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rapporto annuale 2010 Il Nord, i Nord Geopolitica della questione settentrionale scenari italiani territorio / ambiente / società / economia

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rapporto annuale 2010

Il Nord, i NordGeopolitica della questione settentrionale

€ 30,00

s c e n a r i i t a l i a n iterritorio/ambiente/società/economia

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SCENARI ITALIANI 2010Rapporto annuale della Società Geografica Italiana

Il Nord, i NordGeopolitica della questione settentrionale

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Scenari italianiRapporto annuale della Società Geografica Italiana

Comitato scientifico: Claudio Cerreti, Sergio Conti, Tullio D’Aponte, Piergiorgio Landini, Ernesto Mazzetti, Franco Sal-vatori

Questa edizione del Rapporto è stata curata da Sergio Conti e Carlo Salone, che sono altresì autori de Le tessere del mo-saico e delle Conclusioni. Giuseppe Dematteis e Alberto Vanolo del Primo discorso (L’organizzazione dello spazio: ra-dicamenti locali e reti), Paolo Giaccaria e Cristina Scarpocchi del Secondo Discorso (Il Nord fuori dal Nord), la cui Ap-pendice (Le euroregioni: verso una possibile riarticolazione del Nord) si deve a Piero Bonavero (paragrafo 1), AngeloBesana (paragrafo 2), Daniele Ietri (paragrafo 3) e Alessandro Santini (paragrafo 4). Del Terzo Discorso (La regolazionesocio-politica: governance, autorappresentanza, federalismi possibili) sono autori Calogero Muscarà (paragrafi 1 e 4),Paola Bonora (paragrafi 2 e 3), Fiorenzo Ferlaino (paragrafi 5, 6 e 7). Vincenzo Demetrio e Francesca S. Rota sono au-tori del Primo Sguardo (La capacità innovativa: imprese e territori), Matteo Bolocan Goldstein e Matteo Puttilli del Se-condo Sguardo (Il Nord in rete: infrastrutture materiali e immateriali tra integrazione e competizione), Cristiano Giordadel Terzo Sguardo (Paesaggi alpini e paesaggi padani). Le «schede» si devono a Carlo Salone (Il caleidoscopio padano), Alberto Vanolo (L’«invenzione» del Nord), Cristina DelBiaggio (La produzione di uno spazio politico alpino), Roberto Gambino (Il bacino del Po, banco di prova delle politi-che macroregionali), Alessia Toldo (Dal triangolo industriale al MiTo), Piero Bonavero (Il quadro istituzionale della re-gionalizzazione europea), Paola Bonora (La risposta «etno-simbolica» alla frammentazione delle solidarietà territo-riali), Fiorenzo Ferlaino (Federalismo territoriale e federalismo fiscale), Vincenzo Demetrio e Francesca S. Rota (Ilmade in Nord; La rete delle partecipazioni estere; Le isole d’innovazione), Matteo Bolocan Goldstein e Matteo Puttilli(Storie e disavventure dei cantieri simbolo; L’avanzata dei giganti; Milano, il Nord ed Expo 2015), Ferruccio Nano (Inodi logistici del Nord-ovest), Egidio Dansero (Il consumo di suolo), Carlo Brusa e Davide Papotti (Paesaggi del riso),Francesco Vallerani (Paesaggi del disagio), Sergio Conti (Un territorio si fa progetto).Gli apparati cartografici sono stati curati da Giovanna Di Meglio, Paola Guerreschi e Maurizio Inzerillo (DiTer, Univer-sità e Politecnico di Torino).L’Appendice, che costituisce la sintesi delle opinioni raccolte sul tema del Rapporto attraverso un sondaggio tra i geo-grafi delle università italiane, è stata curata da Ernesto Mazzetti.Il Quadrante è da attribuire a Tullio D’Aponte.

ISBN 978-88-88692-68-5

È vietata la riproduzione e l’archiviazione, anche parziali e anche per uso didattico, con qualsiasi mezzo, sia del conte-nuto di quest’opera sia della forma editoriale con la quale essa è pubblicata (legge 22/4/1941, n. 633 e l. 18/8/2000, n.248). La riproduzione in fotocopia è consentita esclusivamente per uso personale e per una porzione non superiore al15% delle pagine del volume, con le modalità e il pagamento del compenso stabiliti a favore degli aventi diritto.

© 2010 by Società Geografica Italiana ONLUS

Via della Navicella 12 (Villa Celimontana) tel. 067008279 – fax 0677079518 – e-mail: [email protected]

Finito di stampare nel giugno 2010

Copertina: Pietro Palladino

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Indice

Presentazione 7

IL RAPPORTO

Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale 9

Le tessere del mosaico 11

Geografia e storia di un Nord inafferrabile 11Il Nord come luogo e come area 14Un «luogo» chiamato Padania 15Gli elementi unificanti in una prospettiva «neoregionalista»: il Nord come attore politico 17Costruire o de-costruire il Nord? 19

Parte I – Discorsi

Primo Discorso. L’organizzazione dello spazio: radicamenti locali e reti 23

1. Un’identità geografica incerta 232. La diversità della montagna 233. Nord-ovest e Nordest 254. Il vero dualismo 295. Le reti delle infrastrutture e delle città 296. Le reti delle imprese e della cooperazione interistituzionale 317. Realtà geografica e immaginazione geopolitica 33

Secondo Discorso. Il Nord fuori dal Nord 41

1. Una politica estera del Settentrione d’Italia? 412. Programmi europei e cooperazione interregionale nel Nord Italia 423. Dalle Alpi ai Balcani: un nuovo baricentro per il Nordest? 464. Il Nord oltre l’Europa: tra emigrazione e cooperazione 495. Una «politica estera» centrifuga 51

Appendice. Le euroregioni: verso una possibile riarticolazione territoriale del Nord 53

1. L’Euroregione Alpi-Mediterraneo come cerniera geografica e spaziodi integrazione territoriale 53

2. Trentino-Alto Adige/Südtirol: fuga verso l’Europa 553. La proiezione del Friuli-Venezia Giulia nello spazio Alpe-Adria 554. Nel Nord-ovest italiano. La Comunità di lavoro Regio Insubrica 58

Terzo Discorso. La regolazione socio-politica: governance, autorappresentanza,federalismi possibili 61

1. Questione settentrionale e geografia 612. Dalla crisi del centralismo alla nazione settentrionale 623. L’insanabile dialettica tra secessione padana e neomunicipalismo disobbediente 644. Per capire meglio: il coronimo Nordest 665. Federalismo fiscale e decentramento dei poteri 676. Nord e Sud: vecchie complementarità e nuove divisioni 697. Scenari possibili 71

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Parte II – Sguardi

Primo Sguardo. La capacità innovativa: imprese e territori 77

1. Il Nord: un sistema di sistemi? 772. La struttura economico-produttiva 773. Una capacità innovativa sui generis 824. Una questione decisiva: le risorse umane 835. Per concludere 85

Secondo Sguardo. Il Nord in rete: infrastrutture materiali e immateriali fra integrazionee competizione 87

1. Infrastrutture, fra urgenza e retorica 872. Un Nord (dis)integrato 893. Tra regolazione e governo 904. Chi ricarica il Nord? Nuovi legami tra energia e territorio 945. Tra cooperazione e competizione 956. Funzioni centrali e logiche territoriali: Malpensa e aeroporti padani in ordine sparso 967. Il Nord al bivio 98

Terzo Sguardo. Paesaggi alpini e paesaggi padani 103

1. Mosaici in evoluzione 1032. Paesaggi o non paesaggi? 1043. L’area alpina 1064. L’area prealpina e pedemontana 1075. L’area padano-veneta 1096. L’area collinare e appenninica 113

Conclusioni 117

AppendiceIl Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale. Sintesi d’un sondaggio tra geografidelle Università italiane circa l’identificabilità di una possibile macroregione padanadistinta dal resto del paese per peculiarità e problemi 121

La macroregione del Nord 123Il fattore geopolitico nella «questione settentrionale» 125Il paesaggio e l’identità 126Differenze di paesaggi urbani tra Nord e Sud 127Nord, Sud e Unione Europea 128

Quadrante 133

Proiezioni geopolitiche di uno sviluppo dicotomico 134Un capitalismo «contenuto» da una labile iniziativa internazionale 138Il «fenomeno» leghista: ascesa e riflessi geopolitici 142La questione del federalismo fiscale 145

Indice della figure 149

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Molte e complesse forze agiscono sulle societàdell’Occidente. Dinamiche dell’economia etrasformazioni territoriali compongono nuovegeografie. In un intreccio di cause ed effetti, aquesti processi s’accompagnano mutamenti discenari politici e culturali. Alle spinte globa-lizzanti che palesano attenuazione del ruolodegli Stati-nazione, dialetticamente si pon-gono riaffermazioni di identità regionali.L’Italia celebra i centocinquant’anni dellaconseguita unità del paese. L’anniversario ri-chiede giusta esaltazione di traguardi storicima altrettanto doverosa riflessione circa nodiirrisolti che gravano sulla comunità nazio-nale. Si impone l’individuazione di percorsi dicoesione, identificabili attraverso una disa-mina critica di ciò che residua di pregressi,insoddisfacenti assetti sociali; e di ciò che,con valenza problematica forse non minore, èemerso negli ultimi decenni. Al dato, storico ed economico insieme, dell’e-sistenza di un dualismo tra l’Italia centro-set-tentrionale e il Mezzogiorno, rivelatosi nodoirrisolto dell’economia e della politica già al-l’indomani dell’avvenuta unificazione nazio-nale, da almeno un trentennio è venuta ad ag-giungersi una questione ulteriore. Ovvero lanascita di un sentimento, diffuso tra aliquotecrescenti delle popolazioni interessate, di ap-partenenza a una configurazione spaziale co-

stituita dalle regioni traversate dal Po e adesse attigue. Sentimento che ha coagulato ecoagula istanze politiche. Dalla richiesta delriconoscimento di caratteristiche geoeconomi-che e culturali che conferiscono a una «ma-croregione padana» un’identità peculiare, ori-ginano azioni volte a determinare modifichedel quadro istituzionale del paese. Tali considerazioni conferiscono al tema pre-scelto per l’edizione 2010 del Rapporto dellaSocietà Geografica Italiana, Il Nord, i Nord.Geopolitica della questione settentrionale, ca-ratteri di particolari attualità e complessità.Nelle otto edizioni sinora prodotte, il Rapportodella SGI ha sempre esplorato scenari pre-gnanti per le situazioni interne, così come per irapporti esterni dell’Italia. Il rigore scientificocaratterizza l’approccio ai temi e problemi, nel-l’edizione presente così come nelle precedenti.Questo studio accurato e articolato è statosvolto dai colleghi della scuola torinese, an-che con l’apporto di ricercatori d’altre sediuniversitarie. A loro il mio apprezzamento eringraziamento. Il nostro augurio è che questonuovo contributo dei geografi – volto a pro-spettare punti di equilibrio tra interpretazionidifformi attraverso l’approfondimento di que-stioni complesse – costituisca utile riferimentoper scelte operative delle istituzioni e per piùlimpide valutazioni dell’opinione pubblica.

Franco Salvatori, Presidente della Società Geografica Italiana

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Il Rapporto

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Le tessere del mosaico

nazione, mentre si tratta piuttosto di una ride-finizione in chiave forse «post-nazionale» de-gli Stati – le regioni hanno conquistato, inmolti paesi europei, competenze, funzioni e unruolo politico senza precedenti.L’azione combinata di centri di potere sovrana-zionale e della richiesta di autonomia da partedelle periferie ha generato una reviviscenzadelle regioni che, nel nostro paese, ha alimen-tato un sia pur lento e complesso processo diriforma costituzionale in chiave federalista eha dato voce alle istanze autonomiste di movi-menti regionali che propugnano una maggioreautonomia per i territori più dinamici.Se la geopolitica si è tradizionalmente interro-gata sui confini nazionali, alimentando la sto-ria dei trattati e del diritto internazionale, mi-nor interesse ha però mostrato, sino ad annirecenti, nei confronti delle partizioni territo-riali sub-nazionali, relegandole a mere que-stioni di geografia amministrativa. L’emergere prepotente della «questione setten-trionale» dimostra invece la necessità di un’in-terpretazione geopolitica di questo fenomeno,da leggersi come il frutto di un processo di co-

Geografia e storia di un Nord inafferrabile

La storia geopolitica della penisola italiana,con la sua tardiva unificazione sotto il regnosabaudo, si differenzia dalla parabola seguitadai grandi Stati nazionali europei e, forse,proprio anche questi caratteri originari sonoalla base del persistere delle accentuate dif-ferenze territoriali che caratterizzano ilpaese. Essi rinviano con tutta evidenza nonsolo a diverse dotazioni di risorse, ma anchealla sopravvivenza di diversità culturali chesono alla base dei divari nello sviluppo so-ciale ed economico rimasti largamente im-mutati nell’ultimo secolo.Dagli anni Settanta in poi i venti della globa-lizzazione hanno soffiato sulle braci delle anti-che differenze territoriali, svelando un’inattesavitalità delle regioni storiche e suscitando l’e-mergere di entità regionali dall’identità cultu-rale incerta, ma assai aggressive nel rivendi-care ruoli di supremazia economica. Sullosfondo di un’innegabile crisi delle architetturestatuali – che qualcuno ha preteso di leggerecome l’annuncio della scomparsa degli Stati-

«[...] il nord è sempre stato un’idea cangiante, un concetto relativoe sempre elusivo, come nei versi di Alexander Pope nell’Essay on Man:

Dov’è il Nord? A York è sul Tweed.Sul Tweed è nelle Orcadi, ma lì

è in Groenlandia, a Zembla, o Iddio sa dove […]

Il nord si sottrae sempre a ogni tentativo di raggiungerlo, ritraendosiverso la notte polare, o verso l’aurora di mezzanotte nel cielo estivo».

Peter Davidson

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struzione sociale in cui aspettative, interessimateriali ed elementi culturali si fondono allaricerca di «comunità immaginate». L’interrogativo di fondo di questo Rapportoriguarda appunto i confini di questa «comunitàimmaginata» del Nord Italia. Ciò che imponedi ripercorrere la storia ed esplorare l’evolu-zione dei caratteri fisici e dell’organizzazionespaziale dei territori settentrionali (Primo Dis-corso), indagandone nel contempo le relazionicon l’Europa e con il mondo (Secondo Dis-corso). Queste considerazioni forniscono al-cuni dei fattori esplicativi della vivacità della«questione settentrionale» nell’ambito del di-battito pubblico degli ultimi quindici anni,sullo sfondo della riforma federale a gran vocerichiesta proprio da alcune importanti compo-nenti delle società settentrionali (Terzo Dis-corso). Ma non si può, oggi, parlare del Nordsenza guardare alle dinamiche di innovazioneche attraversano i suoi sistemi produttivi(Primo Sguardo), al suo telaio infrastrutturalee alle logiche d’attore che lo condizionano(Secondo Sguardo) e ai suoi paesaggi, messi arepentaglio dall’incessante lavorio della «mo-dernizzazione» (Terzo Sguardo).La definizione dei confini del Nord è quindi unnodo impossibile da sciogliere se non lo si calaall’interno di questo quadro che è, nel con-tempo, l’esito provvisorio di un processo storicodi lunga durata e insieme la conseguenza diun’integrazione economica e culturale che si èfortemente accelerata negli ultimi vent’anni.Quali sono, dunque, i confini dell’Italia delNord? Una domanda da manuale di geografiaper la scuola secondaria, cui rispondere sem-bra facile, e invece non lo è.Si può essere tentati di rispondere elencandogli elementi orografici e idrografici che per-mettono di distinguere un’Italia settentrionaledalla penisola vera e propria che si protendenel Mediterraneo: la barriera alpina, a setten-

trione, e il corso del Po a mezzogiorno. Ma inquesto modo si escluderebbero molte delleterre situate a sud del fiume: tutta la Liguria el’Emilia, parti rilevanti di Piemonte e Lombar-dia. E il Polesine, terra di mezzo i cui contornisi perdono lungo il fitto ramificarsi delle vallifluviali del delta, dove verrebbe a collocarsi?Sarebbe quindi necessario ricomprendervil’insieme dei territori bagnati dal fiume, quellache ormai solo i meteorologi si ostinano achiamare Valpadana, ma anche in questomodo non verrebbero incluse le province ro-magnole, che nessuno si sogna oggi di esclu-dere dal Nord. Se la geografia fisica non ci aiuta, qualche ap-piglio più saldo ci può essere fornito dalla sto-ria antica: se è vero, come tramandano Livio,Dionigi di Alicarnasso e altri auctores, chel’«incendio gallico» dilaga attraversando leAlpi e si propaga per ondate successive muo-vendo da occidente, questo processo interessadapprima la Gallia Transpadana – al di là delPo, secondo la prospettiva romana – per poipenetrare nelle pianure cispadane dell’attualeEmilia-Romagna e raggiungere il Metauro,quindi le attuali Marche settentrionali. I movi-menti di popolazione gallica procedono poiper migrazioni successive a scapito di Etruschie Umbri, sino alle campagne di romanizza-zione dell’Italia settentrionale.All’inizio del III secolo a.C., l’ethnos celticodomina sino al corso dell’Esino, secondo sud-divisioni tribali cui corrispondono culture ma-teriali differenziate e che, oggi, ritroviamo neiconfini linguistici che separano le macroareedialettali italiane: a nord del Metauro, traFano e Senigallia, il dominio delle parlategallo-italiche, con le eccezioni del veneto edelle lingue ladine romance, dolomitiche efriulane; a sud un’area di transizione lingui-stica grosso modo corrispondente alla provin-cia di Ancona che si attesta sul corso dell’E-

12 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

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sino; infine i territori delle parlate centro-me-ridionali, caleidoscopio delle culture italiche.Allora il Settentrione italiano è, almeno inparte, un concetto legittimato da un substratolinguistico? Nella prospettiva storica l’afferma-zione è senz’altro fondata, ma richiamarsi oggia questo principio appare riduttivo, non foss’al-tro per gli apporti culturali provenienti dallemigrazioni successive (Longobardi e Franchi),dai frequenti contatti culturali avvenuti conculture territorialmente contigue e, infine, daglieffetti della cosiddetta globalizzazione. Tuttociò senza tener conto delle forzature ideologi-che cui questo ragionamento si presta, di fronteal processo di costruzione identitaria cui assi-stiamo da parte della Lega Nord, forza politicache ha incarnato negli ultimi vent’anni il ma-lessere di vasti strati delle popolazioni setten-trionali nei confronti dello Stato unitario. Unacostruzione identitaria che tenta di riportare al-l’indietro l’orologio della storia, ignorando de-liberatamente la natura evolutiva dei sistemi edelle identità culturali e il lavorìo incessante didemolizione-ricostruzione che le dinamicheglobali esercitano su di essi: tutto questo nellaconsapevolezza che richiamarsi oggi a principidi tipo storico-linguistico appare risibile, difronte alla diffusione della lingua nazionalecome strumento della comunicazione di massae dell’inglese come idioma dominante negliscambi economici e, almeno in parte, nella cul-tura tecnica e scientifica.Possiamo allora ipotizzare che la frattura tra ilSettentrione e il Mezzogiorno si collochi lungol’asse della transizione medievale, quando laframmentazione che segue al dissolversi del-l’impero romano reca con sé, da un lato, igermi del particolarismo territoriale che si in-carna nella stagione dei Comuni del Centro-Nord e, dall’altro, l’inizio di un «distacco» delMezzogiorno dal resto dell’Italia come territo-rio segnato da un potere regio centralizzato.

Consci che si tratta di una semplificazionebrutale, è innegabile che in questa fase emer-gano alcuni elementi di una diversità struttu-rale tra aree ove allignano forme di autogo-verno, sulla base di un crescente ruolo dellaborghesia dei mestieri, e regioni ove domi-nano invece le forme tradizionali del poterefeudale. È Carlo Cattaneo uno dei primi a insi-stere sul ruolo fondativo dell’emancipazionedal diritto feudale, che consente alle città lom-barde di schiudersi allo sviluppo dei «mestieridella pace», legati al commercio, alla finanzae all’industria.Eppure, proprio quando si manifestano i segnidi questa per certi versi straordinaria capacitàpropulsiva delle economie urbane settentrio-nali – soprattutto di Milano – si palesa anchel’incapacità cronica, da parte della capitalelombarda, di assumere un ruolo di guida nellavita politica della Penisola: come sottolineaManlio Graziano, la sproporzione tra la proie-zione «europea» dell’economia milanese e lacapacità di controllo politico da parte del Du-cato di Milano provocherà una lunga subalter-nità nei confronti dei potentati stranieri, chia-mati, da Carlo VIII sino a Napoleone III, asupplire a questo deficit di potere, secondouna costante che si estenderà alla storia nazio-nale sino ai giorni nostri.È dunque in questo senso che la «questione set-tentrionale», non meno che la «questione meri-dionale», è inscindibilmente connessa con la«questione nazionale»: per dirla con AntonioGramsci, con il problema dell’inconsistenza diun «blocco intellettuale e morale italiano» ca-pace di aggregare le numerose ma frammentatepulsioni all’unificazione nazionale.E allora, dove comincia il Nord? Definirne iconfini è difficile, tanto quanto è facile farloper chi si affida alle certezze dei luoghi co-muni, che pure si nutrono di negazioni piùche di definizioni positive: attribuendo al

Scenari italiani 2010 13

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Sud lo stigma delle privazioni, dell’assenzad’ombra e della fissità, «sterile, senza legge,irretito dal passato», il luogo comune «nord-ista» trova il proprio pendant nell’estremi-smo caricaturale per il quale Lombardia eVeneto divengono «le propaggini meridio-nali del mondo germanico, con ben poco d’i-taliano».Come ci ricordano numerosi osservatori stra-nieri, in nessun altro paese il «Nord è un indi-catore così instabile, mutevole e fluttuante, de-finito e ridefinito meticolosamente quasi chi-lometro per chilometro per tutta l’estensionedella penisola».

Il Nord come luogo e come area

Accogliendo la distinzione di Jacques Lévy tra«luogo» (spazio in cui la distanza che separa idifferenti elementi è «nulla») e «area» (in-sieme di luoghi separati da distanze nonnulle), è facile scoprire come ai confini mute-voli dell’area settentrionale corrispondano al-cune divisioni interne – tra «luoghi» – che ri-salgono alla definizione delle regioni augusteee persistono sino ai giorni nostri: uno sguardoalla ripartizione in Regiones introdotta nellaprima età imperiale (fig. 1) rivela che la suddi-visione Nord-ovest/Nord-est è già presente e

14 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

Fig. 1 – Le regioni augustee dell’Italia settentrionale.

Fonte: Atlante storico De Agostini, 1997.

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corre lungo il tracciato del fiume Oglio, sepa-rando la Transpadana dalla Venetia et Histria.Inoltre, il corso del Po è, a sua volta, confinetra queste due regioni settentrionali e la Ligu-ria e l’Aemilia, quest’ultima proiettata a sudsino a comprendere l’attuale Montefeltro. Si delinea così un mosaico di «luoghi» chepassano dall’articolata e mutevole geografiapolitica dell’Antico Regime per riproporsi, se-condo clichés relativamente stabili, nell’im-maginario nazionale e, per certi versi, anchenella struttura delle regioni amministrative di-segnata dopo l’unificazione nazionale.

Un «luogo» chiamato Padania

Tanto vale dirlo subito: la Padania come spa-zio etno-culturale omogeneo non esiste. Se ri-teniamo che il processo di costruzione dellanazione non sia soltanto l’«invenzione di unatradizione» – un vestito che, secondo EricHobsbawm, nasconde l’egemonia degli inte-ressi delle classi borghesi in ascesa – ma an-che il risultato di valori etno-simbolici unifi-canti, come propone invece Anthony Smith,l’inesistenza di una nazione padana appare an-cora più evidente: ricordava Cattaneo, nellesue Notizie naturali e civili su la Lombardia(1844), che «[i]l nostro popolo, nell’uso do-mestico e spontaneo, mai non diede a sé me-desimo il nome geografico e istorico di lom-bardo» e, nell’altro saggio fondamentale sullaCittà come principio, ribadiva l’appartenenzadel contado al polo urbano come marca identi-taria esclusiva, contro un’inesistente consape-volezza «regionale».A uno sguardo attento, sotto la superficialeomogeneità della rivolta fiscale contro lo Statocentrale si cela il mosaico delle differenze set-tentrionali, fatto di sistemi territoriali e urbani divarie dimensioni e vocazioni, che testimoniano

l’esistenza di un capitalismo minuto, di sentieridi sviluppo e modi di regolazione socio-politicaprofondamente diversi, quando non divergenti.D’altro canto, le immagini di sintesi sottese ailavori pionieristici sulle economie periferichedell’Italia della piccola impresa – oltre a Ba-gnasco, ricordiamo Fuà e Zacchia – ci parlanodi un sistema NEC (Nord-Est-Centro) al qualeil vecchio Triveneto pareva indissolubilmentelegato, mentre oggi la «Terza Italia» corri-sponde sempre più all’Italia mediana a sud delPo. La Padania di oggi appare quindi comeun’aggregazione piuttosto tardiva di tessereregionali espulse da mosaici precedenti – dalTriangolo industriale e dalla Terza Italia – che,in qualche modo, avevano dominato le rappre-sentazioni delle scienze sociali e della geogra-fia regionale in periodi precedenti.E ancora: Roberto Mainardi riconosce, all’in-terno del Nord-ovest, almeno tre componentiche ruotano attorno al fulcro egemonico dellaregione metropolitana milanese: lo spazio lom-bardo, ricco e articolato; la conurbazione ligurecome configurazione lineare «necessaria» e unPiemonte «trino», dove l’area metropolitana to-rinese convive con un Nord pedemontano e unSud ancora a dominanza agricola. E nel Nord-est, che individua come la regione dei piccoliproduttori, distingue tra un asse pedemontano,che si snoda lungo le grandi infrastrutture stra-dali e ferroviarie (da Verona a Trieste), le tra-sversali nord-sud di quest’asse (lungo la valledell’Adige e lungo la Via Emilia) e la costaadriatica: una sorta di geografia regionale inner-vata sull’osservazione dell’intreccio tra i carat-teri «originari» dello spazio settentrionale e l’e-voluzione delle strutture economiche, cui mancaforse un approfondimento di natura geopolitica.Quest’ultimo aspetto è invece immanente allalettura che del Nord ci offre un altro osservatoreattento dei mutamenti in atto nel caleidoscopiosettentrionale, Aldo Bonomi. I territori del Nord

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vengono ricondotti a tre modelli – meglio dire«tipi» – di capitalismo: il capitalismo «dellagrande impresa», ristrutturata e mondializzata; ilcapitalismo «molecolare» e il capitalismo della«conoscenza». Questi tipi coesistono tra loro se-

condo un intreccio di relazioni gerarchiche erapporti conflittuali, che mettono in tensione edestrutturano le vecchie forme del lavoro, leidentità sociali a queste connesse, i legami cul-turali e le appartenenze socio-politiche.

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Il caleidoscopio padano

Molte sono le immagini del Nord restituite dalle scienze sociali. Con un linguaggio evocativo che hacontribuito a strutturare il dibattito pubblico, nel suo Capitalismo molecolare Aldo Bonomi proponevasette «tipi» territoriali:- la frontiera: un sistema di relazioni spaziali oggi in fibrillazione; economie regionali transfrontaliere;crisi del welfare territoriale proprio di alcune di esse; attraversate dalle reti lunghe infrastrutturali; - l’asse pedemontano: economia del lavoro autonomo; ossatura del capitalismo territoriale; territoriocome fabbrica; rottura delle identità territoriali precedenti, testimoniata dalla nascita di nuove pro-vince; virtù civiche come beni collettivi locali per la competizione; accettabile grado di coesione so-ciale per la convivenza e la competizione;- le aree tristi: aree alpine e prealpine, che subiscono più che vivere positivamente il proprio essere diconfine, che sono rimaste ai margini dei processi di valorizzazione, attiva o passiva che sia, subendoforme di depauperamento demografico e l’inaridimento delle attività tradizionali; definite così perchénon «metabolizzano e non vivono i processi di modernizzazione»; aree relativamente poco studiate; - il sistema urbano industriale: il Nord del secondo ciclo dell’industrializzazione italiana, del Triangoloindustriale; forti differenze tra le capitali regionali, in termini di struttura e di prestazioni; difficoltàevolutive soprattutto nelle città che hanno incarnato in modo quasi esclusivo il modello fordista, che haprofondamente condizionato la composizione sociale e l’ha resa più resistente e meno adattiva ai cam-biamenti, con riferimento particolare alla capacità di far fronte alla crisi del welfare tradizionale (in-clusione non più garantita dal lavoro);- la «Padania»: Nord interregionale (dalla Via Emilia alle Marche), articolato in distretti, cerniera territo-riale di contaminazione dei processi industriali verso il Centro (Toscana e Umbria) e verso il Sud, lungola linea adriatica; caratteristiche produttive simili al modello pedemontano (assetto produttivo moleco-lare, coesione sociale come fattore competitivo, internazionalizzazione di sistema); «campagna florida,città ricca»; forti legami cooperativi che derivano dalle esperienze storiche delle leghe contadine; ruoloimportante della Regione, mentre sull’asse pedemontano prevalgono i sindaci; colore politico (anche semolto è cambiato, in dieci anni!);- le aree cerniera deboli: una sorta di frontiera interna tra sistemi territoriali sviluppati, sono «terre dimezzo» in cui la modernizzazione passa senza intercettare i territori, senza quindi valorizzarne le risorseimmobili che, anzi, derivano da tale transito fibrillazioni che ne minano identità e assetti sociali e produt-tivi (Alessandria, Pavia, Piacenza, Cremona, Ferrara, Rovigo): in molti casi nodi logistici, talvolta sededi sistemi produttivi dinamici (il polo del freddo casalese, l’oreficeria a Valenza Po), non riescono a di-ventare piattaforme logistiche complesse, ma tendono, piuttosto, a «esercitare» le funzioni di servizio lo-gistico per conto di altri territori; - il Nord-est: qui «l’apocalisse antropologica della modernizzazione ha scavato in profondità»: se-condo un’interpretazione non endogena del recente sviluppo, Bonomi propone di interpretare il Nord-est come un «grumo» territoriale in cui si intersecano tre differenti direttrici dello sviluppo capitali-stico italiano: l’asse pedemontano (Bergamo-Brescia-Verona-Treviso); la Padania (da Bologna verso

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Attualmente alcuni osservatori preferiscono tut-tavia insistere sui processi di convergenza chestarebbero determinando una saldatura nellestrutture dell’organizzazione produttiva delleregioni settentrionali, attraverso gli effetti com-plementari di una diminuita centralità dellagrande impresa «fordista» nel Nord-ovest e diuna tendenza all’allargamento dimensionaledella piccola impresa distrettuale nel Nord-est.Tra questi due estremi, un ruolo ormai domi-nante, in termini di proiezione internazionale edi capacità innovativa, verrebbe giocato dallemedie imprese internazionalizzate che costel-lano l’asse padano mediano. Si può ipotizzare,ma occorrerebbero approfondimenti empirici inproposito, che lungo questo asse mediano, riccodi imprenditorialià inserita nelle grandi reti in-ternazionali, si dipanino processi più ampi di ri-strutturazione dell’organizzazione metropoli-tana, con una forte connotazione policentrica,come la figura 2 mette in evidenza.

Gli elementi unificanti in una prospettiva«neoregionalista»: il Nord come attore politico

La costruzione sociale e politica del Nordcome «eventuale» attore politico nazionale siè delineata negli ultimi vent’anni sullo sfondodi un radicale mutamento degli equilibri geo-politici. Infatti, benché sia corretto spiegare la«scoperta» della questione settentrionale comerisposta «rivendicativa» rispetto a un preteso

orientamento meridionalista delle politiche na-zionali, non si può dimenticare lo scenario in-ternazionale all’interno del quale queste pul-sioni hanno preso forma.L’apertura globale dei mercati e l’integrazioneeconomica e finanziaria hanno portato con sé,inevitabilmente, i germi di una crisi che hacolpito le forme istituzionali che avevano sinoad allora regolato le società occidentali, in pri-mis lo Stato-nazione. Quest’ultimo, tuttavia, adispetto dei requiem pigramente recitati dauna vulgata che si ispira al celebre libro diOhmae sul declino dello Stato-nazione, nonsembra affatto volgere alla fine. Esso pareaver mutato fisionomia, dando mostra di unaresilienza che gli permette di adattarsi allespinte eguali e contrarie che provengono «dal-l’alto» e «dal basso»: dall’alto, da parte dellegrandi organizzazioni sovranazionali che nonne erodono la sovranità; dal basso, da partedei territori periferici che chiedono al centrosempre più potere e più autonomie, contri-buendo a svuotarne, almeno in parte, le istitu-zioni di governo centrale.Su questo scenario si staglia un paradigmaemergente, quello di un «nuovo regionalismo»che si afferma in Europa – ma non solo – dif-ferenziandosi a seconda dei contesti nazionalie che può essere esaminato da molteplici puntidi vista: istituzionale, economico, funzionale epolitico.Dal punto di vista istituzionale, questo pro-cesso è caratterizzato dal consolidarsi di poteri

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il Brennero e verso Venezia); una risalita lungo il corridoio adriatico (dalle Marche). Capitalismo mo-lecolare fondato sulla cellula elementare della famiglia, sull’individualismo e sul localismo spinto, conminore tasso di coesione sociale e di «intreccio partecipato». Tra l’analisi di Bonomi e l’oggi si sono avvicendate la grande ristrutturazione dei primi anni Duemila,condizionata dall’introduzione della moneta unica e dall’emergere prepotente delle economie deinuovi colossi asiatici, e la grande crisi finanziaria del 2008. I contraccolpi sulle economie regionalidel Nord appaiono particolarmente pesanti, e annunciano forme ancora non prevedibili di risposta daparte di un sistema che è alla ricerca di una rappresentanza politica all’altezza delle sfide.

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sovranazionali – vedi l’Unione Europea – chescelgono le Regioni quali interlocutori privile-giati cui demandare l’articolazione a scala lo-cale delle politiche di sviluppo. La cadutadelle barriere doganali, l’«europeizzazione»

delle politiche regionali e l’attuazione digrandi opere infrastrutturali rivelano l’emer-gere di territorialità «postnazionali». In questocontesto, gli Stati adottano logiche operativeche infrangono i principi che ne hanno storica-

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Fig. 2 – I sistemi funzionali macroregionali in Italia e le loro connessioni infrastrutturali.

Fonte: Eu-Polis, 2006.

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mente caratterizzato l’organizzazione territo-riale. I confini territoriali, che hanno per lungotempo definito i contenitori statuali, lasciano ilcampo a spazialità più fluide, in cui i flussi dimerci, persone e informazioni possono muo-versi ben più liberamente che in passato. Il nuovo regionalismo può essere altresì lettoin chiave economica, registrando il dinamismoe il protagonismo di alcune regioni nell’attra-zione di investimenti esterni, attraverso agen-zie ad hoc (come quelle britanniche e tede-sche), oppure osservando le trasformazioni spa-zio-funzionali e il rafforzarsi di strutture urbane(nella letteratura internazionale definite city-re-gions) che associano alla grande dimensioneun’articolazione complessa – spesso multicen-trica – e che si organizzano come i principalinodi della rete globale degli scambi, non sol-tanto economici, ma anche culturali e politici.Alla dimensione delle politiche si affiancaperò in modo sempre più evidente la dimen-sione della politica. Da questo punto di vista ilquadro europeo ha offerto, a partire dagli anniNovanta, numerosi esempi che, per certi versi,sembrano anticipare i processi di riforma co-stituzionale e le mai paghe pulsioni autonomi-ste che contraddistinguono le regioni setten-trionali italiane: in Catalogna, Scozia, Galles,Belgio, l’affermazione di partiti, movimenti,soggetti politici e gruppi d’interesse portatoridi istanze fortemente autonomistiche rispettoallo Stato centrale si è snodata lungo percorsidi mobilitazione di volta in volta differenti.Con l’eccezione della regione fiamminga inBelgio, questi non hanno mai sollevato, tutta-via, argomenti xenofobi o di «chiusura» versol’esterno quanto, piuttosto, rivendicato rispettoai propri governi centrali una maggiore pro-pensione all’apertura internazionale.Ma è appropriato ricondurre a questi esempiormai consolidati di regionalismo politico ilcaotico insieme di competenze funzionali po-

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litico-istituzionali che è scaturito, in Italia,dalla lunga e incompiuta stagione di riformeinaugurate nei primi anni Novanta?L’incertezza degli esiti, il convivere ambiguo dirichieste di maggior autonomia da parte delleRegioni con un sistema fiscale sempre meno ca-ratterizzato dall’autonomia locale, ma semprepiù orientato alla compartecipazione al gettitoerariale e, ancora, le contraddizioni che attraver-sano le maggioranze di governo sul tema del fe-deralismo gettano una luce inquietante sulla ef-fettiva capacità da parte del paese di assecon-dare il processo di decentralizzazione dei poteri.Ancora più arduo è capire se a uno spazio ma-croregionale del Nord corrispondano indizi diauto-organizzazione politica, al di là delle re-toriche «padane» che costruiscono senz’altroforme di rappresentanza politica, ma si affac-ciano solo ora al governo delle grandi regionidel Nord. La già debole omogeneità dello spa-zio settentrionale sotto il profilo sociale edeconomico, che fa parlare oggi della nebulosasettentrionale come di un insieme di struttureterritoriali diverse, appare ancora più evane-scente se si considera la dimensione politica,date le differenze che persistono tuttora nellageografia elettorale.

Costruire o de-costruire il Nord?

Alcuni riferimenti a proposito della sua econo-mia, infine. Su un piano puramente descrittivoè legittimo sostenere come il Nord italianopresenti maggiori affinità con altri sistemi eu-ropei sviluppati che non con altre partizionidel territorio italiano (il riferimento sono i re-gional motors europei, quali, per esempio, ilGalles, la Rühr, la Vestfalia, il Baden-Würt-temberg, la regione lionese e la Catalogna). Èqui più elevato il peso del comparto indu-striale (inferiore comunque alle regioni leader

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europee), mentre i servizi per le imprese e glistessi servizi informatici pesano significativa-mente. D’altro canto, l’apertura internazio-nale dell’economia (numero di imprese attivesui mercati esteri, imprese a capitale esteropresenti), pur registrando segni di contrazione,risulta anch’essa significativamente elevata.Sino alla crisi finanziaria esplosa nel 2008, gliindicatori di sviluppo segnalavano per le im-prese qui operanti risultati positivi (vedi so-prattutto Lombardia, Veneto ed Emilia-Roma-gna). Sul fronte degli investimenti nell’inno-vazione, degli addetti alla ricerca e dei brevettidepositati la regione settentrionale è invecenettamente distaccata dai leaders europei. Èper queste ragioni che nel Nord italiano assu-mono particolare significatività, oltre a quellisopra evidenziati, altri elementi critici di sce-nario: una prolungata stagnazione della pro-duttività, una crescita assai inferiore rispetto aquella degli altri paesi nei settori industrialiavanzati; la tendenziale riduzione della produ-zione industriale (in controtendenza rispetto aFrancia e Germania). Al di là delle caratterizzazioni proprie dellesue diverse partizioni, è un fatto che la regionenel suo complesso ne condivide varie e deci-sive con tutto il sistema Italia: una scarsa in-novatività d’impresa, il tendenziale peggiora-mento dei servizi collettivi (sia in qualità chein quantità), il decisivo privilegio per una pro-fittabilità d’impresa a breve termine, una pro-duzione assai limitata di beni collettivi. È ne-cessario aggiungere, soprattutto in un’otticacomparativa internazionale, una rete ferrovia-ria inadeguata, inferiori livelli di istruzione,un’insufficiente infrastrutturazione urbana ma-teriale e immateriale, altrettanto insufficientiinvestimenti in ricerca e sviluppo.Alcuni tratti significativi segnano, da un puntodi vista strutturale, il divenire della regione. Ènecessario ricordare come, con la scomposi-

zione internazionale delle reti di produzionedel valore è esploso nel Settentrione d’Italiaun processo che ha teso a separare, da un lato,un’economia flessibile e reticolare, con forteapertura internazionale e ricchezze prodottealquanto elevate (non dimentichiamo che ilreddito pro capite nell’Italia del Nord superadel 25% la media europea) e, dall’altro, unasocietà frammentata, caratterizzata da un pe-culiare corporativismo localistico, invecchiatae sotto-capitalizzata in termini di scolarità e dicapitale umano.In questo secondo caso si tratta di gruppi so-ciali a forte radicamento territoriale in lotta perun proprio «posizionamento competitivo»: ciòche si è spesso accompagnato a una erosionedelle regole morali che tengono insieme unasocietà, oltre che a una prassi politica scompo-sta e priva di riferimenti prospettici.Un indicatore significativo è dato dalla diffu-sione urbana – lo sprawl, o l’americanizza-zione dello spazio, come semplicisticamentesi legge spesso questo fenomeno – segnata daun crescente disordine insediativo, dalla mo-bilitazione particolaristica degli interessi, daistituzioni locali (municipali) sollecitate allaconcessione di autorizzazioni edilizie e con-doni, dove spesso la mancanza delle regolediventa a sua volta regola. Si tratta, in so-stanza, dello sviluppo di un modello di pic-coli e piccolissimi interessi, fondato sull’usointensivo del localismo come risorsa, anche acosto di mali collettivi (congestione, con-sumo di suolo e di risorse naturali, collassodel sistema stradale).Le cause della situazione ora delineata sonoovviamente molteplici. Esse riguardano il si-stema paese nella sua interezza, coinvolgendoconseguentemente l’economia e la società delNord. Ci limitiamo a ricordarne alcune, peral-tro essenziali, di ordine politico-programmato-rio: l’inadeguatezza del potere decisionale e di

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investimento della pubblica amministrazione;il fallimento nello specificare e tradurre in ipo-tesi di bene pubblico il comune interesse, cherimane disperso fra una molteplicità di sog-getti; infine, la mancata condivisione – cultu-rale e politica – del modello di intervento, ov-vero di una «nuova politica territoriale» cheunisca fra loro programmazione dello sviluppoe dinamiche territoriali (ciò che si è invece rea-lizzato nelle esperienze di altri paesi europei,

Francia, Gran Bretagna e Austria in primoluogo). In effetti, se si osservano gli approccialle politiche territoriali sinora praticati e, insenso più ampio, i sistemi di governance regio-nale, gli elementi di differenziazione appaionoevidenti, soprattutto nelle modalità con cuil’attore pubblico regionale interagisce con gliinteressi economici. E si accresce ovunque ilritardo con l’Europa, con le «migliori» pratichequi perseguite e i loro principi ispiratori.

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Nel dibattito in corso esiste nel contempouno spazio in cui il Nord viene trattato e im-maginato come una macroregione, a prescin-dere dalla distinzione fra Ovest ed Est. Se siesclude il campo della politica in sensostretto – ossia i rimandi al dibattito federali-

sta e al discorso della Lega in particolare – ilriferimento è soprattutto alla cosiddetta que-stione settentrionale, un tema ampiamentedibattuto negli ultimi anni e riferito all’ideache lo spazio settentrionale italiano condi-vida in questo momento storico una partico-

L’«invenzione» del Nord

Nel dibattito accademico – ma non solo – si è assistito, negli ultimi decenni, al progressivo avvicinarsidelle scienze sociali (geografia inclusa) all’analisi del linguaggio. Le premesse alla base di questo inte-resse sono da imputarsi alla constatazione che idea, teoria, ideologia o pratica di osservazione dellarealtà sono sempre filtrate e comunicate attraverso il linguaggio, un medium parziale e soggettivo. Inparticolare, i discorsi (politici, televisivi, accademici) non contribuiscono soltanto alla rappresentazionee alla comunicazione della realtà, ma tendono a costruirla; per citare un esempio geografico, tanto piùsi discute (sui giornali, nelle analisi di settore) del fenomeno delle piccole imprese del Nord che inve-stono e rilocalizzano fasi della produzione nei vicini paesi dell’Est europeo, tanto più è probabile chel’evento si riproduca, suscitando interesse e contribuendo a creare l’immagine dei paesi dell’Est come«terra delle opportunità», al di là dei limiti e della veridicità di questa idea. O, ancora, rappresentare iproblemi in una data maniera, attraverso particolari discorsi (per esempio discutere del problema dellasicurezza ponendolo più o meno implicitamente in relazione al problema delle migrazioni) crea e so-stiene indirettamente un certo modo di inquadrare le criticità e di formulare soluzioni. La constatazione dell’importanza del discorso nel «costruire» la realtà (ossia la sua natura performa-tiva) apre rilevanti spazi di riflessione sull’idea stessa di macroregione settentrionale o, più semplice-mente, di «Nord». È infatti evidente come non esista oggettivamente una regione geografica Nord che«preceda» i nostri discorsi, almeno non nei termini di una riconoscibilità politica, né che esista unconfine netto e condiviso che la distingua dal Centro (Modena, per esempio, è parte della macrore-gione economica del Nord?). L’«invenzione» del Nord, prima ancora che nelle politiche, prende formanel linguaggio, nell’indicare determinati fenomeni, problemi, spazi o identità con riferimento a unarealtà data. In questo senso, le discussioni sui giornali, nel mondo della televisione o nei circoli politicihanno un valore che va al di là delle semplici parole: costruiscono l’idea stessa secondo cui lo spaziodel Nord possa essere trattato utilmente come un qualcosa di omogeneo, e che i soggetti, le famiglie, leimprese della regione condividano, in qualche misura, tratti di uno stesso destino comune.

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lare caratteristica: una situazione di crisi. Ri-uscire a individuare i bisogni del Nord, trac-ciarne una geografia, riflettere sulla specifi-cità di questo spazio – ossia il tipo di dis-corso portato avanti in questo Rapporto –può essere utile nella misura in cui può sug-gerire riflessioni differenti da quelle che sipotrebbero immaginare osservando il territo-rio da troppo vicino (un certo numero di pro-vince o regioni separate fra loro) o da troppolontano (l’Italia nel suo complesso). È per queste ragioni che la prima parte delRapporto titola in questi termini – Discorsi,appunto – le problematiche di fondo, che ciavvicinino all’oggetto osservato, mentre la se-conda parte avrà per oggetto alcuni Sguardisui processi e sui futuri possibili. Rispetto allarealtà cui ci troviamo di fronte l’obiettivo nonpuò essere se non quello di costruire delle rap-

presentazioni, utilizzando strumenti capaci diinterpretare e di spiegare, e che possiedano lequalità proprie di ciascun discorso, ovverol’essere necessariamente ricco di soggettività,di relativismo, di parzialità, di modalitàespressive variabili. Molto lontano, insomma,dalla pretesa di trasmettere infallibilmente unarealtà visibile, giacché questa è sempre gra-vida di miti, di lati nascosti, di cose non dette.È un po’ questo, forse, il metodo dei para-dossi, ma che appare così utile – lo spiega datempo, la geografia – per avvicinare le formee le armonie in cui si esprime la realtà vissuta,la quale è determinata, in genere, da una plu-ralità di impulsi provenienti un po’ da tutti ipunti cardinali. Saranno le sensibilità dei let-tori a far emergere altre rappresentazioni an-cora dei fenomeni che andremo a descrivere,consegnando a essi nuovi e diversi significati.

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Primo DiscorsoL’organizzazione dello spazio: radicamenti locali e reti

pendano anche dal loro «radicamento» nelmosaico diversificato dei sistemi territorialiche formano il Nord, specie se li consideriamoper grandi zone in cui essi presentano certi ca-ratteri comuni. Come verrà argomentato nelle pagine che se-guono, un discorso sul Nord pare oggi possibi-le solo se ci riferiamo a una combinazione pe-culiare di traiettorie locali e regionali che con-vergono in una autorappresentazione comune:quella di un’area forte a livello europeo chedeve fare i conti con un contesto nazionale nelcomplesso assai più debole. Questa «forza» haorigini piuttosto varie, ma tutte in qualche mo-do legate al passaggio da un’economia agrico-la a una industriale. Quasi una path dependen-ce che gli attori del Nord più consapevoli pen-sano che possa e che debba trovare il suosbocco naturale in un’economia post-indu-striale avanzata. Ma al di là di questa fondataaspirazione i cammini si presentano diversi,anche se li esaminiamo per grandi aggregaticome la montagna e la pianura, il Nord-oveste il Nord-est.

2. La diversità della montagna

Nelle Alpi, fin dal primo Ottocento, una com-binazione di energia idraulica e di forza-lavo-ro sotto-occupata favorì un precoce (per l’Ita-lia) inserimento delle basse valli e del pede-monte nel flusso della rivoluzione industrialeeuropea. Ciò enfatizzò il ruolo storico delleAlpi come canali di transito di merci e perso-ne. Con i grandi trafori, prima ferroviari e poiautostradali, questi flussi si canalizzarono e si

Parte I

Discorsi

1. Un’identità geografica incerta

Comunque la si voglia porre e qualunque rile-vanza le si voglia dare, la questione settentrio-nale chiama in causa un’area geografica equindi un territorio in cui, nel corso della sto-ria e sotto diversi regimi politici, le popolazio-ni insediate hanno trasformato l’ambiente geo-grafico e così facendo hanno accumulato co-noscenze e capitale fisso, sedimentato abitudi-ni, stili di vita, istituzioni e quanto oggi con-corre a definire le loro identità territoriali. Ilplurale è d’obbligo perché questi processi dilunga durata non si sono svolti in modo uni-forme su tutto il Nord d’Italia ed è persino dif-ficile individuare dei caratteri comuni tra le di-verse parti. Molte di esse hanno seguito per-corsi e maturato identità territoriali più simili aquelle di popolazioni che non fanno parte delNord. È questa, ad esempio, la regola per i ter-ritori alpini, la cui storia ambientale, economi-co-sociale (e in certi periodi anche politica) èstata molto più omogenea con i territori trans-alpini contigui di quanto non lo sia stata con iterritori adiacenti della Pianura Padana. Se né la storia né la geografia hanno prodottonel Nord un’identità territoriale omogenea, ma– come quasi ovunque nella vecchia Europa –un mosaico localmente diversificato, sono tut-tavia maturate, in tempi più recenti, condizionieconomiche e politiche capaci di dare una cer-ta uniformità, se non all’area, per lo meno acerti problemi che in essa si presentano e so-prattutto al modo di percepirli e di viverli daparte delle popolazioni. Non si può tuttavianegare, come vedremo, che la natura di questiproblemi e i modi in cui oggi si pongono di-

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concentrarono poi lungo pochi percorsi trans-alpini, segnando l’economia e la cultura dellevalli corrispondenti. Una successiva fase di de-industrializzazione,conclusasi verso la metà del secolo scorso,colpì alcuni settori maturi come quello coto-niero, ma risparmiò i numerosi sistemi localiche si erano nel frattempo strutturati come di-stretti industriali nel Biellese, nelle Prealpibergamasche e bresciane, nel Vicentino, nelBellunese e altrove. In alcune grandi valli(Aosta, Valtellina e soprattutto Adige) si svi-lupparono poi sistemi locali agro-industrialiviti-vinicoli, frutticoli e caseari. Nella primametà del XX secolo uno sfruttamento idroelet-trico intensivo riuscì a provvedere energia alleindustrie dell’avampaese, mentre andò presso-ché esaurendosi il ruolo delle già scarse risor-se minerarie. In alcune località si ebbe lo svi-luppo, anch’esso piuttosto precoce, di un turi-smo prima di élite (Monte Bianco e Cervino,grandi laghi, Dolomiti) e poi di massa, conl’impianto di grandi stazioni di sport invernalidi prima generazione, come Sestriere e Cervi-nia, seguite poi da numerose altre sia grandi(come nelle Dolomiti) sia piccole. Le parti del territorio montano rimaste ai mar-gini di questi sviluppi subirono, sin dalla finedel XIX secolo, un processo di forte spopola-mento e di abbandono delle colture e delle pra-tiche agricole e allevatrici, sebbene alcune diqueste negli ultimi decenni siano state rivitaliz-zate da produzioni di qualità destinate al mer-cato dei prodotti tipici locali. Inoltre le risorseforestali, anch’esse largamente sotto-utilizzate,cominciarono a essere considerate come bio-masse per la co-produzione di riscaldamento edi energia elettrica da fonti rinnovabili. E apartire dall’inizio del Novecento (ma soprattut-to recentemente), gli spazi meno antropizzati edi più forte abbandono sono stati trasformati inparchi naturali, riserve e aree protette.

Da questi rapidi cenni è evidente il forte radi-camento territoriale dei percorsi evolutivi dellesocietà alpine, a partire da risorse ambientalispecifiche (posizione geografica, acque, bo-schi, topoclimi, suoli, pascoli, neve, forte natu-ralità, paesaggi e beni culturali): un radicamen-to che in parte si mantiene (o addirittura si ri-prende) negli ultimi anni. Se ancora il 33%dell’occupazione nelle Alpi italiane è rappre-sentato dall’industria manifatturiera, il passag-gio a un’economia della conoscenza, delle retie dei segni è tuttavia evidente nell’importanzaassunta dal turismo, anche ambientale e cultu-rale, nel ruolo crescente svolto dai musei (tracui alcuni di livello internazionale), dalla valo-rizzazione del paesaggio, dalle aree protette,dai marchi tipici, dai trasporti. Si affermanoinoltre università di livello internazionale, co-me quella di Trento, e non mancano poli tecno-logici, centri di ricerca e di sevizi a sostegno diproduzioni a elevata tecnologia in alcuni di-stretti industriali, come per esempio nel Bielle-se, con la nuova specializzazione in tessuti perapplicazioni sanitarie, oppure nel Trentino conla bioedilizia e con applicazioni della ricercagenetica nei settori agro-industriali.Queste punte avanzate della nuova economia,specie là dove mancano centri urbani dinamici,risultano tuttavia piuttosto frammentate e im-merse in un vasto territorio nel complesso spo-polato e sottoutilizzato. Dove tuttavia il livellodei redditi e dei consumi è elevato, dove la po-vertà è praticamente scomparsa da alcuni de-cenni, e dove i problemi sono oggi quelli del-l’isolamento sociale, della difficoltà di accessoai servizi, ai divertimenti e alle manifestazioniculturali, oltre che dell’elevata percentuale dialcolisti, tossicodipendenti e suicidi. Per quanto riguarda la montagna appenninica,il discorso è in parte simile a quello delle Alpi,ma con significative differenze dovute allamaggior semplicità dei percorsi evolutivi. In

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particolare, il fatto di non essere a contatto di-retto con il resto dell’Europa e di non ospitarecittà di qualche importanza, ha ridotto la pene-

trazione dell’industria moderna a poche aree,quasi tutte in corrispondenza dell’entroterradei porti liguri.

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3. Nord-ovest e Nordest

Se usciamo dalle valli alpine e appenninicheed esaminiamo i processi di industrializzazio-ne e poi i cammini tuttora in corso verso l’eco-nomia post-industriale della vasta Pianura Pa-

dana e dei suoi avampaesi costieri tirrenico eadriatico, l’immagine dominante è oggi, se ri-maniamo nella pianura, quella della «città dif-fusa» (Francesco Indovina), della «megalopolipadana» (Jean Gottmann, Eugenio Turri), del-la «città infinita» (Aldo Bonomi). Della Rivie-

La produzione di uno spazio politico alpino

Da alcuni anni l’arco alpino va affermandosi, in Europa, come una regione naturale transnazionale.Una sorta di riconoscimento si è avuto negli anni Novanta con la ratifica della Convenzione per laprotezione delle Alpi, promossa da un’organizzazione non governativa basata in Liechtenstein, laCommissione Internazionale per la Protezione delle Alpi. L’obiettivo di quest’ultima è esposto a chiarelettere nella pagina di benvenuto del suo sito: «gli otto Stati sul cui territorio si trova una parte dellacatena montuosa hanno convenuto di dar vita a una politica comune, per garantire un futuro a questaterra unica, nella quale i confini sono determinati da fattori naturali, economici e culturali che rara-mente coincidono con le frontiere degli Stati nazionali. Risulta dunque evidente l’importanza di unvero ed efficace coordinamento internazionale degli interventi». La stesura del trattato è stata preceduta e accompagnata da numerose iniziative «dal basso», come lacreazione di reti di attori locali, fra le quali possiamo citare le prime a essere state formate: Alleanzanelle Alpi, Reti di comuni alpini, e Alparc, la rete alpina delle aree protette. Queste reti sono statecreate nell’intento di applicare sul territorio i principi sottoscritti nella Convenzione.Grazie a questo doppio impulso, è legittimo poter pensare che le Alpi stiano conoscendo un processo diistituzionalizzazione regionale. Il motore dell’azione è indubbiamente la volontà di creare uno spazio al-pino plasmato secondo i principi dello sviluppo sostenibile. Il dibattito è tuttavia ancora acceso relati-vamente al tipo di territorio che gli attori vogliono promuovere. Se, per alcuni, lo scopo prioritario dellereti alpine è quello di generare nuove possibilità di scambio di informazioni e di idee fra attori locali,per altri le relazioni fra un numero elevato di attori costituiscono l’opportunità per accrescere l’in-fluenza politica delle Alpi nei dibattiti nazionali e internazionali. Il «risultato dell’azione umana» sulterritorio alpino può così sfociare in due scenari distinti, anche se non incompatibili: da una parte, lavolontà di creazione di uno spazio di gestione efficace, dall’altra quella di un processo di vera e propriaistituzionalizzazione regionale e di conseguente produzione di uno spazio politico pan-alpino.Il divario di visione sembra tuttavia maggiore se si tiene conto della popolazione. Quest’ultima usu-fruisce dei vantaggi derivanti dai progetti concreti messi in atto nell’ambito di queste reti (costruzionidi edifici energeticamente efficienti, promozione di sentieri turistici tematici, sviluppo di marchi su pro-dotti locali, rafforzamento dei trasporti pubblici eccetera), ma non partecipa allo sviluppo delle retistesse e al processo di creazione di istituzioni pan-alpine, il quale rimane solidamente in mano alleistituzioni. I risultati delle ricerche condotte sulle Alpi sembrano confermare quanto Jouni Häkli hapotuto constatare nei Pirenei: «La maggior parte della popolazione che vive nelle regioni di frontierarimane legata alle sue comunità politiche locali e alle sue preoccupazioni giornaliere invece di vederelo sviluppo della regione transfrontaliera nel suo insieme».

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ra «rapallizzata» (Giorgio Bocca) o «sepoltasotto il cemento» (Massimo Quaini), se ci spo-stiamo invece sulle coste tirreniche. È comun-que un fatto che queste visioni d’insieme co-prono realtà molto differenziate, sia per zoneecologiche (l’alta, media e la bassa pianura, ildelta del Po, le colline moreniche e pre-appen-niniche, le coste liguri di levante e di ponen-te), sia per evoluzioni storico-politiche di lun-ga durata (i territori sabaudi, quelli del Lom-bardo-Veneto, quelli pontifici, le due grandirepubbliche marinare di Genova e Venezia ealtro ancora), sia ancora per i diversi gradi diintegrazione metropolitana, modellati su unarete di città che in molti casi si riproduce dapiù di due millenni. Dalla combinazione di questi diversi «radi-camenti» storico-ambientali emergono so-prattutto due grandi aggregati: un Nord-ovest e un Nord-est (o Nordest, come lochiameremo aderendo alle sue recenti aspira-zioni identitarie, per ragioni che meglio sa-ranno esposte in seguito). Tra i due l’Emilia-Romagna rimane di difficile collocazione,tanto che per sottolinearne la diversità la siaggrega talvolta al Centro. Ma ciò che contaoggi è che questo grande territorio, abitatoda circa 22 milioni di persone, denso di inse-diamenti residenziali, produttivi e di servizi,ha come suo grande snodo la metropoli mila-nese. Non già perché gli altri grandi centriurbani manchino di dotazioni «quaternarie»e non possano offrire «servizi rari» specia-lizzati che in certi casi a Milano non si tro-vano neppure, ma perché tutti i territori pa-dani a ovest e a est di Milano dialogano conquesta metropoli, più di quanto non dialo-ghino tra di loro. Per esempio, gli operatorieconomici di Cuneo e di Asti hanno ben po-chi contatti con Venezia, Trieste e altre cittàdel Nordest, esclusa forse Verona per la co-mune specializzazione commerciale agrico-

la. Anche grandi città come Torino e Genovahanno scarse relazioni con il Nordest (qual-cosa di più con alcune città emiliane). Le ri-viere liguri, infine, hanno ben poco in comu-ne con quelle adriatiche. Nell’ambito di questa separazione piuttostonetta tra Nord-ovest e Nordest, con Milanoche fa da cerniera, è facile ritrovare l’ereditàdi un passato geograficamente diverso. IlNord-ovest padano è stata la prima regioneitaliana in cui, fin dal XVIII secolo, si è svi-luppata un’agricoltura capitalistica, con un’ac-cumulazione che ha favorito nel secolo suc-cessivo lo sviluppo della moderna industriapaleotecnica e, circa un secolo dopo, di quellaneotecnica fordista. È stata l’area del «Trian-golo industriale» Torino-Genova-Milano, cuo-re propulsivo della modernizzazione della so-cietà italiana dall’Unità agli anni 1970. È statoil sistema territoriale che, oltre ad aver guidato(un po’ per caso) l’unificazione nazionale, hadato il maggior contributo all’unificazione difatto della Penisola, in quanto attore e propul-sore principale della rete ferroviaria e auto-stradale e della conseguente creazione di unmercato nazionale. Il cammino seguito dal Nordest – specie nellazona di media e alta pianura che va dalla pro-vincia di Verona a quella di Udine – è stato in-vece molto più lineare. Rimasto prevalente-mente rurale fin verso la metà del secolo scor-so – se si escludono pochi episodi isolati digrande industria – ha conosciuto poi una tra-volgente crescita economica, basata sulla pic-cola e media imprenditoria industriale familia-re, legata alla terra, ma anche esportatrice, so-vente organizzata in sistemi monoproduttivi(vestiario, scarpe, sedie, ceramiche e così via).Non si è avuta la grande polarizzazione indu-striale e urbana del Nord-ovest. Non si sonoformati sistemi metropolitani forti. La sua fase espansiva non dura tuttavia molto:

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il sistema entra in crisi nei due ultimi decenniin ragione delle crescenti difficoltà che incon-tra nel rispondere alle nuove sfide, sia interneche esterne. Le prime comportano il supera-mento di ciò che ha permesso il «miracolo»,in particolare l’individualismo e il familismoimprenditoriale: in questo caso la difficoltà èriconducibile alla scarsa cura dei beni comuni,a partire dall’uso del suolo e dalle infrastruttu-re, comprendendovi il paesaggio, il senso del-lo Stato e delle istituzioni pubbliche non pura-mente locali. Le conseguenze sono, sul pianodell’organizzazione economica, la difficoltà disuperare la piccola dimensione d’impresa, dipassare dal territorio locale alla filiera sovrare-gionale, dai saperi contestuali a un’altrettantodiffusa cultura scientifico-tecnologica, dallacompetizione basata sui bassi costi a quellabasata sull’innovazione. Sul piano istituziona-le si manifesta l’indubbia difficoltà nel gestireun territorio sempre più congestionato, inqui-nato e imbruttito. Queste criticità si rivelanoparticolarmente gravi di fronte alla pressionedelle sfide esterne: nuova economia della co-noscenza e delle reti, concorrenza dei paesiemergenti. Non che manchino risposte efficacia queste sfide, in termini di organizzazioned’impresa e d’innovazione tecnologica, maper ora esse rimangono poco numerose, piut-tosto isolate e significativamente concentratenelle maggiori città. Gli addetti nei settori adalta tecnologia dei cinque sistemi urbani delNordest in testa alle classifiche nazionali (Pa-dova, Venezia, Verona, Vicenza) non arrivano,sommati, al livello di quelli di Torino e nonsono che un quarto di quelli di Milano. E questo non già in ragione del fatto che ilNord-ovest abbia vissuto un’evoluzione post-fordista particolarmente brillante. Anzi, aconfronto delle regioni forti europee, negliultimi anni è rimasto indietro. La forza rap-presentata dall’industria si è indebolita con il

venir meno di alcune grandi imprese. Le con-centrazioni finanziarie, il rafforzamento dellepublic utilities, il ruolo trainante della ricercae dei poli di innovazione vi hanno fatto deipassi notevoli rispetto al resto d’Italia, ma re-lativamente modesti se confrontati con quan-to avveniva contemporaneamente in altri pae-si avanzati. Anche perché una parte del Nord-ovest (quella meridionale agricola e dei siste-mi di piccola e media impresa, in contesti diindustrializzazione recenti, simili al Nordest)ha partecipato solo in parte a questi sviluppiinnovativi. Tuttavia, se i dibattiti alla fine delNovecento erano segnati da un pesante pessi-mismo e da un continuo riferimento all’ideadi «declino» industriale, gli ultimi anni han-no visto un rilancio di posizioni ottimistichecirca la «questione» del Nord-ovest. L’argo-mentazione probabilmente più importante al-la base di questo cambiamento di atteggia-mento si riferisce all’improvviso e inaspetta-to rilancio della Fiat (l’accordo con l’ameri-cana Chrysler ha certamente avuto un altovalore simbolico, oltre che materiale), manon bisogna comunque dimenticare i successidei sistemi urbani di Torino e Genova nel dif-ferenziare la propria base economica, peresempio aprendosi vistosamente ai settoridella cultura e del turismo. In questo senso,eventi come Genova capitale della cultura2004 e i Giochi Olimpici invernali di Torino2006 hanno inciso con intensità sulle visionidel territorio della popolazione e degli attori,locali e sovralocali. Per quanto riguarda l’Emilia-Romagna, si puòdire molto sinteticamente che la sua diversitàrispetto al Nordest riguarda più il passato cheil presente. Sino agli anni Novanta queste duerealtà, pur presentando alcune affinità funzio-nali (in entrambe, per esempio, il ruolo svoltodai distretti industriali si è rivelato importan-te), apparivano quasi antitetiche, data la forte

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regolazione di stampo socialdemocratico eser-citata in Emilia-Romagna dal Partito Comuni-sta sulle economie locali, sui conflitti di clas-se, sul welfare e sulla pianificazione urbanisti-ca (il cosiddetto «modello emiliano»). Nell’ul-timo ventennio i grandi cambiamenti dovuti

alla competizione globale e alle connessespinte neoliberiste hanno incentivato un indi-vidualismo privato e una deregolamentazionepubblica che sta portando a una certa conver-genza verso il modello Nordest, riscontrabileanche nei nuovi orientamenti del voto politico.

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Il bacino del Po, banco di prova delle politiche macroregionali

Nell’organizzazione dello spazio del Nord Italia, il bacino padano e l’arco alpino che lo recinge daovest a est costituiscono la struttura dominante. Insieme, essi disegnano la soglia d’ingresso dall’Eu-ropa centrale alla penisola che si protende nel Mediterraneo e filtrano i flussi che la attraversano. Larilevanza ecologica ed economica del bacino può essere sinteticamente intuita dalla sua ampiezza edalla lunghezza del fiume (rispettivamente 75.000 km2 e 652 km) che lo situano fra i più importanti inEuropa, come il Reno (185.000 km2, 1.320 km), la Loira (117.000 km2, 1.017 km), il Guadalquivir(60.000 km2, 668 km), il Tamigi (14.000 km2, 300 km), la Sava (95.000 km2, 940 km). Ma l’importanzadel bacino si misura ancor più sulla dimensione demografica (circa 16 milioni di abitanti) e su quellaproduttiva, che riguarda l’attività agricola e quella industriale. Sotto molti profili, il bacino si confi-gura come il teatro principale dei cambiamenti avvenuti in Italia e ospita di conseguenza una parteconsiderevole del suo retaggio storico-culturale. Lo sviluppo degli insediamenti, delle attività economiche e delle infrastrutture, che ha interessato il ba-cino fin dall’antichità, ha progressivamente reso più complessi i sistemi di relazioni al suo interno equelli che lo legano, da un lato, al cuore economico e produttivo dell’Europa e, dall’altro, al Mediter-raneo. È cresciuta, soprattutto nel secolo scorso, l’esigenza di politiche riguardanti l’intero bacino.Fra queste, particolare rilievo hanno assunto le politiche di gestione delle acque e di difesa del suolo,che hanno preso impulso con l’istituzione dell’Autorità di Bacino (in base alla legge 183/1989), laquale ha posto le basi per un governo unitario dei processi d’uso e di trasformazione, chiamando tuttele istituzioni interessate, dai Comuni alle Province e alle Regioni, a forme inedite di collaborazione, diaggregazione inter-istituzionale e di pianificazione strategica e operativa.In questo nuovo quadro assumono rilevanza le politiche e gli interventi riguardanti più specificamenteil fiume che lo attraversa, fra cui spicca per coerenza e importanza il Progetto Po, avviato dalla Re-gione Piemonte fin dalla metà degli anni Ottanta. Sulla base di un programma che si proponeva di af-frontare per la prima volta in modo integrato le problematiche della sicurezza e della qualità delle ac-que, quelle dello sfruttamento economico delle risorse (energia idroelettrica, estrazione di sabbie eghiaie, agricoltura e turismo) e quelle della tutela paesaggistico-ambientale e di promozione degli usisociali, ricreativi e culturali, sono stati messi in campo due strumenti complementari: il Progetto Terri-toriale Operativo per l’intera fascia fluviale dalla sorgente fino ai confini con la Lombardia (235 km dilunghezza) e il Piano per il Parco del Po, istituito nel 1990 su una fascia largamente coincidente conquella suddetta. Rispetto all’anfiteatro di testata del bacino padano, che racchiude il Piemonte e laValle d’Aosta, la fascia del Po con la sua raggiera di affluenti ne costituisce l’asse centrale, cui si ac-costa in posizione quasi baricentrica il capoluogo metropolitano. Di qui l’importanza di attuare il Pro-getto Po prendendo in considerazione congiuntamente opzioni di tutela e opportunità di valorizzazionepaesaggistica e di riqualificazione urbanistica: è questo il tema affrontato negli ultimi dieci-quindicianni dai progetti operativi locali previsti dal Progetto Po per ambiti di particolare criticità, ed è anchequesto il tema con cui sono ora chiamati a misurarsi i più recenti contratti di fiume.

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Tuttavia le differenze permangono, e l’ereditàdella forte coesione sociale e territoriale di unpassato non lontano è ancora in parte operan-te: soprattutto intorno a Bologna si è formato esi va tuttora rafforzando quel sistema metro-politano forte che manca nel Nordest.

4. Il vero dualismo

In conclusione, se il Nord appare oggi unitonella rivendicazione del suo ruolo trainantedell’economia italiana, i percorsi evolutivi e lemotivazioni stesse che giustificano le sue ri-chieste hanno radicamenti diversi, corrispon-denti tuttora a strutture socio-economiche dif-ferenti, riconducibili molto grossolanamente –ma con un fondo di vero – a un dualismo difondo: tra aree di antica e di recente industria-lizzazione, tra soggetti e sistemi territorialiche si sentono frenati dall’arretratezza del si-stema-paese nelle loro aspirazioni di compete-re nell’economia della conoscenza, che vedo-no la globalizzazione principalmente come laminaccia di un benessere faticosamente rag-giunto e identificano lo Stato come un preda-tore che pesca nelle loro tasche per alimentaresprechi e parassitismo. Questo dualismo non è tra un Nord-ovest e unNordest: esso è presente in entrambe le grandiregioni, anche se in misura diversa. Anchenello stesso Nordest sono presenti sistemicompetitivi nell’economia globale, così comenel Nord-ovest non mancano diffuse insicu-rezze localistiche più o meno rancorose, comedimostrano i successi recenti della Lega Nord,cioè del partito oggi maggiormente radicatosul territorio.Un po’ ovunque si assiste inoltre a un’evolu-zione tipicamente post-moderna dei consumi edegli stili di vita, a sostegno di una diffusaeconomia del tempo libero che va dagli outlet

alla valorizzazione dei paesaggi e dei beni cul-turali, dalle grandi discoteche ai grandi eventi,dai parchi naturali ai parchi a tema. A dispettodei numerosi riferimenti simbolici a certi valo-ri patrimoniali, naturali e storici, questo con-sumismo non ha molto a che fare con specificiradicamenti, e più che sulle tradizioni locali(che pure permangono) esso fa leva sulla ba-nalizzazione delle loro espressioni più facil-mente vendibili.

5. Le reti delle infrastrutture e delle città

Se non sono i radicamenti storici e geograficia tenere unito il Nord, lo sono forse le reti?Dal momento che con questo termine s’inten-dono oggi le cose più svariate, dobbiamo anzi-tutto chiederci di quali reti si tratta. Se parlia-mo delle reti infrastrutturali, appare evidentela loro maggior densità nel Nord padano ri-spetto al resto del paese: sia di quelle più «vi-sibili», come ferrovie, strade e autostrade, siadi quelle che si notano di meno, come gli elet-trodotti e i canali, o di quelle che non si vedo-no affatto perché passano sottoterra come glioleodotti, i gasdotti e i cablaggi telematici.Questa forte presenza dipende soprattutto dal-la maggior densità insediativa e dal fatto chela grande pianura offre meno ostacoli dei rilie-vi montani e collinari che occupano gran partedella Penisola. Tanto è vero che anche nelNord, in corrispondenza dei rilievi, se si esclu-dono pochi grandi corridoi vallivi, la densitàdelle infrastrutture, così come quella insediati-va, scende a livelli bassissimi. Inoltre, il fattoche si possa andare facilmente in autostradada Torino o da Genova a Rimini o a Triestenon vuol dire, come già s’è notato, che questecittà siano più unite tra loro di quanto non losiano, per esempio, con Firenze, Roma o Na-poli, cui sono altrettanto ben collegate. Anzi

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dal dicembre 2009, con l’entrata in serviziodel sistema dell’alta velocità ferroviaria, daTorino, Milano e Bologna si possono raggiun-gere Firenze e Roma molto più rapidamenteche non Bolzano, Venezia e Trieste.Se consideriamo l’organizzazione dei trasportinel suo complesso, il Nord appare essenzial-mente come un tramite tra la Penisola e il restodell’Europa. I grandi assi della circolazione del-le persone e delle merci lo tagliano infatti da suda nord, per far capo al Fréjus, al Monte Bianco,al Sempione-Lötschberg, al San Gottardo e alBrennero, mentre le grandi piattaforme logisti-che si distribuiscono lungo di essi. Le grandiconnessioni internazionali longitudinali e i flussiverso l’arco latino-mediterraneo, l’Austria e ipaesi dell’Est europeo sono invece più limitati.Il Corridoio europeo V (Lisbona-Kiev), che do-vrebbe e potrebbe essere una grande infrastrut-tura multimodale capace di unire tutto il Nord,rimane per ora in gran parte sulla carta.Sui porti c’è poco da dire, in quanto è eviden-te come non esista un unico sistema del NordItalia, ma eventualmente due sistemi portualidistinti, tirrenico e adriatico, in gran parte an-cora da organizzare, che non muterebbero l’at-tuale situazione che vede la presenza di duediversi entroterra padani, uno a ovest e uno aest. Anche per quanto riguarda il sistema aero-portuale non si può parlare di un sistema set-tentrionale unitario, essendo il servizio fram-mentato fra una decina di scali che servono li-mitati intorni regionali o subregionali e offro-no accesso a voli transcontinentali quasi soloattraverso le connessioni con Roma e con igrandi hubs europei, cioè con un tipo di infra-struttura che il Nord, dopo il declassamento diMalpensa, praticamente non possiede.Il discorso sulle reti urbane è meno critico, purpresentando alcune analogie con quello sulleinfrastrutture. Esiste, come s’è detto, una gra-vitazione di tutto il Nord sul sistema milanese.

Il Nord è dunque unificato da Milano? Sicura-mente no, giacché la gravitazione dell’interopaese su centri che presentano funzioni di ser-vizio e decisionali di alto livello (quelli che laterminologia ESPON dell’Unione Europea de-finisce European engine) si divide in Italia traMilano e Roma. Presentandosi inoltre una cer-ta specializzazione tra le due metropoli, l’in-fluenza di Milano si estende per certe funzionia tutto il paese, così come quella romana arri-va a coprire il Nord.Al livello immediatamente inferiore, la rete ur-bana presenta nuovamente una differenza ma-croscopica tra il Nord-ovest e il Nordest. Daun lato, si ha un aggregato territoriale netta-mente dominato da tre grandi centri di livellometropolitano e, dall’altro, la rete policentricaveneta e friulana per così dire decapitata in se-guito al declino della Serenissima e tornataquindi a ricalcare la sua vecchia struttura pocogerarchica. Solo immaginando Padova e Vene-zia come un solo sistema urbano (grazie allaloro prossimità fisica, ma con scarso riguardo aquella funzionale, socio-culturale e identitaria)si raggiungerebbe la massa critica di una me-tropoli pressappoco della forza di Genova, chenon raggiungerebbe tuttavia se non la metà cir-ca del sistema torinese e un quarto di quellomilanese. Quanto a Trieste, per la sua dimen-sione demografica ed economica e la sua auracosmopolita, appare come una metropoli asso-pita, in attesa del risveglio dell’Est europeo edella normalizzazione dei Balcani.L’unico sistema metropolitano a sud di Milanolo troviamo, come s’è detto, lungo l’asse dellaVia Emilia, con Bologna che ha già sviluppatouna stretta integrazione funzionale con le piùvicine Modena e Reggio e ha legami non in-differenti con Parma, Ferrara, Ravenna e Ri-mini. Come area metropolitana Bologna ha,secondo una recente indagine del CRESME,una forza demografica e occupazionale pari a

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Genova. Ma in più Bologna fa sistema con lealtre città emiliane (esclusa Piacenza) e roma-gnole più di quanto lo faccia, per esempio, To-rino nel Piemonte e Genova in Liguria. Anchesenza aver vissuto la forte concentrazione epolarizzazione industriale delle metropoli delNord-ovest, Bologna (con soltanto 375.000abitanti), grazie anche alla sua posizione geo-grafica nodale, possiede quindi funzioni me-tropolitane di livello nazionale superiori, incerti settori, a quelle di Torino e Genova, chepure la superano nettamente in termini di po-polazione e di occupati in attività economiche.Si può dire quindi che se in passato la forzadel Nord si reggeva sul triangolo industrialeTorino-Genova-Milano, oggi essa ha comepunto di forza il quadrangolo metropolitanoMilano-Bologna-Genova-Torino, mentre il purricco e variegato policentrismo del Nordest (insenso stretto) non arriva per ora a organizzarsiin un vero e proprio sistema metropolitano.La situazione cambia se esaminiamo la retedelle città minori. Essa presenta una fascia dielevata densità lungo la media e alta pianurache va dal Piemonte al Friuli, con i massimiaddensamenti a nord di Milano. Qui la magliaurbana si è espansa capillarmente, sino a in-globare l’intera trama insediativa storica, dan-do luogo a quella che è stata chiamata «cittàdiffusa». Disposizioni altrettanto dense, mapiuttosto lineari, si hanno invece lungo i gran-di assi vallivi alpini, la costa ligure, la ViaEmilia e la costa adriatica romagnola. La città diffusa non è solo un fatto fisico, mor-fologico: è anche un’organizzazione funziona-le di tipo reticolare-interconnesso. In altre pa-role, quello che altrove è concentrato in unacittà, qui lo si trova distribuito fra una quantitàdi piccoli centri strettamente legati tra loro e acui accedono per servizi gli abitanti e le im-prese di un territorio vasto, allo stesso modoin cui gli abitanti e le imprese di una città

compatta accedono ai servizi distribuiti tra isuoi quartieri. I vantaggi sono evidenti: ovun-que si abiti si è sempre in città. Ma il fatto chequesta città «esplosa» si sia formata senza se-guire nessun disegno di livello sovracomunalecomporta anche notevoli svantaggi: in terminidi infrastrutture (strade, ferrovie, acquedotti,fognature e altre reti), carenza di servizi pub-blici (trasporti, raccolta e smaltimento dei ri-fiuti ecc.), sprechi energetici e inquinamentoderivanti dall’intensa mobilità automobilistica,nonché consumi eccessivi di suolo agricolo,relegato sovente in spazi residuali.La città diffusa non è limitata al Nord. La sipuò trovare anche altrove in Italia, sia purecon dimensioni più ridotte, per esempio nelbasso Valdarno e nel Casertano. Ma una tramareticolare tanto estesa la troviamo soprattuttonel Settentrione, dove solo in Lombardia e inuna parte del Piemonte coesiste e si combinacon la forza dei centri metropolitani.

6. Le reti delle imprese e della cooperazioneinteristituzionale

Come si è visto, una caratteristica relativa-mente radicata nell’immaginario geograficodel Nord riguarda l’industrializzazione: senzadubbio, un aspetto distintivo della dicotomiafra parte settentrionale e meridionale del paesesi riferisce alla differente densità di attivitàproduttive e di relazioni fra imprese. Una si-mile immagine dello spazio economico si basasu elementi reali, giacché storicamente iltriangolo industriale e il mondo dei distrettiindustriali del Nord-ovest e del Centro hannocostituito l’ossatura del tessuto industriale na-zionale: per citare un dato, si pensi che, sullabase delle statistiche ISTAT più recenti, il 64%degli addetti del settore manifatturiero si tro-va, appunto, al Nord (contro il 18% del Cen-

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tro, il 14% del Sud, il 4% delle Isole). Sarebbetuttavia semplicistico assumere il Nord comeuno spazio «tenuto insieme» da intense rela-zioni industriali interne, ossia come una regio-ne funzionalmente coesa. Come evidenziato da vari autori, l’economiaitaliana – e in particolare il mondo dei di-stretti industriali e della piccola impresa, checostituisce la parte preponderante dell’attivi-tà industriale nazionale – si è tradizional-mente configurata come un capitalismo diterritorio. I rapporti funzionali, in altre paro-le, sono sempre stati di cortissimo raggio,basandosi su relazioni con fornitori e clientifortemente radicati nel territorio locale: lacircolazione di idee, capacità, capitali, tec-nologie, spirito imprenditoriale e capitale so-ciale (fiducia) all’interno di uno spazio cir-coscritto ha costituito tradizionalmente labase del «sistema italiano». Se l’immagine del Nord come mosaico dipiccoli sistemi locali d’impresa, filiere «cor-te» radicate sul territorio e distretti industria-li (oltre ovviamente alla grande impresa delNord-ovest e alla miriade di imprese del suoindotto) approssima assai bene la realtà delpassato, il modello è mutato significativa-mente negli ultimi anni, sotto le spinte diquell’insieme di trasformazioni noto con ilnome di globalizzazione.Certamente, da un punto di vista «strutturale»,ossia immaginando di guardare una «fotogra-fia dall’alto» del sistema industriale, lo spaziodel Nord rimane caratterizzato da quel mosai-co di tessuti produttivi cui si faceva riferimen-to. Le relazioni alla base del loro funziona-mento si sono però frantumate, collegandosi aluoghi e logiche d’azione assai differenti ri-spetto al passato. Il «capitalismo di territorio»fatto di reti locali è oggi inadeguato alle formedel capitalismo contemporaneo: da un lato, leconoscenze e il saper fare locale che avevano

costituito la chiave del successo per le prece-denti generazioni paiono oggi insufficienti percompetere in uno scenario globale; dall’altrolato, i volumi di produzione realizzabili suscala locale o nazionale sono anch’essi inadat-ti rispetto a uno scenario economico semprepiù «aperto» al resto del mondo. L’economiadei sistemi produttivi locali si trova così oggia radicarsi in uno «spazio dei flussi» di scalageografica ben più ampia, fatta per esempio direlazioni con le economie emergenti, con l’Esteuropeo, con l’Estremo Oriente. Ne emergeuna geografia delle relazioni estremamentecomplessa che prevede scale geografico-fun-zionali differenti.Persistono, da un lato, le tradizionali relazionidi prossimità fra imprese, territorio, soggetti eculture locali, ossia la matrice «distrettuale»del capitalismo latino. Dall’altro lato, sono ri-levabili relazioni di livello metropolitano, poi-ché nello spazio del Nord solamente pochicentri urbani (Milano in primis) sono in gradodi offrire servizi specializzati nei campi dellaricerca, della tecnologia, della finanza. Nellaletteratura scientifica questi spazi metropolita-ni sono sovente indicati come piattaforme, ingrado di svolgere una funzione «intermedia» edi connessione fra le relazioni locali e quelledi scala superiore. Infine, le relazioni «oriz-zontali» fra imprese travalicano sempre piùspesso la geografia del Nord.Nessuna di queste scale ha quindi come riferi-mento lo spazio del Nord in senso stretto, percui, dal punto di vista delle relazioni indu-striali, questa scala non sembra esprimere unruolo di rilievo. Non a caso, in un recente stu-dio dell’Associazione Italiana della Produzio-ne, lo spazio industriale settentrionale vienedescritto nei termini di un mosaico di 90 si-stemi di reti di piccole imprese, molto diffe-renti fra loro e operanti in aree ristrette, purconnettendosi spesso con territori metropoli-

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tani e sovranazionali. Si tratta di aggregazioniterritoriali di imprese che trovano il propriospazio di dialogo e di auto-rappresentanzionein istituzioni tipicamente locali e sub-regiona-li, come le varie camere di commercio pro-vinciali o le sedi della Confederazione Nazio-nale dell’Artigianato e della Piccola e MediaImpresa. D’altro canto, molte voci hanno de-nunciato l’inadeguatezza dell’attuale sistemadi livelli istituzionali: la maglia di comuni,province e regioni che struttura il territoriosembra mal sovrapporsi alla realtà dei tessutiproduttivi, delle sue esigenze, delle sue ri-chieste politiche. Non a caso, a partire daglianni Novanta le istituzioni pubbliche, la poli-tica nazionale e quella locale hanno prodottonumerosi esperimenti di cooperazione e ag-gregazione istituzionale. I patti territoriali, gliaccordi di programma, i programmi territoria-li integrati possono tutti essere letti comeesempi di costruzione e «invenzione» di scalegeografiche più adatte per governare e gestiredeterminati fenomeni economici. Occorre ancora notare come le iniziative dicooperazione istituzionale che hanno presoforma negli ultimi anni sembrino anch’esse,per la maggior parte, rivolgersi a scale geo-grafiche differenti rispetto a quella settentrio-nale. In altre parole, se proprio sta emergendouna forma di integrazione macroregionale, es-sa sembra ricalcare il dualismo fra spazio delNordest e quello del Nord-ovest. Iniziativecome le intese fra Milano e Torino (note conl’acronimo MiTo, per ora rivolte soprattuttoad alcuni progetti culturali e al settore tra-sporti) o fra Torino, Genova e Milano (GeMi-To, riferito a progetti logistici e infrastruttura-li comuni, ma tendenzialmente ancora sullacarta) sembrano ridelineare una forma di ag-gregazione regionale ancora basata sull’im-maginario del vecchio Triangolo industriale.Ancora: le province del Nord-ovest promuo-

vono, attraverso un’omonima fondazione, lacooperazione comune in temi quali infrastrut-ture, sviluppo economico, tutela dell’ambien-te. È inoltre possibile ritrovare esempi analo-ghi anche al di fuori del settore pubblico: lereti televisive private di Val d’Aosta, Liguria,Piemonte e Lombardia si sono recentementeunite in un comune progetto macroregionale(Nordovest.tv), mentre nel campo dell’analisiscientifica l’attività dell’Osservatorio delNord Ovest appare per molti versi simmetricaa quella della Fondazione Nord Est. L’unico spazio in cui sembra emergere conforza una scala di relazioni che comprendetutto il Nord è quello della politica. Un esem-pio interessante è offerto dal Progetto Nord,opera di un movimento politico-intellettualeche si propone di offrire agli enti pubblici e al-le imprese strumenti di conoscenza, riflessionee decisione capaci di superare la separatezzatra Est e Ovest. L’esempio più noto è poi quel-lo della Lega, un partito politico radicato intutto il Nord, che si fa portatore di interessi easpirazioni e rivendicazioni di una parte consi-stente della sua popolazione.

7. Realtà geografica e immaginazione geo-politica

Il risultato delle dinamiche sin qui descrittenon sembra, in definitiva, segnare l’afferma-zione in Italia di uno spazio di reti e flussimarcatamente identificabile come settentrio-nale. La fitta rete di relazioni «orizzontali»fra soggetti economici e istituzionali sembrariconfigurarsi, al contrario, a varie scale geo-grafiche: se permangono sistemi produttivimarcatamente locali, emergono nel contempospazi funzionali metropolitani, microregiona-li, macroregionali e infine globali, che saran-no più ampiamente trattati in una parte suc-

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cessiva. Occorre tuttavia riconoscere che, se itradizionali legami «locali» permangono invita (vedi il caso di molti distretti industriali),certamente la loro intensità e importanza so-no diminuite nel tempo. Come la letteraturageografica ha segnalato già a partire dagli an-ni Novanta, lo «spazio delle reti» ha riconfi-gurato la geografia dei territori. In molti casi,lo stesso rapporto fra attività umane e am-biente ne è risultato mutato: una storia seco-lare di relazioni fra natura e cultura, fra mon-tagna e agricoltura, fra valle e industria, fracittà ed economia sembra essersi frantumata,a tratti in maniera problematica: si pensi allospopolamento delle aree più marginali delterritorio, o alla già discussa affermazione diuna «città diffusa» che degrada l’ambiente elogora il paesaggio. Una simile riconfigurazione, che viene oggispesso discussa con riferimento alla più vastatematica della globalizzazione, ha origini an-tiche, e non deve indurre a visioni necessaria-mente radicali o pessimistiche riguardo allaricomposizione geografica del Nord. Ricor-rendo a una rappresentazione schematica emetaforica, le «nuove» reti orizzontali di cuiabbiamo discusso non annullano le «radici»della vita locale. Esistono infiniti esempi difenomeni economici che prendono forma apartire dalla «riscoperta del locale»: si pensialla valorizzazione delle produzioni locali ti-piche (come le iniziative di Slow Food), o al-la rilevanza del turismo montano, che pre-suppone una relazione quanto mai stretta fraattività economica e «reti lunghe» comequelle dei flussi di turisti. Altre relazioni lo-cali sono invece scomparse, o stanno scom-parendo, o devono comunque adattarsi a unquadro molto differente rispetto a quello delpassato, mentre la produzione e riproduzionedi visioni nostalgiche, romantiche o conser-vatrici non possono che generare strategie

deboli e pericolose. Questo vale principal-mente per le strutture economiche e produtti-ve: non è una novità che il capitalismo italia-no, con la sua forte enfasi sulle strutture fa-miliari e locali, sull’imprenditoria minuta,sulle relazioni di prossimità, mal si coniughicon le tendenze più recenti della globalizza-zione, che spingono verso la realizzazione diforme di integrazione territoriale e di econo-mie di scala di portata sempre più vasta. Per concludere, rimane aperta una questione:la «costruzione» di una macroregione setten-trionale può costituire una strategia opportu-na, adeguata e sufficiente per gestire e gover-nare la società e il territorio in modo compe-titivo? In ogni caso, se questo è – come s’èvisto – un obiettivo lontano dal realizzarsi sulpiano delle strutture funzionali, esso rispondeinvece sempre più a una retorica politica mi-rante a rafforzare (talvolta fin al limite delseparatismo) questa parte del paese. Il Nord èdunque, per ora, essenzialmente un’immagi-ne geopolitica a sostegno di rivendicazioni easpirazioni oggi effettivamente presenti inquest’area geografica: non solo quelle piùimmediate e banali (meno tasse, più sicurez-za, più infrastrutture, meno moschee eccete-ra), ma anche quelle più sofisticate, come ilfederalismo fiscale, l’efficienza burocratica,il sostegno all’innovazione e in genere tuttociò che possa sostenere il segmento economi-camente più evoluto del paese nella sfida del-la globalizzazione.Uno degli indicatori più utilizzati per rappre-sentare la distribuzione geografica della ca-pacità di generare innovazione tecnologica siriferisce ai brevetti. Pur rappresentando unadelle misure standard dell’economia dell’in-novazione, si tratta di un dato che presentaalcuni limiti tecnici: per esempio, non tutte leinnovazioni diventano brevetti; inoltre, men-tre alcuni di essi possono generare crescita

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produttiva, altri possono avere un impattoeconomico pressoché nullo. L’immagine quipresentata (fig. 3) evidenzia il ben noto diva-rio fra le performances dell’Europa centrale esettentrionale e quelle dell’Europa meridio-nale e orientale. Nelle logiche del nostro dis-corso, tuttavia, la rappresentazione mostracon chiarezza una netta frattura fra il Nord e

il resto del paese. L’area settentrionale pre-senta infatti una densità di brevetti in lineacon quella dei territori economicamente fortidell’Unione Europea, in netta contrapposi-zione rispetto agli spazi meridionali.Le dinamiche demografiche delle regioni ita-liane non paiono rivelare una netta contrap-posizione fra lo spazio del Nord e quello del

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Fig. 3 – I brevetti in Europa.

Fonte: EUROSTAT (2009), Eurostat Regional Yearbook 2009, Office for Official Publications of the Euro-pean Communities, Luxembourg.

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Fig. 4 – Le variazioni demografiche nelle regioni europee, 2003-2007.

Fonte: EUROSTAT (2009), Eurostat Regional Yearbook 2009, Office for Official Publications of the Euro-pean Communities, Luxembourg.

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Centro: a differenziarsi è soprattutto il Sud,caratterizzato essenzialmente da stagnazione(fig. 4a). Al contrario, il Centro e il Nord delpaese – come gran parte delle regioni del-l’Arco latino mediterraneo, dal Sud della

Spagna fino al Lazio – sono caratterizzati dauna significativa crescita nel numero mediodi abitanti. Questa contrapposizione divieneancora più marcata se si considera il movi-mento migratorio (fig. 4b): le regioni del

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Fig. 5 – Densità demografica (2009) a) e variazioni nella popolazione (1991-2009) b) dei comunidell’Italia settentrionale.

Fonte: nostre elaborazioni su dati ISTAT.

a)

b)

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Dal triangolo industriale al MiTo

L’obiettivo di realizzare una macroregione del Nord-ovest, costituita da reti di cooperazione fra città eterritori, si è andato progressivamente rafforzando fino a delinearsi, almeno nelle più recenti intenzio-nalità politico-amministrative, come strategia di sviluppo ai diversi livelli di governo del territorio.Basti pensare all’iniziativa MiTo 2010, proposta dalle Camere di Commercio di Torino e Milano nel2003 o al progetto di macroregione policentrica ideato dalla Fondazione delle Province del Nord-ovestdue anni più tardi. Alle origini di questo processo è possibile rintracciare un denominatore comune, il MiTo del 1982,avanzato dagli allora sindaci di Torino e Milano, Diego Novelli e Carlo Tognoli. Come sottolinea Mat-teo Bolocan, ripercorrendo le tappe di questa proposta, emergono una natura e un’intenzionalità pro-fondamente diverse da quelle sottese alle ipotesi di cooperazione più recenti. Il disegno di quel primoMiTo privilegiava infatti una relazione integrata tra due aree urbane mature del vecchio triangolo in-dustriale, percepite in quegli anni come in forte declino, immaginandone un rilancio attraverso un raf-forzamento infrastrutturale e tecnologico a supporto delle funzioni terziarie. L’attenzione era quindivolta al potenziamento dell’autostrada, alla creazione di connessioni rapide fra i due poli di tipo siainfrastrutturale sia telematico e informatico, al rafforzamento complementare di attività terziarie, fieri-stiche e di formazione universitaria e post-universitaria. Traguardando la forte risonanza mediatica diquella proposta, che rivelava una sensibile mobilitazione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comuni-cazione, si intravide, da un lato, la debolezza delle valutazioni di fattibilità urbanistica e territoriale e,dall’altro, i limiti – anche culturali – di una tematizzazione esclusivamente urbana. Al fallimento delprogetto contribuì anche il clima di forte rivalità che connotava (e connota tuttora) le relazioni fra idue poli principali, relegando la città di Genova a una posizione piuttosto marginale. La medesima sorte toccò anche ai successivi tentativi di rilancio della tematica: nel 1987, per esempio,l’Unione Industriale di Torino predispose uno studio comparativo su Torino e Milano, intese insiemecome l’unica potenziale metropoli del Nord. E ancora alla proposta presentata nei primi anni Novantadalla Camera di Commercio torinese, volta all’integrazione nel cosiddetto «Diamante Alpino» delleregioni transfrontaliere del Nord-ovest connesse dalla linea ad alta velocità della Torino-Lione.Il secondo MiTo, ovvero l’iniziativa Torino-Milano 2010 proposta vent’anni dopo dalle Camere diCommercio delle due città, sottende tanto premesse, quanto finalità, molto diverse. Alla distanza tem-porale, infatti, si affianca una visione rinnovata del territorio e delle territorialità che lo compongono,intese per la prima volta in un’accezione unitaria e sistemica. In realtà, questa proposta non rifletteancora una concezione del Nord-ovest realmente macroregionale e policentrico, ma rappresenta ilprimo passo di un processo incrementale che ha portato al coinvolgimento prima di Torino e Milano,poi del capoluogo ligure (trasformando il MiTo in GeMiTo 2010). Inizialmente, infatti, MiTo 2010 fo-calizzava la sua attenzione solo su «due poli e una ferrovia» con l’esplicito obiettivo di costruire un’a-rea forte sull’asse Torino-Milano, sensibilmente accorciato dall’alta velocità, lungo il quale distribuireazioni e progetti innovativi e complementari in campo scientifico, artistico, culturale e commerciale.Dal maggio del 2005 nell’alleanza per il Nord-ovest fa ufficialmente il suo ingresso anche Genova, conla costituzione, di fatto, della macroregione più ampia dell’Europa meridionale (più di 15 milioni dipersone e ben oltre un milione di imprese attive).Parallelamente a questa proposta, nel 2005 viene costituita un’altra alleanza territoriale a scala di Nord-ovest: un patto tra le province di Piemonte, Liguria e Lombardia (oltre a quelle di Parma e Piacenza non-ché la Valle d’Aosta), con l’obiettivo di rilanciare la competitività dell’intero territorio attraverso un pro-getto strategico di area vasta centrato proprio sul fitto reticolo di piccole e medie città che costituiscono lastruttura portante di quest’area.

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Centro e del Nord sono destinatarie di consi-stenti flussi di persone, mentre al Sud il sal-do migratorio è debole, se non negativo. Lacrescita demografica nelle regioni italiane èperaltro quasi interamente da imputare aiflussi di migranti: il cosiddetto «saldo natu-rale», ossia la somma delle nascite e dellemorti (esclusi quindi i flussi migratori), è in-fatti pari a zero, se non negativo, in pratica-mente tutte le regioni, al Nord come al Sud(con la sola eccezione della Campania, dovela natalità è ancora significativa).Questa dinamica demografica è meglio osser-vabile scendendo a una scala di rappresenta-zione incentrata sulla macroregione del Nord(fig. 5a). La popolazione è fortemente concen-trata in pochi spazi molto urbanizzati: nella fi-gura spiccano l’area torinese e, soprattutto,quella milanese, che si dirama in un tessutourbano continuo strutturato lungo due assi –da un lato lungo il bacino del Po, verso il Ve-neto, e dall’altro lungo la Via Emilia. In que-sto senso, la rappresentazione dell’urbanizza-zione restituisce un’idea piuttosto precisa del-la «città diffusa» del Nord. La dinamica diquesta struttura, ossia la variazione demografi-ca comunale (fig. 5b), sembra tendere a raffor-zare gli squilibri territoriali: dove si rivela lamaggior concentrazione demografica si osser-va anche la maggior crescita della popolazio-ne; al contrario, le aree più periferiche (si pen-si alle comunità montane) vedono accelerare ilproprio spopolamento.

La geografia urbana propone spesso classifi-cazioni gerarchiche dei centri urbani, basatesulla sintesi di molteplici indicatori statistici,che evidenziano il grado di centralità delle cit-tà nella strutturazione delle reti funzionali enella promozione della crescita economica.L’immagine qui proposta (fig. 6), prodottadall’Osservatorio sulla Pianificazione Territo-riale dell’Unione Europea (ESPON), mette inrisalto la centralità del Nord per quanto con-cerne la presenza di sistemi urbani in grado di«ancorare» il paese alle reti urbane continenta-li. In Italia mancano infatti città del rango piùelevato (città globali, come Londra e Parigi),mentre si annoverano due città di secondo ran-go (denominate motori europei): Milano e Ro-ma. Nel Nord è possibile poi individuare unacittà di terzo livello (area metropolitana diforte crescita economica, Torino), una di quar-to (area metropolitana di potenziale crescitaeconomica, Bologna) e una di quinto (areametropolitana di potenziale debole crescitaeconomica, Genova), mentre in tutto il restod’Italia figura esclusivamente Napoli, con unrango economico pari a Bologna. È evidentecome questo tentativo di classificazione dellarealtà urbana sia discutibile e introduca ele-menti di semplificazione alquanto soggettivi;la sua rappresentazione nella figura 6 pare tut-tavia confermare l’idea – peraltro assai diffusa– di una maggiore «sintonia» del Nord rispettoalle dinamiche del cuore continentale, anzichéa quelle del resto del paese.

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Negli anni successivi sono state avviate altre iniziative di integrazione urbana fra le aree metropoli-tane del Nord-ovest, diverse per natura, soggetti coinvolti e questioni trattate. Si pensi, per esempio, alprogetto della Società Logistica dell’Arco Ligure e Alessandrino, costituita nel 2003 da enti piemontesie liguri con lo scopo di promuovere infrastrutture e insediamenti a supporto della logistica del Nord-ovest (in particolare, sostenendo la candidatura congiunta delle città di Torino e Genova come sedidell’Authority nazionale per i trasporti). O ancora all’iniziativa «MiTo Settembre Musica», il festivalinternazionale nato dal gemellaggio culturale fra Torino e Milano, con l’obiettivo di estendere e incro-ciare i confini di queste due aree metropolitane.

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Fig. 6 – La gerarchia urbana europea.

Fonte: ESPON (2005), In Search of Territorial Potentials (www.espon.lu).

Crescita media percentualeannua del PIL (1995-2002)

Aree metropolitaneemergenti

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Secondo DiscorsoIl Nord fuori dal Nord

Alpine Space) sia su una scala più ampia. Lacaduta del Muro di Berlino e l’apertura a Oc-cidente dell’Europa centro-orientale hanno,infatti, generato una molteplicità di possibilicooperazioni istituzionali tra regioni europee,sia con i programmi di progressivo allarga-mento dell’Unione Europea, sia con la defini-zione di un ampio spazio di vicinato che vadal Mediterraneo all’Asia Centrale. Soprat-tutto la programmazione europea ha contri-buito a sostenere «nuovi» processi di regiona-lizzazione, con l’istituzionalizzazione di veree proprie Euroregioni transfrontaliere.In questo quadro, sebbene la prossimità e lacontinuità geografica svolgano un ruolo cen-trale, la programmazione europea non esauriscela crescente proiezione del Nord fuori dei pro-pri confini geografici e politici. Le regioni set-tentrionali si trovano a relazionarsi – per com-petere, ma anche per cooperare – con altri luo-ghi, altre città, altre regioni che si estendonoben oltre i confini continentali. Da questo puntodi vista l’Unione Europea è il teatro principalein cui il Nord può e deve essere pensato e rap-presentato, ma non l’unico. In maniera semprepiù frequente, infatti, negli ultimi decenni leamministrazioni locali hanno ampliato la pro-pria azione di cooperazione con territori anchea grande distanza. Il dato forse più evidente èofferto dall’attivismo nel creare e sostenere retidi scambi e di investimenti nel tentativo di an-corare le economie regionali ai flussi di merci erisorse che connotano la globalizzazione. È quindi utile soffermare l’attenzione su duedifferenti aspetti della creazione di reti a me-dio-lunga gittata. Da un lato, su come le re-

1. Una politica estera del Settentrione d’Italia?

La nostra comprensione della questione setten-trionale non può limitarsi ad analizzare i pro-cessi interni allo spazio del Nord Italia – con lesue geografie e geometrie mobili e, sotto moltiaspetti, incerte e indecifrabili – e le sue relazionicon la scala nazionale. Se è vero che la que-stione settentrionale emerge anche e soprattuttoattraverso un processo di erosione dal bassodella sovranità nazionale – la cosiddetta devolu-zione che si esprime nel ridisegno federalistadello Stato unitario – è altrettanto vero che iprocessi di globalizzazione e di integrazione eu-ropea giocano un ruolo altrettanto importante. L’Unione Europea non solo attribuisce unasempre maggiore responsabilità e autonomia– nonché i relativi finanziamenti – alle re-gioni a discapito dell’amministrazione cen-trale, ma svolge altresì un ruolo attivo nel ri-disegnare la geografia dell’Europa unificata:sia per il tramite di grandi progettualità infra-strutturali, sia attraverso la formulazione diprogrammi di cooperazione interregionale. In-dubbiamente, il processo di unificazione eu-ropea ha comportato la cessione di quote disovranità, per esempio in campo commercialee monetario, a una scala sovranazionale e,contemporaneamente, ha elevato le ammini-strazioni locali e regionali al rango di attori«con portafoglio». Nella nostra prospettivaassume rilevanza il fatto che l’Unione incen-tivi e privilegi, vincolandovi parte dei fondistrutturali, la formazione di macro-regioni siatransfrontaliere in senso stretto (come nei pro-grammi bilaterali Piemonte-Rhône-Alpes o

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gioni del Nord si proiettano strategicamentesullo spazio europeo, selezionando e privile-giando quelle relazioni in grado di realizzare larappresentazione che i diversi territori hanno disé stessi. Dall’altro lato, prenderemo in esamele relazioni che le regioni settentrionali man-tengono con le comunità di italiani residenti al-l’estero e le pratiche di cooperazione decen-trata con paesi in via di sviluppo gestite diret-tamente dagli enti locali. Queste due forme direlazionalità – la progettualità europea e la co-operazione internazionale – si differenzianoprofondamente dalle generiche attività di inter-nazionalizzazione commerciale e produttiva:mentre quest’ultima, spesso delegata a organi-smi ad hoc e a partenariati pubblico-privati, as-sume come attori centrali le imprese e circo-scrive il ruolo dei governi locali a una funzionedi mediazione e supporto, le attività di coope-razione decentrata e le relazioni con le comu-nità regionali all’estero sono spesso «centraliz-zate» presso le amministrazioni locali. In que-sta maniera esse diventano uno strumento fon-damentale con cui le amministrazioni regionalisi proiettano al di fuori dei propri confini, inuno scenario in cui elementi storici, culturali,geografici, identitari, economici e politici simescolano sino a divenire pressoché indistin-guibili. In particolare, la cooperazione interre-gionale europea, i legami con le comunità diemigranti e le politiche di cooperazione allosviluppo interagiscono tra loro definendo unavera a propria «politica estera» delle regionidel Nord. Si tratterà in secondo luogo di verifi-care se e in quale misura si possa parlare diuna proiezione internazionale del Nord inquanto tale o se non ci si trovi invece di frontea una molteplicità di strategie e di interessi checonnotano l’azione delle singole regioni o diraggruppamenti di regioni.

2. Programmi europei e cooperazione interre-gionale nel Nord Italia

Se incentriamo la nostra attenzione sulla co-operazione interregionale promossa dall’U-nione Europea, e osserviamo i dati relativi allapartecipazione delle regioni del Nord a pro-getti finanziati nell’ambito della cooperazionetransnazionale prevista dai fondi strutturali peril periodo 2007-2013, possiamo evincere al-cuni dati di indubbio interesse (fig. 7). Con ri-ferimento ai quattro programmi che interes-sano le regioni dell’Italia Settentrionale (Al-pine Space, Med, Central Europe e South-EastEurope), dal 2007 a oggi sono stati approvaticomplessivamente 144 progetti, dei quali ben87 vedono la partecipazione di almeno una re-gione del Nord. Al di là del dato medio, la par-tecipazione settentrionale alla progettualità eu-ropea presenta una geografia quanto mai com-plessa. Il primo dato che emerge è che le treprincipali regioni del Nord (Piemonte, Lom-bardia e Veneto) hanno presentato un numeroanalogo di progetti (rispettivamente 32 il Pie-monte e 30 le altre due regioni). Al tempostesso, va osservato che questa «potenza difuoco» progettuale persegue obiettivi e strate-gie diverse. L’esclusione del Piemonte dallapartecipazione ai progetti relativi al pro-gramma South-East Europe fa sì che la regionesubalpina concentri la propria attenzione so-prattutto sullo Spazio Alpino. Per contro, il Ve-neto sembra investire una parte cospicua delleproprie risorse progettuali proprio sulla macro-regione sud-orientale dello spazio europeo. Un secondo elemento utile per valutare il posi-zionamento delle regioni settentrionali nelle di-namiche contemporanee di regionalizzazioneeuropea è dato da quella che potremmo definirel’intensità relazionale, ovvero il numero di rela-

42 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

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zioni bilaterali con altre regioni europee chesono attivate attraverso la partecipazione a pro-getti comunitari. Il dato che emerge con evi-denza dalla figura 8 è che le regioni del Nord-ovest presentano una minore intensità relazio-nale rispetto a quelle del Nordest. Questo ele-mento è particolarmente significativo per il Pie-monte: sebbene sia la regione con il maggiornumero di partecipazioni a progetti, i 32 progetti«piemontesi» implicano l’attivazione di circa128 relazioni contro le 137 della Lombardia e le156 del Veneto. Addirittura il Friuli-VeneziaGiulia, con appena 11 progetti, attiva oltre 60relazioni bilaterali. Ovviamente, la minore in-tensità relazionale non implica alcun giudizio dimerito: addirittura la minore presenza di part-ners in un progetto potrebbe essere un indice di

«serietà» e di compattezza del partenariato.Semplicemente, ciò che emerge è che le regionidel Nordest sembrano essere maggiormente ingrado di utilizzare la programmazione europeaper dispiegare una rete relazionale.Per quanto riguarda la centralità del Norditaliano nello spazio relazionale europeo cheva tracciandosi, è indubbio che la macrore-gione alpina rappresenti lo spazio privile-giato di integrazione: tanto nella program-mazione precedente (2000-2006) quanto inquella corrente, non c’è progetto approvatonel quadro programmatico di Alpine Spaceche non veda la partecipazione di almenouna regione italiana, mentre la partecipa-zione delle regioni del Nord si attesta al 60%circa per i due nuovi programmi Central Eu-

Scenari italiani 2010 43

Fig. 7 – I programmi dell’Obiettivo 3A riguardanti l’Italia nel periodo 2007-2013.

Fonte: http://ec.europa.eu.

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44 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

Il quadro istituzionale della regionalizzazione europea

La politica di coesione rappresenta la seconda voce di spesa del bilancio comunitario ed è costituita daazioni che si propongono di ridurre gli squilibri economici e sociali nell’ambito del territorio comuni-tario, attraverso lo strumento dei fondi strutturali. La sua azione si esercita nel quadro di determinati«periodi di programmazione» pluriennali, entro i quali le diverse iniziative vengono concentrate su de-terminati «Obiettivi prioritari».Nel corrente periodo di programmazione 2007-2013, gli Obiettivi sono stati riorganizzati, accorpandoi due vecchi Obiettivi territoriali 1 e 2 nel nuovo Obiettivo 1, denominato «Convergenza», trasfor-mando il vecchio Obiettivo 3 (tematico) nel nuovo Obiettivo 2, «Competitività e occupazione», e intro-ducendo un nuovo Obiettivo 3, «Cooperazione territoriale». Il nuovo Obiettivo 1 non interessa nessunaregione dell’Italia settentrionale, ma soltanto quelle del Mezzogiorno (Campania, Puglia, Basilicata,Calabria e Sicilia); il nuovo Obiettivo 2 non è di natura territoriale ma tematica (è indirizzato al soste-gno del mercato del lavoro) e riguarda pertanto tutto il territorio nazionale; il nuovo Obiettivo 3, seb-bene a esso sia dedicata soltanto una piccola quota del totale degli stanziamenti per le politiche di co-esione nel periodo in questione (circa il 5%), è di particolare interesse ai nostri fini: presentando unaproiezione marcatamente territoriale, consente di mettere in luce il punto di vista delle istituzioni co-munitarie sulla collocazione dell’Italia (e in particolare del Nord) nello scenario continentale. Esso riprende la più significativa fra le iniziative comunitarie sviluppate nei precedenti periodi di pro-grammazione (Interreg) e si articola in tre ambiti di intervento, denominati A, B e C. Il primo è dedi-cato alla cooperazione transfrontaliera, e promuove l’integrazione fra regioni confinanti di diversipaesi membri; il secondo è indirizzato al sostegno della cooperazione transnazionale, cioè fra ampiezone del territorio comunitario appartenenti a diversi paesi; il terzo riguarda la cooperazione interre-gionale, cioè fra regioni non necessariamente confinanti, per lo scambio di esperienze e la condivisionedi un processo di apprendimento collettivo circa le tematiche dello sviluppo regionale. Come si osservanella figura 7, l’Obiettivo 3A interessa tutte le regioni dell’Italia settentrionale: in particolare, il Nordè coinvolto in 5 dei 52 programmi attivati a livello comunitario, riguardanti la cooperazione con le re-gioni limitrofe di Francia (due programmi), Svizzera, Austria e Slovenia.Di particolare interesse è poi il coinvolgimento del Nord nelle aree di cooperazione transnazionaledefinite nell’ambito dell’Obiettivo 3B. Si tratta di 13 macroaree, le quali presentano evidenti so-vrapposizioni: infatti, l’Italia settentrionale è interessata da quattro aree, e specificamente lo Spa-zio alpino, l’Europa centrale, il Mediterraneo e l’Europa sud-orientale. Come si osserva nella figura8, lo Spazio Alpino comprende tutte le regioni del Nord tranne l’Emilia-Romagna e corrisponde,approssimativamente, alla macroregione transnazionale dell’Arco alpino; l’area del Mediterraneocomprende tutte le regioni dell’Italia settentrionale con l’eccezione di quelle a maggiore caratteriz-zazione alpina, vale a dire la Valle d’Aosta e il Trentino-Alto Adige; l’Europa centrale include in-vece tutte le regioni del Nord, mentre l’Europa sud-orientale esclude le regioni italiane più occiden-tali, Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. La programmazione europea in materia di cooperazione interregionale prevede altresì le Euroregioni,ovvero spazi macroregionali definiti tramite un processo di istituzionalizzazione «dal basso» promossadai governi regionali. Sebbene la programmazione interregionale dell’UE sia qualcosa di differente ri-spetto alla creazione di un’Euroregione, i legami tra le due forma di regionalizzazione sono evidenti,non foss’altro perché i partenariati posti in essere per partecipare ai programmi degli Obiettivi 3A e3B valgono come occasione per l’elaborazione di progettualità condivise. Ora, la presenza di un’Euro-regione fa sì che sia più facile organizzare un partenariato che partecipi alle selezioni della program-mazione europea.

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rope e South-East Europe e scende al 40%per il programma Med. Questo dato si spiegacon la geografia propria dei diversi pro-grammi: mentre Spazio Alpino e EuropaCentrale si identificano, nella loro compo-nente italiana, con il Nord tout court – a ec-cezione dell’Emilia-Romagna nel caso di Al-pine Space – gli altri programmi compren-dono, per ovvie ragioni, anche regioni nonsettentrionali, creando una sorta di competi-zione tra regioni italiane, da sempre unadelle caratteristiche peculiari della «geopoli-tica» dei bandi e dei programmi europei.Da questo primo ragionamento emergono dueordini di considerazioni. La prima è che le

strategie attuate dalle regioni del Nord nonsembrano disegnare uno spazio coeso e omo-geneo: mentre il Nord-ovest sembra maggior-mente radicato nello Spazio Alpino e nel Me-diterraneo, il Nordest risulta maggiormenteproiettato verso l’Europa Sud-orientale. Laseconda conclusione parziale è che la colloca-zione del Nord in due fondamentali spazi stra-tegici come quello mediterraneo e quello bal-canico non può prescindere dalle alleanze chesi stabiliscono con altre regioni italiane. Suquesti due temi torneremo nelle conclusioni.Prima, però, ci sembra opportuno analizzare indettaglio con quali paesi europei le regioni delNord stabiliscono relazioni privilegiate.

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South-East Europe

Central Europe

Alpine Space

Med

Fig. 8 – Partecipazione delle regioni settentrionali a programmi di cooperazione interregionaledell’UE (fondi strutturali 2007-2013).

Fonte: nostre elaborazioni su dati UE.Note: la Valle d’Aosta non compare in quanto i suoi 11 progetti investono esclusivamente lo Spazio Alpino.

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3. Dalle Alpi ai Balcani: un nuovo baricentroper il Nordest?

Nell’interrogare la geografia del Nord che iprogrammi di cooperazione interregionale eu-ropei stanno disegnando, possiamo conside-rare due aspetti strettamente connessi tra loro:le implicazioni dell’allargamento a Est dell’U-nione nel ridefinire gli equilibri relazionalidelle regioni settentrionali e la geografia dellereti di diversa ampiezza e portata che i pro-getti vanno disegnando. Un primo elemento di interesse è senza dubbioil passaggio dalla programmazione interregio-nale pre-allargamento alla definizione di aree dicooperazione transnazionale in un contesto in

46 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

cui l’Europa centro-orientale è pienamente inte-grata, almeno dal punto di vista formale, nellospazio europeo. Elemento di centrale impor-tanza è infatti la definizione di due nuovi pro-grammi che interessano in misura preponde-rante il Nord Italia, ovvero Central e South-EastEurope. È interessante, in particolare, notarecome lo spazio identificato da questi due nuoviprogrammi, che investono e modificano le rela-zioni tra Europea occidentale e orientale, costi-tuisca una sorta di «variazione sul tema» ri-spetto allo spazio alpino quale si era consolidatoin precedenza. I due nuovi programmi giocanosia in «levare», sia in aggiungere, proiettandoquesti spazi interregionali verso est e ampliandole possibilità di interazione con le regioni tede-

Fig. 9 – Intensità progettuale e intensità relazionale delle regioni settentrionali dal 2007 al 2009.

Fonte: nostra elaborazione su dati UE.

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progetti dal 2007relazioni attivate

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sche (solamente quattro delle quali sono pre-senti anche in Alpine Space), ma anche ridimen-sionando il ruolo della Francia e della Svizzera,escluse da entrambi. D’altra parte, la non eleggi-bilità del Piemonte nel programma South-EastEurope, esclude questa regione dalla possibilitàdi utilizzare la programmazione strutturale inter-regionale come leva per la sua attenzione versoimportanti territori balcanici, conferendo aLombardia e Veneto una sorta di vantaggiocompetitivo (non dimentichiamo che Bulgaria eRomania svolgono un ruolo centrale nei pro-cessi di delocalizzazione manifatturiera). Inol-tre, Austria e Slovenia, due paesi-chiave nellaprogettualità alpina, sono presenti in entrambi inuovi programmi proiettati a est.Questi elementi ci inducono a sostenere comeplausibile l’ipotesi di un effetto sostituzione, peralcune regioni del Nord, tra la progettualità al-pina in senso stretto e la progettualità centroeu-ropea e balcanica. La tabella 1 evidenzia come

Scenari italiani 2010 47

tra i due periodi di programmazione (2001-2006e 2007-2013) le regioni del Nord-ovest abbianoprogressivamente intensificato la loro partecipa-zione – con la sola eccezione della Liguria, piùimpegnata nel Programme Med – mentre le au-torità locali del Nordest sembrano caratterizzarsiper un progressivo spostamento del proprio ba-ricentro: sia il Friuli-Venezia Giulia sia il Venetosembrano aver eletto South-East Europe come ilprogramma egemone (fig. 10).Sebbene i paesi dello Spazio Alpino siano, intermini assoluti, i principali partners delle re-gioni settentrionali, è possibile osservare comel’apertura a est abbia modificato profonda-mente la geografia delle relazioni tra le re-gioni del Nord e lo spazio europeo (fig. 10). Ildato che emerge è strettamente legato a quantoabbiamo osservato in precedenza a propositodelle differenze nell’intensità relazionale chedifferenziano il Nord-ovest dal Nordest. Il75% delle relazioni del Piemonte, per esem-

Alpine Space(2001-2006)

%Alpine Space(2007-2013)

%

Piemonte 29 51% 17 68%

Liguria 13 23% 2 8%

Valle d’Aosta 18 32% 11 44%

Lombardia 24 42% 15 60%

Veneto 26 46% 10 40%

Trentino-Alto Adige 37 65% 13 52%

Friuli-Venezia Giulia 22 39% 4 16%

Progetti approvati conpartners italiani

57 100% 25 100%

Tab. 1 – La partecipazione delle regioni del Nord alla cooperazione interregionale alpina..

Fonte: nostre elaborazioni su dati UE.

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pio, è indirizzato verso i paesi che tradizional-mente definiscono il nucleo storico della pro-gettualità europea interregionale, in partico-lare dello Spazio Alpino (Austria, Germania,Slovenia, Francia e Svizzera), percentuale chesale al 100% dell’attività progettuale valdo-stana, per scendere al 63% della Liguria (dovela relazionalità si dispiega prevalentemente ascala mediterranea) e al 59% in Lombardia.Man mano che ci si muove verso il Nordest, siassiste a una significativa crescita delle rela-zioni di cooperazione verso oriente. Il 40% diquelle venete investe i paesi balcanici e quellidell’Europa centro-orientale, percentuale chesale a oltre il 50% per Friuli-Venezia Giulia edEmilia-Romagna. Questa geografia è indubbiamente influenzata

48 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

dai vincoli istituzionali posti dalla program-mazione europea (per esempio l’esclusione diPiemonte, Liguria e Valle d’Aosta dal pro-gramma South-East Europe o della Lombardiada Spazio Alpino). Ciò nonostante, le tendenzedi massima – come la maggiore propensionedel Piemonte rispetto a Lombardia e Veneto acooperare con Francia e Germania o la gravi-tazione a est delle regioni della Terza Italia –sono leggibili chiaramente. Mentre il Nord-ovest sembra aver utilizzato le occasioni of-ferte dalla programmazione europea per con-solidare il proprio radicamento nello spazio al-pino, il Nordest ha privilegiato una colloca-zione orientale/balcanica. L’unica eccezionerilevante è data dal Trentino-Alto Adige che,tanto per la sua storia quanto per la sua geo-

Fig. 10 – Intensità relazionale delle regioni del Nord nello spazio europeo.

Fonte: elaborazioni su dati UE.Note: la Valle d’Aosta non compare in quanto i suoi 11 progetti investono esclusivamente lo Spazio Alpino.

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Grecia-Spagna

Balcani

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Germania-Francia-Svizzera

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grafia, sembra proiettarsi quasi esclusiva-mente nello spazio alpino. Si noti, infine, ilcomportamento della Lombardia, che sembrastrategicamente orientata a giocare la sua rela-zionalità su tutti i tavoli della regionalizza-zione europea – ma su questo, e sul suo poten-ziale ruolo di cerniera tra Nord-ovest e Nord-est, torneremo in seguito.

4. Il Nord oltre l’Europa: tra emigrazione ecooperazione

Passiamo ora a considerare la politica di coope-razione a medio e lungo raggio. Il rafforzamentodelle amministrazioni regionali del Nord comeveri e propri soggetti di «politica estera» è evi-dente sin da una prima ricognizione dell’archi-tettura istituzionale. La Regione Piemonte, peresempio, vede la presenza di un settore dedicatoagli Affari Internazionali che dipende diretta-mente dal Governatore. Lo stesso si verifica peril Friuli-Venezia Giulia e per il Trentino-AltoAdige (dove la Cooperazione e gli Aiuti Umani-tari fanno capo all’Ufficio per l’IntegrazioneEuropea), mentre le Province Autonome diTrento e Bolzano unificano le attività che ri-guardano l’emigrazione trentina nel mondo equelle relative alla cooperazione decentrata. Nelcaso del Veneto e della Lombardia l’integra-zione tra le diverse attività di internazionalizza-zione è ancora più marcata.Emerge dunque con evidenza la netta propen-sione delle regioni settentrionali a proiettarsial di fuori dei propri confini regionali e a ge-stire l’internazionalizzazione delle proprie at-tività in modo integrato. In questa prospettiva,occorre prestare maggiore attenzione proprioai due rimanenti pilastri di questa politicaestera, ovvero i rapporti con le comunità re-

Scenari italiani 2010 49

gionali residenti all’estero e le attività di co-operazione decentrata allo sviluppo. Per quanto riguarda il primo tema, ciò che ciinteressa rilevare è che l’Italia fuori dell’Italia– un vero e proprio paese di circa 60 milionidi oriundi e discendenti di emigranti – rappre-senta un elemento imprescindibile nel pro-cesso di internazionalizzazione delle regioni,in primis proprio di quelle settentrionali. Nelmomento in cui il Nord si proietta su scalesempre più ampie e complesse, i legami storicitra terre di emigrazione e terre di immigra-zione rappresentano una sorta di capitale so-ciale dai significati e dalle implicazioni molte-plici che spaziano dalla dimensione culturale eidentitaria a quella economica e politica.La lettura degli archivi AIRE (Anagrafe degliItaliani Residenti all’Estero) fa infatti emer-gere alcuni elementi significativi. Secondo idati della Fondazione Migrantes, nell’aprile2009 risultano residenti all’estero quasi 4 mi-lioni di cittadini italiani, oltre la metà dei qualiconcentrati nei cinque principali paesi storica-mente oggetto di emigrazione: Germania, Ar-gentina, Svizzera, Francia e Brasile. Circa unterzo di questi provengono da regioni delNord, soprattutto da Lombardia e Veneto. Ilprimo dato significativo è che siamo di frontea una geografia dei flussi che differenzia chia-ramente il Nord dal resto del paese (tab. 2).Possiamo notare, in particolare, come l’emigra-zione settentrionale si sia storicamente orientataverso l’America Latina – soprattutto Argentinae Brasile – e verso la Svizzera e la Francia perquanto riguarda l’Europa. Un secondo dato è lapresenza di numerose differenze interne allospazio settentrionale: se l’Argentina è la princi-pale destinazione sudamericana per la quasi to-talità delle regioni italiane, è altrettanto veroche esiste un rapporto privilegiato con il Pie-

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monte. Un terzo degli iscritti AIRE piemontesirisiede infatti in Argentina, mentre un terzo deisettentrionali residenti nel paese latinoameri-cano è di origine piemontese. Per contro, l’emi-grazione veneta si concentra storicamente inBrasile, dove il 56% dei residenti di originenorditaliana ha ascendenze venete. Il Nord in-trattiene inoltre relazioni privilegiate con alcunialtri paesi latinoamericani: la metà circa degliitaliani residenti in Uruguay è di origine setten-trionale e quasi un terzo degli italiani in Cile èdi origine ligure.Questa geografia dei flussi si rispecchia piena-mente nella distribuzione dell’associazionismodi matrice regionale: quasi l’80% di quello diascendenza piemontese e quasi il 70% di quellotrentino si concentrano in America Latina, in

50 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

particolare in Argentina. Questa caratteristica as-sume un’importanza considerevole se pensatanel contesto di una «politica estera regionale»del Nord. Così, l’Associazione Trentini nelMondo figura spesso come partner della Provin-cia Autonoma di Trento nei progetti di coopera-zione decentrata, soprattutto in Argentina, maanche in Brasile, Cile e Uruguay. Lo stesso di-casi per la Regione Piemonte, che ha concen-trato i propri investimenti in Argentina e in Bra-sile, proprio nelle aree dove maggiore è la pre-senza di comunità di origine italiana. Ancora, èinteressante notare le politiche di cooperazionedecentrata del Veneto: nel biennio 2004-2005, il60% dei progetti finanziati in America Latina èstato gestito in prima persona dall’attore regio-nale, a conferma della centralità delle relazioni

Piemonte Lombardia LiguriaTrentino-

A. A.Veneto Friuli-V.G.

Emilia-Romagna

Nord Italia % Nord

Germania 8.794 16.281 4.520 15.924 20.015 9.031 7.058 81.623 616.407 13,2%

4,7% 5,6% 4,6% 26,3% 7,3% 6,4% 5,6% 6,9% 15,7%

Argentina 58.849 36.422 14.579 5.152 34.452 28.804 18.403 196.661 593.520 33,1%

31,5% 12,5% 14,9% 8,5% 12,6% 20,6% 14,7% 16,7% 15,2%

Svizzera 20.923 78.066 6.155 12.631 38.934 16.326 16.522 189.557 520.713 36,4%

11,2% 26,8% 6,3% 20,9% 14,3% 11,7% 13,2% 16,1% 13,3%

Francia 18.655 22.591 8.961 2.197 23.950 19.377 12.723 108.454 358.541 30,2%

10,0% 7,8% 9,2% 3,6% 8,8% 13,8% 10,2% 9,2% 9,2%

Brasile 6.182 22.101 2.226 2.565 62.132 5.322 9.354 109.882 263.700 41,7%

3,3% 7,6% 2,3% 4,2% 22,8% 3,8% 7,5% 9,4% 6,7%

USA 6.714 13.758 4.274 1.599 7.754 4.078 5.976 44.153 205.886 21,4%

3,6% 4,7% 4,4% 2,6% 2,8% 2,9% 4,8% 3,8% 5,3%

Totale 186.820 291.476 97.733 60.516 272.963 140.064 125.316 1.174.888 3.915.767 30,0%

Fonte: nostra elaborazione su dati AIRE.

Tab. 2 – Cittadini italiani di origine settentrionale residenti all’estero (aprile 2009).

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con i luoghi della migrazione veneta nel mondo. Un elemento che occorre tenere in considera-zione riguarda, in particolare, l’internazionaliz-zazione commerciale e produttiva. Sebbene que-sta si dispieghi attraverso canali largamente au-tonomi, c’è un ampio spazio di sovrapposizionecon i pilastri della paradiplomazia regionaleconsiderati. Si tratta di un fenomeno ben noto,soprattutto in riferimento alla delocalizzazionemanifatturiera delle regioni del Nordest, conl’avvio di progetti settoriali a sostegno della pre-senza di imprese italiane, ma mostra anche unachiara connessione con la presenza di emigratidi origine italiana in America Latina. In alcunicasi (come per l’Associazione Veneti nel Mondoo l’Associazione Italiani in Brasile), le associa-zioni di emigrati italiani assumono esplicita-mente una funzione di mediatori e facilitatoriper le imprese italiane interessate a investire al-l’estero. Ancora più evidente è il caso dell’Ar-gentina, dove la presenza di investimenti italianirisale agli anni immediatamente successivi aldopoguerra e dove opera un’associazione di im-prenditori italo-argentini. Il caso piemontese èanche qui indicativo: tanto in Argentina quantoin Brasile, cooperazione decentrata, presenza dicomunità di emigrati e scelte localizzative delleimprese, la FIAT ma anche Lavazza e Ferreronel caso brasiliano, fanno sì che determinate re-gioni – rispettivamente la Provincia di Córdobae il Minas Gerais – stabiliscano rapporti privile-giati con il Nord, formando reti ad ampio raggio.

5. Una «politica estera» centrifuga

Dall’esame della progettualità espressa dalle re-gioni italiane nell’ambito della programma-zione europea, emerge dunque con chiarezzache non sembra esistere una «politica estera»

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comune al Nord Italia. Ogni regione, infatti,proietta una propria immagine nello spazio eu-ropeo, che è funzionale al conseguimento distrategie e obiettivi che le sono propri e, percerti versi, esclusivi. Il Piemonte, come si è vi-sto, appare fortemente orientato verso l’assefranco-tedesco e, in misura minore, versoquello austriaco-sloveno. Per contro, le regionidel Nordest, in primis Veneto e Friuli-VeneziaGiulia, sembrano aver colto le opportunità of-ferte dall’allargamento a Est dell’Unione Euro-pea, proiettando le proprie strategie comunita-rie verso i paesi dei Balcani e dell’Europa cen-tro-orientale. È interessante notare come i com-portamenti e le strategie attuate dalla RegioneEmilia-Romagna siano sostanzialmente co-erenti con quelle del Nordest in senso stretto,delineando un’immagine complessiva che ri-corda la ben nota metafora della Terza Italia.In questa prospettiva, è legittimo affermare chela programmazione interregionale dell’UnioneEuropea ha svolto un ruolo disgregante più cheunificante rispetto alle dinamiche interne alNord italiano. Con la definizione burocratica erigida delle regioni che rientrano nei diversi pro-grammi – escludendo per esempio il Piemonte,ma non la Lombardia, dal South-East Europe –le politiche dell’Unione Europea finiscono conl’influenzare le geografie dello spazio europeonel suo divenire. Le Euroregioni – di cui l’Ap-pendice offre una sintetica descrizione – pos-sono così essere assunte come la cartina al tor-nasole di un processo di disarticolazione e riarti-colazione del Nord Italia che sfugge – e almenoparzialmente contraddice – i discorsi sulla mo-noliticità della questione settentrionale.Non siamo ovviamente di fronte a una sorta di«determinismo istituzionale». Più corretta-mente, è possibile affermare che il quadro nor-mativo comunitario finisce per amplificare

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tendenze profondamente radicate nelle scelte enelle strategie delle regioni settentrionali. Èquesta l’indicazione che deriva dalla presa incarico di entrambe le leve della «politicaestera» regionale del Nord, la partecipazione aprogrammi comunitari e le politiche decen-trate di cooperazione allo sviluppo. Da que-st’immagine emerge, infatti, come la proie-zione del Nordest verso i Balcani e l’Europacentro-orientale rispecchi tendenze e strategieben più profonde che attingono a una vera epropria auto-rappresentazione della propriacollocazione sullo scenario internazionale. Inquesto senso, l’orientamento a est di Veneto,Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e, inparte, Lombardia appare coerente con l’ampialetteratura che ci ha raccontato in questi annidella dissoluzione della coesione distrettuale edella delocalizzazione dalla Terza Italia versola Romania e la Bulgaria. Analogamente, irapporti privilegiati che il Piemonte intrattienecon paesi sudamericani, come il Brasile el’Argentina, o con la Polonia a est sono partedi una storia più antica e complessa che attra-verso l’autonomia regionale è oggi ripresa enuovamente tessuta.Quali prospettive emergono dunque dalle «po-litiche estere» regionali per la macroregioneNord? Per rispondere a questa domanda oc-corre chiedersi se la progettualità legata alleeuroregioni segni una rottura insanabile ri-spetto all’emergere della questione settentrio-nale a scala nazionale oppure se sia possibileuna ricomposizione tra le dinamiche internealla scala settentrionale e quelle più estrover-tite proprie dell’internazionalizzazione. Tro-

vare questa risposta esula ovviamente daicompiti che questo discorso sul Nord si è po-sto. Ci sembra tuttavia opportuno sottolinearecome vi siano tre aree chiave su cui si gioca lapartita. La prima è data dalle relazioni di co-operazione tra regioni del Nord: spesso la par-tecipazione a progetti di cooperazione europeae transcontinentale fa sì che più regioni setten-trionali si trovino a collaborare per un finecondiviso.Potenzialmente, questa collaborazione puòfungere da elemento di raccordo per la defini-zione di obiettivi e di strategie comuni,creando una consuetudine nella condivisionedei processi decisionali che può, almeno inparte, compensare le tendenze centrifughe evi-denziate in questo capitolo. La seconda postain gioco, strettamente collegata alla prima,consiste nel ruolo che la Lombardia può svol-gere in questo processo. La natura ibrida dellasua organizzazione sociale e produttiva, a ca-vallo tra Nord-ovest e Nordest, appare piena-mente confermata. La «politica estera» dellaLombardia appare, infatti, attenta a mantenereun equilibrio tra le diverse scale dell’interna-zionalizzazione, conservando un chiaro radi-camento nell’Europa occidentale. La terzaquestione, infine, attiene ai rapporti con le al-tre regioni italiane: nel momento in cui sipassa da una progettualità strettamente alpinaa centroeuropea – e soprattutto nel momentoin cui il Mediterraneo incontra le Alpi – le«politiche estere» del Nord devono necessa-riamente confrontarsi con il tema della coope-razione/competizione con le regioni esterneallo spazio settentrionale, coinvolgendo lospazio mediterraneo.

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va è senza dubbio la costituzione, attraversola firma del relativo protocollo d’intesa (lu-glio 2007), della Euroregione Alpi-Mediter-raneo, che riunisce le regioni italiane Pie-monte, Liguria e Valle d’Aosta e quelle fran-cesi Rhône-Alpes e PACA (Provence-Alpes-Côte d’Azur) (fig. 11).Essa presenta due principali valenze. La pri-ma riguarda naturalmente la cooperazione el’integrazione territoriale fra le cinque regio-ni e si sviluppa in cinque ambiti tematici, laresponsabilità di ciascuno dei quali è attribui-ta a una delle cinque regioni partecipanti: in-novazione e ricerca (PACA), trasporti e ac-cessibilità (Piemonte), turismo e cultura (Li-guria), istruzione e formazione (Valle d’Ao-sta), ambiente, prevenzione dei rischi e svi-luppo sostenibile (Rhône-Alpes). La secondasi riferisce alle relazioni dell’Euroregionecon il resto del territorio europeo: essa, infat-ti, conta una popolazione di circa 17 milionidi abitanti, e vanta un’organizzazione econo-mica ampia e diversificata con una solida ba-se industriale (in particolare a Torino, Lionee Saint-Etienne), una fiorente economia turi-stica (Costa Azzurra, Liguria, Valle d’Aosta),una presenza pervasiva di attività tecnologi-che (il polo scientifico-universitario di Gre-noble e la «cittadella della scienza» di SophiaAntipolis), e due fra i maggiori porti del Me-diterraneo (Marsiglia e Genova). Inoltre essasi colloca in una posizione geografica salda-mente ancorata al cuore europeo e affacciatasul Mediterraneo, e può essere vista pertantocome area di «cerniera» tra Europa continen-tale e Mediterraneo: a conferma di ciò va ri-cordato, per esempio, come il territorio del-

1. L’Euroregione Alpi-Mediterraneo comecerniera geografica e spazio di integrazioneterritoriale

Da quasi trent’anni le regioni più occidentalidell’Italia settentrionale sono coinvolte in pro-cessi di cooperazione e integrazione con i ter-ritori limitrofi di Francia e Svizzera. Per esem-pio, già nel 1982 si registra la costituzione del-la COTRAO (Communauté de Travail des Al-pes Occidentales), finalizzata alla cooperazio-ne transfrontaliera italo-franco-svizzera (inparticolare fra le regioni italiane del Piemonte,della Liguria e della Valle d’Aosta, quellefrancesi di Rhône-Alpes e Provence-Alpes-Côte d’Azur, i cantoni svizzeri di Ginevra, delVallese e del Vaud). Nella stessa direzioneprende avvio, nel 1988, l’esperienza del «Dia-mante alpino», ovvero l’accordo di coopera-zione fra le città di Torino, Lione e Ginevra. Se queste due iniziative hanno esaurito il lororuolo intorno alla fine degli anni Novanta, giànel 2000 si ha la costituzione della CAFI, (As-sociazione della Conferenza delle Alpi Fran-co-Italiane), che riunisce le province italianedi Torino, Cuneo e Imperia, la Regione auto-noma Valle d’Aosta e i dipartimenti francesiAlpes-Maritimes, Alpes de Haute-Provence,Hautes-Alpes, Isère, Savoie e Haute-Savoie,con la finalità di realizzare una nuova politicaattiva di cooperazione transfrontaliera.Se queste esperienze appaiono orientate ver-so l’integrazione transfrontaliera, nel corsodell’ultimo decennio si sono affermate ini-ziative che hanno introdotto, accanto a quel-la alpina, una prospettiva mediterranea. Inquesta direzione, l’iniziativa più significati-

AppendiceLe euroregioni: verso una possibile riarticolazione territoriale del Nord

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l’Euroregione sia interessato dal progetto 24del programma TEN-T (Trans European Net-work-Transport), relativo all’asse di collega-mento ferroviario tra il Mediterraneo e il Ma-re del Nord.Nonostante la sua breve storia, l’EuroregioneAlpi-Mediterraneo sembra pertanto destinata a

svolgere un ruolo di primaria importanza neiprocessi di cooperazione e integrazione trans-frontaliera delle regioni dell’Italia settentrio-nale, svolgendo un ruolo in parte simile (egeograficamente simmetrico) a quello dellapiù consolidata esperienza della Comunità dilavoro Alpe-Adria.

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Fig. 11 – L’Euroregione Alpi-Mediterraneo.

Fonte: http://ec.europa.eu.

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2. Trentino-Alto Adige/Südtirol: fuga versol’Europa

Il Trentino-Alto Adige/Südtirol rappresenta unarealtà territoriale periferica rispetto ai principalipoli padani, ma non per questo marginale, inquanto dotato di una propria identità politico-istituzionale ed economica. Terra di confine e ditransito, negli ultimi decenni è riuscita a rag-giungere livelli ragguardevoli di sviluppo, attra-verso un peculiare percorso di crescita endoge-na. Fattore determinante di questa svolta è statosicuramente lo status politico-istituzionale diProvince a statuto speciale. L’autonomia, oltreche una valida tutela delle minoranze etnico-lin-guistiche, ha rappresentato una sorta di applica-zione anticipata del principio comunitario dellasussidiarietà, consentendo di implementare for-me di autogoverno capaci di costruire, nel tem-po, efficaci strutture di governance, fondate suconsolidate tradizioni locali di partecipazione.L’ampia disponibilità finanziaria delle due pro-vince, derivante dalla diretta gestione della qua-si totalità del gettito fiscale locale, ha garantitole risorse necessarie per l’ammodernamento in-frastrutturale e la predisposizione di un com-plesso apparato pubblico a servizio sia della so-cietà sia dell’economia.Questa capacità di auto-organizzazione si ètradotta altresì nell’istituzione dell’Euroregio-ne (fig. 12) tirolese per la cooperazione trans-frontaliera con il Land austriaco del Tirolo(1995). Per quanto si possa discutere della va-lidità delle sue motivazioni politiche (fra cui laricomposizione del Tirolo asburgico, le cui ra-dici risalirebbero peraltro ai principati vesco-vili del Sacro Romano Impero dell’XI secoloe alla Contea del Tirolo del XIII secolo), la re-gione transfrontaliera pare rappresentare, difatto, un’opportunità decisiva per raggiungeresignificative economie di scala e di varietànelle dotazioni funzionali di entrambe le pro-

vince italiane, integrandole ad altre strutture erisorse di portata non solo regionale. In questosenso, l’Euroregione può essere consideratauno strumento di coesione territoriale, di cre-scita del benessere delle popolazioni residentie della competitività dei sistemi economici re-gionali: il confine da limite diventa così op-portunità. In tal senso, nonostante che lo Statoitaliano non abbia ancora ratificato i protocolliaggiuntivi (1995 e 1998) della Convenzione diMadrid, limitandone di fatto la capacità opera-tiva, l’Euroregione tirolese è comunque riusci-ta a conseguire alcuni significativi risultati. Nella seduta del 29 ottobre 2010, il DreierLandtag (il Consiglio congiunto delle tre As-semblee legislative) ha deliberato di procedereall’istituzione di un GECT, Gruppo Europeodi Cooperazione Territoriale (un nuovo stru-mento comunitario, in vigore dal 2007), checonsente alle diverse autorità territoriali, maanche ad altri organismi di diritto pubblico eassociazioni private, appartenenti a paesi di-versi, di cui uno almeno dell’Unione Europea,di istituire soggetti di cooperazione transfron-taliera dotati di propria personalità giuridica.In virtù di questa titolarità, pertanto, i GECTpossono consentire agli enti territoriali interes-sati di giocare un ruolo paragonabile a quellodegli Stati nazionali, secondo forme di gover-nance multilivello più agevolmente adattabilia contesti e progetti diversi.

3. La proiezione del Friuli-Venezia Giulia nel-lo spazio Alpe-Adria

La Regione Friuli-Venezia Giulia, per la suacollocazione al confine con Austria, Sloveniae Croazia, occupa una posizione centrale inun’area particolarmente attiva nell’ambito del-la definizione di politiche territoriali sovrare-gionali e transfrontaliere. In particolare, la Re-

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gione ha attivato tra il 1994-2003 un’intensacollaborazione con la Slovenia, realizzandonumerosi dei 171 progetti completati nel qua-dro del programma Italia-Slovenia Phare Cbc. La Regione è protagonista inoltre di tregrandi progetti sovraregionali e transfronta-lieri, che rendono evidente la volontà dei go-verni locali di dare vita a forme di collabora-zioni transfrontaliere e sovraregionali piùstabili e strutturate.a) Comunità di lavoro Alpe-AdriaLa Comunità di lavoro Alpe-Adria nasce a Ve-nezia nel 1978 grazie a un accordo stipulato daalcuni Länder e Regioni delle Alpi Orientali e

attualmente vi aderiscono 12 membri. Il proto-collo d’intesa stabilisce le principali tematichetrattate: comunicazioni transalpine, movimentoportuale, produzione e trasporto di energia,agricoltura, economia forestale, economia idri-ca, turismo, protezione dell’ambiente eccetera.Non godendo di personalità giuridica, l’azioneconcreta della Comunità di lavoro Alpe-Adria èdi fatto condizionata dall’impegno e dalle ini-ziative promosse dalla presidenza di turno. b) Euroregione EuradriaL’Euroregione Euradria, tuttora in fase di appro-vazione definitiva, ha l’obiettivo di coordinareed estendere le forme di collaborazione tra Ve-

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Fig. 12 – L’Euroregione tirolese.

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neto, Carinzia, Slovenia, Contea litoraneo-mon-tana (Croazia), Contea istriana (Croazia) e Friu-li-Venezia Giulia. Gli obiettivi principali del-l’Euroregione sono stati individuati nell’interna-zionalizzazione del mercato euroregionale, po-nendo l’accento sul suo ruolo di «ponte» sul-l’asse economico e infrastrutturale ovest-est. Inqualità di macro-Euroregione, Euradria privile-gia la sfera economica rispetto a quella sociale eculturale e ha come principale obiettivo la rea-lizzazione di infrastrutture logistiche integrate. c) Euroregione AdriaticaIl Friuli-Venezia Giulia è altresì membro

dell’Euroregione Adriatica, nata a Pola nelgiugno 2006, che riunisce le regioni, le pro-vince e le città situate lungo le due spondedell’Adriatico. Essa si estende su un territo-rio molto vasto (quasi 230.000 km2), con unapopolazione che raggiunge i 22 milioni diabitanti, includendo aree caratterizzate daforti disparità dal punto di vista socio-econo-mico. L’obiettivo primario è la valorizzazio-ne del patrimonio comune di risorse umane,naturali e culturali, al fine di favorire la sta-bilizzazione democratica dei territori del-l’Europa sud-orientale.

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Fig. 13 – Le regioni della Comunità di lavoro Alpe-Adria.

Fonte: http://www.alpeadria.org.

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4. Nel Nord-ovest italiano. La comunità di la-voro Regio Insubrica

È un’esperienza che coinvolge, da quasi un ven-tennio, le province piemontesi di Novara e delVerbano-Cusio-Ossola, quelle lombarde di Co-mo, Lecco e Varese e il Canton Ticino. In co-erenza con le indicazioni europee, la comunitàtransfrontaliera della Regio Insubrica interessaun’area di quasi 10.000 km2, abitata da oltre 2,6milioni di persone, entro la quale operano oltre200.000 imprese caratterizzate in larga misurada una spiccata propensione all’export. Il terri-torio in questione, oltre a essere caratterizzatoda un milieu storico, ambientale e culturale con-

diviso, evidenzia la diffusione della piccola emedia impresa, organizzata in un’ampia serie didistretti radicati nel territorio, e la comune vo-lontà di attivare uno sviluppo turistico unitario. Scopo precipuo della Regio Insubrica è pro-muovere la collaborazione transfrontaliera at-tuando progetti comuni per lo sviluppo in cam-po economico, infrastrutturale, ambientale eculturale dell’area italo-svizzera dei tre laghiprealpini Lario, Ceresio e Verbano. I risultati si-nora raggiunti non possono che essere conside-rati soddisfacenti, soprattutto per quanto riguar-da la promozione turistica e il sostegno di nu-merose iniziative nate con la finalità di stimola-re la percezione unitaria dell’Insubria.

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Fig. 14 – L’Euroregione Euradria.

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Altri importanti tavoli di lavoro costituiti ad hocdalla comunità sono relativi alla questione dellavoro frontaliero e allo sviluppo delle potenzia-lità territoriali per quanto riguarda logistica etrasporti. I progetti di sviluppo infrastrutturaleche coinvolgono il territorio in oggetto basano,infatti, la propria sostenibilità in gran parte sullecaratteristiche geografiche dell’Insubria: nellaparte meridionale della regione (segnatamentenel territorio novarese) sta infatti l’incrocio fradue direttrici quali il Corridoio V Lisbona-Kiev

e il Corridoio 24 Genova-Rotterdam, mentrelungo il confine italo-svizzero sono in faseavanzata i lavori della NFTA (Nuova FerroviaTransAlpina) che prevedono, fra gli altri proget-ti, un importante ammodernamento e potenzia-mento dei tunnel alpini, primo fra tutti quellodel Gottardo. Il posizionamento geografico puòquindi risultare una base di partenza importanteper la realizzazione di politiche di promozioneterritoriale e di inserimento all’interno dello spa-zio centrale europeo.

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Fig. 15 – L’Euroregione Adriatica.

Fonte: http://www.adriaticeuroregion.org.

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Nord – e in particolare quello delle campagnedella Lombardia, delle Tre Venezie, dell’Emi-lia-Romagna e della Toscana – muta radical-mente. Siamo nella prima metà degli anni Ot-tanta del secolo scorso e sin tanto che il quadropolitico nazionale regge, sia pure in condizionidi bipolarismo imperfetto, delle regioni ora ri-cordate si parla pressoché unicamente per ilprofondo cambiamento economico e socialeche le coinvolge, in cui protagoniste diventanole piccole e medie industrie non fordiste.La svolta decisiva avviene in concomitanzacon la crisi che investe la politica nazionale e idue maggiori partiti del paese, ed è con le ele-zioni del 1992 che viene alla ribalta un feno-meno che ne costituisce verosimilmente ilpunto d’avvio. Se nella prima metà degli anniOttanta avevano fatto la loro comparsa nume-rosi e dispersi movimenti autonomistici (nelFriuli-Venezia Giulia, nel Veneto e in Lombar-dia), è infatti con quella tornata elettorale chequesti riescono a mandare al parlamento italia-no alcuni loro rappresentanti. La gestazione si sarebbe dunque già consuma-ta nel decennio precedente, allorché, alla crisidei grandi partiti politici che avevano fatto lastoria del paese nel dopoguerra, subentra unvuoto politico e ideologico che viene in granfretta riempito dall’affermazione di istanze lo-calistiche messe precedentemente in sordinadagli eventi nazionali. In Friuli-Venezia Giuliacomparve il Melone, nel Veneto la Liga Vene-ta, in Lombardia la Lega Lombarda, destinataa diventare poco dopo la Lega Padana e, infi-ne, la Lega Nord. Anche in questo caso, la sto-ria di quanto accaduto è già stata scritta.A ben vedere, la Liga Veneta era già venuta alla

1. Questione settentrionale e geografia

Da tempo l’espressione Questione settentrio-nale si è fatta strada nei discorsi mediatici, ol-tre che nel dibattito scientifico, evocando percontrasto la ben più annosa Questione meri-dionale. Sono soltanto apparenze, in realtà,perché tra le due Questioni ben poche sono lesomiglianze. È comunque un fatto che, accan-to a quella del Sud scoperta dai meridionalistiquasi in coincidenza con l’Unità d’Italia, è ve-nuta emergendo negli ultimi decenni anchequella del Nord.Secondo alcuni storici dell’Italia contempora-nea, una questione settentrionale sarebbe esi-stita sin dall’Unità, quando l’annessione al Re-gno degli ex Stati dell’Italia settentrionale av-venne seguendo percorsi assai diversi rispettoa quello che, maturato nella mente del Cavour,si concluse a Torino nel 1861 (altri ancora era-no stati i progetti di Carlo Cattaneo in Lom-bardia). Non casualmente, una volta creato ilRegno, venne messo a punto dal Minghetti unprogetto di Stato che avrebbe tenuto conto del-le eredità storiche, ma che fu ben presto ac-cantonato per la preoccupazione che rimettes-se in discussione quanto era stato ottenuto.Non è certo in riferimento a questi eventi, lon-tani ormai 150 anni, che è venuta oggi alla ri-balta una Questione settentrionale. Fu la Que-stione meridionale, a ben vedere, che non tar-dò ad affermarsi già a ridosso dell’Unità. La Questione settentrionale cui si fa qui riferi-mento è un fenomeno recente, maturato in re-lazione agli eventi politici nazionali di questiultimi decenni, nel corso dei quali lo stessoquadro economico e sociale dell’Italia del

Terzo DiscorsoLa regolazione socio-politica: governance, autorappresentanza, federalismi possibili

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ribalta con le elezioni politiche del 1983, otte-nendo il 4 % dei consensi su base regionale, cuicorrisposero nell’Alto Vicentino percentuali ad-dirittura superiori al 10%. Ciò che colpì da subi-to fu che quei risultati elettorali emersero in areenelle quali l’industrializzazione si era già svilup-pata con risultati eccellenti, dove le prime mani-fatture risalivano addirittura al secolo preceden-te (Schio, Valdagno eccetera). E colpì altresì ilfatto che il voto, come trasparve dalle scrittecomparse un po’ dappertutto in quelle aree, erarivolto contro il Sud e contro Roma. A questo punto la domanda che è legittimoporsi è la seguente: qual è la relazione tra laquestione settentrionale e i movimenti autono-mistici poi confluiti nel movimento leghista?Sostenere che questione settentrionale e LegaNord coincidono costituisce in realtà una sem-plificazione che riconduce alle cause ciò chene è piuttosto l’esito: la Lega, e prima di essa imovimenti autonomistici che ne sono alla ra-dice, rappresenta la modalità con cui i proble-mi del Nord si affacciano e travalicano l’ambi-to locale per imporsi a livello nazionale. Secosì è, non occorre chiederci quale relazioneesista tra questione settentrionale e LegaNord, bensì indagare quali siano le ragioni chedanno origine alla prima e, accanto ad essa, aimovimenti autonomistici che riusciranno aimporre all’agenda politica nazionale il temadella riforma federale – e fiscale – dello Stato.

2. Dalla crisi del centralismo alla nazione set-tentrionale

Se la tentazione di ascrivere la questione set-tentrionale interamente alla Lega Nord è forte,ciò non si può ovviamente fare: sarebbe unmodo alquanto semplicistico di rileggere unprocesso e una congiuntura storica e politicaalquanto complessa che ha visto interagire sfe-

re culturali di natura assai diversa. Ciò non to-glie che la Lega abbia sicuramente rappresen-tato il più roboante megafono dei sentimentiintestini del malessere «nordista», tanto da ac-creditare una visione antropologica e compor-tamentale prima che giuridica, una sorta digeografia umorale. Detto in altri termini, unacostituzione immaginaria che si è talmente ac-creditata da farsi geografia e che ha saputo in-trodurre nel dibattito pubblico nazionale unadomanda pressante di cambiamento istituzio-nale che si è tradotta nella lunga e incompiutariforma federale dello Stato.In queste pagine vogliamo sondare il registroperformativo entro cui l’immaginario del«Nord» si è consolidato e fatto soggetto, pro-tagonista, è diventato figura territoriale. Perusare il linguaggio di Claude Raffestin, non sivuole sondare la «geostruttura», ma il «geo-gramma», realizzando un’impresa narrativache ci faccia capire l’invenzione della «que-stione settentrionale», che si è appoggiata suisegni forti delle provocazioni e della violenzaverbale: una grammatica comunicazionalegiocata sull’estremizzazione dei messaggi,che si è rivelata di grande efficacia e ha dise-gnato una geografia che è andata radicandosinon soltanto nel «popolo» cui è indirizzata,ma anche nel mondo intellettuale e colto og-getto di invettiva. Il Nord era già oggetto di una propria raffigu-razione, che era quella del boom economico,della grande impresa, delle masse affluentinelle capitali degli affari, della dominanza sulMezzogiorno: un Nord per antonomasia, privodi precisa identificazione, il volto dell’Italiadel successo – anche se risultava poi concen-trato di fatto nel solo «Triangolo» nord-occi-dentale. La crisi del fordismo disgrega questaimmagine e mette in discussione anche l’iden-tità dei soggetti, dei gruppi sociali e del siste-ma territoriale di riferimento. Il Nord vincitore

62 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

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inizia allora una lenta e sofferta riconversione,che spande nelle periferie energie molecolarialla ricerca di nuova personalità. È tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio deldecennio successivo che viene proposto il di-segno delle tre macroregioni: un disegno chetrova un alleato insospettabile, la FondazioneAgnelli. Questa istituzione di autorevole repu-tazione scientifica, prendendo spunto dal cli-ma di accesa disputa politica sulla forma delloStato e dalle ipotesi allora intensamente dibat-

tute di neoregionalismo e federalismo ammi-nistrativo e fiscale, promuove una linea di ri-cerca che ha come avvio un volume intitolatoLa Padania, una regione italiana in Europa(1992). Quel titolo – al di là dell’accuratezza eserietà dell’indagine – divenne il più nobilemarcatore di un’epifania, il Nord padano. Sot-to molti aspetti, l’immagine di un Nord distin-guibile e diverso prese così corpo con l’impli-cito avallo di un’istituzione di rango e dei suoiillustri quanto ignari collaboratori.

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La risposta «etno-simbolica» alla frammentazione delle solidarietà territoriali

A cavallo degli anni Ottanta e Novanta viene a maturazione una serie di tensioni: l’agonia della ver-sione craxiana del centro-sinistra, gli scandali e il discredito degli amministratori pubblici sfociati in«mani pulite», il disavanzo che deflagra: episodi che si innestano nella crisi endemica del consenso,nelle difficoltà della transizione postfordista, nei cambiamenti di scala degli interessi economici, nellemetamorfosi di una società frantumata che in alcune sue parti si reputa opulenta e non si riconoscepiù nelle aggregazioni sociali che riflettevano le contrapposizioni che avevano cadenzato la storiadell’Italia postbellica. La lotta di classe, tuona Umberto Bossi, viene sostituita dalla «lotta di etnia», consacrando l’in-gresso in una nuova era che si dichiara postideologica e che, contro il «determinismo marxista e ilpragmatismo capitalista», reclama il «primato affettivo dell’identità etnica» (discorso di aperturadel Congresso della Lega Lombarda, Pieve Emanuele, 1991). Il centralismo statalista, frutto delladuplice egemonia «della maggioranza etnica e dei grandi interessi economici», va dunque combat-tuto attraverso «l’etnofederalismo», inteso come «mezzo di pressione per ottenere l’autonomia».Perché soltanto attraverso «il legame etnico il sociale non degrada a solo spazio di interessi, maresta spazio degli affetti», mentre «la società multirazziale provoca il declino morale e della soli-darietà». La troppa immigrazione disgrega dunque la società, che diventa «società deviata» con icorollari patologici di omosessualità, droga, sterilità, continua Bossi nella medesima occasione,poiché spezza il legame etnico che, «essendo legame di sangue, è il principale legame di somi-glianza e cioè di identità». Da questo substrato culturale incardinato sull’etnia – all’inizio marcatore di diversità nei confronti de-gli immigrati meridionali, più recentemente verso gli stranieri – la Lega trae un progetto politico in-cardinato sui termini di «localismo» e «identità», le cui declinazioni si spingono sino a reclamare «in-dipendenza» e «secessione», passando attraverso una gamma intermedia di formulazioni poggiate su«autonomia»: dei popoli, di governo, di utilizzo delle risorse, di prelievo e reimpiego fiscale eccetera. Se inizialmente, negli anni Ottanta, queste rivendicazioni hanno radici territoriali nelle diverse lighevalligiane e regionali, acquistano fisionomia padana allorché il discorso politico sfocia nella «Repub-blica del Nord». Sebbene dal punto di vista elettorale, come sottolineava Diamanti nel 1996 (Il maledel Nord. Lega, localismo, secessione), l’accreditamento della Lega avvenga, fino alla fine degli anniNovanta e con alterne fortune, nelle aree pedemontane del «Nord profondo», è da ben prima che lapremonizione di un Nord autodefinito e vivido ha assunto fisionomia, popola le narrazioni. Anchequelle colte, non solo nei raduni neoceltici e dialettali.

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In quel contesto, al centro dell’attenzione ve-niva posta la crisi del centralismo e la necessi-tà, caldeggiata da tutti gli schieramenti politi-ci, seppure con indicazioni diverse, di riformadello Stato. In realtà, la rappresentazione terri-toriale delle tre «macroregioni» lanciata a me-tà degli anni Settanta aveva arricchito un im-maginario geografico già popolato dalle treItalie di Arnaldo Bagnasco. Un caso da ma-nuale: un indicatore metaforico talmente sug-gestivo, nella sua apparente semplicità, chevarca i confini della cultura che l’ha coniato,perde raffinatezze e complessità analitiche etrova successo nel linguaggio popolare la-sciando per strada il proprio originario signifi-cato. E nel guazzabuglio di formule e slogandi quegli anni diventa anch’esso predizione diItalie diverse, separate, inconciliabili. Tra gli esercizi immaginativi di quegli anni nonpossiamo dimenticare le mesoregioni che, nel1993, ancora la Fondazione Agnelli, all’internodella medesima linea di ricerca, propone comecontraltare all’idea delle «macroregioni». Sitrattava di un’ipotesi suggestiva che, partendoda parametri di tipo funzionale (poggianti inlarga misura sull’autonomia finanziaria), indi-vidua dodici raggruppamenti interregionali. Iltema guida è la necessità di rafforzare il versan-te regionale di fronte alla competizione interna-zionale, ma anche la convinzione che, «in as-senza della capacità di autogovernarsi e persi-stendo nell’attuale situazione di dipendenza fi-nanziaria, le regioni meridionali non uscirannodallo stato di minorità». Si trattava, in realtà, diuna risposta al programma della Lega, il tenta-tivo di introdurre elementi di razionalità econo-mica in un dibattito che oscillava tra i «colpi dimaglio» dei suoi esponenti e un «neo-regionali-smo» il più delle volte astrattamente teorico,dunque lontano sia dai problemi che il paese at-traversava, sia dalle insofferenze che plaudiva-no all’irredentismo nordista.

In sintesi, accanto alla vulgata populista, lacornice localistica e identitaria entro cui la co-struzione metaforica della questione setten-trionale va affermandosi appartiene a un cam-po culturale molto vasto, al suo interno varie-gato e gravido di contrasti.

3. L’insanabile dialettica tra secessione pada-na e neomunicipalismo disobbediente

La crisi del fordismo si accompagna infatti al-la presa di coscienza dei guasti ambientali esistemici di un modello di organizzazione del-lo spazio che ha innescato frammentazioneterritoriale e scompaginamento degli assetti si-no ad allora esistenti. Essa è peraltro all’origi-ne di una generale instabilità economica epreannuncia quei cambiamenti di ruolo tra lecomponenti territoriali che portano alla ribaltale economie distrettuali diffuse. È questo unperiodo nel corso del quale si avviano altresìrilevanti trasformazioni territoriali, segnate dalridisegno degli spazi del vivere e del produrre,che rovesciano i vecchi principi della centrali-tà urbana e mettono in discussione il rapportofra la città e le sue periferie. Queste ultime,coinvolte da una dilatazione insediativa e fun-zionale senza precedenti nella storia della cittàmoderna, si ritengono così protagoniste dellanuova dimensione spaziale e rivendicano rico-noscimento e peso decisionale. Mentre sul versante istituzionale si discute diregionalismo, federalismo e nuova forma del-la statualità, sul piano locale i termini di rife-rimento sono «autodeterminazione», «autoso-stenibilità», «autonomia»: espressioni foneti-camente abbastanza simili al punto da occul-tarne l’abisso semantico e ontologico che ledivide, ma tutte originate dal desiderio condi-viso di possedere un maggiore controllo sulterritorio del proprio quotidiano. Detto in altri

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termini, i sentimenti di appartenenza territo-riale e di sensibilità ecoambientale si trovanoin quegli anni improvvisamente orfani di rap-presentanza. Il declino dei partiti tradizionali e la rinunciaai paradigmi ideologici che ne erano la corni-ce generarono nei fatti un vuoto che lasciòspazio a chi fosse capace di farsi portavoce deldissenso sociale e volesse assumersi la respon-sabilità della rappresentanza. Si trattò di un fe-nomeno dapprima rurale, ruspante e ruvido,ma che poi, con l’allargamento ad altre figuredel mutato panorama sociale, si massifica, siurbanizza, diventa addirittura nazionale. E ra-dica al Nord un sentimento di pretesa superio-rità (economica e insieme etnica) che porteràal ricambio quasi totale del ceto politico. Nonsolo nella Padania conquistata, nelle sue cam-pagne e nelle sue città, ma per molti versi an-che a Roma, nel cuore del centralismo.Ci troviamo quindi di fronte a un quadro com-plesso, instabile, in movimento continuo, permolti versi confuso e difficilmente decifrabile.La molteplicità delle espressioni emergenti dailuoghi diventa esperimento di analisi e di pro-getto in ambienti culturali attenti a cogliere lepotenzialità racchiuse nella dimensione locale,al cui interno alcune componenti giocano unruolo di peso, influenzando il modo di inter-pretare e prefigurare lo sviluppo. In ambitogeografico, per esempio, contribuiscono alpassaggio dalla storica categoria di «regione»alla concezione maggiormente contestualizza-ta di «sistema locale territoriale», il cui princi-pio ordinatore diventa la territorialità viva eagente dei soggetti sociali. In questa prospettiva, all’inizio degli anni No-vanta, la scuola territorialista di Alberto Ma-gnaghi, rivalutando la dimensione attiva dellaricerca e del ricercatore, si espresse altresì nel-la pratica politica dei luoghi, immergendosinei conflitti territoriali e coinvolgendo piccoli

amministratori virtuosi e disobbedienti entroun progetto neo-municipalista. È questa una visione che discende dall’analisicritica del postfordismo, del declino della cit-tà-fabbrica e del suo modello di territorializza-zione, per proporre un’alternativa radicalefondata sulle idee di «locale» e di «identità»come ancore di salvataggio, la quale assume i«processi di autodeterminazione e di differen-ziazione delle società locali come agenti pro-pulsivi»: il punto di vista viene spostato, in talmodo, dalla centralità urbana alla complessitàterritoriale e ai saperi locali. Si tratta di unaproposta che, seppure attraverso canali comu-nicazionali parzialmente alternativi al main-stream, riesce a raggiungere un pubblico piut-tosto vasto. Non casualmente il libro dellostesso Magnaghi, Progetto locale, apparso nel2000, ha avuto numerose riedizioni anche al difuori del nostro paese.Un ventennio, dunque, in cui sfere culturali esensibilità opposte di formazione e indirizzoconvergono nell’identificare l’ambito locale eil bisogno di identità come terreno di confron-to progettuale: quelle leghiste, da un lato, edall’altro quelle sottili e complesse dell’ap-proccio territorialista che, pur muovendosinello stesso magma, indicano percorsi e sot-tendono filosofie contrapposte. Così, mentrele prime raccolgono consensi sulla xenofobia,negli stessi luoghi la Carta del nuovo munici-pio propone una «nuova dimensione democra-tica di una società locale complessa, multicul-turale e autogovernata che cresce e si rafforzanel progettare e costruire direttamente il pro-prio futuro e può costituire un antidoto allaglobalizzazione economica e al regno dellapaura, dell’insicurezza». Il quadro di riferimento rimane quello di unasocietà nelle more di un’infinita transizione,una società settentrionale alle prese con il ri-schio di frantumazione della sua costituzione

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materiale, e che forse anche per questo recla-ma con fragore indipendenza e minaccia se-cessione. Una metafora che, in sintonia con lapostmodernità di cui è figlia, non ha cartogra-fia, ma si appoggia a un fantasioso insieme ditratti simbolici, allusivi, densi di significatinon dichiarati, ambigui come i discorsi chevanno a illustrare quel mare agitato che è lageografia economica e sociale dell’oggi. Co-me in un gioco di specchi paralleli, realtà eraffigurazione si inseguono all’infinito, per-dendo progressivamente nitidezza sino a reci-dere i contatti con quella territorialità che do-vrebbero riprodurre.

4. Per capire meglio: il coronimo Nordest

Nordest è un coronimo entrato in uso non oltreuna trentina di anni fa, sebbene quello prece-dente di Tre Venezie fosse caduto in disuso al-meno dalla fine della seconda guerra mondia-le. Attualmente designa l’area che comprendeVeneto, Friuli-Venezia Giulia e provincia diTrento, essendo stato diviso il Trentino in dueprovince autonome. La storia della sua ado-zione affonda tuttavia le radici in una situazio-ne assai complessa che si contestualizza, comeabbiamo visto, a partire dagli anni Ottanta delsecolo appena trascorso. Poche considerazioni sono sufficienti a dareragione di quanto avvenuto. I dati relativi al1951, a ricostruzione conclusa, attestavanoinfatti un quadro per l’attuale Nordest quasidel tutto analogo a quello della lunga penisolaagricola. Il reddito provinciale pro capite, fat-ta uguale a 100 la media italiana, è compresotra 68 e 99 in quasi tutte le 11 province delNordest, ovvero appena al di sopra dell’insie-me che raggruppa l’intera Italia meridionale einsulare. Superano la media nazionale, senzatuttavia pervenire al livello del Nord-ovest, la

provincia di Trieste e le città di Venezia (conla zona industriale di Marghera), Verona eTrento. Certo, pur in condizioni di economiaagricola prevalente, il quadro non è quellodell’Italia a Sud del Po – dove si registra oltreil 50% di addetti all’agricoltura – ma l’inci-denza è piuttosto elevata: dopo Rovigo, conpiù del 50% di occupati nel settore primario,troviamo Verona, Padova e Treviso, oggi pro-vince altamente industrializzate, con una per-centuale di addetti all’agricoltura compresatra 49 e 42%. Soltanto Vicenza, con la storicaindustrializzazione tessile (Schio, Valdagno,Marzotto, Rossi) se ne discosta. Non si è mol-to lontani dal vero, quindi, affermando che al-l’inizio del periodo preso in esame ciò che sa-rebbe poi diventato il Nordest industrializzatoappariva sostanzialmente agricolo, come lamaggior parte della penisola se si esclude ilNord-ovest. Appena dieci anni più tardi il quadro appareassai diverso. La dinamica industriale, che sin-teticamente a livello nazionale registra un in-dice pari a 22, nel Veneto sfiora il 43. E si af-ferma una carta dell’Italia divisa in tre circo-scrizioni: quella del triangolo industriale,quella del Mezzogiorno e tra le due un’Italiadi mezzo che comprende per intero l’attualeNordest. Quali ne siano state le ragioni (daquesto punto di vista l’analisi economica e so-ciale ci ha offerto un’inusitata massa di infor-mazioni), sta di fatto che il contadino fittavoloche usciva dalla guerra si trovava in condizio-ni ben diverse rispetto alla generazione che loaveva preceduto. E vi ha giocato un ruolo im-portante la stessa «borsa nera», che ha consen-tito a chi produceva generi alimentari di accu-mulare plusvalenze in precedenza non previ-ste. Dagli artigiani viene inoltre la spinta amettersi in proprio, da soli o con i familiari epochi altri, fabbricare prodotti dei quali giàesisteva sul territorio una certa tradizione:

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quella del baco da seta e dei relativi tessuti,del legno e dei mobili, ma anche dei coltelli (aManiago, per esempio), dei pavimenti nell’in-tero Friuli, del prosciutto a San Daniele, dellagrappa a Bassano e non solo.Non è questa la sede per ricostruire la diffu-sione sul territorio del Nordest dell’economiadistrettuale. Alcune riflessioni devono comun-que essere fatte a proposito del nome. La tesidi Enzo Rullani è quella per cui, parafrasandoCalvino, la città riceve la sua forma dal deser-to a cui si oppone. Il deserto cui si sarebberoopposti gli abitanti del Nordest, scegliendo didare questo nome all’area, sarebbe stato lamancanza di una identità riconosciuta. L’idea di Nordest sarebbe stata definita, insostanza, «intorno al suo non-essere, le sueinsufficienze e assenze: un sistema che non èmoderno, non è industriale, non è ricco». Poi,progressivamente, viene man mano svilup-pandosi come «sistema dotato di proprie, au-tonome, qualità e capacità», acquisendo co-scienza della propria vitalità, come qualcosa«di netto e di vitale in contrapposizione alNord-ovest». È dunque realistico sostenere che l’istanzache emerge non coincide né con i Meloni, leLighe venete e così via che spuntano in con-comitanza, né tanto meno con il movimentoleghista che arriverà dalla Lombardia allaconquista del Nordest. Prova ne sia che oggiancora, quando la Lega padana è ormai pre-sente in maniera chiara anche nel Nordest egiunge al governo della Regione, le istanzeche ne sostengono l’avanzata elettorale nonsi richiamano tanto al mondo imprenditorialee alle sue sollecitazioni nei confronti del-l’Amministrazione centrale, quanto alle pau-re che serpeggiano tra la gente comune perquello che la cospicua presenza di immigratirappresenta in termini di diversità e talora dipreoccupazione e di rischio.

5. Federalismo fiscale e decentramento deipoteri

La locuzione «federalismo fiscale» venne in-trodotta nel 1959 da Richard Musgrave, unprofessore tedesco di scienza delle finanzegiunto negli anni Trenta negli Stati Uniti. L’e-spressione non si riferisce alla politica tributa-ria in senso stretto (data per acquisita), quantoal «come» attuare politiche di riequilibrio con-tributivo di fronte a situazioni territorialmentedifferenziate di tassazione. Il punto di vista erain quel caso diametralmente opposto a quellointorno al quale si discute attualmente in Italiadove, al contrario dei paesi federali, il «fede-ralismo fiscale» assume una tripla valenza: – costituisce un banco di prova per definire

meccanismi più responsabili di regolazionedella «cosa pubblica», volti a porre fineagli sprechi e alla cattiva gestione, introdu-cendo forme di autonomia contributiva;

– rappresenta una delle leve su cui perseguireil decentramento dei poteri;

– viene inteso, infine, quale strumento per ilperseguimento di una tendenziale «equipara-zione» contributiva che oggi pesa eccessiva-mente sulle regioni più produttive del Nord.

In questo nuovo ipotetico quadro, le solidarie-tà tra territori non possono più essere le stessedei decenni passati, in quanto le tradizionalireti di complementarità, soprattutto tra il Norde il Sud, sono da tempo mutate e rischiano diappesantire e aggravare la già difficile situa-zione economica e competitiva in cui si trova-no a operare le regioni più avanzate. Se si osservano i dati più recenti, emerge co-me dal 1997, anno della «riforma Bassanini»,e soprattutto dell’introduzione dell’IRAP edella relativa addizionale regionale, l’Italiaproceda verso una crescente autonomia delleentrate fiscali da parte delle amministrazioniperiferiche. È inoltre interessante notare (fig.

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16) le rilevanti differenze esistenti in seno aipaesi federali europei; come anche la difficol-tà per un paese come il Belgio, ad alta conflit-tualità interna, a procedere verso un federali-smo fiscale consistente che, in assenza di in-terventi di coordinamento da parte del centro,potrebbe condurre a una radicale separazionedei territori fiamminghi da quelli valloni. Laquota di entrate fiscali delle amministrazioniperiferiche (compresi i trasferimenti dal «cen-tro») è decisamente più alta in paesi tradizio-nalmente a struttura centrale, come la Francia,

l’Italia e la Spagna, mentre l’Austria, il Bel-gio e la stessa patria della devolution (la GranBretagna) tendono a mantenere saldo il con-trollo sulle entrate (e le relative spese).Va infine sottolineato che, sebbene in tutti i pae-si a struttura unitaria siano cresciute negli ultimianni le entrate dirette, i trasferimenti dal centrocontinuano a giocare un ruolo decisivo. In Italia,in particolare, è risultato evidente il ruolo gioca-to dall’IRAP (imposta istituita nel 1997) nellamodificazione della quota di entrate degli entilocali rispetto ai trasferimenti (fig. 17).

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Federalismo territoriale e federalismo fiscale

È l’insostenibilità dell’attuale modello contributivo a portare a chiedersi quali siano i rapporti tra federa-lismo territoriale e federalismo fiscale. In un sistema territoriale «aperto», permeabile cioè sia alle risorseeconomiche sia alla mobilità delle persone (le regioni o le città all’interno di uno Stato, per esempio), ec-cessivi squilibri nei livelli di vita vengono spesso compensati da forme di attrazione-repulsione dei diversiterritori: ci si sposta cioè da una regione (o da una città) all’altra per poter pagare meno imposte. È quelloche gli anglosassoni chiamano foot voting. È pertanto un’illusione l’idea che sia necessaria una vigorosadifesa dei sistemi territoriali più forti, che per essere attuata dovrebbe tradursi in meccanismi di «chiu-sura» che finirebbero per svilirne le stesse capacità di tenuta sul mercato globale. Nel caso di un federali-smo fiscale fondato su un ruolo marginale dei meccanismi perequativi, gli squilibri territoriali si aggrave-rebbero e si tramuterebbero in un’accelerazione dei flussi residenziali – già attivi dal Sud verso il Nord delpaese – con un aggravio per i costi dei servizi nelle regioni più produttive. È indubbio, tuttavia, che gran parte della spesa improduttiva del Sud potrebbe tradursi in spesa pro-duttiva del Nord e pertanto rispondere alle esigenze di rilancio e modernizzazione delle attività dellearee più dinamiche del paese, oggi in difficoltà sullo scenario competitivo globale. I meccanismi di pe-requazione potrebbero, come a volte si dice, incentivare comportamenti virtuosi e porre forse fine apratiche di lassismo burocratico o, ancor peggio, di controllo clientelare e involutivo della spesa.Un secondo elemento ci porta maggiormente nel vivo della questione contributiva, dato che l’autono-mia delle entrate implica forme di decentramento dei poteri. Tuttavia, persino la compresenza di auto-nomia, dal lato sia delle entrate sia delle spese, non si tradurrebbe necessariamente nella automaticafacoltà di possedere poteri decentrati. È piuttosto il mix tra autonomia fiscale e responsabilità legisla-tiva e gestionale a dar luogo a forme differenziate di organizzazione amministrativa. Quanto detto è utile a eliminare un equivoco oggi presente nel dibattito, e cioè il fatto che il «federali-smo fiscale» implichi necessariamente «federalismo territoriale e organizzativo». La questione è piut-tosto complessa. In generale, si può sostenere che gli Stati federali possiedono forme di autonomia fi-scale nelle entrate da parte delle amministrazioni periferiche (come ad esempio in Germania), mentrelo stesso non vale per i paesi a struttura unitaria, che presentano invece un ventaglio gestionale piutto-sto differenziato (per esempio, Svezia e Danimarca presentano forme di autonomia fiscale elevate). De-centramento decisionale e autofinanziamento non sono, pertanto, correlati. Anzi, lo sono talvolta insenso inverso, in quanto al decentramento decisionale lo Stato spesso risponde accentrando le leve fi-nanziarie. È quanto è successo in Italia a partire dagli anni Settanta del secolo scorso.

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6. Nord e Sud: vecchie complementarità enuove divisioni

Sino al 1973 (si usa convenzionalmente l’annodella crisi energetica), le politiche di riequili-brio tra Nord e Sud erano fortemente influen-zate dalla «teoria della polarizzazione» – unapproccio teorico piuttosto importante neglianni Sessanta – che individuava un rapportostabile e diretto tra occupazione, reddito per-cepito localmente e attività di base. La redi-stribuzione del reddito e dell’occupazione sulterritorio, ai fini di un maggior equilibrio, im-plicava pertanto il decentramento produttivosul territorio nazionale o regionale. Com’è no-

to, secondo quello schema teorico lo sviluppoterritoriale avviene attraverso «poli di cresci-ta», i quali necessitano, per il loro sviluppo, diuna realtà alquanto articolata definita daun’impresa «motrice», un «complesso indu-striale», una «agglomerazione territoriale». Si prevedeva, in sostanza, un rapporto solida-le – o quanto meno complementare – traNord e Sud, che si concretizzava nelle neces-sità di manodopera da parte della grande in-dustria settentrionale, da un lato, di reddito edi lavoro da parte dei territori meridionali,che finalmente potevano accedere a forme dibenessere e di cittadinanza sino ad allora ne-gate. Alla programmazione economica venne

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Fig. 16 – Entrate fiscali delle amministrazioni periferiche (% sul totale delle AA.PP.).

Fonte: elaborazione IRES su dati EUROSTAT (2010).

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quindi assegnato l’arduo compito di dispie-gare nuovi poli di crescita nelle aree periferi-che, fondati su settori trainanti quali il chimi-co, il siderurgico, il metalmeccanico. Per in-capacità politica, per ritardi decisionali, perforti conflitti interni alla classe dirigente (cheè qui superfluo indagare) fu disperso il patri-monio tecnico-scientifico del settore chimicoe si giunse in forte ritardo a progettare i polisiderurgici e metalmeccanici (le cosiddette«cattedrali nel deserto»).

A partire dagli anni Settanta quel tipo di svilup-po si scontrò con il cambiamento delle dinami-che industriali e territoriali: la grande impresa,dopo aver seguito le indicazioni – e i relativi be-nefici di breve periodo – di investimento nelleregioni povere del Nordest e del Sud (PortoMarghera, Bagnoli, Taranto, Termini Imerese,Porto Empedocle, Augusta ecc.), iniziò a delo-calizzarsi in paesi esteri. Ciò contribuì a inverti-re (ma non fu il solo fattore decisivo) il segnodei processi di crescita delle aree periferiche e

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Fig. 17 – Entrate degli enti locali in Italia: % di entrate dovute alle imposte (dirette e indirette) ri-spetto ai trasferimenti.

Fonte: elaborazione IRES su dati ISTAT (2009).

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innescò flussi demografici e migratori. In Italia,i tassi di crescita si affievolirono, sino a cambia-re di segno nel decennio successivo e si contras-se rapidamente l’attrattività delle grandi agglo-merazioni industriali del Nord.È pur vero che ancora nei primi anni Novantasi registrò una tenuta strutturale del sistema deirapporti economici interregionali, fondato sulrafforzamento delle relazioni intersettoriali e lacomplementarità tra le regioni produttive delCentro-Nord e quelle del Sud. In particolare, larisposta politico-economica agli squilibri re-gionali, tramite trasferimenti pubblici a soste-gno dei consumi nelle regioni del Mezzogior-no, poggiò su relazioni intersettoriali in gradodi attivare l’offerta (la produzione) nelle regio-ni centro-settentrionali: beni durevoli e ad altocontenuto tecnologico nelle regioni industrialidel Nord-ovest, settori tradizionali e beni nondurevoli (abbigliamento, beni per la casa e al-tro) nelle regioni del Centro-Nordest. In altreparole, i massicci investimenti pubblici nelSud, se in parte resero più attrattive queste re-gioni, per altro verso servirono al decollo dellearee distrettuali e alla tenuta (o al più lento de-clino rispetto a quanto avvenne nel resto delmondo occidentale) dei poli metalmeccanici echimici della grande industria fordista.Con l’avvio degli anni Novanta ebbe inizio unanuova fase. La crescente apertura dei mercatiinternazionali ruppe le tradizionali forme dicomplementarità e le reti di relazioni tesero adestrutturarsi per iniziare poi a riconfigurarsi.Le stesse risorse umane, e gran parte dei merca-ti di sbocco, iniziarono a dipendere sempre piùda flussi esterni allo Stato-nazione, mentre ildeclino demografico venne in gran parte miti-gato da flussi di immigrazione straniera.Questo nuovo meccanismo competitivo ha si-gnificato la rottura delle tradizionali solidarie-tà territoriali e fatto emergere l’esigenza, nelNord produttivo, di costruire sistemi regionali

in grado di rispondere alla competizione inter-nazionale. E si afferma la necessità, per moltiversi inedita, di attivare strategie e alleanzeterritoriali nuove, scarsamente strutturate, chespesso guardano alle limitrofe regioni trans-frontaliere: vedi la creazione, nel 1998, del-l’associazione «quattro motori d’Europa» (co-stituita da Baden-Württemberg, Catalogna,Lombardia e Rhône-Alpes), o la nascita delleEuroregioni Alpi-Mediterraneo, Alpe-Adria,Regio Insubrica eccetera.È andata così incrinandosi una rete di mutueconvenienze e di interessi reciproci tra le re-gioni del nostro paese, molto difficile da rico-stituire. Il panorama delle attuali relazioni in-terregionali si presenta conseguentementepiuttosto frammentato, tendendo a destruttura-re le reti di complementarità faticosamente co-struite a partire dall’Unità.

7. Scenari possibili

Al di là delle effettive possibilità di definireun nuovo ritaglio a scala meso-europea (ilquale richiede una strategia politica ben supe-riore alle proposte per più versi «volontaristi-che» in atto), le iniziative che muovono inquesta direzione, attraverso la creazione sia dimacroregioni sia di euroregioni, rappresenta-no una possibile traiettoria di riorganizzazionedella maglia amministrativa. Occorre in talsenso accelerare i processi e pervenire a unariarticolazione territoriale a scala superiore ri-spetto all’attuale ordinamento amministrativo.In assenza di una ricomposizione di questo ti-po, di un rescaling amministrativo a scala eu-ropea, in Italia il governo del territorio (ma ilrischio si pone anche per altri paesi) potrebbeuscirne lacerato. Da questo punto di vista sipossono delineare tre differenti scenari.Il primo, di tipo conservativo, si fonda sulla

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riforma del modello unitario centralizzato.L’obiettivo prioritario è in questo caso la co-esione sociale e il mantenimento del modelloesistente. I soggetti principali sono soprattuttole istituzioni pubbliche le quali, per il tramitedi risorse governate direttamente dal circuitopolitico-istituzionale, regolano i processi e tro-vano il consenso necessario per il persegui-mento degli obiettivi collettivi. Questi soggettipossono trovare alleati in alcuni settori delmondo imprenditoriale, con i quali sviluppareun rapporto dialogico e di confronto sui temicomuni. È uno scenario probabile, giacché inbuona misura delineato dall’attuale quadronormativo e dai processi legislativi intrapresi. In questa ipotesi, quella comunale rimane l’enti-tà territoriale di base dell’identità e del rapportotra i cittadini e il territorio. Le possibili forme didestrutturazione di questa entità, derivate dalledinamiche proprie della modernità, vengono ri-composte per mezzo di istituzioni flessibili e adhoc, attraverso statuti e accordi. La forma istitu-zionale più rispondente a questa esigenza è l’in-tercomunalità, che assume le forme di: – area metropolitana e/o città metropolitana,

nel caso delle città maggiori, una sorta dimeta-struttura atta a rispondere alle esigen-ze di pianificazione territoriale e di gestio-ne metropolitana dei servizi comuni;

– unione di Comuni, in grado di risponderealle problematiche sollevate da territori conparticolari connotazioni morfologiche e so-cio-economiche (Comunità montane e Co-munità collinari, per esempio), dai processidi conurbazione di piccoli e medi Comuni,dai fenomeni di diffusione (sprawl) urbana.Si tratterebbe cioè di ricomporre i processidella nuova prossimità entro strutture meta-istituzionali di coordinamento, flessibili inragione delle diverse necessità espresse.

L’intercomunalità appare sotto questa luce unmezzo adeguato, volto a promuovere la ge-

stione associata delle funzioni fondamentalistrutturanti i diritti di cittadinanza, soprattut-to nei piccoli Comuni non più in grado di ge-stirle da soli.In questo quadro, si pone il problema dellarifunzionalizzazione della Provincia, che po-trebbe trasformarsi in un ente di area vasta,migliorando l’attuale rapporto tra l’istituzio-ne regionale, spesso chiusa nelle sue pratichelegiferative, e il cittadino. Alle Regioni ver-rebbe affidata la programmazione settoriale,sviluppando così una connotazione più fun-zionale che identitaria. In tal senso, la Regio-ne istituzionale diverrebbe, via via, l’ente deldispiegamento effettivo della sussidiarietà,orizzontale e verticale, nei differenti contestiterritoriali, nonché l’esclusivo soggetto diraccordo con le istanze superiori e soprattuttocon lo Stato. Nel tempo tenderebbe a sfumarela storica differenza tra Regioni a statuto or-dinario e speciale.Lo Stato manterrebbe dunque una sua connota-zione identitaria a difesa della lingua, della cul-tura e delle comuni radici, oltre che del rispettoe dell’applicazione dei diritti costituzionali sututto il territorio e della perequazione tra le Re-gioni. Infine, svolgerebbe ruoli strategici di con-trollo e programmazione delle politiche nazio-nali e comunitarie per lo sviluppo e il riequili-brio territoriale, conservando le consuete fun-zioni della «spada, moneta e bilancia» (esercitoe forze armate, giustizia, settori strategici, rela-zioni internazionali, immigrazione, tutela deimercati finanziari, previdenza e lavoro ecc.).La capitale assumerebbe uno statuto speciale(sull’esempio di altri paesi) in quanto sede delgoverno e luogo identitario della comunità na-zionale, mentre le altre città metropolitane nongodrebbero di particolari riconoscimenti istitu-zionali, ma eventualmente solo di tipo contri-butivo e finanziario per la corretta e unitariagestione dei servizi.

72 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

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I rischi di questo scenario riformista sono di-versi e alcuni già si intravedono: si può indi-viduare la persistenza di conflittualità interi-stituzionale ai diversi livelli e l’inasprirsi deicontrasti campanilistici e delle rivendicazionilocalistiche, legate all’evoluzione, alle ambi-guità e alle incertezze del quadro di riferi-mento locale. Inoltre, l’intercomunalità ri-schia di essere condizionata da atteggiamentiopportunistici (di accaparramento di appositifondi regionali e nazionali) mentre potrebbe-ro essere ricomposti alcuni conflitti tra Pro-vincia e Regione entro un quadro più stabiledi decentramento funzionale alla scala pro-vinciale e regionale.Il secondo scenario, di tipo strategico, è co-erente con le istanze neofederali. Nel lungoperiodo è il modello più probabile, fondandosisul rafforzamento dell’Unione Europea. A dif-ferenza dello scenario precedente, più attentoall’omogeneità territoriale, l’accento è qui po-sto sulle città, sulle reti e sulla grande flessibi-lità delle partizioni che, nel tempo, si possonostrutturare intorno a esse. I soggetti principalisono in questo caso soprattutto le istituzioni«terze» e intermedie della società civile, ingrado di alimentare politiche di interesse ge-nerale con risorse proprie (le fondazioni ban-carie, le università, le associazioni di catego-ria, le associazioni territoriali ecc.) e in strettarelazione con l’apparato industriale e produtti-vo. Questi soggetti possono trovare un fertileterreno di confronto e di partnership con sog-gettività progettuali e strategiche espresse lo-calmente dal territorio.Questa nuova forma di governance si fondadunque sulla differenziazione ed è detentricedi compiti di tipo legislativo, direttivo e stra-tegico. Il potere è distribuito tra i territori e,per definizione, è plurale. Il regionalismoistituzionale viene sostituito da un regionali-smo cooperativo o funzionale nel quale le

Regioni diventano contesti territoriali in cuiamministrazioni di livello differente concor-dano politiche comuni.L’ente identitario di base è sempre il Comune,ma esso tende nel tempo a trasformarsi in unente sempre più funzionale per la gestione deiservizi al cittadino in applicazione del principiodi sussidiarietà, mentre si rafforzano le interco-munalità, aggregate a costituire dei veri sistemilocali. La scala dell’identità locale si sposta, at-traverso deleghe funzionali e forme di autono-mia contributiva, verso l’alto, entro bacini diprossimità più ampi, aderendo ai processi loca-lizzativi, residenziali e di flusso reticolari giàpresenti. Spariscono le Province così come at-tualmente le conosciamo, mentre il territorio dibase tende a strutturarsi entro sistemi locali aforte autonomia. In tal senso, è dunque a livellodi governo locale che debbono essere definiti isistemi locali territoriali, con modalità certoflessibili, ma anche organiche, per il tramite diregole certe e processualità strutturate.I sistemi locali territoriali confluiscono, a lorovolta, in regioni funzionali sorte per aggrega-zione dal basso (bottom-up), non permanenti(per definizione), ma necessitanti di periodi-che riconferme o ridefinizioni, con regole pro-cedurali nazionali omogenee, ma differenziatea scala regionale per estensione, forme di fi-nanziamento, modalità organizzative. Le geo-metrie di base continuano, quindi, a modifi-carsi nel tempo, seguendo e adeguandosi alledinamiche socio-economiche soggiacenti. Ilsistema locale territoriale tenderebbe, in talmodo, a coincidere con la regione funzionaleche acquisirebbe, col tempo, una connotazioneidentitaria nuova. In questa nuova visione del territorio la scalasovracomunale, intercomunale e dei sistemi lo-cali territoriali sembra dunque rivestire un ruolocentrale per la governance, in quanto volta allosviluppo territoriale sostenibile, a nuove forme

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di cittadinanza, alla promozione di strategie eazioni concertate, a economie di scala nella ge-stione amministrativa, alla tutela dei quadri am-bientali locali. È a questo livello che si dovreb-be pianificare il territorio in termini strutturali,mentre al Comune resterebbe la pianificazioneoperativa e tecnica (consentendo, pertanto, an-che di ridurre gli organi politici).Anche le Regioni tendono a subire un processodi rescaling verso scale dimensionali più am-pie, in grado di garantire ai rispettivi territori diessere competitivi in ambito internazionale e diesprimere una rappresentatività significativaattraverso la città metropolitana. Per tale sce-nario la Regione non è semplicemente l’entedel decentramento e del rescaling funzionale,ma diviene, via via, un nuovo luogo dell’iden-tità collettiva dei cittadini e degli attori econo-mici, culturali e sociali che in esso agiscono:un territorio che si esprime quindi entro scalepiù ampie di quelle attuali, dove le euroregionie le macroregioni rappresenterebbero la base diun’organizzazione di scala europea.Lo Stato, a sua volta, perderebbe il caratteredi regolatore istituzionale ed economico, chesarebbe assunto dall’Unione Europea, mentremanterrebbe quello di collettore culturale, didifensore della lingua e delle tradizioni stori-che, nonché di supplente pro tempore (princi-pio di sostituzione) degli enti di livello infe-riore non in grado di espletare le funzioni de-mandate o richieste.Il terzo scenario è di tipo misto. È sicuramentelo scenario più probabile nel breve e medioperiodo, in quanto scaturirebbe dall’incontrotra le istanze federali del Nord e le ragioni del-lo Stato unitario presenti nel Sud. È uno sce-nario fortemente conflittuale, dal punto di vi-sta sia territoriale sia politico, in quanto dipen-dente dalle spinte (e resistenze) dei territori,nonché dal prevalere di uno dei due modelli diStato negli schieramenti politici nazionali (do-

ve coesistono i due modelli, federale e unita-rio). Certo, il carattere plurilivello è la suaconnotazione principale con differenze anchenegli effettivi poteri territoriali tra Nord e Sud,in primo luogo, ma anche all’interno stessodei due contesti territoriali, a seconda del pre-valere delle anime politiche nelle Regioni onelle grandi metropoli. Nel caso più positivocoesisterebbero due orientamenti: un Nordmaggiormente orientato verso il modello neo-federale (secondo scenario) e un Sud orientatoal mantenimento del modello unitario (primoscenario). Tuttavia, sia da una parte sia dall’al-tra, vi sono situazioni peculiari che esprimonovolontà divergenti: ad esempio le Province ele Regioni a statuto speciale vogliono difende-re i privilegi storici acquisiti, mentre alcuneRegioni meridionali (per esempio la Basilica-ta) meriterebbero ulteriore fiducia a sostegnodei positivi risultati fin qui ottenuti; le cittàmetropolitane desiderano la delega di nuovipoteri e città più piccole si mettono insiemeper fare massa critica e tutelare interessi localidi prossimità.Ragionando per ipotesi, s’avverte il rischioche, nel tempo, s’acuisca la differenziazionedel territorio nazionale. L’autonomia potrebbeincidere sui modelli organizzativi locali nelbene, lasciando emergere positive vocazioniterritoriali di alcuni sistemi regionali, ma an-che in forma negativa, laddove finisca perporre in evidenza anche tendenze democrati-che regressive, più o meno connesse all’affer-marsi di personaggi locali di vasta influenza.L’equilibrio tra i poteri (legislativo, esecutivo,giudiziario) sarebbe in questo caso soggetto auna sostanziale egemonia dei settori finanzia-rio-produttivi nelle regioni «avanzate» che po-trebbero trovare, tuttavia, diverse complemen-tarità con le aree più «arretrate» del paese,dove prevarrebbero attività parassitarie e ille-gali, abuso, arbitrarietà e illecito.

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Ciò non esclude che, anche nell’ipotesi chetale differenziazione venga in evidenza, sistrutturino complementarità settoriali organi-che e/o funzionali tra il Nord avanzato (e«presentabile» nello scacchiere competitivointernazionale) e il Sud, quale area grigiadell’economia del paese, informale e ille-gale. Ne potrebbero sortire inedite forme diequilibrio politico e produttivo. Prevarrebbequindi l’articolazione di alcuni percorsi sto-rici, produttivi e sociali che caratterizzano laPenisola, tra «modello settentrionale» e«modello meridionale», rafforzandone e as-secondandone le spinte più semplificatricinel tentativo di strutturare un tessuto im-prenditoriale in grandissima parte debole (dipiccola dimensione e in gran parte famili-stico) e spesso non in grado di competere neimercati avanzati delle reti globali, per man-canza di organizzazione e della necessariaconoscenza incorporata nei processi e neiprodotti. Entro questo scenario coesistereb-

bero quindi contesti amministrativi differentiche ridarebbero spazio al governo centrale(messo in crisi dal percorso di unificazionedell’Unione Europea) in quanto regolatoredelle complementarità e punto di equilibriotra le diverse istanze territoriali e tra le esi-genze del Nord e del Sud.Dei tre scenari quest’ultimo è quello cheproduce maggiore conflitto tra grande e pic-cola impresa, tra città grandi e medio-picco-le, tra territori che si proiettano in ambito in-ternazionale e localismi distrettuali, tra set-tori hi-tech e nicchie produttive, tra sistemituristici e «territorio pattumiera», finendoper allontanare il paese dagli Stati-guida delprocesso di unificazione europea. Nel con-tempo può forse esprimere caratteri di origi-nalità, attualmente celati dalle pratiche con-flittuali e dalla tensione tra i diversi interessiterritoriali. Ma, come spesso accade, la real-tà può rilevarsi più complessa della deduzio-ne razionale degli eventi.

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comunato a una global city region, ovvero unambito territoriale in cui sono individuabiliaddensamenti di attività economiche e di po-polazione che rappresentano, per via delle lororeciproche interazioni, un possibile motoredell’economia globale. Nondimeno, resta dacapire se il Nord esista in quanto espressionedi un modello di sviluppo unitario e riconosci-bile o, piuttosto, come esito di un progetto diampio respiro non ancora realizzato.Nel tentativo di trovare una risposta a questiinterrogativi, andremo a inquadrare le specifi-cità del Nord (strutturali e organizzative, conun’enfasi particolare per le risorse umane e lacapacità innovativa) come sistema economicoe produttivo all’interno del più vasto pano-rama italiano ed europeo. Si cercherà, nel con-tempo, di dar ragione di alcune differenze in-terne all’area, che descrivono la macro-re-gione come «sistema di sistemi». Ci si con-fronterà, in altre parole, con il difficile com-pito di individuare un’opportuna lente di in-grandimento con cui leggere le specificità lo-cali, senza per questo perdere di vista il piùampio quadro di riferimento.

2. La struttura economico-produttiva

Alcune evidenze circa la consistenza del Nordquale area di concentrazione di attività indu-striali emergono in primo luogo dall’osserva-zione della struttura e della dimensione delleimprese. Secondo i dati ISTAT, a fine 2009 inItalia operano quasi 4,5 milioni di imprese ma-nifatturiere e di servizio, da cui dipendono 4,9milioni di unità locali e 17,6 milioni di addetti,

Parte II

Sguardi

1. Il Nord: un sistema di sistemi?

Come si è visto nella prima parte del Rap-porto, il Nord costituisce un ambito alquantodisomogeneo al proprio interno. Ed è stataproprio l’identificazione di modelli di svi-luppo territorialmente differenziati (Nord-ovest vs Nordest, in primo luogo) ad aver fa-vorito il moltiplicarsi, dapprima in Italia e inseguito anche all’estero, di analisi volte a in-dividuare una relazione positiva fra dinami-che dello sviluppo socio-economico e pre-senza di sistemi produttivi locali (sistemi lo-cali del lavoro, grandi poli industriali o ter-ziari, distretti industriali, zone turistiche eagricole ecc.).Ne è conseguito che l’idea di Nord come am-bito di indagine abbia perso progressivamentedi rilevanza, anche se negli ultimi tempi sem-bra invece essere tornata «di moda», parallela-mente alla consapevolezza circa i limiti del lo-cale nello spiegare le dinamiche competitivedelle imprese. Nel contemporaneo scenariocompetitivo, infatti, la ricerca dei fattori (eco-nomie esterne, vantaggi di specializzazione edi scala) attraverso cui costruire il vantaggiocompetitivo trascende ampiamente i contestiterritoriali locali. Si è così affermata una di-versa considerazione del Nord come livellogeografico significativo per l’analisi: a) delloscambio di competenze e delle relazioni che leimprese stabiliscono fra loro e con il territorio;b) dei processi di reperimento delle risorse edei servizi di cui le stesse abbisognano per af-frontare lo scenario competitivo. In linea con questo modo di intendere le dina-miche dell’economia, il Nord viene a volte ac-

Primo SguardoLa capacità innovativa: imprese e territori

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distribuiti in maniera piuttosto disomogenea trale diverse regioni: il Nordest e il Nord-ovest in-sieme detengono infatti oltre la metà delle unitàlocali e degli addetti. In Italia, il Nord emerge in particolare comearea di concentrazione di occupazione indu-striale «in senso stretto» (senza il settore dellecostruzioni): poco meno dei due terzi del to-tale degli addetti attivi in questo comparto ri-sultano occupati nella porzione settentrionaledel paese, più o meno equamente distribuiti traNord-ovest e Nordest.La forte valenza manifatturiera del Nordemerge anche dal confronto con le altre ma-croregioni europee. Secondo gli ultimi datipubblicati a livello regionale da EUROSTAT(al 2007), le unità locali manifatturiere delNord Italia contano per il 13,7% delle unitàdell’Unione Europea a 27, dando occupazioneal 9,2% degli addetti. Se si esclude il caso del-l’Italia (24,7% delle unità locali e 13,9% degli

occupati), nessun altro paese europeo rag-giunge livelli comparabili. Con riferimentoalle unità locali, per esempio, la Francia conta«soltanto» per un ottavo del valore comunita-rio, la Spagna e la Polonia per poco meno diun decimo. Mentre, con riferimento agli ad-detti, il valore che si avvicina di più è quellodella Gran Bretagna. Il primato manifatturiero del Nord è ulterior-mente rafforzato dalla concentrazione in questaporzione del paese di molte aziende leader enumerosi «nomi noti» del made in Italy. Non-ostante l’accresciuta competizione internazio-nale, la crisi economica e il crollo della do-manda mondiale, sono numerose le impreseche, specializzate in un ampio ventaglio di pro-dotti e servizi, riescono a mantenere quote con-sistenti dei mercati internazionali, alimentandol’idea di un made in Nord di qualità.È peraltro interessante osservare la figura 18,elaborata da EUROSTAT sulla base della per-

78 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

Il made in Nord

Nello scenario attuale di recessione, molti esperti guardano alla situazione dell’Italia con un velato otti-mismo, sottolineando i vantaggi del sistema italiano (ridotta finanziarizzazione dell’economia, limitato ri-corso delle famiglie al credito, densa rete di relazioni sociali ecc.) rispetto alla maggior parte degli altripaesi europei. In particolare, si evidenzia il vantaggio, in termini di tenuta alla crisi e capacità di ripar-tenza di cui gode il made in Italy, ovvero una produzione basata sulla capacità di combinare conoscenzee innovazione con la tradizione, l’identità, la storia, la creatività espresse da imprese e territori. L’elevata competitività internazionale di molte categorie di prodotti del made in Italy viene richiamata,ad esempio, per spiegare l’ottimo posizionamento dell’Italia (secondo posto, dopo la Germania) nelTrade Performance Index elaborato dall’UNCTAD e dal WTO, volto a misurare il livello raggiunto nelcommercio internazionale. Lo stesso fenomeno è sottolineato dal rapporto ITALIA - Geografie del nuovo made in Italy (Fondazione Edison e Symbola, 2009), in cui si fornisce una ricca rappresentazione delle eccellenzedelle imprese (manifatturiere e di servizio) italiane, distinte in: I) «grandi pilastri», con cui si intendono i grandi gruppi, con fatturato superiore a 3 miliardi di euro;II) «pilastri», ovvero imprese medio-grandi secondo la definizione di Mediobanca-Unioncamere, conpiù di 500 addetti e fatturato fino a 3 miliardi di euro;III) «colonne», cioè le medie imprese, con un numero di dipendenti tra 50 e 499 addetti e fatturato tra13 e 290 milioni di euro.

k

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centuale di occupati nei cinque più importantisettori dell’economia regionale sul totale deisettori non finanziari. Alle regioni del Nord –in particolare Piemonte e Veneto, seguite daLombardia, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna – si assegna un indice di concentra-zione d’impresa tra i più bassi d’Europa: citroviamo quindi di fronte a regioni caratteriz-zate da un’occupazione manifatturiera al-quanto diversificata. Lo studio condotto dalla Fondazione Edison eSymbola sul nuovo made in Italy (vedischeda) sottolinea anch’esso la diversifica-zione produttiva del Nord, distinguendo per ti-pologie di specializzazione: nel tessile-abbi-gliamento sono ambiti europei di specializza-zione la Lombardia, il Veneto, la Toscana, ilPiemonte e l’Emilia-Romagna, nel cuoio-cal-zature il Veneto, la Toscana e le Marche, nellalavorazione del legno (esclusi mobili) la Lom-bardia e il Veneto. L’elencazione potrebbecontinuare per la lavorazione dei minerali nonmetalliferi (Emilia-Romagna, Veneto e Lom-bardia), i prodotti in metallo (Lombardia, Ve-neto ed Emilia-Romagna), le macchine e gliapparecchi meccanici (Lombardia, Emilia-Ro-magna, Veneto e Piemonte).L’analisi della rete delle partecipazioni estere(vedi scheda) offre inoltre alcuni elementi diriflessione circa il livello di apertura interna-

zionale che caratterizza l’Italia settentrionale,sia nel complesso sia in riferimento alle sin-gole realtà regionali. Rispetto ad altre macroregioni italiane (Centro,Sud, Isole) ed europee, il Nord presenta per-tanto una doppia identità. Da un lato, tutte le re-gioni settentrionali denunciano un’elevata vo-cazione manifatturiera; dall’altro lato, tra Nord-ovest e Nordest permangono forti differenze alivello di specializzazione produttiva e interna-zionalizzazione. Tradizionalmente, queste di-versità produttive e organizzative sono spiegatea partire dalla storia del capitalismo italiano edal formarsi, per fasi successive, di una diversastruttura e cultura di impresa, a lungo rappre-sentata con la contrapposizione tra il Nord-ovest della grande industria fordista e il Nord-est della piccola impresa distrettuale o del «ca-pitalismo molecolare».Di recente, è tuttavia possibile cogliere al-cune tendenze omologanti che, sull’ondadella globalizzazione, affievoliscono alcunedelle tradizionali differenze tra regioni e ma-croregioni. Per esempio, la tradizionale di-stinzione tra la grande impresa del Nord-ovest e la piccola impresa del Nordest è sem-pre meno funzionale a cogliere la strutturaproduttiva del Settentrione: sempre secondo idati rilasciati dall’ISTAT, nel 2009 si rilevavache il numero medio di addetti per unità lo-

Scenari italiani 2010 79

Il rapporto identifica anche i quattro raggruppamenti merceologici (le cosiddette «4 A») in cui si rea-lizza la più elevata specializzazione produttiva e un rilevante surplus commerciale con l’estero: ali-mentari-vini, abbigliamento-moda, arredo-casa, automazione-meccanica-gomma-plastica.Dal punto di vista geografico, la mappa del (nuovo) made in Italy che si ricava da questo lavoro pre-senta un evidente nucleo di concentrazione nel Nord del paese, in base al quale è possibile introdurreil concetto di made in Nord. Nelle regioni settentrionali opera, infatti, il 68% dei «grandi pilastri» e il78% dei «pilastri» e delle «colonne» individuati. Le «colonne», in particolare, presentano la seguentedistribuzione: 1.758 nel Nord-ovest (di cui due terzi circa nella sola Lombardia), 1.625 nel Nordest,516 nel Centro-NEC (Toscana, Marche, Umbria), 446 nel Centro-Sud e Isole. Inoltre, dei 473 sistemilocali del lavoro (SLL) che registrano una o più importanti specializzazioni distrettuali, 160 si trovanonel Nord-ovest, 170 nel Nordest.

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80 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

Fig. 18 – Concentrazione regionale di attività, NUTS 2, 2006.

Fonte: EUROSTAT, Regional Yearbook 2009, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2009.

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cale, pari a 3,6 a livello nazionale, è pari a 4nelle due ripartizioni settentrionali, a 3,5 nelCentro e a 2,9 nel Mezzogiorno. Non solo:per effetto delle accresciute acquisizioni e fu-sioni da parte di operatori nazionali ed esteri,e come conseguenza dell’attuale crisi econo-mica (che ha colpito in maniera più forte legrandi imprese e quelle piccole) la media im-presa diventerebbe, secondo molti, l’ele-mento «nuovo», connotante e dinamico, co-mune alle due tradizionali partizioni dell’Ita-lia settentrionale. A tutt’oggi la prospettata omologazione delNord non sembra tuttavia essersi realizzata.Né d’altro canto si ritiene che questo sia unbene tout court: la tradizionale diversità in-

terna del sistema industriale ha infatti favoritoe riprodotto negli anni un’intensa interdipen-denza economica fra Nord-ovest e Nordest etra Nord, Centro e Sud, generando relazioniintersettoriali e interregionali che si sono tra-dotte, a loro volta, in un rafforzamento delvantaggio competitivo del Nord nella sua inte-rezza. Nel volume L’Italia delle regioni. IlNord e la Padania, recentemente riproposto adieci anni dalla pubblicazione originaria, Ro-berto Mainardi mette a fuoco la matrice dellosviluppo territorialmente differenziato dellapianura padano-alpina, contrassegnato da rap-porti di cooperazione e competizione fragrandi poli terziari, distretti industriali, zoneturistiche e agricole.

Scenari italiani 2010 81

La rete delle partecipazioni estere

Nel sistema economico italiano ed europeo il Nord emerge come ambito di attrazione e generazione diflussi di investimento. In questa porzione del paese sono numerose, in particolare, le imprese italianeche detengono delle partecipazioni in imprese estere. Le rilevazioni della banca dati ICE-Reprint al2008 indicano, a questo riguardo, che circa il 79% delle imprese estere a partecipazione italiana e il77% dell’occupazione derivante da questi investimenti sono realizzati da imprese del Nord e, in modoparticolare, da imprese lombarde (circa un terzo della capacità di internazionalizzazione della macro-regione settentrionale è ascrivibile alla Lombardia). Mentre, con riferimento al dato dell’occupazione,il 23% degli addetti in imprese partecipate dall’Italia è localizzato in Piemonte. Rispetto agli investimenti in ingresso, verso il Nord s’indirizza anche la quota maggiore delle parteci-pazioni straniere in imprese italiane, con circa l’83% delle imprese e il 74% dell’occupazione che nederiva. Nuovamente, la Lombardia emerge come principale polo della rete delle partecipazioni estereche fanno capo all’Italia, con più della metà delle imprese partecipate e il 45% dell’occupazione.Le ragioni del primato della regione lombarda, che determina a sua volta una superiore centralità delNord-ovest rispetto al Nordest (nel Nord-ovest la percentuale di società di capitale con sede all’esterosul totale delle società controllate è doppia rispetto a quella del Nordest), possono essere diverse. Traqueste vi è certamente la tendenza degli operatori internazionali a indirizzare i propri investimentiverso le maggiori aree metropolitane, dove i fattori localizzativi sono numerosi e dove è agevole conte-nere i rischi e i costi di transazione. La crisi finanziaria mondiale interviene su questo stato delle cose, inducendo una brusca contrazionenegli IDE (investimenti esteri diretti) e un rapido incremento nel numero delle delocalizzazioni daparte delle multinazionali estere presenti in Italia. È piuttosto evidente la tendenza da parte di questiattori globali, specie nei settori a più alto contenuto di conoscenza (in primis le telecomunicazioni), aspostare i propri investimenti verso i paesi dell’Est europeo e dell’Asia (Vietnam, Cina, India ecc.),dove è agevole reperire, peraltro a costi più contenuti, competenze comparabili con quelle dei paesi dipiù antica industrializzazione.

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3. Una capacità innovativa sui generis

Il Regional Innovation Scoreboard (RIS) deldicembre 2009 suddivide le regioni europee in5 grandi gruppi secondo il livello di capacitàinnovativa raggiunto. Ne emerge, in partico-lare, che: – tutte le regioni appartenenti ad Austria,

Belgio, Finlandia, Svezia, Danimarca eLussemburgo sono caratterizzate da livellidi innovazione medio-alti;

– quasi tutte le regioni appartenenti a Ger-mania, Paesi Bassi, Gran Bretagna e Nor-vegia posseggono indici d’innovazionealti o medio-alti;

– tutte o quasi le regioni appartenenti a Bul-garia, Grecia, Polonia, Romania, Ungheria,Portogallo e Slovacchia, gran parte diquelle della Repubblica Ceca e della Spa-gna, oltre che la metà di quelle italiane,sono caratterizzate da performances inno-vative basse o medio-basse;

– le regioni di Estonia, Irlanda, Francia eSlovenia si situano in una posizione inter-media.

Occorre precisare che, nel caso italiano, le re-gioni caratterizzate da performances innovativebasse o medio-basse sono ovviamente localiz-zate nel Centro-Sud, con le sole eccezioni di La-zio e Abruzzo, mentre quelle del Nord si collo-cano nella fascia media o medio-alta, con la solaeccezione della provincia autonoma di Bolzano. Se è vero che il sistema nazionale a cui ilNord appartiene non può essere consideratotra i più robusti d’Europa dal punto di vistadella capacità di produrre innovazione, è al-trettanto realistico supporre che la perfor-mance della maggior parte delle regioni ita-liane sia sottostimata. Nel calcolo della capa-cità innovativa si utilizzano infatti indicatoriche legano il processo innovativo prevalente-mente alla dimensione codificata della cono-

scenza (laureati in discipline scientifiche e tec-nologiche, servizi ad alta tecnologia, brevettiecc.), trascurando nel contempo il ruolo dellaconoscenza tacita o, più semplicemente, noncodificata. Questa considerazione è rafforzatadal fatto che, nonostante che sia possibile indi-viduare all’interno del Nord imprese leader eall’avanguardia in pressoché tutti i settori diattività, le performances relative alle 8 regioniche lo compongono paiono poco o per nullabrillanti nello scenario europeo. Per tentare di compensare lo squilibrio infor-mativo, si è qui elaborato, a partire dai datidel RIS, un indice sintetico del livello tecno-logico raggiunto dalle regioni europee mag-giormente orientato al monitoraggio degliaspetti del processo innovativo meno legatialla conoscenza codificata. In particolare,l’indicatore è stato calcolato sulla base delleinformazioni normalizzate relative a spesaper ricerca e sviluppo da parte delle imprese:piccole e medie imprese innovative; innova-zioni di prodotto e di processo; innovazioniorganizzative; occupati in imprese manifattu-riere a medio-alta tecnologia.L’indice così costruito ha permesso di con-frontare direttamente il comportamento delleregioni italiane con quella delle regioni appar-tenenti agli altri paesi europei (fig. 19). Ciòche emerge con evidenza è il netto migliora-mento della posizione relativa delle regioniitaliane in genere e di quelle che compongonoil Nord in particolare. Piemonte, Lombardia,Emilia-Romagna e provincia autonoma diTrento rientrano, infatti, tra le prime 26 areeeuropee per performance innovativa, mentrepiù staccate risultano le altre regioni setten-trionali, peraltro tutte presenti fra le prime 60in Europa. In questa graduatoria il sistemaNord si collocherebbe idealmente in nona po-sizione a livello europeo, il Centro in trentano-vesima e il Sud in centodecima.

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In altri termini, allorché ci si concentra sulleattività giornaliere (routinarie) legate al pro-cesso d’innovazione, si registra una sostan-ziale riduzione delle differenze tra le regionieuropee maggiormente sviluppate e quelledel Settentrione, oltre che, contestualmente,un aumento del divario tra Nord, Centro eSud d’Italia. A prima vista, soltanto alcune regioni tede-sche, austriache e svedesi sembrano in gradodi far meglio di quelle del Nord. Nondimeno,il divario con la Germania appare particolar-mente preoccupante per almeno due ordini diragioni: anzitutto, le imprese (e le regioni) te-desche sono spesso dirette concorrenti diquelle dell’Italia settentrionale; in secondoluogo, il «sistema» delle regioni tedesche ap-pare essere adeguatamente supportato da unforte sistema nazionale, mentre altrettanto nonpuò dirsi nel caso italiano.Ciò nondimeno, dai dati sembra emergere, daun lato, l’ottima performance del sistema Nordin ambito europeo e, dall’altro, il suo ruolo ditraino dell’intero contesto nazionale. Tuttavia,per quanto la capacità d’innovazione del si-stema privato padano risulti pari o superiore aquella della maggior parte delle regioni europee,sono parimenti evidenti le sue carenze struttu-rali, più volte riscontrate dalla pubblicistica in-ternazionale, riconducibili all’inadeguatezzadelle dotazioni tecnologiche e logistiche o,come sarà discusso in seguito, alla scarsa capa-cità di attivare reti di scambio di conoscenzecon le altre aree sviluppate del pianeta.

4. Una questione decisiva: le risorse umane

Tra i molteplici fattori che influenzano le pos-sibilità di sviluppo di un’area, le risorseumane giocano certamente un ruolo chiave.Nondimeno, queste rappresentano un evidente

elemento di debolezza del sistema Nord nelconfronto con le altre realtà europee.Allo scopo di far emergere le principali pro-blematiche e le tendenze in atto, si sono quirecuperate le informazioni relative ai livelli discolarizzazione, ai livelli di occupazione delpersonale qualificato e all’intensità di scambiodi quest’ultimo. Esse evidenziano, in partico-lare, un livello di scolarizzazione del Nord dipoco superiore alla media italiana e un pro-cesso di avvicinamento del numero dei suoilaureati in discipline scientifiche al valore me-dio europeo (UE-27) pari a 12,5 per mille. Alivello italiano è solo il Centro a fare meglio,superando la media europea e avvicinandosi aquella giapponese. Alla superiore capacitàdelle regioni dell’Italia centrale di formarepersonale tecnico non corrisponde, tuttavia,una adeguata capacità di assorbimento di que-sto personale da parte del sistema produttivo.Al contrario, sono le imprese del Nord a ga-rantire i maggiori tassi di occupazione ai lau-reati in discipline tecnico-scientifiche. Se il numero di addetti alla ricerca e sviluppoper mille abitanti è pressoché identico perNord e Centro, occorre tuttavia osservare che,mentre nel Settentrione questi sono diffusi piùo meno equamente nelle diverse regioni, nelCentro risultano fortemente concentrati nelLazio, regione in cui la ricerca ha natura pre-valentemente pubblica. Infatti, quando ci si li-miti a osservare il dato degli addetti alla ri-cerca in imprese private ci si accorge che laperformance del Nord, e in particolare del Pie-monte, è invece nettamente superiore a quelladel resto del paese.Sono nondimeno assai poco confortanti i ri-sultati del sistema Nord in tema di forma-zione continua (long life learning). Il nu-mero di adulti che partecipano a questi pro-grammi, infatti, è di poco superiore al 6%,valore sostanzialmente in linea con il dato

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nazionale, ma inferiore a quello delle princi-pali aree europee concorrenti. Infine, l’analisi dei flussi di scambio di forzalavoro qualificata da e verso le regioni ita-

liane ha permesso di evidenziare, da un lato,la superiore propensione del Nord nell’e-sportare capitale umano verso le principaliisole d’innovazione a livello internazionale

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Fig. 19 – Capacità innovativa delle regioni europee.

Fonte: nostra elaborazione su dati Pro Inno (2009).

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(un elemento non certo confortante) e, dal-l’altro, una minore attrattività di questo con-testo territoriale rispetto ad altre macrore-gioni italiane ed europee. A questo propo-sito, occorre precisare che il personale quali-ficato attratto proviene solo in minima partedai paesi maggiormente sviluppati. In altreparole, mentre il personale qualificato ita-liano si muove verso le principali isole d’in-novazione europee o americane, le regioniitaliane attraggono forza lavoro qualificatadai paesi meno sviluppati, come Romania eAlbania, Marocco ed Egitto. In queste condizioni, è evidente come non sipossa parlare di perfetta compensazionedelle risorse umane emigrate con quelle pro-venienti dai paesi in ritardo di sviluppo, datoche queste ultime sono attratte principal-mente dalle differenze di reddito e ricchezza.

Esse sono inoltre generalmente sotto-utiliz-zate, vale a dire impiegate in lavori non in li-nea con il titolo di studio posseduto.

5. Per concludere

Dall’analisi della struttura economico-pro-duttiva si evince che il sistema Nord non co-stituisce a tutt’oggi una realtà conclamata.Molteplici sono le differenze interne all’area,anche al di là della tradizionale distinzionetra Nordest e Nord-ovest. Nondimeno, sonoindividuabili le tracce di un processo di inte-grazione tra sistemi e sub-sistemi regionali, ilquale, se opportunamente sostenuto, potrebbefavorire la creazione di una vera e propriacity region padana, competitiva sui mercatieuropei e internazionali.

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Le isole d’innovazione

La capacità di produrre innovazioni è generalmente considerata uno dei fattori-chiave per il successodelle economie sviluppate. Questo perché l’innovazione non appare a caso, ma è al contrario spazial-mente concentrata, a livello sia regionale sia, soprattutto, locale. In questi ambiti territoriali, noticome isole d’innovazione, sono co-localizzate industrie avanzate e centri di ricerca specializzati inspecifici settori produttivi, supportati nella produzione dell’innovazione da efficaci politiche pubbliche.Grazie a questa configurazione, le isole d’innovazione riescono a occupare posizioni di rilievo nei pro-cessi di divisione internazionale del lavoro. Questi milieux sono caratterizzati al loro interno da dense relazioni tra attori co-localizzati che par-tecipano al processo innovativo e da importanti relazioni con altre regioni dello stesso tipo sparseper il mondo. Al loro interno, la presenza di reti formali e informali di attori facilita la diffusione el’utilizzo delle innovazioni nei processi di produzione, mentre la partecipazione a reti cognitive glo-bali permette agli attori presenti nell’isola di accedere allo stato dell’arte della conoscenza e delknow how prodotto altrove.Affinché una particolare regione possa ergersi a isola d’innovazione occorre, tra le altre cose, la pre-senza di una massa critica di forza lavoro altamente qualificata, dal momento che questa è necessariain tutte le fasi del processo innovativo: dalla produzione di conoscenza attraverso la ricerca, all’appli-cazione della stessa mediante l’utilizzo di conoscenze contestuali.L’elevata qualificazione richiesta alla forza lavoro dalle imprese della regione spiega la forte relazioneesistente fra i mercati del lavoro delle diverse isole d’innovazione. La letteratura ha evidenziato, in-fatti, la presenza di significativi flussi di personale qualificato tra isole, che contribuiscono a un’effi-ciente distribuzione della forza lavoro qualificata sotto forma di un brain exchange capace di favorirela diffusione delle informazioni e della conoscenza.

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Un sistema Nord coeso, e capace di integrarein maniera flessibile le competenze possedutedalle diverse realtà locali presenti al suo in-terno, si collocherebbe tra le prime dieci areenel panorama europeo per livello di capacitàinnovativa. In questo scenario, i problemi rela-tivi alle possibilità di miglioramento o di te-nuta del sistema dal punto di vista della capa-cità di innovare sarebbero principalmente con-nessi alla scarsa capacità delle regioni delNord di attrarre stabilmente personale qualifi-cato proveniente dalle regioni maggiormentesviluppate e di attivare, per il tramite di questestrategie di scambio di informazioni, cono-scenze e buone pratiche.Le ragioni alla base di questa incapacità sonoriconducibili alla scarsità di risorse disponi-bili per la ricerca, al mancato inserimento

della ricerca locale in reti di respiro interna-zionale, all’impossibilità di individuare am-biti di specializzazione non sufficientementesviluppati in altri paesi, infine alla difficoltàdi individuare occupazioni adeguate alla qua-lificazione conseguita.È in questi ambiti che una politica di sostegnoalle capacità d’innovazione del sistema do-vrebbe intervenire. Non si tratta qui di recupe-rare quella «età aurea» che, nel corso deglianni Cinquanta, ha permesso alla ricerca ita-liana di raggiungere livelli di eccellenza talida attrarre scienziati e ricercatori dall’estero,ma di creare stabili reti di scambio e di coope-razione con le regioni avanzate, in grado dipermettere ai sistemi produttivi che compon-gono il Nord di operare stabilmente sulla fron-tiera tecnologica.

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prie strozzature. Ciò ha evidenziato una situa-zione complicata, ovvero quella di una macro-regione padana che, a fronte di una domandacrescente di connessione materiale e immate-riale alle diverse scale e di impegnativi inve-stimenti infrastrutturali finalizzati alla sua in-tegrazione, sembra perdere terreno proprio intermini di accessibilità e di efficienza delle retidei servizi e della mobilità, presentando dis-economie da congestione ed elevati rischi dicollasso ambientale.Il nesso tra la questione settentrionale e iltema delle infrastrutture, percepito e vissuto intermini di una vera e propria emergenza, sem-bra prendere corpo proprio in questa forbicetra domanda diffusa (e pregressa) di mobilità edi servizi avanzati da parte di imprese e fami-glie, e la capacità di risposta dello Stato. Leinfrastrutture sono infatti beni forniti storica-mente per il tramite di decisioni politiche (econ risorse prevalentemente pubbliche), percui i differenziali di dotazione non sono impu-tabili ai fallimenti del mercato. Ecco almenoin parte spiegarsi la saldatura tra le urgenze in-frastrutturali del Nord e la stessa retorica checaratterizza buona parte delle rivendicazioniche nutrono la questione settentrionale.Infrastrutture, d’accordo! Ma quali infrastrut-ture? Seguendo il confronto politico e culturaledegli ultimi anni, si ha l’impressione che l’in-sieme dei problemi e dei conflitti che agitano ilNord si riassumano proprio nella tematicadelle infrastrutture, o meglio delle grandi operedi trasporto su ferro e su gomma. Opere che in-dubbiamente fanno notizia, ma che richiedonorisorse e capacità di investimento tali da risul-tare spesso di difficile realizzazione, finendo

1. Infrastrutture, fra urgenza e retorica

Da almeno due decenni, il racconto del Nord –divenuto questione territoriale – è il raccontodi un territorio sotto pressione e sotto sforzo.Una pressione, percepita come esterna, eserci-tata dallo Stato centrale (che attraverso la fi-scalità generale preleva risorse importantisenza restituire ai territori in termini di qualitàe di efficienza dei servizi pubblici) e, allostesso tempo, originata da un contesto compe-titivo sempre più globalizzato, che mette adura prova la tenuta delle regioni a economiaindustriale matura. A questa si accompagnauno sforzo dall’interno, endogeno, che mal-grado tutto il Nord riesce ancora a esprimere,nonostante che le condizioni ambientali dellosviluppo presentino costi crescenti e sianosempre meno corrispondenti alle nuove esi-genze delle imprese e delle economie locali. In un quadro del genere, alle difficoltà che in-vestono le aree metropolitane, fortemente con-gestionate e alla ricerca di ruolo economico edi un nuovo profilo culturale, si associano ledifficoltà delle aree tipiche di quella «indu-strializzazione senza fratture» descritta daGiorgio Fuà nei primi anni Ottanta. Si tratta,in quest’ultimo caso, di territori caratterizzatida una fitta rete di città medie e da reticoli ur-bani diffusi che hanno rappresentato una baseinfrastrutturale «naturale» per la crescita divari sistemi produttivi locali. Gli elementi di flessibilità sociale e territo-riale, che avevano rappresentato a lungo i fat-tori virtuosi della crescita diffusa delle regionidel Nord, sono infatti messi a repentaglio,quando non si sono già tramutati in vere e pro-

Secondo SguardoIl Nord in rete: infrastrutture materiali e immateriali fra integrazione e competizione

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per dilatare la loro gestazione per lunghi anni,scatenare a volte contestazioni plateali (comenel caso della TAV in Val di Susa), assumerespesso un significato simbolico e trascendentela stessa agenda dei decisori pubblici: si pensi,

a questo proposito, per quanto tempo infra-strutture come la Pedemontana lombarda o ilPassante di Mestre siano stati evocati, rivendi-cati e progettati, prima di vedere loro assegnaterisorse in modo finalizzato.

88 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

Storie e disavventure di «cantieri simbolo»:il Passante di Mestre, la Pedemontana lombarda e il corridoio transpadano

La fine di un incubo: così titolavano i quotidiani del 9 febbraio 2009, giorno dell’inaugurazione delnuovo Passante di Mestre avvenuta in pompa magna alla presenza del Presidente del Consiglio. Un’in-frastruttura autostradale di poco più di 32 km che attraversa con tre corsie numerosi comuni, pensatae ipotizzata più volte nel corso degli ultimi trenta anni, per decongestionare una delle aree a più in-tenso traffico del Settentrione, quella tra Venezia e Treviso, e per disimpegnare la tangenziale di Me-stre dai flussi pesanti a lunga percorrenza. Realizzato nel giro di soli 4 anni, in regime di «legge obiet-tivo», il Passante è costato circa 30 milioni di euro a km, collegando il tratto Milano-Venezia della A4al tratto successivo verso Trieste. Sebbene messo a dura prova dall’esodo estivo dell’agosto 2009, conlunghe code e l’intervento d’emergenza della protezione civile, il Passante di Mestre viene ricordatocome una delle rare realizzazioni portate a termine negli ultimi anni: una risposta concreta alla que-stione settentrionale di marca Nordestina.

Una catena di montaggio a cielo aperto: questa la calzante immagine del progetto della Pedemontanalombarda, coniata da Aldo Bonomi per rendere bene l’importanza di un nastro autostradale che attra-verserà da est a ovest la regione urbana pedemontana, tra Busto Arsizio e la bassa bergamasca, a so-stegno di un contesto produttivo tra i più forti e congestionati dell’intero paese. Ai previsti 67 km di au-tostrada si aggiungono 20 km di tangenziali di Varese e di Como e 70 km di opere viarie locali, per unimpegno finanziario di oltre 5 miliardi di euro (3,2 dei quali da reperire sul mercato finanziario). Iltracciato di questa autostrada incontrerà cinque fiumi importanti (Olona, Seveso, Lambro, Adda eBrembo), insistendo su un territorio densamente urbanizzato e articolato in un’ottantina di comunisuddivisi in cinque province, popolato da 4 milioni di abitanti e segnato dalla presenza di 300.000 im-prese che producono circa il 10% del PIL dell’intero paese. Queste le dimensioni in gioco di un inter-vento che mostra in forma esemplare quanto l’emergenza infrastrutturale si combini con quella paesi-stica e ambientale, e quanto tale consapevolezza, certamente presente nella fase progettuale appenaconclusa, debba ora – alla luce dell’approvazione del progetto definitivo da parte del CIPE (nel no-vembre 2009) – tradursi in una fase attuativa all’altezza delle premesse.

Un corridoio transpadano: ma «tutto da inventare», come titola un felice pamphlet di Franco Miglio-rini, edito nel 2007. Si tratta del Corridoio V, tra Lisbona e Kiev, la più significativa opera infrastruttu-rale del Nord compresa nei progetti prioritari dell’Unione Europea, decisi a Essen nel 1996. Il pro-getto dei corridoi si configura come una rete di comunicazione plurimodale (ferrovie, strade, reti tec-nologiche ed energetiche) alla scala continentale, in grado di integrare il trasporto di persone e dimerci connettendo il cuore dell’Europa centrale con l’Europa dell’Est e il bacino mediterraneo. Comeappare evidente, il tracciato del Corridoio V, che attraversa due volte le Alpi nei tratti Lione-Torino eTrieste-Budapest, non può essere affatto considerato scontato nei costi e nei tempi, come testimonia laprolungata e difficoltosa gestazione politica. Privilegiare una direttrice trasversale a sud delle Alpi ap-

k

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Di fronte a questa situazione è opportuno sot-tolineare quanto la «riproduzione» economicae territoriale della macroregione del Nord ab-bia potuto fare storicamente affidamento suun’ampia articolazione di fattori sociali e cul-turali, oltre che strettamente ambientali, cheinvitano a considerare la questione delle infra-strutture in una forma più ricca ed estensiva ri-spetto al passato. La modernizzazione neces-saria richiede, infatti, un rinnovato ruolo del-l’intervento pubblico (di matrice nazionale oeuropeo, poco importa) nel realizzare o rige-nerare quel capitale fisso sociale e quelle retimateriali e immateriali considerate indispensa-bili per lo sviluppo. La dimensione geografica è dunque investitada tutte le problematiche derivanti dall’aper-tura a scala globale sostenuta dai circuiti dellacomunicazione, dei trasporti, della logistica edei saperi. Come ricordava già Roberto Mai-nardi in uno dei primi contributi geografici ri-volti alla questione settentrionale (L’Italiadelle regioni. Il Nord e la Padania, 1998), lospazio economico viene infatti continuamente«rimodellato dalle nuove infrastrutture, dallereti finanziarie, dalle strategie geoeconomichedi competizione». In questa chiave, le infrastrutture si qualificanonon solo in termini di beni pubblici competitivi(non producibili spontaneamente dal mercato),ma anche di opere e di manufatti che segnanoprofondamente l’ambiente e il paesaggio. E

questa consapevolezza deve produrre una dif-ferenza di fondo rispetto ai processi che hannocaratterizzato i tempi dell’industrializzazioneitaliana, per i quali lo spazio della regione pa-dana veniva considerato uno spazio vuoto, unterritorio di conquista, indifferentemente occu-pabile dagli assi e dai nodi infrastrutturali. I li-velli di urbanizzazione raggiunti, e le stesse re-lazioni problematiche tra spazi aperti e spazivariamente edificati e coperti, impongono at-tualmente di considerare strategicamente que-sta dimensione delle infrastrutture come pro-getti territoriali e ambientali, oltre che comeinterventi in grado di conseguire effetti impor-tanti sulla qualità sociale e sulle pratiche abita-tive dei contesti interessati.La questione delle infrastrutture così deli-neata, in stretta relazione con i processi chestrutturano lo spazio sociale ed economico, in-vita a considerare il campo territoriale delNord come un laboratorio aperto che mostratendenze contraddittorie. Misurarsi con questeè la condizione indispensabile per poter deli-neare possibili ipotesi di scenario.

2. Un Nord (dis)integrato

L’immagine di una macroregione europea, ca-ratterizzata da dense reti di relazione tra i nodidella sua maglia, costituisce la principaletrama retorica sullo sviluppo infrastrutturale

Scenari italiani 2010 89

pare, dunque, una conquista per il rilancio geopolitico dell’area padana e, più in generale, per i paesidell’Europa mediterranea: ma una conquista da costruire e difendere giorno per giorno, garantendouna progettualità mirata e l’individuazione di risorse importanti. L’unico tratto realizzato, quello To-rino-Milano legato al sistema di AC/AV ferroviaria che connette il Nord a Roma e Salerno, ha infattivisto lievitare i costi per ingenti problemi connessi a un tracciato voluto in stretto affiancamento al-l’autostrada (con importanti interferenze risolte con numerose opere di sovrappasso e di allaccio). Maquali saranno gli ipotizzati «effetti corridoio» e quali i benefici conseguibili sull’insieme della rete deitrasporti, dipenderà in larga parte dal modo in cui verrà progettato il sistema delle interconnessionicon le grandi direttrici nord-sud e con le reti ferroviarie e stradali regionali.

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del Nord. Ne sono un esempio i programminazionali e comunitari che insistono sul raffor-zamento delle reti e dei corridoi di trasporto dipersone e merci, di comunicazione, di distri-buzione di servizi come scheletro portante del-l’integrazione territoriale, sia tra le regioni set-tentrionali, sia tra queste e il resto d’Europa.Una simile tensione verso l’integrazione è ri-scontrabile nelle ipotesi di sviluppo promosseda diversi soggetti e reti territoriali. Tuttavia,fenomeni di elevata frammentazione e disfun-zionalità alla scala locale spingono a metterein crisi la retorica dell’integrazione padana. Sesi riducono, da un lato, le distanze tra i grandicentri della pianura, dall’altro lato le relazionitra le città e il loro intorno si complicano, conla formazione di nuove aree di marginalità,contesti di urbanizzazione diffusa soggetti aun inarrestabile consumo di suolo, aree urbanealtamente congestionate in cui il trasportopubblico locale riesce a sostenere con estremafatica i flussi di pendolarismo quotidiano inentrata e in uscita dalle città. Di fronte al qua-dro descritto, è forte il rischio che i corridoitrans-padani manifestino quello che viene de-finito come «effetto tunnel», ovvero il sem-plice attraversamento del territorio senza atti-vare con esso relazione alcuna (fig. 20). La questione infrastrutturale investe altresì ilproblema delle relazioni fra territori, dove ladialettica tra integrazione e frammentazioneappare ancor più evidente. I comportamenti ele logiche territoriali degli attori (pubblici eprivati) mostrano, da un lato, una tendenzaverso l’integrazione, che si esprime in partico-lare nel processo di riconfigurazione dei mer-cati dei servizi di pubblica utilità. I sodalizi traaziende ex municipalizzate, fortemente radi-cate in alcune città (come Torino, Milano, Ge-nova, Bologna, Brescia), pur basandosi su in-teressi e logiche di tipo finanziario, sono statiuna risposta alla liberalizzazione dei servizi

pubblici locali (in particolare di quelli energe-tici) fondata sulla partnership e la costituzionedi alcuni mega-players capaci di competere suscala non soltanto macroregionale, ma nazio-nale e internazionale. Dall’altro lato, persisteun pulviscolo, estremamente frammentato aseconda del settore e della scala territoriale, diattori di piccole e medie dimensioni incapacidi innescare grandi processi di crescita azien-dale e ancorati a un preciso bacino territorialedi utenze (soprattutto nei settori dei trasportipubblici e dei servizi ambientali). Se ai primiil mercato offre oggi importanti opportunità diespansione e di investimento, per i secondirappresenta un fattore di pressione che si ma-nifesta non tanto nella possibile integrazionecon altre realtà, quanto nella loro incorpora-zione (se non in una vera e propria liquida-zione) all’interno di contesti esogeni rispettoal territorio di competenza.

3. Tra regolazione e governo

La relazione privilegiata tra dimensione in-frastrutturale e dimensione territoriale, il ca-rattere disomogeneo dell’infrastrutturazionesettentrionale e le manifestazioni di conflit-tualità sociale e politica innescatesi alle di-verse scale attorno a opere assunte a «sim-bolo» dello sviluppo aprono la questionedella regolazione. Chi regola le infrastrut-ture? E, soprattutto, come?La regolazione differisce dalla regolamenta-zione, che si esprime, com’è noto, per il tra-mite della norma. Come ci ricorda P. Bauby, laregolazione consiste invece in un processocontinuo di adattamento e negoziazione checonsente di mantenere l’equilibrio all’internodi sistemi complessi e di apportare continuecorrezioni laddove i processi globali investonopiù incisivamente e rapidamente il locale, e

90 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

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Scenari italiani 2010 91

Fig. 20 – Corridoi come tunnel?

Fig. 21 – Geografia delle multiutilities (nostra elaborazione).

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L’avanzata dei giganti: dinamiche di crescita dopo la liberalizzazione dei servizi pubblici locali

Le forme di gestione dei servizi pubblici locali (SPL) sono oggi al centro di un ampio dibattito che in-treccia la dimensione politica, quella sociale e quella economica. Inquadrati per quasi un secolo all’in-terno di un regime monopolistico su base locale (incentrato sulla figura dell’azienda municipalizzatamono-servizio fortemente radicata sul territorio), gli SPL hanno intrapreso nell’ultimo ventennio undifficile percorso di liberalizzazione e di apertura alla concorrenza che ha introdotto nuove logiche ge-stionali complesse. Da un lato, si è affermato un processo di progressiva aziendalizzazione (altresìdetta managerializzazione): viene abbandonato il tradizionale atteggiamento sociale-redistributivo neiconfronti del territorio (fondato sulla distribuzione di un prodotto e sulla creazione di occupazione) perprivilegiare una logica di mercato votata alla fornitura di servizi, alla massimizzazione dei profitti, al-l’incremento dell’efficienza e della qualità. Ciò è consentito anche dalla progressiva separazione traproprietà e gestione del servizio, che lascia alle aziende una superiore autonomia: sebbene nella quasitotalità dei casi la maggioranza delle quote societarie rimanga in mano al soggetto pubblico, la ge-stione viene esternalizzata per il mezzo di società per azioni che operano sul mercato (fig. 21). Dall’altro lato, lo scenario competitivo con il quale le imprese pubbliche devono confrontarsi ha indottofenomeni aggregativi complessi (attraverso accordi di partnership, fusioni, acquisizioni), orientati a espan-dere il business originario delle aziende e a innescare processi di crescita dimensionale. L’affermarsi delmodello delle multiutilities, in grado di offrire a una stessa base territoriale una pluralità di servizi inmodo integrato (ad esempio, fornitura dell’acqua, dell’elettricità e del gas), risponde alla necessità diespansione del mercato e di crescita delle capacità di investimento. Sebbene il fenomeno sia comune a tuttal’Europa (secondo modelli differenti che variano da paese a paese e da settore a settore), nel contesto ita-liano è soprattutto il Nord a essere stato investito in modo diretto da simili trasformazioni. Una recenteanalisi campionaria redatta da Nomisma (La gestione dei servizi pubblici locali, 2009) ha rilevato come il69% delle imprese di pubblica utilità sia concentrato al Nord, mentre al Centro (25%) e soprattutto al Sud(16%) «il percorso di aziendalizzazione degli SPL stenti a decollare». Tra le imprese del Nord, il 19,5% èmultiutilities, contro il 17,5% del Centro e solo l’8% del Sud. Ed è ancora al Nord che si concentrano i fe-nomeni aggregativi più importanti, soprattutto nel campo della fornitura di servizi energetici e ambientali:aziende quali A2A (nata dalla fusione di AEM Milano e AMSA Brescia), IRIDE (nata dall’unione di AEMTorino e AMGA Genova) e altre sono oggi in grado di realizzare ingenti investimenti in innovazione e svi-luppo, di acquisire la gestione di importanti infrastrutture, di espandere le proprie attività sui mercatiesteri. A questi mega-players aziendali si contrappone un dedalo di imprese fortemente localizzate, direttaeredità delle aziende municipalizzate, che hanno come principale business la gestione diretta di un servizionei confronti di un preciso bacino territoriale. Anche in questo caso si verificano fenomeni aggregativi, ditipo sia verticale (lungo diverse fasi di uno stesso servizio) sia orizzontale (in diversi servizi), con impresedi territori limitrofi per incrementare il volume del fatturato e del prodotto finale. Le trasformazioni descritte non sono senza conseguenza per i territori. Gli SPL non rappresentano solol’espressione di un interesse generale che assicura coesione sociale e territoriale (uguaglianza di ac-cesso ai servizi), ma costituiscono l’architrave sul quale si sorregge la competitività dei territori. La li-beralizzazione dei mercati conduce, in tal senso, a fenomeni contrastanti. Da un lato, la prevalenzadella proprietà pubblica nei grandi gruppi multiutility continua a garantire un certo ancoraggio terri-toriale delle aziende e un re-investimento degli utili sul territorio di origine dell’impresa (in tal senso,le multiutilities divengono uno strumento per le politiche di sviluppo economico e sociale). Dall’altrolato, le aziende locali di più piccole dimensioni, fortemente territorializzate, rischiano di non riuscire ainnescare processi di crescita adeguati in grado di renderle competitive sul mercato e di operare inve-stimenti per lo sviluppo delle infrastrutture sul territorio, con il risultato finale di doversi piegare difronte alle logiche espansive dei grandi gruppi.

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laddove la regolamentazione non ha definitoperfettamente il quadro delle competenze digoverno.Nel caso italiano, l’emergere della scala co-munitaria e i processi di decentramento ammi-nistrativo e di apertura dei mercati hanno de-terminato, da un quindicennio almeno, la mol-tiplicazione dei livelli di regolazione, che si ètradotta immediatamente in una confusione esovrapposizione (più che integrazione) di ruolie competenze tra pubblico (disarticolato neisuoi diversi livelli e ambiti) e privato. Unaconfusione cui si è cercato inizialmente di darrisposta attraverso la delega di competenzealle Regioni, ma ben presto riconsegnate, nellaprassi, al centro, rivendicando la natura strate-gica delle scelte in materia infrastrutturale. Ne consegue che se, attraverso il ruolo delleRegioni e degli altri enti locali, il territorio haacquisito nella regolazione delle infrastrutturespazi di progressiva autonomia in termini dipianificazione e governo (in settori come l’e-nergia, i poli tecnologici, i trasporti e i servizipubblici locali), nella realtà tale autonomia èstata ed è costantemente oggetto di negozia-zione, se non di aperto conflitto, fra i diversilivelli e scale territoriali. È la natura strategicadello sviluppo infrastrutturale che produceuno scontro continuo tra le scale di governo,con la necessità, da parte degli enti locali, diaffermare continuamente la propria autonomianei confronti di un ritorno al centro. Decentra-mento e centralizzazione offrono pertanto unaulteriore chiave interpretativa degli scenari disviluppo del Nord, che passa attraverso il con-trollo della trasformazione infrastrutturale. Verso l’alto, lo scontro si esprime per lo piùnella sovrapposizione tra livelli decisionali enel fatto di considerare alcune infrastrutturecome strategiche (quindi di competenza cen-trale). Il caso dell’aeroporto di Malpensa,come vedremo tra poco, ha innescato un con-

flitto con la nuova Alitalia e con visioni neo-centraliste intenzionate a far convergere sul-l’aeroporto di Fiumicino il traffico aereo inter-nazionale. Nel campo del trasporto ferrovia-rio, a sua volta, il conflitto tra Ferrovie delloStato e autonomie regionali ha ormai assunto icaratteri di uno scontro aperto nell’organizza-zione di un servizio che deve integrare l’AVcon le esigenze di sistemi regionali e localicontestati come quanto mai inefficienti. Loscontro avvenuto in Piemonte tra la Regione ei vertici di Ferrovie dello Stato sulle tariffe esull’efficienza dei treni pendolari è rivelatore,al riguardo, della difficoltà di produrre inte-grazione territoriale non solo tra territori, maanche tra scale geografiche differenti. Questacontrapposizione trascende peraltro il campodei trasporti: in ambito energetico, per esem-pio, il recente dibattito sul ritorno al nucleareha scatenato una contrapposizione tra il go-verno centrale, supportato da potenziali cor-date aziendali internazionali (come ENEL-EDF) e le Regioni che rivendicano il diritto anegare il proprio territorio nell’ipotetica rosadei siti idonei per la realizzazione dellenuove centrali. Nel contempo, il conflitto e la negoziazione aproposito dell’autonomia si riproduce ancheverso il basso, nei confronti delle resistenzelocali. Sul fronte del Nord – ma non solo – èpossibile rintracciare una geografia dellaprotesta che ha saputo legare assieme gruppidi contestazione a Vicenza come a Torino ocome a Venezia. Un caso emblematico è cer-tamente quello della TAV in Val di Susa,dove a un fronte politico comune, questavolta caratterizzato da una certa coesione traGoverno nazionale, Regione Piemonte eCittà di Torino, si è contrapposto un frontelocale variegato, composto da amministra-zioni contrarie all’opera e da diversi comitatidi contestazione.

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4. Chi ricarica il Nord? Nuovi legami traenergia e territorio

La geografia si è occupata solo marginalmentedi questioni energetiche, sebbene la produ-zione, la distribuzione e il consumo di energiasiano il risultato di un complesso processo diorganizzazione territoriale che fa riferimentoalle differenti tipologie di fonti energeticheutilizzate, alle infrastrutture realizzate per illoro sfruttamento, agli strumenti di governo eregolazione dei mercati energetici, all’impor-tanza dei servizi energetici per lo sviluppo deiterritori e, non in ultimo, agli impatti ambien-tali e territoriali della produzione e del con-sumo di energia. Il legame tra energia e territorio è per il Nord

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del tutto evidente: le reti e gli impianti energe-tici rappresentano una delle infrastrutture por-tanti dello sviluppo economico. È qui concen-trato il 51% della produzione e il 54% deiconsumi di energia del paese, a fronte del 45%della popolazione; per il settore industriale ilNord sale sino al 59% dei consumi nazionali.Allo stesso tempo, le regioni settentrionalisvolgono un importante ruolo di cerniera perl’importazione di fonti energetiche e di elettri-cità dall’estero, ospitando importanti nodi lo-gistici (come il nuovo rigassificatore entrato infunzione a Rovigo) e reti di collegamentotransfrontaliere. Di fronte alla centralità strate-gica del settore, è evidente come la gestione eil governo del parco infrastrutturale (in preva-lenza centrali generative e reti di distribu-

I nodi logistici del Nord-ovest

Nel contesto europeo il Piemonte si colloca in una posizione strategica, trovandosi all’incrocio tra dueassi centrali dello sviluppo: uno consolidato (Londra - Valle del Reno - Italia di Nord-ovest, la cosid-detta dorsale europea) e uno emergente, il corridoio mediterraneo, che dalla Penisola Iberica attra-versa la Francia meridionale e la Pianura Padana per dirigersi verso l’Europa centro-orientale.L’Unione Europea, com’è noto, ha promosso un grande intervento infrastrutturale volto allo sviluppoeconomico e alla coesione tra gli Stati membri, che ha il suo volano nel Trans-European Transport Net-works (TEN-T), le cui arterie principali sono i Corridoi europei. Essi hanno il ruolo di collegare le re-gioni periferiche con quelle centrali e di facilitare le relazioni fra gli ambiti locali e il sistema globale,attraverso un sistema di nodi di interconnessione che collegano gli assi centrali con quelli di portataregionale. Questo sistema, denominato hub & spoke, struttura in maniera gerarchica i flussi, in quantodai nodi centrali si organizzano i raccordi verso destinazioni più periferiche (gli spokes). Le diverse re-gioni dell’Unione si sono dotate e si stanno dotando di hubs e piattaforme di interconnessione e, per iltrasporto delle merci, di piattaforme logistiche atte ad assicurare le relazioni tra sistema locale e am-bito globale.Il Piemonte è attraversato da due Corridoi europei, che si incrociano all’altezza di Novara: il Corri-doio dei due mari – o Corridoio 24 (Genova-Alessandria-Novara-Valle del Reno-Rotterdam) – e il Cor-ridoio V (Lisbona-Kiev). Si tratta quindi di un’area nevralgica, posta lungo le direttrici che congiun-gono Europa occidentale e orientale, nonché Europa centrale atlantica e Mediterraneo occidentale. In questo contesto, il trasporto delle persone e delle merci è organizzato e gestito da alcuni grandi nodilogistici, che formano una rete di importanza internazionale e rappresentano il sistema logistico delNord-ovest italiano: si tratta dei nodi di Alessandria, Novara e Orbassano che, unitamente al nodo diMilano-smistamento, formano il quadrilatero logistico che soddisfa le esigenze di trasporto e movimen-tazione merci dell’intero Nord-ovest.

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zione) abbiano profonde ricadute di ordine ter-ritoriale: ciò che rappresenta, per il Nord, unaquestione di cruciale rilevanza. Le regioni set-tentrionali hanno dato origine a processi chehanno interessato l’intero territorio nazionale,declinandoli talvolta in modo alquanto origi-nale: accanto alla parziale apertura nei con-fronti dei territori esterni, si è registrato ilmantenimento di una struttura fortemente cen-tralizzata, sia dal punto di vista della gestionedelle infrastrutture che da quello delle compe-tenze di governo e di regolazione del settore. La recente, faticosa, liberalizzazione dei mer-cati dell’elettricità e del gas ha consentito unaparziale apertura al territorio nella fornitura diservizi energetici. Alcune aziende ex munici-palizzate hanno avviato processi di aggrega-zione, tuttavia il settore rimane fortementeconcentrato in pochi operatori di rango nazio-nale: nel 2004, la generazione nazionale eraconcentrata per l’80% nelle mani di soli seioperatori (il 50% apparteneva a ENEL), quotacalata al 76% nel 2008 (32% ENEL). È altresìvero che proprio al Nord si sono determinatemigliori condizioni di concorrenza: i princi-pali competitori di ENEL che operano su scalanazionale (EDISON, ENI, EDIPOWER,E.ON), hanno la maggior parte delle propriestrutture produttive localizzate al Nord. Ed èsempre qui che si concentra la maggior quotadi auto-produzione elettrica (il 55% del totalenazionale nel 2008), settore in crescita inquanto legato alla diffusione delle fonti dienergia rinnovabile. Alla liberalizzazione, che ha aperto nuove op-portunità alle imprese, si è accompagnato unaltrettanto faticoso processo di decentramentoamministrativo, che ha portato in capo alleRegioni (e di riflesso agli altri enti locali),nuove competenze in materia energetica. Il de-centramento, avviatosi nel 1991 e culminatonella riforma del titolo V della Costituzione

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del 2001, ha incluso l’energia tra le materie alegislazione concorrente tra Stato e Regioni,lasciando al primo il compito di definire gliobiettivi e i principi guida della politica ener-getica (oltre a compiti di regolazione e tutelain materia di concorrenza), alle seconde gli al-tri compiti legislativi e regolativi, affidandoinoltre a Province e Comuni competenze dinatura amministrativa. Diverse analisi hannoperaltro rilevato un certo qual ripensamento,da parte del governo nazionale, nel delegareautonomia decisionale agli enti locali e unaconseguente insufficiente chiarezza nella defi-nizione della reale suddivisione delle compe-tenze tra i livelli: una condizione che emergein modo evidente rispetto ad alcune sceltestrategiche, come (lo si è ricordato) l’ipotesi diritorno al nucleare. Nonostante ciò, le Regionihanno mostrato una certa intraprendenza nelcampo della pianificazione e della legislazionein materia energetica. In particolare, nel le-game tra energia e ambiente hanno ritrovatouno spazio all’interno del quale collocare leproprie scelte politiche: la promozione dellefonti rinnovabili e delle soluzioni di efficienzae risparmio energetico sono divenuti campi diazione propri degli enti locali.

5. Tra cooperazione e competizione

Passiamo ora a evidenziare una questione cen-trale dal punto di vista della prospettiva geo-grafica. L’evoluzione dei sistemi produttivi lo-cali e delle imprese sottende, com’è ovvio, ilrafforzamento e la qualificazione continuadelle economie esterne e, più in generale, diquel «valore aggiunto» incorporato nella di-mensione territoriale, nell’efficienza collettivae nella qualità dei contesti regionali. Ora, è suquesta dimensione sociale e ambientale che leregioni del Nord sembrano esprimere le mag-

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giori difficoltà, comportandosi ben al di sottodel loro potenziale.L’offerta di servizi alle imprese e di piatta-forme funzionali al sostegno delle economielocali, la qualità della formazione e della ri-cerca tecnico-scientifica, la presenza attiva diistituzioni intermedie, e – più in generale – iprocessi di innovazione a livello d’impresa e/odi sistema produttivo locale, sono tutti aspettiche riconfigurano il tema delle infrastrutturemateriali e immateriali. Essi richiedono inoltreun ruolo di accompagnamento da parte delleamministrazioni pubbliche entro una dimen-sione di cooperazione allargata. È questa unadelle fragilità presenti nelle regioni del Nord,all’interno delle quali la competizione fra cittàe fra territori porta assai spesso alla moltipli-cazione caotica e poco sostenibile (dal puntodi vista ambientale, ma anche sociale ed eco-nomico) di strutture e servizi di ogni tipo:dalle università alle fiere, dagli aeroporti agliinterporti, dai parchi scientifici agli outlets,dalle strutture sanitarie a quelle ricettive e ri-creative, solo per fare alcuni esempi di servizitroppo spesso progettati e realizzati sulla basedi logiche localistiche, rispondenti alla catturadi risorse economiche di breve respiro.Partendo invece da una prospettiva che guardaalla macroregione settentrionale come a uncontesto suscettibile di un deciso rafforza-mento dei livelli di complementarità e di inter-dipendenza, gli effetti della cooperazione edella competizione territoriali diventano unfattore decisivo, tutt’altro che risolvibile so-vrapponendo un’astratta razionalità pianifica-toria al dinamismo dei comportamento socialie di impresa. È un fatto che la cooperazionenon si ottiene per legge, e le scarse esperienzedi collaborazione istituzionale nella gestione enell’implementazione di alcune politiche (sipensi all’esperienza dell’autorità di bacino delPo e alla cooperazione tra le numerose Re-

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gioni e Province attraversate dal fiume) mo-strano chiaramente la fatica quotidiana neces-saria per pervenire a qualche risultato apprez-zabile. Ciò nondimeno, una macroregione chepresenta elevati livelli di sviluppo sociale edeconomico non può certo permettersi di sotto-valutare il difficile equilibrio tra esigenze disviluppo, tutela e riproduzione di un paesag-gio di qualità.A fronte di un salto di scala della città e delterritorio contemporanei, che porta a una sortadi regionalizzazione della dimensione urbana,le città e le regioni del Nord sembrano reagirein modo occasionale e altamente segmentato,favorendo un relativo appiattimento verso ilbasso delle dinamiche economico-funzionali.La debolezza – per non dire l’assenza – distrategie cooperative, a fronte di accentuati edisordinati comportamenti competitivi, mostrainfatti, giorno dopo giorno, l’introversionedelle dinamiche territoriali: in queste condi-zioni, le iniziative locali di sviluppo di fun-zioni e attività (si pensi al caso degli aero-porti) tendono a elevare la competizione in-terna all’area piuttosto che confrontarsi con lesfide aperte a livello internazionale, neutraliz-zando nei fatti ogni possibile qualificazioneterritoriale e sociale dello sviluppo e l’emer-gere di una sua maggiore autonomia e ricono-scibilità.

6. Funzioni centrali e logiche territoriali:Malpensa e aeroporti padani in ordine sparso

Molto si è discusso, in questi ultimi anni, delsalvataggio di Alitalia e dell’assegnazione deidiritti di attracco (i cosiddetti slots) dell’aero-porto internazionale di Malpensa, oltre che deldualismo – vero o presunto – tra Fiumicino elo scalo lombardo, e tra questo e il city airportdi Linate gestito dalla stessa società, per non

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dimenticare il disimpegno della compagnia dibandiera dal progetto del grande hub del Nord,ovvero la macroregione in cui si concentragran parte del mercato aereo commerciale ecivile del paese. Una certa disattenzione si èinvece avuta – in particolare tra gli ammini-stratori settentrionali – al riguardo delle dina-miche del mercato aereo e delle effettivescelte strategiche delle diverse compagnie, ol-tre che dello sviluppo di numerosi altri aero-porti locali. Mentre nasceva Malpensa 2000all’insegna dell’ipotesi di hub (sebbene inmancanza di connessioni infrastrutturali all’al-tezza del ruolo prospettato), gran parte degliaeroporti padani cresceva in ordine sparso,spesso accogliendo compagnie low cost (comenel caso delle scelte del vettore Ryanair chespiega la costante crescita dello scalo di Orioal Serio, presso Bergamo), fornendo in talmodo le basi funzionali per portare quote rile-vanti di passeggeri business verso altri grandihubs continentali europei.Dal 2000 al 2007, ben prima dunque della solu-zione di emergenza escogitata per salvare Alita-lia dalla inevitabile crisi, sebbene Malpensa ve-desse crescere il volume di passeggeri annui (dacirca 20 milioni sino a oltre 23,9 milioni, nel2007), andava ridimensionandosi il suo peso re-lativo nei confronti degli altri scali del Nord,passato in soli sette anni da circa il 50% al 39%del traffico aereo settentrionale (fig. 22).Le ragioni della perdita di ruolo di Malpensasono tuttora al centro di innumerevoli polemi-che ai diversi livelli di responsabilità: da co-loro che a livello locale attribuiscono grandepeso al mancato investimento di Alitalia nelloscalo varesino (i voli settimanali di Alitalia daMalpensa sono crollati dai 1.238 dell’aprile2008 ai 139 dell’ottobre 2009) a quanti sotto-lineano il disordinato localismo aeroportualeche ha portato alla proliferazione incontrollatadegli aeroporti padani (dal già citato Orio al

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Serio, a Verona, Bologna e Venezia con l’ap-pendice di Treviso, solo per citare alcuni degliscali più dinamici).Anche considerando gli effetti della crisi mon-diale nell’anno che abbiamo alle spalle (-2,3% ipasseggeri, -5,9% i movimenti aerei e -15,3% lemerci trasportate, dati Assaeroporti, 2009), èsignificativo rilevare la performance di alcuniscali che guadagnano posizione in netta con-trotendenza rispetto all’andamento generale (ilMarconi di Bologna, con quasi 4,8 milioni dipasseggeri, pari al 13,2% in più rispetto al-l’anno precedente, e Orio al Serio di Bergamo,con più di 7 milioni di passeggeri, pari a+10,4%), facendo leva sulla crescita dei volilow cost di Ryanair, il secondo vettore per nu-mero di voli nel paese dopo il gruppo Alitalia. Ciò che può essere interessante considerare èil peso ancora determinante del vincolo infra-strutturale, che incide marcatamente sul suc-cesso e sul gradimento di un aeroporto daparte dei passeggeri, ma anche sulle strategiedi investimento delle compagnie. La vicinanzae l’accessibilità di un aeroporto, combinataalla ricerca di scali da parte dei diversi vettori,consente ai più attenti analisti di affermare chein «un mercato per aria c’è posto per tanti» eche maggiore attenzione dovrebbe essere po-sta sia alla qualificazione infrastrutturale delleconnessioni terrestri, sia alla crescita di effi-cienza dei servizi a terra per facilitare le ope-razioni di sbarco e imbarco.Assumendo questa prospettiva, sembra possi-bile interrogarsi più radicalmente sulla geo-grafia aeroportuale del Nord e sulla riparti-zione delle quote di mercato tra i vari scali,invitando a una verifica pragmatica circa lanecessità di dotarsi di un hub come Malpensao, diversamente, muoversi in una prospettivapolicentrica, facendo leva sull’attrattività deivoli point to point rispetto ai collegamentipassanti per un hub. Ma se il rilancio di Mal-

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pensa vuole essere perseguito, la prima que-stione da risolvere rimane il completamentodelle infrastrutture di accesso per ampliarne ilbacino d’utenza potenziale, la cosiddettacatchment area. Nel caso specifico, questopotenziamento si salda strettamente con l’esi-genza di migliorare l’accesso diretto alloscalo con la riqualificazione complessivadella rete della mobilità milanese e della fa-scia pedemontana. Questa opzione, tuttora incampo tra molte incertezze, rimanda comun-que a una scelta di livello nazionale e rappre-senta un tema che meriterebbe una soluzionecooperativa a livello macroregionale, volta aripensare il sistema integrato del traffico ae-reo padano anche avviando un processo diconsolidamento societario fra i gestori dei di-versi scali. Una necessità, questa, ancor piùpressante qualora tramontasse l’idea di un si-stema aereo del Nord Italia organizzato in-torno a un grande hub.

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7. Il Nord al bivio

Quale futuro si profila per il Nord di fronte aiprocessi, talvolta fortemente contrastanti, rico-struiti nelle pagine precedenti? Quanto pesa ildiscorso infrastrutturale nei confronti dei pos-sibili scenari evolutivi della macroregione pa-dana? La risposta a queste domande non puòche collocarsi nella tensione tra due polarità evisioni differenti: da un lato vi è la retorica do-minante, la quale auspica lo scenario di unNord integrato e coeso, pur nelle sue differentiarticolazioni. È questa l’immagine di una ma-croregione che potrebbe operare effettivamentecome una federazione di realtà territoriali eamministrative certamente distinte per storia epropensioni, ma capace di conseguire maggiorieffetti di integrazione e di cooperazione alle di-verse scale. È la figura di un Nord inteso comeprotagonista entro una regione più ampia, so-vranazionale ed europea. All’altro estremo ci si

Fig. 22 – Il «non» sistema aeroportuale.

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confronta invece con la debolezza strutturaledei processi di convergenza e di cooperazioneche nutrono le principali retoriche a propositodel Nord. Alla prova dei fatti, le controversetendenze oggi riscontrabili sul territorio pre-sentano una regione settentrionale segmentatain una moltitudine di località e situazioni parti-colari, caratterizzate da logiche divergenti e se-gnate da sinergie deboli, prive di una capacitàdi visione e di progettazione condivisa del pro-prio futuro: un territorio in perenne contratta-zione con il centro per negoziare risorse e pro-pri spazi di autonomia. Tra queste due polarità, la questione infra-strutturale rappresenta uno snodo cruciale,oggi percorso da dinamiche preoccupanti: laprevalenza di logiche di investimento setto-riali e segmentate; l’elevata incertezza relati-vamente alle risorse finanziarie mobilitabili;la debolezza delle politiche di cooperazioneterritoriale ai differenti livelli; l’assenza dipolitiche e di azioni coordinate; la continuatensione tra pulsioni autonomiste e processidi ricentralizzazione. Le scelte infrastruttu-rali, come si è detto, mobilitano talvolta vi-sioni contrapposte dello sviluppo che si tra-ducono sul territorio in forti conflittualità tralivelli decisionali differenti. Tutto ciò rimanda alla natura politica, e nontecnica, della questione infrastrutturale. IlNord, infatti, non avrà alcun futuro se nonprevede una visione e una prassi politica chesi radichi sul territorio per pensarlo in terminimacroregionali. In questo senso, la sua va-lenza geopolitica non discende, di per sé, dalnuovo ordine mondiale (l’importanza dellamacroregione in termini di traffici e flussidettati dai nuovi equilibri della globalizza-zione). Al contrario, deve necessariamenteprevedere opzioni e strategie finalizzate daparte di coalizioni di attori entro un’ottica«neoregionalista». Le stesse opportunità non

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sono descrivibili in termini statici, ovvero inrelazione alla posizione o all’entità di risorsedepositate in questo macro contesto, ma losono in rapporto ai concreti comportamentidelle élites politico-amministrative, economi-che e culturali.È una visione politica del Nord – uno scena-rio strategico, appunto – a dover sorreggereil disegno delle reti infrastrutturali, e non vi-ceversa. Le infrastrutture hanno un senso acondizione che non si limitino a sostenere itraffici e gli scambi di persone, cose e infor-mazioni, ma che esprimano e si faccianoportatrici di un progetto territoriale di re-spiro. L’integrazione della macroregione nonpuò emergere se non ponendo in relazione lereti della mobilità e delle infrastrutture conl’articolazione effettiva dei sentieri di svi-luppo economici e sociali, oltre che con igruppi dirigenti che li interpretano concreta-mente sul territorio. Nel perseguimento di un simile orizzonte sifrappongono alcuni ostacoli. Mancano, in par-ticolare, nuove figure e immagini capaci ditrainare le progettualità territoriali verso unrinnovato regionalismo settentrionale. La reto-rica del policentrismo, così come altre meta-fore elaborate in passato (si pensi solo all’im-magine del triangolo industriale), si sono rive-late parzialmente deboli dal punto di vista po-litico, per cui si rende necessario un loro ri-pensamento, allo scopo di proporre nuovepossibili articolazioni dello sviluppo della ma-croregione. Milano, la realtà urbana indubbia-mente più forte e dinamica della regione, con-tinua inoltre a giocare una partita in proprio,rifiutandosi di svolgere un ruolo autentico dicapitale del Nord.È tuttora assente, infine, una riflessione com-piuta sul nesso esistente fra grandi infrastrut-ture e sviluppo, troppo spesso risolto in formadeterministica. È esemplare, a questo propo-

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Milano, il Nord ed Expo 2015

I rapporti tra Milano e il Nord sono controversi. Nessuno potrebbe negare, infatti, la centralità geo-strategica del capoluogo lombardo nei confronti della macroregione settentrionale, e il suo essere«nodo e snodo» per elevare le relazioni economiche e culturali alle differenti scale. Nei confronti diMilano si manifesta nondimeno una certa alterità. La sua forza economica e i suoi dinamismi socialipossono anche affascinare, ma alimentano diffidenze profonde e molti conflitti territoriali. La vicendaExpo sembra confermare – e per certi versi accentuare – questa impressione.Contrariamente a diversi pronostici, il 31 marzo del 2008 Milano consegue l’assegnazione dell’Expo2015, vincendo l’agguerrita competizione della città turca di Smirne. Il tema scelto è Nutrire il pianeta,energia per la vita e il sindaco Letizia Moratti può esultare per la scelta compiuta dal Bureau Interna-tional des Expositions di Parigi. Se è vero, infatti, che dietro questo risultato gioca un fattore insolitoper l’Italia – la candidatura di Milano è stata infatti condivisa e sostenuta in forma bipartisan dal go-verno Prodi, dai presidenti della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, e della Provincia, FilippoPenati, e ovviamente dal sindaco – è pur vero che un risultato avverso sarebbe crollato addosso allasola Moratti. Ma all’euforia dei primi giorni dopo il successo e ai festeggiamenti di popolo per lestrade segue, nei mesi successivi, un sensibile mutamento di scenario. A fronte di un ampio sostegnopolitico ottenuto per la candidatura internazionale, la risorsa Expo si è presto consumata in uno scon-certante gioco di conflitti interno al centro-destra riguardante, anzitutto, il profilo della nuova societàdi gestione e dei suoi amministratori, oltre alla natura e alla dimensione delle risorse che sosterrannol’operazione nei prossimi anni. Nel nuovo contesto sono peraltro decisive le elezioni politiche nazio-nali, con il ritorno di un governo a guida Berlusconi e un ministro del Tesoro che tiene saldamente inmano i cordoni della borsa, oltre che il sopraggiungere di una crisi finanziaria mondiale di proporzionistoriche, con risvolti drammatici sulla disponibilità di spesa della pubblica amministrazione. Questoprecipitare degli eventi incide profondamente anche sui processi riguardanti l’Expo, con ulteriori sen-sibili ritardi e continue dispute politiche tra Milano e Roma. Tuttavia, il mutamento di scenario complessivo non aggiunge elementi determinanti nella considera-zione di alcune debolezze e ambiguità proprie dello stile milanese di promozione e gestione dell’e-vento: la prima ha a che fare con il prevalere della dimensione fisico-infrastrutturale nella progetta-zione dell’Expo; la seconda, con la marcata tendenza a pensarlo in proprio, come evento esclusivodella città. Com’è evidente, entrambe queste dimensioni hanno una forte valenza geografica.La prima questione, relativa al prevalere della dimensione immobiliare e infrastrutturale sulla proget-tazione politico-culturale dell’evento, sembra confermare una tendenza storica di Milano, che ha sem-pre mostrato una propensione a ricavare benefici immediati dalla crescita a scapito di una proiezioneprogettuale e meditata delle opportunità di sviluppo. Questa consapevolezza sembra motivare l’ap-proccio alternativo seguito nel prefigurare il primo layout di progetto che, se ha il merito di assumereradicalmente il tema della sostenibilità dell’intervento, presenta più di un aspetto problematico in or-dine alla sua effettiva praticabilità. Inoltre, in assenza di un approfondimento culturale del tema scelto.viene esaltata la dimensione tutta infrastrutturale dell’evento, con il moltiplicarsi di elenchi di opere atestimonianza della grande occasione da non perdere. In questo senso, Milano gareggia con le altrerealtà del paese nell’assegnazione di importanti volumi di spesa pubblica finalizzati a nuove linee me-tropolitane, al prolungamento di alcune tratte esistenti e all’inaugurazione di nuove fermate. Il tuttoaccompagnato a un balletto continuo di interventi considerati «opere essenziali» nel dossier di candi-datura dell’Expo, che entrano ed escono di scena dall’oggi al domani (è il caso della nuova linea 6della metropolitana dalla stazione di Cadorna a Baggio, recentemente stralciata dai fondi assegnatidal CIPE).

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sito, il caso della valutazione degli effetti terri-toriali diffusi da parte dei grandi corridoi fer-roviari e infrastrutturali: se, come si sostenevain precedenza, le infrastrutture sono pensate inmodo avulso rispetto al territorio, il rischiodelle grandi reti TEN/AC-AV è quello di so-stenere esclusivamente l’integrazione dellearee urbane centrali e dei loro servizi di rangosuperiore. Rimane aperta in tutta la sua com-plessità la questione delle interconnessioniest-ovest e nord-sud, così come quelle tragrandi opere e reti regionali e tra differentimodalità di trasporto. In tal senso, le infra-strutture dovrebbero essere richiamate al loroduplice ruolo: di traino dello sviluppo, da unlato, e dall’altro di vettore in grado di faremergere nuovi rapporti complementari frauna molteplicità di nodi e di località, oltre cheal ruolo di riequilibrio nelle disparità di ac-cesso ai servizi e di valorizzazione dello svi-luppo nei diversi contesti territoriali.

La recente entrata in esercizio, non senzadifficoltà, della tratta tra Torino, Milano,Roma fino a Napoli-Salerno non deve far di-menticare che l’interconnessione ferroviariatranspadana tramite l’alta velocità rimanecomplessivamente a uno stato progettuale.Una progettazione che, da un lato, si scontracon forti resistenze locali e, dall’altro, con ibisogni di chi, più che la velocità, invocauna maggiore attenzione ai servizi locali eregionali. L’integrazione tra i corridoi infra-strutturali e le reti della mobilità regionale èuno dei temi centrali per una valorizzazionedei territori attraversati.Della contrastata situazione del traffico ae-reo si è già detto: le alternative sono il po-tenziamento o, al contrario, il dehubbing diMalpensa («eutanasia del sistema») oppurel’integrazione macroregionale in una strut-tura aeroportuale policentrica e praticata informa cooperativa.

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Il secondo aspetto sconta la tendenza della città a pensare l’evento in proprio: un Expo di Milano,dove tutto si risolve nella localizzazione scelta per il sito (in direzione nord-ovest, fino a lambire lanuova fiera di Rho-Pero), e non a immaginare e progettare un Expo dei territori. Tutto ciò in forte ten-sione con un tema – l’alimentazione – che dovrebbe valorizzare risorse e saperi radicati in una Italiacaratterizzata dalle varietà economiche e culturali, e dunque la mancanza di una prospettiva che leghiopportunità di sviluppo e visione geografica. Sempre più frequentemente analisi e studi segnalano ladimensione regionale della città, il suo essere realtà aperta e relazionale, ma – come per reazione – lescelte di Milano si risolvono entro i suoi angusti confini amministrativi.

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nuità e di interazioni con le regioni transal-pine, quelle del Sud dell’Europa e dell’areamediterranea. In questo complesso scenario si diffondonooggi nuove impronte evolutive, come la cittàdiffusa, la terziarizzazione dell’economia ele grandi opere viarie, che ne sgretolano leidentità tradizionali, tendendo a omologarnele forme e ad appiattirne le discontinuità,senza che questo si traduca in un processo divalorizzazione. All’eccessivo consumo disuolo e alla riduzione o scomparsa di alcunetipologie paesaggistiche storiche, si oppon-gono alcuni timidi e comunque «minoritari»processi di riqualificazione: si veda, peresempio, lo sviluppo della vocazione vitivi-nicola fra Langhe e Monferrato, il recuperodei centri storici, la rinaturalizzazione diaree agricole e, qua e là, la riprogettazione diaree industriali dismesse.

1. Mosaici in evoluzione

Se, come i capitoli precedenti mettono in evi-denza, il Nord italiano presenta un’elevata dif-ferenziazione interna in termini di strutture so-ciali, organizzazioni produttive e telai istitu-zionali, ancor più diversificata appare la na-tura dei suoi paesaggi. Proprio il mosaico paesaggistico è però daconsiderare come un punto di forza del patri-monio territoriale (in chiave turistica e resi-denziale, per esempio) e un fattore significa-tivo per comprendere gli scenari generali diun’area che proprio alle relazioni fra subre-gioni molto diversificate – in primo luogoquelle alpine e quelle padane – deve parte delproprio sviluppo e della propria specificità. IlNord Italia è poi un’area di connessione fraEuropa centrale ed Europa mediterranea: isuoi paesaggi sono anche il risultato di conti-

Il consumo di suolo

Come già evidenziato nel Rapporto 2009 della Società Geografica Italiana, da alcuni anni il tema delconsumo di suolo sta ricevendo nel nostro paese un’attenzione crescente presso addetti ai lavori, ammi-nistratori, tecnici, studiosi e associazioni ambientaliste, come ben evidenziano, per esempio, le attivitàdella campagna nazionale «Stop al consumo di territorio». A dispetto della sua rilevanza per il governodel territorio, si tratta di un tema rispetto al quale si registra un gravissimo deficit di informazioniaffidabili e sistematiche. Non è affatto chiaro, in particolare, cosa si intenda per «consumo di suolo», eil dibattito fatica a uscire da confronti aspri sul piano ideologico. A questa esigenza conoscitiva ha cer-cato di dare una risposta l’Osservatorio Nazionale sui Consumi di Suolo (ONCS), creato da INU, Le-gambiente e dal Dipartimento di Architettura e Progettazione del Politecnico di Milano. Con il primoRapporto 2009 l’ONCS avvia finalmente un monitoraggio sistematico su dati affidabili e comparabili,disponibili attualmente solo per Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e Piemonte.Allo stato, l’unica modalità unitaria e omogenea di rilevazione a scala europea e nazionale è data dalprogetto Corine Land Cover (Coordination of Information on the Environment), una rilevazione satel-litare degli usi del suolo interpretata con una cartografia digitale in scala 1:100.000. Tuttavia, la scala

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Terzo SguardoPaesaggi alpini e paesaggi padani

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2. Paesaggi o non paesaggi?

Rileggendo la sezione sull’area alpina e pa-dana dell’opera di Aldo Sestini sul paesaggioitaliano (1963), si coglie l’idea di un insiemedi paesaggi integri, di subregioni paesaggisti-che coerenti e stabili, appena toccate dai pro-cessi di urbanizzazione e di industrializza-zione. Cinquant’anni dopo, la percezione è in-

vece quella di una identità indebolita, fram-mentata, meticciata da influenze architettoni-che, industriali, commerciali e culturali eso-gene, deterritorializzate, globalizzate.C’è da chiedersi se sia possibile distingueretra paesaggi storici, da tutelare, e paesaggi inrapida trasformazione, deterritorializzanti, in-vasivi, divoratori di suolo e di identità paesag-gistica. E ancora, possiamo affermare che oggi

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di rilevazione non consente di scendere a un dettaglio territoriale inferiore a un modulo di 25 ha, ciòche ne costituisce il principale limite, fornendo solo una interpretazione grossolana del fenomeno.Sulla base dei dati Corine tra il 1990 e il 2000 le aree urbanizzate sono cresciute in Italia di circa82.000 ha, passando da 1.340.000 a 1.422.000, a discapito essenzialmente delle aree agricole. Questi dati sono fortemente contestati per la loro approssimazione. Ad esempio, secondo i promotoridella campagna Stop al consumo di territorio, i dati sono molto più allarmanti. Paolo Berdini, in un re-cente articolo (apparso il 19.11.2009), a partire dai dati ISTAT sulle volumetrie realizzate in Italia trail 1995 e il 2006, arriva a stimare il consumo di suolo in ben 750.000 ha nel decennio, pari cioè a oltre68.200 ha/anno.In questo contesto, i dati raccolti dall’ONCS consentono di osservare il fenomeno attraverso una meto-dologia di analisi dei flussi, basata sul confronto tra basi di dati geografiche che consente di identifi-care le diverse possibili transizioni da un uso a un altro. Secondo questo schema, adottando una defini-zione proposta nel 2006 dall’Agenzia Europea dell’Ambiente, il consumo di suolo deve essere ristrettoalle sole trasformazioni non omologhe (cioè da una tipologia d’uso a un’altra), permanenti e artifi-ciali. Sulla base dei dati raccolti nel Rapporto dell’ONCS, tra il 1999 e il 2005 in Lombardia oltre 22.000 hadi suoli agricoli e 2.600 ha di suoli naturali sono stati urbanizzati, anche se le coperture naturali pre-sentano un saldo positivo (+3.900 ha circa), con un tasso di crescita dell’8,7% nei 6 anni considerati. Idati raccolti dall’ONCS sull’Emilia-Romagna consentono di estendere lo sguardo su un periodo piùampio. Tra il 1976 e il 2003 oltre 96.000 ha di suolo agricolo sono diventati urbanizzati, così come lecoperture naturali sono cresciute di circa 89.300 ha sempre a scapito delle aree agricole, che si sonoridotte del 13,6%. Nel periodo 1991-2005, con una metodologia in parte differente, la Regione Pie-monte stimava in 19.042 ha il consumo di suolo. Se i dati quantitativi appaiono decisamente contrastanti, non si può negare l’importanza del problemae la necessità di un suo controllo, sia sul versante informativo, sia soprattutto su quello delle politiche,cercando di intervenire a vari livelli (si attende da tempo una direttiva comunitaria in tal senso) percontrastare i processi a monte così come gli effetti perniciosi della fiscalità locale che fa sempre più af-fidamento sulle entrate connesse alla trasformazione dei suoli agricoli in industriali e terziari. La risorsa suolo deve essere ben di più che un semplice supporto per le attività antropiche, trattandosidi un sistema naturale complesso, prodottosi in processi naturali e coevolutivi in tempi lunghi, caratte-rizzato da biodiversità e da fondamentali funzioni co-sistemiche (biologiche, ecologiche, economiche eculturali). Alla riduzione delle superfici permeabili si legano, come evidenziato in letteratura, preoccu-pazioni crescenti per le conseguenze sul clima e sugli assetti idrogeologici per la riduzione delle poten-zialità agricole, per gli effetti negativi sulla qualità urbana e paesaggistica, nonché per i costi socialidi un assetto territoriale caratterizzato da processi crescenti di sprawl urbano.

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il paesaggio del Nord è un oggetto ridotto adalcuni lembi residuali, in genere tutelati e va-riamente protetti?Sicuramente no, perché in questo caso ca-dremmo in una concezione puramente este-tica, secondo cui il paesaggio è qualcosa diunico e di bello da vedere, di separato o, comesi scriveva un tempo, di «pittoresco», mentretutto il resto potrebbe essere definito come«non paesaggio», allo stesso modo in cuiMarc Augé parla di «non luoghi». La perce-zione di un «non paesaggio» trova confermanella stessa percezione sociale della città dif-fusa, il cui paesaggio non viene riconosciutocome componente identitaria dei luoghi. Un’ampia bibliografia di studi disciplinari e lastessa Convenzione europea ci riportano d’al-tro canto verso l’idea che «tutto è paesaggio»,e che si possano trovare un senso e una logicaanche dove maggiormente ciò che si incontraè frammentato e incoerente. Il paesaggio è intal modo interpretabile come segno delle tra-sformazioni che hanno coinvolto nell’arco dipochi decenni le attività economiche, le infra-strutture, la popolazione, le sedi umane e glistili di vita. È questa una lettura che si pro-pone di rilevare trasformazioni non solo mate-riali, ma anche culturali, relative al modostesso di considerare e, conseguentemente,rappresentare e progettare il territorio. Il paesaggio è in questo caso «una sfera che av-volge la vita quotidiana» e incide nella qualitàdella vita e nelle scelte localizzative delle per-sone. Inoltre, soprattutto nel campo delle politi-che e della pianificazione, il paesaggio è una ri-sorsa per lo sviluppo, un faro di orientamentoper le scelte che riguardano la conservazione ola trasformazione. In quest’ottica, ciò che sem-bra contare maggiormente è l’insieme di rela-zioni e di processi che avvengono attraverso lasua trasformazione, per cui nel «non paesaggio»del Nord possiamo riconoscere i segni della de-

ruralizzazione, dell’industrializzazione e dellapost-industrializzazione, i cambiamenti nelmondo dell’architettura, del lavoro e del tempolibero, l’influenza della globalizzazione e letracce delle migrazioni, le nuove forme dell’abi-tare, ma anche quelle dei conflitti che attraver-sano la società contemporanea. Resta, incombente e irrisolto, l’interrogativose questi «non paesaggi» non contribuiscanoin misura significativa al depauperamentodella qualità della vita quotidiana, sintomi epoi concause di un degrado interno al «benes-sere» di cui molte analisi-inchieste ci dannoconto con puntualità ogni anno.In questa chiave di lettura i paesaggi del Norddiventano le tracce dei profondi cambiamenti inatto nel territorio della vasta area padana, che siinterconnettono con le trasformazioni che oggiridefiniscono l’area alpina, la cui marginalità èpiù il frutto di una visione culturale che un datooggettivamente dimostrabile. Accanto al Nord «padano», e in stretta rela-zione con esso, c’è infatti un Nord «alpino»che non è rimasto cristallizzato, e il cui cam-biamento può essere rilevato in due diverse etalvolta opposte immagini: quella negativa,stereotipata, dello spopolamento, dell’abban-dono delle pratiche tradizionali e dello sfrutta-mento turistico, e quella positiva della rinatura-lizzazione, della conservazione della biodiver-sità e della sperimentazione di nuove forme so-stenibili del lavorare e dell’abitare. Ma il dibat-tito su che cosa sia valore e patrimonio ha vistoun potenziale ribaltamento di valori anche perquanto riguarda la pianura, dove i processi disviluppo (espansione industriale, commercialee residenziale) hanno cominciato a essere sop-pesati – sia pur a fatica – attraverso il parame-tro della sostenibilità, che ha conferito nuovivalori e scopi non solo ai progetti legati allaconservazione dei patrimoni ecologici e cultu-rali, ma anche alla ricerca di uno spazio-labo-

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ratorio di nuove pratiche di convivenza socialee di rapporto tra uomo e ambiente. La temutafine del paesaggio potrebbe avere come pros-simo esito la ricostruzione del paesaggio. In queste pagine che chiudono il Rapporto sivuole tracciare una breve sintesi, necessaria-mente non esaustiva, degli scenari che i pro-cessi sopra accennati stanno definendo nelNord: paesaggi fra loro frammentati, ma nonprivi di continuità spaziale e fra loro in rela-zione, che esprimono una visione del territoriovissuto, ne accompagnano le trasformazioni,contribuiscono a definire nuovi valori e nuovefunzioni anche per gli scenari ambientali eculturali di lunga durata.

3. L’area alpina

L’immagine cristallizzata del paesaggio mon-tano viene oggi ribaltata in ragione di processidi trasformazione sempre più rapidi e distribuiti. Gli scenari della montagna alpina si ridise-gnano intorno a due direttrici: la valorizza-zione delle risorse ambientali attraverso lo svi-luppo di produzioni locali di qualità, frequente-mente legate a servizi di ospitalità improntatiai principi della sostenibilità, e lo sviluppo dicentri di eccellenza legati alla ricerca e a pro-duzioni tecnologicamente innovative in campiche vanno dall’agronomia alla bioedilizia. La sezione italiana della catena alpina, pur rap-presentando un sistema montuoso organico e ingran parte uniforme, si diversifica nei paesaggigià attraverso fattori ambientali, come le di-verse componenti geologiche, o come alcunecaratteristiche climatiche (nelle Alpi Carniche eGiulie i limiti altimetrici della vegetazione siabbassano significativamente rispetto agli altrisettori). La sezione occidentale è poi morfolo-gicamente priva della fascia prealpina e colli-nare, che segna le relazioni col piano a partire

dal Biellese attraverso Lombardia, Trentino,Veneto e Friuli. Il paesaggio piemontese èquindi visivamente distinto, segnato da un pas-saggio netto fra i grandi massicci cristallini (ilMonviso è osservabile da tutta la pianura a suddi Torino) e l’area padana, che spesso s’incuneanei fondovalle che convergono a raggiera versoil piano, in un sistema di contiguità che ha per-messo di sviluppare reti di relazioni molto in-tense fra le due aree. La vicinanza tra monte epiano non ha però impedito, nel secolo scorso,il progressivo spopolamento montano (cosìElva, un comune a 1.600 m in Val Maira, è pas-sata tra 1901 e 2001 da 1.319 a 114 residenti),ma ha recentemente favorito un parziale ritornoinsediativo negli abitati più vicini alle grandiaree urbane (Rubiana, comune a 700 m in bassaVal di Susa, è cresciuta fra il 1971 e il 2001 da1.101 a 2.048 residenti). Nel paesaggio delle valli, generalmente conorientamento est-ovest, si distingue nettamenteil versante esposto a nord, più umido e ricopertoda foreste, da quello esposto a sud, più caldo easciutto, dove si concentrano gli insediamentiumani e le colture. Spesso gli abitati sorgono supiccoli conoidi di deiezione torrentizia, che ga-rantiscono una migliore esposizione, un pendiopiù moderato e la protezione dalle eventuali al-luvioni del corso d’acqua principale. La progressione dello spopolamento ha local-mente contribuito a conservare la biodiversità ea permettere un ampliamento della coperturaforestale che ha inglobato abitati, prati e pascoliabbandonati. Fanno generalmente eccezione levallate con passi, valichi e trafori, dove allegrandi vie di comunicazione si sono frequente-mente appoggiati anche lo sviluppo industrialedel fondovalle e quello turistico dell’alta valle.Un altro forte segno impresso dalle attivitàumane è legato allo sfruttamento delle risorseidriche, con decine di dighe grandi e piccolepresenti in tutte le vallate alpine.

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Lo spopolamento riguarda, con poche ecce-zioni, l’intero mondo alpino, dalla Liguria alleAlpi Carniche e Giulie, ed è all’origine dellascomparsa di molti segni legati alle attività tra-dizionali del settore primario, come terrazza-menti e muretti a secco, ma anche prati, orti,abitazioni, ricoveri per animali, mulattiere. Siincontra così un paesaggio dell’abbandono cheè anche segno della scomparsa di un’identitàculturale, una perdita di toponimi, di consuetu-dini, di relazioni uomo/ambiente. Va detto chela pratica dell’alpeggio non è del tutto scom-parsa, e che molte malghe sono ancora attivegrazie a una nuova vivacità imprenditoriale le-gata a produzioni di nicchia di alta qualità.Il paesaggio delle valli alpine non può tuttaviaessere letto unicamente nella direzione di per-dita di segni culturali e della rinaturalizzazione.Molti casi dimostrano la capacità locale di atti-vare progetti di sviluppo territoriale, non solonelle aree dove si è sviluppato il turismo inver-nale ed estivo (come l’alta Val di Susa, la Valled’Aosta, la Valtellina, le valli atesine e l’areadolomitica), ma anche in quelle economica-mente fino a oggi marginali, che presentano orail vantaggio di essere territori più integri, noncompromessi dalla speculazione edilizia. Le città alpine sono una realtà importante, di-namica, sede di attività industriali competi-tive, di servizi e di un’elevata qualità dellavita, che sembra aderire all’idea di Bätzingdelle Alpi nei termini di un «laboratorio euro-peo» della sostenibilità, spazio per vivere enon solo per una sua fruizione esogena. Levallate, soprattutto dove sono presenti centriurbani significativi, stanno dunque svilup-pando un paesaggio che unisce conservazionee innovazione, con una notevole capacità diintegrare gli elementi naturali e rurali con leattività ricreative, artigianali, commerciali eindustriali. Anche il settore primario ha datosegni di vitalità, migliorando e valorizzando la

qualità dei prodotti e conservando un paesag-gio di frutteti, vigneti e allevamenti bovini.Nelle valli atesine, per esempio, il tipico pae-saggio tirolese del «maso chiuso» ha saputounire conservazione e innovazione grazie allosviluppo dell’ospitalità agrituristica. Anche la diversità culturale è un segno distin-tivo nei paesaggi alpini. Non solo per la pros-simità con altri Stati, oggi rivalutata, come si èvisto, dallo sviluppo delle euroregioni (si vedaAppendice al Secondo Discorso), ma ancheper la presenza di piccole comunità (franco-provenzali, occitani, valdesi, walser, cimbri,ladini, tedeschi, sloveni) che storicamentehanno caratterizzato questa subregione conlingue, religioni, usanze e pratiche materialilegate alla costruzione degli edifici, alle siste-mazioni del suolo, alla gestione del territorio.Tra i paesaggi culturali dell’area alpina vannorilevati i segni lasciati dalle grandi vicendestoriche del passato: dall’incastellamento, chesegna per esempio la Valle d’Aosta, al «pae-saggio della memoria» dei conflitti mondiali,ovvero un numeroso insieme di fortificazionima anche di strade, osservatori, casematte,trincee. Gran parte di questi segni è stata og-getto di progetti di conservazione e valorizza-zione che hanno dato origine a un diffuso si-stema di musei, ecomusei e percorsi tematici.

4. L’area prealpina e pedemontana

L’area prealpina e pedemontana è dunque oggiquella dove si concentrano i maggiori progettidi trasformazione e consumo di suolo. Intensamente antropizzato, come si è detto ilsettore pedemontano occidentale è connotatomorfologicamente da una fascia di pianaltiresi ondulati da ampie conoidi alluvionali,dove il paesaggio mescola componenti urbane(sono molti i centri di piccole-medie dimen-

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sioni come Cuneo, Pinerolo, Biella), periur-bane e rurali (allevamenti, frutteti e vigneti so-prattutto nel Saluzzese e nel Pinerolese).È a partire dal Biellese che le Prealpi iniziano asvilupparsi come sistema morfologicamente de-finito, formando una subregione variegata cheinclude grandi specchi d’acqua. L’area dei laghipresenta un paesaggio specifico, non solo peruna maggiore mitezza climatica, ma anche perlo sviluppo residenziale e turistico già di im-pronta ottocentesca.Le valli prealpine hanno morfologia fluviale,con fondi vallivi stretti e pendici meno ri-pide di quelle alpine, storicamente coltivatee terrazzate e con diffusi boschi caratteriz-zati dal castagno. Nelle valli più vicine allapianura sono in crescita gli allineamenti in-dustriali e commerciali, mentre per i comunipiù interni vale il discorso sullo spopola-mento e sulla perdita di paesaggio rurale cuisi è accennato in precedenza.

In Veneto e in Friuli l’area prealpina alternapendici montuose, altopiani e ampie vallate,con il comparire dei fenomeni carsici (do-line, polje), maggiormente evidenti nell’areagiulia, il Carso propriamente detto. Anchegli scenari antropici sono molto vari, conaree di abbandono, soprattutto nelle valli piùinterne, e altre rese più dinamiche grazie al-l’espandersi di attività artigianali e indu-striali o allo sviluppo agricolo, in particolaredel settore vitivinicolo.Connotato da suoli poco fertili e quindi discarso valore per l’agricoltura, il territorio trail pedemonte e l’alta pianura è fra quelli mag-giormente occupati dalle aree urbane e dallegrandi vie di comunicazione. Solo localmenterestano piccole aree che conservano anchenella toponomastica (come le vaude e le ba-ragge piemontesi, le groane milanesi, i ma-gredi friulani) i lembi di un paesaggio semina-turale e scarsamente antropizzato.

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Paesaggi del riso

Il 20 febbraio 2009, a Novara, è stata firmata una convenzione tra la Regione Lombardia e la Re-gione Piemonte, con la quale si è istituito formalmente il Comprensorio Irriguo Est Sesia che oc-cupa una superficie di ben 210.000 ha bagnati da oltre 10.000 km di canali. Compreso tra il Po, ilSesia e il Ticino, fa parte di uno spazio più vasto coltivato a riso comprendente la Lomellina, lapiana novarese, quella vercellese e zone limitrofe di pianura appartenenti alle province di Biella,Alessandria, Milano e Lodi. L’area di coltivazione del riso, a cavallo fra le regioni della Lombardia e del Piemonte, rappresentauno dei più grandi distretti monocolturali dell’Europa rurale, da cui proviene quasi l’87% della pro-duzione nazionale e circa il 45% di quella continentale. Intorno a questo «cuore distrettuale» siestende anche una sorta di zona «cuscinetto» che vede una minore densità di colture risicole, mache nondimeno è caratterizzata dalla presenza diffusa di campi di coltivazione (province di Milano13.500 ha, e di Alessandria 8.000, in particolare).Il profondo radicamento della coltura risicola nell’area lombardo-piemontese è frutto di una tradi-zione di oltre cinque secoli. Il riso, infatti, fu probabilmente introdotto in Italia attraverso gli strettiscambi commerciali e sociali fra la civiltà araba, la Spagna e il Sud Italia; la coltivazione del cerealesi espanse poi anche nelle fertili pianure alluvionali della valle padana, che assicuravano ricchezza diterreni e abbondanza di acqua, con conseguenti alti livelli di rese produttive. Nell’area del Piemonteorientale e della Lombardia sud-occidentale la coltivazione del riso trovò un habitat ideale e, secolo

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5. L’area padano-veneta

L’evoluzione dei paesaggi della pianura padano-veneta, dal dopoguerra a oggi, ha seguito unpreciso ordine di passaggi legato alle vicende

economiche e sociali, dove il motore della suatrasformazione è dato dalla diffusione dei si-stemi urbani. Il paesaggio urbano e quello dellegrandi vie di comunicazione stradali, ferroviariee aeroportuali sono il segno distintivo dell’alta

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dopo secolo, pose le basi per una sempre più consolidata gestione distrettuale del territorio. Uno deglielementi che più hanno contribuito a strutturare l’aspetto attuale di questi territori è rappresentatosenza dubbio dal governo delle acque. I paesaggi del riso sono innanzitutto paesaggi anfibi, che neces-sitano grandi quantità d’acqua per la sommersione delle piante in fase di crescita (di norma da aprilead agosto). L’area del distretto risicolo rappresenta un modello idraulico strutturato e collaudato or-mai da secoli. All’approvvigionamento di acqua sovrintendono due importanti consorzi di irrigazione ebonifica, l’Associazione di Irrigazione Ovest Sesia e l’Associazione di Irrigazione Est Sesia. Il prelievoidrico che alimenta la fittissima rete di canali sfrutta soprattutto il maggior fiume italiano, il Po, per iltramite del Canale Cavour, che si distacca dal corso del Po nei pressi di Chivasso, alle porte di Torino. I paesaggi del riso sono caratterizzati da un alto tasso di artificialità. Le fotografie aeree che ritrag-gono i paesaggi del riso mettono esemplarmente in risalto l’aspetto regolarmente geometrico che ca-ratterizza l’assetto colturale: le varie «camere» (come vengono indicate le singole aree contornate daarginelli per contenere l’acqua durante i periodi di allagamento) formano una regolare griglia di poli-goni dalle forme più svariate, ciascuna espressione di un efficace e sapiente compromesso fra l’esi-genza di regolarità espressa dall’agricoltura meccanizzata e la conformazione geomorfologica-pedo-logica dei terreni.A incidere sulla regolare orlatura dei campi vi sono gli insediamenti umani. In quest’area l’elementoprincipe dell’edilizia rurale è rappresentato dalla cascina, un edificio spesso di ragguardevoli dimen-sioni, a pianta quadrata o rettangolare, con una complessa articolazione interna di spazi abitativi,spazi di lavoro, ricoveri per attrezzi, stalle, fienili, magazzini. Il paesaggio, tuttavia, come ben spiegato non solo dalla Convenzione europea, ma anche da una lungatradizione di riflessioni geografiche, non è fatto solamente della concreta fisicità delle componenti ter-ritoriali. Ogni paesaggio è innervato anche da più impalpabili e meno prevedibili componenti percet-tive, correlate a un complesso sistema di circolazione di immagini (provenienti dalla tradizione pitto-rica, dalla fotografia, dalla letteratura, dalla pubblicistica, dalle strategie promozionali di marketingecc.). La raffinata complessità territoriale di questi paesaggi, unitamente all’elevata produttività agri-cola, non si esprime tuttavia in una altrettanto consolidata immagine di insieme. In questo senso, il di-stretto risicolo lombardo-piemontese sembra soffrire di quel «difetto di immagine» che caratterizzal’intera Pianura Padana nel suo insieme. Nonostante i territori rurali della Pianura Padana e quellidel «distretto risicolo» nello specifico posseggano un rilevante ruolo economico e produttivo, il loro«potere contrattuale» nell’affermazione delle proprie immagini territoriali all’interno dei «paesaggimediatici» e dei «paesaggi ideologici» (secondo le definizioni di Arjun Appadurai) sembra essere alquanto ridotto se paragonato ai discorsi territoriali prodotti dalla città, dalla montagna, dai laghi,dalla riviera marittima. Il problema di immagine e di «successo» della dimensione paesaggistica sem-bra d’altronde riflettere una caratteristica di base del prodotto stesso. Il riso stenta a farsi largo all’in-terno dell’immaginario enogastronomico legato all’Italia, sia quello condiviso dalla popolazione na-zionale, sia quello affermato nei circuiti promozionali turistici internazionali. Basti un dato compara-tivo di riflessione con una coltura che è invece saldamente radicata nell’immaginario collettivo: nelperiodo 2004-2008, la superficie coltivata in Italia a pomodoro da industria è stata in media di 99.000ha. A fronte dei circa 230.000 ha coltivati a riso nel medesimo arco di tempo.

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pianura. Mentre nelle città maggiori la densitàinsediativa è recentemente calata, il fenomenodella città diffusa, col suo seguito di tangenziali,svincoli, capannoni, strade mercato, centri com-merciali, è diventato un segno distintivo delpaesaggio padano, soprattutto lungo le direttricisegnate dai grandi assi autostradali.Il paesaggio industriale, estesosi storicamentedalle vallate alpine fino a gran parte dell’areapadana, sta vivendo un rapido processo di tra-sformazione. Oggetto in molti contesti di rapidiprocessi di riconversione, abbandono e, talvolta,di sostituzione, esso continua a connotare ampiearee negli intorni dei centri urbani e lungo leprincipali vie di comunicazione. La sua meta-morfosi localizzativa e architettonica lo rendeun segno evidente dell’evoluzione dei processieconomici, con un impatto sul paesaggio e sul-l’ambiente che continua a essere rilevante e pro-blematico, in quanto si lega alla crescita dell’in-quinamento e al consumo di suolo. Nel contempo, alle permanenze del paesaggioindustriale sorto tra fine Ottocento e primi de-cenni del Novecento sono stati attribuiti nuovisignificati, per cui le aree industriali dismessevengono spesso conservate come elementi iden-titari e culturali, connotazione della quale pos-sono essere esempi significativi quelle di Mon-falcone, del Medio Olona, della Torino indu-striale, dell’Eporediese legato all’Olivetti.Il paesaggio rurale, pur registrando una progres-siva diminuzione della superficie agricola utiliz-zata (SAU), non è scomparso; ha però subitoimportanti mutamenti. Da un lato, la meccaniz-zazione delle aziende e la specializzazione dellecolture hanno ridotto la varietà paesaggistica.Dall’altro lato, l’innovazione ha riguardato so-prattutto la multifunzionalità dell’azienda, ri-pensata attraverso attività quali fattorie didatti-che, agriturismi (abbinati a progetti di rinatura-lizzazione e di fruizione ricreativa), vendita di-retta dei prodotti. Ridotte a pochi segmenti, le

parti naturali o seminaturali della pianura sonostate oggetto di progetti di protezione: è il casodi buona parte del bacino del Po, del suo delta(con le zone umide ferraresi e ravennati), di al-cuni suoi affluenti e di piccole aree che per varimotivi si sono preservate sino a oggi. Un pae-saggio particolare è quello della laguna veneta,fragile per natura e da tempo sottoposto a unforte impatto antropico.Se, come abbiamo visto, si conservano alcunipaesaggi agrari di grande specializzazione,come quello risicolo tra Vercellese e Pavese,altri sono invece da tempo in fase di riduzioneo compromissione: è il caso del paesaggio pa-dano tradizionale, quello delle marcite lom-barde, della «piantata», delle grandi cascine acorte chiusa, della centuriazione, delle grandibonifiche idrauliche e delle tante e localmentediverse canalizzazioni delle reti di irrigazione. Come dicevamo, un paesaggio particolare èquello della laguna veneta. Nonostante i molte-plici oltraggi subiti, l’idrografia veneta offre an-cora importanti brani di territorio anfibio, dovealcune delle tradizionali vocazioni antropichesopravvivono anche se sottoposte a una costantetrasformazione. Ciò significa l’eclissi delle agro-nomie policolturali delle piccole aziende gestiteda conduttori anziani, protagonisti della manu-tenzione, per esempio, della straordinaria ordi-tura di terrazzamenti a Valstagna, nel canale diBrenta, ma anche dei prati stabili nei palù delQuartier del Piave e lungo l’alto Sile. È forse suqueste risorse ambientali residue che si gioca lapartita decisiva per avviare un auspicabile pro-cesso di riequilibrio e recupero territoriale.È dagli anni Cinquanta che si intensifica il de-clino del secolare rapporto tra le comunità rivie-rasche e le acque dolci, rendendo marginali eobsolete le tradizionali relazioni economiche esociali rinvenibili lungo i segmenti della fittaidrografia superficiale nel Nordest italiano. Li-mitandoci al caso dell’entroterra veneto, il cui

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valore esemplare è accentuato dal fatto che sitratta delle pertinenze terrestri che abbraccianola più famosa città anfibia del mondo, è suffi-ciente menzionare l’interramento dell’idrografiadi età medievale nel centro storico di Padova,con annessa demolizione del coevo quartiere deiConciapelli, certamente un aspetto plateale diun’attitudine purtroppo ancora ben condivisa trai diversi attori che operano nel territorio.La millenaria antropizzazione di questi territoriha sedimentato lungo i corsi d’acqua uno straor-dinario patrimonio culturale a cui non è estraneoil contributo della firma palladiana, un ulteriorevalore aggiunto che dovrebbe mettere in guardiacirca le potenziali minacce dissipative. Il Brentaè certamente il fiume più ricco di evocazioni del

grande architetto, ma al tempo stesso un teatrodi pesanti criticità che coesistono con eccellenzeambientali e storico-artistiche di assoluto pre-gio. Questo dualismo è in parte ancora irrisoltoe tale carenza pesa non poco di fronte all’esa-sperarsi dei numerosi conflitti ambientali che sisusseguono lungo la sua asta. La pianura termina con una estesa fascia lito-ranea, il cui paesaggio è stato completamentetrasformato, negli ultimi cinquant’anni, dallosviluppo turistico legato alla stagione balnearee alla speculazione edilizia che ha circondatoe spesso svilito il paesaggio di piccoli borghimarinari, talvolta caratterizzati da significativielementi paesaggistici come porti-canale epiccole fortificazioni.

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Paesaggi del disagio

È opportuno rammentare come agli inizi degli anni Sessanta la morfologia del paesaggio veneto mo-strasse ancora un’attraente continuità con i caratteri fisionomici di una pregevole eredità geostorica.Non tutti forse rammentano le frequenti citazioni nella coeva divulgazione popolare di un immaginariogeografico rasserenante e ricco di beni culturali che non solo la penna di Bepi Mazzotti, specie dopo l’e-sito vittorioso della sua battaglia in difesa delle ville venete, ma anche quella dell’ultimo Giovanni Co-misso amava descrivere, invitando la popolazione che si stava ormai affacciando alle prime sobrie sedu-zioni del benessere a percorrere gli itinerari fuori porta, a riscoprire il fascino del patrimonio minore, ri-prendendo in parte l’attitudine ai viaggetti brevi promossa dal Touring Club già nel primo dopoguerra. Sivoleva incoraggiare l’esperienza di osservazione e godimento estetico del paesaggio, cercando di pro-muovere una più radicata consapevolezza del suo valore patrimoniale e di intima connessione con ilsenso dell’abitare. Questo atteggiamento di osservatore, proprio negli anni vivaci del «miracolo» econo-mico, si stava invece sempre più divaricando da quello dell’attore, del protagonista di una costruzioneterritoriale che modifica gli assetti ereditati in base alle esigenze del momento, alle nuove necessità,spesso urgenti, che non lasciano il tempo di riflettere sugli effetti collaterali. Basti in questa sede menzionare la descrizione delle fisionomie del Veneto centrale, oggi l’epicentronon ancora assestato della deflagrazione cementizia, contenuta nel saggio sul paesaggio italiano diAldo Sestini, uno dei capolavori di divulgazione geografica, a tutt’oggi insuperato. Siamo nella fa-scia di transizione dall’alta alla bassa pianura tra Vicenza e Treviso, il cuore più denso e prestigiosodell’eredità culturale, dove il nome di Palladio si interseca con quelli di Mantegna, Giorgione,Paolo Veronese e Pietro Bembo. Attualmente, alla perdita di qualità estetica si potrebbe opporre la crescita economica, il riscatto dasecolari subalternità, dallo status di «area depressa». E su questo punto non si può negare che esistauna larga condivisione. Ma l’idea di crescita non può più coincidere con quella di sviluppo allor-quando si considerino le zone produttive più disperse, lontane dai controlli, magari a ridosso di pre-

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ziosi corridoi fluviali. Le produzioni di successo corrispondono con una certa precisione con le geo-grafie del disagio, espresso dalla crescita continua di comitati di cittadini, mossi da rabbia impotente edisperazione per l’esasperarsi prolungato dei conflitti ambientali che feriscono il Veneto del cosiddetto«benessere». Si tratta in molti casi di veri e propri Landscapes of Fear, cioè paesaggi della paura, incui emergono in tutta la loro crudezza le strette relazioni tra crescita economica e impatti ambientali,una situazione quasi didascalica di come il declino delle società opulente si giochi soprattutto sul nodoscorsoio della saturazione territoriale e sugli inevitabili contrasti tra funzioni produttive e residenziali.È il definitivo tramonto della socialità condivisa; gli interessi privati prevalgono a tal punto che le am-ministrazioni locali, dopo aver subito il drammatico taglio dei trasferimenti di risorse dal governo cen-trale, recentemente replicato con il taglio dell’ICI, sono ormai obbligate a lottizzare anche le riserve diqualità (come i SIC e gli ZPS) per riuscire a chiudere i bilanci. La questione della diffusione del cemento attanaglia il Nordest: i dati statistici sono fin troppo espliciticirca l’incremento edilizio in area veneta. Non mancano i commenti scientifici, il cui rigore analitico a fa-tica riesce a occultare una implicita critica alla tendenza in atto, né le preoccupate prese di posizione leg-gibili nelle stesse relazioni prodotte all’interno degli organismi regionali posti al governo della prassi ter-ritoriale. Si tratta di dubbi emergenti e da tempo consolidati, che trovano inoltre un risalto crescente nellastampa locale e nelle relazioni di settore. Di pari passo con la stesura della legge regionale del 2004 ela-borata per far fronte al caos urbanistico della regione, anche nella pubblicistica locale si manifestò conforti accenti critici un condiviso dissenso su quanto era avvenuto fino ad allora. Si usava il termine «di-sagio» per accentuare gli effetti negativi in senso lato della caotica densificazione tra le maglie dell’anticacenturiazione romana, tra gli esiti più pregiati del paesaggio palladiano, a ridosso dei corridoi fluviali, at-torno ai centri storici: «gli esiti di tale densificazione sono già oggi fonte di crescente disagio per i cittadinie le imprese, ma la loro rilevanza riguarda in particolar modo il futuro, in relazione al rischio di un abbas-samento rilevante della qualità della vita» (Regione Veneto, 2004). I fatti odierni mostrano però che le spe-ranze di allora erano fondate più sul bisogno di illusione che sul disincanto razionale: e cioè il Veneto erae resta ai vertici nazionali per quanto riguarda il consumo di suolo, con inoltre una tutt’altro che trascura-bile complicazione, per cementificare le campagne c’è bisogno di materia prima. Ecco che un cospicuoprelievo di inerti va di pari passo con l’intensa urbanizzazione regionale. Si tratta indubbiamente di un bi-nomio di potenza distruttiva ineguagliabile.Il fenomeno non richiede di essere confermato dai dati statistici forniti dall’ISTAT e dal CRESME o dalconfronto comparativo con i rilievi satellitari. L’anarchia urbanistica e il consumo di suolo sono una tristee inquietante costante che appare con prepotenza a chiunque sia costretto a spostarsi lungo la intasata via-bilità veneta. Su questa situazione grava non poco una prolungata latitanza delle istituzioni, le quali, pro-prio nel Veneto, sono riuscite a garantire una pluridecennale continuità del consenso scambiandolo con ef-fimeri controlli sull’azione individuale, determinando fino ad anni recenti un irrazionale uso del territorio,che si ritorce contro le più elementari componenti della quotidianità (si pensi, ad esempio, alla potabilitàdell’acqua, al traffico, all’inquinamento atmosferico, allo smaltimento dei rifiuti). Ma la campagna urbanizzata è anche trasformazione agronomica a seguito della rapida e vistosa per-dita di addetti nel settore agricolo, della diffusione di nuovi processi produttivi, di nuove regole distri-butive e di gestione delle colture e ciò in termini paesaggistici significa una semplificazione dei tradi-zionali assetti fisionomici, nonché un degrado ecologico dovuto al prevalere delle monocolture chehanno imposto la rimozione delle siepi arboree, l’interramento di gran parte dei fossati e delle scoline,il disuso delle sedi rurali e, in sintesi, una generale disaffezione nei confronti degli aspetti non diretta-mente produttivi del paesaggio. Ovunque nella campagna veneta, anche se purtroppo non diversa-mente dal resto d’Italia, si assiste quotidianamente all’informe euforia trasformativa suscitata dagli in-fantili entusiasmi per le macchine che in poco tempo sono in grado di appiattire, scavare, interrare, di-boscare, rovesciare metri cubi di bétonnage anche tra i filari dei vigneti di collina.

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6. L’area collinare e appenninica

Le colline del Nord Italia, pur con molte diffe-renze fra caso e caso, sono oggi fra le areemaggiormente dinamiche, capaci di abbinarelo sviluppo rurale e residenziale alla tutela ealla valorizzazione del paesaggio. I rilievi sono distribuiti in due diverse aree. Laprima è costituita da propaggini dell’arcoprealpino e da depositi di origine morenica.Oltre a quelle di Rivoli e Ivrea, sono significa-tive le morene ai piedi dell’area dei laghi equelle di Vittorio Veneto e del Tagliamento. Aqueste, tra Veneto e Friuli, si aggiunge una fa-scia di modesti rilievi prealpini, le cui ondula-zioni più evidenti sono i Colli Euganei e i Be-rici. Il paesaggio che le connota ha molti tratti

rurali, soprattutto dove si è specializzata lacoltura della vite. Altrove si alternano boschi earee urbanizzate, occupate soprattutto da villee seconde case. La seconda corrisponde alle colline piemon-tesi, che si sviluppano dal centro della re-gione sino a ridosso dell’Appennino. Que-st’area, una subregione storica dal diffuso in-castellamento e dai tipici centri rurali di som-mità, è diversificata anche nei toponimi chene designano le partizioni (Langhe, Roero,Monferrato) dai confini talvolta sovrapposti.La collina piemontese ha conosciuto un re-cente sviluppo grazie alla rivalutazione deivini pregiati che vi vengono prodotti e allosviluppo turistico (anche residenziale) eagrituristico che ne è conseguito. Questo

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Un territorio si fa progetto

Le Langhe, il Monferrato e il Roero sono un territorio dove si producono alcuni fra i migliori vini delmondo, caratterizzato da una successione senza fine di colline a vite, a bosco e a frutteto, costellate dicascine e di castelli. E di cui si è preparata la candidatura per essere riconosciuto nella Lista del Pa-trimonio Mondiale dell’Unesco, come già avvenuto per altre realtà italiane ed europee, come la re-gione di produzione del Tokaj in Ungheria, l’Alta valle del Douro in Portogallo, le colline a vigneto diLavaux in Svizzera e gli straordinari pendii a terrazze sulla costa ligure delle Cinque Terre.Quei paesaggi delle colline del Piemonte meridionale sono il risultato di un lungo processo storico. Lavocazione, fin dall’antichità, alla produzione vitivinicola è dovuta ai terreni di origine marina che,erosi dai corsi d’acqua, hanno dato origine a una vasta area di rilievi; la geomorfologia ha poi facili-tato la distribuzione degli insediamenti e dei luoghi di potere, che hanno valorizzato e modellato il ter-ritorio circostante. Attualmente si presentano come un mosaico di insediamenti e un esempio di sa-piente utilizzo del territorio, svelando nel visibile l’invisibile esito di sedimentazioni naturali e antropi-che, che nei secoli si sono reciprocamente determinate.Le architetture tradizionali di cui sono ricchi quei luoghi, capaci di raccontare il passaggio dalla pro-duzione vitivinicola artigianale, di stampo contadino, alla produzione su vasta scala, documentano inmodo unico la trasformazione incessante dell’agricoltura. Esse rivelano – con la distribuzione dei bor-ghi, con la modellazione a vigneto delle colline, con le cantine – la storia sociale piemontese tra i se-coli XVIII e XX e il contributo che questa terra ha dato alla viticoltura mondiale: una produzione riccae diversificata, dai vini da pasto adatti all’invecchiamento, ai vini da dessert, ai distillati.Non solo colline e castelli che le cartoline illustrate ci propongono incessantemente, ma anche sentieri, boschi dove ci si incontra e ci si perde, borgate contadine vissute per generazioni. E altro ancora, sto-rie di emigrazione dolorosa ieri e di immigrazione altrettanto dolorosa oggi: un paesaggio umanizzato,dunque, come lo sono tutti i paesaggi, costruito dall’uomo che a esso si è rivolto secolo dopo secolo,generazione dopo generazione, metro dopo metro.

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processo ha esteso le aree vitate e unifor-mato un paesaggio che anche solo venti otrent’anni addietro era molto più diversifi-cato sotto il profilo colturale e vegetazio-nale. Proprio quest’uniformità monocoltu-rale è però oggi il punto di forza sul quale sibasa la candidatura dei paesaggi vitivinicolipiemontesi alla lista dell’UNESCO. Va peròrilevato che non tutte le colline piemontesisono adatte alla vinificazione di qualità, eche le aree marginali hanno subito un pro-cesso di abbandono delle colture e di rinatu-ralizzazione, con una ripresa del bosco sullearee non più coltivate. L’area emiliano-romagnola non possiede un

vero e proprio sistema collinare, ma una ri-stretta fascia di ondulazioni che costituisceuna propaggine dell’Appennino. Si tratta di unpaesaggio di connessione tra quello dellabassa pianura e quello appenninico, ancora inprevalenza rurale, oggi interessato da unanuova pressione a livello residenziale. I segnidello spopolamento sono invece un tratto evi-dente nell’Appennino settentrionale, dalla Li-guria ai rilievi emiliani e romagnoli. I campi,molti dei quali terrazzati, sono stati diffusa-mente sostituiti dalla ripresa del bosco e daldegrado del paesaggio antropico tradizionale.La riduzione è minore in Liguria, nelle vallatepiù vicine alla costa, dove è possibile la colti-

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Fig. 23 – Langhe, Monferrato e Roero: l’area di candidatura.

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vazione dell’olivo e, in modo più residuale,della vite, e dove i borghi storici stanno cono-scendo una riscoperta e un modesto sviluppoturistico di nicchia. In questo contesto vienecompreso il paesaggio dei terrazzamenti delleCinque Terre, area oggi protetta e Patrimoniodell’Umanità UNESCO.

L’Appennino ligure si estende in molti puntifino a promontori sul mare, e si fonde quindicon il paesaggio del litorale. Quest’ultimo èperò dominato, com’è noto, da una esasperataespansione edilizia di seconde case, che si ri-pete lungo tutta la nervosa morfologia costieradi golfi e promontori.

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Conclusioni

spesso dissolto. Non è infatti possibile sepa-rare l’idea di paesaggio (come se esso fossesolo bellezza, e per questo un lusso più omeno aristocratico di una contemplazioneestetica) da quella di territorio, un termine cheracchiude in sé una molteplicità di valori. Neconsegue che il paesaggio non è mai un qual-cosa di dato, e gli sguardi a esso rivolti nonsono altro che interrogativi sospesi che chia-mano in causa il divenire. Si tratta di un insieme di presupposti che sisono evoluti nel tempo e che fanno ormaiparte del nostro sentire e del nostro sapere, ol-tre a costituire i cardini della Convenzione Eu-ropea del Paesaggio, la quale, nata nel 1992 aSiviglia come «Carta del paesaggio mediterra-neo», deve molto a questa sua matrice, a que-sta sua anima mediterranea, a questi paesagginei confronti dei quali la gente del Nord d’Eu-ropa ha vissuto una esplicita dipendenza cultu-rale (si pensi ad Hannah Arendt, Paul Valéry,Walter Benjamin, per non dimenticare ItaloCalvino). È un fatto che la Convenzione Euro-pea interpreti e prenda in carico quest’insiemedi questioni, mettendo definitivamente daparte le posizioni monumentalistiche (e le loroconnesse banalizzazioni), per dirci che è tuttoil paesaggio che ci interessa, perché tutto ilpaesaggio ha bisogno di cure (comprese lenuove periferie, questi nuovi paradisi di soli-tudine). Non avremo più, quindi, paesaggio daun lato e non paesaggio dall’altro, ma una po-sizione esplicitamente territorialista, ovvero ilpaesaggio come espressione peculiare del ter-ritorio, la sua forma visibile. Ovvero comeespressione dell’identità culturale di chi lovive e lo costruisce, ponendo così in primo

Che si ragioni in termini di città diffusa, dimegalopoli padana, di rete policentrica, di si-stemi urbani o di sistema metropolitano, lachiave di lettura dei processi di trasforma-zione dei paesaggi del Nord Italia sembrapassare attraverso la progressiva estensionedella dimensione urbana e della sua improntaculturale. Anche quando si osserva la dinami-cità del mondo alpino, si rileva che questa èdovuta alla presenza di un reticolo di centriintorno ai quali si può pensare la riorganizza-zione del territorio.La pervasività dell’impronta urbana andrebbetuttavia considerata in uno schema meno dico-tomico di quello che ha accompagnato sino aoggi la contrapposizione fra aree urbane e areerurali. Alla frammentazione degli schemi diorganizzazione territoriale tradizionali, chehanno trovato nella periurbanizzazione (o rur-banizzazione) la loro immagine più diffusa,occorre accostare l’idea di un processo in-verso, di una progressiva trasformazione deimodelli urbani da parte dei modelli rurali, diuna coevoluzione fra i due mondi.Questa immagine del cambiamento può oggifar perno sulla diffusa sensibilità intorno aitemi della sostenibilità. Sono ormai lontani itempi di Croce e il paesaggio non è più sem-plicemente «la rappresentazione materiale evisibile della patria». Sappiamo infatti che laqualità dei luoghi è a fondamento dell’identitàdell’uomo che li vive. Non potremmo spiegarealtrimenti il fatto che la crescita spettacolare didomanda di paesaggio non costituisca soltantouna deriva estetizzante, ma il segno che igruppi sociali tendono a riallacciare con laterra quei legami che la modernità aveva

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piano la sua dimensione sociale. Ciò cheschiude il problema della soggettività, dellapercezione, in altre parole del rapporto frapaesaggi e comunità che li vivono: e quindi dipolitiche fondate sulla partecipazione, la mo-bilitazione, il coinvolgimento sistematicodelle popolazioni.Non solo. È un fatto che con l’idea di paesag-gio si identifichi esplicitamente una risorsache favorisce il dispiegarsi delle attività eco-nomiche (lo hanno dimostrato ampiamente lescienze dell’economia, a proposito soprattuttodelle aree rurali), oltre che un’occasione perrealizzare sviluppo sostenibile. Ne consegueche, se la qualità paesaggistica costituisce uninteresse pubblico fondamentale (quanto costauna collina distrutta, un paesaggio deva-stato?), la politica del paesaggio può rappre-sentare uno degli assi centrali di un «modello»economico diverso, e non semplicemente unaserie di vincoli e di divieti, aventi l’obiettivodi correggere, indirizzare, mitigare qua e là ilprocedere dello sviluppo.Non casualmente, come ci ricorda LaurentDavezies, il modello territoriale che oggi piùguadagna spazio in Europa sul piano di unosviluppo insieme economico, sociale e demo-grafico è quello dei territori a debole metropo-lizzazione, poco esposti ai rischi della globa-lizzazione e in grado di catturare più che diprodurre ricchezza. Sono le regioni che si ca-ratterizzano per un’offerta anzitutto territo-riale, basata sul paesaggio e su attività qualifi-cate nei servizi e in settori a debole incre-mento di produttività, da cui deriverebbe cre-scita dell’occupazione e successo nella lottacontro la povertà. In altre parole, le «regioni-vagone» vanno ormai più veloci delle «re-gioni-locomotiva».È noto come la crescita del PIL rimanga l’o-biettivo di tutti i governi, quale che sia il lorocolore politico. Questo modello, anziché este-

nuarsi politicamente, negli ultimi anni si è raf-forzato e ha indotto molti cambiamenti nellepolitiche regionali, che ieri miravano alla co-esione e alla giustizia spaziale e oggi si con-centrano sulla valorizzazione dei territoricome fattori di crescita: infrastrutture, servizi,funzioni produttive, in funzione della competi-zione economica, della produttività e, soprat-tutto, delle finanze municipali.Il fatto che la geografia del PIL diverga sem-pre più da quella del reddito suggerisce chec’è un secondo modello possibile, all’originedi una sorta di rivoluzione copernicana, cheprivilegia non più l’uomo produttore, mal’uomo abitante: sempre più, infatti, i redditidella popolazione residente sono in gran parteindipendenti dalle attività locali. In Europa labase economica dei redditi di lavoro e di capi-tale delle attività esportatrici oscilla intorno al20%, mentre quella composta da redditi di at-tivi occupati fuori dal territorio, da pensioni edalla spesa turistica oscilla intorno al 50%.Non solo, gli indicatori economici relativi al-l’incremento dei redditi delle famiglie e al-l’occupazione risultano più elevati nei territorimeno sviluppati in termini di PIL.A tutto ciò fa da contraltare il fatto che l’ideadi pianificazione territoriale affermatasi in Ita-lia non è tuttora adeguata a realizzare politichedi valorizzazione del paesaggio, dal momentoche si inscrive in un meccanismo economico efiscale del tipo seguente: ogni trasformazioneterritoriale da agricola in residenziale o indu-striale comporta un aumento del valore dell’a-rea di almeno dieci volte, con tassi di rendi-menti che non si riscontrano in nessun settoredell’economia. E i comuni incassano gli oneridi urbanizzazione… A questo punto il circolovizioso è perfetto, e la pianificazione si in-scrive come un’astrazione, una fotografia, untentativo di intervenire in un meccanismo chepossiede una forza di trazione spaventosa.

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Ciò che si richiede è una nuova etica politica,fatta di gestione e di progetto, che vada nelladirezione di orientare e armonizzare le azioniche provocano le trasformazione del paesag-gio in una prospettiva di sviluppo sostenibile(un concetto – non dimentichiamolo – che nonriguarda il solo ambiente, ma lo integra stret-tamente alle dimensioni economica e cultu-rale). Non si tratta di bloccare i processi disviluppo sociale ed economico, ma di armo-nizzare le trasformazioni integrando il paesag-gio «nelle politiche di pianificazione del terri-torio e in quelle di carattere culturale, ambien-

tale, agricolo, sociale ed economico» (art. 5,Convenzione Europea del Paesaggio). Ciònon significa ovviamente negare come in certicasi debba prevalere la tutela.Il problema è dunque quello di imparare atrasformare, al di là del vincolo come mecca-nismo di controllo, dell’autorizzazione pae-saggistica, la quale costituisce un esercizio dipotere quasi sempre esterno alle logiche di go-verno attivo, delle azioni complesse di go-verno del territorio, nella direzione di favorirele interdipendenze fra politiche del paesaggioe le altre politiche.

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Il sondaggio di «testimoni privilegiati» integra come di consueto il Rapporto an-nuale della Società Geografica Italiana sugli «scenari» del territorio e della societàitaliani. Il tema prescelto per l’anno 2010, Il Nord, i Nord. Geopolitica della que-stione settentrionale, riveste come forse non mai caratteri di attualità e complessità.Si tratta di riflettere se, partendo da un dato storico ed economico insieme, ovverol’esistenza di un dualismo tra l’Italia centro-settentrionale e il Mezzogiorno, emersosin dall’indomani di quell’unità nazionale della quale si sta per celebrare il cento-cinquantenario, si possa configurare l’esistenza di una macroregione padana le cuicaratteristiche geoeconomiche e culturali le attribuiscano una identità peculiare, taleda differenziarla dal resto del paese. A partire almeno dall’ultimo trentennio di questi centocinquanta anni di storiaunitaria d’Italia, la questione ha acquisito una rilevanza, più ancora che per aspettieconomici e sociali, per connotati che è agevole definire geopolitici. Il sentimentodi appartenenza a una configurazione spaziale in cui far rientrare più regioni am-ministrative traversate dal fiume Po e ad esse attigue, condiviso da aliquote cre-scenti delle popolazioni che vivono in quell’area, ha generato sentimenti e forzetradottesi in formazioni, e proposte, politiche. O, comunque, ha indotto parte dellapopolazione, e rappresentanze partitiche da essa espresse, a marcare diversità edissenso da scelte e comportamenti politici che avevano, e hanno, caratterizzatol’azione pubblica di governi nazionali e locali nell’ultimo cinquantennio. Atti recenti e significativi connessi all’organizzazione della vita pubblica e del-l’ordinamento dello Stato italiano sono la risultante della progressiva afferma-zione delle spinte politiche generate da comportamenti e sentimenti politiciespressi nell’area settentrionale del paese. Primo, fra questi, l’avvio di una tran-sizione del sistema regionalistico dettato dalla Costituzione del 1948 verso un de-

Appendice

Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionaleSintesi d’un sondaggio tra geografi

delle Università italiane circa l’identificabilità di una possibilemacroregione padana distinta dal resto del paese

per peculiarità e problemi*

* Hanno partecipato al sondaggio: Vittorio Amato (Napoli), Onofrio Amoruso (Bari), Giuliano Bel-lezza (Viterbo), Emilio Biagini (Cagliari), Laura Cassi (Firenze), Carlo Cencini (Bologna), Elenadell’Agnese (Milano), Mario Fumagalli (Milano), Annamaria Frallicciardi (Napoli), Piero Ga-gliardo (Cosenza), Maria Laura Gasparini (Napoli), Maria Luisa Gentileschi (Cagliari), FrancescaGoverna (Torino), Igor Jelen (Trieste), Piergiorgio Landini (Pescara), Gianfranco Lizza (Roma),Luca Muscarà (Campobasso), Maria Paradiso (Benevento), Andrea Riggio (Cassino), Vittorio Rug-giero (Catania), Giorgio Spinelli (Roma), Rosario Sommella (Napoli), Italo Talia (Napoli), MariaTinacci (Firenze), Angelo Turco (L’Aquila), Gabriele Zanetto (Venezia), Luca Zarrilli (Pescara).(L’elaborazione del questionario e la sintesi delle risposte sono state curate da Ernesto Mazzetti).

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centramento più accentuato e imperniato sulla formula del federalismo fiscale. Alla luce di un’analisi condotta secondo teoria e metodi della geografia, ci si èchiesto se è possibile condividere una visione unitaria della cosiddetta «macrore-gione padana», o non piuttosto rilevare all’interno di essa differenziazioni territo-riali cui corrispondono difformità di caratteri economici e culturali. Inoltre, si èvoluto indagare sul complesso dei problemi che tuttora emergono nell’articola-zione dei sistemi metropolitani e infrastrutturali delle regioni settentrionali, edelle dinamiche produttive che vi si manifestano, per comprendere in quale mi-sura acquisti rilevanza una «questione settentrionale». Se dati oggettivi consen-tono di individuare l’esistenza della questione, è possibile farne carico a criteri digestione del «sistema paese» che, negli anni e nei decenni, avrebbero privilegiatoripartizioni di risorse e interventi non coerenti rispetto al contributo che, in ter-mini di attività e redditi, veniva fornito dal Nord dell’Italia?Le argomentazioni contenute nel Rapporto 2010 della Società Geografica Italianaforniscono elementi di conoscenza e di analisi critica per un approccio oggettivoalle questioni indicate, con l’ambizione di prospettare punti di equilibrio tra impo-stazioni difformi. Un contributo ulteriore di analisi è costituito dal sondaggio ope-rato dalla SGI su un ampio panel di studiosi, attraverso un questionario, coerente-mente articolato su quesiti che indagano aspetti culturali, storici, politici e norma-tivi concernenti il tema di fondo del Rapporto.Ai geografi italiani sono stati sottoposti i seguenti quesiti:

1. È giustificato, oggi, parlare di una «macroregione settentrionale» per differenzarispetto ad altri macro-ambiti regionali da tempo protagonisti del dibattito pub-blico (Mezzogiorno, Terza Italia)? Quali sono gli elementi che tendono a defi-nirne una qualche forma di omogeneità, e quali invece gli aspetti che marcano leeventuali differenze interne?

2. A suo avviso qual è il ruolo della variabile politica e, per certi versi, geopoli-tica, nella costruzione della «questione settentrionale»?

3. Il paesaggio riveste un ruolo fondamentale nella costruzione dell’identità col-lettiva: quali sono a vostro giudizio le implicazioni sulle auto-rappresentazioniidentitarie che si sono diffuse nelle regioni settentrionali negli ultimi anni?

4. Alla luce delle dinamiche territoriali rilevabili, è ancora attuale considerarel’armatura urbana del nostro paese come specchio delle diversità macroregionali:policentrica al Centro-Nord, primaziale al Mezzogiorno?

5. L’integrazione europea ha costituito, tra luci e ombre, un processo di indiscuti-bile innovazione nell’approccio che le autorità nazionali adottano nell’affrontare i

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divari regionali. Qual è il giudizio sugli esiti delle politiche regionali condotte nelsolco della programmazione europea rispetto allo storico divario Nord-Sud?

Come per le precedenti edizioni del Rapporto, il sondaggio ha inteso offrire alleistituzioni e all’opinione pubblica un ulteriore elemento di valutazione: un ven-taglio di motivati giudizi espressi sull’argomento da qualificati studiosi. Giudiziche corroborino – e ne siano anche verifica – la ricerca e la documentazione sta-tistica e cartografica che sostanziano la prima parte del Rapporto 2010. La Re-dazione ha invitato a formulare questi pareri geografi universitari titolari di in-segnamenti che più direttamente li impegnano su problemi e metodi riguardantidinamiche economiche, sociali, geopolitiche. È da sottolineare, a conferma del-l’attualità e della pregnanza del tema prescelto, che le risposte al questionarioinviato a questi «testimoni privilegiati» sono state alquanto più numerose ri-spetto a precedenti sondaggi. Il testo che segue costituisce la sintesi ragionata delle articolate argomentazioni(che, in qualche caso, data la complessità degli aspetti propri del tema, hanno as-sunto la dimensione di piccoli saggi) con le quali 27 tra i geografi interpellatihanno inteso rispondere ai quesiti. Tali testimonianze provengono da docenti didiscipline rientranti nell’ambito della Geografia politica ed economica e dellaGeografia umana, attivi in atenei del Nord, Centro, Sud e Isole.

La macroregione del Nord

La netta maggioranza degli interpellati ritiene sia legittimo parlare dell’esistenzadi una macroregione settentrionale, anche se le risposte variano circa l’individua-zione degli elementi che ne definiscano l’omogeneità.Per Zanetto tre ordini di ragionamento denotano la macroregione: «quello etnico-linguistico […] quello storico-economico […] quello culturale e sociale, che di-stingue severamente un’Italia con ceti sociali non parassiti e liberi, dotati di un’e-tica del lavoro come valore assoluto ed il gusto del ben fatto, dove non si parla maidi “Stato” perché lo Stato è la collettività, il pubblico, cioè il “noi”». Secondo Rig-gio «l’omogeneità può essere ravvisata nei quadri ambientali […] nei livelli di svi-luppo umano; nella dinamica demografica; nel grado di accessibilità ai servizi, nelsistema insediativo, nei livelli di organizzazione economica e di innovazione tec-nologica». Secondo Talia, non da oggi la macroregione si individua per «generaliz-zata uniformità del paesaggio culturale, funzionalità territoriale». Per Lizza i prin-cipali elementi che la definiscono «sono elevato sviluppo economico, dinamismoculturale e significativa infrastrutturazione del territorio». Per Cencini la macrore-gione è caratterizzata «dalla parte più moderna, produttiva e ricca del paese». Sugli

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elementi discriminanti rispetto al resto del paese (economia, cultura, infrastrutture)insiste anche Amoruso. Con un’ampia argomentazione, Fumagalli ricerca nellastoria gli elementi individuanti la macroregione: «una lunga tradizione di buonaamministrazione, del Regno di Sardegna, della Repubblica di Venezia, della Lom-bardia Austriaca […] è caratteristica [che] di più la distingue dal resto d’Italia».Ancora: «l’Italia settentrionale ha fatto parte a lungo del Sacro Romano Impero, ri-entrando di fatto nell’Europa centrale; le province meridionali […] sono state persecoli sotto l’influenza dell’impero bizantino». Al contrario Ruggiero, che pur ri-tiene giusta l’individuazione d’una macroregione del Nord, osserva che «processistorici ed economici che hanno contribuito a plasmarne il territorio solo in appa-renza trovano denominatori comuni in tutta la regione». Opinioni di segno contrario emergono invece dalle risposte di tre interpellati, con-cordi nell’escludere la possibilità di giustificazione «geografica» di una macrore-gione settentrionale. Secondo Tinacci tale giustificazione va negata sia «sul pianoconoscitivo sia su quello politico. Infatti mancano in tale pretesa macroregione glielementi di omogeneità – positiva (come la tipicità delle modalità di sviluppo in-dustriale nel Nord-est) o normativa (come le condizioni di arretratezza economicache esigevano precisi strumenti di sviluppo nel Sud)». Secondo Amato «la giusti-ficazione va ricercata nel solo accreditamento progressivo dell’idea, derivante daun uso strumentale a fini politici […] L’idea di una macroregione settentrionaleva di pari passo con quella di una presunta “questione settentrionale”: l’omoge-neità è difficilmente ravvisabile laddove si guardi agli elementi strutturali del ter-ritorio e dell’economia che lasciano trasparire più differenze di quante non sianole omogeneità». Nessuna giustificazione individua Turco «per fare di un designa-tore referenziale (Settentrione) un indicatore di qualche significato geografico al-tro che posizionale».Alcuni interpellati sottolineano le differenze che è dato cogliere tra diversi com-parti che i più attribuiscono alla macroregione, in particolare tra regioni occidentalie orientali. Biagini pone l’accento sulla diversità tra le «aree che si caratterizzanosotto vari punti di vista: il Nord-est in senso economico, le zone alpine caratteriz-zate dalla presenza di minoranze nazionali». «Troppo ampia» appare a Governa lamacroregione come si è solito individuarla, se «consideriamo altri aspetti, come imodelli di sviluppo, le connessioni urbane, le strategie turistiche»; ma individuacaratteri di omogeneità sia in dati «ambientali (le Alpi, il Po), così come nelle ten-denze politiche che si vanno affermando a scala macroregionale». Anche dell’A-gnese vede nella «questione settentrionale una questione politica piuttosto che unproblema geografico legato a una specifica macroregione». Frallicciardi, premessoche «le regioni sono individuabili a qualsiasi scala», trova omogeneità «nellaproiezione verso l’Europa, nell’organizzazione a rete e nella concretezza del volerfare che si traduce anche in concretezza nell’agire», pur se «ogni porzione dell’Ita-lia settentrionale è diversa dalle altre».

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Il fattore geopolitico nella «questione settentrionale»

Che fattori squisitamente politici abbiano negli ultimi decenni determinato l’e-mergere di una «questione settentrionale» è giudizio condiviso dalla quasi totalitàdegli interpellati. La questione «venne in origine interpretata come protesta per losquilibrio fra il peso economico e la limitata partecipazione alla gestione politica»– afferma Fumagalli – «Sintomo di tale malessere e strumento per la soluzionedel problema è stato il sorgere di soggetti capaci di esercitare una mediazione lo-calistica del consenso […] ne è conseguita una spinta alla trasformazione federali-sta dello Stato». Secondo Lizza «una tradizione di cultura politica fortemente per-meata di localismo e di radicamento territoriale ha avuto facile presa su bisogni edisagi reali andando ad alimentare in qualche caso pericolose derive autonomisti-che». Né si può ignorare – argomenta Ruggiero – che la questione «nasce ancheper l’erosione del potere e delle funzioni dello Stato nazionale e della destruttura-zione delle geometrie istituzionali»; esempio di ciò è anche «l’incremento dell’at-tività dei governi regionali a Bruxelles e della creazione del Comitato delle Re-gioni». Bellezza individua tra le scaturigini di una «questione settentrionale» ildiffondersi nell’opinione pubblica del Nord di una mutata considerazione delMezzogiorno, «non più visto come la parte nazionale arretrata da aiutare nellosviluppo, ma come l’ostacolo che impediva al Settentrione di continuare il pro-prio sviluppo». Quindi, per Governa, «la variabile politica rischia di costruire unaquestione settentrionale in opposizione alla questione meridionale». Una «que-stione» riassumibile in una richiesta di «maggiore indipendenza delle regioni delNord rispetto a quelle meridionali viste come zavorra alla crescita complessivadel paese» (Gasparini). Ma oltre alla valenza politica interna, nella «questione set-tentrionale» è dato cogliere – per dell’Agnese – un «lato geopolitico» nella mi-sura in cui in nome del «senso identitario dell’italianità» ci si oppone «all’inva-sione extra comunitaria».La variabile politica sottesa alla questione suscita perplessità quando non allarme.«La rivendicazione di una dimensione identitaria neo localista», secondo LucaMuscarà, non è «il miglior viatico alla vigilia del centocinquantesimo dell’unitànazionale». E, ad avviso di Tinacci, sotto il manto della questione sembra «si celiil progetto di un nuovo centralismo politico-economico imperniato sulle regioniforti del Paese». Zarrilli, così come imputa alle classi dirigenti meridionali lacolpa di non aver saputo utilizzare al meglio le molte risorse destinate a superareo attenuare il divario con il resto del paese, alle classi dirigenti settentrionali im-puta di aver «strumentalmente utilizzato la permanenza del divario come pretestoe giustificazione per l’insorgenza di una questione settentrionale». Non v’è dubbio, a parere di Landini, che la variabile politica della quale ha saputoalimentarsi la Lega «abbia orientato le riforme politiche italiane, in particolareverso il federalismo», facendo emergere «atteggiamenti culturali – quando non

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sub-culturali – che non rappresentano una identità unitaria e, per molti aspetti, nep-pure maggioritaria». In questo quadro «di cultura politica c’è il rischio che l’inter-pretazione dei federalismi alimenti ulteriormente potentati locali e cordate politico-economiche spesso orientate alla rendita piuttosto che all’investimento di lungoperiodo» (Paradiso). «Il modello che si impone […] è quello nord-americano, nelquale il mondo politico è fortemente sorretto e condizionato dal mondo imprendi-toriale» (Gagliardo). E tuttavia, secondo Jelen, «la letteratura scientifica geogra-fico-politica tende comunque a ridimensionare l’effetto disgregante di regionalismie rivendicazionismi vari nel contesto dell’allargamento europeo: di fatto l’euro-peizzazione svolgerebbe un effetto di immunizzazione sulle forze anti-statuali».

Il paesaggio e l’identità

Il quesito riguardante paesaggio e identità nella «costruzione» di una perce-zione largamente condivisa della «macroregione del Nord» ha dato luogo a ri-sposte fortemente diversificate. In alcune l’accento è posto anzitutto sulla per-dita progressiva della qualità del paesaggio a causa del malgoverno del territo-rio e, quindi, sulla difficoltà di riconoscersi in un quadro ambientale ove, inpiù casi, aspetti negativi sovrastano e contrastano con un immaginario paesi-stico radicato. Secondo Lizza, «in considerazione della deturpazione paesaggi-stica avvenuta in questi ultimi anni e dei costanti e consistenti afflussi di popo-lazione allogena, la costruzione dell’identità conta sempre meno sulla perma-nenza di caratteri paesaggistici». Di fronte al «degrado generalizzato del pae-saggio» Jelen sostiene che «il problema della sostenibilità e quello della vivibi-lità ormai sopravanzano la questione dell’identità». L’omologazione connessaall’introduzione «di mall, outlet o la proliferazione di slums» è, per Paradiso,«un segno non di riproduzione identitaria quanto di svuotamento di valori ter-ritoriali identificabili nel paesaggio».Tuttavia, ad avviso di Fumagalli, «nelle regioni settentrionali permangonoauto-rappresentazioni identitarie tradizionali, legate agli aspetti fisici del terri-torio come a quelli socio-economici che si sono venuti formando nel tempo[...] Negli ultimi anni il riferimento al paesaggio risente della presenza semprepiù forte della “città dispersa” del Nord-ovest […] espressione di una identitàcollettiva dinamica», ma anche di «mancanza di ordine, di programmazione edi disciplina ambientale». Nel Nord, come anche «a livello nazionale, paesag-gio culturale e valori identitari appaiono in bilico tra chiusure localistiche eaperture caritatevoli» (Talia). «Almeno da parte dei fautori leghisti della devo-lution, il paesaggio sembra essere oggetto di una interpretazione mitico-simbo-lica che tende a fondare la costruzione di identità regionali sostanzialmente re-gressive (il dio Po, la Repubblica Veneta ecc.)» (Tinacci). Osserva però Za-

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netto che «nella parte più esplicitamente legata alle visioni “separatiste”, ilpaesaggio più sentito è quello della città media pulita, fiera della sua storia,equilibrata, in simbiosi con la sua campagna. Più che la morfologia conta l’a-nimo della gente».

Differenze di paesaggi urbani tra Nord e Sud

Se Cattaneo poteva scrivere di una Italia «delle cento città» è perché aveva a mo-dello il Centro-Nord caratterizzato sin dall’età del Rinascimento da una fiorituraurbana generatrice poi dell’attuale policentrismo. Ma Nitti, dall’osservazionedella realtà meridionale, era indotto a scrivere di un «Mezzogiorno senza strade esenza città», essendo concentrate tutte le funzioni urbane nella sola capitale delRegno, Napoli. Differenza profonda di armature urbane, dunque. Ma anche indi-viduazione dei paesaggi urbani come elementi costitutivi di diverse realtà macro-regionali? Quesito cui la maggioranza dei geografi interpellati ha dato risposte so-stanzialmente positive. Ma sovente attente a cogliere elementi che modificano inparte il quadro consolidato.Infatti per Ruggiero «l’urbanizzazione del Mezzogiorno ha segnato negli ultimi de-cenni evidenti processi di decentramento […] l’avvio di processi di riqualificazioneurbana e territoriale […] i tentativi di pianificazione strategica dei sistemi metropoli-tani […] Tuttavia quest’urbanizzazione rimane ben lontana dai modelli policentriciche investono larga parte del Centro-Nord […] Nelle maggiori aree urbane del Sud iprocessi di decentramento sono più apparenti che reali perché si limitano alla fun-zione residenziale, ai servizi elementari e ad alcune strutture della grande distribu-zione». Anche Bellezza, pur osservando che in Campania e Puglia si sono rafforzatele armature urbane, ritiene che «le differenze nell’armatura urbana nelle tre grandiregioni sussistono ancora e che una delle carenze maggiori è la scarsità delle comu-nicazioni transappenniniche tra Tirreno e Adriatico». Nuove dinamiche urbane alNord e al Sud, secondo Governa, «non costituiscono comunque un segnale di con-vergenza fra le due macroregioni perché le dinamiche territoriali ed economico-so-ciali che le caratterizzano rimangono diverse». Comunque, nel Centro e nel Mezzo-giorno «assistiamo ancora ad una rete urbana eccessivamente frammentata sia dalpunto di vista strutturale che territoriale, slegata dalla loro base sociale e produttiva»(Gasparini). La differenza di strutture urbane segna tuttora divario tra Nord e Sud:«La “megalopoli padana” come fu già definita da Gottmann si articola sopra uncomplesso sistema di città-regione e di centri minori» (dell’Agnese). Sebbene «l’e-mergere di distretti produttivi e culturali anche nelle regioni più meridionali, oltreche in quelle insulari, abbia determinato la crescita funzionale di molte città piccole emedie […] le carenze infrastrutturali (oltre che i retaggi storici) del Mezzogiorno ac-centuano la difficoltà di messa in rete dei sistemi urbani così emergenti» (Landini).

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Insomma, come argomenta Cassi, «l’armatura urbana del nostro paese è ancoraspecchio di diversità macroregionali». Ed anche se «la contrapposizione tra poli-centrismo settentrionale e primazialità meridionale assume contorni più sfumati»,elementi differenziali si potrebbero cogliere nella diversa qualità dei servizi for-niti dalle strutture urbane al Nord e al Sud: «resta comunque il fatto che oggi siemigra per studiare o per curarsi». Non una nuova armatura urbana nel Sud, ma«un processo di sub urbanizzazione e urbanizzazione periferica con il solo decen-tramento della funzione residenziale» (Amato). Onde Spinelli è indotto a sospet-tare che «l’attuazione istituzionale delle Regioni non ha reso un buon servizio alpotenziale di risorse naturali ed umane del Mezzogiorno».«Certamente nel Mezzogiorno sono cresciute alcune città minori, per esempio as-sumendo la funzione di centri di istruzione superiore […] Sono nate nuove pro-vince, il che ha promosso alcune città a capoluoghi provinciali», ma tutto ciò, se-condo Gentileschi, «non ha prodotto nuove centralità forti». In conclusione, os-serva Governa, non si può parlare di convergenza tra due macroregioni (del Norde del Sud), «poiché le dinamiche territoriali ed economico-sociali che le caratte-rizzano sono e permangono diverse».

Nord, Sud e Unione Europea

Il quesito circa gli esiti delle politiche regionali, condotte nel solco della programma-zione europea rispetto allo storico divario Nord-Sud, ha determinato un coro di giu-dizi negativi circa la capacità delle classi dirigenti meridionali di avvalersi di fondi estimoli provenienti dall’Unione Europea per avviare processi virtuosi di sviluppo. Lerisposte degli interpellati appaiono talvolta drastiche nella loro brevità: «Il giudizio ènegativo: l’UE non sembra disporre di strumenti adeguati per ridurre l’incapacitàprogettuale che caratterizza alcuni contesti geografici del Sud» (Riggio). «Benché ilSud abbia goduto di un di più di trasferimenti dai fondi europei questi non sembranogeneralmente essere riusciti a far da volano per lo sviluppo regionale» (Tinacci).«Gli effetti [delle politiche europee] sono stati modesti, in ogni caso inferiori alle ri-sorse impiegate» (Amoruso). «Il divario Nord-Sud è diventato ancora più marcato ela competizione ha messo a nudo molte incapacità gestionali» (Frallicciardi). «L’o-biettivo della riduzione del divario Nord-Sud non solo non è stato colto, ma al con-trario si è approfondita la differenza tra le due parti del paese» (Biagini).Non difformi nella sostanza le risposte che scaturiscono da analisi più articolate e do-cumentate fornite da alcuni degli interpellati. Ruggiero riconosce che negli ultimi de-cenni «le politiche italiane volte al riequilibrio regionale e territoriale siano state in-fluenzate dagli indirizzi dell’UE che hanno contribuito a riorientare le scelte politi-che e alla formazione di nuove governance regionali o metropolitane»; tuttavia «iritmi, e la qualità, del rinnovamento delle regioni meridionali sono ancora troppolenti e subiscono arretramenti che mantengono i divari con le regioni del Nord», per-

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ché «non emergono nelle regioni meridionali, se non saltuariamente, classi di ammi-nistratori onesti, culturalmente capaci». Certo lo specchiarsi nell’Europa «aumenta lapresa di coscienza dell’arretratezza in termini di competitività sui mercati internazio-nali, in termini di differenze nei livelli d’istruzione e di formazione» – osserva Genti-leschi – e «il più stretto confronto con le aree forti d’Europa enfatizza il ritardo delleregioni meridionali e quindi rafforza la frustrazione e la protesta delle popolazioni». Bisogna senza dubbio tener conto – argomenta Talia – che «dal 2001 in poi laspesa per la realizzazione di infrastrutture materiali e immateriali è stata più bassanel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, ed è stata una spesa largamente sostitu-tiva di quella ordinaria, come peraltro è sempre avvenuto con l’intervento straordi-nario della “Cassa” [...] se gli interventi finanziati con le risorse europee riguar-dano, almeno per il 50%, vecchi progetti, l’impatto sull’economia meridionale ap-pare debole. Appaiono, inoltre, frammentati, e con tempi di realizzazione partico-larmente lunghi […] Tutto ciò conferma il ritardo e l’inefficienza della pubblicaamministrazione meridionale, nonché l’incapacità di Regioni tanto velleitariequanto autoreferenziali. E conferma l’aspetto dirimente tra il Nord e il Sud, unavera e propria trappola dello sviluppo locale». «Nel Mezzogiorno – afferma Ga-gliardo – la maggior parte delle risorse comunitarie è stata dispersa in un tessutoconnettivo: il divario si è acuito soprattutto nei confronti dell’Europa». Fumagalliespone analisi della Corte dei Conti e della Banca d’Italia relative al periodo 2000-2006 per constatare come, nonostante un afflusso considerevole di risorse, nelMezzogiorno la crescita del PIL e dell’occupazione sia stata inferiore rispetto alNord. Si astiene dai commenti, ma aggiunge «Le fonti di stampa nel fornire talidati commentano che, come sono state usate fino ad ora, le risorse destinate alMezzogiorno non sono servite per lo sviluppo ed avanzano l’ipotesi che abbiano inrealtà finanziato “qualche forma malata di assistenzialismo improduttivo”».In questo quadro di opinioni connotate da negatività, qualche spiraglio emerge daalcuni degli interpellati. Landini riconosce che pur «in un quadro ancora forte-mente discontinuo, il maggiore e migliore impiego delle risorse comunitarie è allabase di molti dei successi ottenuti da amministrazioni, imprese e territori (urbanie no) del Mezzogiorno». Zanetto osserva che «la varietà dell’Italia è pari alla va-rietà dell’Europa a quindici. Le immense potenzialità delle politiche europee èstata sfruttata poco dal Mezzogiorno». Comunque, ritiene Zarrilli, «alcune realtàdi eccellenza emerse nel Mezzogiorno devono molto alle politiche comunitarie».Anche se «sono ben note l’inefficienza e l’inefficacia – ma anche la malversa-zione e l’abuso – che le regioni meridionali hanno dimostrato nell’utilizzo deifondi europei», comunque «il quadro è articolato e meritevole di valutazioni piùpuntuali». Del tutto ottimista, infine, appare il giudizio di Cencini: «L’Italia delNord è fortemente connessa alla dimensione europea e integrata nel contesto delleregioni forti di oltralpe. Per questo l’integrazione europea può giocare un ruolofondamentale per il superamento del divario Nord-Sud e per la creazione diun’Europa delle regioni».

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Come problema e oggetto di riflessione geopolitica, la suddivisione del territorio nazio-nale in macroregioni è argomento di non secondario interesse, e anzi estremamente inci-sivo al fine di una corretta interpretazione dei presupposti, socio-economici e politici, chespiegano le dinamiche contemporanee in termini di tendenze innovative dell’ordina-mento costituzionale e dell’assetto politico-amministrativo del paese. Per molti versi, si tratta di un effetto dell’azione delle diverse aree d’influenza generate,fino al XIX secolo, dalle potenze europee attive nella geografia politica della Penisola; diqui derivano i condizionamenti, tutt’altro che marginali – ovvero le opportunità di naturasocio-economica – da cui è dipeso, in larga misura, l’inserimento o meno di determinatearee geografiche italiane in un contesto di sviluppo europeo. Non va, quindi, trascurata lacircostanza che sin dalle origini, nella discussione sviluppatasi intorno alle prospettive di undiverso assetto del territorio italiano, il tema dell’auspicata riunificazione e dell’autonomiapolitica della Penisola fosse intensamente condizionato dalla considerazione delle dinami-che dello sviluppo economico del paese, inteso come problema inscindibile dal riassettoterritoriale, antecedente il compimento della stessa effettiva unificazione. Né, tanto meno, sipuò prescindere dalla considerazione della più complessiva prospettiva di ordine geopoli-tico, in termini di rapporto tra forma giuridica del modello costituzionale innovativo e con-seguenti proiezioni territoriali, di un regionalismo ante litteram che sarebbe scaturito dalmeccanismo posto in atto per realizzare la progressiva unificazione nazionale. Ne è ampia e documentata riprova la stessa modalità di costituzione formale dello Statounitario. Tramontata l’idea, propagata dal D’Azeglio e dal Cattaneo, di una confedera-zione tra gli Stati autonomi, si concretizzò un processo di successive adesioni al Regno diSardegna, attraverso l’indizione di plebisciti concepiti per enfatizzare, col voto, la vo-lontà popolare dell’adesione. Il che pone un’interessante questione di natura geopolitica:le precedenti proposte – di contrastante segno, tra tentativi di natura repubblicana, formepiù o meno virtuose di costituzionalismo monarchico, visioni laiche ovvero esplicita-mente orientate al consolidamento confessionale dello Stato della Chiesa – nascondevanola contrapposizione tra un modello ispirato al costituzionalismo napoleonico e il perma-nere di una forma conservatrice, cui non erano estranei interessi politico-economici in-dotti dall’esplicita dipendenza dalla potenza egemone austro-ungarica.Le vicende succedutesi fino al 1870 (dalla spedizione dei Mille, per la conquista militaredel Mezzogiorno, ma con le ulteriori acquisizioni territoriali nell’Italia centrale, alla brec-cia di Porta Pia con la disfatta papalina) non modificano affatto il modello originario, in-centrato su un processo di successiva adesione al Regno di Sardegna, in quanto fondatepur sempre sull’istituto del plebiscito popolare, sagacemente adottato per incorporare nelRegno tutti i nuovi territori resi indipendenti dalle precedenti egemonie politiche. Di questa vicenda, nell’ottica della riflessione geopolitica, l’aspetto più rilevante resta,in ogni caso, la parcellizzazione irrisolta del territorio, praticamente coincidente con leoriginarie realtà politico-amministrative pre-unitarie, e la netta contrapposizione cheemerge tra un Meridione, prevalentemente contadino ed economicamente depresso, unNord-ovest già per più versi europeo, industriale ed evoluto socialmente, e un Centro

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che ben presto finisce per gravitare, in parte, nell’orbita settentrionale, in parte intornoalla definitiva capitale e al suo ruolo di entità politico-amministrativa e di indubbiopolo di preminente rilevanza nazionale.Ne consegue che quella che oggi si tende a definire come «questione» settentrionalenon può prescindere dalla valutazione dei condizionamenti e degli orientamenti scatu-riti da quell’originario processo costitutivo dello Stato unitario che, in buona sostanza,ne racchiude in nuce i caratteri fondativi, anticipatori delle più recenti espressioni del-l’attualità geopolitica: da un lato, la visione di un regionalismo inteso come fonda-mento di una nuova organizzazione federalista dello Stato, intensamente autonomista elocalista; dall’altro lato, il costante permanere di ampi differenziali nella geografia deidivari di sviluppo economico e sociale, col conseguente assetto dicotomico delle con-centrazioni capitalistiche in grado di dirigere l’economia nazionale: egemonie finanzia-rie, aggregatesi e progressivamente rafforzatesi, prima sul piano nazionale, ma ben pre-sto su dimensioni sovranazionali e, pertanto, in grado di proiettare sui vasti mercati ini-ziative di dinamismo imprenditoriale protese a cogliere quelle opportunità, derivantidalla sempre più spinta internazionalizzazione dell’economia, che ne potessero deter-minare opportune forme di compartecipazione tecnologica e commerciale, e assumereinnovative leaderships, sullo scenario globale.Di questi due fondamentali termini della «questione», affrontata e ampiamente sviluppatanel corpo principale del Rapporto, cercheremo di tener conto, sia pur molto succinta-mente, in questa nota relativa alle specifiche «dinamiche» geopolitiche del nostro ambitospaziale di riflessione.

Proiezioni geopolitiche di uno sviluppo dicotomico

Il primo ventennio del Regno unificato dovette, prioritariamente, porsi il problema politicodell’ampliamento progressivo e negoziale dello spazio geografico di influenza del nuovoStato, sicché la necessità di intraprendere una chiara e decisa politica industriale, pur benpresente nell’agenda dei primi governi nazionali, stentò a manifestarsi, quanto meno in ter-mini di piena concretezza, rispetto a quanto stava avvenendo in altri paesi europei. Appa-riva – tranne isolate esperienze virtuose – inefficace e poco significativo lo sforzo d’intra-presa, sia a livello governativo sia a opera del capitale privato, teso a perseguire l’adegua-mento degli apparati produttivi alle tendenze emergenti, a scala mondiale, sul piano dell’in-novazione tecnologica. Tuttavia, sia pure con intensità minore di quanto fosse auspicabile,l’industrializzazione del Centro-Nord già assumeva apprezzabile diffusione e consistenza,mentre sarebbero occorsi alcuni decenni perché prendesse corpo un processo di assunzionedi responsabilità politiche, sufficientemente incisivo a scala nazionale, improntato a valuta-zioni di natura geopolitica. In altri termini, di fronte al difficile riequilibrio di sistemi pro-duttivi non più difendibili da barriere doganali protettive, scardinate dalla tariffa unica na-zionale, la necessità di una visione geopolitica del processo di sviluppo da incentivare si di-mostrò alquanto miope e solo marginalmente in grado di tradursi in azioni tese ad avviareun itinerario di ricomposizione dei divari territoriali di sviluppo. Riflessione carente, ma an-che improntata a contingenze occasionali e, comunque, indotta da considerazioni ispiratealla presa di coscienza della pericolosità sociale della crisi economica che affliggeva il

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Mezzogiorno (magistralmente evidenziata dalla ben nota Inchiesta Saredo), amplificatadalle rivolte operaie succedute alle cancellazioni di attività produttive a valle della chiusuradelle officine napoletane di Pietrarsa. A fronte dell’incomprimibile necessità di mostrare unatteggiamento di solidaristico sostegno da parte del governo nazionale, prende corpo un di-segno di inclusione del tessuto produttivo meridionale nel circuito dello sviluppo indu-striale nazionale, attraverso l’impianto di strutture delle produzioni di base, dimensionate infunzione di un mercato non più locale, bensì nazionale. Ne consegue un tentativo di razio-nalizzazione dell’impulso all’industrializzazione da parte del governo Giolitti, che imma-ginò di favorirne l’affermazione attraverso la legge 351 dell’8 luglio 1904, Provvedimentiper il risorgimento economico della città di Napoli, concepita per mettere in moto un mec-canismo autopropulsivo, ma anche nell’intento di spronare il capitalismo italiano, in parti-colare quello ben radicato nelle regioni settentrionali, a estendere la propria iniziativa versoil Mezzogiorno, dove abbondava manodopera a buon mercato 1. Lo scenario geopolitico del primo decennio del XX secolo, in termini di struttura geoeco-nomica delle macroregioni italiane, lascia trasparire uno sviluppo economico che si con-cretizza in un PIL pro capite in significativa crescita in tutto il territorio del triangolo in-dustriale nord-occidentale, dove la Liguria, per il proprio ruolo di polo relazionale marit-timo, costituisce la realtà geografica di più elevato benessere relativo. Già allora, il Mez-zogiorno rappresenta un’area in ritardo di sviluppo, pur se, nel suo ambito, la Campaniaoltrepassa il livello medio nazionale, al pari col Lazio e l’Emilia-Romagna. Condizionedi preminenza che ben presto svanisce allorché, nell’immediato secondo dopoguerra,l’intero Sud finisce al di sotto della media nazionale, mentre il Centro-Nord accentua ilprimato del triangolo industriale con l’equiparazione del Piemonte e della Lombardia allivello ligure, e il Nordest, pur se ancora al di sotto della media del paese, tende ben pre-sto a raggiungerla. Si adombra, in altri termini, una struttura geopolitica in bilico tra svi-luppo dualistico perfetto e affermazione di una Terza Italia, ruotante intorno al Centro –in più accelerato sviluppo – che si riconosce in un modello di crescita basato sulla mediae piccola industria; modello che progressivamente costituisce il tratto saliente dell’econo-mia virtuosa italiana, decisamente estesa al Nordest, parimenti in progressivo, continuo,incremento industriale.Del resto, com’è stato ampiamente osservato, l’industria italiana, uscita piuttosto malconciadalla disastrosa esperienza bellica in cui era precipitato il paese negli anni Quaranta, seguìun orientamento alquanto diverso da quello che aveva visto le altre potenze industriali im-pegnarsi nell’innovazione e nella ristrutturazione sistematica del proprio apparato produt-tivo. In molti significativi comparti l’imprenditoria nazionale preferì adattare gli impianti,sia pure tecnologicamente arretrati, alle opportunità congiunturali del mercato, occupandosegmenti lasciati liberi dalla minore pressione esercitata dagli altri paesi europei, più attentialla ricostruzione su basi tecnologicamente innovative. Dalla metà degli anni Cinquanta,sino ai primi anni Settanta, il sistema Italia concretizzò quello che va sotto il nome di mira-

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1 L’iniziativa più rilevante, dimostratasi col tempo affatto opportuna ed efficace, fu la creazione del polo side-rurgico campano. Nel 1909 vide la luce lo stabilimento siderurgico ILVA che, con i 12 ettari di superficie e itre altiforni da 150 tonnellate, costituirà per un trentennio uno dei più importanti poli industriali del Mezzo-giorno. Arriverà a occupare nel 1919 oltre 4.000 operai, e nel 1973 quasi 8.000. Con la crisi del 1929, l’IRIacquisì l’impianto che, con alterne fortune, sopravvisse fino alla definitiva dismissione all’inizio degli anniNovanta del Novecento.

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colo economico: l’opzione geopolitica principale assunse i caratteri di un cospicuo trasferi-mento di forza-lavoro dal Mezzogiorno verso il Nord-ovest. In tal modo, senza affatto inci-dere sulla distribuzione del capitale e sull’allocazione delle unità produttive, e sia pure aprezzo di un certo disordine da congestione, si favorì il consolidamento dell’apparato indu-striale della macroarea settentrionale nel suo stesso spazio geografico d’elezione. La stessapolitica delle opere pubbliche, introdotta con l’esplicita finalità di costituire uno strumentocompensativo a sostegno della riduzione del disagio derivante dalla perifericità geograficain cui versava il Sud, sempre più lontano dal centro pulsante dello sviluppo economico na-zionale ed europeo, finiva per rappresentare un’ulteriore opportunità per gli apparati pro-duttivi insediati nelle regioni meglio attrezzate in termini di dotazioni tecnologicamente piùidonee. In tal modo, mentre si realizzava il grande asse trasportazionale lungo la dorsalelongitudinale, da nord a sud, e si tracciavano le direttrici delle indispensabili apofisi trasver-sali, da ovest a est, in concreto le regioni meridionali continuavano a porsi come area dimercato, ambito di trasferimento di risorse, spazio di consumo, piuttosto che di produzione. L’opzione geopolitica predominante, quindi, colloca il confronto competitivo tra macrore-gioni in uno schema che conferisce al Nord-ovest il ruolo di sperimentatore e avanguardiadella penetrazione in un contesto decisamente europeo, e al Nordest e al Centro il ruolo diofficina della diffusione territoriale dell’industrializzazione di piccola e medio-piccola di-mensione, con ampi spazi riservati alla specializzazione su basi distrettuali e alla contem-poranea, progressiva, terziarizzazione – funzionale all’assolvimento di attività di servizioche la piccola dimensione aziendale trova utile esternalizzare. Appare evidente che le re-gioni del Nord-ovest e del Nordest (cui si congiungono, con significative rappresentazionidi natura strutturale, sostanzialmente imitative, configurazioni produttive allocate nel Cen-tro), pur se con alterne fortune, inevitabili mutamenti d’indirizzo produttivo, ma elevataelasticità nella propensione all’adeguamento organizzativo e nella costante ricerca di posi-zioni di leadership sui mercati, rappresentano un unico contesto macroregionale di svi-luppo e di significativa solidità industriale ed equilibrata composizione intersettoriale. Percontro, il Mezzogiorno, nonostante l’ampia rappresentanza politico-governativa cheesprime, non riesce a cogliere alcuna delle opportunità derivanti dalla sua indubbia rile-vanza sul piano geopolitico, quale estrema propaggine meridionale dell’Unione Europea,naturale ponte in posizione baricentrica nel Mediterraneo, naturale cavalcavia delle nuovetraiettorie del commercio mondiale lungo l’asse prioritario tra est e ovest.

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Tab. 1 – Indici d’industrializzazione delle macroaree italiane tra il 1951 e il 2001 (% ad-detti/popolazione residente).

Fonte: elaborazione su dati ISTAT, censimenti dell’industria.

Macroregioni 1951 1961 1971 1981 1991 2001

Centro-Nord 11,9 15 15,7 16,5 14,5 14

Mezzogiorno 4,1 4,5 5,5 6,2 5,5 5,7

Italia 9,4 11 12,2 12,8 11,3 11

Divario Nord-Sud -7,8 -11,5 -10,2 -10,3 -9 -8,3

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Inevitabile concluderne che nel Nord lo sviluppo seguiva un indirizzo decisamente im-prontato al coinvolgimento dell’apparato produttivo nazionale in un contesto di consoli-damento delle relazioni infra-europee. Dal canto loro, sia pur conoscendo significativiperiodi di congiuntura sfavorevole, cui non erano estranei l’incompletezza e il ritardo delprocesso d’innovazione tecnologica dell’apparato produttivo, le regioni che ne costitui-vano l’aggregato territoriale riuscivano ad affermare una propria presenza nella geografiaeconomica dei paesi più industrializzati, caratterizzandosi in termini espliciti di concen-trazione imprenditoriale nei settori industriali e nel campo finanziario.

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1980 1990 2000 2008

REGIONE v.a. % v.a. % v.a. % v.a. %

Piemonte 19.103,7 9,6 60.335,4 8,8 100.510,9 8,6 126.143,1 8,0

Valle d’Aosta 559,4 0,3 2.003,0 0,3 3.082,0 0,3 4.284,9 0,3

Lombardia 40.623,5 20,5 141.638,1 20,8 237.199,5 20,3 323.056,4 20,5

Liguria 6.599,1 3,3 21.359,3 3,1 35.249,7 3,0 43.703,3 2,8

Italia nord-occidentale 66.885,7 33,7 225.335,8 33,0 376.042,1 32,2 497.187,6 31,6

Trentino-Alto Adige 4.082,9 2,1 14.561,8 2,1 25.254,1 2,2 33.199,8 2,1

Veneto 16.990,9 8,6 59.457,5 8,7 106.508,2 9,1 147.443,1 9,4

Friuli-Venezia Giulia 4.460,9 2,2 15.402,4 2,3 26.995,4 2,3 35.803,0 2,3

Emilia-Romagna 18.089,6 9,1 58.387,5 8,6 102.800,7 8,8 139.127,8 8,8

Italia nord-orientale 43.624,3 22,0 147.809,3 21,7 261.558,4 22,4 355.573,8 22,6

Italia settentrionale 110.510,0 55,7 373.145,1 54,7 637.600,5 54,7 852.761,4 54,2

Toscana 13.966,9 7,0 45.227,9 6,6 79.184,6 6,8 106.388,9 6,8

Umbria 2.968,5 1,5 9.448,8 1,4 16.384,0 1,4 22.289,8 1,4

Marche 5.090,9 2,6 16.528,7 2,4 29.923,9 2,6 41.718,1 2,7

Lazio 17.949,8 9,0 68.676,4 10,1 117.675,1 10,1 173.144,7 11,0

Italia centrale 39.976,1 20,1 139.881,8 20,5 243.167,7 20,8 343.541,5 21,9

Abruzzo 3.573,5 1,8 13.260,4 1,9 21.935,3 1,9 28.795,7 1,8

Molise 832,7 0,4 2.973,7 0,4 5.105,5 0,4 6.553,2 0,4

Campania 12.335,6 6,2 44.763,0 6,6 76.223,3 6,5 97.338,8 6,2

Puglia 9.224,7 4,6 31.712,4 4,6 54.807,7 4,7 73.223,6 4,7

Basilicata 1.477,5 0,7 4.636,1 0,7 8.663,8 0,7 11.243,7 0,7

Calabria 4.072,2 2,1 14.455,0 2,1 25.422,3 2,2 34.717,1 2,2

Sicilia 12.133,4 6,1 42.327,9 6,2 67.268,1 5,8 88.260,4 5,6

Sardegna 4.218,2 2,1 14.702,3 2,2 24.972,9 2,1 34.427,4 2,2

Mezzogiorno 47.867,9 24,1 168.830,6 24,7 284.398,9 24,4 374.559,9 23,8

Extra-Regionale 169,9 0,1 295,4 0,0 1.381,0 0,1 1.380,3 0,1

Italia 198.523,8 100 682.152,9 100 1.166.548,0 100 1.572.243,1 100

Tab. 2 – Dinamiche del PIL nelle macroaree e nelle regioni italiane tra il 1980 e il 2008.

Fonte: nostra elaborazione su dati ISTAT.

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La macroregione settentrionale, di conseguenza, finiva per accrescere il divario dalla ma-croregione meridionale, in un primo arco temporale (1961 e 1981) essenzialmente in ter-mini di indice del grado d’industrializzazione, e in un secondo tempo – trasformatasi ra-pidamente la composizione della struttura produttiva, per effetto della diffusa terziarizza-zione delle economie avanzate – in termini di incidenza del peso relativo del PIL pro-dotto e della sua distribuzione pro capite.

Un capitalismo «contenuto» da una labile iniziativa internazionale

Non vi è dubbio alcuno che il più lento sviluppo del Mezzogiorno e le conseguenti diffi-coltà sul piano occupazionale, in cui tuttora versa quest’ampia porzione del paese, abbianocostituito una grave remora allo stesso processo di crescita economica nazionale. Ciò non-ostante, non può di certo sfuggire come, in termini di presenza attiva sullo scenario com-petitivo globale, l’intrapresa italiana si collochi in posizioni tutt’altro che di spicco. Ragio-nando sul processo posto in atto per tentare di colmare i divari più significativi dello svi-luppo territoriale italiano, si è detto, non a torto, che tra gli anni Settanta e Ottanta quelladi questo nostro paese è stata l’economia maggiormente statalizzata del mondo, dopoquella sovietica. Ciò è vero, in particolare, per quanto concerne gli aspetti legati al soste-gno pubblico assicurato, in quegli anni, alla grande industria, in un’ottica volutamentefatta coincidere con una politica di localizzazioni capital-intensive distribuite in varie re-gioni del Mezzogiorno, dove si riteneva potessero innescare un meccanismo autopropul-sivo di disseminazione industriale. Tuttavia, senza approfondire le contraddizioni di unapolitica economica che indirizzava insediamenti a elevata intensità finanziaria laddove sa-rebbe stato opportuno incrementare localizzazione a elevata densità di forza-lavoro, nonpuò negarsi che sono i limiti del capitalismo storico, l’inadeguatezza delle oligarchie tradi-zionali, oltre che il fallimento dell’intervento pubblico, le cause principali della crisi cheha fatto pagare all’economia italiana, all’interno, un prezzo altissimo, costringendola, inpari tempo, a rimanere in posizioni decisamente marginali nel contesto internazionale. Tuttavia, specialmente negli anni più recenti, per un effetto indotto dal riposizionamentodimensionale dei principali gruppi industriali internazionalizzati, parte del capitalismo ita-liano, i cui centri di direzione e concezione dello sviluppo sono decisamente radicati nelleregioni settentrionali, ha intrapreso una strada di maggiore visibilità sullo scenario globale,impegnandosi in azioni importanti di internazionalizzazione e acquisizione di impresestraniere. Ne sono un esempio l’acquisizione della spagnola ENDESA da parte di ENEL,gli accordi tra ENI e la russa GAZPROM 2 o le commesse ottenute da Finmeccanica, per lavendita dei suoi costosi elicotteri agli USA e al Giappone, o per la realizzazione di impor-tanti installazioni tecnologiche in molti paesi in fase di accelerato sviluppo.Di fatto, comunque, non va taciuto che la borghesia industriale storica, ampiamente con-centrata nelle regioni settentrionali del paese, è rimasta ai margini dei business più inno-vativi e dinamici e non ha dimostrato alcuna propensione a sostituire nuovi settori disviluppo industriale a quelli tradizionali. Lo attesta un dato sempre più evidente: il de-clino della grande industria manifatturiera. Le stesse difficoltà della FIAT, azienda per

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2 Si veda, a tal riguardo, il Quadrante nel Rapporto 2009 della Società Geografica Italiana.

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lungo tempo identificata a simbolo del capitalismo italiano, ormai declassata di frontead altre imprese italiane enormemente sviluppatesi, come ENI, ENEL; il crollo dellaParmalat, uno dei marchi nazionali più noti all’estero, alle origini esempio incontami-nato della laboriosità emiliana e del successo del capitalismo familiare; il fallimento delpiù giovane gruppo Cirio, uno dei simboli più accreditati del settore agroindustriale vir-tuoso: segnali tutti, quelli citati, di una situazione problematica, estesa ad ampio raggioal di dentro e all’esterno del tessuto produttivo regionale, che ha raggiunto il culminenella crisi dell’Alitalia, vettore nazionale del comparto aereo, mantenuto artificiosa-mente sul mercato attraverso discutibili operazioni di finanza «creativa» incoraggiate dasostegno pubblico abilmente mascherato. Di questo assetto «provincialistico» del capitalismo nazionale è ulteriore, inconfuta-bile, riprova l’elenco delle prime 1.000 imprese del mondo, classificate per valore dimercato, pubblicato da «Business Week»: la vetta è dominata da società come Exxon-Mobil, PetroChina, Wal-Mart Stores, China Mobile, Johnson & Johnson e Microsoft.Tra le prime 50 società, ben 36 sono industriali, mentre il primo gruppo italiano inclassifica è l’ENI, al 43° posto, che è pur sempre una società tuttora controllata dalloStato e che opera in posizione di monopolio naturale sul territorio nel comparto delleutilities. Tra il 134° e il 189° posto seguono ENEL e TELECOM Italia, anch’esse so-cietà che hanno a lungo erogato servizi in regime di quasi monopolio. Per trovare leprime imprese industriali italiane operanti in effettivo regime di concorrenza occorrearrivare al 750° posto con EDISON e Luxottica, mentre la FIAT si colloca all’841° po-sto e la Finmeccanica all’850°, surclassate da una moltitudine di imprese che non sonoaffatto riconducibili ai principali paesi industrializzati del mondo (messicane, tailan-desi ecc.). In definitiva, ragionando nell’ottica della vivacità espressa dal capitalismonazionale nella dimensione internazionale, attraverso la lente d’ingrandimento della li-sta delle prime 1.000 imprese mondiali, emerge che c’è un solo imprenditore privatoitaliano che non beneficia di rendite di posizione: Leonardo Del Vecchio (primo pro-duttore di occhiali al mondo). Complessivamente, tra quelle prime 1.000 imprese delmondo, l’Italia ne può vantare 23, ma solo 9 sono industriali. Le altre sono finanziarie,più esattamente bancarie e assicurative (Intesa San Paolo al 113° posto, Generali al181° e Unicredit al 185°); aziende, per giunta, caratterizzate in larga misura da un’ope-ratività ancora largamente nazionale. Inoltre, il numero delle imprese italiane presentinell’elenco delle maggiori imprese per capitalizzazione ha subito negli ultimi anni unasignificativa decurtazione che, in larga misura, è il risultato di fusioni; processo decisa-mente caratteristico di questa stagione del capitalismo, comune a tutti gli altri paesi piùavanzati; tuttavia, mentre il relativo accorpamento ha inciso in misura determinante sulposizionamento competitivo dei rispettivi gruppi imprenditoriali sullo scenario globale,i riflessi organizzativi sulla struttura interna e la distribuzione regionale delle unità diproduzione hanno finito per accentuare la caratterizzazione dominante della concentra-zione settentrionale delle sedi dei centri direzionali, mentre la periferia ha sovente su-bito effetti negativi dal processo di razionalizzazione organica posto in essere attra-verso ricorrenti riduzioni di forza-lavoro occupata. Se si tengono presenti le riserve espresse sulla singolare posizione «protetta» in cuihanno lungamente operato imprese come ENI, ENEL e TELECOM Italia, emerge inmodo ben evidente l’inconsistenza di un capitalismo dimostratosi poco attento a cogliere

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opportunità in divenire, anticipando con adeguate strategie geopolitiche la propria posi-zione sui vasti mercati in funzione dell’evolversi delle successive fasi del processo d’in-dustrializzazione a livello globale 3. Carenza di adeguate strategie che lascia perplessi ovesi considerino gli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’Italia era invece ben posizionata intutti i principali settori industriali: macchine per ufficio e informatica (Olivetti, che fino ametà degli anni Ottanta contendeva a Compaq il primato della produzione di PC); auto-mobili (FIAT); chimica e farmaceutica (Montedison 4); aeronautica civile (Finmeccanica);e così via. Né giova ritenere che l’arretramento del comparto industriale dipenda del tuttodagli effetti indotti dalla terziarizzazione dell’economia, per la semplice ragione che èstato ampiamente dimostrato come l’accelerata spinta alla terziarizzazione ha alimentatoun processo funzionale all’industria stessa – che ha espulso funzioni e processi primasvolti internamente – e non indipendente da essa, né tantomeno sostitutivo.

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Fig. 1 – Paesi a cui appartengono le prime 500 imprese quotate nelle borse mondiali, 2009.

Fonte: elaborazione su dati «Financial Times», FT Global 500 (2009).

3 Non è un caso se nel 2006 l’EUROSTAT ha dovuto registrare l’Italia all’11° posto in Europa per numero didomande di brevetto per milione di abitanti presentate all’European Patent Office (EPO): sono state, precisa-mente, appena 85 (quanto quelle della Gran Bretagna), contro le 290 della Germania, le 269 della Svezia, le247 della Finlandia, le 207 della Danimarca, le 205 dei Paesi Bassi, le 185 dell’Austria, le 137 del Belgio, le134 della Francia. Tra i vecchi membri dell’UE-15 solo Irlanda (65), Spagna (33), Portogallo (13) e Grecia(10) hanno fatto registrare performances peggiori.4 La parabola della Montedison è caso paradigmatico del ridimensionamento della grande impresa privata ri-spetto allo slancio di un periodo in cui l’Italia marciava a ritmi di crescita superiori anche a quelli della loco-motiva tedesca.

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L’idea che la linea logica perseguita dal capitalismo italiano, e più propriamente da signi-ficative aggregazioni picolo-imprenditoriali presenti nel Centro-Nord, abbia privilegiatoil mercato interno trova un’evidente conferma nell’esperienza virtuosa dei distretti indu-striali; esemplari modelli di sviluppo produttivo sorti in aree geografiche caratterizzate daconcentrazione di piccole e medie imprese iperspecializzate su singoli prodotti in settorileggeri e di nicchia (dalla moda, al mobile, al giocattolo) con capacità di leadership parti-colarmente significativa. Diffusi soprattutto nel Lombardo-Veneto e lungo la costa adria-tica, i distretti assorbono il 40% di tutti gli addetti all’industria manifatturiera e rappre-sentano una quota rilevantissima delle nostre esportazioni.

Scenari italiani 2010 141

2005 2007 2009

Impresa RangoCapital.

(mld US$)Impresa Rango

Capital.

(mld US$)Impresa Rango

Capital.

(mld US$)

ENI 29 104 ENI 34 129,9 ENI 43 77,7

TELECOM

Italia74 60,8 Unicredit 55 99

Intesa

San Paolo113 34,4

ENEL 80 58,6Intesa

San Paolo58 96,6 ENEL 134 29,7

TIM 81 57,9 ENEL 113 65,9 Generali 181 24,1

Generali 130 41,2 Generali 141 54,2 Unicredit 185 23,7

Unicredit 144 37,1TELECOM

Italia146 52,9

TELECOM

Italia189 23,3

Banca Intesa 179 30,2 FIAT 270 31,6SNAM

Rete Gas479 10,5

San Paolo

IMI245 23,1 Capitalia 387 23,4

Mediaset 351 17

RAS 387 15,7

Autostrade 421 14,8

Mediobanca 456 13,7

Tab. 3 – Imprese italiane nell’elenco FT Global 500.

Fonte: «Financial Times», FT Global 500 (2005, 2007, 2009).

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Il «fenomeno» leghista: ascesa e riflessi geopolitici

L’inevitabilità di uno sviluppo a più velocità, diretta conseguenza, come si è rapidamente ri-cordato, di una configurazione geopolitica intensamente segnata dall’impronta impressa allesingole macroregioni italiane dalla loro collocazione nello scenario competitivo sette-otto-centesco, pre-unitario, costituisce un dato strutturale dell’economia nazionale da cui non èassolutamente possibile prescindere, in modo particolare discutendone in una prospettivasquisitamente geografica. Inoltre, fermo restando il peso determinante che deriva da questainconfutabile realtà, non può sfuggire come la strategia geopolitica risultata dominante, avalle della ricostruzione post-bellica, abbia incentrato le opzioni dello sviluppo intorno allacentralità assegnata alle relazioni commerciali e all’integrazione economica intra-europea,nel cui ambito le regioni settentrionali, sia per motivi meramente geografici, sia per poten-ziale competitivo e capacità d’iniziativa finanziaria, avevano, ben presto, finito per occupareposizioni di assoluta preminenza rispetto alle altre aree produttive nazionali. Del resto, anchesul piano della dotazione di risorse umane, funzionali all’integrazione nella dimensione com-petitiva a scala europea, la capacità attrattiva esercitata dalla macroregione settentrionalesulla forza-lavoro a elevato grado d’istruzione e di specializzazione formatasi nel Mezzo-giorno si rivela molto elevata, ancor più per effetto della carenza di opportunità presenti nelterritorio di residenza e di scarsa capacità propulsiva dell’iniziativa pubblica e dell’intrapresalocale promossa dal capitale privato.L’incapacità di superare la divaricazione determinatasi nei livelli di reddito pro capite asvantaggio del Mezzogiorno, nonostante il cospicuo ammontare di risorse finanziarie im-piegate, alimenta una comprensibile sfiducia che travolge proprio la classe politica re-sponsabile del deficit di sviluppo, espressione dell’elettorato moderato meridionale, la-sciando spazio a scomposte espressioni di critica del concetto di unità nazionale, tendentia introdurre modelli politico-amministrativi che, attraverso formule di natura federalista,potessero determinare una concreta separazione autonomistica a vantaggio delle regionimaggiormente virtuose del paese.Pur nella inevitabile approssimazione di una discussione che, proprio in quanto tutt’altroche banale, richiederebbe ben diverso approfondimento, non può sfuggire come la modi-fica del titolo V della Costituzione, in sostanza, abbia voluto accogliere una sollecita-zione volta a consentire una nuova organizzazione amministrativa dello Stato, sensibilealle aspettative di quella parte politica più attiva nel richiedere diverse opportunità per leregioni maggiormente in crescita e un contemporaneo contenimento dei vincoli di solida-rismo compensativo del sottosviluppo relativo che caratterizza la condizione prevalentedella macroregione meridionale. La parte politica a cui ci si riferisce è la vera novità delpanorama nazionale di questi ultimi vent’anni, non tanto per la sua consistenza e per ilconsenso elettorale che riassume, quanto per le conseguenze di natura geopolitica che laproposta di modifica dell’ordinamento statale che propugna finisce per produrre.La Lega Nord prende le mosse come federazione dei movimenti autonomisti del Nord 5 cheerano cresciuti – un po’ in sordina e senza attirare molto l’attenzione dei media – nel corsodegli anni Ottanta. Questo movimento politico nasce dalla volontà di dare voce alle peculia-

142 Quadrante

5 Nasce ufficialmente il 10 febbraio 1991, a conclusione del I Congresso Federale, svoltosi a Pieve Emanuele(MI) tra Lega Lombarda, Liga Veneta, Piemont Autonomista, Uniun Ligure, Lega Emiliano-Romagnola, Al-leanza Toscana, a cui si uniranno successivamente altri movimenti attivi nelle regioni del Nord.

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rità culturali ed economiche che caratterizzano il territorio del Nord Italia ispirandosi, ap-punto, ai caratteri che per secoli avevano reso prospere queste regioni, ma che in tempi piùrecenti, secondo il movimento, sarebbero stati offuscati dall’invasione napoleonica e poi pro-prio dalla creazione del Regno d’Italia. È evidente come le vicende legate allo sviluppo eco-nomico di queste regioni abbia influito sulla nascita dei movimenti autonomistici. In partico-lare, il collegamento con i mercati mitteleuropei e l’integrazione all’interno del triangolo in-dustriale italiano, da una parte, e le condizioni di marginalità rispetto alla cultura nazionale,dall’altra – particolarmente avvertita nel Veneto – hanno costituito il fertile terreno per co-loro che sin dalle origini vennero definiti «autonomisti della disgregazione». In questa pro-spettiva ha rilievo la constatazione che il fenomeno di cui ci si occupa non è affatto da consi-derarsi strettamente locale, bensì merita di essere considerato come la risultante di condi-zioni politiche, culturali ed economiche che si palesano in tutto il mondo occidentale: la pro-liferazione di gruppi politici e d’opinione promotori dell’autonomismo regionale costituisceun carattere emergente comune a numerosi paesi europei, e ripropone una riflessione sul si-gnificato stesso della territorialità, in rapporto al potere politico e all’identificazione che sene determina nei confronti della popolazione insediatavi.Già alle elezioni del 1992 la Lega si impose all’attenzione pubblica con un risultato sor-prendente: alla Camera ottenne l’8,6% delle preferenze e 55 deputati, mentre al Senatostrappò l’8,2% dei consensi e 25 senatori. In occasione delle elezioni politiche del 1994,apparentata a una coalizione di centro-destra, nonostante un leggero calo di percentualecon l’8,4% dei voti alla Camera, i parlamentari salirono a 180 grazie alla presenza di can-didati leghisti nei collegi uninominali come rappresentanti dell’intera coalizione. Nel 1994 l’Assemblea federale leghista presentò un progetto di Costituzione in ragionedel quale l’Italia si presentava divisa in 9 macroregioni o macroaree, in buona misuraispirate a una forma di aggregazione geografica riproducente l’organizzazione territorialedegli Stati preesistenti all’Unità d’Italia; tuttavia, per problemi contingenti di ben altranatura, l’esperienza governativa di centro-destra si esaurì aprendo spiragli innovativi checondussero la Lega a un radicale mutamento di alleanze attraverso l’instaurazione di unrapporto di sostegno esterno al centro-sinistra. Per questa strada, in sostanza, prima dellafine della legislazione, la Lega ottenne significativi avvicinamenti da parte della compa-gine governativa in termini di progressiva condivisione dell’idea federalista alla basedella propria ideologia politica.Pur se attraverso alterne vicende, il fenomeno Lega attualmente rappresenta una signifi-cativa espressione politica, sicuramente radicata nel paese, e in grado d’imporre la pro-pria linea politica ben oltre il peso assoluto del consenso elettorale che vi traspare, spe-cialmente allorché misurato in termini di proiezione territoriale alla scala nazionale 6.

Scenari italiani 2010 143

6 Alle elezioni del 1996, la Lega non strinse alleanze, ma si presentò da sola e conquistò il 10,4% dei voti a li-vello nazionale e 87 parlamentari. Alle elezioni europee del 1999 il partito raccolse il 4,5% dei consensi,meno della metà rispetto alle politiche del 1996, ed elesse 4 europarlamentari. Nelle elezioni europee del2004 e in quelle regionali del 2005, la Lega Nord recupera parte dei consensi ottenendo, rispettivamente, il5,1% e il 5,6% dei suffragi a livello nazionale. Ma la più significativa riscossa leghista si realizza nelle ele-zioni del 2008 quando, con la vittoria del centro-destra, ottiene l’8,30% alla Camera e l’8,06% al Senato. Ul-teriore ascesa si realizza alle elezioni europee del 2009 dove consegue il 10,22%. In Veneto raggiunge ben il28,38% e risulta il partito più votato nelle province di Belluno, Treviso, Verona e Vicenza, aprendo il dibattitosul futuro presidente della Regione.

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Come emerge con assoluta evidenza dagli esiti delle competizioni elettorali, il movi-mento leghista, nonostante tentativi non sempre coerenti d’apparentamento con analo-ghi movimenti di altre regioni, resta un movimento fortemente localista, presente intermini significativi nelle regioni settentrionali, e decisamente maggioritario esclusi-vamente in alcune province nord-orientali, dove minore è l’influenza diretta del par-tito berlusconiano. Situazione ben evidenziata dalla rappresentazione tematica che se-

144 Quadrante

Elezioni politiche Elezioni europee

1992 1994 1996 2001 2006* 2008 2004 2009

Piemonte 17,06 15,7 18,22 5,92 6,34 12,6 8,18 15,69

Valle d’Aosta n.p. 17,15 8,08 21,94** 1,99 3,1 2,95 4,38

Lombardia 24,33 22,1 25,53 12,12 11,72 21,62 13,84 22,72

Liguria 14,29 11,39 10,2 3,91 3,7 6,84 4,13 9,86

Trentino-Alto Adige 8,86 7,55 13,24 3,66 4,49 9,42 3,54 9,9

Bolzano 3,63 - - 0,65 0,9 1,99 0,75 4,82

Trento 13,93 - - 6,58 7,86 16,44 6,36 14,92

Veneto 17,31 21,6 29,27 10,25 11,09 27,09 14,13 28,38

Friuli-Venezia Giulia 13,62 16,92 23,19 8,24 7,17 13,04 8,51 17,45

Emilia-Romagna 10,11 6,39 7,24 2,6 3,92 7,77 3,38 11,08

Toscana 3,02 2,15 1,81 0,57 1,08 2,04 0,84 4,32

Umbria 1,01 n.p. 1,05 n.p. 0,76 1,67 0,6 3,56

Marche 1,27 n.p. 1,46 n.p. 1,03 2,21 0,63 5,47

Lazio 0,91 n.p. n.p. 0,09 0,26 n.p. 0,24 1,06

Abruzzo 0,78 n.p. n.p. n.p. 0,51 n.p. 0,26 1,29

Molise 0,29 n.p. n.p. n.p. 0,18 n.p. 0,48 0,65

Campania 0,17 n.p. n.p. n.p. 0,17 n.p. 0,4 0,47

Puglia 0,2 n.p. n.p. n.p. 0,66 n.p. 0,16 0,3

Basilicata 0,22 n.p. n.p. n.p. 0,92 n.p. 0,39 0,57

Calabria 0,33 n.p. n.p. n.p. 0,83 n.p. 0,25 0,97

Sicilia 0,19 n.p. n.p. n.p. 4,44 n.p. 0,24 0,26

Sardegna 0,34 n.p. n.p. n.p. 0,41 n.p. 0,14 0,74

Totale Italia 8,65 8,36 10,07 3,94 4,58 8,3 4,97 10,22

Tab. 4 – Percentuale di voti ottenuti dalla Lega Nord alle elezioni politiche ed europeepiù recenti.

* Nella lista unica Lega Nord-Movimento per l’Autonomia** Nella lista unica Lega Nord-Forza Italian. p. = non presentata

Fonte: Ministero dell’Interno.

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gue, riferita agli esiti della competizione europea dello scorso anno dove, a fronte diun paese esplicitamente di centro-destra, eccezion fatta per non marginali compaginidi centro-sinistra attive nel Centro e in Sardegna, il peso della Lega in termini percen-tuali resta, comunque, piuttosto marginale. Tuttavia, se marginale, inevitabilmente, rispetto alle realtà predominanti nell’insiemedelle province, intensamente incisivo a livello nazionale in ragione del ruolo svolto inseno alla compagine governativa di centro-destra.Del resto, ponendosi la Lega come un movimento «antipolitico», ossia fondato sullascarsa fiducia nelle istituzioni, interpretate come fonti di comportamenti prevaricatori edi illegalità diffusa, il problema della cultura politica e dell’inquadramento del partitonel solco dei grandi movimenti europei popolari, socialisti, liberal-democratici o catto-lici, non si pone se non in termini di assoluta trasversalità. Comunque, ciò che piùconta, nella prospettiva delle strategie geopolitiche contemporanee, è la circostanza cheil programma della federazione sia mutato nel corso degli anni, in considerazione an-che della lunga marcia d’avvicinamento alla struttura federalista compiuta dal Parla-mento attraverso la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione. Di conse-guenza, la strategia leghista è transitata dall’obiettivo rivoluzionario della secessione auna battaglia, di stampo sostanzialmente riformista, tendente a sperimentare una viaistituzionale verso uno Stato federale, attraverso il federalismo fiscale e la devoluzionealle Regioni di alcune funzioni esercitate dallo Stato. Nello stesso tempo, come conse-guenza di un localismo esasperato, la Lega Nord propugna l’adozione di norme più se-vere, rispetto a quelle vigenti, in materia di immigrazione, di multietnia, mentre vigo-rosamente contrasta approcci religiosi sensibili all’integralismo islamico.

La questione del federalismo fiscale

Decisamente incisivo, in termini di strategie geopolitiche conseguenti, si palesa il pro-blema dell’introduzione di un meccanismo condivisibile di ripartizione delle risorsepubbliche su base regionalista, attraverso un criterio di natura federalista. Nella acce-zione più diffusa, «federalista» è, in generale, quella forma di organizzazione statualein cui più comunità, ciascuna omogenea al proprio interno per modo di vivere, econo-mia, tradizioni, storia, dialetto, pur amministrandosi autonomamente, gestendo in locoi soldi delle proprie tasse, liberamente stabiliscono di collegarsi fra loro e di deman-dare a un’autorità centrale (federale) quella parte di poteri e di risorse finanziariestrettamente necessari per esigenze comuni quali la difesa, la politica estera e pochealtre. Uno Stato federale, infatti, nell’ottica della Lega Nord costituisce innanzitutto lamiglior difesa dell’identità locale dei cittadini, vale a dire di quel complesso di lingua,tradizioni e comportamenti che caratterizzano una comunità. La soluzione federalecollega identità diverse, sul piano etnico, storico e culturale, impegnate in un progettodi recupero dell’efficienza dei servizi e superamento della crisi economica, della dis-occupazione, della corruzione, della criminalità organizzata che vengono ritenute ef-fetto di un sistema socio-politico intensamente caratterizzato dal peso assunto dal cen-tralismo partitocratico. Il federalismo, infatti, distribuendo il potere tra vari centri, av-vicina direttamente il cittadino alle scelte della politica, rendendolo più responsabile,

Scenari italiani 2010 145

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crea maggiore senso civico, porta maggiore pluralismo e avanzamento civile 7. La ri-forma federale, quindi, è – secondo la Lega Nord – il presupposto imprescindibile percambiare davvero il paese; per renderlo più snello, più efficiente, più competitivo, inquanto rappresenta lo snodo da cui dovrebbero partire tutte le altre riforme, che sonodestinate a mutare l’assetto politico e istituzionale del paese. In questa ottica il settorefiscale è fondamentale affinché ciascun territorio mantenga le proprie peculiarità e diarisposte alle esigenze che giungono dalla cittadinanza 8. Vi è, quindi, un nesso impre-scindibile tra le funzioni attribuite a ciascun ente e le risorse necessarie per il loro in-tegrale esercizio. L’assunto che ci siano vari livelli di governo fa sì che il cittadinotragga vantaggio dalla maggiore conoscenza dei bisogni «locali» da parte di un’istitu-

146 Quadrante

Fig. 2 – Distribuzione del consenso elettorale a scala provinciale nelle elezioni europeedel 2009.

7 Il rapporto Doing Business 2008 elaborato dalla World Bank, che valuta la capacità dei singoli paesi di fa-vorire o inibire l’attività imprenditoriale (misurando l’apparato amministrativo, organizzativo, fiscale, legale,economico e finanziario), conferma l’efficacia dei sistemi federali collocando la Svizzera al 16° posto (su178 Stati), il Belgio al 19°, la Germania al 20°, l’Austria al 25°. L’Italia è al 53° posto, seguita in Europa soloda Slovenia (55°), Repubblica Ceca (56°), Polonia (74°) e Grecia (100°).8 Inizialmente i movimenti autonomistici da cui la Lega ha avuto origine richiedevano per le rispettive Re-gioni uno statuto speciale (laddove non fosse già previsto) essenzialmente al fine di ottenere una più ampiaautonomia fiscale.

Elezioni europee del 7.6.2009Partiti maggioritari nelle singole province

PdL

Lega

PD

SVP

UV

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zione territorialmente vicina, e dalla possibilità di controllarne meglio l’operato. Tut-tavia, avendo come finalità precipua la maggiore efficienza del sistema e la più effi-cace allocazione delle risorse allo scopo di accrescere il livello di competitività com-plessiva del sistema territoriale di riferimento, è evidente che questo progetto sottendeun progressivo, mutevole accorpamento delle strutture territoriali che, sia pure su basecollaborativa e indipendente da imposizioni da parte del governo centrale, non po-trebbe non innescare un processo di riposizionamento delle singole Regioni in fun-zione di innovative dimensioni geopolitiche.Infatti, ben al di là del problema che investe l’entità dell’ammontare del gettito fiscale daridistribuire tra centro e periferia, la questione più complessa da risolvere concerne lacontraddizione principale dell’economia regionale italiana: mentre la spesa statale da de-volvere alle Regioni è indirizzata soprattutto al Sud, le risorse sono prevalentemente allo-cate nel Centro-Nord. Come conseguenza di un simile squilibrio, la devoluzione delle ri-sorse alle Regioni, per la diversa distribuzione territoriale delle entrate e delle spese dadecentrare, comporterebbe il rischio che alcune Regioni, prevalentemente del Mezzo-giorno, non riceverebbero risorse sufficienti per finanziare la spesa devoluta, mentre nonsarebbe affatto provato che un sistema di perequazione verticale sarebbe in grado di co-prire interamente il gap che si determinerebbe. Se ne deve concludere, quindi, che qua-lunque ricetta di federalismo dovrebbe porsi l’obiettivo di riavvicinare, nel medio pe-riodo, i livelli di spesa a quelli delle entrate regionali; garantire a tutte le Regioni le ri-sorse necessarie per i servizi fondamentali; introdurre, infine, sistemi di controllo finaliz-zati a fare emergere, per premiarle, le capacità gestionali virtuose sul piano territoriale.

Scenari italiani 2010 147

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Indice delle figure

IL RAPPORTO

Fig. 1 Le regioni augustee dell’Italia settentrionale 14

Fig. 2 I sistemi funzionali macroregionali in Italia e le loro connessioni infrastrutturali 18

Fig. 3 I brevetti in Europa 35

Fig. 4 Le variazioni demografiche nelle regioni europee, 2003-2007 36

Fig. 5 Densità demografica (2009) a) e variazioni nella popolazione (1991-2009) b)

dei comuni dell’Italia settentrionale 37

Fig. 6 La gerarchia urbana europea 40

Fig. 7 I programmi dell’Obiettivo 3A riguardanti l’Italia nel periodo 2007-2013 43

Fig. 8 Partecipazione delle regioni settentrionali a programmi di cooperazione interregionale dell’UE (fondi strutturali 2007-2013) 45

Fig. 9 Intensità progettuale e intensità relazionale delle regioni settentrionali

dal 2007 al 2009 46

Fig. 10 Intensità relazionale delle regioni del Nord nello spazio europeo 48

Fig. 11 L’Euroregione Alpi-Mediterraneo 54

Fig. 12 L’Euroregione tirolese 56

Fig. 13 Le regioni della Comunità di lavoro Alpe-Adria 57

Fig. 14 L’Euroregione Euradria 58

Fig. 15 L’Euroregione Adriatica 59

Fig. 16 Entrate fiscali delle amministrazioni periferiche (% sul totale delle AA.PP.) 69

Fig. 17 Entrate degli enti locali in Italia: % di entrate dovute alle imposte

(dirette e indirette) rispetto ai trasferimenti 70

Fig. 18 Concentrazione regionale di attività, NUTS 2, 2006 80

Fig. 19 Capacità innovativa delle regioni europee 84

Fig. 20 Corridoi come tunnel? 91

Fig. 21 Geografia delle multiutilities (nostra elaborazione) 91

Fig. 22 Il «non» sistema aeroportuale 98

Fig. 23 Langhe, Monferrato e Roero: l’area di candidatura 114

QUADRANTE

Fig. 1 Paesi a cui appartengono le prime 500 imprese quotate nelle borse mondiali, 2009 140

Fig. 2 Distribuzione del consenso elettorale a scala provinciale nelle elezioni europee del 2009 146

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«Scenari italiani»: i Rapporti annuali della Società Geografica Italiana

2003 L’altrove tra noi. Dati, analisi e valutazioni sul fenomeno migratorio in Italia

2004 Trasporti in Italia: oggi e domani. Dati, analisi e valutazioni su qualità e quantità dell’attrezzatura del territorio italiano [esaurito]

2005 L’Italia nel Mediterraneo. Gli spazi della collaborazione e dello sviluppo [esaurito]

2006 Europa. Un territorio per l’Unione

2007 Turismo e territorio. L’Italia in competizione

2008 L’Italia delle città. Tra malessere e trasfigurazione

2009 I paesaggi italiani. Fra nostalgia e trasformazione

2010 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

Il Rapporto 2011 riguarderà La questione meridionale

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finito di stampare nel 2010 - brigati glauco - genova-pontedecimo

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