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Raphael Raccolta di testi e dialoghi

Raphael - Raccolta Di Testi e Dialoghi

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Advaita Vedanta, meditazione, alchimia, spiritualità, esoterismo

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Raphael Raccolta di testi e dialoghi

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Raphael e le sue opere

(Tratto dal Catalogo generale delle Edizioni Asram Vidya) Biografia Parlare di Raphael è difficile perché, secondo certe sue espressioni, non ha storia, non ha passato, non ha memorie da riportare. Molti, spinti da una curiosità sociale e mondana, chiedono cose che riguardano il particolare e l'individuale, ma chi ha risolto la sfera dell'individualità e dell'"ombra" non ha più un nome, una forma, una storia. "La Verità - dice Raphael - non ha bisogno di banditori, non poggia sulla curiosità egoica, non si concede a chi non ha amore di ricerca, a chi non è Filosofo, direbbe Platone. Ai più interessa la cronaca mondana non la Verità". Raphael, per quanto giovanissimo, sente l'anelito alla comprensione dell'Essere. Inizia, così, un costante tirocinio che lentamente lo porta sotto la stimolazione di un "Influsso spirituale". Gradatamente, e con la rimozione di ostacoli, la sua Coscienza si palesa quale Essenza, priva di sovrapposizioni. Maturato dall'evento Raphael, con discrezione, esteriorizza la Conoscenza coscienza illuminando con l'Insegnamento ogni autentico "ricercatore". Per Raphael la più autentica ricerca è quella che tende a risolvere e trascendere il dramma della nascita e della morte. Se l'uomo, che sperimenta l'implacabile lotta del piacere-dolore e di ogni possibile eterogenea "dualità", non potesse trovare la propria Compiutezza immortale, allora tutto diventerebbe contraddittorio e l'azione stessa dell'individuo non sarebbe altro che un assurdo e nefasto volo verso l'abisso senza speranza. "Non ho avuto altra aspirazione se non quella di conoscere la Vita, altra meta se non quella di trovarmi nel contenuto di Conoscenza, altro scopo se non quello di essere". Queste parole di Raphael racchiudono una totale esperienza di vita e costituiscono, per il loro profondo significato, fonte di meditazione per lungo tempo. "Conoscere significa Essere. Quello che noi chiamiamo conoscenza non è altro che un mero discorrere mentale e un interpretare sensoriale mentre, in realtà, la Conoscenza è operativa e realizzativa, quindi trasformante. È operazione del puro "comprendere" e non del semplice concettualizzare. Conoscere, conosciuto e conoscente debbono coincidere perfettamente". Tale impostazione è il principio stesso della metafisica realizzativa che costituisce, soprattutto quella della "Non-dualità", una delle più alte espressioni dell'investigazione umana. Raphael in ogni suo scritto tende a stimolare la coscienza del lettore e a coinvolgerlo in una "presa di possesso" della Conoscenza. Suo scopo principale è quello di fornire al lettore "attento" e "qualificato" la strada più consona al suo stato coscienziale e al suo tipo di mente per potersi accostare a quell'unica Conoscenza che solo una mente analitica, appunto perché limitata, può classificare come "orientale" o "occidentale".

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Negli scritti di Raphael e nei suoi commenti ai testi si trovano ampi riferimenti ai vari Insegnamenti tradizionali e analogie utili a quanti desiderano entrare nel merito dello studio comparato delle Dottrine e nello spirito dell'unità dell'insegnamento. Nelle opere di Raphael s'incontra spesso la parola "comprensione". Per comprensione Egli intende saper fondere in sé soggetto e oggetto, "prendere con sé un dato". Ci possiamo accostare a un oggetto (interno o esterno) per acquisire una semplice nozione o per giungere a un'identità conoscitiva. Nel primo caso c'è erudizione (dualità), nel secondo conoscenza-realizzazione-identità), cioè "si vive il contenuto concettuale, si penetra l'essenza di una cosa". Questo modo di comprendere va inteso come mezzo per scoprire la Verità ed essere contemporaneamente la Verità. Chi ha letto i libri di Raphael avrà potuto notare come Egli miri a manifestare e mettere in evidenza l'unità della Tradizione, prevalentemente sotto l'aspetto metafisico: ciò non implica che si contrapponga alla visione dualistica, a quella ksatriya in quanto tale (si veda, anzi, come questa visione sia messa in rilievo nella sua traduzione e commento della Bhagavad Gita), alle varie fedi religiose, ai vari "punti di vista" - anche quelli opinabili. Una Visione veramente metafisica, se viene incarnata, non può contrapporsi a nulla "... stante che l'opposizione è necessariamente una relazione reciproca che esige la presenza di due termini e pertanto è incompatibile con l'Unità principiale" (R. Guénon). Ciò che conta per Raphael è svelare, mediante il vivere ed essere, parte o tutta la Verità che si è potuta contemplare. E per ogni ente - nel tempo-spazio - l'espressione di pensiero e di azione dev'essere aderente e coerente col proprio e particolare dharma. Sotto questa prospettiva Egli non è stato "distratto" da alcuno, né fuorviato da particolari eventi né, ancora, irretito da specifici stimoli, spesso accattivanti, qualche volta alieni. Il "Motore immobile" desta e dirige gli eventi - qualunque essi siano - senza essere da questi trasportato. In riferimento alla "Via del Fuoco", di cui spesso Raphael parla nei libri (si veda in particolare: Tat tvam asi, La Via del Fuoco secondo la Qabbalah, La Triplice Via del Fuoco), è bene sottolineare che non si tratta di un nuovo insegnamento, di qualcosa di personale o individuale né di un sincretismo dottrinario, ma della "Via universale" per la realizzazione della propria Essenza perché, in fondo, ogni Ramo tradizionale si dimostra come "sentiero di fuoco". La "Via del Fuoco" è la "Via" che tutti i discepoli percorrono, a qualunque Ramo tradizionale essi appartengano. torna all'inizio

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ALLE FONTI DELLA VITA di Raphael

Domande e risposte sull'Ultima Realtà Questo volume raccoglie una serie di domande e risposte tra Raphael e alcune persone interessate alla "ricerca"; in esso c'è un sottofondo dominante che si pone all'attenzione del lettore: l'origine del conflitto e la conseguente sofferenza umana. Il conflitto-sofferenza è essenzialmente il risultato del divario tra ciò che l'uomo ha ed è e ciò che vorrebbe avere ed essere. Quando tra queste due possibilità c'è concordanza perfetta non può esserci conflitto. Nelle sue risposte Raphael coinvolge lo stesso interlocutore nella ricerca e nello svelamento dell'Ultima Realtà. Egli presenta dimostrazioni serrate e stringenti, incalza l'interrogante a retrocedere nel processo pensativo e ad allontanarsi sempre più dalle "apparenze" fino a lasciarlo "senza sostegni". Alcune risposte sembrano ardite, ma è bene considerare che Raphael si pone dal punto di vista dell'Advaita. torna all'inizio DI LA' DAL DUBBIO Il dubbio e l'incertezza rappresentano l'inevitabile conseguenza di un oscuramento della propria consapevolezza. L'individuo proiettato all'esterno ha "dimenticato" la propria reale natura fino ad alienarsi nell'oggetto. L'essere umano naviga in un mare tenebroso, senza bussola e senza scorgere quel faro che indica la cessazione del viaggio. Alcuni sostengono che non esiste né freccia di direzione né faro di salvezza, per cui si tuffano nel grande mare della vita stordendosi ciecamente nel piacere-dolore; altri sostengono "dialetticamente" che la salvezza risiede nella glorificazione dell'io e dell'individualismo; altri, ancora, affermano che la liberazione dell'essere umano consiste nel saper diradare le nebbie ottenebranti e puntare la freccia verso la realizzazione dell'Essere. È la via, questa, della trascendenza dell'io e del ritrovamento di sé con se stessi quale realtà universale. Raphael stimola il lettore a ritrovarsi e a trovare in se stesso il sentiero che lo possa condurre "di là dal dubbio". Di particolare interesse sono i capitoli: Vita vibrante e Post mortem e Bardo Thotrol; nel primo si dispiega una visione della Vita dalla prospettiva dell'Armonia, nel secondo viene esposta in forma viva, valida ed accessibile per noi occidentali l'essenza dell'insegnamento de Il libro tibetano dei morti. torna all'inizio LA FILOSOFIA DELL'ESSERE Una concezione di vita per uscire dalle strettoie del conflitto Individuale e sociale .

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Alcune persone appartenenti a formazioni ideologiche differenti, ma tutte con istanze anche realizzative, si sono trovate unite e pressate dalle stesse domande: la politica, com'è generalmente intesa, può risolvere i problemi fondamentali dell'individuo? Pub effettivamente appianare le disparità sul piano sociale e portare l'umanità ad un ordine pacifico di cooperazione e di benessere? Le stesse ideologie politiche, nelle loro motivazioni di fondo, sono veramente valide? Può esserci una filosofia politica capace di affrontare sia le richieste psico-spirituali dell'individuo sia quelle contingenti-materiali di politica sociale? Se un cambiamento è necessario, cosa si dovrebbe cambiare e quale modalità e direzione dovrebbe prendere il cambiamento stesso? Tali problemi, ed altri ancora, vengono affrontati in questo libro da Raphael alla luce di quella Filosofia dell'Essere, o Philosophia perennis, che nel suo adattamento all'ordine politico propone una radicale trasformazione non degli effetti, ma delle cause. Sotto questa prospettiva il libro, per quanto tocchi anche problemi di metafisica realizzativa, può essere utile a coloro che cercano la Visione conforme al Principio e vogliono seguire la "giusta azione" nel mondo del divenire. torna all'inizio TAT TVAM ASI (TU SEI QUELLO) La Via del Fuoco secondo l'Asparsa vada Questo libro consiste in un "dialogo realizzativo" tra un ricercatore della verità ultima e un Asparsin. Antonio (A nel testo), dopo aver vissuto molteplici esperienze senza trovare compiutezza e soluzione ai suoi problemi esistenziali, incontra Raphael ~R nel testo) il quale gli addita la "Via del Fuoco" secondo l'Asparsa vada Questa "Via" o "Sentiero" insegna che l'essere, nella sua essenza, non è altro che l'Assoluto stesso; il conflitto, la sofferenza, la contrapposizione e la violenza esistono perché egli, non comprendendo la sua reale natura, si dirige più all'esterno che all'interno di sé. Da qui il più profondo messaggio che le Upanisad danno all'uomo irrequieto: Tat tvam asi: Tu sei Quello, mantra che rappresenta la sintesi dell'insegnamento Advaita e Asparsa. Quest'opera, indubbiamente, troverà risposta in quel lettore che, trovandosi nelle stesse condizioni di Antonio, "aspira veramente e ardentemente a liberarsi" ed è alla ricerca non di un sostegno dialettico discorsivo, ma di un sentiero operante ed attivo che trasformi la coscienza e restituisca la "dignità di essere". torna all'inizio LA TRIPLICE VIA DEL FUOCO Pensieri che vibrano per un'ascesi alchemica, estetica, metafisica. Raphael presenta, nel loro aspetto conoscitivo-operativo, tre Rami dell'Insegnamento tradizionale il cui principale scopo è quello di condurre l'individuo allo svelamento della propria Essenza. Questo svelamento, o

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processo realizzativo, si concretizza in tre linee operative: Alchimia, Amore del Bello, Metafisica tradizionale. La prima via, esposta con una mirabile sintesi, presenta le fasi tradizionali dell'Alchimia: Nigredo ("Rettificazione"), Albedo ("Separazione"), Rubedo ("Unificazione"), con accostamenti e schemi relativi all'insegnamento del Vedanta e della Qabbalah. La seconda via è per coloro che hanno sensibilità all'"Estetica trascendentale" come Armonia-Accordo col "Mondo intelligibile"; è un sentiero che si riallaccia alla Filosofia di Platone e di Plotino e in particolare all'ascesi dell'Eros divino (già trattato da Raphael nel libro Iniziazione alla Filosofia di Platone). Tramite quest'opus la corda coscienziale viene rieducata e guidata, mediante precise stimolazioni, a vibrare in ottave sempre più elevate fino a pervenire alla "rottura di livello dell'io" e ritrovarsi, così, "Musica delle sfere". La terza via è quella della Metafisica realizzativa, è il sentiero del "Fuoco incolore"; nell'Advaita si parla di asparsa che vuol dire "senza relazione", "senza sostegno". E per quei pochi che hanno l'ardire di valicare l'abisso, di abbandonare la mente discorsiva limitata per entrare nell'Intellettività pura (Nous). torna all'inizio OLTRE L'ILLUSIONE DELL'IO Sintesi di un processo realizzativo Questo libro indica i presupposti basilari, le fasi salienti e decisive di quella che Raphael definisce, in senso tradizionale, la "Via del Fuoco". Nel suo significato iniziatico il Fuoco è il grande simbolo della trasformazione, della sublimazione e della soluzione nei vari stadi della via realizzativa. La "Via del Fuoco" si basa su una crescente consapevolezza e sperimentazione dei fuochi che si manifestano tramite la vita fisica, psichica e spirituale. Quella prospettata in "Oltre l'illusione dell'io" è solo una sintesi operativa che rappresenta lo schema base di ogni possibile sadhana o disciplina spirituale. Per chi è pronto essa potrebbe essere anche sufficiente per innalzarsi alla realizzazione dell'Essere in quanto è e non diviene. A chi è maturo bastano poche indicazioni per "rimettere le ali" e volare verso la libertà. "Oltre l'illusione dell'io" è scritto da Raphael in forma di sutra in modo da stimolare il lettore più sotto l'aspetto coscienziale che mentale. Un sutra è come un balenio di un lampo che con la sua luce pub squarciare le nubi dell'avidya o ignoranza metafisica. Nel testo i vari argomenti sono visti, anche se brevemente, sotto angolazioni diverse, sono dati accenni all'Alchimia, alla Qabbalah, al Vedanta, allo Yoga, a Platone, ecc. Tutto ciò per andare incontro a quei discepoli che differiscono tra loro pet le qualificazioni iniziali, per la cultura, per l'impostazione mentale o per condizioni psicologiche particolari. torna all'inizio

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LA SCIENZA DELL'AMORE Dal desiderio dei sensi all'intelletto d'Amore La "Scienza dell'Amore" rappresenta una corrente di conoscenza profondamente iniziatica che in determinante epoche, o particolari congiunture, emerge alla luce per essere riproposta. Essa era già "affiorata" in altri libri di Raphael: La Triplice Via del Fuoco e Iniziazione alla Filosofia di Platone. Ne La Scienza dell'Amore Raphael prende in considerazione l'Amore quale potente Influsso unificatore che opera e si manifesta nei vari livelli espressivi. Si tratta di quell'Amore che "move il Sole e l'altre stelle", di quell'Eros platonico capace di traghettare l'Anima dall'Amore formale, o sensibile, all'intelligibile Amore-Bellezza. Partendo dallo studio della polarità che si esplica a livello formale come maschio-femmina, con le relative espressioni biologiche e psicologiche, il lettore, in possesso di adeguate qualificazioni, viene messo in grado di percorrere un autentico sentiero tradizionale che lo porta all'Amore filosofico. Fondamentali gli accostamenti tra i vari piani espressivi dell'ente e i corrispondenti chakra, o centri energetici, della dottrina Yoga e le conoscenze sulle polarità esistenti nello stesso individuo. Nel libro sono state inserite delle illustrazioni che riproducono dei disegni del Botticelli per la Divina Commedia riguardanti alcuni Canti del Paradiso. torna all'inizio FUOCO DEI FILOSOFI Risveglio a Verità Tradizionali Il libro è composto di note che Raphael e ha sviluppato in forma di brevi articoli in un arco di tempo abbastanza lungo. Esse, pur prospettando argomenti vari sono essenzialmente rivolte alla Tematica della Conoscenza tradizionale. Le note sono state raccolte con l'intento di fare cosa utile a quanti s'interessano della Via realizzativa. Al di là delle singole tematiche affrontate vogliamo sottolineare un'evidenza, che possiamo riscontrare nella maggior parte dei libri di Raphael: la presentazione della Dottrina tradizionale sotto il "punto di vista" prettamente metafisico e l'insistenza nel parlare in termini di Unità della Tradizione. In un mondo in cui i vari Rami tradizionali, o iniziatici, si contrastano per cieca incomprensione, Raphael indica il superamento di ogni tipo di "settarismo dogmatico" facendo riconoscere i diversi Rami non sono altro che formali di un'unica Realtà che sottostà a ogni Dottrina autenticamente tradizionale. La diversità esteriore della Dottrina può essere risolta solo con la Visione metafisica, visione che sintetizza le apparenti sfaccettature che operano esclusivamente nella sfera del sensibile. Rendere esclusivo un Ramo dottrinario significa prima o poi combattere il potenziale nemico che sta di fronte. Pensare che solo il Ramo alchemico -

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oppure quello qabbalistico, platonico, vedantico, buddhista, ecc. - sia in grado di risolvere l'avidya-ignoranza dell'ente decaduto è solo fare sfoggio di orgoglio di parte e di settarismo deteriore. Che i più siano sotto l'imperio dell"'opinione" è un fatto evidente, come è evidente che essi cercano fanaticamente di assolutizzare quella opinione; ma che un discepolo alla Conoscenza suprema possa considerare, per esempio, che solo l'Occidente oppure l'Oriente detenga la Verità è indice di opinione, non di pura Conoscenza. Voler unire al semplice livello emotivo, o esclusivamente concettuale, le tante correnti spirituali, religiose o le diverse scuole iniziatiche che si pongono soltanto nell'ambito di processi mentali e passionali è fatica vana, sprecata; diremo, è certamente illusorio e persino patetico. Solo con una visione che trascenda la "parte", la singola "corrente", si può comprendere l'Intero (come dice Platone); solamente da una prospettiva superiore si può includere e comprendere quella inferiore o il singolo, e questa "prospettiva" non può non essere quella metafisica la quale abbraccia l'Essere e il non-essere, andando ancora oltre, con tutte le conseguenze che questa inclusione-integrazione, e nello stesso tempo trascendenza, può produrre.

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Oltre l’illusione dell’io

Sintesi di un processo realizzativo ------------------------- INTRODUZIONE. Nell'introduzione all'opera: 'La triplice Via del Fuoco', c'è scritto: "La Via del Fuoco di Raphael è quella Via operativa che porta all'accensione del fuoco, al dominio e alla direzione del Fuoco, alla soluzione dello stesso Fuoco." Poiché questo semplice libricino espone solo una sintesi di un processo realizzativo, per chi vuole approfondire maggiormente la materia si rimanda all'opera summenzionata (Raphael, La Triplice Via del Fuoco) ove sono prospettate tre vie operative: a) Realizzazione secondo l'Alchimia (Sezione I, capitolo I). b) Realizzazione secondo l'Amore del Bello (Sezione I, capitolo II). c) Realizzazione secondo la Metafisica Tradizionale (Sezione I, capitolo III). Quando un aspirante è stimolato a incamminarsi lungo la Via della Realizzazione del Sé, quando ha finito di leggere le cose più svariate e cessato di parlare confusamente di cose spirituali, la sua coscienza gli impone un'azione più incisiva, operativa, tale da sospingerlo alla soluzione delle sue istanze. A questo punto da un vago cercare qua e là passa all'applicazione concreta della sadhana (ascesi realizzativa) e alla scelta di un Sentiero che sia congeniale al suo stato psicologico. Questa prospettata nel presente scritto è solo una sintesi operativa che rappresenta lo schema base di ogni possibile sadhana. Per chi è pronto essa potrebbe essere anche sufficiente per innalzarsi alla realizzazione dell'Essere in quanto è e non diviene. A chi è maturo bastano poche indicazioni per rimettere le ali e volare verso la Libertà. Se l'ente vive nel conflitto, nella sofferenza materiale e psicologica, nell'irrequietezza e insoddisfazione, vuol dire che qualche cosa non

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funziona in lui, o qualche cosa risulta sbagliata nella condotta della sua vita. Può darsi anche che il suo vivere poggi su una visione errata dell'esistenza, che segua una filosofia di vita a vicolo cieco, fino a rassegnarsi a procedere nell'inerzia o ad adeguarsi passivamente all'inconscio caotico collettivo senza alcuna prospettiva di venirne fuori. Eppure, l'uomo dell'inquietudine e dell'angoscia può avere senz'altro delle soluzioni ottimali, solo che dovrebbe essere più responsivo, più duttile, più umile e disponibile ad ascoltare una voce che difficilmente nel mondo citomico ha potuto ascoltare. Che cos'è poi una Via realizzativa se non quella che svela la Pienezza e la Conoscenza di sé, cose queste che si trovano entro lo stesso ente, ma che restano profondamente celate nel cavo del cuore perché l'attenzione è spesso rivolta al mondo del divenire più che a quello dell'Essere. Che cosa possiamo dare agli altri se la nostra vita è intessuta di emozioni, passioni, egoismi e ignoranza dei vari problemi esistenziali? Spesso neanche un conforto psicologico per sopravvivere. La maturità, a volte conquistata sotto il martello della sofferenza, impone prima o poi di distogliere l'Occhio dell'intelligenza dalle cose che non sono (mondo duale) e a dirigerlo verso lo splendore della propria essenziale natura. Indubbiamente ciò che implica un capovolgimento di valori, una rivoluzione psicologica, un rendersi non più verso la linea orizzontale inefficace, infruttuosa, ma verso quella verticale di risveglio, di svelamento di potenzialità meravigliose che sono prerogative dell'animo umano. Questa sintesi operativa è rivolta appunto a quanti, maturati sotto la legge della necessità, vogliono assaporare la mirabile via della Libertà fino a essere libertà-compiutezza. E' a questo punto che possiamo dare agli altri non semplice conforto psicologico, ma qualcosa di più. Il Fuoco di cui si parla non è ovviamente quello che conosciamo a livello fisico. Un istinto, una passione, un'idea, ecc. non sono altro che fuoco in espressione: i nostri corpi di manifestazione (fisico, emotivo e mentale) sono composti di fuoco, la stessa materia è un concentrato di fuoco, una stella è un fuoco che illumina: la vita stessa può essere compresa in termini di

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fuoco. Nello Yoga si parla di sette centri di coscienza che esprimono energia-fuoco-luce. Alcuni di essi vanno risvegliati in modo che l'energia-fuoco s'innalzi lungo una linea determinata per portare la coscienza a dimensione universale. La vita del discepolo, dunque, è una vita di fuoco, e agli inizi egli può esserne turbato fino a rifiutare questo fuoco che gli sembra sconosciuto, dal momento che non ha mai interpretato se stesso in termini di fuoco. Quando però il discepolo si sveglia, il fuoco gli si impone ed egli deve riconoscerlo; può essere difficile in principio perché non sa come trattare l'elemento né come affrontarlo. Questo avviene solo perché l'avidya (non-conoscenza della propria essenziale natura) ci nasconde il fatto fondamentale, che dal campo di tensione che procede dal Principio universale al cuore della sostanza formale, tutto è fuoco. Quando il discepolo gradatamente scopre la propria realtà di Fuoco, è liberato dal fuoco. Si riconosce nel Fuoco e costantemente bruciando, nel rogo elimina ogni cosa che si frappone tra lui e la sua essenza. Impara così a rigettare tutto ciò che non può essere sostenuto nel respiro del Fuoco. Possa questo breve trattato essere di utilità a quanti si accostano alla realizzazione del Sé. Ti dò le chiavi per aprire le porte del Tempio; in Esso troverai il Fuoco rigeneratore che ti ingrandisce quanto il creato, la spada fiammeggiante per combattere le tenebre che ti costringono, la Verità suprema splendente e costante. Raphael. I tre fuochi individuati sono potenti energie qualificate di un io rapporto a un altro io. Si può essere polarizzati principalmente su una specifica qualità energetica, per cui abbiamo individui prettamente istintuali, emotivi-sentimentali-passionali, o mentali; oppure, ancora, un io con qualità miste; però è importante ricordare che a questo livello i fuochi sono sempre in relazione a un centro egoico. Fino a quando il riflesso di coscienza del puro Sé-Nous s'identifica con tali fuochi non può essere libero di ritornare alla Fonte da cui si è distaccato per semplice temerarietà, per dirla con Plotino; ovvero per la sua libertà di operare in molteplici direzioni.

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Così, tutto il processo realizzativo consiste in opportune fasi operative: 1. Comprensione dei fuochi individuati. 2. Separazione del riflesso di coscienza animica (jiva) dalle proprie proiezioni. 3. Fissazione del Centro coscienza su se stesso. 4. Rivolgimento del Centro di coscienza, e quindi integrazione dei fuochi individuati, verso la controparte universale e principale dei fuochi. 5. Captazione dell'essenza del fuoco e stabilizzazione della consapevolezza su tale stato metafisico. In sintesi si ha che il riflesso coscienziale, da individuato e scisso dal contesto dell'Essere e quindi identificato col mondo delle semplici apparenze, riprende la sua autentica natura universale. La parabola del figliol prodigo che ritorna a casa è emblematica. L'ente umano è un centro spirituale luminoso ma, per un suo libero atto, può oscurarsi, può scendere nella caverna e vedere solo l'ombra della Realtà, anche se questo evento rimane relativo perché non può ovviamente cambiare di natura. L'immortale non può divenire mortale, però può pensarsi, credersi finito e corruttibile. Per esempio, identificandosi col contingente corpo-fisico grossolano, l'Anima immortale può considerarsi mortale, ma questo evento può essere solo apparente e non-reale. RISVEGLIO ALLA REALIZZAZIONE DEL SE'. 1. Il Fuoco di cui si parla non ha alcun riferimento con l'elemento fuoco propriamente detto; esso ha un significato molto più profondo: è l'essenza della stessa manifestazione e permea la nostra natura formale. Occorre accenderlo, dominarlo, direzionarlo sì che le scorie che ostruiscano possano essere completamente bruciate. Anche nell'Alchimia e nello Yoga si parla di fuoco. Ne 'La Via del Fuoco secondo la Qabbalah' (Raphael, La via del fuoco secondo la Qabbalah) c'è scritto: "Per spegnere il triplice Fuoco bisogna avere maturità, dignità, arditezza e conoscenza intuitiva. Chi ha spento il triplice Fuoco, avendo ancora un corpo, è un cadavere vivente (liberato in vita).

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Un cadavere vivente non lascia orme o impronte; non ha scopo da raggiungere, né dovere profano da adempiere. Il Compiuto vive solo di compiutezza e di pienezza e questa pienezza prescinde da ogni determinazione, da ogni azione, da ogni finalità. 2. O Yama, tu che conosci il fuoco che conduce al Cielo, rivelato a me, che sono pieno di fede. Io ti insegnerò quel fuoco, o Naciketas, che t'innalza al Cielo. Sappi che il Fuoco è il mezzo per ottenere mondi infiniti; Esso costituisce il loro stesso fondamento ed è nascosto in un segreto luogo. Allora gli svelò quel Fuoco, sorgente del mondo. (Katha upanisad). Il discepolo della Via del Fuoco deve avere precise qualificazioni senza le quali può cadere in equivoci e illusioni, quindi: a) Occorre lavorare alla trasformazione del proprio Tempio perché lo si è reso non più sacro. b) Avere riserbo intelligente e misurato, l'opera non deve essere turbata da agenti esterni. Ciò comporta non disperdere i Fuochi, ma renderli concentrati nell'opera di trasformazione. Quindi pensare e parlare quando la necessità lo impone, e agire solo quando il dovere è imprescindibile. c) Operare malgrado le circostanze della Vita sociale o profana. L'opera non concede attenuanti o rinvii. d) Comprendere che ogni individuo esprime qualità, energie di varia natura e colore; quindi nel tempo-spazio ogni cosa si trova al suo giusto posto. Ciò implica non-contrapposizione. e) Porsi giuste domande e considerare che molte domande non hanno risposta. Altre sono mal poste. Altre ancora il porsele è prematuro. Una giusta posizione coscienziale predispone a giuste domande. Un vero dialogo con se stessi e con un istruttore può avvenire quando le domande sono ben poste. f) Non operare in funzione del premio. Se c'è una richiesta di premio allora occorre riconoscere che c'è la mano dell'io che sollecita quell'io che

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invece bisogna incenerire o integrare. g) Ricordarsi che la via dell'immortalità non è fatta di dubbi, di rinvii, di autocommiserazioni e di paure. La Via del Fuoco è fatta per chi sa osare e lasciare ogni pregiudizio. 3. Tutto ciò implica che la Via del Fuoco è operativa, fattiva, realizzativa; quindi, senza l'accensione del Fuoco nel fornello del proprio Tempio non si può procedere. E' bene riconoscerlo fin dall'inizio per evitare future disillusioni. Se certe qualificazioni non ci sono ancora, con la tecnica dell'evocazione si possono propiziare. Tutto è in noi, ma molte cose sono a livello potenziale, occorre richiamarle all'attualità. 4. Il mondo dell'Avidya, o il fuoco condensato, non porta a qualche soluzione, non ha finalità, esso svanisce nel momento del Risveglio. 5. Il riflesso di coscienza incarnato, secondo la Tradizione Vedanta, possiede cinque guaine o corpi-vasi che operano su tre livelli universali di vita: grossolano, sottile e causale. Le guaine-corpi sono differenti condensazioni del Fuoco. Ma l'essere umano dormiente si considera con la sola guaina fisica. Sotto la prospettiva metafisica, questi tre stati e le cinque guaina non sono altro che apparenza in quanto appaiono all'orizzonte formale e scompaiono. 6. Il Fuoco può operare su tre dimensioni: può trovarsi a livello prettamente fisico-grossolano, materiale o condensato; fluido o sottile radiante, e noumenico. Quindi, un'Anima vivente può sperimentare tre stati di coscienza che si esprimono su tre livelli di Fuoco. Quando l'Anima lascia, ad esempio, il corpo fisico condensato si ritrova con il corpo noumenico e con quello sottile; quando lascia quello sottile (la seconda morte) si trova con il solo principio focale noumenico; quando questo si dissolve, per opera della Conoscenza metafisica, la Coscienza riposa nella sua natura non qualificata.

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7. La pura Coscienza è onnipervadente, quindi è trascendente e nello stesso tempo immanente, è dentro e fuori, è sopra e sotto. E' per questo motivo che il riflesso di coscienza individuato deve risolversi nell'onnipervadenza senza limiti o, in altri termini, si deve ricongiungere alla Fonte da cui in realtà non si era mai distaccato. Liberazione, dunque, è rottura di catene, di limiti, di costrizioni, di necessità, di identificazioni. Se l'essenza dell'essere poggia sulla libertà di scelta, allora una scelta, tra le indefinite, può essere quella di trovarsi in una certa condizione, anche se poi ciò comporta dualità conflittuale. 8. D'altra parte, l'antinomia dell'individuo deriva da un'insoddisfazione di essere, da un'irrequietezza che lo sospinge a cercare lungo sentieri che sono ulteriori prigioni. La soddisfazione di emozioni, di volizioni, di appetiti sono l'effetto della scissura con la sua controparte divina. E' la parte, in quanto riflesso, che cerca la sua totalità: quindi, l'irrequietezza dell'uomo è legittima, è sbagliata, invece, la direzione della ricerca. Ciò rappresenta il mito di Narciso che, specchiandosi, si identifica con la sua ombra, e col perdersi nell'ombra dimentica la fonte. La consapevolezza incarnata, mediante il veicolo mentale, appare altro da sé. La mente funge da maya, da specchio, come l'acqua per Narciso rappresenta la sostanza tramite cui appare il suo riflesso; l'identificazione con questo riflesso determina la sua caduta. La sostanza mentale, quindi è il medium con cui appare il riflesso del Purusa. La Tradizione platonica, e quindi misterica, parla giustamente di rimembranza; vale a dire, richiamare alla memoria la nostra vera identità. Lo stato di sogno è significativo per comprendere il meccanismo proiettivo e identificativo (viksepa sakti e avarana sakti). 9. Quello della sofferenza umana è un problema di scissura la quale crea dualità e questa, a sua volta, è fonte di conflitto, di io e non-io, di attrazione-repulsione e così via. Colmare la scissura significa ricomporsi nell'unità, essere un tutt'uno, ritrovare la propria integrità. 10. Realizzazione è dunque risveglio a ciò che si è dall'eternità. E' prendere consapevolezza del Fuoco noumenico e poi di quello non-qualificato quale

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Punto polare assolutamente costante. Di conseguenza non è procedendo lungo linee orizzontali del divenire-movimento impermanente che possiamo ritrovarci, ma è sul piano verticale; non è andando che possiamo ritrovare la libertà ma è fermandoci. 11. Quindi il nostro problema fondamentale è quello del risveglio. Più che un'ideologia per la salvezza del mondo, dobbiamo comprendere ciò che siamo, ciò che è la nostra vera Essenza immortale. Il resto viene ovviamente da sé. Chi non è animato del sacro fuoco di Essere non può seguire la Via del Fuoco. Non possiamo volare se non dispieghiamo le ali; non possiamo irradiare se non accendiamo il Fuoco. 12. Dal punto di vista della Conoscenza assoluta (paravidya) c'è solo una Realtà: il Fuoco non qualificato e non determinato; dal punto di vista della conoscenza sensoriale o empirica (aparavidya) c'è una Causa prima e molti effetti. La realizzazione dell'essere si dispiega lungo un filo sperimentale che va dalla consapevolezza del molteplice a quella dell'Uno principale fino allo svelamento della Realtà senza secondo. Per dirla con Platone, si passa dall'uno e i molti (mondo del sensibile) all'Uno molti (mondo dell'Essere) e infine all'Uno-Uno o Uno-Bene; vale a dire, all'Uno metafisico non qualificato e non determinato. 13. La mente analitica (dianoia) costituisce lo strumento della rettificazione di qualità, mentre la mente superconscia (noesis) è lo strumento di svelamento degli universali e della loro integrazione nella pura Coscienza. 14. Lungo la Via del Fuoco occorre adattare la nostra visione a quella della Verità costante. Però la mente dianoetica, sotto l'impressione dell'ego, vuole adattare la verità alla sua parziale e distorta visione. Per morire a se stessi occorre coraggio: la nostra concezione d'incompletezza è tenace, quando si pensa di averla debellata essa germoglia ancora e fiorisce, come se la nostra azione non l'avesse neanche sfiorata.

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15. D'altra parte rivolgendomi a te che leggi e che sei preparato, non puoi badare a quello che dicono gli altri, il mondo dell'io deve pur dire qualcosa; ma ormai esso non costituisce più il cibo del tuo vivere. Se poi ti aspetti che l'insegnamento sia nato per soddisfare certe istanze inconsce dell'io, dimentica la Via, essa ancora non fa per te. 16. Con la Via del Fuoco è bene ripeterlo, perverrai, prima di tutto, a impadronirti del tuo Centro focale, poi a risolvere il Fuoco condensato, a sperimentare il Fuoco onnipervadente e, infine, a risolverti nel Fuoco non-qualificato o nell'essenza stessa del Fuoco. Il Centro focale rappresenta il tuo polo direzionale, intorno a cui roteano i fuochi psico-fisici. Il Fuoco condensato individuato rappresenta la tua apparenza. Il Fuoco onnipervadente ti palesa la realtà dell'Unità; l'essenza stessa del Fuoco, ti svela l'Uno senza secondo perché il secondo, a qualunque dimensione e grado possa appartenere, è stato risolto e integrato nell'Uno uno. 17. Comprensione dei fuochi psicofisici, loro coordinazione e integrazione, formazione di un unico Fuoco e infine direzione del Fuoco uno, tutto ciò costituisce il movimento essenziale della Via del Fuoco. Ecco un quadro dimostrativo su cui occorre lavorare: Formale = Sfera fisica grossolana = Fuoco condensato. Formale = Sfera sottile iperfisica = Fuoco radiante. Informale = Sfera causale o noumenica = Fuoco noumenico principale. Sfera causale o noumenica + Fuoco noumenico principale uguale fuoco incolore non-qualificato A livello microcosmico abbiamo: Corpo grossolano = Fuoco del fisico denso. Corpo sottile = Fuoco radiante. Stato di pura coscienza = Fuoco incolore non qualificato.

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- TRASCENDERE LA MENTE.- 18. In che modo, ad esempio, possiamo dominare e poi trascendere il pensiero individuato? Per comprendere questo processo prima di tutto è bene capire il funzionamento della mente. Raffiguriamoci la mente come una sostanza-energia vibrante che, tramite il suo ritmo, può assumere diverse forme con caratteristiche qualitative indefinite. Paragoniamola all'argilla con cui possiamo plasmare molteplici forme come vasi, giare, statuette e così via. La sostanza mentale plasma e ritma immagini che poi vengono concettualizzate o rappresentate mediante idee e concetti. E' bene soffermarci sulla parola immagine; infatti, quando pensiamo formuliamo dei ritmi-immagini aderenti ai vari oggetti. Così, osservando un albero plasmiamo la nostra mente a immagine dell'albero; in altri termini, adeguiamo la nostra sostanza ai ritmi dell'albero. Possiamo anche chiudere gli occhi e vedere questa immagine nella nostra spazialità mentale (tale procedimento si chiama visualizzazione); quindi, la nostra sostanza mentale non fa altro che assumere la forma degli oggetti percepiti e osservati. Abbiamo detto che la mente svolge anche un'altra funzione: quella di ideare e concettualizzare; cioè trasforma l'immagine o l'oggetto in termini di concetto e poi di linguaggio per poter comunicare e trasmettere verbalmente. Inoltre, la mente per ideare l'immagine dell'albero e afferrare la forma dell'albero, per impossessarsene e plasmarsi convenientemente, occorre che esca da sé, dalla sua quiete. Abbiamo quindi questa sequenza: Sostanza mentale. prima fase = Immagine. seconda fase = Concetto. terza fase : Parola, Suono.

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19. L'immagine mentale dell'albero, ovviamente, assume la funzione di oggetto e se esiste un oggetto deve pur esserci un soggetto. I due sono sempre interrelati, interdipendenti. Se, ancora, facciamo esperienza diretta dell'intero processo, notiamo che questo soggetto cambia col cambiare degli eventi-cose; lo stesso soggetto può essere allegro, triste, euforico, ecc. Quel soggetto che è stato triste viene contraddetto dal soggetto che diventa allegro, ecc. Un oggetto può prima rallegrare poi rattristare lo stesso soggetto. L'io e il non io sono sempre dati di relazione, sono in movimento e quindi aleatori. Possiamo concludere che il soggetto e l'oggetto rappresentano momenti psicologici, quindi sono tempo spazio. Se sono movimenti ci dev'essere di conseguenza un qualcosa di stabile che percepisce i differenti movimenti e li collega: questo qualcosa non è altro che la coscienza la quale, appunto, è cosciente dell'alternarsi dei vari moti del soggetto e dell'oggetto. Abbiamo perciò: Coscienza = soggetto = oggetto. Così, dei tre, la coscienza risulta la costante essendo presente nelle varie modificazioni mentali e, anche quando la stessa mente tace; difatti riconosciamo di non aver alcun pensiero, cioè di non aver proiettato il soggetto e l'oggetto. E' lo stato della coscienza pura di là dal tempo, dallo spazio e dalla causa. 20. In che modo, dunque, possiamo dominare e trascendere la mente di relazione e quindi individuata? Da quanto abbiamo esposto si può dedurre che il risultato può ottenersi separando il soggetto oggetto dalla coscienza per poi "fissare" la stessa coscienza su se stessa. Così facendo la coscienza consapevolezza diventa assoluta padrona del movimento dualistico fino a fermarlo, se lo desidera. E' a questo punto che si può riconoscere che dei tre l'unica realtà-costante è la consapevolezza la quale è ipseità; vale a dire, non dipende da altro se non da se stessa. L'io mondo è sparito; i due fattori, che sono divenire e relatività, vengono risolti, integrati, trascesi.

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SOLUZIONE DEI COAGULI ENERGETICI. 21. Può avvenire che nella nostra spazialità si presentino contenuti psicologici o, meglio, coaguli energetici qualificati che hanno una certa forza e persistenza da condizionare il centro coscienza non stabilizzato. Anzi, ci sono particolari contenuti coaguli che possono rendere l'ente completamente aggiogato e frustrato; ogni individuo ha un suo guardiano della soglia con cui deve fare i conti, a volte possono essercene più di uno con grave difficoltà della coscienza a gestire il proprio equilibrio. Che cosa occorre fare in questi casi? Proponiamo alcune modalità operative: a) Con la potenza del suono (mantra) disgregare il coagulo. E' un atto dinamico, preciso e immediato. b) Accettandolo e integrandolo nella pura coscienza; occorre naturalmente avere adeguata posizione solare coscienziale. c) Rallentando il ritmo del contenuto e sottraendogli energia fino a neutralizzarlo completamente. d) Operando con una qualità energetica opposta a quella del contenuto. In questo caso si ottiene una sorta di trasmutazione alchemica. 22. Però ciò che occorre non è combattere in modo frontale il contenuto. I quattro modi di operare vanno espressi in termini di calma determinata, di consapevole amorevole fermezza; non è la volontà egoica, ma la consapevolezza decisa a essere arbitro dell'evento. Inoltre non bisogna giudicare, biasimare oppure giustificare il contenuto. La Visione che tutto ciò che si percepisce nella propria spazialità non è altro che un secondo relativo, per quanto di particolare consistenza, può favorire una maggiore coscienza solare. Assoluto è solo colui che percepisce, colui che osserva, che è consapevole, colui che è testimone di ogni movimento qualitativo; e quando si prende consapevolezza della propria assolutezza l'atteggiamento verso il secondo cambia completamente e la soluzione dell'evento diventa certezza. Sotto questa prospettiva si può dire che la Conoscenza tradizionale

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rappresenta una quinta modalità operativa; anzi, per chi è predisposto basta la Conoscenza a svitalizzare, neutralizzare e sciogliere ogni possibile secondo che può presentarsi all'orizzonte della circonferenza psichica. Il mantra disintegra la forma, la Conoscenza svilisce e scioglie, l'Amore (che parte dal purusa incarnato) trae a sé tutto ciò che tocca integrando e risolvendo. NASCITA DEI CONTENUTI O COAGULI ENERGETICI. 23. Ma come nasce un contenuto psicologico o un coagulo energetico? Per comprendere meglio tale processo possiamo rifarci alla visione Vedanta, soffermandoci, per il momento, sulla polarità purusa e prakrti. Il purusa è l'aspetto positivo, è l'Essenza, mentre la prakrti rappresenta la sostanza, l'energia (la chora platonica) con cui si modellano le forme. La maya è la sostanza mediante cui le forme appaiono alla percezione. Ora, un contenuto psicologico, abbiamo detto, è un coagulo energetico qualificato; ciò vuol dire che il purusa incarnato (quel Raggio di luce immanente) tramite la mente formatrice, che è sostanza, modella il contenuto qualificandolo secondo l'intenzione conscia o inconscia. Così, un pensiero qualificato di qualsivoglia natura ripresentato, reiterato persistentemente crea, appunto, una condensazione della sostanza, fino a formare un ente, direbbe Plutonio, tale da condizionare il riflesso del purusa. Si diventa ciò che si pensa, questo è l'eterno mistero, afferma la Maitry upanisad o, in termini occidentali, l'energia segue il pensiero. Si comprende quindi la necessità di disciplinare la mente, in modo che possa diventare uno strumento docile nelle mani dell'Ente essenziale. 24. Occorre ricordare che il processo realizzativo consiste nello sciogliere le forme coagulate (contenuti qualitativi individuati), rallentare il moto della prakrti e infine risolverla nel purusa; la sostanza non è altro che una semplice polarità. A questo riguardo la simbologia di Adamo e di Eva è significativa. Eva sostanza nasce dalla costola di Adamo essenza. Si può ancora dire che l'uno, proiettando un suo riflesso, crea il due; o, ancora, il punto, sdoppiandosi, forma la linea.

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Sulla via del ritorno la quantità formale (molteplici contenuti ordine e grado) deve ridursi all'unità e questa reintegrarsi nell'Uno senza secondo. Il conflitto sofferenza deriva dal contrasto tra i vari contenuti avendo questi qualità opposte; è un dato evidente che nella nostra circonferenza psichica esistono enti creati da noi che si combattono per la loro sopravvivenza. Occorre far tacere le molteplici voci che intorbidiscono e travolgono la coscienza; occorre, senza sentimentalismi, riconoscere che: o è la sostanza che, in modo caotico, lambisce l'intera circonferenza, oppure è il purusa, o l'ente reale, essenziale, che impone il ritmo direzionale alla circonferenza. La sostanza è un cattivo padrone, ma un ottimo e utile servo. Lasciare che la prakrti si modelli secondo i vari stimoli interni o esterni che può ricevere senza l'intervento direttivo dell'Ente essenziale, o "Ordinatore interno", significa trovarsi completamente alienati. Il disordine di una società è il riflesso specchio del disordine della sostanza individuale che non viene plasmata secondo la pura Idea, direbbe Platone, o la volontà spirituale della Coscienza. L'ignoranza di ciò che si è (avidya) porta al vivere proiettivo psicotico, quindi al vivere folle. Infatti il mondo degli ego empirici è una dimensione paranoica; il Liberato ha sconfitto l'ignoranza; gli rimane il vivere privo di proiezioni, senza aspettative: persino i suoi stessi atti possono apparire importanti agli occhi degli altri ma non ai suoi. 25. Quando, parlo sempre a te che leggi e che sei pronto, hai sciolto i vari contenuti, o le indefinite forme qualificate, nella tua circonferenza esistono da una parte il purusa incarnato e dall'altra la prakrti completamente integra, neutra, non qualificata. Se hai ancora sete di compiutezza e di unicità devi risolvere (come hai già notato precedentemente) la polarità prakrti nel purusa in modo che i due diventino uno. A questo punto non puoi dire: Io sono questo (il questo rappresenta la molteplicità dei contenuti e delle qualità che caratterizzano la tua spazialità psichica). Non c'è alcun secondo con cui puoi identificarti; sei solo: Io sono; anzi, semplicemente Sono, avendo eliminato appunto il questo. Sei in uno stato coscienziale molto avanzato perché ti sei portato nella

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condizione primordiale prima della caduta o della scissura, avendo sciolto anche il senso dell'io (ahamkara) o l'appartenenza a un nome e a una forma. Questo Sono è la causa prima che può muoversi negli stati molteplici dell'Essere universale in perfetta libertà e può avere indefinite possibilità espressive; è lo stato ottimale. Ma ogni causa è già determinazione; per quanto principio, che ha dato origine a ogni possibile divenire, rappresenta la matrice dell'imprigionamento, degli eventi che prendono concretezza. Quindi abbiamo: Sono = esistenza in manifestazione come causa primordiale. Io sono = Consapevolezza del me che esiste. Io sono questo = il me che si identifica con le proiezioni offerte dall'Io sono. 26. Gli stati di veglia, sogno e sonno, che sono movimento, appartengono all'Io sono questo, all'Io sono e al Sono. La consapevolezza assoluta è il testimone dei tre stati e del movimento dell'esistenza e della non esistenza dei tre stati. Così l'Essere, in quanto è e non diviene, è di là non solo dal tempo e dallo spazio, ma anche dalla causa o dal principio da cui tutto emerge; quindi, occorre risolvere il Sono (in quanto coscienza universale principale, seme degli indefiniti stati dell'ente) nell'assoluta Realtà non determinata. Diremo che il Sono è la prima determinazione o specificazione dell'Essere senza secondo non qualificato o dell'uno metafisico. Ecco un quadro riassuntivo: Io Sono = Io sono questo. I punti sono le molteplici voci qualificate. La sostanza resa limpida, neutra, scevra di coaguli. Soluzione della stessa subcoscienza. Sono = La polarità negativa o sostanza si risolve nell'unità causa principale. Realtà assoluta non qualificata.

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IL JIVA ENTRO LA FORMA. 27. Possiamo considerare quanto esposto sotto un'altra prospettiva: c'è l'Etere onnipervadente (Isvara Essere) che prende indefinite forme-guaine (= Uno molti); quella parte di Etere (jiva) entro il vaso-guaina può identificarsi con i vari veicoli-corpi (fisico grossolano, mentale, buddhico, ecc.) credendosi così separato sia dall'Etere universale sia dagli altri eteri circoscritti dalle guaine vasi, per cui si pensa Io sono questo in contrapposizione con gli altri enti. La realizzazione consiste nel disidentificarsi dai vari corpi guaine vasi, con le loro qualità specifiche, fino a riconoscersi: Sono Etere (e non più corpo guaina). Qui l'io è scomparso perché l'Etere di questo stato non si concepisce più come individuo con un nome e una forma; l'ulteriore passo è di riconoscersi come Etere onnipervadente poiché l'Etere entro il vaso forma è della stessa natura dell'Etere fuori del vaso. Ogni forma vaso appare e scompare, per cui solo chi vi è identificato può parlare di nascita e morte, di trasmigrazione, di tempo e spazio, ecc. In definitiva è la Coscienza universale (Isvara Essere) che assume delle forme e si particolarizza, (come una parte di Me mi manifesto. Bhagavad Gita), e l'identificazione dell'Etere entro il vaso con le forme fa nascere l'individualità separata; inoltre ciò costituisce il mezzo per far muovere la ruota del divenire. Fino a quando c'è identificazione c'è anche l'io e il tu, c'è manifestazione, oggettivazione, c'è un vedersi altro da sé; quando l'Etere entro il vaso si riconosce fattivamente, e non teoricamente, ciò che realmente è "comprende" il vaso, con le sue varie qualificazioni, lo trascende e poi integra Isvara Essere, quale causa prima della esteriorizzazione, e si risolve nell'uno senza secondo o nirguna. 28. Il jiva entro il vaso è un momento coscienziale di Isvara che risponde al Jiva principale universale e questo, a sua volta, è un momento coscienziale del Brahman nirguna o dell'essere non qualificato e metafisico. I vasi corpi sono alimentati, in ultima analisi, dall'etere-isvara, dalla causa prima o dal seme principale (corrispondente al Sono microcosmico). Tutta la natura, compresi i nostri veicoli corpi, è oggettivata e attivata

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al Mondo delle idee secondo Platone. Questo seme ha la capacità quindi di passare dalla potenza all'atto con una forza straordinaria, per quanto relativa e perciò passibile di essere trasceso. Da tutto ciò possiamo dedurre che l'io, quale fattore di separatività, non esiste, rappresenta una pura illusione. Noi non siamo, né potremmo essere, separati dall'etere essere. Se crediamo di esserlo, ciò è solo apparente, utopistico. Ne consegue che non c'è da conquistare qualcosa, da andare in qualche parte o da raggiungere una mèta lontana; c'è solo da risvegliare la consapevolezza all'essere ciò che è. 29. La Realtà senza secondo che tu sei non è mai nata né può perire, è sempre stata e sempre sarà; non è tale Realtà che deve realizzarsi ma il suo riflesso che vive le contingenze del tempo e degli effetti; essa è di là dallo stato di veglia, di sogno e di sonno profondo senza sogni; l'intero universo, con le sue indefinite possibilità espressive, pur sempre aleatorie, rotea intorno al Centro costante il quale non dipende da nessuna casualità o circostanza, mentre queste dipendono da Quello. Finché non ti sei scoperto simile Realtà puoi crederti anche tante cose belle ma, per quanto molteplicità, ti trovi in uno stato illusorio, rimanendo prigioniero delle apparenze che il tempo ti offre per stordirti e farti dimenticare lo stato d'inquietudine in cui ti trovi. 30. Se domandi all'io empirico se puoi realizzare tutto quello che abbiamo detto ti risponderà che è impossibile; ciò dimostra che non è il caso di turbare coloro che sono completamente fusi con il prodotto egoico e quindi con le guaine vasi. Però se inizi a osservare o, meglio, a essere consapevole del movimento dello psichico: pensieri, emozioni, desideri, istinti, ecc., che appartengono ai veicoli corpi, ti accorgi che per quanto sia difficile non è impossibile. E' questione di pazienza, di perseveranza, di sete di compiutezza, di affrancamento dall'identificazione con ciò che non si è. Malgrado le circostanze della vita che, come abbiamo detto, sono sempre contingenze anche se qualche volta dolorose, tu continua a separare la

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Presenza etere consapevole dall'osservato; ti accorgerai, come avrai potuto notare in precedenza, che in te tutto va e viene, ogni cosa appare e poi scompare, ma non scompare la Presenza consapevole; difatti, essa è cosciente dell'assenza e della presenza di qualunque movimento che possa determinarsi entro la tua circonferenza. Noi siamo talmente abituati a sentirci vivi solo se esprimiamo pensieri, emozioni, ecc., che non abbiamo idea dello stato di Essere senza dualità. Né possiamo concettualizzare tale condizione perché non otteniamo alcun risultato: la Presenza è uno stato da realizzare, di là da ogni movimento mentale, anche perché essa si trova dietro la stessa mente, essendo questa un semplice mezzo di espressione, un corpo vaso. Ecco perché ti si parla spesso di realizzazione, di attenzione coscienziale ecc. Una persona completamente fusa con lo strumento mentale desidera a tutti i costi capire, con la sola concettualizzazione, ciò che non può capire; qui non si tratta di capire ma di essere, tout court; e per essere occorre solo una presa di consapevolezza totale; diremo che solo nel silenzio dei veicoli, strumenti di rapporto o di relazione, puoi scoprirti, puoi essere ciò che realmente sei, e questo stato ti offre pienezza, quindi libertà e beatitudine; pienezza che puoi offrire a chiunque per un puro atto di amore-donazione, e finalmente senza aspettative, proiezioni, desideri, appropriazioni. GLOSSARIO: Advaita (n): non dualità. Assenza di dualità. Ahamkara (m) : ciò che fa l'io, senso dell'io empirico. Apara-vidya (f): conoscenza non suprema. Atman (n): il Sé, lo Spirito, la pura Coscienza, l'io ontologico. Avarana sakti (f) : il potere velante. Avidya (f): non conoscenza, ignoranza della propria esenza. Brahman (m) o Brahma (n): la Realtà assoluta. Saguna (qualificato), nirguna (non qualificato).

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Cakra (n): centro, plesso. I cakra rappresentano determinazioni dell'energia consapevolezza o sakti. Chora: spazio, forma in cui si trova una cosa, fondo comune in cui si succedono forme diverse, essenza della materia. Darsana (n): punto di vista sulla Dottrina dei Veda, scuola filosofica. Le principali sono sei: Samkhya, Yoga, Vaisesika, Nyaya, Purva Mimamsa e Vedanta. Dianoia: mente empirica discorsiva, processo mentale, opinione. Isvara (m): Persona divina, Dio persona, la prima determinazione dell'assoluto Brahma. Jiva (m): essere vivente. Anima individuata. Riflesso dell'atman sul piano universale. Jivanmukta (pp): liberato in vita. Colui che ha spento il triplice Fuoco. Manas (n): mente formale immaginativa. Mente individuata ed empirica dotata di capacità razionale-analitica. Mantra (m): formula o parola sacra. Parole o suoni di potere. Maya (f): fenomeno, il mondo dei nomi e delle forme come fenomeno vitale. Mondo sensibile. Noesis: intellezione, intuizione superconscia, intelletto puro, conoscenza intelligibile. Nous: intelligenza suprema, intelletto puro, spirito supremo. Paravidya (f): conoscenza suprema, ultima. Prakrti (f): natura, la sostanza universale, natura naturans, la sostanza con cui sono fatte tutte le forme sensibili e intellegibili. Purusa (m): uomo, persona, essere, il Sé, io spirito. Sadhana (f): ascesi, disciplina spirituale, sforzo al quale si sottopone il discepolo per la realizzazione. Sé: Spirito, l'assoluto nell'individuo, Essenza dell'ente quale riflesso del Brahman. Uno Uno: per Plotino è l'assoluto non qualificato, corrisponde al Brahman nirguna del Vedanta. Uno senza secondo: advaita, corrisponde all'uno uno platonico.

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Vedanta (m): il compimento dei Veda. E' uno dei sei darsana, denominato anche Uttara Mimamsa. Vidya (f): conoscenza, conoscenza della realtà. Viksepa sakti (m): il potere proiettivo.

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Introduzione allo Yoga-Darshana da Patañjali, La via regale della realizzazione (Yogadarshana), traduzione dal sanscrito e commento di Raphael, Roma, Asram Vidya, 1992, pp. 9-26. In questi ultimi anni si è parlato spesso, a proposito e a sproposito, di Yoga; anzi, questa parola è stata talmente profanata che oggi se ne diffida persino, anche se poi non si sa esattamente che cosa veramente voglia dire. La parola Yoga deriva dalla radice yuj che denota l'"atto di aggiogare" e, nel nostro caso specifico, risolvere le turbolenze mentali e fisiche in modo da ottenere una perfetta unità coscienziale la quale va oltre i limiti del pensiero, quindi di là dalle categorie del tempo-spazio. Vi sono, ovviamente, molti tipi di Yoga, dall'Hatha all'Asparsha metafisico. Quello che stiamo trattando è il Raja yoga codificato da Patañjali, quello regale (raja) che porta alla reintegrazione. Lo Yoga non è una religione, come comunemente si intende questo termine, è invece una scienza, la scienza che studia l'ente nella sua totalità; è anche filosofia perché offre una visione della vita e della natura. In quanto scienza di ordine sperimentale, quindi è eminentemente pratico; in quanto filosofia è teoria, per cui esso consiste di teoria e prassi. Lo Yoga, come qualunque Dottrina tradizionale, non cerca di convincere nessuno, non impone ad alcuno le proprie convinzioni Filosofiche e la propria prassi; vive e si esprime nella dignità di ciò che è. Se qualcuno ne ha un concetto errato e perché --soprattutto in Occidente-- se ne è fatto una semplice professione, un mercato, una parodia, degradando ciò che è sacro, per quanto queste siano pur sempre eccezioni. Alcuni poi, per semplice spirito di contraddizione, possono denigrare ciò che non comprendono; altri danno giudizi per "sentito dire", senza avere nozione o conoscenza diretta della materia; altri poi --per interesse di parte-- hanno le loro ragioni per denigrare; taluni, avendo paura del "diverso", del nuovo, della stessa sana ricerca --psicologica, filosofica, ecc.-- fuggono e cercano di far fuggire altri che si lasciano convincere per gli stessi motivi; altri ancora sono solo beghini, bigotti, in qualunque campo dell'attività umana, e temono il "diverso" anche perché pensano ingenuamente di possedere la verità assoluta; altri non hanno alcuna istanza di nessun genere, vegetano soltanto e naturalmente non possono ammettere che alcuni si avviino per qualche ricerca; altri vivono solo di istinti-sentimenti-passioni e quando vedono che un certo tipo di ricerca può frustrare la loro condizione psicologica temono, si ribellano e "condannano"; altri, essendo aggrappati al loro "io" bambino, fuggono per spirito di autoconservazione.

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Gli individui vivono a diversi gradi di evoluzione, di sviluppo intellettivo e coscienziale, e spesso è difficile creare rapporti, non perché si è beceri, ma perché si è su due lunghezze d'onda diverse, si vive su due piani opposti, su stati vibratori differenti. E ciò può capitare senz'altro nello stesso nucleo familiare, fra fidanzati, compagni e amici. Quale può essere, dunque, l'atteggiamento del ricercatore verso il mondo sociale o l'"inconscio colleltivo"? Diremo di estremo riserbo, possibilmente di silenzio; l'"inconscio collettivo" è pressato da certe esclusive e peculiari necessità: lavoro per vivere, famiglia per evitare la solitudine, acquisizione di cose materiali, divertimento, negazione di ogni tipo di ricerca che non sia finalizzata a scopi peculiarmente materiali. L'"inconscio collettivo" non vive, ma si lascia vivere; non crea, ma dipende; non pensa, ma si lascia pensare. Esso è un'enorme sedimentazione, incrostazione, detrito di credenze, opinioni, fideismi, emozioni, passioni, interessi materiali e sensoriali, convinzioni non sorrette dalla ragione, cose queste che si perpetuano da millenni e che sono sovrapposte alla pura intelligenza. Un'altra caratteristica dell'"inconscio collettivo" è che la sua credenza (pístis per Platone), e persino la semplice immaginazione (eikasia), è elevata a verità assoluta, quindi esso è dogmatico, e chi la pensa in modo diverso è anche deriso, spesso combattuto. II nuovo, il diverso per l'"inconscio collettivo" (e naturalmente per gli enti che vi soggiacciono) rappresentano una minaccia, per cui si difende nervosamente, a volte violentemente. Psicologicamente si può dire che sono le difese dell"'io" il quale si sente spaventato e minacciato nei riguardi della sua credenza, alla sua opinione. Uscire dal proprio alveo consolidato non è facile, né è dei più. Un qualunque esponente di un nucleo familiare che esca un po' dal solito ménage consolidato può essere rienuto "anormale". Il "gregge" impone determinati comportamenti, e chi vuole uscirne deve fare molta attenzione; è stato sempre così nella storia dell'umanità. Il "diverso" viene normalmente visto con sospetto e, quando è possibile, anche neutralizzato. Gesù afferma: «Appo Iddio i savi sono pazzi e i pazzi sono savi», e la stessa Bhagavad Gita recita: «Ciò che è giorno per il saggio e notte per l'ignorante». Può sembrare veramente strano e insolito che la ricerca, qualunque essa sia, anche quella della verità filosofica, spirituale, psicologica, ecc., il vivere conforme a certi principi che esulano dal comune opinare (doxa), l'affinamento di sé non debbano essere apprezzali dai più, purtroppo è così e bisogna arrendersi all'evidenza. L'uomo pone sempre le sue speranze nell'oggetto (apparenza) lontano, anziché trovare nel suo ambito più immediato il sostanzialmente vero. Dice Pindaro: «La categoria più inconcludente è tra gli individui e quella

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di coloro che denigrano ciò che è loro vicino per rivolgersi verso ciò che è lontano, lasciando che le loro speranze irrealizzabili inseguano fantasmi». D'altra parte, quel sincero ricercatore che sente una precisa "vocazione" e un'autentica direttiva coscienziale non può non procedere. Tradire gli altri non è lecito, ma tradire se stessi è suicidio. Quanto si è detto è solo una semplice disamina di certi stati psicologici sia individuali sia appartenenti, secondo la psicologia, all'"inconscio collettivo", e come tale va considerato e meditato. D'altra parte non abbiamo detto niente di nuovo, tutto ciò è noto a filosofi, psicologi e pedagoghi; noi abbiamo cercato di metterlo solo in evidenza. A chi è essenzialmente indirizzato lo Yoga? A coloro che, per esperienza diretta, per intuizione superconscia, per fede nel principio di trascendenza, per maturità coscienziale, per sete di ricerca della verità, ecc., possono sentire la "chiamata" alla comprensione di sé. Lo Yoga è la scienza del conoscersi per Essere. Lo Yoga porta l'ente a ritrovarsi unità, mentre l'individuo in genere è molteplicità, dicotomia, conflittualità. Nel suo vivere tra pensiero e azione v'è sempre contraddizione, spesso opposizione; la coscienza viene lacerata dall'irrequietezza delle energie psico-fisiche causando anche stati paranoici e nevrosi di varia natura. Il Raja yoga colma le scissure, integra il mondo della dualità abbracciando, con un colpo d'ala, la sfera del sensibile e dell'intelligibile. Il Raja yoga, perseguito con lealtà e vocazione, svela la Beatitudine e la Pienezza che sono della pura Coscienza, di là da ogni oggetto-evento di ogni ordine e grado. Dal desiderio appropriativo ed egoistico (amore di sé) lo Yoga di Patahjali porta a svelare l'Amore che si dona, si offre; Amore che non è debolezza, passività o passionalità, ma comprensione sapiente e solare. V'è un'altra considerazione da fare ed è questa: alcuni possono pensare che solo la Tradizione orientale sia eminentemente pratica, realizzativa, interessata più al Soggetto ultimo che all'oggetto formale, più diretta alla coscienza che all'erudizione mentale fine a se stessa. Ciò però può essere molto riduttivo. In Occidente vi è stata sempre una Tradizione iniziatica la quale, per essere tale, si è proposta la trasformazione effettiva, pratica e vitale dell'ente. Quella antica, per esempio, era una filosofia di ordine realizzativo, trasformante; aveva come finalità non la semplice speculazione concettuale, ma la realizzazione di uno stile di vita, di uno stato di coscienza. La dialettica filosofica era e dovrebbe essere un preciso processo di liberazione dell'Anima dalle illusioni mondane, dalle proiezioni dianoetiche e dai vari piaceri sensoriali; proponendo essa una visione del vero essere che è anche autentico Bene. Lungo il tempo, però, con la prevalenza della concezione materialistica e positivista, tale concezione è venuta a sfumarsi fino a perdere la stessa essenza del filosofare per essere. Nell'epoca moderna asserire di vivere, di esprimere coerentemente la filosofia di un Parmenide, Platone o Plotino potrebbe

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sembrare anacronistico, per cui quei pochi che vogliono perpetuare la "visione di vita" della Tradizione filosofica occidentale (l'Oriente direbbe: jñana marga = via della Conoscenza, quella che la dea propone a Parmenide) devono trovarsi in circoli chiusi e nel silenzio. Così, il Raja voga, per quanto poggi su una visione filosofica di vita, è eminentemente pratico, e il suo contesto operativo si sviluppa in cinque sequenze che abbracciano l'interezza espressiva dell'ente. 1. Regole e condotta etica di vita. Purificazione delle potenze. Preliminare. 1° e 2° mezzo o anga Individualità samsarica 2. Posizione (asana) e pranayama. Purificazione del corpo pranico vitale. Fisico-pranico. 3° e 4° mezzo 3. Astrazione dai sensi. Inizio del rientro in sé della Coscienza. Sfera emotiva. 5° mezzo 4 Rieducazione psichica e controllo della mente. Sfera mentale. 6° e 7° mezzo Purusha immortale 5. Unità isolata Samadhi Coscienza-purusha. Trascendenza dell'individualità Possiamo ancora dare una sintesi del contenuto dei quattro capitoli (pada) dell'opera. Pada I 1-4 Definizione dello Yogadarshana. 5-11 I cinque tipi di modificazione mentale effetti che possono produrre (dolorosi e non dolorosi). Loro classificazione. 12-14 Soppressione delle modificazioni mentali mediante l'abhyasa. 15-16 L'efficacia di vairagya (distacco consapevole). 17-18 Samprajnata e asamprajnata samadhi. 19 Varie possibilità di attuazione del samadhi. 20 Gli elementi basilari del samadhi.

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21-23 Il samadhi si concede a chi ha una forte aspirazione, pratica diligentemente i mezzi opportuni e si concede alla Divinità. 24-28 Viene trattata la Divinità (Ishvara) 29 Con la pratica di questi mezzi scompaiono gli ostacoli e la coscienza si ritrae all'interno di sé. 30-31 La fonte della distrazione della mente. Viksepa = esteriorizzazione della mente. Le qualità che consentono di riconoscere la mente distratta. 32-39 Mezzi per eliminare gli ostacoli del viksepa. 40 I poteri psichici (siddhi) e loro limiti. 41 Si espone l'unita di conoscente, cognizione e conosciutu. 42 Savitarka samadhi. 43 Nirvitarka samadhi. 44 Savicara e nirvicara. 45-46 Gli oggetti sottili si estendono fino allo stadio alinga: quindi tutti i pratyaya che possono essere meditati sul piano della prakriti. Questi oggetti grossolani e sottili fanno parte della meditazione con seme. 47-48 Solo nello stato nirvicara si ha la "luce" (buddhi universale). 49 La conoscenza empirica differisce da quella intuitiva. 50 Sabija samadhi (con seme). 51 Nirbija samadhi (privo di serne). Pada II 1 I preliminari dello Yoga (kriya): tapas, svadhyaya e isvarapranidhana. 2 I preliminari dello Yoga (kriya) conducono all'attenuazione dei klesha. 3-9 Teoria dei klesha e loro enumerazione. Loro fonte causale e l'avidya (ignoranza della propria reale natura). Definizione di avidya. 10-11 Metodi di soluzione. 12-15 I klesha ci conducono in ogni sorta di esperienze conflittuali, sono generatori di karma e rinascita. Per il Saggio discriminante l'esperienza è conflitto e miseria.

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16 La miseria futura può essere evitata. 17 Occorre evitare l'unione o assimilazione del veggente col visibile. 18 Che cos'è il visibile. 19 I quattro stadi dei guna. 20 Il veggente è pura coscienza. 21, 23 Il visibile è solo un mezzo non un fine. 22 Per il Liberato vivente il visibile è come non esistesse più. 24 Causa dell'identificazione col mezzo di prakriti e l'oblio del Sé. 25-28 Soluzione dell'identificazione. 29-55 Spiegazione degli otto mezzi Yoga. Pada III 1-15 Continuazione della spiegazione degli otto mezzi fino all'ottavo mezzo del samadhi. Che cos'è il samyama. 16-56 Elencazione delle siddhi che si ottengono facendo samyama su determinati cakra. Facoltà di percezione e organi di senso pranici. Dominio sui pañca-bhuta. Il non attaccamento alle siddhi porta al kaivalya (III, 51). Pada IV 1 Le siddhi sono il risultato della nascita, delle droghe, dei mantra, dell'ascesi e del samadhi. 2-3 Solo ciò che e in potenza può manifestarsi. Le menti artificiali possono essere create da quella naturale. 4-6 Le menti artificiali possono essere creatte da quella naturale 7-11 Nascita dei samskara, del karma, dei desideri, ecc. Loro meccanismo operativo. Soluzione della loro causa (avidya). 12-15 Tesi della percezione mentale e del libero arbitrio. 16 Superamento del solipsismo. 17-21 La mente è solo un veicolo relativo e il purusha è testimone del movimento mentale. 22 Autocoscienza della propria natura.

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23-25 Natura di citta, intesa in senso ampio e delle vasana. Tutto ciò che è manifestato dev'essare trasceso. 26 Viveka acquista il suo più alto significato quando discerne ciò che è da ciò che non è. 27-28 Possono esserci pratyaya anche sul confine tra l'Essere e il non-essere. Occorre eliminarli come e avvenuto con i klesha. 29 Chi è capace di portare vairagya al suo estremo limite, anche nei confronti di sublimi paradisi, attinge il dharma-megha-samadhi. 30 Segue così la libertà da tutti i karma e klesha. 31 Differenza tra conoscenza sensoriale e illuminazione. 32 I guna possono cessare di irretire la coscienza incarnata. 33 Teoria del tempo. 34 Definizione del kaivalya.

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L'incipit del Capitolo I Samadhi pada

1. [Viene] adesso l'esposizione dello Yoga. 2. Lo Yoga è la sospensione delle modificazioni della mente (citta vritti). 3. [Quando ciò è stato attuato] allora il veggente riposa nella sua essenziale natura. 4. Nelle altre modalità [quando il veggente non è fondato su se stesso] vi è identificazione con le modificazioni (della mente). Questi quattro sutra compendiano tutta l'essenza e la finalità del Raya yoga. «Lo Yoga è la sospensione delle modificazioni della mente», vale a dire, lo Yoga consiste nel portare a soluzione il "movimento conformato" (maya), risolvere il suono nel senza suono, trascendere il divenire psichico, portare la coscienza a stabilizzarsi in se stessa, con se stessa e per se stessa; lo Yoga è realizzarsi come Essere-purusha senza sovrapposizioni concettuali o proiezioni mentali. Lo Yoga è risolversi come Essenza strappandosi dalla sostanza-prakriti. Quando la coscienza non riposa su se stessa vuol dire che si assimila al movimento psichico. Un istinto, un'emozione e un pensiero sono movimenti energetici qualificati che coinvolgono e costringono la coscienza-purusha. Questo coinvolgimento, che vela e altera, porta nel conflitto e nel dolore. L'affrancamento dalle modificazioni intraindividuali e universali conduce al Punto al centro, al parapurusha. Con il termine citta si designa la caratteristica causale del manas, la totalità di ciò che chiamiamo contenuto della mente; è la sostanza formale psichica; in essa risiedono anche i samskara (semi subconsci). Citta in pali significa "atteggiamento", è la somma totale degli atteggiamenti che si ripetono. Con vrtti, invece, si designano le modificazioni o alterazioni del citta. Quando la mente proietta una forma (pensiero concettuale formale) questa prende il nome di vritti. Citta può essere impulsato da stimoli interni subconsci (samskara) o da stimoli esterni. Sotto questa pressione, la coscienza risulta non solo oberata da contenuti di svariata natura, ma profondamente alterata, scossa, modificata, perdendo la propria centralità e la limpidezza. Il processo di soluzione delle vritti avviene normalmente in tre stadi: rallentamento, controllo o dominio, soluzione o trascendenza. Inoltre, è bene considerare che la mente è il soggetto e il mondo l'oggetto, ma dietro la mente-soggetto v'è il purusha, quale riflesso incarnato, il quale è di là dal soggetto-oggetto, dall'io-mondo, potendoli integrare e trascendere. Tutta la sfera relazionata, come tempo-spazio, io-mondo, Dio-universo, è costituita dalle categorie che nascono da quel soggetto il quale può esistere se posto in rapporto, appunto, con qualcosa. Polarità gnoseologica e sostanziale.

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La mente non è autoesistente e autoilluminata, essa è non conscia in sé e per sé, è il purusha che le dà vita e movimento. Quindi, il purusha è il testimone (saksatkara) del movimento della mente e del corpo. La mente e la "materia" hanno in comune, e come unico substratum, la coscienza purushica. La mente così è solo un mezzo mediante cui si percepisce l'oggetto, ma l'Uomo vero può anche fare a meno sia del mezzo che dell'oggetto perché è causa sui. Il non-realizzato si conosce tramite il suo strumento il quale funge da riflettore, mentre la realizzazione consiste proprio nell'essere consapevoli della propria realtà purushica senza alcun intermediario. Sotto la prima prospettiva sembra che la mente sia il soggetto testimone ultimo, ma non è così, essa riflette solo il testimone, come lo specchio riflette l'immagine dell'ente. Mediante il discernimento (viveka), il purusha inizia a comprendere il funzionamento della mente e la sua natura fino a considerarla non più causa prima, ma semplice mezzo operativo. Un fatto è bene mettere in chiaro per lo studioso occidentale; chi segue lo Yoga, o una via realizzativa orientale in genere, si è imbattuto di certo nella parola "coscienza"; anzi, la maggior parte delle scuole afferma che l'ente, nella sua più profonda espressione, non sia altro che Coscienza. Vi possono essere discepoli -e scuole iniziatiche- che non riescono a concepirsi coscienza per la particolare forma mentis culturale in cui vivono. La letteratura occidentale, poi, considera l'uomo come un "io" che si determina in un mondo di fenomeni, ma non lo presenta mai come Coscienza inalterata. Tralasciando gran parte di quella cultura per la quale la coscienza rappresenta un semplice epifenomeno della struttura fisica materiale, la Tradizione iniziatica occidentale ha definito l'ente soprattutto mediante i suoi attributi come quello di volontà, intelligenza, attività, potenza, ecc. Anche in quest'ultimo ambito si può scoprire la mancanza di un riferimento preciso alla coscienza. Questa rimane pur sempre in funzione di un contenuto di varia natura, mancando il quale non v'è altresì coscienza. Non si riconosce che la causa può anche sussistere indipendentemente dall'effetto o da un attributo incidentale. Se ci riferiamo alla Tradizione orientale, e particolarmente a quella indiana, la coscienza riveste un fattore essenziale, anzi è l'inizio e la fine della ricerca. Precisiamo ancora che lo Yoga di Patañjali è uno dei sei darshana indù in linea con la Tradizione vedico-upanishadica. Tutte quelle qualificazioni (volontà, intelligenza, ecc. ) non sono altro che sovrapposizioni o attributi della coscienza la quale è ipseità. Le Upanisad affermano: l'atman-brahman è pura coscienza (caitanya); e caitanya-saksin; il Sé, in quanto coscienza, è testimone degli stati o condizioni sovrapposti, compresi gli stessi corpi-veicoli di manifestazione; e, ancora, caitaniya-svarupa, essenza di pura Coscienza. Lo stesso "io" (ahamkara)

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di cui è intessuta la cultura occidentale, e spesso anche quella esoterica, non è altro che una sovrapposizione (adhyasa) alla pura Coscienza. La coscienza, che normalmente affermiamo allo stato di veglia e oltre, rimane comunque un mero riflesso della Coscienza assoluta o purusha, quindi quando parliamo di purusha che s'identifica a... vogliamo riferirci a questo riflesso. Gaudapada e Shamkara, nella Mandukya upanisad, hanno sviluppato tale tema e hanno concluso che ogni cosa appare e scompare dall'orizzonte della nostra coscienza, ma non quest'ultima. Se prendiamo i tre stati di veglia, sogno e sonno profondo senza sogni constatiamo che allo stato di veglia siamo consapevoli del mondo oggettuale fisico; nello stato di sogno sparisce quel mondo, ma non sparisce la coscienza perché questa è consapevole degli oggetti di sogno, e ciò è un'evidenza; nello stato di sonno senza sogni sparisce l'oggetto di sogno, ma non sparisce la coscienza; difatti possiamo dire di essere stati consapevoli di non aver sognato o avuto esperienze di alcun genere. Come si può notare, l'oggetto, nelle sue varie configurazioni e nei suoi gradi di realtà, può esserci ma anche non esserci, eppure non scompare quella coscienza che è appunto consapevole della presenza e dell'assenza dell'oggetto, come è consapevole della presenza o assenza di un'idea-concetto, di un'emozione e dello stesso io empirico. Se studiamo a fondo i meccanismi psicologici percettivi, constatiamo che, in linea di massima, ci conosciamo tramite gli attributi della coscienza, non per via diretta di consapevolezza. Gli attributi fungono da specchio e in esso ci riflettiamo e ci conosciamo; è sotto questa prospettiva che sosteniamo: "Io sono volitivo", "sono emotivo", "sono mentale", "sono autoaffermativo", "sono debole", ecc. Secondo lo Yoga noi ci conosciamo mediante i guna (qualità energetiche). È tendenza dell'ente definirsi come : "lo sono questo o quello", il "questo" o "quello" sono attributi-qualità della coscienza, eppure c'è uno stato in cui si è ciò che si è senza alcuna aggiunta qualitativa. Questa viene dopo il "ciò che si e", ma purtroppo, nella totale identificazione, arriviamo a considerarci non più "sono ciò che sono", ma il semplice "questo", risultando con ciò alienati (II, 6). Il riflesso di coscienza incarnato -quella consapevolezza, cioè, che ci fa riconoscere come enti con un nome e una forma e collocati in un tempo-spazio ben definito- quando si ricongiunge alla sua fonte si realizza in ciò che il Vedanta denomina atman, la cui natura è pienezza (purnata), e lo Voga chiama purusha. Poiché questo stato non può essere descritto con parole, essendo appunto fuori del quadro di riferimento qualitativo, dev'essere direttamente realizzato; diremo, è un fatto di attualizzazione coscienziale. Possiamo considerare che il processo realizzativo Yoga consiste nel porsi in tale stato purushico, trascendendo il mondo dei nomi e delle forme o mondo di maya; o, meglio, integrando nella pura coscienza la dualità o dicotomia del samsara.

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Post-mortem e Bardo Thötröl da Di là dal dubbio, Roma, Asram Vidya, 1979, 1987, pp. 9-26., pp. 130-150. Domanda - Con un gruppo di amici vorrei proporre una serie di domande che vertono sull'atteggiamento pratico da assumere quando particolari eventi si verificano sia durante la vita sia dopo la dipartita dal fisico. Il tutto è inquadrato nel contesto del Bardo Thötröl. Per quanto ci stiamo interessando di asparsha yoga, tuttavia io penso che comprendere nella pratica determinati atti dell'individualità possa aiutarci a raggiungere la condizione di coscienza dell'asparshin. Una domanda è questa: vi sono una prima e una seconda morte? Raphael - Crediamo sia molto importante capire che vi è la soluzione o morte, come spesso viene chiamata, dei vari veicoli o corpi di manifestazione, di cui quello fisico è il più esterno, e la soluzione dell'entità chiamata individualità. Quest'ultima rappresenta la vera morte-soluzione, perché con essa si ha la liberazione o l'integrazione del riflesso di coscienza incarnato con l'atman. Quando si lascia il corpo fisico denso o quello più interno manasico, per quanto si creda di esser morti, tuttavia non si è morti; si è solo lasciato in via momentanea un veicolo di espressione per la legge ciclica o del ritmo. Il Bardo Thötröl è, soprattutto, un insegnamento per trascendere l'individualità e integrarsi con la "Chiara Luce del Dharma". Sotto questa prospettiva esso non è per i "morti" ma per i vivi. D. - Grazie per questa precisazione; penso che adesso l'idea ci sia più chiara. Avevo sentito parlare di più "morti", ma non ne comprendevo il senso. Ora, parlando della soluzione dei veicoli, il ritiro dal corpo fisico come avviene? Ci sono delle fasi prestabilite secondo cui l'ente opera il suo ritiro dal corpo fisico? Se nel nascere vi sono precise sequenze di sviluppo, credo che queste debbano esserci anche nel morire. R. - Per capire meglio questo evento occorre dir e che il jivatma e rivestito di cinque involucri o corpi di espressione, di rapporto o contatto con il mondo oggettivo grossolano e sottile. Ogni corpo è una finestra aperta sul piano esistenziale in cui il jivatma opera e fa esperienza. Ogni piano esistenziale è uno stato di coscienza più che un particolare punto spaziale; è una condizione vibratoria con la sua scala di valori o lunghezze d'onda, e laddove essa ha termine incomincia quella superiore, con vibrazioni sempre più alte; e così di seguito.

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Quello fisico, in cui ora noi ci troviamo, è, dunque, un particolare stato vibratorio che, per essere percepito, ha bisogno di un corpo di contatto correlato alla lunghezza d'onda dello stato in questione. Quando l'individuo lascia il corpo fisico, abbandona altresì quella possibilità di mettersi in contatto col piano ad esso corrispondente. Adesso, il ritiro dal corpo fisico come avviene? Consideriamo che il termine ritiro è il più appropriato perché il jivatma o, meglio, il riflesso di coscienza incarnato non fa altro che ritirare il suo duplice filo ancorato nel corpo fisico, mettendo questo nella condizione di disintegrarsi e ritornare al serbatoio della natura a cui, in fondo, era stato sottratto. Il jivatma, al momento dell'incarnazione, prende in prestito dal serbatoio della natura fisica una quantità di elementi minerali o chimici che restituisce quando si ritira su altri stati di manifestazione. Un'incarnazione non è altro che l'esteriorizzazione su un particolare piano di esistenza, mentre il ritiro è caratterizzato dal processo di interiorizzazione o astrazione. Sarebbe bene meditare questi termini perché possono svelare il mistero di ciò che noi, in modo erroneo, siamo soliti chiamare "morte". Quando avviene il ritiro del riflesso di coscienza incarnato sono coinvolti alcuni cakra, due dei quali sono collegati col fisico denso: quello del cuore e quello della testa, mentre altri due centri minori sono collegati con i polmoni. Il primo stacco è quello che riguarda il filo della coscienza; quando ciò avviene, l'ente perde il contatto con i cinque sensi di azione, ma non perde la consapevolezza del percepire, per quanto incapace di rispondere, essendosi affievolita la presa con i sensi d'azione del fisico; per esempio, quella attinente alle corde vocali. È uno stato simile al dormiveglia in cui si percepisce, ma non si ha la forza di reagire. Poi avviene lo stacco o il disinnesto del filo dei due centri minori dei polmoni. Questo disinnesto può essere riattivato, in particolari condizioni, facendo azionare in modo meccanico i polmoni. Infine, viene disinnestato il filo della vita ancorato al cuore. A questo punto l'astrazione dal corpo fisico si verifica in modo completo e definitivo. Il processo del ritiro si svolge per stadi prestabiliti, e se a ritirarsi è uno yogi queste fasi possono essere attuate in maniera conscia, deliberata e più in fretta. In tale processo di astrazione non vi è dolore, affanno o sofferenza; alcuni si trovano nel susseguente corpo pranico senza neanche avvertire il distacco dalla forma fisica. D. - Deposto il vestito fisico, si rimane con quello pranico? E per quanto tempo?

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R. - Sì. L'altro corpo di espressione è quello pranico (pranamayakosha). A questo punto sarebbe opportuno precisare una cosa. Quello pranico, pur appartenendo sempre al fisico grossolano, ne è la quintessenza; è, almeno nell'accezione in cui questo termine viene qui considerato, il primo elemento -la materia prima- da cui nascono gli altri più grossolani (bhuta): aria (vayu), fuoco (tejas), acqua (ap), terra (prithivi); è l'etere degli occultisti occidentali; è l'akasha della dottrina indù. Non abbiamo il tempo per dilungarci su questo corpo, ma possiamo dire poche cose che servano di riflessione. Esso viene anche chiamato "vitale" perché dà, in effetti, la vita agli elementi (bhuta) elettronici e molecolari, oltre a tenerli coesivi. Essendo, in definitiva, di ordine fisico, per quanto non propriamente materiale o solido, sente in modo assai forte l'attrazione per il piano grossolano; un possente elettromagnetismo lo collega ai bhuta, soprattutto se è qualificato da tendenze, diciamo, terrene. Questo veicolo pranico-vitale, fatto a immagine de]la forma fisica, potrebbe avere vita molto breve se si praticasse la cremazione, sì da risolvere il solido, il liquido e il gassoso con la potenza del fuoco. In India ciò si pratica, mentre nell'antico Egitto si praticava la mummificazione perché, prolungando la vita dei quattro elementi (quindi del corpo fisico visibile), si prolungava altresì la vita del pranico o, come veniva chiamato, del ka. Ma l'India è stata sempre per la vera morte o seconda morte a cui abbiamo fatto cenno, mentre l'Egitto era attaccato alla terra e amante del terreno. Con il corpo pranico può essere percepito il fisico grossolano visibile perché, in fondo, si è nella dimensione fisica. Non è il caso di dire che uno yogi, astraendosi dal fisico visibile (tanto per intenderci), può materializzarsi con un altro corpo visibile, sempre sul piano fisico denso. II manas ha la capacità di plasmare la quintessenza, sì da produrre effetti a livello dei bhuta. L'akasha è il mercurio filosofale, non certo quello elementare e naturale, e gli Alchimisti iniziati lo conoscevano e cercavano di estrarlo dagli elementi minerali più vili e corruttibili. - Qual è lo stato di coscienza dell'individuo che si trova nel corpo pranico? R. - È uno stato di coscienza particolare perché pur osservando e percependo il piano fisico, non vi può accedere; è come rimanere affacciati ad una finestra da dove si può vedere e sentire tutto ciò che sta fuori senza riuscire a comunicare. Vi sono comunque delle eccezioni. - Per lo yogi avanzato, invece, questo stato offre delle possibilità? R. - Abbiamo detto di sì. Il vero yogi si servirà di questo stato solo per determinati e speciali motivi, perché considera il fisico come il piano della non-realtà ultima, della metallizzazione e della prigione.

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- Posti, dunque, in questo corpo pranico o akashico, si possono operare delle rettifiche sul fisico minerale? R. - Sì; stiamo toccando il punto cruciale dell'intento alchemico. È solo da questa posizione di coscienza che si può operare sul quaternario minerale per mezzo del solve et coagula. Comunque, ci possono essere delle tecniche per estrarre il volatile dal fisso e fissare poi il volatile. In conclusione, quando si è realizzata la quinta essentia, con essa e su di essa si possono manipolare i vari bhuta. Si tenga presente che i bhuta sono già contenuti nell'akasha, ma allo stato potenziale; da qui la possibilità di operare sui bhuta. - Su questo punto ancora una domanda: si sa che alcuni grandi Maestri hanno mantenuto volutamente il corpo fisico a lungo, perché questo? R. - Per parlare in termini alchemici diremo: per fissare lo spirito che è volatile. Il corpo, reso sattvico, funge da fixativum, da base, da supporto allo spirito che, per la sua particolare natura, tende ad espandersi, a dilatarsi. Bene, andiamo oltre e consideriamo la soluzione della guaina pranamaya. L'ente, se non è avvenuta la "cottura" dei quattro elementi corporali rimasti, permane in questo corpo di espressione per un po' di tempo; però non essendo un corpo a sé, non essendo un composto definito e stabile, ma semplice energia vitale -ponte di congiunzione tra il veicolo manasico e quello propriamente fisico visibile- esso si disperde. Il fisico si "decompone" o si "scompone"; il pranico, essendo aria, si "disperde", per cui ritorna al serbatoio del corpo pranico planetario. Anche questo processo avviene in modo quasi inavvertibile all'ente; non comporta dolore o altro perché è processo naturale. L'ente privato del pranico si trova in un'altra dimensione, in un altro stato di coscienza, in una sfera vibratoria diversa da quella fisico-pranica. Agli occhi di questo ente, il mondo fisico, nella sua integralità, è scomparso, non esiste più. A questo punto tutti i legami con il grossolano (visva) sono interrotti, ciò che in esso avviene non è più né visto né percepito, contrariamente a quanto accadeva quando si possedeva il corpo pranico. Eppure, paradosso, non è che si sia usciti dalla sfera fisica. - L'ente, deposto il corpo fisico-pranico, si trova con quello manasico? Che cosa è il manas, di cui tanto si parla? R. - Il corpo manomaya è un amalgama di pensiero e desiderio, di mente e sentimento. Questo veicolo di manifestazione è il più duro a morire; è il vero corpo dell'illusione, dello psichismo, delle cristallizzazioni subconsce. In questa sfera psichica molti individui affogano, si perdono, ritardano la presa di consapevolezza del Sé. È il mondo delle proiezioni, il mondo "astrale" dell'occultismo occidentale. Diremo che questo mondo non ha una realtà sua propria perché è l'accumulo delle forme-immagini create dal manas individuato.

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Se si vogliono percepire gli archetipi o le idee universali occorre salire alla sfera della buddhi o vijnanamaya, quella, appunto, della conoscenza principiale. - È questa la sfera di taijasa della filosofia Vedanta? È la zona intermedia tra visva e prajña? R. - Sì. Il manas è l'apice dell'individualità; la buddhi, in via di discesa, è l'aspetto terminale dell'universalità. Di là da questi veicoli sottili vi è prajña, o la prima determinazione dell'ente. - Quando si lascia il corpo fisico, si ha il contatto diretto con il jivatma? R. - Sì. Comunque questo contatto può verificarsi anche quando si è nel corpo fisico. La sadhana del discepolo dovrebbe condurre a realizzare in modo conscio l'identità con il Sé. - In quali termini può avvenire tale incontro? Il jivatma come si presenta e come si esprime? R. - Il jivatma può prendere la forma più gradita al riflesso di coscienza incarnato. In generale si palesa come un sole sfolgorante, ma non abbagliante, o come Deva maestoso, etereo e luminescente. La comunicazione avviene per via telepatica perché il jivatma, in fondo, comunica con il suo riflesso. - Il jivatma è un "alter ego" dell'essere? R. - Per usare termini occidentali, diremo che il jivatma rappresenta l'Anima, mentre l'atma o atman lo Spirito, il quale, a sua volta, è della natura del Brahman. - Dunque, se non è un ente fuori di noi, perché non si ha il riconoscimento di questa "Luce Chiara" di cui parla il Bardo Thötröl? R. - II riflesso di coscienza che si trova nell'incarnazione fisica e in quella sottile, avendo gli stessi poteri del jivatma -in forma ridotta- si è costruito il suo mondo, le sue proiezioni, le sue apparenze fino al punto da diventare alienato e in parte scisso dalla sua fonte. Noi oggi viviamo questo stato di coscienza, e quando incontriamo noi stessi, ad altri livelli, non ci riconosciamo più. Abbiamo perso la nostra identità animica, come qualche demente, a livello manasico, perde il riconoscimento della sua identità individuale. - Da qui il detto che siamo degli Angeli decaduti, o degli Dei addormentati? R. - Si; "cadendo" nell'individuato e nell'alienato abbiamo perso di vista la fonte da cui siamo nati. Però questo genere di "caduta" non è assoluto,

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ma apparente perché il riflesso di coscienza in incarnazione e solo velato, ottenebrato o addormentato. - Insomma, per quanto svegli siamo addormentati? R. - Sì; ha detto prima che siamo degli Dei addormentati; da qui l'incitamento al Risveglio. Lo Svegliato è colui che ha risolto questo torpore, torpore che il Vedanta chiama avidya o maya. - Il jivatma lo si vede appena si è lasciato il corpo fisico, oppure dopo che si sono fatte altre esperienze sul piano sottile? R. - Credo che non ci siano delle regole fisse. Le modalità e il momento dell'incontro sono di ordine individuale e karmico. - Per cui può avvenire prima o dopo quella che viene definita la ricapitolazione della vita incarnata? R. - Sì. Credo di si. Non ci sono delle norme assolute su certe cose. D. - Si parla di ricapitolazione delle esperienze vissute, ma questo che cosa rappresenta effettivamente? R. - Rappresenta la cristallizzazione subconscia proiettata sul telo della nostra stessa aura. Anche quest'esperienza, qualche volta, può essere fatta durante la incarnazione fisica. - Mi interessa sapere se per il Realizzato questi eventi si verificano ugualmente. R. - Un Liberato ha bruciato ogni residuo subconscio divenendo Luce non maculata. Il Liberato non ha passato, non ha storia, quindi non ha futuro. Il Liberato non vive più di proiezioni o sovrapposizioni velanti. - (primo interrogante) Ora, per risolvere questi residui subconsci -emozioni, sentimenti, ideali, ecc.-, occorre trovarsi sul piano sottile oppure essi possono essere trascesi anche stando sul piano fisico? I corpi manasico e kamasico possono essere trascesi anche nell'incarnazione fisica? Voglio dire: la seconda morte (manas e kama) deve avvenire sui piani sottili oppure può aversi sul piano fisico? R. - Quelli manasico, pranico e fisico non sono tre livelli distinti e contrapposti. Quando è in incarnazione l'individuo li possiede tutti e tre per cui non deve attendere di entrare nel sottile (taijasa). La vera morte dei filosofi si attua sulla terra. Voler posporre il problema della "morte" è un alibi dell'io che cerca di perpetuarsi. - I veicoli o corpi del jivatma fino a quando possono protrarre la loro esistenza?

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R. - Sappiamo che per il Buddhismo vi sono cinque skandha; essi più che corpi, come noi intendiamo questa parola, sono cinque aspetti psicologici o aggregati energetici che compongono l'individualità (rupa = forma materiale; vedana = sensazione; samrjña = percezione; samskara = concetto; vijñana = coscienza coordinatrice). Fino a quando vi sono qualità particolari da estrinsecare esse devono esprimersi e manifestarsi. - Dunque, io posso liberarmi di questi skandha solo quando ho trasceso ogni tipo di qualità attrattiva-repulsiva? R. - Non vi è dubbio che fino a quando in noi opera il desiderio, saremo là dove esso ci porta. - Leggendo dei testi che si riferiscono al nostro tema, ho constatato alcune contraddizioni. Per esempio, qualcuno afferma che solo il karma determina l'azione sul piano del sottile per cui l'ente è un oggetto passivo del suo karma; qualche altro, invece, afferma che l'ente è libero di determinarsi; anzi, dovendosi incarnare, può scegliere la matrice della nascita. Come mai questa contraddizione? R. - Non credo che ci siano contraddizioni; la determinazione dell'ente sussiste nella misura in cui questi è riuscito a dominare le sue "potenze". Ma ciò avviene anche a livello fisico. - Sono d'accordo che bisogna essere preparati per determinati eventi. Senza dubbio non è sufficiente sapere che posso essere io stesso la "Chiara Luce Bianca", occorre che sia pronto per poterla realizzare. R. - Vede, migliaia di persone sanno dell'esistenza dell'anima, dell'atman, ecc., ma pochissimi sanno realizzarsi come atman. D'altra parte occorre distinguere tra conoscenza intellettiva e realizzazione. D. - In altri termini, bisogna essere? R. - L'abbiamo detto spesso, Se la realizzazione consistesse solo nel memorizzare tutti i testi vedanta, buddhisti, ecc., sarebbe molto facile. Ma, purtroppo, le cose stanno in modo diverso. Non basta leggere il Bardo Thötröl, occorre essere pronti per far fronte agli eventi del Bardo. Se non siamo "punto al centro" sul piano fisico (visva), non lo saremo neanche sul piano sottile (taijasa); se non sappiamo affrontare gli eventi sul piano fisico con il distacco dovuto, non sapremo farlo neppure sul piano sottile. Alcuni credono che una volta deposto il "vestito" fisico si diventi più saggi; ciò costituisce un grosso errore di valutazione.

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La maggior parte dell'umanità, deposto il "vestito" fisico, si trova nella sfera intermedia sottile, sfera che è illusoria. Per l'asparsha lo stesso stato di prajna (causale) rappresenta la radice dell'avidva, e prajña (Dharmakaya per il Bardo Thötröl) è di la dal fisico e dallo psichico, è lo stato in cui si sperimenta il savikalpa samadhi, il più alto samadhi sul piano del manifesto. D. - Da quello che ho sentito devo dedurre che -paradosso per le mie cristallizzazioni- la morte non esiste? R. - La morte, come la si intende, in verità non esiste. Quella che noi chiamiamo morte è governata dal principio shivaico (Shiva), ciò vuol dire che la morte non è altro che trans-formazione, un andare di la dalla forma (rupa). È un semplice cambiamento di stato di coscienza che per alcuni -lo ripetiamo- può avvenire in modo così inconsapevole da non percepire l'accaduto. La maggior parte dell'umanità -soprattutto occidentale- non ha saputo e non sa trovare un giusto rapporto con la morte. Drammatizzazione dell'evento, attaccamento alla forma, identificazione con gli ideali terreni, ecc., offrono uno spettacolo deludente e infantile per chi conosce e sa. Un giorno o l'altro si scoprirà che la nascita è sotto la legge della limitazione, mentre la morte è sotto quella dell'affrancamento. D. - Così la vita dovrebbe essere una preparazione intelligente alla morte? R. - Se è possibile, alla triplice morte. Molti sono così identificati col fare da sembrare che il piano fisico debba essere il solo esistente. Spesso si assolutizza un semplice livello di vita che, per quanto possa avere la sua validità, tuttavia non è né assoluto né determinante. Vi sono persone così attaccate ai loro desideri, ai loro ideali, alle loro aspirazioni familiari, politiche, sociali, ecc. da considerare la loro esistenza sul piano fisico come eterna. Vi è troppa drammatizzazione sia della vita sia della morte, vi è troppa esaltazione, al limite, teatralità nel comportamento umano. Sul palcoscenico del mondo c'è una tale identificazione con se stessi da dimenticare che il proprio ruolo è un semplice apparire e scomparire. Alcuni pagano, anche a caro prezzo, la loro interpretazione, soprattutto dopo la morte. D. - Chiedo scusa se ritorno sul mio problema, ma vorrei avere, se è possibile, una interpretazione accessibile del Bardo.

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Le cosiddette "deità irate e pacifiche" del secondo Bardo che cosa rappresentano? Che cosa possono indicare a noi Occidentali: Ratnasambhava, Amitabha, Amoghasiddhi, ecc. ? R. - Un insegnamento è rivolto ad un determinato popolo, possiede il suo linguaggio e dà un nome e una forma particolari a certe qualità che sono principi universali o qualità energetiche individuali. Lo stesso Cristo Gesù rappresenta la personificazione di un principio universale. Certo sarà difficile per un cristiano riconoscere Amitabha o Amoghasiddhi. Però se partiamo da questa premessa possiamo meglio capire quello che l'individuo vede nel secondo Bardo. A questo punto è necessario approfondire la dinamica dei processi psichici, come essi nascono, come si cristallizzano e come si manifestano sul piano di taijasa. Secondo il Buddhismo, in cui si colloca il Bardo Thötröl, i tre corpi o stati dell'Essere sono: Dharmakaya Sambhogakaya Nirmanakaya Con il primo Bardo, cui abbiamo fatto cenno poco fa, si realizza il Dharmakaya, il corpo della Illuminazione primordiale. Con esso si è fuori del divenire-samsara perché, appunto, si è creata l'identità con la "Chiara Luce Bianca". Se il Dharmakaya non viene realizzato, si entra nello stato di coscienza del Sambhogakaya, la condizione sottile con le sue suddivisioni. È in questa sfera che, progressivamente, prendono forma le proiezioni karmiche dell'individuo. Abbiamo detto poc'anzi che il disconoscimento del jivatma avviene perché il riflesso di coscienza incarnato s'identifica con i suoi contenuti subconsci, con le sue proiezioni. Diremo, la potenza gravitazionale dei contenuti subconsci trattiene la coscienza sul piano dell'individuato. Ora, una volta persa l'opportunità di integrarsi con la "Chiara Luce", si svolge una specie di dramma tra la coscienza incarnata e le sue stesse proiezioni, o "ombre". Come nasce un contenuto subconscio? La nostra spazialità psichica è parte della "sostanza", o prakriti, universale; la nostra mente è parte della mente universale. Quando pensiamo per lungo tempo un evento o esprimiamo in modo reiterato una qualità, ad esempio l'amore, l'odio, l'invidia, l'avarizia, ecc., la "sostanza" psichica, o la nostra shakti, si modella fino al punto di condensarsi, fino a trovarsi massa; cioè, l'energia si solidifica portando con sé la qualificazione estrinsecata dalla coscienza.

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Un'idea reiterata diviene un ente qualificato capace di suscitare armonia o disarmonia. L'individuo è un creatore ma lo dimentica, per cui si tesse la tela di felicità o di dolore secondo le costruzioni erette nella sua spazialità psichica. Quindi, un contenuto cristallizzato è un ente psichico che rimane dentro la nostra circonferenza vitale fino a quando non è risolto o sciolto. - Se, ad esempio, esprimo odio, che cosa avviene nella mia circonferenza psichica? R. - Avviene che a poco a poco la sua "sostanza" si modella, si rende sensibile fino al punto di cristallizzare o solidificare la qualità. - Allora, portando questa cristallizzazione a livello sottile di Sambhogakaya che cosa avviene? R. - Avviene la proiezione degli "dei adirati" a cui si è accennato in precedenza. Se consideriamo che anche il piano sottile o di Sambhogakaya è formale, dovremo convenire che ogni idea, o contenuto psichico, si palesa per mezzo di una forma, un simbolo, un corpo-strumento. Sul piano del manifesto la Vita si esprime per mezzo della qualità, e questa per mezzo di un supporto materiale o strumento formale (rupa). Così, nel nostro caso, la qualità odio, sul piano sottile, si manifesta con una forma che può prendere le sembianze anche di un animale o di un demone, con un particolare aspetto, il quale cerca di aggredirci. Questa condizione la troviamo già nel sogno quando qualche strana "forma" (animale, demone, ecc.) ci assalta, e noi impauriti, per quanto cerchiamo di fuggire, ne rimaniamo costretti. I nostri mostri psichici sono l'altra parte di noi stessi. La nostra violenza la immagazziniamo, e a tempo opportuno essa si scarica su di noi. Siamo condannati o innalzati dalla qualità dei nostri pensieri cristallizzati. Nel sogno l'angoscia può trovare la sua soluzione col risveglio, ma nella condizione sottile l'angoscia non trova via di uscita e dovremo sorbirla fino in fondo. In altri termini: noi siamo divorati dalle nostre stesse proiezioni, ideazioni e qualificazioni. - Allora il demonio esiste? R. - Il demonio (Heruka) è la "personificazione" della nostra disarmonia, del nostro errato uso dell'energia, della nostra violenza cristallizzata. Il demonio è 1a parte negativa dell'individuo e può manifestarsi con una particolare forma; è la costruzione egotica di contrapposizione, di malvagità, ecc.. Nella Tradizione iniziatica occidentale si parla di discesa agli inferi, la quale rappresenta una tappa da attuare per conseguire la liberazione. D. - Dunque, le proiezioni degli Dei adirati, o degli Heruka, non sono altro che le nostre cristallizzazioni? Queste forze non potremmo neutralizzarle quando saremo nel sottile?

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R. - Quando ci troveremo la sarà troppo tardi, perché là saremo vissuti e trascinati dai nostri fantasmi samsarici. Avviene, ripetiamo, come nel sogno: siamo vissuti dal sogno, ne siamo resi impotenti. Durante l'incarnazione accumuliamo dei contenuti che poi proietteremo a tempo debito; avviene come se dessimo la carica ad un orologio che al momento opportuno si scaricherà da sé in modo ineluttabile. - Purtroppo si dimentica che un'emozione o un'idea prende forma. R. - Sì, è vero. Quando l'individuo prenderà consapevolezza di essere un plasmatore di cose, di eventi, di forme, allora farà più attenzione a capire la legge della giusta "costruzione". - Presumo che la proiezione degli "dei pacifici" debba procedere come quella degli "dei irati". R. - Certo. L'individuo sperimenta in concreto le sue qualità, chiamiamole buone o cattive, e ogni contenuto-qualità si esprime secondo particolari forme (rupa). Il paradiso e l'inferno sono il prodotto delle nostre ideazioni. «Si diventa ciò che si pensa», dice l'Upanisad. D. - Come poter uscire da queste forme qualificate che ci portano nell'angoscia o nel piacere? R. - Si, ha detto bene, "anche nel piacere": ciò e molto importante se si vuole uscire dalla sfera di Sambhogakaya e trovarsi in quella del Dharmakaya, sul piano, cioè, del]a pura Luce informale e primigenia, laddove il dualismo scompare. È inevitabile che il lavoro di trasformazione debba avvenire sul piano fisico grossolano. Il Bardo Thötröl, ripetiamolo, non è un insegnamento per i morti, ma per i vivi -anche perché non c'è morte. Dobbiamo risolvere il dualismo cristallizzato, dobbiamo "scaricare" la nostra subcoscienza quando siamo nel corpo fisico, così saremo liberi di realizzare lo stato del Dharmakaya, o, se si è pronti, lo stato di Svabhavikakaya, che corrisponde al Quarto o Turiya del Vedanta. Pensare di trascendere il dualismo del Sambhogakaya senza volersi realizzare qui ed ora, significa cadere in un grosso errore di valutazione che si pagherà caro al momento opportuno. D. (precedente interrogante)- Se la soluzione non avviene, occorrerà sperimentare il terzo Bardo, cioè il sidpa bardo? R. - Chi non ha realizzato il Sé deve per necessità riprendere la via dell'individuazione. - Tralasciando le concettualizzazioni teologiche, qual è il motivo psicologico e pratico della reincarnazione?

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R. - Riteniamo il termine trasmigrazione più adatto allo stato dell'io sperimentatore. Prima di tutto dobbiamo considerare che essa è un effetto e non una causa. La causa della trasmigrazione, nei differenti stati individuati, è rappresentata dalle vasana non risolte, dai samskara che si perpetuano nella nostra spazialità vitale. Quando ci troviamo nel Sambhogakaya, senza aver risolto i nostri contenuti, che cosa succede? I semi -che ormai si trovano allo stato potenziale- a poco a poco premono per germogliare e rifiorire, per cui l'entità viene sospinta la dove essi possono estrinsecarsi. La trasmigrazione, dunque, avviene perché dei semi non bruciati premono per manifestarsi: non c'è niente di misterioso in questo processo; diremo che è semplice, "scientifico" e consequenziale. Fino a quando perdura la sete per qualche cosa, perdura anche la sperimentazione e l'incarnazione, Il terzo Bardo è l'effetto inevitabile della non soluzione dei samskara e dell'ahamkara, il "senso dell'io".

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Conversazione con Raphael: Tradizione primordiale, approccio alla non dualità

3ème Millénaire n. 64-65 - Traduzione Luciana Scalabrini Premessa. Raphael, il fondatore dell' Ashram Vidya è un Advaitin tradizionale che segue la "via senza supporto" l'Asparsa yoga. Dopo 35 anni d'insegnamento scritto e orale, ora vive ritirato nel silenzio di un eremitaggio sui contrafforti dei monti Appennini, circondato da alcuni residenti fissi. Autore di numerose opere che trattano la Filosofia Perenne, non fa opera d'erudizione, ma tenta di aprirci alla via della Conoscenza attraverso l'identità, che conduce alla Metanoia e al Nirguna Brahman, dimensione dell' "Uno-senza-secondo", che sfugge ad ogni concetto, ma la cui realtà s' intuisce attraverso il cuore. La profonda comprensione che possiede Raphael delle differenti branche della Tradizione, ci offre vaste prospettive rischiarate da folgoranti paralleli tra il pensiero greco, ebraico e vedantico. Il suo molto grande rigore filosofico, così prezioso in questo fine secolo, aperto a tutti i sincretismi dottrinari immaginabili, si esercita attraverso una grande umiltà e compassione. Soprattutto, dividere un momento di Silenzio accanto a lui è forse, ben al di là delle parole che padroneggia con tanta cordialità, il gioiello più prezioso che sia dato ricevere. Gli intervistatori: Anne e Darrel Newberg. Intervista. D: Ciò che chiamate "stato di coscienza" corrisponde a ciò che noi consideriamo come la persona? R: Tutto in questo mondo è Coscienza, e uno stato di coscienza è un mezzo per scoprire le possibilità che esistono in seno a questa. Così, Raphael è uno stato di coscienza, ma anche voi siete uno stato di coscienza che deve essere scoperto. D: Insomma, tutto è Coscienza, ma in seno a questa coscienza appaiono differenti movimenti. E' una buona spiegazione? R: Possiamo dire che esiste una Coscienza unica, o Una, espressa attraverso i gunas [1]. La capacità dì espressione che possiede la Coscienza è più o meno grande secondo il grado di perfezione dei suoi gunas. La Coscienza ha una possibilità d'espressione assai piccola in un

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albero o in un animale. E' la forma che impone una limitazione a questi stati di Coscienza. La realizzazione permette di rompere queste limitazioni, o strati che restringono la Coscienza e le impediscono di essere svelata in tutta la sua maestà. La Coscienza è dappertutto, fino al regno minerale. Nell'essere umano, essa ha sicuramente una più grande capacità d'espressione. In un Deva [2], cioè in un essere di livello superiore, essa si rivela attraverso Ananda-maya [3] e gode così di possibilità molto più estese. Secondo il Vedanta, cinque veicoli o strumenti ci rendono possibile il contatto con i diversi livelli dell'Essere. Questi strumenti si stendono dal livello fisico grossolano fino al più sottile che ci sia: Ananda. Tutto questo corrisponde a tutto quello che si trova nel pensiero della Grecia e dell'antico Egitto. Non cambia niente. Solo una denominazione differente è data a questi stati, ma la conoscenza fondamentale è esattamente la stessa. Esiste in Occidente un via metafisica che porta ai Grandi Misteri. Ieri noi parlavamo dell'Unità della Verità. E' importante fare riapparire la filosofia tradizionale Occidentale (che anch'essa fa parte dei Grandi Misteri), di rimetterla in luce; anche se non c'è niente di nuovo, sicuramente, tutto questo essendo già stato divulgato. Alcuni Occidentali pensano che la Verità non appartiene che all'Oriente. E' falso perché una Tradizione è presente anche in Occidente. Tutto quello che dobbiamo fare è permetterle di manifestarsi. Plotino, per esempio, era una grande realizzato, un mistico e un filosofo. Voleva permettere alla Tradizione di riemergere, e creare a sud di Napoli una città, o una cittadella dei filosofi secondo i termini tradizionali. All'epoca dell'imperatore Gallieno, Plotino era uno dei precettori dei suoi figli. Sfortunatamente, a causa di problemi legati alla corte, non fu autorizzato a dar seguito a questo progetto. D'altra parte Platone voleva fondare in Sicilia (che all'epoca era la Magna Grecia) la sua Politeia o Repubblica. Viaggiava spesso dalla Grecia alla Sicilia per fare vivere questa visione di uno Stato fondato sull'ordine e la giustizia. Per ordine, intendeva corrispondenza con i piani più elevati, con i piani universali. Anche Pitagora aveva fondato questo tipo di scuola, che continuò per molto tempo in Calabria. Di più, creò molti gruppi di studio. Così la Tradizione seguita da Platone, Plotino e Pitagora esiste in Italia e dunque in Occidente, naturalmente. Questo per permettervi di comprendere che in Occidente, la Tradizione è stata di natura piuttosto Ksatriya, della natura del guerriero e non contemplativa. Con il Cristianesimo, tutto questo fu completamente spazzato via; certo. Plotino diceva che aveva vergogna di essere in un corpo fisico. A Plotino non piaceva che lo si ritraesse e si nascondeva sempre. Un giorno uno dei suoi discepoli, Amalius, fece venire un artista dalla Grecia e il solo ritratto di lui che abbiamo è questo (Raphael mostra la copertina di un libro). Quest'uomo aveva impresso le fattezze di Plotino nella sua memoria e l'aveva poi dipinto in un gran segreto. Lo si vede qui

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raffigurato con il suo discepolo Porfirio. Questa immagine, è uscita dalla memoria di un pittore! D: Sembra che la maggior parte dei ricercatori spirituali occidentali siano più attirati dall'India e dall' Advaita Vedanta. Sembra anche che diano loro maggior valore che alla propria tradizione. Come spiegate questo? R: Ci sono stati due avvenimenti principali. Il primo fu il Cristianesimo, che cercò volontariamente di oscurare la filosofia Occidentale. Il Cristianesimo non contiene che i Piccoli Misteri e non i Grandi Misteri. L'Islam ha il Sufismo, che è di una maggiore grandezza e che rinsalda i Grandi Misteri. La Torah, l'Antico Testamento contiene una parte esoterica che è la Kabbala. Il Cristianesimo non ha né questa dimensione metafisica né questa visione dei Grandi Misteri. Il secondo avvenimento si riferisce alla tendenza materialistica e positivista dell'Occidente che interpreta e inquadra tutto da questo punto di vista, compresa la filosofia. Questi due fatti hanno oscurato poco a poco i Grandi Misteri e la parte più elevata della filosofia occidentale. Benché Platone, Plotino e Parmenide si siano espressi in maniera molto chiara, i filosofi contemporanei non ammettono che Platone sia stato un grande realizzato. Questi esseri sono considerati unicamente come dei grandi filosofi discorsivi. D: Raphael pensa che i testi tradizionali greci esprimano la stessa cosa dell'Advaita Vedanta? R: Quando parliamo dell' Advaita Vedanta, facciamo riferimento a tre stati dell'essere, più un quarto, Turya o l'Assoluto, che si situa al di là della manifestazione. Platone esprime la stessa idea quando tratta del mondo dell'Essere, che corrisponde esattamente allo stato di Ishwara [4] nell' Advaita Vedanta. Platone parla dell' "Uno-Uno", che è al di là dell'Essere e che equivale al "Nirguna" dell' Advaita Vedanta. Proprio come nelle due altre Tradizioni, l'albero Sephirotico della Kabbala comporta tre livelli differenti,più uno chiamato Ain Sof situato al di là della manifestazione. Tutte le differenti branche della Tradizione portano esattamente alla stessa conclusione: esiste qualcosa al di là della manifestazione, e d'altra parte, solo l'Unità è. Si ritrova questa stessa nozione nella filosofia di Parmenide. Il suo insegnamento è molto sintetico perché non ci resta molto. Ma il poco che abbiamo conservato di lui si congiunge esattamente con i testi di Gaudapada o Shankara. Parmenide dice:" L'essere è e non diventa, perciò è Realtà assoluta", "La manifestazione non è niente altro che apparenza. Essa appare all'orizzonte poi scompare". E' precisamente la stessa nozione che quella di Maya [5] nel Vedanta. Uno stato di coscienza è totalmente impersonale. L'ego o "l'io" appare a partire dal momento in cui c'è identificazione per il gioco di riflesso della

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Coscienza nel corpo fisico che dice "io sono questo" Questo "io" dirà:" io sono il corpo" "io sono sentimento". In Francia, voi avete Decartes con il suo famoso "penso dunque sono", "dubito, dunque sono". La Tradizione va in un senso diametralmente opposto a questo punto di vista, che cambia in "sono, dunque penso". Questo a creato tante divisioni in Occidente, benché oltretutto Decartes sia stato credente. Se vi identificate con un veicolo, perdete la vostra identità. Proprio come nel mito di Narciso, dove Narciso, riflettendosi nell'acqua, vede la sua immagine e se ne innamora, cade nell'acqua e muore. In Occidente abbiamo dei simboli carichi di significato molto importanti dal punto di vista della realizzazione. Il racconto del figliol prodigo ha anch'esso un profondo significato tradizionale. Questo si allontana da suo padre, dunque l'Unità, va per il mondo, fa numerose esperienze, di cui molte negative, poi torna da suo padre, dunque all'Unità. Il Vedanta dice: "Voi non siete questo, voi siete Quello", "Tat tvam Asi, Quello voi siete". Questo sembra molto semplice, ma disgraziatamente, è difficilissimo da realizzare, in quanto esiste un inconscio collettivo che attira costantemente al livello delle forme. Nella storia dell'Occidente, certe correnti sono state il riflesso esatto di questi differenti stati. Durate l'epoca romantica, in Francia come in Italia, si credeva che l'uomo fosse emozione o sentimento. Tutta la società si basava, tra l'altro, nella esaltazione del ruolo della donna come ideale. Alcune di queste correnti risalivano al classicismo greco, e per questo fatto alimentavano un più grande rigore nella società, una maggiore severità quanto al controllo delle energie dell'uomo. Così si intraprese con grande entusiasmo lo studio dei testi classici sia greci che latini. Oggi, nella fase materialista e positivista che noi attraversiamo, diciamo: "Io sono questo corpo fisico e non c'è nient'altro a parte questo corpo fisico materiale". Questa tendenza è dunque caratteristica di una società nichilista. Attualmente alcuni filosofi propongono d'altronde la tesi del nichilismo. Questo ha dato origine all'esistenzialismo, corrente che si trova in Francia e in Italia, che è diventata una specie di ribellione contro la fase nichilista. Se si osserva dal punto di vista dell' "Uno senza secondo", tutto ciò che succede è al posto giusto. Il movimento dei gunas e l'identificazione dell'ego con questo o quello non possono che dare origine a ciò che succede in questo momento. Un cammino che è nato dai Grandi Misteri, conduce direttamente alla pacificazione del cuore. Diciamo spesso qui che: "Chiunque ha compreso tutto questo, vive nel silenzio che tutto penetra e nell'amore che sa come donarsi, per la sua comprensione profonda". Gaudapada, nell' Aspars-yoga dice che "questo Yoga è lo Yoga della non-opposizione". Non dipende né dalle emozioni né dai sentimenti: discende dal sapere e dalla comprensione che ogni cosa, in uno spazio/tempo dato, è al suo giusto posto. D: Sembra che una delle maggiori caratteristiche dell'ego sia di mantenersi, costi quello che costi, verso e contro tutto ciò che può presentarsi per spezzarlo.

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R: Si, è la forza dell'ego, benché l'ego non sia una Realtà assoluta. Un ego può affermare: "in questo momento io sono felice", e l'istante dopo, una notizia triste o negativa sopraggiunge e lo porta a dire: "io sono infelice". Allora Raphael constata: "non capisco veramente quel che succede. State dicendo che siete felice e subito non lo siete più, allora quanto ego avete?". Ma anche in psicologia, sappiamo ora che esistono più ego sociali, un io che non è utilizzato che in ufficio, un io che è utilizzato in famiglia con il marito o con la donna e così via; possiamo dunque dire che l'ego è un camaleonte… Ma, a dispetto di tutto ciò, la maggioranza delle persone ci si attaccano e ne favoriscono la continuazione nel tempo. L'ego è una causa di conflitto, perché crea la dualità: ego e non ego. D: Allora perché la gente fa questo? R: E' un lato della vita, una modalità offerta dalla vita. Perché, vedete, diverse possibilità sono concesse all'essere umano. Un essere umano può pensare identificandosi al prodotto del suo pensiero, ma può anche pensare senza essere identificato. Non è proibito e semplicemente può accadere. La persona potrebbe persino non pensare affatto; anche questo le è permesso. L'entità o l'essere ha questa libertà, perché noi siamo dei figli dell'Essere, di conseguenza siamo partecipi di questa libertà. Tra tutte le possibilità di scelta concesse, esso può scegliere quella che preferisce, che desidera. Certo, si produrranno differenti effetti secondo la scelta dell'essere e gli orientamenti presi dall'ego. L'identificazione si radica progressivamente. D: Voi parlate del risveglio come del resto del movimento del jiva [1]. A cosa si rapporta il jiva e cosa intendete esattamente per questo? R: possiamo parlarne in termini Orientali o Occidentali: perché anche i cristiani parlano di corpo, anima e spirito. Platone parla di soma, psiche e pneuma, il Vedanta parla di un corpo fisico denso e grossolano, del jiva o anima - che è un riflesso dell'Atman - fase intermedia tra il livello fisico grossolano, che comprende la mente, il pensiero, i sentimenti ecc., e il puro Spirito. L'anima, secondo Platone, ma anche secondo il Vedanta, può essere orientata sia verso il corpo, sia verso il puro Spirito. Se si identifica con il mondo sensibile, per usare le parole di Platone, inevitabilmente questa avrà dei determinati effetti. Se, al contrario si rivolge verso la sua controparte divina, cioè verso il livello metafisico, gli effetti sono differenti. E' perciò importante frenare questo movimento verso il basso e orientarlo verso il trascendente. Questo terzo stadio della vita che viviamo qui come eremiti, è quello che si applica ad evitare il movimento dell'anima verso il mondo esterno e verso l'identificazione con questo. L'eremita tenta piuttosto di identificarsi con quello che non ha niente a che fare con le emozioni, le sensazioni

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ecc, cioè con la sua trascendenza; in altri termini, si tratta di un ritorno verso sé. In sanscrito, si chiama uparati: un ritorno interiore e un distacco dai veicoli e da tutto ciò che ci circonda. Platone parla di periagoge (conversione), che significa il distacco dal mondo materiale. Sicuramente non si tratta di una fuga, ma d'una integrazione. Allora, vedete, diciamo tutti esattamente le stesse cose, la Tradizione è Una e unica. Tutte le differenti branche della Tradizione le appartengono. D: Nel vostro libro "Il Sentiero della non-dualità" voi dite: "L'uno non può essere conosciuto che attraverso un atto di identità. Cosa significa? R: Secondo Platone e la filosofia greca, esistono differenti gradi di conoscenza. Ed è lo stesso per il Vedanta. Il primo livello di conoscenza opera grazie alle sensazioni e ai sentimenti; per esempio, gli animali apprendono e comprendono per mezzo delle sensazioni che hanno delle cose. Siamo dunque in presenza di una conoscenza per mezzo delle sensazioni. Anche gli esseri umani, a livello istintivo, agiscono così. Esiste anche un altro livello che abbiamo l'abitudine di chiamare conoscenza empirica, che è trasmessa allo spirito attraverso i sensi. Questo tipo di conoscenza è duale, perché implica soggetto e oggetto. Così abbiamo manas in sanscrito e dianoia in greco, ma questi due termini significano esattamente la stessa cosa: la mente. La scienza, per esempio, si affida molto a manas, perché deve scoprire tutte le differenti leggi che governano i fenomeni, il mondo fenomenico. E questo non pone nessun problema, perché per conoscere i diversi fenomeni, dobbiamo utilizzare manas, la mente che ha quindi la sua importanza. Anche qui, si tratta di un sapere dell'ordine del soggetto-oggetto: un soggetto che conosce un oggetto. Quando andiamo più in profondità, ci accorgiamo che questo tipo di sapere duale non ha più ragione d'essere. L'insieme della molteplicità diventa allora unità; scopriamo che non c'è niente da conoscere al di fuori di noi stessi. A questo stadio, in termini umani, parliamo di una "Conoscenza per identità" perché "io sono quello che sono" senza secondo. Quando un ricercatore prende coscienza che è la mente che crea la dualità tra soggetto e oggetto, può allora chiudersi a questo tipo di conoscenza e rendersi conto che non esiste che una sola entità al di là di tutto questo movimento. Ecco perché è impossibile ottenere una realizzazione al livello di manas , perché manas proietta un Dio o una Divinità all'esterno di se stesso. S. Agostino dice: "Dio è in noi " e Gesù Cristo dice: "Il Regno dei Cieli è in voi". Sono i preti che dicono che tutto questo è fuori di voi. E a questo stadio, si diventa Conoscenza, quando soggetto e oggetto scompaiono. In sanscrito si parla di Sat, Chit è insieme conoscenza e coscienza , e i due non sono che Uno: In Occidente, abbiamo creato una differenza tra conoscenza e coscienza; abbiamo perciò elaborato due cose distinte a partire da una sola e stessa nozione. Peraltro, in termini orientali come in

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termini occidentali, abbiamo Chit o Gnosi, che significano conoscenza non duale. In occidente, la nostra mente è piuttosto empirica e vogliamo comprendere l'assoluto grazie a questa mente, che , in realtà è relativa. Uno dei nostri fratelli che ha un manas molto forte, molto potente, vorrebbe comprendere l'assoluto con la sua mente. Non si tratta di sbarazzarsi della mente perché è un veicolo, uno strumento come gli altri. E' perciò importante comprenderne il giusto valore. Ma per conoscere ciò che si situa al di là di sé, dobbiamo abbandonarci. D: Cosa intendete per "conoscere, colui che conosce e ciò che è conosciuto ? Devono coincidere perfettamente"? R: Questa domanda è di nuovo come la precedente; avete la conoscenza, il conoscitore e il conosciuto, esattamente come avevate il soggetto e l'oggetto della conoscenza. Così la risposta alla domanda precedente si applica anche a questa. D: ci sono però due cose qui: si vuole la liberazione e si vuole la comprensione, e forse ci si vuole anche abbandonare. Me nello stesso tempo, una parte di questo processo deve succedere da solo, non possiamo provocarlo, anche avendo la conoscenza di tutto questo processo. R: Noi abbiamo la facoltà di comprendere, e poco a poco, attraverso gli insegnamenti ecc., arriviamo ad afferrare questa Realtà. Prendiamo l'esempio di qualcuno che mettesse il dito sopra una fiamma. Il desiderio di conoscere l'effetto prodotto da questo gesto esiste per la dipendenza dall'inconscio collettivo, tamas, e altri. Immaginiamo che una persona venga a trovare Raphael e che lui gli spieghi tutte le ragioni per le quali lei si brucerà se mette un dito nel fuoco. Questa persona potrebbe istantaneamente prendere coscienza del pericolo, e così non si troverebbe portata a far fisicamente l'esperienza. Oppure, continuerà a voler mettere il dito nel fuoco e a bruciarsi. Ritornerà poi a lamentarsi "Mi sono bruciata, che devo fare per evitarlo?" Raphael risponderebbe: "Ebbene, forse non avete capito? Se lo desiderate, ve lo spiego un'altra volta". E' il mondo dell'ego che crea questo genere di dualità. Crea la gioia e il dolore, il conflitto, la sofferenza ecc. Posso indicare il cammino che conduce alla soluzione di questo tipo di conflitto. Se questa persona rimette il dito nel fuoco, cioè nel mondo della dualità, del conflitto e della sofferenza, è naturale che si brucerà di nuovo. Ora, se lo desidera, si può spiegarle tutte le ragioni che l'hanno spinta a ricominciare. Se il dialogo non avviene tra due intelletti, ma piuttosto tra un Maestro o più precisamente uno stato di coscienza giunto al di là del desiderio di fare delle esperienze, e un discepolo, allora è possibile che questo stato di coscienza penetri la coscienza del discepolo e a seconda di tutte le probabilità, una vera comprensione si accenderà in questo senza sforzo. La relazione tra un Maestro e un discepolo è in effetti straordinaria e di grande bellezza, perché è una relazione tra uno che si dona e si

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abbandona, e uno che è lì per aprirsi e ricevere ciò che è donato al punto che non ci sia più distinzione tra i due, e che di due essi diventino Uno. Ma talvolta è difficile giungere a questo livello d'apertura perché c'è una resistenza da parte delle discepolo, come una identificazione con alcuni contenuti psicologici, con manas ed altre esperienze ancora. Lo stato di coscienza di un essere realizzato non è altro che la possibilità di toccare un altro stato di coscienza che non è ancora risvegliato. Ma sul piano potenziale, noi siamo tutti Quello. Piuttosto che di parlare di un "essere realizzato" forse è preferibile parlare di un "fratello maggiore". Non c'è che un Maestro ed è Shiva. Il "fratello maggiore" deve toccare lo stato di coscienza dell'altra persona e non i suoi guna. D: Questo ci porta alla domanda seguente, a proposito degli "esseri realizzati". Nel vostro libro "Tat Tvam Asi", descrivete un essere realizzato, e ci domandiamo se avete qualche consiglio, consiglio da dare per aiutare a distinguere un essere veramente risvegliato da qualcuno che ha semplicemente alcuni poteri. R: Non è difficile vedere la differenza; ma naturalmente è indispensabile che la persona che si domanda se l'essere di fronte a lei è realizzato o no, sia essa stessa a un certo livello di comprensione. Si dice che un essere realizzato non possa essere riconosciuto che da un altro essere realizzato. Ma, vedete, quando abbiamo evocato la Tradizione scritta, era molto importante, perché ad ogni momento possiamo apprezzare la persona che ascoltiamo riguardo ai testi tradizionali. Ricordiamo un esempio semplicissimo che conosciamo tutti: i Vangeli. Qualcun potrebbe venirci a trovare e dire: "Ho realizzato quello stato che è descritto nei Vangeli". E a questo si potrebbe rispondere: "Molto bene; vediamo allora ciò che Gesù Cristo ha detto nei Vangeli". Prendiamo per esempio il Cattolicesimo, in cui l'Occidente cristiano, tentando di convertire i popoli alla sua religione, ha causato tante guerre e ha trascinato alla separazione nazionale. Se sono normalmente dotato di intelligenza, mi rivolgo ai Vangeli e provo a capire se Cristo ha veramente detto che quello corrispondeva al modo di portare il Suo insegnamento al mondo. Nei Vangeli Cristo dice: "Amatevi gli uni con gli altri, come io ho amato". Dice poi: "Pregate Dio perché il sole splenda sui giusti come sugli ingiusti. Cosa conquistate non amando che quelli che vi amano? In verità vi dico, amate quelli che vi odiano". Allora mi guardo attorno e mi domando spesso se i preti hanno davvero seguito questo pensiero, se l'hanno veramente realizzato. In Europa, abbiamo avuto più guerre di religione che guerre politiche (ridendo), e Gesù dice: "Offrite l'altra guancia!". Ecco il ruolo della Tradizione: i Vangeli sono il mio specchio. Studiandolo posso dire: "Si, questa persona segue veramente i Vangeli, perché offre realmente l'altra guancia e ama perfino i suoi nemici" . E' lo stesso per l' Advaita Vedanta. Qualcuno ci potrebbe dire: " Ho realizzato lo stato di

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Uno senza secondo". E in questo caso noi diremmo: "Vediamo". Se allora ci rendiamo conto che questa persona è panteista o nichilista, verifichiamo ciò che Shankara ha detto a questo proposito e possiamo facilmente accorgerci che le due cose non coincidono. Ecco il grande valore della Tradizione. E' solo in questo modo che si può sapere se questa persona è realizzata o no. Dobbiamo essere molto prudenti perché viviamo l'epoca del Kali-yuga e un gran numero di persone fanno finta di sapere. Non è difficile imparare in un libro, ma vivere e realizzare ciò che vi viene detto è tutta un'altra cosa. Il solo modo, il solo mezzo per un discepolo di vedere se una persona è realizzata è di confrontare il suo comportamento con quello che ne dicono Plotino, Gaudapada, Shankara e altri nelle loro opere. Ma c'è un altro aspetto: molto spesso i discepoli sono passivi ed è loro molto difficile penetrare questi insegnamenti in profondità molto spesso incoraggiamo i ricercatori ad andare avanti, a condurre le loro proprie esperienze, a viaggiare in India e a far visita a diversi guru. Ma in definitiva, essi sono obbligati a operare la loro propria sintesi e a confrontare i differenti testi per sapere bene dove si trovano. Se qualcuno mi dice: "Sono un emulo di Platone", perché ancora oggi abbiamo scuole platoniche e neoplatoniche, la cosa da fare è andare direttamente ai testi, per sapere esattamente ciò che Platone ha detto. E' il solo mezzo a disposizione del discepolo ai nostri giorni. Una volta l'India era una società tradizionale e questo lavoro era molto più facile, ma ai nostri giorni, non abbiamo queste agevolazioni e questi mezzi; siamo nel mondo di avidya. Gesù dice: "Voi li riconoscerete per i frutti che portano"; un discepolo deve fare prova di intelligenza e deve essere capace di comprendere. C'è poi da fare una distinzione tra la vera realizzazione di uno stato di coscienza e le siddhi, che sono dei poteri. Le siddhi appartengono a Prakriti, ai guna e per questo creano la dualità; quando la realizzazione si situa al di là delle siddhi, non c'è siddhi più elevata della realizzazione. Molto evidentemente la gente in generale preferisce le siddhi. Sai Baba, con tutto il rispetto che gli dobbiamo, possiede delle siddhi e fa apparire della vibhuti (cenere sacra). Se un elefante si precipita di corsa verso di lui, gli basta alzare semplicemente la mano per fargli arrestare la corsa. La gente accorre per assistere a questo spettacolo affascinante. Sai Baba ha anche la capacità di guarire, ma tutto ciò non attiene veramente che al veicolo. La realizzazione stessa avrà giù portato alla soluzione di tutti questi problemi. Non è che siamo contro le siddhi o i poteri. I poteri hanno la loro ragione d'essere, ma dobbiamo sapere che appartengono a un piano particolare e metterli al loro posto giusto. D: Proprio prima di venirvi a incontrare, una delle nostre amiche attraversava una crisi. Intellettualmente, aveva coscienza che doveva abbandonarsi e lasciare che le cose accadessero, ma le emozioni seguivano un altro corso e le impedivano di lasciar andare. La domanda allora è: "come conciliare la ragione con le emozioni e i sentimenti?".

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R: Nel caso della vostra amica, osserviamo una identificazione con il corpo emozionale e questa identificazione è così forte che non permette di lasciar andare, d'abbandonarsi. Si tratterebbe quindi di rieducare sia le emozioni, che sono così potenti, sia la ragione, che non ha la capacità di sottrarvisi. La sua posizione dovrebbe essere tale da poter comprendere - anche dal lato del manas, del mentale – che può andare al di là di questo stato, al di là delle emozioni e della ragione. Certo, la condizione ideale sarebbe di uscire da tutta questa situazione e mettersi in silenzio. Risolverebbe così tutti i suoi problemi. Ma è in preda a delle emozioni e a dei sentimenti che disgraziatamente la mantengono in questa situazione. Deve essere proprio in mezzo ad una battaglia fra la coscienza razionale e le emozioni che si affrontano. La sua coscienza è allora proprio al centro di questo conflitto. D. E dunque, la cosa migliore per lei sarebbe di stare al di sopra dei due? R: Questa sarebbe una soluzione radicale, in effetti e già una realizzazione. Tutto dipende dalle emozioni e se la vostra amica è abbastanza forte da distaccarsene. Se avesse una visione una conoscenza tradizionale qualunque, potrebbe trovare aiuto creando una identificazione con questa visione piuttosto che con le sue emozioni. D: Cos'è la meditazione? E' una tecnica per compiere qualcosa, e , se è il caso, per compier cosa? R: All'inizio la meditazione è estremamente importante. C'è la meditazione con supporto (o oggetto) o senza supporto. Per un principiante, la miglior cosa da fare è cominciare con un supporto concreto qualunque, come un libro, per esempio, affinché il suo spirito possa giungere ad un certo livello di concentrazione, un grado elevato d'attenzione su questo supporto particolare, perché i pensiero ha la tendenza a disperdersi. E' molto difficile bloccarlo in un'unica posizione. Una meditazione con supporto favorisce dunque la concentrazione. Nello Yoga-darshana, che è il Raja-yoga di Patanjali, i tre ultimi mezzi sono dharana (la concentrazione), dhyana e samadhi. Questo comprende l'attenzione, la concentrazione e la meditazione affinché il mentale si focalizzi. Abitualmente la mente perde una quantità importante della sua energia. Una mente che disperde la sua energia non può creare qualcosa di positivo, qualcosa di buono. Chiunque abbia compiuto un lavoro d'una certa importanza, anche nel mondo esteriore, ha dovuto, in ogni caso, fare prova di una fortissima capacità di concentrazione. Uno scienziato o un matematico deve possedere questo tipo di concentrazione per scoprire certe leggi. Molto evidentemente, quando la nostra Coscienza riposa in se stesa e vive per e attraverso se stessa, la meditazione non è più necessaria. Cosi', la meditazione è un mezzo molto potente per collocare tutti i veicoli in stato di attenzione, di concentrazione. Ben inteso,

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esistono differenti tecniche di meditazione, ma penso che non abbiamo il tempo di affrontarle ora. D: Ieri vi ho parlato delle mie aperture della visione, ma che non era qualcosa che vivevo in permanenza. Avete risposto che era sufficiente ritornare a questa visione. La mia domanda dunque è la seguente: "Non si tratta allora di un semplice ricordo, di qualcosa di irreale? R: Naturalmente non parliamo di un ricordo psicologico al quale dovreste ritornare. Ma è possibile mettere l'accento su questa visone, su questo stato nel quale eravate. Credo che abbiamo realizzato tutti un minuto d'unità nel corso della vita e preso coscienza che la vita è Una. Tutto quello che ci resta da fare è stabilizzare questa esperienza. Il Vedanta offre una soluzione: suggerisce di considerare ciò che ci circonda come "nome e forma" e di cercare ciò che c'è al di là del nome e della forma. D: Avete la coscienza d'essere dappertutto? R: Si, non c'è differenziazione né opposizione. Per utilizzare la terminologia induista quando si parla di Ishwara: il bakta (devoto, colui che segue il cammino della devozione) pone Ishwara all'esterno, considera Ishwara come un "secondo". In realtà Ishwara è uno stato di coscienza che deve essere realizzato, Ishwara, o Dio, è uno stato d'essere. A questo stadio avete la possibilità di guardare sia con gli occhi della Coscienza sia con gli occhi fisici. Platone parla dell' "unità nella diversità". E' molto bello e importante. Se guardate con gli occhi dell'Unità, non potete entrare in opposizione con chichessia o qualunque cosa. Potreste allora ribattere: ma la condotta di queste persone non ha niente a che vedere con la visione dell'Unità. Raphael ne è cosciente, ma è ugualmente cosciente del fatto che queste persone che si comportano in questo modo sono esse stesse delle espressioni dell'Uno. Questo crea situazioni a volte buffe. Dei ricercatori vengono da noi e affermano: "Io sono questo, io sono quello, io sono un uomo, io sono una donna, io sono dottore, io sono avvocato" Noi rispondiamo:" Ma voi non siete tutte queste cose che enumerate". Tutte queste persone sono fermamente convinte e si considerano uomo, donna, medico, avvocato ecc. Accettiamole come credono di essere. Plotino dice: "Il mondo è una immensa scena dove ciascuno recita la sua parte", ed è proprio ciò che facciamo tutti (ride). Ma sembra che molti non lo capiscano. D: Allora, considerare le cose come "nome e forma", appartiene al campo della mente, un processo mentale che bisogna ricordarsi di mettere in opera? R: Evidentemente non potete forzarvi a farlo, ma dovete favorire l'attitudine che consiste a non vedere le cose come "nomi e forme", ma come l'aspetto della Coscienza soggiacente ai "nomi e forme". Shankara dà un buonissimo esempio che si riferisce in modo molto pertinente a

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questo:" prendiamo l'etere, che è in ogni luogo ed è Unità. Una gran parte di questa aria o etere, è contenuta all'interno di un vaso, e ci sono vasi differenti di ogni sorta di forma e di grandezza. Il vaso, certo, può essere inteso come un essere umano, un albero o un animale. Ma l'etere racchiuso all'interno dei vasi è della stessa natura dell'etere all'esterno. Dunque, dovremmo figurarci come tutti dei vasi, il nostro corpo è il nostro vaso, ma all'interno di tutti i differenti vasi, c'è questa Unità. La differenza sta nel fatto che ci sono stati di coscienza che non vedono che l'etere, all'interno e all'esterno dei vasi. Gli altri, al contrario non vedono che con gli occhi del vaso, di conseguenza un vaso è diverso dall'altro; questo fa nascere il conflitto. E questo genera anche la vanità, perché in ogni stato di causa "il mio vaso è migliore del vostro" (ridendo). Questa esperienza infatti vi è molto utile. Ritornate al momento in cui avete visto l'unità, e guardate attorno a voi con gli occhi di questa unità. Vedrete che questa unità ha assunto forme differenti: qui un albero, la mia persona o un animale, e così via. Ma sarà attento a ricontattare, a ritrovare la visione dell'Uno. E' molto importante poi che manas, il mentale, non interferisca e non si metta a concettualizzare. D: Nel momento di questa visione, non c'erano concetti. Ma ritornare a quel momento, per me, diventa un concetto, perché non si sta producendo ora. R: Ma ora, voi siete certamente cosciente del fatto che questo stato esiste, perché era un'esperienza diretta. E da quel momento non potete più concettualizzare. Quando qualcuno vi dice di guardare il mondo dei nomi e delle forme, non potete più concettualizzare perché sapete di che si tratta, conoscete ciò che è al di là. D: Si, so che è quella la Realtà. La maggior parte della giornata, mi trovo di fronte a dei concetti e mi ci faccio ancora prendere, ma in profondità so che non sono la Realtà. R: In ogni caso, avete fatto l'esperienza di uno stato di coscienza spoglio di concetti e sapete così che la Realtà è al di là dei concetti. Ora, ciò che potete fare, è andare a fare un giro fuori e guardare gli alberi, guardare tutto ciò che incontrate, e osservare, ma senza concettualizzare. Quando passeggiamo, la nostra mente si mette a concettualizzare autonomamente. Non si accontenta solo di contemplare un albero, ma commenta: "Questo albero è grande, o piccolo, mi piace, non mi piace…" Quello che allora dovete fare, è contemplare senza concettualizzare. E poco a poco, questo modo di fare può essere incorporato nella nostra vita di tutti i giorni, e così è la vostra coscienza che ora vi guida e non più i concetti. Per essere più preciso, possiamo chiamare questo "intuizione", semplicemente per darvi un'idea di ciò che succede. Alcuni vi diranno: "Ma come posso continuare a vivere e a lavorare così? Ho bisogno di fare funzionare la mia mente". Però potete arrivarci. Questo

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sembra impossibile, e invece è piuttosto facile. Infatti, è estremamente facile. Si possono fare molte cose: guidare il trattore, spaccare legna, cucinare, spazzare il pavimento di questa stanza, lavare i propri vestiti. E tutto questo con la gioia nel cuore perché tutto è così meraviglioso. E' essenziale che coltiviate questa visione d'Unità nella vita perché ciò che avete attraversato è molto importante. Il Vedanta chiamerebbe questo Savikalpa samadhi. Ed è la possibilità di vedere l'unità della vita con i vostri occhi, gli occhi della Coscienza. D: Potreste spiegare qual è i ruolo dello Yoga e delle sue differenti discipline? E' necessario praticare uno yoga particolare? R: Ci sono differenti tipi di yoga. Avete letto il nostro libro: "L'essenza e lo scopo dello Yoga" che tratta tutte le forme di yoga, dall'Hatha-yoga fino all'Asparsa-yoga, che è lo yoga dell'Advaita vedanta, la via metafisica. Nel corso delle epoche antiche, questi yoga rappresentano diverse tappe o diversi passaggi che portano progressivamente a un cammino più vasto. Quindi, nel tempo antico, c'era semplicemente un solo e unico yoga, con differenti possibilità e dimensioni. L'insieme di questi differenti tipi di yoga portavano tutti alla trascendenza, compreso l'Hatha-yoga. Oggi, l'Hatha-yoga in occidente non è che una serie di esercizi che non fanno che promettere una buona salute. Ma nessun yoga è migliore di un altro. Certo, in Oriente, la Tradizione è sempre viva e permette a chi la incontra di avviare la loro pratica al loro proprio livello di preparazione, di gunas, ecc… In Occidente, e in certi paesi, non si è avuto niente altro che il Cristianesimo e non abbiamo quindi avuto nessuna scelta. Così è impossibile offrire a ciascuno la soluzione che gli abbisogna, perché ogni individuo è un mondo a sé. Invece in Oriente, esiste un ventaglio di possibilità ben più ampio che corrisponde ai bisogni di ciascuno secondo i propri gunas e qualità. Anche il Vedanta può essere definito come uno yoga, lo yoga della Conoscenza. Ma la parola Yoga si è degradata; questa specie di degradazione è inevitabile perché siamo nell'età del Kali-yuga. Infatti, se noi diciamo "facciamo del vedanta-yoga", direbbero: "allora, fate della ginnastica? Quali sono le posizioni? Dov'è la palestra?". (ridendo) D: Tutti possono decidere di risvegliarsi, o succede spontaneamente, senza preparazione? R: Il risveglio naturalmente, non è qualcosa che potete compiere semplicemente con la sola forza della volontà e con lo sforzo. Avviene da solo. Ma dobbiamo essere pronti nel momento in cui avviene. Anche nella vostra vita quotidiana, a scuola per esempio, studiamo un considerevole numero di materie, la maggior parte di loro non sono di nessuna utilità per la nostra professione. Ma questa specie di esercizio prepara il nostro spirito a qualcosa che assomiglia all'intuizione: esercita a un modo migliore di scegliere le cose e così via. In questo, la preparazione che

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offrono i nostri studi è utile. Allora, per tornare alla vostra domanda, la preparazione porta ad accogliere questa specie di avvenimento spontaneo. Non si può forzare nulla, ogni violenza su di noi sarebbe totalmente inutile. D: Quale consiglio dareste a un ricercatore di Verità. R: Questa domanda non è molto facile (ridendo). Dare un consiglio a qualcuno è molto difficile. Beninteso, se la persona, è veramente alla ricerca della Verità, la cosa può essere considerata. Ecco perché parliamo di un certo grado di naturalità della persona, quando c'è un maggior controllo dei gunas ecc. A questo stadio, certo, dei consigli potrebbero essere dati. Il problema sorge quando la persona vive in uno stato di sofferenza e di dualità. Vuole risolvere il suo problema, ma vuole restare in questo stato di dualità. In questa situazione, non si può avere comprensione, perché tutto quello che la persona vuole fare, è cambiare un avvenimento o una situazione a questo livello. Ma si tratta del livello dell'ego, della dualità. Così è molto difficile consigliare qualcuno che è identificato a questo stato di dualità. Inoltre da un punto di vista filosofico, non c'è niente al di là o al di fuori dell'Essere e presto o tardi, non possiamo che ritornarci. Un Advaitin è pacificato, diciamo che ha trovato la pace. Avendo integrato lo stato d'esistenza duale, non ha alcun motivo che lo spingerebbe a voler cambiare il corso delle cose. Ecco perché non ricerca né discepoli né adepti. Certo, l'Advaita è offerto a tutti, ma tutti non vogliono raggiungere questa dimensione. Però presto o tardi, la raggiungeranno perché ogni individuo al mondo è Quello. Possono prendersi per qualcos'altro ma sono Quello. Siamo tutti alienati perché crediamo di essere ciò che non siamo. Per terminare con una nota leggera: dopo Napoleone, ci fu un certo numero di persone che nella loro alienazione, credevano di essere lui. Erano convinte di essere Napoleone, erano pazzi. In questo caso, tutto ciò che possiamo fare, è tentare di risvegliarli alla realtà che non sono Napoleone. La conoscenza tradizionale ci dice che noi siamo tutti alienati; siamo identificati con i diversi vasi e ogni vaso è diverso dal seguente. Un Advaitin si rende ben conto di tutta la sofferenza del mondo, ma nello stesso tempo, vede il comico di tutto questo (ridendo) perché ha coscienza che tutte queste persone hanno dimenticato ciò che sono. Qualcuno potrebbe dire: "soffro"; e la risposta potrebbe essere: "no, tu non soffri"; "si, soffro!". Un altro potrebbe dire:" Sto per morire" e la risposta: "Ma tu non puoi morire, tu sei immortale". Se questa persona è convinta che sta per morire, che possiamo farci? Tutto ciò che ci resta da fare è di aspettare che prenda coscienza della sua immortalità, che gli è impossibile morire. Quando lasceremo il nostro corpo fisico denso, la maggioranza di noi andrà nella parte inferiore del Taijasa [6]. In termini occidentali, si tratta del piano astrale. Alcuni spiriti materialisti, quando arrivano a questo piano, fanno fatica a realizzare che non sono morti. Dei discepoli fanno il loro lavoro su questo piano per

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provare a rieducarli e portarli a vedere che non sono morti. Loro ne sono talmente convinti che dicono:" Come posso non essere morto? Sono deceduto. Devo essere morto" Questa persona non si lascerà andare all'evidenza che esista, che si esprime e che dunque vive in quest' altra dimensione. Potemmo dire che la vita che facciamo, sul piano umano, è "una tragicomica a lieto fine". D: Quali sono i principali ostacoli a vivere la Verità? Come si superano? R: Abbiamo già risposto a questa domanda quando abbiamo spiegato che siamo identificati ai gunas. Mentre fate la vostra passeggiata e tentate di ritrovare la vostra visione, dovete verificare voi stessi. "Qual è l'ostacolo che mi trattiene dall'essere quello? Che veicolo si inserisce tra me e questa Realtà? E' lo spirito oppure qualche contenuto psicologico che è in me? Potrebbe essere il mondo delle sensazioni o delle emozioni? Potrebbe essere una idealizzazione, un pensiero? Tutto questo può essere d'ostacolo, ma una volta risolto – perché questi problemi si risolvono - quello emerge da solo. In Oriente si da un esempio molto pertinente: immaginate una stanza piena di oggetti così numerosi che potete appena muovervi. L'identificazione ai diversi oggetti non vi permette di vedere la stanza nella sua realtà. Oggi posso identificarmi con la tavola, domani al sistema di riscaldamento, l'indomani a un'altra cosa. Se prendo tutti questi oggetti e li getto fuori, (per "gettarli fuori" intendo, certo, integrare, assimilare tutti questi oggetti), mi ritrovo in una stanza vuota, e dunque nello spazio. Io sono questo spazio, e questo significa che l'etere all'interno del vaso è della stessa natura che l'etere al di fuori del vaso. Questi esempi o queste analogie possono essere di una grande importanza per la comprensione della Realtà soggiacente ai fenomeni. D: Circa quattro anni fa, ho cominciato, una sera, a ripetermi la frase "Io sono quello". E sono stato colpito dal fatto che "l'io" per il quale mi prendevo, non aveva niente a che fare con Quello. Prima di questa presa di coscienza, credevo che "l'io", cioè tutti i concetti corrispondenti a ciò che credevo di essere, stava per diventare Quello con la realizzazione. Ora, in questo istante, ho visto che Quello non aveva niente a che fare con questi concetti. Vedere questo fu molto importante per me. R: Certo, sicuro, Quello non ha niente a vedere con l'ego, l'io. "Io" è una non-realtà, ma è un errore che tutti fanno. D: Se viviamo in uno stato di spontaneità totale, continuiamo a controllare gli avvenimenti della nostra vita? R: Dobbiamo parlare qui della spontaneità dell'etere. In questo caso solamente, potete mantenere un controllo; allora è l'etere che utilizza il vaso e non il vaso che utilizza l'etere. L'etere è spontaneità, innocenza. E' la lila, il gioco divino, il gioco d'un bambino. Dobbiamo dunque

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chiaramente fare la differenza tra la spontaneità che viene dalla reazione istintiva e la spontaneità dell'etere che è totalmente differente. E' molto importante fare questa distinzione perché certe persone sono molto impulsive, emotive e per questo spontanee, ma anche capaci di provocare grandi disastri. Dalla posizione di Quello, ciò non può accadere. L'innocenza di cui parliamo è tutt'altra cosa. D: Potete descrivere la vostra propria natura? R: E' esattamente la stessa della vostra. Ciascuno di noi è questo etere che impregna tutto. Non c'è differenza tra Raphael e gli altri. Potrebbe esserci giusto questa differenza: una persona potrebbe essere identificata ad uno dei suoi veicoli o ad una delle esperienze che ha fatto, mentre Raphael ha esaurito e chiuso tutti i registri di esperienze. Si potrebbe dire che Raphael è stato un po' più intelligente in una incarnazione passata. Ha realizzato di cosa si trattava in tutto questo e ha deciso di non ricaderci più (risa). Questa è l'unica differenza. Note: 1) Gunas: "qualità fondamentali". La creazione si manifesta in conseguenza al disequilibrio trai tre gunas, sattva il puro e il Sottile, rajas, l'attività e tamas, la pesantezza e l'immobilità, mascherando così la realtà di Brahman. 2) Deva: essere risplendente,angelico; divinità, Principi funzionali dei livelli grossolano e sottile. 3) Ananda-maya-kosa: guaina, rivestimento (kosa), fatti di (maya) beatitudine (ananda). 4) Ishwara: personalità divina. Rappresenta ciò che si può chiamare il Dio-Persona. Principio della manifestazione totale e Signore di maya. 5) Maya: ignoranza metafisica; fenomeno; mondo empirico fenomenico. Maya comprende tutte le modificazioni sovrapposte alla pura Coscienza del Sé, al Brahman-Atman. Apparenza, ciò che non è né reale né non reale, ma la cui natura è "cambiamento".... 6) Taijasa: lo stato luminoso, uno dei quattro stati di coscienza del Vedanta. I tre altri sono: il sonno profondo, lo stato di veglia e Turia, il quarto.