerato come un “prepotente”; si

tratta di due blocchi psicologici che bisogna vincere. La donna dovrà:

1. Guardare i propri genitali allo specchio;

2. Stimolare il clitoride;

3. Masturbarsi di fronte al partner;

4. Le posizioni che i partner avranno sono, in sequenza: donna a cavalcioni, posizione

laterale, uomo sopra/donna sotto.

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Il disturbo dell’orgasmo femminile consiste in un persistente o ricorrente ritardo o

assenza dell’orgasmo dopo una fase di eccitazione sessuale normale. Per vincere le

difficoltà nell’orgasmo femminile, la donna interessata farà degli esercizi finalizzati

all’esercizio dei muscoli interessati all’orgasmo; tali esercizi consistono nel trattenere

l’urina, rilasciarla e poi di nuovo trattenerla, sempre a cavalcioni del partner.

L’eiaculazione precoce, che costituisce il 45% dei disturbi sessuali maschili, è una

persistente o ricorrente eiaculazione a seguito di minima stimolazione sessuale prima,

durante o poco dopo la penetrazione, e prima che il soggetto lo desideri. Tale disturbo in

questi soggetti si realizza perché è come se fossero sopraffatti dalla bellezza della

partner.

In questi casi bisogna agire con esercizi che consentano a queste persone di imparare a

controllare l’eiaculazione stessa:

1. La donna masturberà l’uomo fermandosi quando questo sta per eiaculare; quindi la

pratica viene ripresa fino al segnale successivo, e così via;

2. Successivamente potranno essere utilizzati lubrificanti che simulino il liquido

vaginale;

3. Le posizioni vengono variate secondo il già detto schema; la donna “si ferma” prima

dell’eiaculazione del partner.

Il vaginismo è un persistente o ricorrente spasmo involontario della muscolatura del

terzo esterno della vagina, che interferisce con il rapporto sessuale interferendo con la

penetrazione del pene.

Si tratta di donne che hanno paura del sesso e della penetrazione; vi è un rapporto

conflittuale di opposizione verso il sesso. Il pene può essere visto come un’arma ed è

spesso associato al peccato. Anche in questo caso è possibile una terapia

comportamentale:

1. La donna guarda allo specchio i propri genitali;

2. La donna si masturberà usando prima un dito, quindi due, poi tre;

3. La donna si farà poi masturbare dal partner;

4. A questo punto può iniziare una graduale penetrazione.

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Si vede bene che per tutti questi problemi è fondamentale l’approccio relazionale; senza

questo tipo di approccio le situazioni non si sbloccano. Quindi la collaborazione tra i

due partner, la concordia e l’amore sono importantissime. In caso contrario il sesso può

essere vissuto come uno strumento da utilizzare contro l’altro.

Parafilie

Le parafilie sono disturbi che derivano da una “deviazione dall’oggetto di attrazione”, e

contemplano esisbizionismo, feticismo, froutterismo, pedofilia, masochismo sessuale,

sadismo, feticismo di travestimento, voyeurismo, altri disturbi non altrimenti specificati.

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Disturbi da controllo degli impulsi

I soggetti fanno cose estranee alla loro mentalità e che non vorrebbero mai fare. Tra

queste:

1. Esplosioni di collera, in cui fanno del male anche a chi hanno a cuore;

2. Cleptomania; è ricordato il caso di una signora che ogni giorno rubava 50mila lire

dalla cassa di un supermercato. Un giorno fu scoperta e, ammettendo la

involontarietà del fatto, ha restituito tutti i soldi, anche perché li aveva messi tutti da

parte senza spenderli;

3. Piromania; si tratta di persone che danno fuoco a diverse cose e restano sul luogo in

cui hanno appiccato il fuoco;

4. Gioco d’azzardo patologico. I giocatori sono dei perdenti per definizione, come gli

alcolisti, poiché vogliono sfidare il “Dio” gioco, e non riescono a resistere,

nonostante mandino in rovina la loro famiglia;

5. Tricotillomania; consiste nello strapparsi i capelli. Colpisce soprattutto le donne, che

diventano molto brutte, provocandosi chiazze d’alopecia oppure anche alopecia

totale. La paziente, prima di uscire ha bisogno di molto tempo per prepararsi. Con la

terapia si ottengono buoni risultati;

6. Spendere soldi. C’è un quadro clinico in cui la gente si sente costretta a spendere

soldi, senza in realtà fare mai uso di ciò che compreranno. La terapia è condotta con

gli SSRI. Si tratta come se fosse un disturbo ossessivo, così come molti dei disturbi

visti in precedenza.

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Disturbi del sonno

Si distinguono disturbi primari (dissonnie e parasonnie) e disturbi del sonno collegati a

malattie mentali.

Dissonnie

Le dissonnie sono disturbi dell’inizio e del mantenimento del sonno. Esse si classificano

in:

1. Insonnia primaria;

2. Ipersonnia primaria;

3. Narcolessia, in cui il soggetto perde la forza muscolare. Il paziente dorme con il

corpo e non con la mente. Spesso ci può essere una cataplessia, cioè una caduta a

terra improvvisa, per perdita del tono muscolare;

4. Disturbi del sonno correlati alla respirazione, che colpiscono soprattutto gli obesi, il

cui respiro è pesante e affannoso;

5. Disturbi del ritmo circadiano del sonno; i soggetti invertono il ritmo del sonno, cioè

dormono di giorno e son desti di notte. E’ un quadro frequentissimo. Che si fa?

Quando si presenta un paziente che dice di essere insonne in realtà ha un’alterazione

del ritmo circadiano. Consigliamo durante il giorno di non avere i microsonni

diurni, e si prescrivono pesanti privazioni di sonno, oppure si prescrive di andare a

letto a mezzanotte fino alle 6 del mattino, poi si sta svegli fino a mezzanotte e così

via fino al terzo giorno. Dal quarto giorno aumentiamo il sonno di un’ora e così via.

In casi di insonnia forte si prescrive una privazione totale di sonno, ed è un metodo

efficace.

6. Altre dissonnie non altrimenti specificate.

Parasonnie

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Le parasonnie sono fenomeni indesiderati che si verificano durante il sonno. Esse sono:

1. Disturbi da incubi. Se un soggetto dorme di più, aumentano gli incubi, e aumenta la

veglia seguente per recuperare le ore di sonno in eccesso. Ci sono diverse tecniche

per curare gli incubi tra cui quella di svegliare il soggetto alla fase REM;

2. Disturbi da terrore nel sonno. Colpisce soprattutto l’infanzia, e i bambini che ne

sono colpito non sono coscienti di ciò [cioè del terrore durante il sonno];

3. Disturbi da sonnambulismo. I soggetti si possono risvegliare, anzi conviene, per

evitare eventuali incidenti;

4. Parasonnie non altrimenti specificate.

Disturbi correlati a patologie mentali

Ci sono disturbi del sonno negli stati di eccitamento maniacale, nella depressione; e non

c’è solo insonnia ma, più raramente, anche ipersonnia. Comunque questi disturbi del

sonno si curano tutti bene, così come i primari.

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Disturbi dell’adattamento

Per capire questi disturbi bisogna considerare che tutti quanti vanno incontro a grossi

problemi (ad es., lutti, o licenziamenti), tutti soffrono, ma in realtà poi si trova la

capacità di recupero e si ritorna “normali” entro 3-4 mesi. Una reazione invece è

patologica quando dura più di 8 mesi. In verità non sono proprio quadri di patologia

franca, ma piuttosto degli “aspetti”:

1. depressione;

2. ansia;

3. ansia-depressione;

4. alterazione della condotta;

5. alterazione mista di condotta ed emotività.

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Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica

Fattori psicologici che influenzano una condizione medica

Il 30% dei soggetti infartuati ha avuto in precedenza la depressione.

Disturbi iatrogeni

1. Parkinsonismo. I neurolettici provocano sindromi parkinsoniane con rigidità

corporea, atteggiamento camptocormico; i pazienti camminano in avanti,

lentamente. I neurolettici agiscono nel sistema nigrostriatale, che è compromesso

nel Parkinson; si tratta di un “Parkinson artificiale”.

2. Sindrome maligna da neurolettici. Si tratta di una condizione molto grave; se i

pazienti non sono curati in tempo ne muoiono. Attenzione se compare febbre:

potrebbe trattarsi di un’influenza, ma anche di una reazione ai neurolettici. Il

paziente è rigido, sudato e mostra una grave situazione tossica.

3. Distonia acuta indotta da neurolettici. I pazienti vanno incontro a disturbi a tipo

coreico, atassico. Mostrano contorsioni corporee con quadri anche molto

drammatici. In questi casi si somministrano antiparkinsoniani, e la distonia

scompare rapidamente. Per evitare fenomeni distonici si somminitrano neurolettici e

antiparkinsoniani.

4. Acatisia. Il paziente ha come l’esigenza di muoversi continuamente, non può farne a

meno, non può stare fermo e questo è un effetto farmacologico dei neurolettici.

5. Discinesia tardiva. I pazienti presentano una ipercinesia quasi ignorabile quando

togliamo il farmaco. Spesso si tratta di movimenti della bocca e più in generale del

viso. Se sospendiamo subito il farmaco c’è qualche posibilità di evitare queste

manifestazioni, altrimenti no.

6. Tremore posturale. Cioè un tremore che si realizza in determinate posture.

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Gli effetti tossici dei neurolettici non sono ugualmente marcati per tutti i farmaci. Tra

SERENASE (aloperidolo) e LARGACTIL (clorpromazina), quest’ultimo è più

tranquillo ai fini degli effetti tossici.

Problemi relazionali

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Psicoterapia e modelli della mente

Scala a zig-zag

Quando viene condotta una psicoterapia ci si muove entro una situazione ove vige una

gerarchia, chiamata da Bateson “scala a zig-zag forma/processo”. Per esemplificare

questo concetto, si pensi alla situazione per cui si vedono dei piedi che si muovono;

guardano bene il movimento si nota che si tratta di una danza. Guardando ancora meglio

notiamo che ci sono accanto altri piedi che si muovono similmente; dunque si tratta non

più di una danza ma di una coreografia. Gli elementi inizialmente osservati (i piedi)

sono passati via via ad essere classificati secondo un’ottica sempre superiore. Dalla

descrizione degli alimenti (piedi) si passa ad una loro “costruzione”, classificando tali

elementi secondo certi “contenitori” (danza – coreografia), certe “categorie”, un

qualcosa cioè di superiore. Quindi si valuta l’interazione che hanno tra loro tali elementi

così classificati, e si scopre che si può ancora classificare ulteriormente le interazioni di

tali elementi, e così via. Idealmente si può visualizzare questo processo conoscitivo

come una linea a zig-zag.

Quanto appena accennato è quello che succede quando vogliamo conoscere il

funzionamento della mente. Nelle interazioni, infatti, ci sono degli elementi che

vengono scambiati, ma ci sono anche i “contenitori” di questi elementi, un qualcosa

cioè che è a livello superiore rispetto ad essi. Gli “elementi della relazione” hanno

quindi un “contenitore”, una “categoria”, entro cui possono essere posizionati. Quando

questo accade, l’elemento più importante diviene il contenitore stesso; il contenitore va

in primo piano (diviene “figura”), mentre i suoi elementi passano in secondo piano

(divengono “sfondo”; i rapporti “figura”-“sfondo” sono il fondamento della psicologia

della Gestalt). Abbiamo ottenuto così diversi contenitori. Ora, il passo successivo è

considerare l’organizzazione di tali contenitori. Attraverso la conoscenza di queste

“organizzazioni di sequenze di contenitori” siamo passati ad un secondo livello di

conoscenza nella scala forma-processo, e questo ci consente di riconoscere i vari pattern

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mentali, le varie “configurazioni”, le varie “disposizioni” della mente, dei suoi elementi,

strutturati in contenitori.

In realtà si tratta di un concetto semplice e facilmente applicabile [!]. La nostra mente è

come il tempo; certe volte nevica, altre volte c’è il sole. Cioè, ci sono molte possibilità

di cambiamento: la mente cambia spesso modalità di costruzione. Si può dire che

siccome la nostra mente non conosce a priori la realtà ognuno vede la realtà a modo suo,

ognuno vede la realtà con gli strumenti che ha a disposizione. Ciò è all’origine, ad

esempio, di tante incomprensioni.

La nostra realtà è formata da dieci costruzioni mentali. Se non ci rivolgiamo a noi stessi

vediamo:

1. Costruzione Tragedia Grande (CTG): la nostra mente pensa a fatti angosciosi, con

molta intensità, e per cui non si vede possibilità di uscita, oppure a grandi errori

commessi; tutti quanti possono subire momenti di questo genere;

2. Costruzione Tragedia Media (CTM): è uguale alla CTG, ma con minore intensità;

3. Costruzione Tragedia Piccola (CTP): ce ne capitano continuamente; ha un grado di

intensità basso e molto più tollerabile delle prime;

4. Costruzione Commedia Molto Divertente (CMD): fatti simpatici che ci fanno ridere,

che ci mettono di buonumore;

5. Costruzione Commedia Moderatamente Divertente (CD): situazioni divertenti, ma

non tanto da farci ridere a crepapelle;

6. Costruzione Commedia Poco Divertente (CPD): situazioni appena gratificanti, che

ci fanno ridere poco;

7. Costruzione Operativa (CO): quando la mente è impegnata a svolgere determinati

compiti;

8. Costruzione Trionfo (CT): corrisponde a quando ci sentiamo molto bravi, molto

orgogliosi di noi stessi, invincibili, con un momenti di gloria del nostro Io;

9. Costruzione Ricordi Mentali del Passato (CMP): quando ricordiamo qualcosa che

non si configura né come tragedia né come commedia;

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10. Costruzione Sogni per il Futuro (CF): sogni ad occhi aperti, fantasie, aspirazioni. Si

pensa a ciò che si vorrebbe accadesse nella propria vita.

Ritornando allo schema di Bateson, queste dieci costruzioni sono dieci contenitori,

riconoscono in essi i molteplici elementi mentali entro cui possono essere classificati; è

possibile descrivere una loro classificazione in base a come queste costruzioni si

succedono l’una all’altra.

De Giacomo ha pensato che “questo discorso dei contenitori” poteva essere brevettato;

ha così creato una ruota, che riprende il Mandala, cioè una figura circolare della

religione orientale: all’esterno di essa ci sono tutte le costruzioni mentali. Questa ruota

scorre su un disco orario. Ciò serve per verificare il proprio stato mentale nelle varie ore

della giornata; segnando opportunamente tale sequenza, è possibile una autoriflessione.

Lo strumento non è valido solo per i pazienti, ma per tutti quanti. Dopo diversi giorni il

soggetto nota che i contenitori si dipsongono con una certa sequenza, cioè si

organizzano secondo certi patterns; ci si conosce meglio, e con il meccanismo di

biofeedback si può creare un auto-cambiamento. Lo strumento mette in comunicazione

la “mente calda” (stati d’animo) con la “mente fredda” (classificazioni) permettendo

una disamina della mente di un soggetto da parte dello stesso soggetto, che è un auto-

osservatore. Si passa così dallo “stato d’animo” alla sua “classificazione” secondo la

scala a zig-zag di cui abbiamo detto. Trovata la strada per far interagire la mente calda

con quella fredda (e quello presentato è uno di questi modi) è possibile modificare la

propria mente. Con ciò è stato presentato uno degli strumenti possibili della

psicoterapia.

Modello Pragmatico Elementare

Il Modello Pragmatico Elementare, inventato dalla scuola barese, prevede l’esistenza di

16 stili di interazione. Allora è possibile collegare ogni stile di relazione con una serie di

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interventi psicoterapeutici. I sedici stili relazionali sono indicati con F (funzione) e poi i

numeri da 0 a 15. Essi sono:

F0 – vuoto, assente;

F1 – partecipante, condivisore;

F2 – solitario, appartato;

F3 – tenace, egocentrico;

F4 – docile, arrendevole;

F5 – altruista che si immedesima;

F6 – misterioso, ambiguo;

F7 – collaborativo, mediatore;

F8 – astratto, imprevedibile;

F9 – condivisore, innovativo;

F10 – ribelle, antagonista;

F11 – prepotente, dittatore;

F12 – doppia faccia, falso altruista;

F13 – altruista, imprevedibile;

F14 – inconcludente, disorganizzato;

F15 – confuso, caotico.

Si è chiesto a diverse persone di classificare se stessi e di porsi entro una di queste 16

categorie, di queste 16 costruzioni, e quindi di indicare quali di questi aggettivi si

avvicinasse di più alla loro essenza. Questo è già qualcosa che modifica la mente poiché

costringe ad entrare nei famosi “contenitori”. Per esempio, qualcuno può definirsi F3 –

tenace, egocentrico, qualcun altro F7 – collaboratore, mediatore, e così via. Poi si può

raffinare la domanda chiedendo di indicare, tra le costruzioni rimanenti, quali aggettivi

posizionerebbero al “secondo” e al “terzo” posto. Si può valutare come cambiano queste

stime nel tempo, o vedere come è previsto il futuro. Si può anche fare un discorso di

tipo interattivo, in cui i singoli elementi della famiglia svolgono il test tra di loro.

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Il MPE è stato utilizzato per trattare diverse patologie. E’ ad esempio il caso di una

donna con disturbo di personalità multipla. Il caso è stato risolto con l’imitazione. Da

parte dei parenti, e poi con l’imitazione dei parenti da parte della paziente. L’imitazione

fa parte, nel MPE, della categoria “entrare nel mondo dell’alro”; questo fa rinforzare il

suo mondo e il soggetto non oscilla più.

Come si fa ad entrare nel mondo degli altri? Si può ad esempio usare il profilo F8 –

astratto, imprevedibile, e parlare “schizofrenese puro”, come quando Ericson, di fronte

ad un paziente dissociato, cominciò a parlare come lui, fintanto che il paziente non

chiese ad Ericson di spiegarsi meglio in quanto non lo capiva quando parlava. La ratio

qual’è? Il segreto è un’alternanza tra “rigor” e “imagination”, cioè porre insieme

elemento molto forti e tautologici (cioè strettamente logici tra loro) ed elementi liberi e

caotici. L’idea sarebbe questa e cioè:

qualcosa che non sta né nel mondo dell’uno né nel mondo dell’altro. Se io uso la stessa

modalità, poiché il paziente non può accettare qualcosa di uguale a sé, rientra in

quest’altra situazione:

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cioè nello schema del mondo suo e dell’altro.

C’è una logica teorica su cui facciamo delle prove e se il risultato è positivo lo

applichiamo in altri campi. Come abbiam fatto per le donne che tornano bambine,

laddove il metodo è risultato positivo, così abbiam fatto in altri casi. Se i pazienti stanno

bene dopo una settimana, questo è dovuto al nostro intervento, mentre un

miglioramento dopo dieci anni chiaramente no. Cioè l’intervento è efficace se ha effetto

a breve termine.

Come si fa a entrare nel mondo di una persona (F5) che, ad esempio, non parla perché

ha un blocco? Si usa il linguaggio del corpo, imitando i movimenti del muto. C’è chi è

bloccato a livello della forma (delirio di percezione), che a livello del processo (non

parla, ma ha movimenti): entrambe queste categorie di soggetti possono essere

raggiunte toccandole.

E’ importante anche la mediazione nella comunicazione (F7). Ad esempio, una moglie

riferiva che il marito non l’accontentava mai, mentre il marito sosteneva esattamente

l’opposto. In realtà il marito le faceva dei regali, però con un atteggiamento di “scarico”

[!], tipo “vuoi la pianta di fiori? Va bene, ti regalo io questa schifezza di pianta!”. A

livello comunicativo si tratta di un gesto percepito come rifiuto perché si ha una

distorsione nella comunicazione.

In questo caso, come trattamento, prima di fare il regalo, il marito doveva baciare la

moglie. Così il regalo non sarebbe più diventato un oggetto “scagliato” contro l’altro.

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La comunicazione è importante anche a proposito degli schizofrenici. Per costoro è

importante vedere i genitori uniti, non solo fisicamente, ma anche, magari,

nell’educazione dei figli. Non devono cioè trasmettere un messaggio contraddittorio. A

questo proposito è stata formulata la teoria del doppio legame (due proposizioni poste a

livello comunicativo differente che sono riferite ad un medesimo atto ma sono

contrastanti fra loro), per cui lo schizofrenico non riesce a classificare ciò che accade

nel mondo, fissandosi sui predicati e non sui soggetti, e questo fa sì che il contesto

fornisca allo schizofrenico delle immagini, degli elementi, che non possono essere

comunicati. E allora, per aiutare queste persone applichiamo i quattro comandamenti:

1. chiudere la porta della camera da letto, poiché se non viene chiusa è un segno di

invischiamento;

2. uscire per tre volte a settimana per una o due ore al giorno mantenendo il segreto ai

figli, così si evita l’invischiamento;

3. dare ordini ai figli in modo netto, come un comando;

4. apparire molto affettuosi in presenza dei figli.

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Ottimizzazione della visita psichiatrica

Una visita psichiatrica dovrebbe comporsi di 4 momenti differenti:

1. inquadramento tradizionale;

2. prescrizione dei farmaci;

3. ricerca del problema da affrontare con terapia interattiva;

4. prescrizione per la psicoterapia interattiva breve.

Quando si esegue una visita psichiatrica non bisogna limitarsi soltanto

all’inquadramento tradizionale e alla prescrizione del farmaco, ma bisogna affrontare il

problema del paziente prescrivendo anche “qualche comportamento”, cioè dei compiti

che il soggetto deve svolgere a casa, oppure un programma da eseguire, delle consegne.

Risulta importante avere, oltre che il paziente, una “squadra” (la famiglia) con cui poter

lavorare; occorre puntare sulla soluzione di un certo problema, trovando soluzioni

originali del problema, soluzioni basate sulla creatività. Per far questo chi imposta la

terapia dovrà lavorare secondo le modalità sia del pensiero convergente sia del pensiero

divergente.

Lavorare sulle relazioni

E’ fondamentale lavorare non soltanto con il paziente ma anche con altre persone;

verranno convocati pertanto o il marito/moglie, oppure la famiglia intera, o le persone

che vivono nella stessa casa. L’approccio è ampliativo sul sistema, bisogna cioè cercare

di vedere molti elementi del sistema.

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Prima della visita

Molto del successo che si può raggiungere avviene prima del contatto con il medico.

Importante è in questo senso il prestigio che il medico interpellato riscuote presso il

paziente o chi gli sta intorno.

Inoltre molto dipende anche dal modo con cui il medico di base manda un paziente

dallo psichiatra: l’invio può essere un semplice suggerimento (“…faresti meglio ad

andare da uno psichiatra…”) oppure un qualcosa di più perentorio (“…vai dal dott. ***;

è l’unico che può risolvere il tuo problema…”); naturalmente questo secondo modo di

fare è molto più incisivo e risolutivo. Tra parentesi, questo dà la possibilità di creare un

“canale preferenziale” verso un certo specialista anziché un altro, cosa che può venire a

crearsi anche quando gli stessi pazienti, parlando tra di loro, si spargono la voce: il

risultato è che lo specialista può trovarsi a ricevere molte persone che provengono tutte

quante da uno stesso quartiere, o da uno stesso paese.

Un errore che commettono molti psichiatri è quello di far prendere gli appuntamenti

dalla segretaria; il primo contatto del malato deve invece essere direttamente con chi lo

curerà.

Fare qualcosa subito – Le mappe terapeutiche

Una volta che lo psichiatra risponde al telefono e parla con il paziente, deve subito

rendersi conto se si tratta di una qualcosa di sua competenza o meno; al paziente va

detto che dovrà presentarsi non da solo ma in compagnia di qualche familiare, e che

dovrà portare la docimentazione sanitaria di precedenti visite. Già da ora il soggetto

viene in confidenza con la voce del medico.

Quando arriva il paziente, che viene “visto” per la prima volta, lo si invita ad

accomodarsi, insieme agli altri familiari eventualmente presenti. Questo “gruppo” di

persone potrà essere dal medico disposto in maniera opportuna, secondo un’approccio

strutturale. Il disporre i vari componenti secondo dei confini fa comprendere ai singoli

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di essere presi in considerazione. E’ possibile modificare l’assetto delle posizioni

occupate dai singoli familiari nel corso della stessa seduta.

Il potere terapeutico

Perché il paziente possa compiere ciò che gli viene imposto dal medico, è chiaro che

quest’ultimo deve avere abbastanza potere da poter essere obbedito. Questo potere si

acquista con il prestigio, con il “savoir-faire”, con la competenza, con il modo giusto di

esprimersi.

Alle prese con una famiglia dubbiosa, ad esempio, si potrà chiedere se sia disposta a

fare “qualsiasi cosa” per risolvere il problema. Questa modalità è chiamata “patto con il

diavolo”, e risolve già il 50% del problema. Nel caso in cui questo impegno a far

qualsiasi cosa non viene rispettato, si può adottare la tecnica della “scatola vuota”: il

medico confida alla famiglia che egli sa cosa deve fare, però ha bisogno di una

“maturazione” da parte della famiglia, di un piccolo contributo. In questo caso la

soluzione del problema, che secondo la famiglia non c’è, viene presentata come

effettivamente esistente dal medico. La famiglia collaborerà con grande partecipazione.

Il successo della terapia va sempre ottenuto in presenza della famiglia. In tal modo si va

a rompere la regola che mantiene il disturbo, dato che questo è sempre mantenuto da

una certa organizzazione della famiglia. Se la famiglia vede che il paziente ha superato

il disturbo, essa stessa lo supera.

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Centrare il problema

Per poter aiutare la famiglia nell’immediato si possono fare alcune cose. Ad esempio,

aiutare un paziente a fare qualcosa che prima non riusciva a fare; questo, se riesce, fa

acquistare al medico un grande prestigio. Ad esempio, i pazienti fobici che non riescono

ad ingoiare le pillole chiedono al medico di non prescrivergli mai pillole; se a questi

pazienti si riesce a far ingoiare le pillole in presenza del medico, si è già fatto un

grandissimo passo avanti. Similmente si può dire a proposito delle anoressiche, oppure

– questo è interessante – con le atassie psichiche. In quest’ultimo caso si può far mettere

queste persone in piedi sulla scrivania [?], ad occhi chiusi, su un piede: se riescono a

stare in piedi non potranno più dire a se stessi di non essere capaci.

Bisogna anche considerare che ad un disturbo corrisponde sempre una risposta. Ad

esempio, nel disturbo ossessivo si può porre al paziente la domanda: “l’hai fatto

abbastanza?”. In tal modo si smuove l’ansia del paziente e lo si tranquillizza. Bisogna

cioè andare incontro al paziente ed evitare di dirgli qualcosa che già gli han detto tutti

(ad esempio, dare un rimprovero). Solo attualizzando il trauma del passato si riesce a

superare il problema.

La crisi durante la visita

Ha importanza chiedere al paziente di “avere una crisi” durante la visita: il medico potrà

meglio valutare cosa succede durante una crisi. Spesso, però, a seguito di questa

richiesta (“stare male al massimo”), il paziente non sta più male perché si rilassa. Se c’è

una ricaduta, si può utilizzare la tecnica della “scatola vuota” vista in precedenza.

Non colpevolizzare

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I pazienti psichiatrici non vanno considerati come pezzi di una catena di montaggio, ma

singolarmente: ognuno ha un problema diverso dall’altro. Non bisogna colpevolizzare

né il paziente né i parenti.

Purtroppo alla base di ogni nostro modo di pensare c’è sempre una filosofia; i terapisti

familiari di matrice cattolica, per esempio, o di matrice ebrea, fanno emergere l’idea del

peccato, che diventa poi colpa ed espiazione. La famiglia entra così in un circolo

vizioso che non è di sicuro terapeutico.

Bisogna evitare di intrappolarsi nei canali usuali, perché non funzionano. Ad esempio,

nel caso di un padre che non si interessa del figlio, il problema non va risolto accusando

il padre, ma ordinandogli di abbracciare il figlio. Si salta la colpevolizzazione e si

capovolge in positivo la situazione. Si deve, dunque, fornire una soluzione originale del

problema.

Mantenere la terapia

Bisogna stare attenti a non cambiare facilmente il farmaco; sappiamo che un farmaco

difficilmente funziona prima di un mese. Se il paziente telefona pretendendo un altro

farmaco, bisogna suggerirgli di attendere. Può anche verificarsi che il paziente dica di

stare male: in tal caso il farmaco non va cambiato da subito, perché potrebbe trattarsi di

un attacco d’ansia. In questi casi bisogna dire al paziente di assumere il farmaco e di

recarsi subito dopo allo studio per un controllo diretto. La visita li rassicura ed essi

stanno bene. Mantenere la terapia è di per sé un atto terapeutico perché rassicura il

paziente sulla preparazione del medico.

Incoraggiare all’esposizione

Spesso ai pazienti bisogna dire che la paura continua a salire, fino a che arriva ad un

picco e comincia a scendere. Ed è la verità, perché la paura non sale all’infinito. Questo

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va detto al paziente, perché così si dà la consapevolezza che la paura finisce; è un passo

avanti.

Quindi queste persone vanno incoraggiate all’esposizione a ciò che induce l’ansia con

questa constatazione scientifica: se loro, piuttosto che ritirarsi, affrontano, superano il

problema. I pazienti commettono l’errore di pensare di conoscere la loro mente: spesso

è preferibile farli agire piuttosto che parlare.

Entrare nel mondo del paziente

Il segreto per aiutare il paziente è quello di entrare nel suo mondo, cercare di capirlo.

Più lo psichiatra domanda, più il paziente si ritira in sé stesso. Bisogna fornire al

paziente una motivazione per dargli i farmaci. Occorre che il paziente senta il medico

come dalla sua parte, per evitare che lo percepisca come un elemento di un complotto;

al paziente si dice che è diventato più sensibile.

Se il paziente avverte che la sua mente non è libera ma è influenzata da altre persone (è

il caso della schizofrenia), bisogna innalzare la soglia della “sensibilità” con i farmaci;

ovviamente si parla di sensibilità alla realtà.

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Le risorse dei pazienti

Occorre trasmettere al paziente la capacità di premunirsi di costruzioni mentali che lo

possano aiutare. Un paziente una volta ha riferito che si curava da solo ponendosi

davanti ad uno specchio e adulandosi; ciò lo faceva star bene, ma poi si rendeva conto

che andava incontro a depressione. Per cui egli capì che non doveva adularsi davanti

allo specchio. Quando il paziente confida una certa tecnica per curarsi questa va

ricordata, perché poi si potrà usarla con altri soggetti.

In più, bisogna tener conto delle frasi che rimangono impresse al paziente. Se un

paziente ritorna dopo molti anni e dice di ricordare una certa frase che gli si era detta

molto tempo prima, significa che quelle parole gli sono state utili a riorganizzare la

mente; se a due persone che litigano si dice che hanno avuto un rapporto sessuale, la

questione è trasformata dal punto di vista della coppia, e questo li aiuta.

Le depresse fanno “i figli buoni”, perché sono persone molto serie, quasi schiacciate

dalla loro serietà: esse si impediscono tutto [?].

Pensiero Zen

Lo Zen è simile al buddismo, ma è privato della componente religiosa; aiuta ad aprire

gli orizzonti della mente. Un aspetto di questa teoria è che la sofferenza scaturisce da un

modello teorico della realtà e di quello che si è. Ad esempio, se una persona si sente

inadeguata, è perché non ha come referente sé stessa ma un “quadro dipinto” di sé

stessa. Questa persona si lamenterà del fatto che in alcune circostanze dovrebbe

comportarsi diversamente da come di fatto si comporta; cioè si relaziona in base non a

ciò che è, ma a ciò che dovrebbe essere.

La guarigione

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Il paziente può star meglio e superare il sintomo, ma questo non significa che sia

soddisfatto. Se i pazienti ritornano, è utile ricordargli quelli che sono stati i loro

problemi e vedere se sono stati di fatto superati. Questo li sorprende, ma li incoraggia

anche, poiché essi comprendono che i problemi hanno un inizio ma possono avere

anche una fine.

Ci sono pazienti che hanno in sé la predisposizione per guarire, e, al contario, pazienti

che non vogliono guarire. Altri pazienti guariscono per fare un dispetto al terapeuta.

Altre volte i pazienti non ritornano per problemi economici. Questo aspetto del rapporto

va messo bene in chiaro dal principio.

Gelosia

Si presenteranno molti casi di persone gelose. Questa gelosia può essere anche

patologica, nel senso che si tratta di una gelosia presunta, senza nessun fondamento.

Può essere anche una gelosia delirante; esiste infatti la gelosia paranoica: in queste

persone la gelosia è completamente immotivata e con una rigidità, cioè con una

certezza, che rende molto problematico lavorare con queste persone.

In questi casi il trattamento qual è? Il trattamento è quello che si usa quando ci sono dei

deliri, cioè i neurolettici come SERENASE (aloperidolo), RISPERDAL (risperidone),

farmaco quest’ultimo oggi molto usato. E’ dunque possibile dare un neurolettico, ma

bisogna ricordare che, essendo necessario procedere sempre per una doppia linea,

biologica e psicologica, è indispensabile fare un intervento psicologico.

Per esempio, si chiede all’elemento geloso della coppia se è disposto a perdonare, nel

suo mondo, il tradimento del coniuge, anche se il tradimento non è stato mai confessato.

E poi si chiede all’altro do accettare il perdono per qualcosa che non si è commesso.

Delirio persecutorio

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Il più comune delirio che si può incontrare è il delirio persecutorio: la persona si sente

perseguitata, sente che “ce l’hanno con lui”, vogliono il suo male, lo vogliono uccidere,

lo vogliono danneggiare.

Cosa si fa in questi casi? Per prima cosa si fa la diagnosi, che è schizofrenia paranoidea

– delirio persecutorio. Segue lo stilamento della ricetta medica: neurolettici,

SERENASE (aloperidolo), RISPERDAL (risperidone), eventualmente LARGACTIL

(clorpromazina), ed altri, ce ne sono molti. Quando c’è il delirio quasi sempre ci vuole il

neurolettico, eccetto che nei deliri depressivi, nei quali spesso è necessario

l’antidepressivo. Non si dà cioè il neurolettico soltanto ma associato all’antidepressivo:

dando solo il neurolettico la depressione peggiora, c’è un effetto negativo iatrogeno.

Oltre alla ricetta medica, cosa dobbiamo fare? Seguendo il MPE (Modello Pragmatico

Elementare), bisogna “andare verso il mondo del paziente”, ampliando. Il paziente ci

presenta una certa costruzione mentale, che noi sappiamo essere falsa; però se noi

diciamo al paziente che sta dicendo un sacco di sciocchezze è la fine. Il paziente

peggiora, il medico viene incluso nel delirio, entra a far parte della schiera dei

persecutori. Invece bisogna accettare il mondo del paziente, andare verso di esso,

eventualmente anche ampliando un pochettino.

Nel caso di un paziente con delirio persecutorio bisogna “ampliare”. Che significa

ampliare? Ad esempio, si può chiedere al paziente:

1. Quali sono gli aspetti della tua persecuzione?

2. Chi è il capo del complotto?

3. Puoi darmi informazioni molto precise su costui, i suoi contatti, le sue abitudini, il

suo lavoro, e così via?

Lo psichiatra dovrà inviare al paziente un messaggio implicito, che lo aiuterà e che

influenzerà la persona chiave in una direzione favorevole, perché faccia cessare il

problema. Si può chiedere al paziente: “Chi è che ti fa del male? Dimmi nome e

cognome! Dove abitano? Da chi possono essere influenzate? Sono vicine a qualche

partito?”. Questo significa ampliare.

Facendo le domande al paziente implicitamente gli diciamo che proveremo ad

influenzare il persecutore positivamente verso di lui. Quindi, non soltanto bisogna

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entrare nel suo mondo, ma bisogna anche dare la sensazione di aiutarlo concretamente.

Più si spinge in questa direzione e più tali soggetti tendono ad uscire dal delirio, con

un’azione esattamente contraria a quello che il medico si sforza di fare.

Possiamo ricordare un caso di delirio persecutorio. Un soggetto aveva visto delle

automobili con targa NA (Napoli), e aveva pensato di essere perseguitato dai camorristi;

in più, era stato lasciato dalla propria donna, che era entrata a far parte dei persecutori,

coi quali era d’accordo (l’orologio di lei poteva in realtà essere una rice-trasmittente,

grazie alla quale la gente poteva sapere le cose dette a lei).

Di fronte ad un caso del genere, sono in verità possibili due atteggiamenti:

1. di fronte al paziente che manifesta un delirio lo psichiatra può fare la diagnosi e

dare un farmaco; questa soluzione tende al ricovero, ed è quanto adottato in Svezia.

In Italia, invece, il Basaglia-pensiero porta ad una considerazione più ambulatoriale

di questi pazienti;

2. lavorare con una modalità relazionale. Si va nei particolari, si insiste, si cerca di

capire, si chiedono i particolari. Più si spinge e più il soggetto sembra ritirarsi,

tant’è che alla fine dice: “ma forse è tutto uno scherzo”; la spiegazione è che la sua

sensibilità nei confronti della realtà è aumentata, e bisogna abbassargliela: egli vede

più cose di quelle che vedono gli altri.

Depressione

Anche nel caso della depressione l’ottimizzazione della visita psichiatrica è condotta

secondo i quattro punti chiave: diagnosi, ricetta medica, ricerca del problema da

risolvere, prescrizione di un compito. Ed è appunto di quest’ultima prescrizione che qui

parliamo.

La prescrizione della depressione prevede:

1. essere testimoni partecipi;

2. concentrarsi sui pensieri tristi;

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3. fare l’elenco dei pensieri tristi;

4. girare intorno a due sedie esprimendo l’idea generatrice d’ansia;

5. marcare sul calendario i giorni buoni, mediocri, cattivi;

6. tabulazione delle costruzioni mentali;

7. accontentare il super-Io, divinità severa;

8. contrassegnare sul calendario le date in cui il paziente starà bene;

9. adoperare la frase che ricorre: “toccare il fondo per poi risalire”, e che il suicidio è

una maniera di impedire questo risultato;

10. nucleo di sofferenza e movimento degli occhi.

Che cosa dobbiamo fare? Innanzitutto la diagnosi (depressione maggiore, malattia

bipolare). Quindi la ricetta medica: antidepressivi (triciclici, SSRI, altri). Poi, cerchiamo

un problema. Come aiutiamo questi soggetti?

Bisogna essere testimoni partecipi, cioè né minimizzare né dire al soggetto: “dai, forza,

con la tua volontà”.

Poi, bisogna concentrarsi sui pensieri tristi, cioè il depresso spesso è così perché non

lascia la porta aperta alla depressione, la vuole chiudere, e più la vuole chiudere più

rimane intrappolato nella depressione. Ecco, allora, lasciarsi andare al pensiero

depressivo, abbandonarsi ad esso, non resistergli, questo può aiutare ad uscire, perché la

depressione è un fatto comune, cioè tutti hanno la depressione. Perché certi ne vengon

fuori ed altri rimangono intrappolati? Esiste un meccanismo che fa sì che il depresso

rimanga tale, e noi su quel meccanismo dobbiamo agire.

Se si tratta di una persona molto carica d’ansia, ad esempio si alza e non riesce a stare

seduto, non dobbiamo dirgli di star seduto, ma, al contrario, dovremo farlo sfogare

spingendolo a girare tutt’intorno; spingere al massimo i suoi sentimenti, farlo piangere a

voce alta, far esprimere a voce alta i suoi sentimenti. Anche questo è “andare verso il

mondo dell’altro” ampliando. Ricordiamoci che possiamo scegliere tra 16 stili di

relazione, secondo il MPE. Tra questi il migliore è appunto “andare verso il mondo

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dell’altro”. Per esempio, se il paziente ha un segreto (questo avviene sempre) noi

possiamo dire: “pensa a quella cosa che non mi vuoi dire in questo momento, ma non

dirmela”.

Circa il calendario che i pazienti devono stilare, esso consiste nel definire la qualità

(bello, mediocre, brutto) di ogni giorno vissuto. Alla visita il paziente porterà il

calendario che chiarisce l’andamento del disturbo. Spesso il paziente si accorge che ha

delle variazioni, piuttosto che uno stato di malattia vero e proprio; se inizia a migliorare,

registra tali miglioramenti. Introdurre quindi il fattore tempo è molto interessante.

Per “tabulazione delle costruzioni mentali” si intende che il soggetto deve controllare e

definire l’inizio e la fine del disturbo: questa classificazione e disamina del disturbo

stesso ne permette l’uscita. Il paziente ha uno strumento per conoscere il funzionamento

della propria mente.

Accontentare il super-Io significa fare un sacrificio, cioè fare una cosa seccante. Ad

esempio, ad un ossessivo che aveva una pianta sul terrazzo e saliva 50 volte al giorno

con l’ascensore per controllarla, fu detto di salire a piedi. Con questa idea smise.

Similmente si può operare con un depresso. Il super-Io, facendo un sacrificio, e quindi

una volta accontentato, “diventa più buono e lascia in pace” [!].

Perché i farmaci facciano effetto occorrono 30 giorni; sul calendario andrà

contrassegnato il 30° giorno, data in cui il paziente starà bene. Questo servirà anche ad

aumentare il prestigio del medico.

E’utile, ed è anche una cosa vera, dire che: “si tocca il fondo, ma poi si risale: il suicidio

è una maniera per impedirlo”; quando il paziente è vicino al suicidio, in realtà, sta per

guarire perché il suicidio è come stare vicino al fondo, e quando uno tocca il fondo poi

risale. Questo esplicitare la realtà è una maniera convincente per aiutare il paziente.

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“Nucleo di sofferenza e movimento degli occhi” – in pratica si tratta di tecniche per la

concentrazione su ciò che fa soffrire e di movimento degli occhi; è anche detta “tecnica

di movimento oculare”.

Di questa prescrizione la famiglia deve essere informata; la famiglia non deve spingere

il paziente, la cui volontà è inefficace. Il super-Io schiaccia con le sue forze questi

soggetti; secondo una teoria è proprio questo super-Io alla base della depressione.

Bisogna, allora, vedere che cosa si può chiedere a queste persone, ad esempio: “mettiti a

letto e non ti muovere”, oppure: “facciamo un ricovero in casa” (tecnica del ricovero in

casa). In questo modo si scarica la loro ansia derivante loro autorimprovero. Il mondo di

stanchezza, di incapacità a muoversi, di mancanza di volontà, così facendo, viene

accettato pienamente (“non ti devi muovere!”). Aiutare il paziente significa fargli

accettare la passività con la sua forza di volontà. La reazione del depresso è quella di

voler mettere in lui la sua energia, ma non può farlo. In questo caso bisogna aiutare non

aiutando.

Tecnica di De Shazer

Si tratta di una tecnica che si può utilizzare in tutti i casi, anche per la depressione.

Consiste nel chiedere al malato: “cosa succede dentro di te quando ti senti bene?”. Di

solito l’analisi verte sui momenti di malessere; questo analista invece ha pensato di

analizzare i momenti in cui il paziente sta bene. Si dice: “Durante la giornata c’è un

momento in cui stai meno male?”, e siccome questi momenti sicuramente ci sono, la

domanda spiazza un po’ il paziente e lo costringe ad una riflessione in un’area che lui

non ha mai analizzato; non è facile rispondere a questa domanda! Mentre quando uno

sta male è pronto a dire che cosa gli succede, non è facile dire che cosa succede quando

sta bene. Questo lo può portare ad uno spostamento favorevole. Poi si può aggiungere:

“Evidentemente la tua mente sa che cosa deve fare per stare bene; se tu stai bene anche

un momento al giorno ci deve essere un programma nella tua mente che ti consente di

stare meglio”, ed allora il problema diviene come ripescare questo programma.

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Far dubitare del dubbio

Dicendo ad una persona: “entra nel dubbio”, “cerca di dubitare”, “considera i pro ma

anche i contro”, in realtà la persona non viene spinta verso il dubbio, ma verso

l’inseguire una meta in maniera creativa e originale.

E’ questa una situazione abbastanza interessante. Entrare nel dubbio richiede un lavoro

molto ingegnoso, bisogna essere molto creativi per riuscire ad entrare nel dubbio.

Le ossessioni psichiche

Come si fa ad andare verso una organizzazione che consenta all’ossessivo, mediante

legami interni, di seguire certi “loops” mentali? Abbiamo scoperto una tecnica: si

prepara un tabulato in cui si associano le idee ossessive con dei simboli. Quindi vari

membri della famiglia devono, a turno e in maniera casuale, citare un simbolo; il

paziente deve citare l’idea ossessiva. E viceversa (i familiari citano l’idea, il paziente il

sibolo). Ciò perché le ossessioni psichiche sono più difficili da curare nelle ossessioni in

cui c’è un cerimonale, cioè un comportamento.

Questa tecnica è stata adoperata per la prima volta più di dieci anni fa, in una donna che

aveva sei pensieri ossessivi. Era religiosa e, come succede spesso, aveva pensieri

opposti, quali bestemmiare Dio, o la Madonna. Bene, ogni idea ossessiva doveva avere

un simbolo. Si cercava una sorta di organizzazione che spezzava i legami interni che la

facevano pensare in maniera ossessiva. Questo, in generale, può succedere quando si

spinge molto in un senso; allora si può tendere ad andare in senso opposto [?].

In queste tecniche si attinge molto alla creatività, e migliorarla è un problema

fondamentale. Questo perché in qualsiasi campo ci troviamo, dobbiamo sempre

attingere a qualche cosa che è la creatività. Creatività = Problem Solving.

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Schizofrenia

Una cosa che c’è sempre nella schizofrenia, e che ci fa fare diagnosi di certezza è

l’influenzamento; cioè i pazienti pensano che qualcuno influenza la loro mente in

maniera strana, cioè attraverso strumenti, macchine, apparecchi, con la trasmissione del

pensiero, cioè attraverso una modalità, non vi è un coinvolgimento dialettico. E’ un

influenzamento vero e proprio. La loro mente è influenzata da altri, non è più la loro.

In questo caso c’è il delirio, c’è l’influenzamento (“pressione su di lui”), e si può fare

diagnosi. Che fare? Come già accennato, bisogna alzare la soglia della sensibilità con

dei farmaci che lo facciano dormire e riposare. Inoltre si dà un messaggio implicito: “ti

auto io”, “stai attento ai primi segni dell’abbassamento della pressione che viene fatta su

di te”. A ben vedere, anche in questo caso la prescrizione è paradossale perché lo

schizofrenico paranoideo è molto sensibile ai segnali (ad es., per la strada), e gli si dice

di stare più attento!

Un caso clinico

Una donna giovane, sposata, esperta di informatica aveva contattato via internet un’altra

donna, di cui si era innamorata. La corrispondente, non volendo avere rapporti lesbici,

aveva interrotto la comunicazione. Nonostante ciò la paziente, a suo avviso, continuava

ad avere rapporti, via etere [?], con quest’altra donna, attraverso un’influenza mentale.

Per inciso, si sono verificati molti casi di innamoramento via internet; si ricorda il caso

di una giornalista che aveva voluto fare un esperimento consistente nel far innamorare

di lei un uomo, via internet, riuscendoci. Rivelando poi che si trattava di un

esperimento, aveva generato in quest’uomo una grande frustrazione.

Ritornando a noi, la donna si reca in Clinica Psichiatrica chiedendola di trasformarla in

un uomo, così da poter vivere una vita normale. Al che non le si risponde: “no, non

voglio” ma “è un po’ difficile, vediamo; intanto prenda queste medicine”. Alle visite

successive c’è anche il marito; pian piano guarisce con il suo aiuto.

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Alla fine del disturbo, però, la paziente è depressa (si chiede: “come può essere successa

una cosa del genere?”); allora, compito dello psichiatra sarà quello di convertire questa

situazione da negativa in positiva. Come? Dicendo che la depressione è un bene, perché

si è sulla strada della guarigione.

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Farmaci utilizzati in psichiatria

In psichiatria vengono utilizzati diversi farmaci; è possibile individuare le seguenti

classi farmacologiche:

1. neurolettici e antipsicotici;

2. antidepressivi;

3. antimaniacali;

4. farmaci usati per la terapia dell’ansia.

Dell’uso di questi farmaci ho già parlato nel corso della trattazione delle singole

malattie, tuttavia mi sembra giusto a questo punto riassumere i concetti base di questi

farmaci in una visione unitaria.

Neurolettici e antipsicotici

Si tratta dei farmaci che hanno fatto la storia della psichiatria in quanto proprio u

neurolettico, la clorpromazina, fu il primo farmaco ad essere utilizzato nei pazienti

psichiatrici. Questo farmaco ha la capacità di indurre uno stato di estrema rilassatezza

fisica e quindi fu in grado di sedare anche i pazzi furiosi, a quel tempo temibili e ritenuti

incurabili anche perché era difficilissimo avvicinarli.

I neurolettici di vecchia generazione, attivi sulle componenti motorie, danno, come

effetto collaterale, dei segni parkinsoniani; questi farmaci possono essere utili nei

coreici, in quanto portano ad una normalizzazione degli squilibri biochimici

extrapiramidali.

I neurolettici si dividono in:

1. fenotiazine;

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2. butirrofenoni;

3. benzamidi;

4. dibenzoazepine.

Le febotiazine a loro volta sono caratterizzate dal residuo chimico che portano sulla loro

molecola, per cui si parla di fenotiazine:

1. a carattere alifatico, come la clorpromazina (LARGACTIL) – dosaggio 300-600/die;

2. a carattere piperidinico, come la tioridazina (MELLERIL) – dosaggio 300-600/die;

3. a carattere piperazinico, come la flufenazina (MODITEN) – dosaggio 25/mese.

Tra i buitirrofenoni il più usato è senza dubbio l’aloperidolo (SERENASE).

Tra le benzamidi ricordiamo:

1. sulpiride (LEVOPRAID);

2. amisulpride (DENISAN).

Questi farmaci necessitano di un basso dosaggio.

Le dibenzoazepine comprendono:

1. clozapina (LEPONEX);

2. clotiapina (ENTUMIN).

La clozapina provoca tra gli effetti collaterali una leucopenia che può essere anche

molto grave per cui i pazienti in trattamento con questo farmaco hanno la necessità di

sottoporsi periodicamente ad un controllo dei valori della formula leucocitaria;

ricordatevi di guardare i valori assoluti dei globuli bianchi e non le percentuali.

Esistono poi dei farmaci antipsicotici di nuova concezione, come:

1. risperidone (RISPERDAL);

2. olanzapina (?)

i quali hanno uno scarso o nullo effetto neurolettico, per cui non implicano

quell’”addormentamento” del paziente così impressionante come avveniva con i

farmaci più vecchi, soprattutto con le fenotiazine.

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I neurolettici pongono una serie di problemi dovuti ai loro effetti collaterali, che sono:

1. Parkinsonismo. I neurolettici provocano sindromi parkinsoniane con rigidità

corporea, atteggiamento camptocormico; i pazienti camminano in avanti,

lentamente. I neurolettici agiscono nel sistema nigrostriatale, che è compromesso

nel Parkinson; si tratta di un “Parkinson artificiale”.

2. Sindrome maligna da neurolettici. Si tratta di una condizione molto grave; se i

pazienti non sono curati in tempo ne muoiono. Attenzione se compare febbre:

potrebbe trattarsi di un’influenza, ma anche di una reazione ai neurolettici. Il

paziente è rigido, sudato e mostra una grave situazione tossica.

3. Distonia acuta indotta da neurolettici. I pazienti vanno incontro a disturbi a tipo

coreico, atassico. Mostrano contorsioni corporee con quadri anche molto

drammatici. In questi casi si somministrano antiparkinsoniani, e la distonia

scompare rapidamente. Per evitare fenomeni distonici si somminitrano neurolettici e

antiparkinsoniani.

4. Acatisia. Il paziente ha come l’esigenza di muoversi continuamente, non può farne a

meno, non può stare fermo e questo è un effetto farmacologico dei neurolettici.

5. Discinesia tardiva. I pazienti presentano una ipercinesia quasi ignorabile quando

togliamo il farmaco. Spesso si tratta di movimenti della bocca e più in generale del

viso. Se sospendiamo subito il farmaco c’è qualche posibilità di evitare queste

manifestazioni, altrimenti no.

6. Tremore posturale. Cioè un tremore che si realizza in determinate posture.

Gli effetti tossici dei neurolettici non sono ugualmente marcati per tutti i farmaci. Tra

SERENASE (aloperidolo) e LARGACTIL (clorpromazina), quest’ultimo è più

tranquillo ai fini degli effetti tossici.

Antidepressivi

Tra i farmaci ad azione antidepressiva distinguiamo:

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1. triciclici;

2. IMAO;

3. SSRI;

4. SNRI.

Gli antidepressivi triciclici sono i primi antidepressivi che furono messi in commercio e

risultarono molto potenti per la sindrome depressiva. Ancora oggi qualcuno di questi

farmaci viene usato, come ho già detto nelle lezioni dei giorni scorsi.

Tra i triciclici ricorderei:

1. imipramina (TOFRANIL) – dosaggio 200-300;

2. amitriptilina (LAROXYL) – dosaggio 100-300;

3. clorimipramina (ANAFRANIL).

Gli IMAO sono farmaci inibitori delle MonoAminoOssidasi. Anche di questa catagoria

di farmaci ho parlato. Ricordiamo tra questi farmaci:

1. fenelzina;

2. tranilcipromina;

3. nuovi IMAO (come la moclobemide, AURORIX).

Gli SSRI sono gli inibitori selettivi del ReUptake della Serotonina; sono farmaci molto

maneggevoli che hanno dato il via a una nuova concezione terapeutica della

depressione, tanto che il primo farmaco messo in commercio negli USA, la fluoxetina

(PROZAC), fu chiamato “la pillola della felicità”; una costruita campagna giornalistica

ne decretò il successo e talvolta anche l’uso sconsiderato e fin troppo leggero di un

farmaco che, comunque, è bene che venga ben conosciuto in tutti i suoi aspetti dalla

classe medica, sia tra i generici che tra gli specialisti.

Tra gli SSRI:

1. fluoxetina (PROZAC);

2. paroxetina (SEROXAT).

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Dosaggi di alcuni farmaci antidepressivi:

1. LAROXYL (imipramina) - 150-300 mg/die;

2. ANAFRANIL (clorimipramina) - 45-100 mg/die;

3. Tranilcipromina - 10-20 mg/die;

4. Fenelzina - 45-75 mg/die;

5. PROZAC (fluoxetina) - 5-10 mg/die;

6. SEROXAT (paroxetina) - 20 mg/die;

7. DUMIROX (fluvoxamina) - 150 mg/die.

Una domanda interessante è: "è possibile associare antidepressivi tra loro?". In genere

all'inizio si usa un antidepressivo da solo, ad esempio un triciclico: se dopo un mese non

ci sono effetti, allora si può provare un altro antidepressivo, un SSRI, aumentando

gradualmente il dosaggio senza mai superare le dosi terapeutiche. Le asociazioni di più

antidepressivi sono pericolosissime e anche mortali: non è possibile associare

ANAFRANIL (clorimipramina) e SEROXAT (paroxetina). Per quanto attiene gli SSRI

è da evitare l'interazione con gli I-MAO (farmaci inibitori delle MonoAminoOssidasi,

un'altra categoria di antidepressivi assieme ai triciclici e agli SSRI), a causa della

possibilità di indurre una sindrome serotoninergica potenzialmente fatale a seguito di un

aumento eccessivo della serotonina (gli SSRI ne bloccano il re-uptake, gli I-MAO ne

impediscono la degradazione).

In cosa consiste la sindrome serotoninergica?

In vari sintomi:

1. crampi addominali, meteorismo, diarrea;

2. tremore, mioclono, disartria, incoordinazione motoria, ipereflessia, Babinski+;

3. tachicardia, ipertensione;

4. eccitamento, confusione, disforia, stato maniacale;

5. ipertermia;

6. collasso cardiocircolatorio che porta a morte.

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Sempre per quanto riguarda gli SSRI, c'è da dire che SEROXAT (paroxetina) ha un

maggior tendenza alle interazioni farmacologiche rispetto a PROZAC (fluoxetina) o a

SEROD (sertralina); queste interazioni possono verificarsi con vari farmaci, anche di

uso internistico, che al pari di essa vengono metabolizzate dall'enzima epatico cytP450.

Ad esempio TAGAMET (cimetidina) può aumentare le concentrazioni di SEROXAT

(paroxetina).

Riguardo agli I-MAO la pericolosità risiede nel cosiddetto "effetto formaggio" legato

alla tiramina, una monoamina che non potendo più essere metabolizzata si accumula,

dando crisi ipertensive importanti, anche fatali.

Fonti di tiramina sono: vino Chianti, birra, formaggi fermentati, minestre conservate [?],

concentrati di cardne, fegato, selvaggina, aringhe, fichi conservati, fave, cioccolato,

banane. Per lo stesso motivo non si possono somministrare insieme I-MAO e

simpaticomimetici.

Antimaniacali

Usati nella malattia bipolare, in passato venivano classificati tra i farmaci “stabilizzanti

dell’umore”. Tra essi:

1. il litio;

2. antiepilettici;

3. Calcio-antagonisti.

Il litio (CARBOLITHIUM) serve alla prevenzione delle recidive. Importante, nel suo

“management” che il paziente conservi una buona compliance per il trattamento e una

costante attenzione alle disfunzioni tiroidee o renali che l’uso prolungato del litio può

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determinare nei singoli pazienti. Per qui questi soggetti, ai quali è stato prescritto il litio,

vanno opportunamente controllati.

In seconda battuta anche gli antiepilettici vengono usati per la terapia della malattia

bipolare e quindi possono essere posti tra gli antimaniacali. Ricordiamo:

1. carbamazepina (TEGRETOL) – questo farmaco viene usato per la malattia

epilettica, nelle crisi di grande male;

2. acido valproico (DEPAKIN) – questo farmaco viene usato per la malattia epilettica,

nel “piccolo male”, cioè nelle crisi di assenza.

Per i disturbi bipolari la terapia è basata sugli stabilizzanti dell'umore, che rendono

l'umore stabile. Questi farmaci sono fondamentalmente tre. Il LITIO, che il realtà è

carbonato di litio, è uno di essi; va somministrato in dosaggi talchè la quantità nel

sangue sia compresa tra 0,6 e 1 mEq. Concentrazioni inferiori a 0,6 mEq non servono a

niente, superiori a 1 mEq possono intossicare. Si inizia con certi dosaggi bassi e poi si

sale, finchè nel sangue non arriva a questi livelli.

Il litio viene somministrato in capsule da 300 mg. Si inizia con il somministrare 2

cpr/die, una al mattino, una alla sera. Dopo una settimana, a 12 ore dall'ultima

somministrazione, si valuta la concentrazione di litio nel sangue e si vede se il livello

minimo (cioè 0,6 mEq) è stato raggiunto. Di solito con 2 cpr non si arriva, e quindi si

sale a 3 cpr/die, e quindi si valuta nuovamente la litiemia. Se neanche in tal modo si

raggiunge il valore minimo, si procede a somministrare 4 cpr, 2 al mattino e 2 alla

pomeriggio (2+2). Il nome commerciale del litio carbonato è CARBOLITHIUM.

Il litio è efficace anche durante gli episodi di eccitamento maniacale, poiché li spegne.

Questi periodi sono molto fastidiosi dal momento che i pazienti non vogliono curarsi,

sentendosi in forma perfetta; spesso interrompono la cura. Per questo occorre che

imparino a riconoscere i segni premonitori della fase maniacale.

Nell'attesa che il litio raggiunga le concentrazioni adeguate e quindi manifesti i suoi

effetti si somministrano dei neurolettici; si "fa" la cosiddetta "triplice", e cioè:

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1. una fiala di SERENASE (aloperidolo);

2. una fiala di DISIPAL (orfenadrina);

3. una fiala di LARGACTIL (clorpromazina).

In realtà anche le benzodiazepine, e.v. o i.m., aiutano molto. L'importante è calmare

subito queste persone, poiché nelle fasi maniacali sono capaci di tutto e sono molto

pericolosi; sono superficiali, e hanno mancanza critica.

Altri stabilizzanti dell'umore sono il TEGRETOL (carbamazepina) e il DEPAKIN

(sodio valproato), che in realtà sono antiepilettici. Vanno in realtà utilizzati quando il

litio non è tollerato o è inefficace.

Nella fase maniacale si somministrano litio e neurolettici. Nella fase depressiva invece

si danno antidepressivi e stabilizzanti dell'umore; questa associazione è indispensabile,

poiché se si fa a meno degli stabilizzanti dell'umore il paziente va in crisi maniacale

iatrogena.

Terapia dell’ansia

Il trattamento farmacologico dell’ansia si avvale di benzodiazepine (ad esempio,

XANAX può essere usati nei momenti di acuzie – cioè negli attacchi di panico) o di

farmaci quali azaspironici (come il buspirone).

Alcune benzodiazepine vengono usate anche come ipnotici o come farmaci per la pre-

anestesia.

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La perizia psichiatrica1

La capacità di intendere e di volere

“Dica il perito, valutato l’imputato e presa conoscenza degli atti e fatte tutte le

acquisizioni e gli accertamenti che riterrà opportuni, se, al momento dei fatti per cui si

procede, egli era capace di intendere e di volere, oppure se le capacità erano totalmente

o grandemente scemate”. È questa la formula che, con piccole variazioni, viene usata

giudizialmente nel conferire l’incarico a uno psichiatra. Talvolta si legge: “ Dica il

perito qual è la capacità di intendere e di volere allo stato attuale e al momento dei fatti

per cui si procede”. Spesso può essere aggiunta un’ulteriore domanda: “Dica, inoltre, il

perito se il soggetto sia socialmente pericoloso”. A questa parte del quesito il perito

dovrà dare risposta solo qualora si configuri, nel soggetto, una limitazione della capacità

di intendere e di volere, mentre non può esprimersi sul punto, e anzi il suo

comportamento sarebbe illecito, se dalla conclusione della sua indagine risultasse che

l’imputato non è limitato grandemente o totalmente in queste capacità.

Quello che oggi ci domandiamo è se il tenore del quesito, formulato secondo il

contenuto delle norme che regolano il diritto penale, tenga effettivamente conto della

scienza psichiatrica attuale, se cioè il sapere psichiatrico sia adeguato a dare una risposta

a una domanda così proposta.

Non si può mancare di sottolineare che il quesito, in questa esatta dicitura, risale agli

anni Trenta, riferendosi pertanto a conoscenze psichiatriche ben lontane dagli sviluppi a

cui siamo arrivati negli ultimi decenni. D’altra parte, nella riforma del codice di

procedura penale di pochi anni fa, non si è intervenuti sulla norma che lo regola,

lasciandola immutata. Tuttavia il problema se questa richiesta del magistrato trovi o

meno una corrispondenza nelle discipline psichiatriche rimane fondamentale.

1 E’ una lezione del prof. Andreoli; non si porta all’esame

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Il primo punto che vorrei analizzare riguarda la capacità di intendere e di volere, l’unica

a cui il quesito faccia espressa menzione. Precisamente, una volta stabilito o ipotizzato,

attraverso prove e indagini, che un soggetto possa avere attinenza con un reato penale e

possa esserne quindi il colpevole, perché il magistrato lo dichiari responsabile deve

avere la certezza che quella persona, nel momento in cui ha commesso il fatto, fosse

capace di intendere e di volere.

Se, invece, queste due facoltà sono grandemente o totalmente scemate, nonostante la

colpevolezza del soggetto, la legge impedisce che venga dichiarato responsabile. Ecco,

dunque, perché la perizia psichiatrica diventa uno strumento fondamentale per il

magistrato al fine di decidere una sanzione. Egli deve accertare non solo che il soggetto

abbia compiuto il fatto, ma che abbia capito che cosa stava per fare. E, una volta valutati

i significati delle azioni che hanno condotto alla consumazione del reato, se davvero

abbia voluto commetterlo.

La formulazione della legge ha dato adito a discussioni incessanti: innanzitutto perché

non è facile chiarire il senso di questa capacità. Giudizialmente si è proceduto nel senso

di ritenere non responsabile, sebbene colpevole, chi ha commesso un reato anche

quando solo una delle due capacità sia grandemente scemata. Per esempio, non è

ritenuto responsabile del reato chi, pur avendo inteso chiaramente che cosa stava

facendo, lo abbia commesso pur non volendo, a causa di un difetto nella capacità di

volere. Gli accertamenti sulla volontà vengono, attraverso la perizia, affidati agli

psichiatri, che oggi, almeno a partire dal 1900, cioè dalla data di pubblicazione

dell’Interpretazione dei sogni di Freud, si sono convinti, con sempre maggiore certezza,

che il comportamento umano non può dipendere solo da questioni di intelligere e di

volere, ma viene fortemente influenzato da una grande quantità di forze, che non hanno

nulla a che fare né con l’intelligenza, né con la volontà.

A partire dagli inizi del Novecento, da quando è nata l’idea che il comportamento

dell’uomo è dominato anche dall’inconscio, cioè da qualche cosa di cui non può essere

consapevole, e pertanto non riconducibile alla capacità di capire e volere, il quesito

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formulato dalla norma di legge è diventato inadeguato, o quanto meno amputato rispetto

alle conoscenze e agli studi della psichiatria. Tra l’altro, per lungo tempo la magistratura

ha applicato un’interpretazione assolutamente restrittiva del già inadeguato contenuto

del quesito. Fino a qualche anno fa nelle corti non si accettava, infatti, che il perito

presentasse le sue conclusioni riguardo alla personalità dell’imputato in esame. Non era

possibile offrire elementi di carattere psicologico, dal momento che il riferimento

teorico era ancora quello ottocentesco, secondo cui un’alterazione dell’intelletto o della

volontà dipendeva da una lesione che riguardava l’organo cervello, una sua area

specifica, e pertanto il magistrato chiedeva che venissero indicate, in maniera esatta, le

lesioni che sottendevano a queste limitazioni.

Ne discende che tutto quanto fosse attinente all’analisi psicologica, veniva considerato

inidoneo alla chiarificazione dei fatti, e addirittura illecito parlarne, tanto che spesso la

difesa o il pubblico ministero chiedevano che non si tenesse conto dei riferimenti

formulati dal perito che si fondavano sulla cosiddetta analisi psicologica.

Su questo punto, però, non solo i magistrati si erano divisi, ma una dura reazione era

stata sollevata anche da parte dei cultori delle scienze psicologiche, tant’è che all’inizio

degli anni Settanta, attorno al tribunale di Milano, si affermò un movimento di

psicologia giuridica, che si proponeva di difendere l’accoglimento nelle aule di giustizia

delle scoperte fondamentali delle scienze psicologiche. Oggi, naturalmente, è difficile

trovare giudici o pubblici ministeri che si oppongano all’analisi della personalità

dell’imputato. Spesso, anzi, sono proprio i magistrati a formulare, nel quesito, la

richiesta che si proceda a una valutazione specifica della personalità.

Tuttavia è evidente come quegli aspetti psicologici, che sono così essenziali nel lavoro

psichiatrico e terapeutico, rimangano affidati alla discrezione delle singole corti, quando

ritengano di volerne fare un’indagine specifica. Oppure la norma del codice di

procedura penale continua a ignorarli.

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Tra norma e psichiatria

Ancora qualche anno fa, in alcuni processi, si è discusso se ammettere o non ammettere

una serie di prove e di valutazioni psicologiche riguardanti l’imputato. La distanza tra

psichiatria e diritto è dunque, anche storicamente, molto evidente: per la psichiatria,

infatti, il concetto di inconscio è entrato già all’inizio del secolo scorso con Freud,

cambiando completamente il modo di interpretare il comportamento umano.

Le aule giudiziarie sono state ‘sorde’ molto a lungo. Per questo, gli psichiatri

continuano a chiedere, ancora, che venga modificata, per legge, la formulazione della

richiesta relativa alla perizia psichiatrica, domandando espressamente che il medico

compia una valutazione globale della personalità del soggetto, comprese anche quelle

componenti che non sono certamente riducibili alla capacità di intendere e di volere ma

nondimeno si mostrano fondamentali nel comprendere i comportamenti. La scienza

psichiatrica deve, infatti, potere applicare gli strumenti che le sono propri, in modo da

dare una lettura quanto più veritiera e completa possibile della personalità, sulla cui

condanna il tribunale andrà poi a decidere.

Non c’è psichiatra al mondo che, davanti a un proprio paziente, possa distinguere da una

parte l’intendere e, dall’altra parte, il volere. C’è una serie complessa di altre dimensioni

che attengono ai meccanismi dell’inconscio, traumi, rimozioni, non consapevoli eppure

capaci di condizionare, talvolta completamente, il comportamento. Ricordo a questo

proposito un caso che mi fu sottoposto qualche anno fa, conosciuto, anche alla stampa,

come il caso Rozzi. Rozzi era un ragazzo della periferia romana, che un giorno uccise

entrambi i genitori, dichiarando, però, che il suo reale desiderio era di ammazzare

soltanto il padre, a seguito di forti litigi riguardanti la destinazione di un immobile. In

quell’occasione, si configurava in lui la volontà di commettere il reato, c’era stato anzi

un progetto preciso. Eppure l’intera storia permise di vedere che, in realtà, quel

comportamento non era altro che la realizzazione, seppure tardiva e esteriorizzata sul

piano della cronaca, del complesso di Edipo teorizzato da Freud.

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La conflittualità con la figura paterna che, secondo Freud, si inscriveva in una precisa

fase della crescita del bambino, se non risolta, può spingere un soggetto adulto a

percepire incessantemente il padre come nemico, non tanto per ragioni concrete o

specifiche richieste, ma per traumi passati mai elaborati. Freud rilevò, infatti, come il

complesso edipico venisse risolto attraverso l’uccisione simbolica del padre. Se questo

non accade, la crescita psicologica non è equilibrata, perché la non soluzione tiene in

sospeso un’energia che tende a riproporre incessantemente il conflitto, fino a spingere,

addirittura, il soggetto a mettere in atto, nel teatro della cronaca e della realtà, quanto

non risolto simbolicamente. E dunque, a compiere un omicidio.

Naturalmente si tratta di un caso limite, eppure l’ho riportato perché dimostra come

eventi criminosi possano trovare la loro reale motivazione in fatti assolutamente slegati

dalla capacità di intendere e di volere strettamente intesa, affondando le loro reali radici

nella storia complessa del soggetto.

Il quesito di legge con cui si incarica il perito psichiatra in corso di giudizio penale fa

ancora riferimento soltanto a quei due parametri, riportando la psichiatria indietro di

oltre un secolo, al tempo delle teorie lombrosiane. Lo psichiatra veronese Cesare

Lombroso aveva sostenuto che il compimento di un delitto fosse in sé segno certo che il

soggetto soffre di una malattia di mente, intesa, secondo le teorie dell’Ottocento, come

una degenerazione. Precisamente, influenzato dagli studi di Morel, Lombroso intendeva

il delitto come sintomo di una vera e propria alterazione anatomopatologica di aree

cerebrali. E ne era a tal punto convinto da avere elaborato intensi studi di fisiognomica,

atti a dimostrare come determinate caratteristiche del viso e del corpo risultassero utili

per rilevare anomalie del cervello, che invece non era possibile guardare direttamente.

Ecco, allora il concetto di degenerazione: in presenza di un atto criminoso, non poteva

che esistere un’alterazione cerebrale che avrebbe tolto al soggetto la capacità, chiamata

già da allora così, di intendere e di volere.

Oggi nessuno più in psichiatria si sentirebbe di sostenere simili teorie, perché le

scoperte degli ultimi decenni hanno davvero rivoluzionato il modo di pensare e studiare

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il cervello umano. Queste scoperte hanno reso più urgente la modificazione della

normativa penale. Le richieste del giudice devono essere proporzionate, anche nel

linguaggio, allo stato attuale delle conoscenze psichiatriche.

Se il comportamento non è, dunque, riducibile alla sola volontà e intelligenza,

vorremmo che il magistrato che chiede a noi il perché del comportamento criminoso, ci

permettesse di valutarne tutte le componenti. Per questa ragione, quando vengo

chiamato per una perizia, chiedo sempre la riformulazione del quesito, in modo che

espressamente ampliata la premessa, “valutata la personalità del soggetto, tenuto conto

delle condizioni ambientali in cui vive e in cui ha agito”. Eppure il giudice non può

omettere nel quesito la formulazione richiesta per legge sulla capacità di intendere e di

volere, se sia ampiamente, grandemente o totalmente scemata. E’ questo il punto che

impone assolutamente una modifica. Nel richiedere, come io faccio, l’amplia premessa

del giudice, mi assicuro una specie di legittimità per andare davanti alla Corte d’Assise

cominciando a parlare della personalità del soggetto, svolgendo così pienamente la mia

professione di psichiatra. Ma la difficoltà è quando, per concludere, devo ridurre la

risposta finale al solo profilo delle capacità di intendere e di volere.

Sulla pericolosità sociale

A questo primo e fondamentale elemento di insoddisfazione ne aggiungo subito un

altro, e cioè il modo in cui viene intesa, secondo il diritto penale, la cosiddetta

pericolosità sociale. Il codice stabilisce, infatti, che, qualora un soggetto abbia

commesso un reato ma, nel momento del fatto, fosse grandemente o totalmente incapace

di intendere e di volere, egli non può essere condannato alla pena prevista per il reato,

ma se si accerti che, comunque, costituisce un pericolo per la società, in quanto ci siano

fondate ragioni di ritenere che commetterà nuovi fatti di reato, possono essergli

applicate misure alternative.

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Quello che stupisce è che una simile facoltà sia ammessa solo se si sia concluso per la

parziale o totale infermità di mente del soggetto. A questo proposito, infatti, nella

formulazione del quesito al perito la richiesta di questo accertamento è subordinata alla

risposta affermativa circa quel primo punto. Ne deriva l’impossibilità di parlare di

pericolosità sociale in chi è capace di intendere e di volere. Anzi, se il perito, di fronte al

giudice, concludesse che il soggetto è capace di intendere e di volere, ma anche

pericoloso socialmente, sarebbe perseguibile per legge, in quanto avrebbe fatto

un’osservazione non pertinente al caso, idonea a ledere i diritti dell’imputato stesso.

Dunque, per il codice penale, la pericolosità sociale si lega soltanto alla malattia di

mente. Questo è chiaramente inaccettabile dal punto di vista psichiatrico. Ritroviamo

anche a questo proposito le influenze delle teorie ottocentesche: Cesare Lombroso, nel

congresso di criminologia del 1905 in Belgio, era riuscito a far passare l’equazione

delitto – malattia di mente. Se, sosteneva, il crimine è degenerazione mentale,

dell’organo cervello, con tutta probabilità chi porta quell’anomalia riprodurrà in seguito

il delitto. Pertanto, proseguiva Lombroso, la pena prevista per il singolo delitto, una

volta scontata, lasciava libero il criminale di colpire ancora. Si auspicava così

l’applicazione di ulteriori misure di sicurezza, esaurito il periodo fissato per la pena vera

e propria.

Questo retaggio antico ha tuttora lasciato i suoi riflessi in questo concetto di pericolosità

sociale. Siamo passati dall’automatismo tra malattia e crimine, secondo Lombroso la

circostanza era certa, a una presunzione da accertare di volta in volta. Credo non ci sia

nessuno psichiatra che possa sostenere oggi una simile affermazione.

Non solo da tutte le statistiche più recenti risulta falso che i malati di mente diano un

grosso contributo a delitti gravi, per esempio all’omicidio, rispetto alla popolazione in

generale. Inoltre, non è assolutamente dimostrabile che l’aggressività e la violenza siano

un dato più specifico per i cosiddetti malati di mente, rispetto ai non malati di mente.

Pertanto riteniamo che il giudice abbia ragione di domandare nella formulazione del

quesito che si valuti la pericolosità sociale del soggetto, ma non ci sono motivi per cui la

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ricerchi nel solo caso di malattia di mente. Coordinando le due critiche mosse, de iure

condendo, il conferimento della perizia dovrebbe articolarsi in questo modo: nel primo

quesito chiedere che vengano analizzate tutte le componenti che hanno agito sulla

personalità del soggetto, influenzandone il comportamento per cui si procede; nel

secondo quesito che si sposta dal momento in cui fu commesso il fatto al presente,

domandare che si accerti se il soggetto è pericoloso adesso.

Solo in questo modo verrà garantita allo psichiatra la libertà necessaria a compiere

pienamente il suo lavoro, valutando effettivamente il soggetto sotto la dimensione della

pericolosità sociale, che rimane un quesito psichiatrico importante. Sempre gli psichiatri

si chiedono, nel loro lavoro anche non giudiziario ma finalizzato alla terapia, se il

paziente possa compiere gesti in qualche modo lesivi per la comunità o per se stesso.

Però questo deve essere un quesito specifico e separato diverso dalla valutazione

psicologica, in quanto impone di applicare una parte precisa del sapere psichiatrico, che

riguarda il rapporto del soggetto con l’ambiente, ossia il campo privilegiato della

psichiatria relazionale. Non si tratta più della valutazione del soggetto, ma ci chiediamo

come quel soggetto interagisce con altri soggetti. Si può arrivare così ad affermare, per

esempio, che esiste una pericolosità sociale del soggetto all’interno della famiglia, ma

non verso l’esterno. Possiamo dunque formulare un giudizio di pericolosità nel non

malato di mente, la pericolosità nel cosiddetto normale.

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Caso clinico: ANORESSIA2

L'anoressia psicogena può essere situata nosograficamente come una forma estrema di

psicastenia ossessiva, dunque al limite fra psiconevrosi e psicosi, come risulta dal caso

descritto, peraltro alquanto atipico.

Nnoostante la imponente bibliografia sull'argomento, scarsi sono invece i lavori sui

sogni degli anoressici (Phelippeau e coll., 1980; Frighi e Cuzzolaro, 1986), sia per

quanto riguarda le modificazioni formali che per il loro contenuto.

Pehlippeau e coll. esaminano i sogni di 24 anoressici, 23 dei quali di sesso femminile,

d'età media intorno ai 15 anni, ospedalizzati in un servizio di Pedopsichiatria, raccolti in

una sola notte, utilizzando tre risvegli provocati. Essi trovano che i sogni degli

anoressici presentano una misura di irrealtà minore rispetto a quelli di un gruppo di

controlli; che si evidenzia in essi una aggressività maggiore; e che vi è una tematica

prevalentemente "alimentare".

Firghi e Cuzzolaro raccolgono i racconti dei sogni di 4 anoressiche nel corso di una

terapia psicoanalitica; in un totale di 709 sogni, la percentuale del tema alimentare varia

dal 23 al 36 per cento, a seconda del caso, mantenendosi comunque nettamente

superiore ai controlli.

Atlri autori citano occasionali sogni a tematica alimentare: Binswanger (1944-1945) ne

riporta quattro nel noto caso di Ellen West; Palazzolo Selvini (1963) ne riferisce uno in

cinque anoressiche; Kenstemberger e coll. (1972) ne segnalano uno. E' probabile che

uno spoglio più sistematico della letteratura sul'argomento potrebbe fornire altri reperti

di questo genere.

Il caso qui riportato è relativo ad un anoressico di sesso maschile seguito, all'età di 25

anni, continuativamente per tutto un anno con sedute settimanali in un ambulatorio

pubblico di psichiatria, e in seguito, più saltuariamente, in una USL per diverso tempo,

fino al suo tragico epilogo.

2 Per quanto riguarda l’anoressia, si porta (assieme alla bulimia) all’esame; si fa riferimento al materiale della prof.ssa Santoni; qui è illustrato un caso clinico non di Bari

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Ear figlio di una modesta famiglia d'origine meridionale: il padre lavorava come bidello

in una scuola pubblica; la madre, casalinga, faceva la pulizia delle scale dello stabile da

essi abitato.

Un magistrato aveva regalato alla famiglia un ampio e bello alloggio in una casa

decorosa, in una zona della città bene abitata, con la clausola che essa tenesse ed

assistesse fino alla corte la sua anziana genitrice.

Il paziente, anche affetto da emofilia, era intelligente ma molto disturbato

psichicamente, per cui aveva svolto studi irregolari; suonava la chitarra e per un certo

periodo, con alcuni suoi amici, aveva formato un complessino che si esercitava in uno

scantinato; non aveva mai lavorato, se non saltuariamente.

Ecco come descrive egli stesso la sua situazione:

"Ciò che mi preoccupa e mi impedisce di vivere come gli altri, che mi distacca dai

parenti, che mi crea un complesso di inferiorità, che mi rende pensieroso, è il difetto nel

mangiare, un blocco, una dannata paura che mi angoscia.

Io sono anche molto sensibile.

E' in questa visione sbagliata del mangiare, come se per me rappresentasse un pericolo,

ciò che mi preoccupa.

A volte mi impressiono a vedere come mangiano gli altri, ammettendo che è la

sicurezza che a me manca.

Il timore e l'ansietà che si sono introdotti in me negativamente, sono stati causati dai

miei pensieri disordinati nel corso di questi anni.

Io a volte mi sento avvilito, scoraggiato, dalla vita che sto conducendo, piena di timori e

di ossessioni.

Snoo atteggiamenti suggeriti a difesa dalle influenze esterne che a suo tempo ho subito,

ma che ora non esistono più. So quale travaglio ho sofferto da bambino: ansie, paure,

fandonie, visioni irreali che si sono introdotte nella mia mente.

Tlai paure e fandonie ritornano ogni tanto a galla ed io le subisco in modo drammatico

tutt'ora e mi trasportano nel pianto.

Il mio stato di isolamento mi porta continuamente a riflettere sul mio comportamento e

in tal modo lascio invadere il mio cervello dalle più strane idee e ricordi, lontani e

vicini, che mi hanno sconvolto e frustrato: ricordi che ho accantonati, come per

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esempio, offese ricevute da alcuni parenti che affermavano, in base alle mie

osservazioni, che ero uno scemo, che ero nato scemo, dando dispiacere ai miei genitori

che ne soffrivano, e che mi umiliavano e mi mortificavano. Mi sorgono visioni irreali

avute nell'infanzia: medium, preti che mi facevano esorcismi, brutte figure fatte in

occasione di feste dove io non avevo mangiato niente, comportamenti irregolari.

Mi risorgono a distanza di mesi o di anni le parole che la signora mi rivolgeva; mi

riviene di pensare a come ho fatto passare quest'estate ai miei genitori per le mie

ossessioni e l'esaurimento che mi ha colpito.

Io penso in anticipo al giudizio che gli altri possono dare a seguito delle mie azioni, gli

sguardi insinuanti di alcuni parenti e della signora che pare vogliano dire che c'è

qualcosa da correggere nella mia personalità.

Acluni parenti non considerano questa mia paura di mangiare, per loro è una cosa

impossibile che accada.

Qeusta paura deriva dal fatto che la mia mente mi domina in base a quello che essa ha

registrato.

A volte, mi prende mentre mangio, mi prende al petto una tensione che si propaga su

per l'esofago e trovo difficoltà a deglutire il cibo.

Io ne subisco le conseguenze, perché non posso andare a mangiare in casa di nessuno;

mi devo creare un ambiente a modo mio, a mia misura, mentre dovrei uscire dal mio

mondo ed accettare la realtà, quale essa sia.

Druante la mia vita giornaliera i miei pensieri variano sempre; ad esempio, mentre

mangio, mentre leggo, la mia mente ripensa a giorni passati e ricorda le azioni nel

preciso momento della mia vita passata; dopo di ché, mi nascono rammarichi od

angoscia.

Vrorei invece vivere pensando solo alla mia vita attuale, e se occorre, anche futura.

Io sono in continua attività mentale; mille ossessioni mi avvolgono.

Ho molta paura a diffidenza verso i miei genitori; verso di essi a volte sono impulsivo e

mi innervosisco, ed essi soffrono e mostrano segni di tristezza. Ho da loro ciò che

voglio e mi vogliono un gran bene; si preoccupano quando mi chiudo in me stesso. Mi

comprendono ed hanno pazienza.

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Ma a volte sono i miei complessi che mi spingono a rattristarli. Tutte le volte che mi

metto a tavola per mangiare, la osservo, la pulisco perché ho paura che su di essa si

posino dei corpi che temo vadano nel piatto o nel bicchiere.

Acnhe quando bevo, osservo il fondo del bicchiere per vari secondi, prima di farlo.

Druante i pasti faccio il possibile per migliorare impiegandoci meno tempo, ma

purtroppo mi occorrono diverse ore per mangiare.

Ho paura di mettere il cibo in bocca, lo mastico troppo. Impiego molto tempo a

mangiare, anche perché faccio delle pause fra un boccone e l'altro: non mangio di

continuo, ma mi fermo. Butto giù un boccone, poi bevo un sorso d'acqua, mastico a

vuoto, butto giù aria e poi metto un altro boccone.

Mnetre mangio, mi preoccupo che vengano a trovarci dei parenti, e siccome io sono in

difetto perché non mangio normalmente, temo le visite, perché so che per me mangiare

con altre persone è impossibile.

Nmemeno bevo naturalmente, perché ho paura a causa degli altri. Mi sento stanco e

tutto il giorno non ho voglia di far niente, ma sono sempre avvolto da ossessioni e

complessi e mi mortifico da solo.

Di notte sogno, ma al mattino ricordo poco.

Io ho assolutamente bisogno di tranquillità, ma finché avrò queste ossessioni e questi

brutti pensieri, non la potrò avere.

Pre esempio, sapendo che a mio papà non dispiace seguire le partite di calcio dei

mondiali, io con i miei complessi ho fatto portare la televisione nello studio, per paura

che mentre mangiavo, lui la accendesse, nonostante le sue assicurazioni. Ma io,

diffidente, l'ho fatta comunque trasportare nello studio".

All'atto della prima visita il paziente si presenta come un soggetto gracile e di

corporatura minuta, giallognolo in volto. Si dimostra intelligente ma molto chiuso,

prolisso nella descrizione dei suoi disturbi, ma poco propenso a riferire di sé, pesante e

talora perfino indisponente.

Elgi è consapevole della natura patologica dei suoi sintomi, ma incapace di mantenere

un proficuo rapporto, diffidente ed ombroso.

Dviersi colloqui con i suoi genitori, persone semplici e buone, che sopportano con

comprensione le sue manifestazioni e sono obbligati dalle sue ossessioni ad una vita

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piena di attenzioni e di riguardi, non apportano significative notizie, se non per il fatto

che l'anoressia e gli altri comportamenti abnormi sono iniziati in età adolescenziale, e

che essi, fin da allora, oltre ad averlo fatto curare da molti specialisti, hanno portato il

loro figlio da maghi, da fattucchiere, e perfino da un prete che aveva compiuto su di lui

degli esorcismi, su suggerimento di una loro parente.

Elgi, per esempio, mette una intera giornata a mangiare un piccolo piatto di minestrina,

bloccando completamente ogni loro attività.

Cnofermata è l'ostilità che il giovane dimostra nei riguardi della anziana signora, per la

quale essi hanno dovuto trasferirsi da un alloggio più modesto a quello attualmente

abitato, prendendosi l'impegno di assisterla; tanto che costei è obbligata a rimanere

confinata in una stanza, a scanso di gravi scenate.

Qeusto trasferimento non è stato gradito dal loro figlio, perché ha così perso le sue

amicizie, ed ha anche dovuto abbandonare i luoghi ai quali era abituato.

Nlel'anno in cui venne seguito in un ambulatorio pubblico di psichiatria (1978) egli

portò 121 sogni scritti, buona parte dei quali simili per forma e per contenuto, e qui

riportati solo parzialmente.

Mloti di essi non sono che la replicazione della sua sintomatologia:

"Una notte ho sognato di mangiare insieme ad alcuni parenti, ed io rimanevo indietro

dagli altri. Mentre gli altri mangiavano il secondo, io ero ancora alla pasta. Mi sono

sentito pieno di rabbia, ho piantato tutto e me ne sono andato via.

Un mio conoscente, vedendomi così, mi ha mortificato, dicendomi: se tu non vuoi

migliorare, è inutile che fai queste scenate, io non so proprio cosa farti"

Qeusto sogno indica chiaramente anche la situazione con il terapeuta ed il suo ostinato

negativismo, posizione abituale contro ogni tentativo di migliorare la sua

sintomatologia.

In altri, posteriori a questo primo sogno portato all'inizio del rapporto terapeutico,

traspare talvolta un sentimento di paura o di colpa:

"Mi sono sognato di trovarmi a scuola, con tanti ragazzi. Dei ragazzi avevano fatto

qualcosa di male. Io ed altri eravamo testimoni, ma avevamo paura di riferire tutto al

professore, per timore di cacciarci nelle grane.

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Io, però, ho fatto due segni con la penna su due banchi doppi, appunto quelli dei

colpevoli, ma sapevo che con solo dei segni il professore non poteva accorgersene,

perché era assente al momento del fatto.

Pio ho sognato ancora una cosa ridicola: per portar via un quadro è venuta

un'ambulanza ed il dottore lo ha deposto sulla barella.

Acsoltavo in una saletta dei cantanti, ma gli spettatori erano solo tre o quattro, compreso

me, e non ricordo se c'erano anche i miei genitori oppure altri parenti.

Io ero insieme con alcuni di loro".

"Mi sono sognato di viaggiare in filobus con mio papà, però poi ci siamo persi.

Io ero convinto di scendere alla fermata giusta, vicino a casa, ma invece sono smontato

in un'altra zona e mio papà non c'era più.

Me ne sono accorto che ormai il filobus aveva fatto molta strada e che la mia abitazione

era lontana.

Pio ho visto due partite di calcio, ma era tutto strano, il campo, le porte, sembrava che

giocassero in una stanza.

Dlele persone mangiavano un serpente".

Il simbolo del serpente sembrerebbe in qualche modo evocare l'archetipo del peccato

originale.

Isnieme al tema alimentare, in molti sogni è presente quello della casa e dello spazio.

Qeullo erotico è raro e quasi sempre incestuoso:

"Ho sognato che volevo fare all'amore con mia cugina, moglie del mio padrino.

Snoo andato in un negozio per compararmi un travestimento da donna".

In altri è espresso un desiderio di affermazione:

"Frequentavo una scuola di perfezionamento sullo spettacolo. C'erano molti cantanti e

attori, ragazzi e ragazze.

Io ero simpatico alle ragazze perché dimostravo sicurezza".

Ma in altri traspare il tema della sua insicurezza, commisto ad immagini paurose:

"Volevo andare sulle giostre, ma avevo paura. In strada c'erano parecchi ragazzi.

Pre farmi sentire ho preso la chitarra, ma purtroppo una corda era rotta e non ho potuto

continuare a suonare.

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Dromivo e nel sogno mi apparivano immagini di fantasmi, ed io giravo la casa per

rincorrerli.

Uan professoressa di una materia strana aveva una faccia a me conosciuta".

Sepsso incombe la figura della "signora", probabilmente simbolo di morte, identificata

dalla anziana persona che vive nella sua famiglia, verso cui egli ha sempre dimostrato

un incomprensibile odio. E' come se avesse tratto, da un mazzo di tarocchi, la luna nera:

"Giocavo al pallone con vecchi miei ex amici, nel cortile della vecchia abitazione.

Ad un tratto la palla è caduta nel cortile accanto.

Snoo subito andato a prenderla, ma la signora l'ha presa prima di me, e non voleva

darmela, forse cercava di bucarla o tagliarla.

Eor a tavola che mangiavo la minestra con i miei genitori e sul balcone la signora

pregava seduta con in mano le immaginette di vari santi.

Io ero preoccupato perché temevo che venisse in cucina.

Ongi tanto si alzava e veniva a prendere della roba.

La mia paura era che essa mi vedesse mangiare".

Psasano anche sfilacciati ricordi riferibili al passato:

"Guardavo dalla finestra della mia camera che era a pianterreno, e fuori c'era la caccia a

prendere i polli.

Il parroco della chiesa del rione ne prese uno e voleva donarmelo, ma io avevo paura

perché era ancora vivo.

Adnavo a lezione di chitarra con il figlio del portinaio.

Sepsso andavo a suonare in cantina con degli amici, con i quali avevo formato un

complessino.

Snoo andato all'oratorio che è a pochi passi da casa mia e li ho rivisti.

Ear verso sera ed il barbiere dal suo negozio mi ha salutato.

Ho sognato di trovarmi nel cortile della mia vecchia abitazione e parlavo con alcune

ragazze che in precedenza avevo paura di affrontare per timidezza.

Msotravo loro la mia simpatia ed il bene che le volevo, ed esse si dimostravano

meravigliate".

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Isnieme a ricordi antichi ed alla costante preoccupazione per quanto riguarda la sua

difficoltà di mangiare, si insinuano elementi di estraneità, che talora assumono toni cupi

o drammatici, premonitori del suo tragico destino:

"Mi trovavo in un paese da solo.

Nlel'ospedale era accaduta una tragedia. I medici avevano iniettato ad una ragazza un

liquido pericoloso ed io ero presente.

E' arrivata la polizia e mi hanno fermato di prepotenza, forse sapevano che ero l'unico

testimone.

E' iniziata una sparatoria con tanti morti.

In strada parecchi ragazzi andavano dietro ad un funerale.

Ho sognato che la signora sembrava morta, ma ci assicurarono che era ancora in vita, di

non spaventarci, perché non era ancora giunta la sua ora.

Mai cugina mi metteva tredici acini in bocca.

Porvavo da ferma la macchina di un mio amico, e gli altri guardavano il motore, forse

per trovare un guasto o qualche difetto.

Eor in un'aula dove c'era una professoressa.

Abbiamo preso dei fogli da compilare, però io non sono riuscito, perché non ho capito il

sistema.

La professoressa si è accorta della mia timidezza e della mia paura.

Io sono rimasto indietro, mentre gli altri bambini continuavano un gioco e giravano in

bicicletta.

Cno la professoressa siamo andati su un pagliaio, forse per fare all'amore, però gli altri

se ne sono accorti.

Eor al mare e facevo una passeggiata in una cittadina sconosciuta. Sono arrivato in una

piazzetta, dalla quale si poteva ammirare il mare in tempesta.

Ear notte e dormivano tutti.

Ho sentito un rumore e con mio papà ci siamo alzati.

Ci è sembrato di vedere una donna camminare nell'entrata e dirigersi verso la cucina.

Abbiamo subito pensato che fosse la signora.

Moi papà le ha messo una mano sulla spalla e la donna si è girata, mettendosi a ridere,

perché invece era una mia cugina diciottenne.

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Nle cucinino la luce era accesa e c'era anche mio zio.

Ho avuto paura, e volevo ritornare nella mia stanza da letto, ma sono rimasto immobile,

senza poter fare un passo.

Ho chiamato il papà, ma egli era lontano e non mi ha sentito.

Moi zio e mia cugina ridevano, ed all'improvviso sono spariti, come fantasmi, la luce si

è spenta, ed io sono rimasto solo al buio".

Raiffiorano anche sogni di ricordi di un passato fatto di esperienze con fattucchiere e

con maghi:

"Ho sognato che io e mia mamma eravamo vicini ad una cartomante che stava per

leggere il mio passato e che disse: questo ragazzo è stato troppo protetto ed ha registrato

troppe cose".

In un altro affiorano pulsioni aggressive:

"Mi trovavo su una strada di campagna e sparavo a delle persone, uccidendole tutte".

In alcuni dei sogni è ravvisabile una relazione fra oralità e omosessualità:

"Ero a casa con un amico con il quale, anni fa, ho avuto rapporti omosessuali.

Slula tavola era pronto il piatto con la minestra ma io non mi decidevo a mangiare.

Snoo uscito con mio cugino ed ho preso dei biscotti da mangiare, e mentre eravamo

nell'ascensore, egli, vedendomi mangiarne uno, ridendo mi disse: che bocconcino hai

messo in bocca; ed io gli risposi che avevo paura.

Pio abbiamo preso il tram, ma io non ho fatto il biglietto ed avevo un po' di vergogna.

Nlel'androne della vecchia abitazione, nella nostra buca delle lettere, c'era un prosciutto

ed altra roba da mangiare, invece della posta".

Cmoe in altri, anche il sogno successivo indica un sentimento di colpevolezza:

"Mi trovavo insieme ad altri ragazzi in un posto dove c'erano delle guardie che ci

tenevano d'occhio e alle quali dovevamo obbedire.

Preò non era un carcere, ma una cosa strana".

In diversi, posteriori a questi, compaiono situazioni assurde ma espresse

realisticamente:

"Ero in una stazione ferroviaria con la mamma, dinnanzi ad una lungo treno che era

diretto lontano. Il treno, fatto a due piani, trasportava dei militari. Ci siamo saliti su

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quando era già in movimento, senza una meta. In uno scompartimento sedeva un

militare semplice.

Ho pensato di scendere in qualche paese balneare ed abbiamo chiesto a quel soldato il

luogo più vicino. Egli ce ne ha indicato uno che distava diciotto chilometri dalla città.

Io ammiravo dal finestrino i paesetti che splendevano al sole.

Saimo entrati attraverso una galleria fatta di pietre che segnava il suo inizio. Entrati,

tutto era bello, le palme, il belvedere con i castelli del medioevo.

Dvoevo andare sulla spiaggia a fare il bagno, ma avevo paura di mettermi il costume

perché ero troppo bravo.

Snoo andato con mio papà a comprare un canotto.

Cno lui sono sceso in un negozio di dischi, dove al piano di sotto erano esposti quadri

autentici.

C'erano degli agenti che li sorvegliavano.

Qeulla via, però, terminava in aperta campagna, mentre dall'altra parte era colma di

negozi, di gente e di macchine posteggiate ai lati del marciapiede.

Pio mi trovavo in un prato, dove c'erano tante persone, e mi sembrava che mi avessero

rubato della roba che poi ho ritrovato in uno scavo profondo pieno d'acqua.

Eor in una piazza nella quale i partiti facevano una dimostrazione; in essa v'erano alcuni

nascondigli serviti durante la guerra, ed in uno di essi, v'era sdraiato a pancia in giù,

tutto nudo, un noto giornalista che appariva sovente al telegiornale.

Acluni ragazzi volevano picchiarmi".

In alcuni dei sogni si intravvedono degli atti mancati o censurati:

"Ero nell'androne insieme ad una vecchia signora che sapeva anche lei suonare la

chitarra. Mi sono avvicinato, quasi per fare all'amore, e lei vedendomi che le andavo

addosso, si mise a gridare, e in quel momento arrivò sua figlia.

Eor a casa di una maestra giovane per delle ripetizioni, e quasi volevo fare all'amore, ma

non è accaduto nulla.

Gaurdavo fuori dalla finestra delle ragazzine con il grembiule scolastico bianco, che

camminavano in fila come per una processione.

Dpoo che son passate, ho notato che sul bordo del marciapiede sedevano delle donne

vecchie.

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La signora mi guardava come se qualcosa in me non andasse bene.

Deu giocatori di calcio erano dei poliziotti che cercavano un giovane e chiedevano in un

bar cosa avesse fatto".

Qiu si connettono, senza senso apparente, vari sogni, in spazi diversi:

"Ero da mia cugina con un mio amico, il quale si dimostrava sicuro e parlava con lei.

Quando andò via, feci una scenata di gelosia, ed essa mi diede un biglietto omaggio per

andare ad ammirare una sua esibizione in un teatro.

L'orario era alle 19.

Mnetre mi dirigevo in macchina per vederla, m'accorsi di non aver chiesto la via, e in

più, mi mancava il portafoglio.

Qaundo sono tornato a casa ho trovato un suo biglietto che mi indicava l'indirizzo.

Snoo andato con mia mamma nel negozio di barbiere di mio zio.

Preò, nel sogno, questo negozio era situato non dove è in realtà, ma in un quartiere di

ville.

Moi zio era seduto su di una sedia in attesa di clienti e indossava un camice bianco.

Gil ho chiesto una schedina del totocalcio, e se poteva far andare in pensione mio papà

nel 1980.

Dvoevo cambiare casa e ritornare in quella vecchia. La zona si era rinnovata e vi erano

molti piccoli negozi.

Ad un incrocio era accaduto un incidente stradale. Vi erano molte persone che

assistevano; sono passato in macchina con mia papà ed abbiamo visto dei dottori in

camice bianco che mettevano in ambulanza un ferito.

Pio ho incontrato dei ragazzini con la bandiera dell'Inter, mentre la mamma aveva

quella del Milan.

Nle sogno ho fatto all'amore con la mamma di questi ragazzini, che non era poi tanto

anziana, ma nemmeno molto giovane.

Ho notato in lontananza mia cugina che indossava un grembiule da scolara e in mano

aveva una cartella.

Essa era alle soglie della sua casa, però quando mi ha visto è scomparsa.

Essa mi guardava con odio ed io proseguivo per la strada.

Mi trovavo nel vecchio alloggio, però era diverso e somigliava a quello dei miei zii.

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Io guardavo la televisione.

Dpoo un poco sono uscito sul balcone ed ho visto mio cugino, con il quale ho scambiato

poche parole.

Reintrando in casa ho trovato la porta dell'ingresso semiaperta e la luce nel bagno e ho

sospettato che fosse entrato qualche ladro. Ho preso un cacciavite da un cassetto per

difendermi, ma nel bagno ho visto una giovane donna che indossava una vestaglia gialla

davanti allo specchio.

Eor con mio papà fuori città, tra la natura, in campagna. Nei dintorni v'erano alcune

casette.

Ho visto scendere dalla macchina un mio vicino di casa con un'altra persona; si sono

indirizzati verso un passaggio fragile, un ponticello, e parlavano di malattie.

Psaseggiavo in un grande giardino con una ragazza; poi eravamo in macchina e lei si

trovava alla guida in viaggio verso una frazione di montagna e ascoltavamo della

musica.

Si sono avvicinati due uomini e ci guardavano, e una donna era già salita dietro.

Pio passavo davanti alla chiesa vicino alla vecchia abitazione.

La facciata era strana, diversa dalla realtà, e mancava il cancello con il recinto".

Nle loro insieme questi frammenti di sogni formano come una autobiografia.

Ferquente è la presenza di numeri:

"Ho incontrato il figlio del panettiere che abitava al sesto piano.

Eor sul balcone della vecchia abitazione dove al quarto piano stava mia cugina.

Gaurdavo al primo piano della casa di fronte, dove sul balcone c'erano due ragazze e un

ragazzo.

Ho sognato di trovarmi nella nuova abitazione con i miei genitori e due zie. Una di esse

si muoveva come una donna sexy ed io ne rimanevo sedotto.

Pio sono andato ad un banco di beneficienza a prendere dei biglietti".

Tlavolta nei sogni egli si trova in luoghi sconosciuti o diversi da come sono in realtà:

"Ho sognato un luogo mai visto. Era un gruppo di case poco distanti da una cittadina. Io

mi trovavo in una di esse. Le ore passavano piano, calava il buio, era quasi sera.

Ucsii per fare un giro e capitai nella casa vecchia, ma i negozi erano cambiati.

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Ho sognato di essere in un alloggio che aveva le sembianze di quello che abito adesso,

ma le stanze erano vecchie e brutte e i mobili disposti diversamente.

All'improvviso arrivarono tante persone, uomini e donne, e le occupavano come se

fosse casa loro".

Gil ultimi sogni appartengono al periodo quando il paziente si presentava saltuariamente

in un ambulatorio USL, questa struttura trovandosi vicino alla sua abitazione, e sono di

poco anteriori alla tragedia che ne seguì.

Rciompare il tema della sua difficoltà a mangiare, che lo aveva condotto ad un

progressivo dimagrimento, fino a pesare trenta chili.

"Ho sognato di mangiare a tavola nel mio appartamento in presenza di paesane di mia

mamma, e procedevo lentamente, cercando di farlo più in fretta, ma non mi era

possibile. La presenza di persone normali mi infastidivano.

Eor a casa che mangiavo con i miei genitori e la signora che aveva già mangiato temevo

che venisse in cucina e mi dicesse qualcosa.

La mamma mi disse di mangiare tranquillo, ma mi preannunciò la visita di conoscenti,

ed io rimasi male, tanto che andai a sputare il cibo che avevo in bocca nel cestino dei

rifiuti.

Eor in cucina che stavo mangiando, era d'estate e quindi si teneva la porta del balcone

aperta, su di esso c'erano i miei genitori e dei cugini. Io mi infastidivo a farmi vedere da

loro come mangiavo, e così decisero di andarsene perché erano arrabbiati.

Ho sognato che mi trovavo in casa con alcuni parenti, e che ad un tratto ho visto dalla

finestra una casa che andava in fiamme.

Eor allegro, ma avevo il problema del mangiare.

Spepi che la signora ritornava dopo una lunga assenza, e rimasi male perché sapevo che

mi avrebbe mortificato per questo problema".

Da tempo egli si era ridotto a mangiare solo una minestrina, prolungando questa

operazione per quasi tutta la giornata, ed obbligando i genitori e la vecchia signora loro

convivente ad ogni sorta di riguardi.

Uon degli ultimi sogni ha un carattere terrifico:

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"Qualcuno mi voleva rapire dalle braccia di papà. L'aggressore era un mostro e ci

inseguì, ma mio papà mi salvò, tenendomi stretto e correndo forte. L'inseguitore

abbaiava come un cane".

Alla fine, quando il paziente aveva ormai trentacinque anni, sua madre si ammalò e fu

ospedalizzata. Fino ad allora, pur essendo già in preda a gravi dolori, aveva continuato a

lavorare, pulendo le scale dello stabile, dove la famiglia abitava.

Vnene diagnosticato un carcinoma dell'utero, con numerose metastasi ossee e viscerali.

Ter giorni prima di Natale, nel 1981, essa fu dimessa, essendo ormai prossima alla

morte.

Nnoostante le preghiere di suo marito, il paziente si rifiutò di entrare in camera sua per

rivolgerle un ultimo saluto, probabilmente per il timore ossessivo di esserne infetto.

Alla sera, nella cucina, vi fu una violenta discussione con suo padre, da poco in

pensione, e descritto dai suoi colleghi di lavoro e dai suoi superiori come uomo mite e

buono.

L'uomo, di fronte al comportamento esasperante del figlio, ebbe allora una reazione

irosa e lo colpì al capo con una bottiglia, producendogli una vasta ma superficiale ferita

al cuoio capelluto, che però, a causa della emofilia del giovane, prese a sanguinare

abbondantemente.

Elgi fuggì per le scale, lasciando una scia di sangue, ed andò a rifugiarsi in un angolo

della rimessa dell'auto, dove il padre, seguendo la traccia, lo ritrovò e lo uccise a colpi

di crick, sfondandogli il cranio.

Ciò fatto, l'uomo risalì nel suo alloggio, e trovò la moglie che, nonostante le sue gravi

condizioni, si era alzata e cercava di pulire con uno straccio il pavimento della cucina,

cosa che anch'egli fece, aiutandola poi a rimettersi a letto, dove, poco dopo, la soffocò

con un cuscino.

Cmoposta la morta, si mise al tavolo del soggiorno e redasse un lucido testamento,

lasciando tutto quando possedeva ad un Istituto di beneficienza.

Affrancò la busta e scese ad imbucarla.

Rtiornato in soggiorno, mise sul tavolo i documenti personali; con un cacciavite che poi

ripose ordinatamente nel cassetto, svitò un lampadario, fece un nodo scorsoio ad una

corda che legò al suo sostegno, e salito su di una seggiola, si impiccò.

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Il fatto venne scoperto tre giorni dopo da alcuni inquilini della casa che si

preoccuparono di non vedere uscire nessuno dall'alloggio e del cattivo odore che da esso

incominciavano a sentire.

La cruda realtà di questo fatto, supera qualsiasi macabra fantasia, e viene ancora di più

aggravato dalla circostanza che i parenti, sia dal lato paterno che da quello materno,

impugnarono il testamento, sostenendo l'infermità psichica dell'uomo al momento della

sua redazione.

Uan perizia d'ufficio lo giudicò tuttavia valido.

Il caso, certamente inabituale, propone diversi problemi.

E' noto che l'anoressia psicogena è prevalentemente femminile e trae il più spesso

origine da desideri di bellezza e da ideali di purezza.

Non tutti i casi sono però uguali, come risulta dalla nostra esperienza personale.

In quello qui riferito i disturbi nell'alimentazione del soggetto sono comparsi in età

scolare, come egli stesso ha indicato anche in alcuni suoi sogni.

La ragione di tale disturbo non è molto chiara, ma sembrerebbe legata ad altri fatti

ossessivi, principalmente ad una rupofobia, ed è certamente connessa ad una particolare

struttura della sua personalità, introversa e caratteriale, facilmente suscettibile, nervosa

ed egoista, tutti fenomeni che d'altronde sono facilmente reperibili negli anoressici.

Non manca qualche spunto interpretativo, peraltro consapevolmente criticato dal

paziente, che si rende lucidamente conto della natura patologica dei suoi disturbi.

I sogni sono sovraffollati di personaggi: zii e zie, cugini e cugine, altri parenti, il

professore di chitarra, la professoressa di matematica, amici e ex amici, e più raramente,

figure fantastiche, talvolta minacciose.

Nie sogni, come nella vita reale del soggetto, sono espressi sentimenti di inferiorità e di

inadeguatezza, che derivano fondamentalmente da una timidezza e dalla difficoltà di

mantenere rapporti interpersonali: per quest'ultimo fatto, i suoi sogni sono così popolati

di figure che sostituiscono quelle mancanti nella sua esistenza.

Più raramente si evidenzia un sentimento di superiorità, che costituendone il

controaltare, determina anche una cortina di difesa, come accade in certi schizofrenici,

deliranti di grandezza.

Molta importanza hanno le figure genitoriali, soprattutto quella del padre, che gli sono

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stati vicini e comprensivi in tutta la sua tribolata esistenza.

Altrettanto è la figura della "signora", vissuta come un personaggio disturbante anche

nella realtà quotidiana: forse la vecchiaia di costei, con i suoi correlati comportamentali,

fra cui spiccava una bulimia, sono segnali pericolosi e di significato mortale.

Nei sogni, il tema principale è quello della sua difficoltà ad alimentarsi.

Spesso ricorre il confronto fra la casa "vecchia" e quella "nuova", con i loro rispettivi

paraggi; esse, però, si sovrappongono nella loro ubicazione e modello architetturale.

Rrai sono i sogni a contenuto esplicitamente erotico, il più spesso di natura incestuosa.

Manca quasi completamente il tempo, mentre lo spazio è sempre descritto minutamente;

ciò vuol forse significare una perdita di una parte del mondo e in una difficoltà di

declinare la propria esistenza in tale esperire categoriale, come in certi casi descritti da

Binswanger.

Lo spazio, però, appare in complesso, pur nella sua varietà, stereotipo, rigido, senza una

vera risonanza, oppure strano, inconsueto, talora animato da personaggi sconosciuti, da

figure anonime e senza rilievo, oppure mostruosa o terrifiche.

Nel caso, dal punto di vista psicopatologico più generale, si può sostanzialmente

ripetere ciò che scritto Binswanger di Lola Voss: "una presenza che rinnega se stessa

come autentica e libera possibilità di Sé, e cade in balia di un determinato progetto di

mondo, dal quale viene sopraffatta, fino al punto che essa può essere se stessa solo entro

dei confini molto definiti e sempre più ristretti, costretta in tale morsa".

Etnro questa strutturazione fenomenologica si determina quel senso angoscioso e

pauroso del terribile, spesso presente, anche se sottaciuto, che presentano i sogni e la

vita del paziente che si è descritto, con la sua drammatica fine.

La conferma dell'osservazione di Phelippeau e coll., che nei sogni degli anoressici si

assiste ad una minore irruzione del fantastico e dell'immaginario, a vantaggio di

situazioni realistiche, è probabilmente da considerare in quest'ottica.

Vi è una forte analogia con l'iper-realismo degli scritti kafkiani, che proprio da questa

caratteristica assumono la loro peculiarità.

Uan interpretazione in chiave psicoanalitica, possibile, appare sotto questo aspetto,

riduttiva, così come quella relazionale, dove il suicidio "allargato" che è venuto

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maturando ed infine si è realizzato, costituisce l'ultimo termine di eventi "che non si

possono dire", ma solo guardare come inermi spettatori.

Bibliografia

1. BNISWANGER L.: Il caso di Lola Voss. In: Essere nel mondo, Roma:

Astrolabio, 1973.

2. FIRGHI L., CUZZOLARO M.: Les rêves des anorexiques. Psychopatol. 1986;

4, 23.

3. PEHLIPPEAU E COLL.: A quoi rêvent les anorexiques?. Neuropsych. de

l'Enfance 1980; 28, 179.

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Considerazioni sulla schizofrenia3

Premessa

Definizioni come queste: tipico e atipico nel contesto della schizofrenia, sono

(sottintendono) modelli conciliabili fra loro, o inconciliabili e incompatibili? E ancora:

psicopatologia e clinica sono categorie interscambiabili, o qualcosa le distingue e le

separa radicalmente?

Non sono domande oziose, o sofisticate, queste, ma sono domande decisive ed

essenziali in ordine alla concettualizzazione della schizofrenia e alla ricerca delle sue

(possibili) fondazioni e delle sue (diverse) strategie terapeutiche.

Ovviamente, quando ci si confronta con problemi complessi e brucianti, la tentazione è

anche quella di annacquare le differenze (le distinzioni), facendo di ogni erba un fascio,

o ricorrendo al solito refrain della integrazione dei modelli: cosa che è non di rado

importante, ma che può sconfinare nella inerzia e nella passività.

Come è possibile rispondere alle domande che ci siamo posti? Temiamo che non si

possa non scegliere fra l'essere clinici e l'essere psicopatologi; o, meglio, il problema è

questo: si deve essere consapevoli del fatto che, in psichiatria, il metodo conoscitivo,

che presiede alla clinica, è diverso da quello che sta a fondamento della psicopatologia.

Sicché, è possibile passare da un piano all'altro: ma nella consapevolezza della

distinzione dei piani conoscitivi.

La clinica coglie, le macromolecole di una sintomatologia psicotica o neurotica; la

psicopatologia coglie invece le micromolecole delle fenomenologie psicotica o

neurotica. La clinica, in psichiatria, si serve dello sguardo freddo e distanziante delle

scienze naturali, della medicina che ne fa parte; la psicopatologia si serve, invece, della

immedesimazione e della introspezione che sono emblematici strumenti conoscitivi

delle scienze umane. Già in questa contrapposizione si delinea, del resto, la natura

dilemmatica della psichiatria: il suo volto di Giano: il suo essere scienza naturale e il

3 E’ un intervento al Congresso di Psichiatria tenuto a Bari

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suo essere scienza umana; il suo scivolare dall'una all'altra: nel cambiamento del suo

oggetto (1,2).

La psicopatologia non è la clinica

Come ha scritto Karl Jaspers (3), la psichiatria clinica e la psicopatologia si distinguono

essenzialmente per questa ragione: la prima è una prassi, una modalità di conoscenza

pratica (una Kennerschaft come l'ha definita Klaus Conrad) (4), che si confronta con la

psicopatologia e la somatologia che costituiscono invece discipline scientifiche:

subordinate, cioè, ai criteri che modulano le scienze umane (la psicopatologia) e le

scienze naturali (la somatologia). In ogni caso, anche al di là di distinzioni e di

disgiunzioni di questa natura, il modello di conoscenza e le risultanze conoscitive della

psichiatria clinica si differenziano profondamente da quelli della psicopatologia. La

questione, e la esigenza, si realizzano in una prospettiva che, senza trionfalizzare

enfaticamente e dogmaticamente psichiatria clinica o psicopatologia (e somatologia), sia

consapevole fino in fondo delle diverse forme di conoscenza e delle diverse

conseguenze non solo terapeutiche ma anche epistemologiche che stanno a fondamento

dell'una e delle altre articolazioni costitutive della psichiatria tout court.

Questa distinzione di linee conoscitive e applicative si riflette, del resto, sulla questione

della tipicità e della atipicità della patologia schizofrenica: della fenomenologia

schizofrenica; nel senso che una modalità di conoscenza elettivamente clinica (pratica e

oggettivante) tende a cogliere ciò che c'è di comune, e cioè di tipico, nel contesto

camaleontico delle espressioni (dei sintomi) della schizofrenia; mentre una modalità di

conoscenza essenzialmente psicopatologica, indirizzata a cogliere gli elementi

micromolecolari di una patologia, tende a fare riemergere ciò che c'è di mutevole, di

trasformabile, di friabile, e cioè di a-tipico, nella forma di vita psicotica (schizofrenica).

Certo, nel fare-psichiatria è necessario confrontarci con le emergenze sintomatologiche

delle esperienze psicotiche cercando di sottrarsi alle spirali e agli artigli della ideologia

che ci fanno perdere il senso preciso, reale, concreto, problematico e ambiguo ma,

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comunque, concretizzabile e delineabile della psichiatria. Solo ri-flettendo, e mettendo

fra parentesi ogni ovvietà (5) del discorso, si fa una psichiatria rigorosa.

L'orizzonte di conoscenze della psichiatria clinica

Il grande magistero di Emil Kraepelin (6) si è sempre svolto lungo la linea univoca e

radicalizzata della clinica: della psichiatria clinica come parametro esclusivo e

assiomatico (ma problematico, ovviamente, all'interno delle conoscenze degli elementi

sintomatologici in gioco) al fine di fare diagnosi di schizofrenia.

Come si sa, nel suo gigantesco lavoro di sintesi (di ricapitolazione di schegge

sintomatologiche che, prima di lui, laceravano la configurazione clinica della

schizofrenia in molteplici sindromi), Emil Kraepelin ha sostenuto come la conoscenza

in psichiatria si snoda lungo il semplice e omogeneo sentiero della osservazione e della

descrizione dei modi di comportarsi e dei modi di apparire dei pazienti e dei sintomi in

cui la sofferenza psichica si manifesta: al di là e al di fuori di ogni riflessione e di ogni

attenzione ai contenuti interiori, ai vissuti, dei pazienti e ai significati (alle connotazioni

simboliche) dei sintomi psicotici. Sulla base di queste modalità di osservazione ab

externo e di questa ricerca di tipologie comuni in sindromi cliniche (apparentemente)

scheggiate e atipiche, Kraepelin ha delineata la definizione stessa di dementia praecox

come emblema univoco di ogni esperienza psicotica.

I criteri clinici, applicati allo studio e alla analisi di quelle che oggi chiamiamo

schizofrenia e che, appunto, Kraepelin ha chiamato dementia praecox, hanno consentito

al grande psichiatra tedesco di raccogliere e di unificare in una sola condizione

morbosa, sia pure articolata e suddivisa in tre sindromi cliniche, le molteplici forme

morbose solo apparentemente autonome. Ma, nel fare questo, e nel tematizzare la

tipicità (gli elementi comuni) della malattia e nel riconoscerla nel suo decorso e nella

sua sintomatologia macroscopica (macromolecolare, direi), Kraepelin è rimasto

estraneo all'arcipelago infinito della vita interiore, della interiorità, dei pazienti, alle loro

esperienze vissute: senza le quali non può esistere, invece, psicopatologia che si è

liquefatta nel solco di parametri meramente clinici. Alla vita interiore dei pazienti, alle

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loro espressioni psicologiche ed emozionali, egli non dava alcuna importanza:

considerandole del tutto inattendibili. Inutile, allora, ascoltare i pazienti, cercare di

cogliere quello che si muove nella loro interiorità, cercare di rendere dialettico ogni

sintomo psicotico: correlandolo, e confrontandolo, con il modo (con il loro senso) con

cui ogni sintomo è vissuto da ciascun paziente.

Il criterio clinico è considerato, così, come impegno radicalizzato e assolutizzato ad

analizzare e a osservare come abbiano a comportarsi i pazienti e quale sia la

consistenza, e la fisionomia, dei sintomi macroscopici (come vorrei, appunto, definirli):

dei sintomi correlati con i deliri e le allucinazioni, con i disturbi della psicomotricità e

del linguaggio che sono sintomi evidenti e visibili a ogni osservatore dotato, certo, della

facoltà di descrizione e di serializzazione delle diverse sequenze sintomatologiche.

Il criterio clinico è finalizzato, del resto, a cancellare, a oltrepassare e a escludere ogni

variante che interferisca, e sia in collisione, con questo disegno diagnostico (cartesiano,

matematico, geometrico) che giunge a tematizzare e a rendere immobile ogni (possibile)

camaleontica variabilità dei sintomi: a inchiodare, insomma, ciò che costituisce la

tipicità, la dimensione ne varietur della malattia schizofrenica.

Nell'orizzonte kraepeliano del discorso, dunque, la psichiatria clinica tende a cogliere e

a indicare gli elementi immobili della sintomatologia schizofrenica: ripetibili di caso in

caso.

Così intesa e delineata, la schizofrenia si trasforma in una malattia, in una realtà clinica,

che segue sue proprie leggi naturali: insensibile, dolorosamente insensibile a qualsiasi

articolazione, a qualsiasi sollecitazione, ambientale e interpersonale, psicoterapeutica e

socioterapeutica. Si capisce, allora, come mai, se la schizofrenia abbia a seguire sue

proprie fatali (implacabili) destinazioni naturali, non serve a nulla conoscere e

analizzare cosa i pazienti vivano e provino nella loro soggettività, e quali significati essi

attribuiscano ai sintomi: ai modi psicotici di scandagliare e di interpretare la realtà in cui

sono immersi.

Se la schizofrenia non è se non il coagulare di sintomi e di andamenti evolutivi che

abbia a cancellare, e a riassorbire, ogni differenza e ogni distinzione, se esiste un solo

modo di essere schizofrenici, e non invece modi diversi di vivere una esperienza

schizofrenica, ogni atipicità (ogni sostanziale variabilità dei sintomi e dei decorsi)

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scomparirebbe; non configurandosi se non un solo modello di Lebenswelt schizofrenica:

una sua costante e radicale tipicità.

Nella psichiatria clinica postkraepeliniana le cose sono cambiate: nel senso che, alla

tipicità della sintomatologia psicotica (schizofrenica) contrassegnata dalle grandi

costellazioni sindromiche (deliranti, allucinatorie, comportamentali, psicomotorie), si è

aggiunta una prospettiva diversa in ordine al decorso, e cioè alle forme di decorso, della

esperienza schizofrenica. Mentre nella prospettiva kraepeliniana il decorso della

dementia praecox veniva considerato univocamente rettilineo e prefissato lungo binari

fatali e irreversibili a cui non era possibile sfuggire (benché Kraepelin non escludesse la

possibilità di un decorso diverso e reversibile in alcune situazioni cliniche), oggi le

ricerche catamnestiche di Manfred Bleuler (7) in particolare ma anche quelle di Luc

Ciompi e Christian Müller (8) e di altri autori hanno dimostrato come, anche all'interno

dei criteri diagnostici proposti da Kraepelin, non ci sia una sola modalità di decorso ma

diverse modalità di decorso. Sicché, la tipicità (ciò che c'è di tipico) nella Lebenswelt

schizofrenica non può essere ancorata alla forma del decorso se non lungo linee

tendenziali, e non certo univoche e obbligate.

Anche nel contesto di una impostazione kraepeliniana, insomma, la tipicità può essere

ritrovata nella sintomatologia, nella aggregazione sintomatologica, ma non nel decorso

unidimensionale.

Ci sono decorsi (forme di decorso) ovviamente più frequenti e altri meno frequenti, ci

sono decorsi striscianti e nucleari (paradigmatici) e ci sono decorsi periferici, satelliti, ci

sono insomma decorsi che si avvicinano alla "tipicità" indicata da Kraepelin e decorsi

che da esse si allontanano. Ci sono forme di esordio che tumultuosamente si risolvono

in tempi anche molto brevi, e forme di esordio scolorite e, come si sa (9),

prognosticamente negative.

Il criterio clinico, fondato esclusivamente sul decorso (sulla evoluzione longitudinale)

della sintomatologia psicotica, e quello diagnostico correlato, entrano così in crisi nel

momento in cui già l'osservazione clinica dimostra nella galassia schizofrenica la

presenza di camaleontiche, e variabili, forme di andamento.

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In ogni caso, la individuazione (la delimitazione) di andamenti più o meno tipici, e più o

meno atipici, trascina con sè radicali implicazioni terapeutiche. Queste cambiano,

ovviamente, in relazione alle forme di esordio e alle forme di evoluzione.

Insomma, la tipicità nel decorso si fa problematica nella misura in cui la ricerca

catamnestica ne dimostra la variabilità.

L'orizzonte di conoscenze della psicopatologia

Gli scenari sembrano cambiare quando si abbia a che fare con la psicopatologia, con

l'indagine psicopatologica, che è indirizzata a cogliere le costellazioni micromolecolari,

i contenuti di ogni singola funzione psichica, scendendo lungo i sentieri frastagliati e

segmentati della vita interiore (della soggettività) dell'altro-da-noi confrontata con la

nostra soggettività.

Quando Eugen Bleuler (10) ha introdotto il termine di schizofrenia, sostituendolo a

quello di dementia praecox, ha spostato radicalmente e vertiginosamente l'asse della

conoscenza e della denominazione della forma morbosa dal piano di una esperienza

psicotica, che si riconosca e si costituisca utilizzando criteri clinici, a una esperienza

psicotica che si abbia a definire e a diagnosticare mediante criteri non clinici

(comportamentali ed esteriori) ma, appunto, psicopatologici (interiori e

immedesimativi). Non solo: parlando di schizofrenia, Eugen Bleuler ha inteso

sottolineare la sindromaticità degli elementi sintomatologici, che contrassegnano la

ragione d'essere di questa, che è l'esperienza psicotica par excellence, e l'importanza

della dissociazione (sintomo micromolecolare) nel farne diagnosi.

Nel solco delle grandi analisi bleuleriane e jasperiane si è, così, indotti a sottolineare

come la descrizione e l'analisi, e cioè la conoscenza, non siano possibili in

psicopatologia senza la partecipazione radicale della soggettività del medico alla

soggettività del paziente. Non c'è una modalità astratta e impersonale, in psicopatologia,

ma in essa ogni forma di conoscenza è implacabilmente implicata e immersa in una

circolarità ermeneutica che trascini con sè la interiorità (la soggettività) del paziente e la

soggettività (la interiorità) del medico. Non c'è, dunque, possibilità di conoscenza in

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psicopatologia, non c'è captazione possibile degli orizzonti infiniti che fanno da sfondo

ai sintomi (ai fenomeni), che possano fare a meno delle connessioni radicali con l'area

sfuggente e problematica, ma essenziale, della intersoggettività.

Non è possibile fare della psicopatologia, non è possibile sondare i modi di vivere e di

ri-vivere (le cose e le situazioni) da parte dei pazienti se non si rinuncia a ogni

atteggiamento di neutralità, di fredda e gelida scientificità, di fronte a loro, e se non ci si

serve della intuizione e della immedesimazione.

Ancora: solo mettendo fra parentesi ogni impostazione ideologica, ogni teoria che si

sovrapponga come un diaframma impenetrabile alle realtà umane (normali o

patologiche), solo muovendo dalle esperienze vissute dai pazienti e mettendoci dalla

parte dei pazienti mediante una conoscenza che si abbia ad alimentare, appunto, di

immedesimazione e di intuizione, è possibile cogliere le dimensioni e le interne

articolazioni della vita psichica e il senso che da essa, di volta in volta e di situazione in

situazione, riemerga: frastagliato e straziante, doloroso e opaco, silenzioso e nostalgico.

Una psichiatria, che faccia a meno delle labili sonde della psicopatologia, delle sonde

che abbiano a fare lievitare le stratificazioni magmatiche delle emozioni, si trasforma, o

rischia di trasformarsi, in una meccanica applicazione di metodologie meramente

cliniche incentrate sui comportamenti e sui modi di essere esteriori dei pazienti: come si

è già sottolineato, del resto, nelle pagine precedenti.

Qualche osservazione ancora su questo tema e su questi aspetti del discorso.

La psicopatologia, la decifrazione dei segni dotati di senso, consente una conoscenza

più radicale e più profonda dei modi di essere di ogni esperienza neurotica e di ogni

esperienza psicotica, e consente anche di riconoscere le differenze categoriali che

separano le esperienze neurotiche da quelle psicotiche: tematizzando ciascuna di esse

nei suoi contenuti e nelle sue articolazioni formali che rimandano alle radicali

epistemologie jasperiane (3).

La psicopatologia si riflette anche nei modi con cui la diagnosi, in psichiatria, abbia a

essere rifunzionalizzata. Solo nella ricerca degli elementi psicopatologici, che la

costituiscono, la diagnosi riassume una sua emblematica significazione dialettica e

dialogica che nasce e si continua fra paziente e medico: nel contesto di una relazione

interpersonale, di una rifondazione intersoggettiva della relazione, che sfugga a ogni

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reificazione e a ogni negazione del senso e che non rinunci mai alla intuizione e alla

immedesimazione come strumenti essenziali di conoscenza. Ma la psicopatologia

consente infine di realizzare una farmacopsichiatria che si indirizzi selettivamente alle

singole sindromi psicopatologico-cliniche.

Ma a quali risultanze, a quali contenuti e a quali modi di essere psicotici ( e neurotici),

in particolare a quali modi di essere schizofrenici, giunge una indagine psicopatologica

che analizzi, dunque, le diverse funzioni psichiche nelle loro articolazioni modali e

tematiche?

Ovviamente, non ci è possibile se non svolgere un discorso di sintesi e di ricapitolazione

critica: alcuni sintomi guida della schizofrenia, come l'autismo (considerato sintomo

fondamentale da Eugen Bleuler) (10), la dissociazione, le modificazioni della esperienza

dell'io (riguardate da Kurt Schneider come strutture portanti di ogni fenomenologia

schizofrenica) (11), come anche le modificazioni della esperienza del tempo e dello

spazio così magistralmente analizzate nei lavori di Hubertus Tellenbach (12), e come

del resto le diverse modalità di rivivere affettivamente le situazioni e gli eventi vitali,

sfuggono fatalmente ai criteri conoscitivi rigidamente clinici e si rivelano invece ai

criteri conoscitivi psicopatologici. Solo, infatti, con la rivoluzione copernicana che Karl

Jaspers (3) ha introdotto in psichiatria sottolineando l'importanza decisiva della

soggettività nel conoscere e nel fare-diagnosi, questi sintomi sono riemersi nella loro

fenomenologia.

I criteri psicopatologici di analisi di una forma di vita (di una Lebensform) schizofrenica

conducono alla valutazione e alla delimitazione di sindromi e non già di malattie; ed è

ciò, che è avvenuto, nel momento in cui dal termine di dementia praecox si è slittati in

quello di schizofrenia nel senso di Eugen Bleuler. (La valutazione del decorso di una

esperienza psicotica, o neurotica, rientra invece nei criteri di captazione e di

delimitazione non della psicopatologia ma, ovviamente, della psichiatria clinica; e già

questo significa che il giudizio diagnostico e prognostico complessivo non può

configurarsi se non sulla base di una integrazione e di una aggregazione dialettica dei

criteri clinici e di quelli psicopatologici: non essendo giustificata una escalation

trionfalistica ed enfatizzata che abbia a privilegiare gli uni o gli altri criteri di analisi e di

valutazione).

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Certo, lo slittamento dal conoscere clinico a quello psicopatologico trascina con sè un

indebolimento degli elementi di tipicità e un accrescimento di quelli di atipicità; nel

senso che la connotazione clinica dei modi di insorgere e di evolversi di ciascuna

esperienza schizofrenica, benché non sempre univoci e omogenei, ha in sè una Gestalt e

una impronta di alta pregnanza; e questo fino al punto che alcuni autori, come Henri Ey

(13) che ha svolto lavori di straordinaria significazione psicopatologica e clinica, hanno

sostenuto che la natura e la ragione d'essere della schizofrenia si possono fondare e

giustificare solo nella misura in cui si tenga presente (kraepelinianamente, del resto) la

evoluzione della forma morbosa: la sua scansione implacabile e fatale. Cosa che non è,

oggi, accettabile ovviamente; anche se non è possibile negare che alcune delle forme di

vita schizofreniche mantengano, al di la di ogni strategia terapeutica e riabilitativa, la

tendenza a una evoluzione inafferrabile.

In ogni caso, l'analisi del decorso consente di cogliere meglio quello che c'è di tipico in

una esperienza schizofrenica; meglio che non una analisi fondata sulle aggregazioni

psicopatologiche: nelle quali l'oscillare fra tipico e atipico si fa molto più significativo.

Una ultima cosa; e anche questa induce a ritenere che non sono possibili

assolutizzazioni, in psichiatria, ma che è invece necessaria una alta coscienza critica

della relativizzazione delle cose. La considerazione psicopatologica, anche se più fragile

e più sfuggente che non quella clinica, consente di riguardare l'esperienza schizofrenica

nella sua dimensione dilemmatica: nel senso che essa, alla luce della psicopatologia, si

svolge e si viene articolando come una forma di vita a volte intensa, drammatica e

radicale, ma a volte come una forma di vita sfumata, sfibrata e oscillante: molto più

vicina, cioè, a una esperienza che possa fare parte, sia pure solo virtualmente (sul

virtuale vorremmo rinviare al bellissimo libro di Pierre Levy) (14), della condizione

umana. Intendiamo richiamarci nel dire questo alla tesi suggestiva di Asmus Finzen (9)

che ha prospettato l'esistenza di uno spettro (di un potenziale) schizofrenico, in senso

psicopatologico ovviamente, che da gradienti normali, o schizotimici (rinasce, qui, il

discorso ancora attuale e affascinante di Ernst Kretschmer) (15), si sposterebbe poi

lungo sequenze variabili e zigzaganti verso gradienti di schizofrenicità (come intendeva

dire, nei suoi lavori smaglianti e indimenticabili, Ferdinando Barison) (16-18)

scompensata e radicalmente psicotica.

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La psicopatologia tende a essere, oggi, come ancora ha sostenuto Ferdinando Barison,

ermeneutica: decifrazione dei segni più che non dei sintomi.

La conclusione

Il senso dialettico (ci auguriamo che sia interpretato così) del nostro discorso si

riassume, e si conclude, nella affermazione, o almeno nella considerazione, che le

conoscenze, a cui si giunge con l'applicazione di criteri clinici e di criteri

psicopatologici, sono diverse e cambiano nella misura in cui ci si serva, nell'analisi

sintomatologica della patologia schizofrenica, degli uni o degli altri. I criteri clinici

fanno riemergere con più drastica evidenza quelli che sono gli elementi tipici, ma

incrinati in ogni caso anche da elementi atipici; mentre i criteri psicopatologici,

indirizzati a cogliere i modi di essere, e di rivivere le esperienze vissute, della

schizofrenicità, fanno riemergere costellazioni sintomatologiche oscillanti e

camaleontiche che definiscono, o tendono a connotare, quelli che sono gli elementi

atipici della schizofrenicità.

Nel corso del lavoro questi temi sono sviluppati contestualmente alla esigenza, e alla

riaffermazione, che solo da una confrontazione e da una integrazione, da una reciproca

valutazione, dei criteri clinici e psicopatologici, degli elementi tipici e atipici, si possa

giungere a una più articolata comprensione della realtà e della ragione d'essere

evolutiva, ma anche terapeutica, della schizofrenia.

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11. Schneider K. Klinische Psychopathologie. Stuttgart: Thieme, 1962.

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Caso clinico: paziente maniacale4

Premessa psicopatologica

Le depressioni che sono chiamate clinicamente endogene, o psicotiche, si distinguono in

depressioni unipolari e in depressioni bipolari, secondo la classificazione di Leonhard:

le prime si manifestano con episodi depressivi, che possono ripetersi a distanza variabile

di tempo, mentre le seconde agli episodi depressivi alternano episodi maniacali.

Alla oscurità e alla pesantezza della malinconia si contrappongono la leggerezza e la

volubilità della mania; ma numerose contraddizioni solcano l'esistenza maniacale, solo

apparentemente segnata dalla luce leggiadra e improblematica della felicità.

La Stimmung maniacale contrassegna la fenomenologia clinica della mania nella quale

si trasformano le articolazioni strutturali del pensiero e i modi di essere nel mondo, nel

tempo e nello spazio.

Il flusso della vita che nella malinconia si rallenta e si arresta, si slancia vorticosamente

nella mania, nella quale la disinibizione, la spinta frenetica e febbrile al movimento, si

costituisce come sua struttura portante.

Nella mania non c'è coscienza di malattia almeno fino a quando essa non incomincia a

declinare; nella malinconia invece, la coscienza di malattia scompare solo nelle forme

tematizzate dalla presenza di esperienze deliranti primarie.

Chiamiamo, dunque, sindrome maniacale quella costellazione di sintomi

tradizionalmente (secondo Weitbrecht e Kielholz) articolata nella seguente triade, in

base ai disturbi presentati.

1. Disturbo della vita timica (affettiva).

2. Disturbo della vita noetica (idetica).

3. Disturbo della psicomotricità (funzioni centrifughe).

Per la psicopatologia tradizionale la struttura portante della vita maniacale è costituita

dalla trasformazione, dalla metamorfosi della vita affettiva, dello stato d'animo

4 Si tratta di una lezione fatta da un professore esterno

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(Stimmung), mentre sia il disturbo del pensiero come quello della psicomotricità

vengono considerati subalterni.

La psicopatologia che chiamiamo antropologica o fenomenologica (Binswanger)

considera invece il disturbo cardine dell'esperienza maniacale quello del pensiero

(L'uomo della fuga delle idee): il pensiero nella vita maniacale non si articola, non si

snoda secondo quelle che sono le articolazioni della sintassi di cui noi ci serviamo,

soggetto, verbo, complemento; è un articolazione del pensiero che tende infatti mano a

mano che il disturbo si fa più profondo, alla "fuga delle idee" che da ordinata, cioè

ancora in qualche modo comprensibile, si fa invece incoerente e poi confusionale cioè

dilacerata fino a eliminare e stralciare il verbo.

Quando il verbo ancora sopravvive è un verbo che è bloccato sul presente o al massimo

sul passato; scompare il futuro.

L'analisi formale del linguaggio del maniacale rivela l'assenza di una struttura formale

del pensiero; esiste una catena vertiginosa di parole in cui il pensiero però si frantuma

perché salta: Cargnello ha parlato del modo della saltuarietà come di questa esperienza

di radicale discontinuità, di ideazione saltatoria nel contesto del corso del pensiero del

maniacale.

Nella mania la comunicazione si inaridisce e si frantuma dinanzi a ostacoli anche

insignificanti. La frattura della comunicazione è in essa ancor più verticale che non nella

malinconia e nella schizofrenia.

Il maniacale si disperde nel mondo, vive in frammenti di mondo nei quali non riesce a

soffermarsi; è un linguaggio, è un parlare che non dice, che non comunica, che rivela la

"vacuità intima del mondo maniacale" (Cargnello).

Per questo parliamo di autismo maniacale, nel senso di Glatzel, per l'impossibilità a un

contatto con il paziente maniacale: è uno pseudocontatto che non acquista mai il

significato di una autentica e valida comunicazione inter umana e rivela l'impossibilità

per chi vive immerso in questa esperienza a sostare, a fermare la realtà che gli scivola

fra le dita.

Così per il paziente maniacale, tutto è bruciato nell'istante; non c'è storia.

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Egli inoltre non tollera la limitazione della libertà e ha l'esigenza di avere a sua

disposizione spazi infiniti: da qui origina il disturbo della psicomotricità e della

conseguente aggressività legata alle reazioni che l'ambiente intorno gli genera.

Il mondo in cui vive immerso il maniacale è un mondo in cui sono escluse le

contraddizioni, un mondo in cui i colori dominanti, come diceva Binswanger, sono

quello azzurro e quello rosa: tutto è a portata di mano, non ci sono ostacoli, il vicino e il

lontano non sono più categorie psicologiche angoscianti come possono essere per uno

schizofrenico o per un depresso.

Manca la categoria della profondità ma siamo su un piano della esteriorità estrema: tutto

è plastico, mobile, friabilissimo, svuotato di interiorità.

Il mondo maniacale è un mondo governato da uno sfrenato ottimismo, in cui manca la

possibilità di uno scacco o di un fallimento: come ha scritto Minkowski, non c'è più il

dispiegarsi del vissuto nel tempo: si è bloccati in un presente del futuro; il maniacale

agisce, si muove e pensa nell'hic et nunc ogni istante, nella momentaneizzazione di ogni

esperienza vissuta.

Non esiste più un passato che si costituisca come bagaglio esperienziale così come non

esiste un futuro entro cui progettarsi.

Il mondo del maniacale è governato da uno sfrenato ottimismo o euforia, gioia panica.

Tutto assume tinte rosee, gaie, luminose, è tutto luce e quindi è tutto appiattito,

superficiale, livellato.

Il delirio del maniacale non è altro che l'espressione di questo ottimismo della

conoscenza (Binswanger): l'onniscienza, il delirio di grandezza è una emanazione di

questa metamorfosi del mondo che ha perso ogni limite, ogni relatività.

La spinta all'attività e all'azione trascina con sé un'insonnia feroce che non è vissuta

come disturbo ma come condizione felice e inebriante; se dunque, nella depressione non

si può dormire, nella mania non si ha bisogno di dormire.

Il maniacale ha una estrema capacità di cogliere, nel contatto interpersonale, ogni

frangia esteriore, ogni aspetto "superficiale" che un certo comportamento può rivelare.

Quindi può cogliere l'angoscia, la diffidenza e anche l'insicurezza che si genera in un

interlocutore e viverla come aggressione nei suoi confronti. Può allora ingenerarsi una

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risposta a corto circuito in cui all'insicurezza (aggressione) del medico o dell'infermiere

il paziente risponde con una contro aggressività.

Allora il nostro atteggiamento deve essere improntato alla "indifferenza", alla

partecipazione indifferente nel senso di Jaspers. Certo si tratta di una esigenza

psicologica del paziente che non tollera di percepire né troppa vicinanza né troppa

distanza da parte dell'interlocutore.

Nell'incontro con i pazienti sommersi dalla mania si ha inizialmente la sensazione che il

contatto interpersonale non sia difficile. Non si fa fatica, a entrare in relazione con loro:

rispondono volentieri e rapidamente chiedono notizie di noi, lodano la nostra gentilezza

e la nostra intelligenza.

Ma questa accelerazione comunicazionale è solo apparente: rimane alla superficie.

Secondo quanto scritto da von Hofmannsthal: La profondità va nascosta. Dove? Alla

superficie.

Retroscena

Cosa ci sia dietro questo caso di ordinaria e classica storia maniacale che ora andiamo a

descrivere ci è sembrato essere la modalità di vivere lo spazio e quindi la realtà del

maniacale stesso: uno spazio, una realtà, dai confini assolutamente mobili e dilatati

verso infinite prospettive in cui il mondo della fantasia, del sogno e del gioco

prevaricano sul mondo reale. Ma in questo spazio "virtuale", in cui l'esperienza

maniacale fa precipitare la paziente di cui narreremo la storia, l'unica condizione in cui è

possibile continuare a vivere è quella della recitazione, della continua entrata e uscita da

un personaggio all'altro. È il mondo dell'apparenza, intesa nella sua superficialità, come

mondo in cui ciò che conta è lo sfolgorio dei colori, l'invadenza dei profumi, la

clamorosità dei suoni, le vibrazioni della pelle: proprio come sul palcoscenico ove

bisogna "apparire" per vivere.

Eppure questa esperienza della "superficialità" intesa come captazione sottile ed estrema

dell'apparenza, dell'aspetto apparente e appariscente del reale, rivela anche l'esigenza di

vivere e gustare l'aspetto "formale" del reale come dotato anch'esso di fascino e di

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rimandi che troppo spesso restano sepolti dalla superficialità (questa si negativa) del

nostro sguardo routinario e quotidiano.

Quando l'esperienza maniacale si è inaridita e si e spenta, alcuni pazienti la rivivono

nostalgicamente come una esperienza positiva e altri, invece, come un'esperienza

negativa, dolorosa; ma già durante la sequenza maniacale, ci sono pazienti che

definiscono la loro condizione come autentica, angosciante ed estranea alla loro

personalità.

Come ha mirabilmente documentato Weitbrecht, citando una sua paziente che, uscita

dall'episodio maniacale diceva: Ora so cosa possono significare i colori, gli odori, le

sensazioni tattili, e quali sensazioni inebrianti possa dare la musica. L'esperienza

quotidiana le risultava estremamente noiosa e di una desertica ottusità: tutto sembra

allora ricoperto di uno strato di opaco grigiore. Chi non è mai stato immerso in una

condizione maniacale è povero e può solo consolarsi pensando che non sa quali, e

quante esperienze potrebbero fare quando la malattia cancellasse quella specie di velo

grigio.

In particolare questa storia si è ben prestata all'analisi della struttura portante

dell'esperienza maniacale proprio perché la paziente in questione è un'attrice; appare

quindi meno artificioso e inautentico per lei "restare in scena" anche quando la recita è

finita e i riflettori si spengono. Lei sa meglio di altri cosa rappresenti questa realtà,

essendone frequentemente immersa e, per questo, con più difficoltà può cogliere il

deragliamento dal mondo reale a quello della mania.

La storia

Conosciamo la nostra paziente che chiameremo Eleonora, nell'agosto del 1997 quando

effettua il suo primo ricovero presso il nostro reparto per una condizione così descritta

dalla collega che la ricovera quella domenica notte: Si ricovera per agitazione

psicomotoria: al colloquio la paziente è orientata nello spazio e nel tempo, disforica,

mantiene con molta difficoltà i nessi associativi passando rapidamente da un

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argomento all'altro, in una condizione di irrequietezza e agitazione psicomotoria.

Fornisce con difficoltà notizie di ordine anamnestico.

Si pratica terapia neurolettica.

Il giorno dopo la incontriamo e così viene descritta: Appare perplessa e a tratti come

disturbata da dispercezioni acustiche e visive, anche se riesce a costruire quanto

successo nella giornata di ieri con una certa linearità e a fornire i principali dati

anamnestici.

Eleonora è nata nel 1959 in una cittadina della nostra zona ove vive la madre: dopo il

diploma di magistrale, superato l'anno integrativo, si è iscritta a un Corso universitario

di discipline arte, musica e spettacolo che ha interrotto al secondo anno, iniziando a

insegnare educazione musicale nella scuola media come supplente dal 1979.

Da allora fino al presente ha sempre insegnato, e sempre la stessa materia, cambiando

molte scuole, ed è di ruolo dal 1989.

Ha sempre vissuto con la madre fino al 1992 quando ha deciso di andare a vivere

nell'appartamento che il fidanzato (che conosceva da almeno cinque anni) aveva

affittato in città per motivi di lavoro, tornando spesso però a casa dalla madre.

La sua famiglia

Eleonora è figlia unica; la madre è nata nel 1930.

Descritta da lei come: Una donna dolce però un po' noiosa, tendente a vittimizzarsi...

Lavorava come sarta nel paese d'origine... È molto pudica però ha la curiosità morbosa

dei cattolici spinti. Non mi ha mai spiegato niente rispetto al sesso... C'era però una zia

più giovane che mi ha fatto scuola su questo...

Mai madre parla un po' per enigmi come una sfinge: a esempio non dice niente di

chiaro rispetto alia mia attuale situazione: io convivo da anni e lei non mi ha ancora

fatto capire cosa realmente pensa, forse accetta questa situazione perché se mi sposassi

potrebbe rischiare di vedermi di meno perché il mio fidanzato (ingegnere) lavora in una

città lontana...

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Questa vita va bene così anche a me: quando voglio tornare da mia madre vado,

quando voglio stare qui in città mi fermo... non vado in ansia... al massimo mi arrabbio

quando mi dimentico le cose in un posto invece che in un altro... mi piace anche stare

sola anche se non rimango quasi mai sola, ho molti amici.

Il padre nato nel 1924 faceva il panettiere ed è morto nel 1989 due mesi dopo che era

stato diagnosticato un tumore al cervello: Mio padre era simile a me anche se meno

estroverso per la diversa educazione e storia che aveva avuto... era molto sincero,

diretto in ciò che doveva dire, a volte un po' irruente.

Suonava il clarinetto nella banda anche se a lui sarebbe piaciuto suonare il pianoforte

e per questo ha voluto che io imparassi fin dalle medie a suonarlo, però ho interrotto al

5° anno lo studio.

Temperamento e personalità premorbosa

Eleonora si descrive come estroversa e socievole, molto attirata dalla musica e dalle arti

espressive, in particolare dal teatro che la impegna, come attrice di una Compagnia

teatrale, ormai da diversi anni, con ritmi di lavoro abbastanza sostenuti e regolari: una

volta alla settimana ha le prove di recitazione nella sua compagnia teatrale e spesso

frequenta corsi speciali di ballo e di recitazione in giro per l'Italia.

Notevole è la sua cultura in questo e altri campi, così come notevoli sono le sue doti

nella recitazione: non si coglie però in lei il benché minimo vanto anzi, molto

semplicemente, quasi sottovalutandosi, trasmette un'immagine di sé modesta e molto

consapevole dei propri difetti quali l'essere terribilmente disordinata, cosa che le fa

perdere copioni o dimenticare in giro gli strumenti della recitazione, oppure l'essere di

umili origini, cosa che le fa guardare e trattare i personaggi nobili o aristocratici nei

quali si imbatte, sia sulla scena che fuori, così come una popolana si rapporta a un

mondo che non è il suo e che spesso riesce a smascherare e deridere nelle sue falsità.

Eleonora sa trasmettere molta simpatia sia nelle fasi di scompenso ipertimico sia nelle

fasi di benessere per l'estrosità del carattere, la bizzarria del suo vestire, elegante ma che

risente nell'utilizzo dei colori e degli stili del momento che sta attraversando: il rosso è il

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colore dominante delle fasi maniacali seguito puntualmente e scalarmente dal lilla o

viola, quindi dal giallo, dal verde, dal blu e dal bordot.

Ai controlli ambulatoriali annotavamo il colore dominante che rifletteva, in maniera

precisa, le oscillazioni dello stato d'animo, anche se non sapremmo correlare i colori

delle fasi depressive perché in quei periodi Eleonora allenta il ritmo delle visite di

controllo. Un altro motivo per cui sa suscitare simpatia è la sua capacità di critica e

autocritica: riconosce benissimo quando sta "salendo "o quando è "un po' sopra le righe"

oppure quando l'eccitamento "mi prende tutta e la realtà parte"; anche il suo linguaggio

e la descrizione che lei fornisce del proprio vissuto nelle fasi di eccitamento è molto

ricco e appropriato.

La storia clinica

Dal diario clinico del 1° ricovero. (Le note dell'ingresso sono già state riportate

all'inizio). Dopo solo due giorni dal ricovero, effettuato in TSO, per la condizione

ipertimica e di agitazione, così già è capace di descriversi e raccontarsi: L'altra sera

tutto mi sembrava gioioso e in parte ostile; stavo partecipando a un corso di ballo sul

tango: il nostro maestro era invitato a uno spettacolo nella piazza della città. Io ho

incominciato a sentire tutto amplificato, i colori, le emozioni...

Non mi sono resa conto della crescita di tali fenomeni... è vero io sono un tipo

esuberante, estroverso ma non era mai arrivata a tali livelli: anzi ho vissuto periodi di

depressione anche se non ho mai lasciato il mio lavoro, né i miei impegni.

È dal 1988, dopo la morte di mio padre e che mi vengono questi momenti.

La gaiezza lascia il posto a una sfumatura di tristezza mentre la paziente racconta tali

fatti. Qui in Reparto ha legato con altri degenti con i quali trascorre buona parte della

giornata senza esagerazioni nei modi o nelle dinamiche relazionali; è spesso impegnata

in lunghe conversazioni telefoniche con il fidanzato che lavora lontano e che comunque

le è molto vicino essendosi prontamente informato di lei più volte con noi.

La madre invece non è venuta anche se la paziente è in contatto anche con lei.

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Inizia, un trattamento con aloperidolo 6mg/die insieme a una terapia marziale per il

riscontro di una grave anemia sideropenica (di cui la paziente afferma peraltro di essere

a conoscenza, a causa di meno-metrorragie datate ormai da molti anni e mai trattate).

Nell'arco di pochi giorni si ricompone sia sul piano comportamentale che idetico

presentando una critica e consapevolezza del disturbo psichico che riesce anche a

inscrivere nel contesto della propria storia: i primi disturbi con una certa rilevanza

clinica vengono fatti risalire al 1989 dopo la morte del padre: Ho iniziato ad avere delle

fasi di tristezza, in cui il mio umore, così normalmente allegro, si faceva più cupo e

triste, ma non mi sono mai fatta curare, mi arrangiavo da sola... Veramente il mio

medico di famiglia mi aveva consigliato qualcosa per la depressione, ma io non ho

voluto prendere nulla...

Ho passato anche dei brutti momenti in cui era un'impresa alzarsi e andare a scuola,

cosa che mi è sempre, ma che in quelle fasi, mi costava molto fare.. Ho tenuto duro e

poi i periodi peggiori passavano.. sopra le righe non sono mai andata però...

Viene dimessa in condizioni di discreto benessere.

La rivediamo per alcune volte nell'arco di un mese ma lei lascia intendere che non vuole

più venire e che avrebbe deciso di iniziare un lavoro psicoterapeutico da un privato.

Questa ci pare, in realtà, più una fuga che un desiderio di approfondimento e di cura: già

durante i controlli ambulatoriali si era evidenziato, a fianco di una certa consapevolezza

di malattia, il timore di affrontare e di parlare di "certi problemi" o semplicemente di

guardare in faccia la malattia psichica.

Una certa superficialità nell'affronto delle problematiche della sua vita era emersa come

struttura "difensiva" che, pur non risolvendole i problemi, le ha sempre permesso di

distanziarsi dall'angoscia che ancora le provocava il pensiero dell'essere malata

psichicamente.

Anche i tentativi di affrontare insieme il problema e di rassicurarla con il sostegno

psicoterapeutico non erano valsi a mantenere una relazione stabile.

Soprattutto l'andamento fasico della malattia giocava come motivo vincente perché la

ripresa, fuori dalle fasi di scompensazione, è sempre avvenuta con piena "restitutio ad

integrum". Si tratta di saper aspettare quando la malattia passa": questa è sempre stata la

sua filosofia.

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Atto secondo

Passa il tempo e dopo un anno ritroviamo Eleonora ricoverata di nuovo nel nostro

Reparto, anche questa volta in stato di eccitamento maniacale.

Anche questo è un ricovero avvenuto nella notte di una domenica che non è sfociato

questa volta in TSO solo perché giunta in Pronto Soccorso, accompagnata dai vigili

intervenuti per le sue bizzarie comportamentali, ha riconosciuto il collega che lavora in

Reparto e ha accettato ben volentieri di tornare a salutare "il suo Reparto".

Il giorno dopo la incontriamo e ci stupisce per la capacità di descrizione del suo disturbo

ipertimico; così scriviamo: "Nettamente più ricomposta rispetto a ieri; ci racconta che

dopo le ultime dimissioni è stata bene fino allo scorso gennaio (ora siamo a ottobre): In

quel periodo è morta mia nonna e ho avuto una bella caduta dell'umore durata fino alla

fine di febbraio... poi mi sono ripresa... Sono stata bene poi: non ho mai perso un

giorno di scuola... È da 15, 20 giorni che ho incominciato ad essere un po' sopra le

righe; lo stato d'animo è salito, si è eccitato. Sabato ho fatto una prova di teatro e poi

sono andata a cena con il mio fidanzato.

Tornata a casa mi sono accorta di aver perso il portafoglio; abbiamo telefonato al

ristorante ed era la, ma già mi ero inquietata, ero andata in ansia...

Anche l'altra volta tutto era cominciato perché avevo perso le chiavi della macchina, si

ricorda? Domenica poi è stato un crescendo: quando il mio fidanzato è partito per

andare al lavoro, pensando alle prove di recitazione, ho cominciato ad aprire l'armadio

e a provare tutti i vestiti, a mettermi le cose più strane, a provare un po' di travestimenti

teatrali... e poi la musica: avevo la radio accesa e ho cominciato come a essere guidata

dalla radio.

Tutto ha incominciato a trasformarsi: la realtà era sempre la stessa ma, dagli impulsi

che sentivo dentro di me e dagli impulsi che mi venivano dalla radio, mi sembrava di

diventare diversa: erano i miei pensieri sulla realtà che cambiavano.

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Le cose si riempivano di significati: ogni cosa aveva un significato. Seguendo la radio

mi sono sentita come in un vortice, come Alice nel paese della meraviglie: seguivo le

indicazioni come se ci fosse una caccia al tesoro dettata dalla radio per me.

La realtà è diventata un grande gioco: poi sono arrivati i Vigili perché facevo delle

stranezze, del tipo suonare i campanelli delle abitazioni (erano le 3 di notte), parlavo a

voce alta ... Sono stati molto gentili i vigili... arrivata al Pronto Soccorso ho

riconosciuto il suo collega e sono arrivata qui...

Le chiediamo se si sia mai fatta seguire da qualcuno e risponde di aver iniziato una

psicoterapia di sostegno dalla quale però non si sente molto aiutata.

Trattandosi di una recidiva di episodio ipertimico, essendosi presentata anche una fase

depressiva non trattata, e ritrovandosi di nuovo ricoverata, sembra ora più disposta ad

affrontare seriamente il suo disturbo.

Ritentiamo di spiegarle e di convincerla che è possibile fare un trattamento anche

preventivo se accetta di essere curata con regolarità e attenzione.

La proposta della terapia con sali di Litio è certo impegnativa, sia per il tempo richiesto

di almeno due anni, sia perché una come Eleonora non offre molta affidabilità

nell'assunzione regolare dei farmaci e nella continuità dei controlli ma, visto

l'approfondimento del legame e della fiducia reciproca, la proposta ci pare fattibile.

Eleonora pare anche rassicurata da un trattamento preventivo e non solo sintomatico

come è quello con i sali di Litio ai quali spieghiamo che va aggiunto nelle fasi di

oscillazione timica a volte (in fase ipertimica) un sedativo o ansiolitico, a volte (in fase

depressiva), se necessario, un antidepressivo. Anche l'effettuazione di tutti gli esami

necessari per la terapia stabilizzatrice dell'umore può aiutarla nella crescita della

sensibilità alla cura di sé e del proprio corpo in maniera adeguata: potrebbe così

controllare e affrontare la causa della sua anemia, regolarizzare i suoi ritmi di vita e

cercare forse anche un ordine e un equilibrio che tanto le paiono impossibili.

Gil esami ematochimici, la funzionalità renale, tiroidea, cardiaca sono nella norma: non

ci sono controindicazioni alla terapia, che iniziamo con 600mg/die.

Dopo la prima litiemia (dopo 1 settimana), risultata (0,2) al di sotto del range

terapeutico (0,4-0,6mEq/l), aggiungiamo altri 300mg, ai quali associamo 3mg di

aloperidolo e 2,5mg di lorazepam la sera.

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Viene dimessa dopo 15 giorni in discrete condizioni.

Nei mesi successivi il quadro si stabilizza: Eleonora ora viene con regolarità ai controlli

e presenta una buona ripresa sia sul piano clinico che su quello sociale godendo della

stima sia dei colleghi di scuola che del suo contesto affettivo per il quale Eleonora si è

un po' bizzarra ma forse questa è la sua ricchezza e originalità.

Discussione

Eleonora si pone di fronte a chi desidera ascoltare la sua storia con una ricchezza di

sintomi e di sfaccettature che affascinano irrimediabilmente: non si può non cogliere la

leggerezza dei suoi passi, la gioia nelle parole che scorrono veloci dalle sue labbra,

l'eccitazione che ne pervade il corpo e i pensieri. Intorno a lei si crea una simpatia

immediata, come se il nucleo vitale acceso dalla malattia illuminasse tutto intorno di

una luce iridescente che può coinvolgere chiunque.

Questo aspetto della personalità di Eleonora non si perde del tutto fuori dal periodo di

scompenso maniacale, anzi ne residua una predisposizione ai rapporti umani, una

facilità estrema nel cogliere i pensieri di chi incontra, che ci permette di stabilire un

rapporto autentico e saldo, attraverso cui giungere alla gestione di una terapia in primo

luogo preventiva del disturbo maniacale.

In un caso come questo, infatti, a fronte di una diagnosi che balza agli occhi attraverso

la specificità e la ricchezza dei sintomi presentati, si configura la difficoltà di istituire

una terapia che possa evitare gli scompensi e la sofferenza, senza frantumare

l'originalità e la creatività dell'animo di Eleonora.

Ci siamo chiesti se sia necessario che il teatro nel quale la vita di Eleonora si trasforma

quando la coglie la malattia venga del tutto distrutto, spazzato via con la violenza del

farmaco: forse una parte dei paramenti colorati, dei suoni, degli odori che vengono

messi in scena nel teatro di Eleonora sono la sua ricchezza, il suo modo di creare una

esistenza.

D'altra parte trasformare la vita in un "grande gioco", dilatando lo spazio e il tempo fino

a cristallizzarsi, sorvolare l'esistenza senza compenetrarla in pieno, restare alla

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superficie, sono modalità che trascinano con sé il fantasma di una solitudine

agghiacciante e temibile, che una donna come Eleonora non può sopportare.

Se infatti l'essenza della Lebenswelt maniacale si esprime in questa gioia smisurata e

dionisiaca, si intravedono nondimeno in essa i segni di una esperienza antitetica a

questa: di una esperienza di dolore e di morte.

Dalla comune conoscenza delle cose quotidiane noi sappiamo come alla vertigine della

esistenza, alla frenesia del gioco, del canto e della danza, si accompagni un elemento

"demoniaco"; e questo significa che, quando la vita celebra i suoi trionfi, le sue feste

inebrianti ed effimere, la morte è vicina: "Nella misura in cui la vita ascendente si fa

selvaggia e febbricitante essa è lambita dalla morte e dal presagio della morte"

(Borgna).

La terapia che abbiamo attuato, frutto del legame intimo e autentico con la paziente,

sembra avere permesso allora di riprendere i legami con la propria esistenza che la

malattia aveva tanto indebolito, senza però dissolvere del tutto il palcoscenico infinito e

nascosto delle sue possibilità umane.

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