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Rassegna bibliografica
Le speranze degli italianidi Mario G. Rossi
Sugli anni della ricostruzione si è ormai scritto molto: anzi, mentre permane e si accentua il grave ritardo della storiografia sull’Italia repubblicana, il periodo della Resistenza, della Costituente e della prima ripresa economica è stato oggetto di accurate monografie e di un vivace dibattito critico, anche e soprattutto per merito delle ricerche promosse dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione. Il volume di Ennio Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1953), Milano, Mondadori, 1986, pp. 317, lire 25.000, non vuole essere un ulteriore contributo a carattere monografico da iscrivere in questo filone di studi, ma si propone l’obiettivo assai più ambizioso di una riconsiderazione complessiva di quello che l’autore definisce il “più lungo decennio della vita nazionale recente” (p. 9). Proprio i lavori compiuti precedentemente su aspetti particolari della storia italiana nella seconda guerra mondiale e nel dopoguerra gli “hanno suscitato — scrive — l’urgenza di possedere un quadro a un tempo più semplice e più comprensivo; l’urgenza di compiere un passo indietro, sul piano della tradizione monografica tipica della ricerca storica, nella speranza di compiere un passo avanti verso la comprensione delle basi preliminari dei fenomeni di massa” (p. 9).
Quello che si presenta in queste pagine, pertanto, è un tentativo di interpretazione generale condotto non in tutte le direzioni, perché sono dichiaratamente accantonati i
fattori strutturali (l’economia, i conflitti sociali), ma incentrato sull’analisi di un processo onnicomprensivo, e insieme sfuggente, come “l’evolvere di una psicologia collettiva durante un periodo di guerra, e la trasformazione sociale che scaturisce da questa evoluzione” (p. 11). Quindi anche con un obiettivo metodologico, non meno impegnativo, che è quello di mettere a fuoco una “percezione globale” dei “movimenti profondi della società” dal punto di osservazione della psicologia sociale e dell’evoluzione della mentalità collettiva, secondo talune proposte della più aggiornata storiografia francese, esplicitamente richiamate dall’autore (p. 11).
Un’analisi di questo tipo pone naturalmente il problema della disponibilità, attendibilità, verifica delle fonti, anche in relazione alle dimensioni geografiche della ricerca, oltre che al suo diverso spessore cronologico rispetto ai percorsi già collaudati: tra il villaggio occitanico del Trecento e una grande società di massa dell’epoca contemporanea le distanze sono evidentemente abissali e la storia delle mentalità, e dell’“inconscio collettivo”, per dirla con Philippe Ariès, si è rivolta soprattutto, e non a caso, a un passato lontano, alle “mentalità non attuali” . Di Nolfo è consapevole della difficoltà, ma, anziché delimitare il campo di indagine, preferisce circoscrivere la scelta delle fonti: accantonate quelle più comuni della storia politica ed economico-sociale, pone l’accento
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specialmente sulle “fonti non tradizionali: la narrativa, la poesia, il cinema” (p. 12), di cui mostra di comprendere i rischi, ma che finisce per considerare le più ricche e più fertili di indicazioni, anche ai fini del quadro generale e non solo delle singole angolature prospettiche.
La scelta solleva non poche perplessità: è possibile che fonti di questo genere possano rappresentare, in maniera significativa, oltre al pensiero delle élites intellettuali, e magari di settori importanti dei ceti sociali e politici dirigenti, anche gli orientamenti diffusi di quelle masse popolari, che sentono, pensano e agiscono, ma notoriamente non scrivono? La stampa, ci sembra, quantomeno quella del periodo postresistenziale, ma in parte anche quella del dopo 18 aprile, avrebbe potuto fornire spunti molto più consistenti, dai moduli culturali delle terze pagine alle cronache, agli stessi stereotipi dei commenti politici, per ricostruire atteggiamenti, modi di pensare, scelte degli italiani di fronte all’in- calzare degli eventi e al mutare delle prospettive interne e internazionali.
In effetti, l’autore riesce a delineare con efficacia alcuni passaggi centrali della crisi di ideali, di obiettivi, di punti di riferimento della borghesia italiana tra il crollo del fascismo, il dissolversi dell’istituzione monarchica e di quella militare e l’esplodere della guerra civile e oltre, fino allo scontro sociale e politico del dopoguerra, sfociato nella stabilizzazione moderata solo dopo un’altalena di vicende di grande incertezza. Lo fa ricorrendo largamente a riferimenti e citazioni presi dalla letteratura del periodo, spesso calzanti e suggestivi, tali da sintetizzare in pochi tratti la successione degli avvenimenti e degli stati d’animo, e il formarsi di un clima generale, che una documentazione di tipo tradizionale avrebbe diluito in descrizioni analitiche assai meno incisive: esemplare, fra gli altri, l’efficacia allegorica del racconto di Dino Buzzati, Paura alla Scala, per rendere “l’atmosfera impalpabile che domi
nava certa borghesia milanese” (p. 261) alla cruciale scadenza del 1948. Tra i testi di Curzio Malaparte e di Corrado Alvaro e il linguaggio anonimo delle relazioni prefettizie e dei rapporti dei carabinieri naturalmente ci corre.
Ma quale contesto di scelte politiche, di conflitti sociali, di processi economici determina, o almeno influenza, questo flusso di mutamenti graduali e accelerati, marginali e profondi della psicologia collettiva degli italiani? I punti di riferimento più precisi e convincenti Di Nolfo li fornisce nelle rapide annotazioni sul contesto internazionale, in cui inquadra aspetti centrali della Resistenza, dei rapporti tra l’Italia e gli Alleati, della ripresa democratica postbellica. L’inutile crudeltà dei bombardamenti sulle città italiane, nell’estate del 1943; il miope tentativo alleato di escludere i sovietici dalla partecipazione al controllo politico della penisola, creando quel “precedente italiano” così gravido di conseguenze sia interne (con la successiva contromossa sovietica del riconoscimento del governo Badoglio) sia internazionali (“quasi una prima prova della futura ‘guerra fredda’” : p. 87); lo sfondo militare del proclama Alexander, visto al di là della particolare angolatura della guerra partigia- na: sono alcune delle questioni tracciate con mano sicura dall’autore, frutto della sua dimestichezza con le fonti relative e di lunghi studi precedenti sui problemi della collocazione italiana nell’ambito dei rapporti internazionali fra guerra e dopoguerra.
Restano completamente fuori dal quadro il processo di ricostruzione e di ristrutturazione dell’economia, la riorganizzazione dei ceti padronali e la loro accentuata pressione sul governo e sulle forze moderate, lo scontro sulle linee di politica economica (dal cambio della moneta al controllo degli investimenti e degli aiuti americani), le dure lotte sindacali nell’industria e nell’agricoltura, che accompagnano lo svolgersi delle vicende politiche e sottolineano la grande mobilita
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zione delle masse e la loro volontà di partecipare da protagoniste, e non più come soggetti passivi, alla vita del paese. (Ma non è anche questa una spia importante dei mutamenti della mentalità collettiva: l’erompere di antiche speranze di riscatto delle classi subalterne e, per contro, l’aggregarsi delle paure conservatrici dei ceti privilegiati e di quei settori sociali, non direttamente coinvolti nella spinta al cambiamento, ma sensibili all’influenza degli apparati, dei grandi mezzi di informazione, del tessuto associativo confessionale?).
Non si vuol dire con questo che l’autore avrebbe dovuto affrontare tali tematiche con una documentazione diretta e originale, che avrebbe di fatto spostato l’asse centrale del lavoro rispetto all’assunto: sorprende però che tutto ciò non trovi posto neppure sullo sfondo del disegno tracciato e che risulti assente anche una parte sostanziale della più recente bibliografia sull’argomento. Cito, per tutti, il grosso lavoro di Mariuccia Salvati, Stato e industria nella ricostruzione (Milano, Feltrinelli, 1982), e il volume di vari autori, Gli anni della Costituente (Milano, Feltrinelli, 1983): in quest’ultimo, fra l’altro, il saggio di Massimo Legnani, “L ’utopia grande-borghese”. L ’associazionismo padronale tra ricostruzione e repubblica, fornisce un contributo di rilievo anche dal punto di vista dell’approfondimento della mentalità dei ceti padronali.
Finisce così per balzare in primo piano proprio il settore più événementiel, quello dove più lentamente si riflette l’evoluzione della mentalità collettiva e dove più diretta- mente si misura l’influenza degli avvenimenti, degli interessi, delle scelte operative: ossia il quadro politico. Infatti, su un asse sostanzialmente politico poggia il contenuto di gran parte del volume, ma è una politica distaccata dalla realtà dello scontro di classe, come analizzata in provetta, attraverso le lenti di meccanismi psicologici, che dovrebbero riassumere il sentire comune degli ita
liani di fronte alle trasformazioni in atto nel decennio e finiscono per esprimere gli atteggiamenti di strati non esigui, ma comunque concentrati nei gradini più alti della piramide sociale.
Protagoniste, in negativo, sono le forze di sinistra, accomunate nella caduta dei miti, nel logoramento degli entusiasmi, nel fallimento delle speranze. Il giudizio è severo, e non risparmia socialisti e azionisti, anche se ben più ricorrente e insistita è la critica nei confronti del Pei. Dalla polemica politica del tempo, filtrata nella storiografia successiva, deriva un vasto campionario di accuse al partito di Togliatti, che qui viene riproposto anche sotto il profilo delle impressioni che l’ideologia e la prassi dei comunisti scolpivano nell’attenzione, e più ancora nell’inconscio, dell’opinione pubblica contemporanea. Si va dal Pei “campione del trasformismo” con la svolta di Salerno (p. 78) alla “spietatezza staliniana” del “pietà l’è morta” di Giorgio Amendola, l’indomani di piazzale Loreto, che “era la negazione degli ideali della Resistenza, poiché la Resistenza aveva scritto sulla sua bandiera la parola speranza e non la parola vendetta” (pp. 128- 129); dai vincoli di fedeltà e di subordinazione (anche finanziaria) all’Urss alla politica del doppio binario, al mantenimento di un potenziale insurrezionale, vero o presunto, ma sufficiente a giustificare le paure “istintuali” degli anticomunisti (p. 168).
A queste si potrebbero naturalmente opporre considerazioni di tutt’altro segno, tratte dal senso comune dell’opinione pubblica di sinistra come dalla riflessione storiografica: ad esempio, sulla “doppiezza” , fenomeno che, come scrive Ernesto Ragionieri {La storia politica e sociale, in Storia d ’Italia, vol. IV, Dall’Unità a oggi, t. 3, Torino, Einaudi, 1976, p. 2415), “in varia misura e in forme diverse, investe in questo periodo tutti i partiti politici italiani” , e certo investe largamente una Democrazia cristiana che oscilla fra monarchia e repubblica, Stato
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laico e ossequio confessionale, difesa della legalità e copertura dei mandanti di Portella della Ginestra. Oppure, per quanto riguarda l’autonomia nei rapporti internazionali, sulla corposa realtà del “partito americano”, che da Sforza e Tarchiani, Saragat e Ivan Matteo Lombardo si spinge ben dentro la De: e non si comprende come Di Nolfo possa affermare che, quando già la tensione fra Est e Ovest si era fatta acuta, a parte i legami del Pei con l’Unione sovietica, “gli altri partiti erano neutrali rispetto allo scontro” (P. 195).
Ma il punto è che dietro attese e timori, orientamenti e impressioni vi sono supporti reali che danno concretezza a determinati stati d’animo, anziché ad altri, e consentono di tradurre in pratica talune aspettative e di confinarne altre nella dimensione ipotetica del futuribile. E allora torna ad imporsi la necessità di fare i conti col potenziale di convincimento, di pressione, di coercizione che è rappresentato dal controllo degli apparati di informazione (ecco l’utilità di un’analisi approfondita della stampa quotidiana e periodica); dalla manovra degli aiuti economici e dal suo impatto materiale e propagandistico (si vedano i dati sulla diffusione di mostre, opuscoli, documentari, cortometraggi, prodotti dall’Erp, che riporta David W. Ell- wood, La propaganda del Piano Marshall in Italia, in “Passato e presente” , n. 9, settembre-dicembre 1985, pp. 153-171); dall’intervento capillare, anche in termini di orientamento e di condizionamento psicologico, della rete associativa e caritativa cattolica (sarebbe illuminante il confronto tra una realtà collaudata da decenni e forte della condizione di privilegio goduta nei venti anni del regime e il tessuto sindacale, solidaristico, ricreativo, ricostituito faticosamente dalle sinistre nel fuoco della lotta antifascista e dello scontro sociale successivo).
Il limite principale dei partiti di sinistra consiste tuttavia, per Di Nolfo, nel loro massimalismo e nella mancanza di un’ade
guata progettualità riformatrice, in grado di rispondere alle necessità generali del momento e soprattutto di affrontare concretamente l’emergenza della situazione economica. Ora, se con questo si vuole addebitare alle sinistre la mancata acquisizione di “una cultura cattaneana” (p. 194) e, ai comunisti in particolare, la carenza di tecnici ed economisti all’altezza dei compiti posti dalla ricostruzione (p. 164), la critica appare per lo meno unilaterale, dal momento che prescinde dalla dura esperienza del regime e dalla considerazione che misurarsi con i canoni del pensiero classico e keynesiano nelle galere fasciste o in montagna, fra i partigiani, era ben più difficile che negli uffici studi delle banche e sulle cattedre universitarie; e comunque mentalità e stati d’animo non c’entrano, ma solo il fatto che i ceti accademici e professionali, per estrazione sociale e per formazione, erano schierati dalla parte opposta a quella del movimento operaio. Se invece si intende l’impegno per “provvedimenti sociali contraddittori rispetto a certe dure esigenze imposte dal risanamento economico” (p. 136) e il ricorso agli scioperi e — horrihile dieta! — alla lotta di classe (p. 251), allora le speranze e le paure c’entrano, eccome, ma sono solo quelle della borghesia interessata a trovare il sostegno politico necessario a far pagare alle masse popolari i costi della ricostruzione. E si possono attribuire agli “italiani” tout court soltanto se si tralasciano i termini reali del conflitto sociale in atto, le aspettative delle grandi masse e la stessa composizione della società nazionale, basata allora soprattutto su milioni di contadini, di operai e di disoccupati, ben più che sul “ruolo dominante” della piccola borghesia e sull’avvio di un processo di terziarizzazione di vasta portata (p. 180).
Del resto, l’assunzione del punto di vista dei ceti dirigenti nel loro insieme spiega anche il giudizio tutto positivo che Di Nolfo dà della Democrazia cristiana e della politica di De Gasperi. Saltando completamente il no
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do delle scelte economico-sociali imposte per la ricostruzione del paese e quello della loro convergenza con gli interessi dei gruppi capitalistici dominanti — anzi, liquidando le interpretazioni che ipotizzano un “fronte capitalistico” centrato sulla De come “dialettica- mente schematizzate” e buone “per dare una rappresentazione paradossale del processo politico” (p. 234) — l’autore si schiera con la più recente storiografia cattolica (Agostino Giovagnoli, Pietro Scoppola) nel ricondurre l’affermazione della De nell’Italia postfascista al nuovo prestigio ideale e politico conquistato dalla Chiesa nella socità civile e al processo di modernizzazione compiuto dalla classe dirigente cattolica. Quest’ulti- ma, dunque, “lungo il binario della risco
perta della spiritualità”, negli anni trenta (p. 203), matura una moderna visione dello Stato e dell’economia in chiave di produttivi- smo e di progresso, che ne legittima l’ascesa alla guida del paese: De Gasperi, lungi dal farsi condizionare dal “quarto partito” (quello del potere economico), riesce ad inserirlo nel suo sistema di governo e a sottrarlo definitivamente alle tentazioni autoritarie (p. 243).
Così, lasciata sullo sfondo la psicologia collettiva, affiora il modello crociano dell’analisi etico-politica, attenta soprattutto all’evoluzione delle idee (e delle classi) dominanti. E le speranze degli italiani finiscono nell’area di governo.
Mario G. Rossi
Fascismo, antifascismo, Repubblicadi Massimo Legnani
La pubblicazione di questa raccolta di saggi su Fascismo e antifascismo negli anni della Repubblica, (“Problemi del socialismo” , quaderno 7, Milano, Angeli, 1986, pp. 203, lire 18.000) ha anzitutto il merito, per nulla marginale, di richiamare l’attenzione sul fatto che, a dispetto di un flusso pubblicistico pressoché ininterrotto, il tema non abbia ancora formato oggetto di ricostruzioni critiche complessive. Circostanza singolare solo in apparenza, come anche questi contributi attestano: il “paradigma antifascista” è stato infatti per lunghi tratti così presente e pervasivo — motivo di riflessione storica ed arma politico-culturale quotidiana — da rendere difficile quella operazione di estrapolazione che rappresenta pur sempre la precondizione ed il rischio di ogni programma di ricerca. Da ciò una ‘costrizione’ che si
riverbera direttamente sulla struttura del fascicolo, ovvero la necessità di aggredire l’argomento su fronti diversi, dalla traduzione del paradigma in sede politico-istituzionale (Antonio Baldassarre, La costruzione del paradigma antifascista e la Costituzione repubblicana) al dibattito che ha fatto come da controcanto a passaggi nevralgici della storia repubblicana tra gli anni cinquanta e sessanta (Marcello Flores, L ’antifascismo all’opposizione-, Guido Crainz, La “legittimazione” della Resistenza. Dalla crisi del centrismo alla vigilia del ’68\ Luigi Canapini, Antifascismo tricolore e antifascismo di classe), dal processo di formazione di un senso comune storiografico che nell’ultimo decennio avrebbe prodotto una “rivalutazione strisciante del fascismo” (Nicola Gallera- no, Critica e crisi del paradigma antifasci
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sta) a indagini settoriali, nel contesto dell’ultimo mezzo secolo, su ruoli intellettuali e culture di massa (Mario Isnenghi, Al teatro dell’Italia nuova. Fascismo e cultura di massa; Franco Petroni, L ’intellettuale nella narrativa della Resistenza; Mino Argentieri, L ’antifascismo nel cinema del secondo dopoguerra). Una molteplicità di approcci che non esaurisce i percorsi possibili (e la stessa presentazione lamenta in particolare la mancata presenza di un contributo sul “tema della cosiddetta modernizzazione avviata, in peculiari forme autoritarie, nell’Italia fra le due guerre”) e sulle cui implicazioni torneremo più avanti, dopo aver dato conto dell’architettura del volume, delle ragioni che hanno spinto oggi alla sua preparazione e pubblicazione.
Sotto quest’ultimo profilo, non v’è dubbio che i saggi portanti siano quelli di Baldassarre e Gallerano, in quanto entrambi ipotizzano agli inizi degli anni ottanta una netta cesura e la pongono alla base dell’intera raccolta. Baldassarre fa scaturire l’esaurimento del paradigma antifascista dalla ormai consumata integrazione di tutte le forze politiche nel sistema costituzionale. Essa renderebbe superato il riferimento obbligante alla matrice antifascista, riferimento necessario sino agli anni settanta per colmare la distanza tra partiti che “naturalmente” si identificavano nelle istituzioni dello stato rappresentativo e partiti (soprattutto il comunista) le cui posizioni avrebbero invece lasciato aperto un varco tra la prassi parlamentare perseguita nei fatti e la programmatica rivendicazione di obiettivi finali antisistema. Gallerano postula invece, come principio d’eclisse del paradigma antifascista, l’avvio, alla metà degli anni settanta, di una “riabilitazione” del fascismo, che dal campo della ricerca storica — dove l’innesco sarebbe stato dato dal l’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice — si sarebbe dilatato trasferendosi ai mass media, ai cui messaggi e stereotipi il saggio è principalmente dedica
to. Nell’un caso, dunque, a livello di sistema politico, il paradigma si svuota in quanto la stabilizzazione istituzionale coincide con un grado di radicamento dell’assetto democratico-parlamentare che rende ormai superfluo il richiamo a quella fonte di legittimazione; nell’altro, a livello di cultura e divulgazione storica, l’esaurimento del paradigma è piuttosto una crisi in larga misura dettata dall’abbandono dei precedenti giudizi sull’esperienza storica del fascismo e dal subentrare di valutazioni che riconciliano le vicende tra le due guerre con i successivi cammini della storia nazionale. Si potrebbe osservare, per inciso, che l’acceso dibattito sviluppatosi a cavallo tra gli anni sessanta e settanta circa il nesso tra continuità e rottura nella transizione del fascismo alla Repubbica (dibattito che vide gran parte degli storici moderati reagire bruscamente ai supposti eccessi delle tesi più “continuiste”) sembra essere entrato in una fase in cui quello stesso “continuismo”, naturalmente rovesciato di segno, viene sostenuto vigorosamente proprio dalla storiografia moderata. Le perspicue osservazioni di Gallerano sugli usi disinvolti, tra storiografia e comunicazioni di massa, della categoria della modernizzazione, rendano perfettamente ragione dello scarso spessore culturale e, all’opposto, della pregnante dimensione politica dell’operazione. Non si tratta, beninteso, di limitarsi a sottolineare l’ironia dell’episodio, ma di indagarne le rifrazioni e le connessioni con una stagione intellettuale largamente all’insegna del di- sempegno.
Il punto centrale — per tornare alla frattura segnalata eqtro orizzonti diversi da Baldassarre e Gallerano — è però un altro e sta nelle contrastanti risultanze dei due cammini, nella contrapposizione, a proposito delle sorti del “paradigma antifascista”, dei concetti di “esaurimento” e “crisi” . Quali sono i punti di intersezione tra evoluzione del quadro politico-istituzionale, elaborazione storiografica e culture diffuse? Oppure i ri
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spettivi campi sono governati da logiche diverse, contrassegnate da un forte grado di reciproca impermeabilità? E che cosa significa questo in termini di rapporti tra politica e cultura? L’interrogativo resta aperto, ma spunti non irrilevanti di discussione vengono da alcuni saggi compresi nel fascicolo, in particolare da quelli di Crainz (che ricucendo pazientemente e intelligentemente le diverse sedi ed occasioni mostra i limiti della legittimazione conseguita dall’antifascismo nel corso degli anni sessanta) e Ganapini (che istituisce un nesso non fittizio tra le diverse Resistenze “immaginate” attraverso le lotte del sessantotto e la natura storicamente composita dell’opposizione antifascista e della lotta armata). L’impressione prevalente è che la presenza di oscillazioni anche brusche nei giudizi non sia tanto debitrice delle strumentalizzazioni politiche (categoria interpretativa debole, produttrice di banalizzazioni), quanto di coabitazioni che accompagnano l’intero corso della storia repubblicana e che sono altrettante spie di tensioni permanenti, ora aperte ora latenti. In questo senso i saggi di Isnenghi, Petroni e Argentieri offrono spaccati di storia delle culture collettive che integrano, ma anche invitano a ri
discutere più di un aspetto della storia politica. In altri termini, se l’antifascismo appare come un dato acquisito (e sia pure solo parzialmente in sede di ricostruzione storiografica) alla storia dell’Italia contemporanea, come modello di lettura del periodo repubblicano esso non rappresenta una discriminante che possa essere isolata da altri “paradigmi” , con i quali si ricongiunge scontrandosi o armonizzandosi (si vedano i riferimenti all’anticomunismo nel contributo di Flores). Diventa allora indispensabile entrare direttamente nell’area di culture ed ideologie che almeno per un lungo tratto sono state egemoni nell’Italia repubblicana e che sommariamente si possono individuare nell’“americanismo” e nel cattolicesimo. Una prosecuzione nel discorso tanto opportunamente avviato da questi saggi dovrebbe maggiormente valorizzare tali riferimenti, inserendo la parabola del “paradigma antifascista” in un quadro di più complesse interazioni; così come dovrebbe maggiormente sviluppare (sulla scorta soprattutto dei saggi di Crainz, Gallerano e Argentieri) l’indagine sul ruolo svolto dalle comunicazioni di massa.
Massimo Legnani
Camere del lavoro e movimento operaiodi Domenico Scacchi
Le ricerche sulle origini e sullo sviluppo del movimento operaio italiano hanno avuto, negli ultimi anni, un rinnovato impulso. Ciò ha risposto, evidentemente, a varie esigenze: da quelle di colmare le molte lacune su periodi e aspetti particolari, a quelle di ripensare una storia del movimento operaio nella quale il soggetto fosse meglio identificato nel contesto specifico e insieme più generale
del suo svolgimento. Una forte spinta allo sviluppo dell’indagine in questo settore è certamente venuta dall’interno del movimento stesso, dalle organizzazioni sindacali, particolarmene della Cgil. Molteplici iniziative: mostre, convegni, seminari di studi, attività editoriale, mosse anche da motivazioni celebrative (in genere le ricorrenze degli anniversari di fondazione delle Camere del la
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voro) ma che hanno finito con l’assumere in più occasioni il carattere di riflessioni più scientificamente fondate. Si sono così avuti contributi sia sul piano dell’approfondimento e della conoscenza specifica sia su quello storiografico più generale.
Ultimi, in ordine di tempo, sono apparsi due volumi che appartengono al filone sopra indicato: Barbadoro, Chiarini, Cucchini, Dabrazzi, Magri, Porta, Rebecchi, Sciola, Profondo Nord. La Camera del lavoro di Brescia. 1892-1982, a cura di Gianfranco Petrillo, Ediesse, Roma, 1985, pp. XVII- 374, lire 22.000; Angelo Bendotti, Giuliana Bertacchi, Liberi e uguali. La Camera del lavoro di Bergamo dalle origini alla prima guerra mondiale, Associazione editoriale il Filo di Arianna, Bergamo 1985, pp. 203, lire 10.000. Ma va detto che i due lavori, oltre che per l’arco cronologico, hanno un carattere diverso innanzi tutto nei motivi che li hanno originati: il volume su Brescia raccoglie gli atti di un convegno, quello su Bergamo è stato invece “commissionato” dalla locale Camera del lavoro a due studiosi del movimento operaio e delle organizzazioni di sinistra della città.
Bergamo e Brescia, due provincie dalle molte caratteristiche comuni fra cui, la principale forse, quella di rappresentare uno dei punti di maggior forza dell’influenza cattolica nella classe operaia. Eppure, proprio rispetto alle prime vicende del movimento operaio, le ricerche pubblicate evidenziano significative diversità. Ciò innanzi tutto sui tempi di maturazione dell’associazionismo, sicuramente più “precoce” a Brescia. Ma quali furono le radici di questa differenza? Maria Dabrazzi {Le origini delle organizzazioni nel bresciano) descrive un efficace, sia pur sintetico, quadro della società bresciana post-unitaria. L’articolazione del mondo contadino e di quello industriale, delle condizioni di vita e di lavoro, offrono una prima griglia strutturale di comprensione di un fenomeno associativo che partendo dalle
prime forme del mutuo soccorso approda alle organizzazioni di resistenza e alla fondazione della Camera del lavoro (1892). Un organismo, quello camerale, che pur risentendo di alcuni elementi di ambiguità tipici delle prime formazioni nate in quel periodo (pubblico servizio di collocamento, di mediazione tra capitale e lavoro) assume ben presto caratteristiche più specificamente sindacali nel vivo delle lotte sociali, ma anche politiche che investono l’area bresciana in quel tempo. A Brescia il mondo cattolico esercitava già una forte presa nelle classi popolari ed era sicuramente impegnato nel contrastare la penetrazione democratica e socialista negli strati subalterni della popolazione. Tuttavia il radicamente delle ipotesi liberal-progressiste zanardelliane giocò un ruolo obiettivamente importante nel processo di crescita del movimento operaio organizzato e dello stesso sviluppo del socialismo Ne è esempio evidente il favore con il quale la Giunta comunale di Brescia accoglieva la richiesta di contributi avanzata per la fondazione della Camera del lavoro, o, al contrario, i tentativi dei cattolici di costituire associazioni alternative con l’intento di svuotare l’istituto camerale, sino a ridurre considerevolmente, con la Giunta municipale cleri- co-moderata, il contributo richiesto dalla Camera del lavoro ricostituitasi dopo lo scioglimento decretato dal Prefetto nel 1898.
A Bergamo le cose andarono diversamente. Qui, secondo quanto ricostruiscono Angelo Bendotti e Giuliana Bertacchi, gli operai stentano a definire proprie ipotesi organizzative e la stessa Camera del lavoro, alla cui costituzione pure si attendeva da anni, vide la luce solo nel 1901. I motivi di questa situazione debbono evidentemente essere ricondotti ad alcune particolarità della struttura socio-economica bergamasca, un problema, questo, che rimane però un po’ troppo sullo sfondo nell’analisi dei due autori. È un fatto che i primi tentativi associativi avvengono con un certo ritardo (1880) e da parte di ca
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tegorie più sperimentate e con una lunga storia organizzativa maturata nel resto della penisola (nel caso specifico i tipografi). Ma sicuramente per la società di Bergamo e della sua provincia, questo tipo di realtà operaia non poteva esercitare un grosso peso, almeno sul piano quantitativo. Ma un altro dato che emerge, se procediamo comparativamente con l’esperienza bresciana dello stesso periodo, riguarda la maggior acutezza dello scontro con il mondo cattolico ed un peso decisamente più modesto del campo democratico. E tuttavia si trattava di un campo di un certo interesse, si pensi alla presenza di Arcangelo Ghisleri (1879), o a quando, all’inizio degli anni novanta, si costituiscono associazioni democratiche molto avanzate che già presentavano alcune venature di stampo socialista. Una particolarità, questa, resa evidente dalla nascita, alla fine del 1892, di un’organizzazione più caratterizzata, la Lega operaia socialista, sorta anche grazie al passaggio nell’area socialista di non pochi democratico-radicali. Proprio nell’analisi del ruolo della Lega sta, forse, il miglior risultato della ricerca condotta dai due autori. La loro ricostruzione consente un giudizio sicuramente più fondato sulle peculiarità del primo grande sciopero delle operaie (1893) che “immette per la prima volta il bergamasco nelle grandi ondate della protesta operaia” (p. 35). Le vicende così ricostruite dimostrano non solo una penetrazione socialista già iniziata tra le operaie delle fabbriche tessili, ma anche un’iniziativa precisa dalla Lega operaia e non il frutto di una spontaneità.
Ma veniamo ad una rapida analisi degli altri saggi pubblicati in Profondo Nord. Qui, come s’è detto, sono raccolti i contributi presentati al convegno di studi sulla Camera del lavoro di Brescia (25-26 novembre 1982) e pubblicati con un certo ritardo anche a causa dell’improvvisa scomparsa di Maria Dabrazzi e di Idomeneo Bar- badoro.
Il complesso delle ricerche presentate, pur essendo evidente la lacuna relativa al periodo fascista, riesce a fornire un quadro sufficientemente completo della storia degli operai bresciani.
Roberto Chiarini nel suo saggio (Riflessioni sulla storia del movimento operaio a Brescia), ricordando il ritardo con il quale si sono sviluppati gli studi sulla realtà operaia bresciana, nota come anche le ricerche prodotte nell’ultimo decennio si siano spesso mosse con alcuni limiti: da una parte, ma ciò anche per la maggiore accessibilità delle fonti, si è puntato l’obiettivo sui gruppi dirigenti, dall’altra si è avuto un approccio quasi teleologico, teso ad individuare più un fine auspicabile che la reale portata degli avvenimenti. Manca in quegli studi “il lavoratore in concreto, il suo cosmo, i suoi interessi, la sua mentalità, le sue condizioni di vita, le sue mansioni specifiche” (p. 9).
Certo il volume, proprio perché a più voci, non poteva non risentire anche di alcune diversità d’impostazione, diversità che finiscono però con l’arricchire, se non altro sul piano metodologico, il risultato finale, Gianfranco Porta in La riorganizzazione della Camera del lavoro nel primo dopoguerra, affronta l’analisi “dall’interno” ricostruendo il processo sulla base della stampa operaia coeva. Il lavoro propone di correggere la tendenza a privilegiare il ruolo delle categorie industriali, prospettando l’allargamento dell’indagine “ai lavoratori delle campagne, dei comparti produttivi residuali o di nuova formazione, alla massa fluttuante dei disoccupati, dei marginali, dei poveri” (p. 26). Gli anni del secondo dopoguerra sono studiati rispettivamente da Gianni Sciola {Ricostruzione, lotta di classe e ristrutturazione industriale: dalla liberazione agli anni cinquanta), da Maurizio Magri {La terra di nessuno: sindacato e sviluppo nell’agricoltura bresciana degli anni cinquanta), da Roberto Cucchini {Nel regno del tondino: operai e sindacato a Nave. 1960-1972). Pur ri
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ferendosi a problemi specifici, le tre ricerche sono attraversate da problematiche comuni e intersecantesi. Così, ad esempio, il problema della riconversione dell’apparato produttivo, più acuto nel Bresciano per la fine delle commesse militari, riguarda evidentemente il particolare sviluppo della siderurgia, ma anche le vicende delle campagne.
All’interno di questi problemi e con il sostegno di analisi approfondite degli apparati industriali e delle condizioni strutturali dell’agricoltura, gli autori ricostruiscono la storia dell’istituto camerale e di alcune categorie. Sciola ci riporta agli anni della scissione sindacale del 1948, al forte radicamento sociale e politico dei cattolici, alle conseguenze che ne derivano. Magri conduce una penetrante indagine sulle difficoltà incontrate nella ricostituzione delle leghe bracciantili in una situazione nella quale la composizione della forza lavoro era mutata con lo sviluppo della figura del salariato fisso e la conseguente contrazione del bracciantato. Cuc- chini, e siamo ai problemi ancora in qualche modo aperti, ricostruisce la complessità dello scontro di classe a Nave, una realtà quasi da laboratorio. Un’imprenditoria che affronta i problemi della congiuntura e del- l’ammodernamento dell’apparato produttivo comprimendo il salario, accentuando la divisione in fabbrica, intensificando lo sfruttamento, inquinando gli uomini e l’ambiente. A ciò fa da contraltare una classe operaia che mantiene con l’agricoltura un rapporto non solo culturale ma anche di integrazione del reddito. Da ciò nascono le difficoltà del sindacato a radicarsi dentro la fabbrica, difficoltà che si recuperano certamente per il forte impegno delle organizzazioni, ma anche grazie ai mutamenti prodottisi nella composizione di classe.
Ricco di spunti metodologici l’intervento di Idomeneo Barbadoro, Non conclusioni ma sollecitazioni. Sollecitazioni volte non solo ad approfondire e ad indicare nuove linee di ricerca per gli aspetti rimasti più in
ombra, ma anche a dare significati più pregnanti ai risultati già acquisiti. Così, ad esempio, quando l’autore sottolinea che la propaganda svolta da Turati o da Cabrini nella fase costitutiva della Camera del lavoro di Brescia riusciva a penetrare proprio perché si rivolgeva alle “avanguardie professionali che innestavano la coscienza sindacale sul vecchio tronco di tradizioni associative”, a lavoratori forniti di “una propria cultura, che affondava le radici nelle esperienze lavorative, nelle letture da autodidatti, nelle discussioni dei circoli democratici, spesso nel travaglio dell’emigrazione” (p. 303). Ma qual’era la vera realtà della Camera del lavoro? Barbadoro invita a rivolgersi con maggior cautela agli statuti e a concentrare invece l’attenzione sull’attività concreta di questi organismi che, almeno dagli inizi del secolo, rappresentavano un vero e proprio “autogoverno proletario” . Queste ed altre sollecitazioni, ma anche provocazioni, di Barbadoro, stimolano ad alcune schematiche riflessioni di carattere più generale. Una prioritariamente: quale significato bisogna attribuire oggi allo studio del movimento operaio? Fortunatamente la disputa, spesso tutta ideologica, per la quale la storia del movimento operaio si identificava ora con la storia dei suoi gruppi dirigenti, ora con le lotte più significative o eversive, sembra aver fatto il suo tempo. Ciò non significa accantonare i risultati, alcuni rilevanti, che pure in quella disputa si sono prodotti. Si tratta di andare oltre, di allargare i campi dell’indagine utilizzando più pienamente e con maggior convinzione anche metodologie e temi di altre discipline. Se si parte, infatti, dal nodo che rimane ancora cruciale sul come si sia formato e si sia sviluppato il movimento operaio nel XIX secolo, non possiamo sfuggire ad una serie di interrogativi cui dare risposte con ricerche più puntuali. Chi erano gli operai dell’Ottocento? Qual’era la loro provenienza sociale e in che modo queste si differenziavano nelle varie aree geo-
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grafiche e politiche? Che cosa pensavano? Come lavoravano? Come vivevano? Come lottavano? Come si organizzavano e per quali obiettivi? Ma anche: quali erano nelle varie zone del paese le condizioni economiche in cui inizia il processo di formazione del proletariato? Quali gli sviluppi delle tecnologie e le relative incidenze nei vari comparti produttivi? Quali le scelte dei ceti dominanti? Quali le connessioni con la storia politica locale e nazionale? La risposta a tutti questi quesiti può consentire un reale salto di qualità della storiografia del movimento operaio. Una storiografia che dovrà arricchirsi con un maggior coinvolgimento di aree disciplinari specialistiche quali la storia sociale, la storia della mentalità, la storia della tecnica e della scienza, la stessa storia politica. Non si può quindi non consentire con Barbadoro che, nell’intervento già ricordato, osservava come fosse ormai irrinunciabile passar da una storia del movimento operaio ancora troppo événementielle ad una storia di lunga durata del fenomeno, rivolgendo grande attenzione non solo ai mutamenti ma anche alle continuità delle strutture. Dove, con il termine di strutture si debbono chiaramente intendere “non solo quelle oggettive, relative allo sviluppo delle forze produttive, della tecnologia, dell’organizzazione del lavoro, ma anche quelle soggettive della mentalità collettiva, delle consuetudini lavorative ed esistenziali” (p. 302).
Con quest’ottica, di misurare anche aspetti particolari all’interno di un quadro di riferimento più generale, va osservato l’altro fenomeno, anch’esso “esploso” negli ultimi anni e che ha fortemente interessato la storiografia del movimento operaio: la storia locale. Non si può certo riprendere in questa sede il vasto dibattito che si è sviluppato sulla storia locale, sui suoi pregi o sui suoi limiti. Certo però si può affermare che quest’approccio, supportato correttamente da una valida metodologia e non separato da coordinate di riferimento più generali (quindi depurato dalle facili generalizzazioni), può portare contributi oltre che sul piano stretta- mente conoscitivo, anche su quello interpretativo. Ciò può valere particolarmente quando l’oggetto dell’indagine riguardi il movimento operaio o, in senso più lato, le classi lavoratrici. È proprio in sede di storia locale, infatti, che possono essere recuperate lacune dovute alla parzialità e alla dispersione della documentazione esistente (si pensi ad esempio alle statistiche ottocentesche e alla loro utilizzabilità). Ripartire dal particolare, da un fenomeno che si sviluppa in un’area circoscritta, può consentire un ampliamento delle fonti possibili, non ultime le testimonianze dirette, e determinare le condizioni per una comprensione più fondata non solo dalla realtà così come essa si sviluppa a livello locale, ma anche delle interazioni con quella più generale.
Domenico Scacchi
Potere e vita quotidiana in un comune della campagna romana
di Luigi Parente
Quale molla può spingere una nota pedago- nio direttrice della scuola per assistenti so- gista impegnata in altri ambiti di ricerca — ciali fondata da Guido Calogero — ad inte- Angela Zucconi è stata infatti per un venten- ressarsi e a voler ripercorrere dall’interno la
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storia di una piccola comunità contadina della campagna romana tra la fine dell’Ottocento e i principi del Novecento? (Angela Zucconi, Autobiografia di un paese. Un piccolo comune del Lazio dall’Unità al fascismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1984, pp. 315, con ili.). Inizialmente potremmo rispondere la rilevanza del periodo cronologico esaminato, che dalla caduta del potere temporale della Chiesa vede quel microcosmo inserirsi nel più vasto Regno d’Italia e attraverso le conseguenze della “Grande Guerra” arrivare alla crisi dello Stato liberale e relativa nascita del fascismo.
Ma il motivo contingente è quanto di più scontato si possa immaginare. Si tratta cioè di sistemare date e didascalie ad una mostra di vecchie fotografie del paese, scovate in abbandonati cassetti, in un territorio che a motivo del disordinato sviluppo capitalistico di questi ultimi decenni sembrava aver dimenticato con la propria identità la stessa storia di comunità.
Ben più profonda è invece la genesi di questo lavoro, risultando il frutto di un intervento socio-culturale sul campo realizzato dalla Zucconi, mediante le strutture del “Movimento di Comunità” di olivettiana memoria, e caratterizzato da un impegno intellettuale e umano davvero singolare.
Gli interrogativi di oggi sulle “stanchezze di Clio”, uniti ad un rapporto continuato per anni con i problemi della cultura locale hanno polarizzato l’attenzione della studiosa sulla ignorata realtà della “gente che non conta”, e nell’operazione di raccolta delle informazioni e di risveglio della memoria, si è vissuta un’esperienza unica, di sincera partecipazione, al di fuori dei consueti neutrali schemi della ricerca. “Io ho lavorato — si legge infatti nella premessa — più con animo esistenziale che storiografico”.
Rendere reale il legame delle masse con le proprie origini, saldare il passato al presente, è questo il punto di partenza per l’autrice contro il livellamento dell’“amnesia politi
ca” , per riprendere un’espressione di Russell Jacoby ancora oggi attuale, e con tale scelta metodologica è stato possibile individuare episodi, protagonisti e/o semplici attori della vita politica e sociale di mezzo secolo di storia locale.
Siamo in presenza di un riuscito ed originale esempio di storia delle comunità, filone di ricerca che solo da poco la storiografia del nostro paese ha cominciato a praticare, sulle orme di quanto fatto in precedenza dall’antropologia e dalla sociologia orientate essenzialmente a scorgere i segni del sotto- sviluppo economico e i “ritardi” culturali del nostro Mezzogiorno.
Un altro elemento di novità della monografia è rappresentato dall’uso del documento fotografico, il quale superando la fase del descrittivismo “arcaico”, sempre in agguato allorché ci si avvicina ad analisi di microstoria sociale, riesce a darci, insieme alla dimensione politica e sociale comunitaria, anche gli aspetti della “cultura materiale” (luoghi e modi di lavoro e di comportamento, costumi, usi e oggetti del vivere quotidiano).
Al tempo stesso la Zucconi si rivela disincantata critica della funzione sociale della fotografia, non privilegiando la storia visiva quale lettura unica della complessa realtà esaminata, riconoscendo invece indispensabile dal punto di vista metodologico il rapporto organico tra sviluppo delle forze produttive e sua immagine.
Il comune prescelto è Anguillara Sabazia, situato sulle sponde del lago di Bracciano, da sempre zona classica di malaria e brigantaggio, fuori dei flussi commerciali della vicina via Cassia, nonché possesso delle più forti famiglie feudali romane, a partire dagli Anguillara cui seguirono a fine Quattrocento gli Orsini, poi i Doria d’Eboli, fino a quando questi ultimi, nel 1850, vendettero alcune tenute ai Torlonia, “mercanti di campagna” allora in ascesa. Si apriva così una fase nuova della vita politica della comunità laziale, caratterizzata dalle rivendicazioni
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dei diritti consuetudinari, occupazioni di terre, e comparse giudiziarie, tanto che i successivi settanta anni vedranno ripetersi questa lunga vertenza con alti e bassi delle parti antagoniste. In questa maniera gli scontri tra gli interessi dei piccoli contadini e braccianti locali, favoriti per secoli dagli usi civici sulle terre comunali, e quelli di speculatori d’assalto come i Torlonia, contraddistingueranno lo sfondo sociale degli anni a venire, così come accadde nel biennio 1903-1904, durante il quale si ebbero come nel resto d’Italia memorabili manifestazioni di lotta contadina.
La privatizzazione delle terre comunali da parte delle nuove forze borghesi in atto nella prima e maggiormente nella seconda metà dell’Ottocento comportava — è risaputo — l’annullamento di antichi diritti (semina, pascolo, legnatico), era in una parola la fine dell’“erba dei poveri” , secondo la felice metafora di Marina Caffiero, studiosa di questo nodo storico (.L ’erba dei poveri. Comunità rurale e soppressione degli usi collettivi nel Lazio (secoli XVIII-XIX), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1983), rendendo così difficile la stessa sopravvivenza alle numerose masse proletarie.
Pur rimanendo come impostazione una ricerca di carattere politico — la maggior parte dei documenti proviene infatti dall’archivio comunale di Sabazia affiancato da quello della Prefettura di Roma, cui apparteneva giurisdizionalmente la zona — l’obiettivo è stato quello di seguire i diversi aspetti della vita quotidiana collettiva, servendosi delle discussioni dell’ente locale. Non polarizzata sull’analisi delle strutture economiche, o dietro interrogativi di natura pratico-politica, cui si collega ad esempio il pionieristico lavoro di Ernesto Ragionieri sulla nascita del movimento operaio a Sesto Fiorentino (Storia di un comune socialista: Sesto Fiorentino, Roma, Rinascita, 1953), la scelta della Zucconi si rivolge essenzialmente alla struttura della società e ai rapporti delle classi,
e insieme alla controversia sui diritti civici della comunità, continuamente messi in discussione dai feudatari del tempo prima e dai liberali borghesi poi; sono i bisogni concreti di tre generazioni di cittadini ad essere al centro del saggio. Il vivere quotidiano si presenta allora attraverso le normali espressioni della società civile post-unitaria. Così ora saranno i problemi della salute pubblica ad interessare l’autrice, ora le sentenze del conciliatore o i verbali dell’autorità di polizia per fatti di sangue o per scomparsa di cittadini in una zona di forte immigrazione; o ancora le relazioni dei maestri al sindaco sulle difficoltà di un esercizio appena rispondente alle istanze della popolazione, che rimaneva emarginata dai livelli culturali ed economici che si andavano raggiungendo nel resto dell’Italia.
Un microcosmo, quello di Anguillara, dove gli interessi e gli affari di definiti gruppi di potere si scontrano e si evolvono a seconda della posta in gioco, sempre riflettente però l’andamento della politica governativa, e dove la lotta alla violenza legale deli’élite amministrativa locale ha del titanico, dati gli stretti rapporti di parentela ed amicizia tra le famiglie eminenti e i ricatti sull’impiego di manodopera per la massa di proletari.
Se complesso e difficile risulta il processo unitario-creativo del “paese legale” , in questa microrealtà appare maggiormente condizionato dalla secolare gestione pontificia, nota — si sa — per l’oltranzista chiusura verso la politica liberale. A tal proposito uno storico del mondo laziale del secondo Ottocento, come ricorda Zucconi, manifestava giudizi duri quanto fondati sulla “lue clericale” che affliggeva questa comunità lacustre. “Il clericalismo ha tentato, e vi è riuscito, pur troppo in gran parte — egli aggiungeva — d’impadronirsi della coscienza dell’anguillarino, di sostituirsi a lui in tutto ciò che è facoltà morale, lasciandogli solo le pratiche dei campi” (p. 101). Ed era tanto vera questa considerazione che tale Stefano
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Ricci, unico patriota liberale in un mondo di reazionari, finì gli ultimi suoi anni di vita in totale solitudine, e morì ossessionato da “complesso di persecuzione” papalino.
Partendo dal primo censimento nazionale (1871) per avere dati sicuri della composizione socio-professionale anguillarina, il quadro emergente è quello classico di una dinamica da area agricola, con una limitata ma coesa borghesia proprietaria e professionista, di contro a decine di contadini addetti a vario titolo ai lavori dell’Agro, nell’ambito della influenza del mercato romano. A causa dello stato malarico del territorio la popolazione agglomerata di circa 1.000 abitanti, è distribuita tra le 216 case registrate, mentre 179 individui facenti parte di quella sparsa nella campagna sono dediti alla pastorizia, altro importante settore di produzione agricola.
La specificità storica di questa realtà è la questione della terra, e bene ha fatto l’autrice a concentrare l’analisi sul tema del riconoscimento degli usi civici — vero filo rosso di questo mondo — all’accaparramento dei quali la borghesia risorgimentale impiegò tutte le sue capacità parlamentari e i suoi strumenti ideologici.
Sulla scena politica compaiono da una parte i Torlonia, e i grossi proprietari locali loro alleati, e dall’altra le masse dei contadini appoggiati dalla dirigenza comunale, non più subalterna alle scelte dei primi. Sono questi, per dirla con Antonio Gramsci, i “momenti di vita intensamente collettiva e unitaria” della comunità di Anguillara, e sono essi a rappresentare l’unico “vissuto” di quel numeroso strato dei “senza storia” . Non sono seguite soltanto le fasi alte delle giornate del 9 e 24 agosto 1903, allorquando furono occupate le terre di Valle Facciano appartenenti ai Torlonia, ma anche le difficoltà della lotta quotidiana per ristabilire la legittimità dei propri diritti, le contraddizioni e le diverse posizioni tra i partecipanti, e ancora la repressione poliziesca e il rientro infine della mobilitazione.
Con l’inizio del Novecento il quadro politico locale si popola di nuove figure sociali, già comparse da alcuni decenni, che premono sulla generazione dei liberali del Risorgimento, rivelatisi alla prova più sfruttatori dei vecchi signori ed incapaci di dare una svolta moderna ai problemi dello sviluppo economico.
Sarà il movimento socialista a incarnare i desideri di mutamento di queste masse contadine, divenendo il protagonista di questo periodo di lotte, e così degli scontri condotti contro il fronte padronale.
È ovvio che per un’indagine di questi temi, il documento ufficiale ha bisogno del massimo contesto storico possibile, e il ricorso alle fonti orali per ricostruire le lotte nelle campagne dell’età giolittiana e poi per il periodo seguente alla “Grande Guerra” è obbligato, ed è questa la parte più innovativa dell’appassionata “autobiografia” di Sabazia. La sorpresa allora è stato l’aiuto dato all’autrice dalle donne, le quali nel rivendicare il ruolo svolto in quegli anni di tensioni sociali e crisi economica hanno dimostrato la loro capacità di essere protagoniste di determinati momenti storici con sentita coscienza politica.
Si tratta dello stesso fenomeno emerso dalla recente inchiesta di Nuto Revelli, L ’anello forte. La donna: storie di vita contadina (Torino, Einaudi, 1985), insuperabile studioso del nostro mondo contadino, il quale ripercorrendo il lungo cammino della donna nel Cuneese ha dovuto rivedere non pochi luoghi comuni sulla subalternità politica e culturale di essa in una zona emarginata, in particolare per quanto riguarda l’ultimo quarantennio.
Sarebbe utopico voler seguire, anche se solo per accenni, l’interminabile iter della vertenza “terre pubbliche”, cominciata nel 1903 e passata attraverso tutti i gradi e le diverse sedi giurisdizionali prima della conclusione, che riconoscerà, solo nel 1947, agli anguillarini il pieno diritto di coltivazione.
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Da questo succedersi di lotte sociali nelle campagne e di “sovversivismo” del comune rosso — durato appena un anno, 1920-1921 —, parte la reazione della controparte padronale, composta di amministratori e fitta- voli di grossi agrari e di impiegati statali, di chiamare in aiuto e sovvenzionare lo squadrismo fascista, e così sul problema della terra sarebbe sceso un interessato silenzio ventennale. Di contro l’immaginario collettivo della propaganda fascista enfatizzava invece la realizzazione del monumento ai Caduti, la cui inaugurazione, nel 1926, fe- steggerà sulla base dell’imperante nazionalismo la fine dell’incubo delle occupazioni dei decenni precedenti.
È questa l’ultima fotografia del libro, di forte icasticità, dove tutti i poteri dello Stato totalitario (sistema politico, Chiesa, ammi
nistrazione pubblica, forze armate) si presentano nella tronfia volgarità delle loro posizioni di comando, mentre gli abitanti di Anguillara appaiono in un ridotto secondo piano di puro contorno.
Purtroppo con questa immagine si chiude anche la interessante ricerca della Zucconi, nella quale VEinfuhlung immessavi è pari alla coscienza civile che l’ha spinta a rendere viva questa comunità “già fatta cadavere”, i cui bisogni e speranze, anche se volta per volta frustrati, non potranno facilmente essere dimenticati. Quanto tempo ancora dovremo attendere perché storici non professionali, ma mossi da una sensibile quanto attuale attenzione ai problemi della società di ieri, ci diano altri risultati di questo valore?
Luigi Parente
Sull’ideologia dell’estrema destradi Vittorio De Tassis
La mancanza di studi generali veramente approfonditi sul neofascismo italiano, considerato tanto nei suoi connotati più sostanziali quanto nelle sue più rilevanti vicende interne, è cosa abbastanza nota. Libri oltretutto ormai datati come quelli di Pier Giuseppe Murgia o di Petra Rosenbaum non modificano sensibilmente la povertà del quadro complessivo. Il motivo principale di questa singolare lacuna storiografica, che contrasta con l’abbondante produzione giornalistica e militante, di documentazione o di denuncia, è stato in anni recenti individuato da più parti nell’atteggiamento per così dire esoreistico sempre mantenuto dall’egemone cultura antifascista, oscillante tra il giudizio derisorio per gli stanchi rituali nostalgici dei rot
tami di Salò e la nervosa preoccupazione per il ruolo di provocazione svolto dai giovani squadristi al servizio della destra economica e militare più retriva: con il risultato di trascurare, in entrambi i casi, sia le più complesse radici e motivazioni ideologiche e politiche, sia le interne dinamiche e il latente potenziale di sviluppo del radicalismo di destra. C’è sicuramente un pizzico di verità in questa valutazione critica, ma converrà anche notare come l’orientamento prevalente degli studi più recenti finisca per privilegiare taluni tradizionali motivi ideologici (o per dirla più nobilmente, “culturali”) della destra radicale, col rischio di lasciare in ombra non solo le intricate vicende del movimento neofascista nelle sue diverse espressioni e
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manifestazioni politiche, ma anche i suoi molteplici legami con le centrali dell’eversione nera sul piano interno e internazionale.
Di questo curioso “strabismo” soffre, a esempio, il volume curato da Paolo Corsini e Laura Novati, L ’eversione nera. Cronache di un decennio (1974-1984), (Milano, Angeli, 1985, pp. 314), che raccoglie gli atti del congresso tenutosi a Brescia nel decennale della strage di Piazza della Loggia: delle trame nere di quel periodo si occupa una sola relazione, pregevole ma inevitabilmente sommaria, del giudice Tamburino; la parte di gran lunga preponderante del libro è invece dedicata ad aspetti più o meno collaterali (gli atteggiamenti e i comportamenti delle istituzioni, della stampa, dei partiti), e soprattuto alle matrici culturali e alle posizioni ideologiche della destra reazionaria.
Il complesso fenomeno dell’eversione nera rimane perciò quasi costantemente sullo sfondo, realtà corposa ma alquanto oscura e indistinta sia nelle articolazioni interne che nei collegamenti esterni. D’altra parte, lavori pur in qualche misura ambiziosi come quelli di Gianni Flamini (Il partito del golpe. Le strategie della tensione e del terrore dal primo centrosinistra organico al sequestro Moro, Ferrara, Bovolenta, 1981-1985, 4 voli.) e di Giuseppe De Lutiis (Storia dei servizi segreti in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1985), si occupano delle vicende del neofascismo solo di scorcio, soprattutto per quanto riguardo il torbido intreccio di servizi segreti, bombaroli neri, agenti provocatori e personaggi della destra reazionaria dentro e fuori dell’apparato dello Stato. Della variegata e stratificata fisionomia dell’estrema destra torna ad emergere solo la parte più appariscente, in un certo senso la punta dell’iceberg.
Giovani studiosi come Chiarini, Ferraresi e Revelli paiono comunque consapevoli dei limiti di un’indagine che, pur partendo da premesse metodologiche rinnovate, rimane per ora confinata prevalentemente al campo
dell’attività culturale e dell’ideologia politica. Altri invece, come Cofrancesco, hanno fin troppo frettolosamente eluso il problema, grazie al disinvolto recupero di una we- beriana distinzione di fatti e valori che in realtà serve a legittimare una sorta di trascendenza di principio dell’ideologia rispetto agli interessi e ai comportamenti pratici che la sottendono. Ed è a quest’ultimo filone che si può in definitiva ricongiungere il recentissimo lavoro di Monica Zucchinali, A destra in Italia oggi (Milano, Sugar, 1986, pp. 288), la lettura del quale si rivela per più d’un verso deludente. Un primo motivo di delusione sta già nel fatto che, contrariamente a quanto esplicitamente promesso in copertina, non della destra in generale o anche solo dell’estrema destra si occupa il libro, bensì soltanto dall’ala minoritaria rappresentata dalla destra radicale, per di più vista esclusivamente sotto il profilo culturale della sua riconversione nella cosiddetta “nuova destra” . Il secondo e più intrinseco motivo di delusione risiede nell’immagine sostanzialmente idillica propostaci di tale ri- conversione, dove il dichiarato distacco serve a legittimare un’analisi tutta tesa a stemperare il peso dell’eredità nazifascista, per valorizzare invece le presunte potenzialità democratiche del nuovo corso.
A rendere credibile una così benevola interpretazione delle contorsioni ideologiche della destra radicale non basta l’elogiativa prefazione di Giorgio Galli, lo studioso che pure più ha contribuito a suo tempo, con La crisi italiana e la destra internazionale (Milano, Mondadori, 1974, pp. 309), a reimpostare in. Italia la riflessione, sino allora alquanto superficiale, sulla natura e il significato del neofascismo quale fenomeno sia nazionale che internazionale. In realtà c’è da dubitare che analisi come questa della Zucchinali, abbastanza ampia e diligente nella ricognizione testuale ma carente della necessaria memoria storico-culturale e degli indispensabili strumenti di riconduzione dal
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l’ideologia alla sfera politico-pratica, possano farci fare molti passi avanti sulla via di una più precisa conoscenza della fisionomia odierna dell’estrema destra. Anzi, vien fatto di rivalutare, specie alla luce del sorprendente entusiamo mostrato negli ultimi tempi dallo stesso Galli per i valori “comunitari” contenuti nella tradizione reazionaria (si veda in particolare G. Galli, La destra in Italia, Milano, Gammalibri, 1983, pp. 23 e sgg.), il discorso così sobriamente illuministico propostaci da Furio Jesi nelle sue divagazioni sulla Cultura di destra (Milano, Garzanti, 1979, pp. 173), il cui linguaggio a tratti un po’ ostico non impedisce di apprezzare l’acutezza con la quale porta alla luce il significato dei miti esoterici della destra estrema.
Decisamente più attendibili, ancorché sommari e sempre limitati al campo dell’indagine ideologica, risultano in proposito due dei saggi che compongono il primo volume dell’opera collettiva II pensiero politico contemporaneo, recentemente uscita a cura di Gian Maria Bravo e Silvia Rota Gribaudi per l’editore Angeli. Si tratta dei contributi di Franco Livorsi e Marco Revelli, entrambi editi contemporaneamente in volumetti separati presso lo stesso editore (Franco Livorsi, Tradizione, controrivoluzione e fascismi, Milano, Angeli, 1985 e Marco Revelli, La cultura della destra radicale, Milano, Angeli, 1985), che pur da angolature diverse focalizzano un tema sin qui largamente trascurato dalla letteratura canonica del settore, e che hanno d’altronde il pregio di proporsi come una sorta di “summa” divulgativa delle ricerche compiute al riguardo in questi ultimi anni.
Nel suo sintetico profilo storico, Livorsi prende le mosse dalle celebri Riflessioni sulla rivoluzione francese di Edmund Burke, pensatore peraltro più conservatore che propriamente reazionario, per risalire poi attraverso il pensiero politico della restaurazione al bonapartismo e al bismarckismo, e quindi
al nazionalismo sciovinista e al razzismo, fino alla confluenza di tutte queste tendenze nell’originale miscela esplosiva del fascismo e del nazismo, e concludere con una panoramica dell’odierno radicalismo di destra sul piano mondiale. Il filo conduttore del discorso di Livorsi è la tesi dell’ispirazione essenzialmente controrivoluzionaria di tutte le correnti politiche riconducibili all’area della destra radicale. Tale impostazione permette all’autore di interpretare il fenomeno del radicalismo di destra, sulla scia di studiosi quali Jacques Godechot, non già come una “scheggia impazzita” della cultura politica della società industriale, bensì come una sua intrinseca e organica componente, per quanto tendenzialmente minoritaria; e gli permette altresì di ripercorrere l’evoluzione secolare della teoria e della pratica dei movimenti reazionari in stretta correlazione speculare con le successive ondate rivoluzionarie della storia europea.
Si spiegherebbe così l’indirizzo sempre più radicale via via assunto dai movimenti reazionari, fino alla maschera ambiguamente “rivoluzionaria” ostentata dal fascismo e dal nazismo, come ricerca di una risposta adeguata alla crescente radicalizzazione del processo rivoluzionario nelle sue tappe successive dal 1789 al 1917. E d’altra parte, su basi analoghe si verrebbe a chiarire la sostanziale eclissi del fascismo a partire dal secondo dopoguerra. Osserva in proposito Livorsi: “Uno dei punti di maggiore debolezza, non solo del neofascismo italiano ma di qualsiasi neofascismo dei paesi occidentali, è costituito dalla crisi irrimediabile dei nazionalismi, in un mondo in cui si affrontano megasistemi con vocazione espansionistica planetaria”. Ora, “poiché il nazionalismo è l’anima stessa di ogni fascismo”, e poiché esso “poggia, come aveva ben intuito Barrés e come è stato tante volte spiegato da Mosse, su sentimenti di terra e sangue quasi ancestrali”, le prospettive di una ripresa del movimento fascista, in quanto movimento
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di massa internazionale, appaiono oggi piuttosto limitate e sembrano riservare comunque al radicalismo di destra un ruolo del tutto subalterno nell’ambito della strategia globale dell’Occidente capitalistico (pp. 73-77).
Pur nei limiti di un’esposizione prevalentemente divulgativa, il discorso di Livorsi risulta abbastanza convincente, almeno nelle sue grandi linee. Non mancano tuttavia motivi di perplessità, come il ridimensionamento forse eccessivo dei caratteri di modernità di fascismo e nazismo in quanto regimi di massa, o come la sottovalutazione dell’influsso esercitato da Nietzsche sullo sviluppo del pensiero reazionario tra Otto e Novecento. A rimettere un po’ le cose a posto, sotto quest’ultimo profilo, ci pensa Marco Revelli nel suo saggio sulla cultura della destra radicale, laddove afferma che “la teoria della sovranità di questa destra presuppone come necessario retroterra l’antropologia antiegualitaria nietzscheana, e riflette, come costante, l’orrore della massificazione, il disprezzo-timore [dell’] istinto del gregge..." (p. 43).
Giustamente Revelli vede nella “nuova destra” la protagonista di “una metamorfosi formale del radicalismo di destra italiano”, contraddistinta da due aspetti fondamentali: a) la modificazione della sua “geografia culturale”, con l’abbandono delle tradizionali ascendenze nazional-corporative del fascismo italiano e il recupero, sulla scorta di “maestri” quali Evola, Romualdi e De Benoist, delle correnti di pensiero proto- e pa- ranaziste (Konservative Revolution, Jiinger, Spengler, Schmitt); b) lo spostamento del suo preminente interesse tematico dalla sfera politico-statuale a quella antropologico-esi- stenziale e alla società civile quale luogo di formazione deH’egemonia intellettuale e morale (“gramsciano di destra”).
La conclusione di Revelli è che, al di là dei superficiali aggiornamenti di contenuto e di linguaggio, la “nuova cultura” della destra radicale “sembra voler confermare... la net
ta e incontaminata identità della destra più estrema...: tradizione contro progresso, gerarchia contro uguaglianza” (p. 45). Si tratta, in sostanza, del profilo della “nuova destra” già propostoci dallo stesso autore a un livello ben più impegnativo di analisi e di riflessione politologica — nel suo contributo al volume curato da Franco Ferraresi {La destra radicale, Milano, Feltrinelli, 1984) che a tutt’oggi rimane quanto di meglio è uscito sull’argomento (esemplari per chiarezza e rigore d’indagine appaiono in questo libro, che raccoglie i primi risultati di un più vasto programma di ricerche sulla destra italiana del secondo dopoguerra, i due primi capitoli, rispettivamente dedicati alle dottrine della destra radicale fino al 1977 e alla destra eversiva, entrambi dovuti a Ferraresi).
Circa il potenziale di diffusione egemonica della cultura di destra, nella sua nuova veste relativamente inedita in Italia, il giudizio di Revelli risulta qui meno allarmato di quanto non suonasse nel recente passato, in particolare nella relazione da lui presentata all’importante Convegno di Cuneo del novembre 1982 {Panorama editoriale e temi culturali della destra militante, in Nuova destra e cultura reazionaria negli anni Ottanta, Atti del Convegno, Cuneo, 19-20-21 novembre 1982, “Notiziario dell’Istituto storico della resistenza in Cuneo e Provincia” , n. 23, giugno 1983, pp. 49-61), dove si veniva a stabilire una precisa correlazione tra “crisi d’identità” della sinistra e crescita della “nuova destra” quale portatrice di una seducente metafisica della crisi, alla luce di una lettura un po’ troppo affrettatamente “wei- mariana” del travaglio del sistema politico italiano. In realtà, le vicende successive hanno ridimensionato sia la supposta portata di quella crisi sia la pretesa vocazione catastrofica delle nuove generazioni.
Valido rimane nondimento il preoccupato richiamo fatto da Guido Quazza in sede di apertura di quello stesso Convegno, ai près-
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santi compiti di natura storiografica e morale che spettano oggi alla cultura di tradizione antifascista di fronte alle insidie comunque non trascurabili di un’ideologia che trova alimento e spazio nei limiti e nelle contraddizioni del sistema democratico (Introduzione ai lavori, cit, pp. 9-15). In tal senso, pur nella loro ottica prevalentemente settoriale, le ultime pubblicazioni menzionate contribuiscono, certo in diversa misura, ad ovviare almeno in parte alla carenza di studi veramente significativi ed esaurienti sul fenomeno neofascista. Ma qui, a chiusura di questa nota, con
verrà rimandare al bel libro di Roberto Chiarini e Paolo Corsini, Da Salò a Piazza della Loggia. Blocco d ’ordine neofascismo, radicalismo di destra a Brescia (1945-1974), Milano, Angeli, 1983) che oltre ad offrire una prima sommaria, utilissima bibliografia ragionata sull’argomento, costituisce forse il più interessante tentativo di ricostruire per linee interne, e in una prospettiva che trascende ampiamente l’ambito locale della ricerca, le vicende del neofascismo dal dopoguerra alla metà degli anni settanta.
Vittorio De Tassis
Seconda guerra mondiale
I prigionieri militari italiani durante la seconda guerra mondiale. Aspetti e problemi storici, a cura di Romain Rainero, Milano, Marzorati, 1985, pp. 339, sip.
Il volume raccoglie gli atti del convegno organizzato a Mantova nell’ottobre 1984 dall’Ammi- nistrazione provinciale mantovana, con il concorso del ministeriale Comitato forze armate e guerra di liberazione (ma perché dimenticare il ruolo dell’Istituto mantovano per la storia del movimento di liberazione?). Il convegno è stato il primo dedicato al problema complessivo dei prigionieri di guerra italiani 1940- 45 (non il primo a occuparsene, perché la prigionia di Russia era già stata ampiamente trattata nel convegno del 1979 promosso dall’Istituto storico della resistenza in Cuneo e provincia su “Gli italiani sul fronte russo”): una grossa benemerenza, anche se il ritardo con cui il tema è stato affrontato è pagato con la difficoltà di un discorso generale e
l’impossibilità di un adeguato approfondimento in tutti i campi della prigionia italiana di guerra.
Una parte degli studi presentati si basa su ampie ricerche negli archivi e nella produzione straniera: Elena Aga Rossi studia il ruolo dei prigionieri nei rapporti tra il governo italiano e gli alleati angloamericani, Roberto Morozzo della Rocca si sofferma su come la prigionia dei soldati italiani in Russia fu sentita, difesa e strumentalizzata negli anni 1945-50, Flavio Conti analizza con molto respiro le vicende dei militari italiani prigionieri negli Stati Uniti, Stefano Bianchini affronta il caso straordinariamente complesso dei Balcani, Jean Louis Miège utilizza gli archivi francesi per la durissima sorte degli italiani lasciati in balia dei francesi, infine Carlo Musso esamina un tema parallelo, che non va assolutamente confuso con la prigionia di guerra, ossia i militari italiani rifugiatisi in Svizzera nell’ultima fase del conflitto. Altri studi si limitano a utilizzare pubblicazioni già
note, come quelli di Aldo Mola sull’“Alba”, giornale per i prigionieri italiani in Russia, diffuso in reprint dall’Istituto storico della resistenza nel Cunee- se, di Vittorio E. Giumella sugli internati militari in Germania 1943-45, che riprende temi già trattati più volte dallo stesso autore, di R. Rainero sui prigionieri italiani in Africa, che utilizza qualche volume di memorie e documenti della Croce rossa di provenienza non mai dichiarata. Mancano quasi del tutto ricerche negli archivi militari italiani, benché il convegno godesse dell’appoggio del ministero della Difesa e degli Uffici storici delle forze armate. Interessanti invece alcune comunicazioni basate essenzialmente su esperienze personali, come quelle di Umberto Cappuzzo, Ferdinando Bersani, Sergio Cecconi e Alberto Rovigni. In complesso una serie di studi di grosso rilievo, pur con tutte le discontinuità di un volume di atti e di un lavoro pionieristico; c’è da augurarsi che si tratti di una base di partenza per l’ulteriore, sistematico sviluppo de
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gli studi e non di un punto di arrivo.
Purtroppo l’inquadramento del volume è assai carente. Come introduzione generale alla tematica Rainero non riproduce la relazione presentata con successo al convegno, ma si limita a ristampare parte della relazione ministeriale sui rimpatri del 1947, completamente superata da tutti i punti di vista (particolarmente disinvolte le cifre sui reduci dall’internamento, che pongono sullo stesso piano i militari rifugiatisi in Svizzera e quelli deportati nei lager tedeschi).
Rainero presenta inoltre una bibliografia sulla memorialistica dei militari italiani prigionieri nella seconda guerra mondiale di venti pagine e novanta titoli (parte dei quali nulla hanno a che fare con la memorialistica, come l’appello del cardinale Schuster per l’invio di soccorsi agli internati in Germania), basata su ricerche in tre biblioteche milanesi soltanto e infatti penosamente incompleta: basti citare la mancanza della fonda- mentale rassegna di Valdo Zilli sulla prigionia in Russia citata come merita da R. Morozzo, e quindi l’elencazione di una dozzina soltanto di titoli su questo tema contro la sessantina reperita da Zilli, oppure i trenta titoli suH’internamento in Germania citati contro gli oltre 150 da noi riscontrati.
C’è da chiedersi quale valore abbia una bibliografia così sommaria e se non sarebbe stato meglio rinunciare alle cinquanta pagine di “rassegna stampa” degli articoli di cronaca dedicati al convegno di Mantova, trionfalistica quanto inutile, e invece dedicare qualche
fatica e qualche pagina in più per fare una bibliografia almeno decente.
Giorgio Rochat
Service historique de l’armée de terre, Les forces françaises dans la lutte contre l’Axe en Afrique, vol. I; J.N. Vincent, Les forces françaises libres en Afrique 1940-43, Vincennes, 1983, pp. 407; vol. II; M. Spi- vak, A. Leoni, La campagne de Tunisie 1942-43, Vincennes, 1985, pp. 471, sip.
In due grossi volumi, scritti con molta chiarezza e un buon corredo di schizzi e carte, il Servizio storico dell’esercizio francese documenta la parte delle truppe francesi nella guerra in Africa contro gli italo-tedeschi. Il primo volume, dedicato alle forze golliste dal loro debutto in Africa equatoriale alla fine del 1940 alla vittoria in Tunisia, dopo una breve e molto interessante analisi dei primi volontari della Francia libera ricostruisce vicende diverse e disperse, in parte già note come la partecipazione francese alle operazioni in Libia e Egitto, culminata nella brillante resistenza a Bir- Hakeim nel giugno 1942, in parte largamente ignorate, come il concorso francese alla conquista dell’Eritrea e gli attacchi condotti dal Ciad verso le posizioni italiane nel sud libico, con alterne vicende dal 1941 al 1943. Il volume si chiude con la ricostruzione della parte relativamente secondaria che le forze golliste ebbero nella campagna di Tunisia. Il secondo volume è più compatto, perché segue le vicende delle forze regolari francesi in Nordafrica du
rante gli anni 1940-42 così densi di dubbi politici, poi dinanzi allo sbarco anglo-americano del novembre 1942, infine nella campagna di Tunisia, affrontata con molta determinazione malgrado l’insufficienza dei mezzi.
In complesso i due volumi offrono un eccellente esempio di relazione ufficiale, attenta alla ricostruzione anche delle minori vicende senza perdere di vista il quadro politico-strategico generale, solidamente appoggiata sugli archivi militari nazionali e sulle relazioni ufficiali straniere, ma (a differenza di quanto usi il nostro Ufficio storico) pronta a utilizzare largamente la memorialistica e gli studi e archivi privati, fino a ricorrere alle testimonianze orali dei protagonisti. La valorizzazione dei risultati ottenuti dalle forze francesi è condotta con equilibrio, gli insuccessi sono spiegati senza minimizzarli, le vittorie inquadrate nel contesto generale (in cui gli anglo-americani avevano la parte maggiore) gli avversari trattati con rispetto.
In particolare questi due volumi offrono un grosso apporto allo studio della guerra italiana in Africa, specialmente prezioso per settori dimenticati come l’Eritrea e il sud libico. Va però rilevato che le fonti italiane utilizzate si limitano alle monografie del nostro Ufficio storico dell’esercito; non sono stati consultati gli archivi italiani, né la memorialistica, né è stata cercata la collaborazione dell’Ufficio storico, che avrebbe potuto mettere a disposizione dei francesi gli studi sulla campagna di Tunisia che il compianto amico Vincenzo Galli-
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nari andava conducendo per la preparazione della relazione italiana. Non possiamo che rammaricarcene, perché la partecipazione italiana alle vicende narrate fu sempre importante e onorevole, spesso brillante, e una sua migliore conoscenza avrebbe portato a riconoscimenti francesi più ampi, specie per il secondo dei volumi in questione, più avaro sotto questo punto di vista del primo.
Giorgio Rochat
Aa .Vv ., La deportazione nei campi di sterminio nazisti. Studi e testimonianze, a cura di Federico Cereja e Brunello Mantelli, Milano, Aned, Angeli, 1986, pp. 356, lire 25.000.
“La follia nazionalsocialista esplose nel corso degli anni in un orripilante sistema di omicidio in massa: con ciò proprio venne alla luce il suo fondamentale nichilismo. I campi di concentramento, istituiti nel 1933, si svilupparono a veri e propri ‘macelli umani’”. Così notava un tedesco che ha saputo resistere, Ernst Niekisch, in un ampio saggio delle vicende fortunose non sempre opportunamente ricordato (li regno dei demoni. Panorama del Terzo Reich, Milano, Feltrinelli, 1959, p. 491). Follia assolutamente lucida, peraltro, tanto da potersi opportunamente rilevare — come ha fatto ad esempio Léon Poliakov nel suo classico II nazismo e lo sterminio degli Ebrei (Torino Einaudi, 1955, p. 241) — che “il genio tecnico dei tedeschi permise loro di organizzare nel giro di pochi mesi una industria della morte razionale ed efficace”.
Numerosi e variamente pertinenti sono certo i richiami di carattere storiografico e memoria- listico che questo argomento suggerisce sia a livello europeo che italiano, per quanto da noi (hanno ragione di sottolineare Cereja e Mantelli) manchi tuttora una storia generale della nostra deportazione; ma ricorrenti, appunto, sono le immagini del piano, del sistema, del progetto lungamente meditato, minuziosamente programmato, rigorosamente attuato in un preciso quadro ideologico, economico e politico: per cui si è parlato in svariatissime occasioni di un tragico efferato “universo concentrazionario” nazista, e qui meglio ancora si suggerisce l’espressione galassia concentra- zionaria evidenziarne, alla luce soprattutto delle testimonianze, (’“impensabile pluralità di situazioni e di percorsi personali” non meno che le “infinite particolarità e sfaccettature” del mondo dei lager (p. 13). Tutto funzionale e premeditato, dunque: “un nazismo senza lager non è pensabile”, ha affermato Primo Levi ribadendo il nesso inscindibile fra il totalitarismo razzista — antisemita in particolare — di quel movimento e di quel regime e i suoi programmi di segregazione e di sterminio; il 22 marzo 1933, poche settimane dopo l’inizio del cancellierato di Hitler, l’apertura di Dachau ha spalancato l’abisso della “galassia” in primo luogo agli antinazisti e agli ebrei tedeschi, sicché appare ineccepibile, alla luce della copiosa documentazione che nessun neonazismo e nessun “revisionismo storico” può infirmare, l’asserzione di Enzo Collotti “che Dachau nel 1934 è già potenzialmente la Auschwitz
del 1944. Ma è anche molto di più; è la proiezione nel microcosmo del lager della società sognata dai nazisti: il lager non è solo il campo di concentramento, esso riproduce al suo interno tutte le strutture, le gerarchie e le istituzioni della segregazione che già esistono al di fuori di esso” (pp. 230-231).
Siamo così già entrati in médias res, a proposito di questo libro importante e significativo, la cui preparazione ha avuto i supporti morali, politici, scientifici dell’Aned, del Dipartimento di storia dell’Università di Torino, degli Istituti piemontesi per la storia della Resistenza, della presidenza dell’Assemblea regionale del Piemonte: una Regione che ha dato moltissimo alla Resistenza e alla deportazione nei loro diversi aspetti: un Consiglio regionale che da vari anni ha fatto molto “perché non vada perduta la memoria dei campi di annientamento della criminale dottrina nazista”, e ne sono tra l’altro prove concrete il Convegno del 28-29 ottobre 1983 (cfr. gli Atti “Il dovere di testimoniare”, Torino, 1984) e le iniziative di studio annuali rivolte agli studenti delle scuole superiori, che hanno stimolato tanti giovani e insegnanti piemontesi a cimentarsi in serie ricerche su temi antifascisti, resistenziali e di formazione democratica, consentendo poi loro di prendere diretto contatto con la realtà dei lager e con la calda insostituibile testimonianza dei sopravvissuti, dei militanti del- l’Aned.
Si tratta pertanto di un volume non isolato, sia perché inquadrato in una vasta attività pubblica, sia perché anticipato- re di una prossima antologia
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delle testimonianze essendo, come ha notato Tranfaglia (p. 7), “il primo dei due legati alla creazione dell’Archivio della Deportazione, attraverso la raccolta delle testimonianze di tutti gli ex deportati residenti in Piemonte e sopravvissuti finora”. Certo, sono trascorsi oltre qua- rant’anni dagli avvenimenti e molti e complessi sono stati i motivi di ordine oggettivo e soggettivo perché si sia atteso tanto tempo: resta comunque il fatto esemplare che dalla fine del 1981 siano maturate nell’ambito di una regione le condizioni grazie alle quali un’équipe di studiosi e ricercatori, per lo più nati dopo, abbia intrapreso “la raccolta delle storie di vita degli ex deportati” e l’elaborazione critica dei dati, utilizzando opportunamente le tecniche della storia orale nel quadro della ricerca e dell’archiviazione delle fonti e contribuendo quindi a consolidare e arricchire in sede storiografica quell’imperativo di Non dimenticare che è retaggio soprattutto di chi è caduto nella lotta di liberazione e allora, in prima fila, di chi è “passato per il camino” nella galassia nazista della morte.
Un libro assai ricco di apporti differenti, non facilmente sintetizzabili, validi in genere per la conoscenza e non di rado stimolanti per l’ulteriore sviluppo delle ricerche: merita qui farne qualche rapida considerazione, relativamente a taluni aspetti essenziali e anche alla sua articolazione in tre parti che amplia il discorso ben al di là della pur densa problematica regionale. Basilare è senza dubbio la prima che, attraverso tre saggi di Federico Cereja, Andrea Devoto e Guido Quazza, propone le que
stioni storiografiche derivanti, non soltanto a livello italiano, dal vario materiale disponibile: memorie, antologie, resoconti dei processi, contributi su riviste, atti di congressi ed incontri, audiovisivi, non escluse le analisi spesso non univoche sui postumi psicopatologici della deportazione. Se ne ricava — a parte le scelte piemontesi che hanno puntato sulle “storie di vita di tutti gli ex deportati oggi residenti in Piemonte” — un quadro tutt’altro che definitivo, dove abbondano i “settori da approfondire” (p. 52) ancora nello specifico reperimento di documenti, specie a proposito di gruppi come gli zingari che non hanno a tutt’oggi “goduto di molte attenzioni”.
Le “Riflessioni a partire dalla ricerca piemontese” costituenti la seconda parte si sviluppano in cinque saggi che, facendo ampio uso delle registrazioni già raccolte nell’Archivio della deportazione piemontese, testimoniano della ricchezza di dati pure a livello di storia locale per il passato e per il presente (rapporto tra ex deportati e comunità e vicende politico-sociali dell’ultimo quarantennio). In special modo il saggio di Mantelli (pp. 83-106) evidenzia sintomaticamente “il rapporto fra deportazione e lavoro coatto” nelle imprese tedesche, il senso dell’esperienza operaia — di mestiere, ma anche politica — rispetto all’emergenza del lager (lavorare, conservare la propria identità, sabotare con intelligenza), fino ai limiti della tecnologia “alta” che i nazisti tenteranno di sfruttare dall’agosto 1943 a Dora-Mittelbau; mentre sempre perspicua risulta l’analisi di Alberto Cavaglion (pp. 107-
125) sulla deportazione degli ebrei piemontesi.
Importante infine nell’orizzonte complessivo si rivela la “dimensione europea” prospettata negli otto saggi della terza parte, tra cui sono necessariamente da segnalare — oltre al già menzionato caso di Dachau quale “modello di un sistema terroristico destinato a espandersi come macchia d’olio sull’intera area sotto influenza del nazismo” (p. 225) — i contributi tradotti di Walter Bartei, Georges Wellers, Hermann Langbein e Barbar Bromberger.
Ne emergono tra l’altro l’em- blematicità del campo di Buchenwald (anch’esso uno dei primi), con il valore del resto non unico della sua resistenza interna e con il carattere perenne del suo giuramento (“La nostra parola d’ordine è la distruzione del nazismo fino alle radici! Il nostro obiettivo è la costruzione di un mondo nuovo nella pace e nella libertà!...”); la verità storica dello sterminio e il paradosso del suo isolamento di fronte alle responsabilità dello schieramento antinazista e dell’opinione pubblica mondiale (si veda lo studio di D.A. Morse, Mentre sei milioni morivano', ma la bibliografia è più ampia); la peculiarità dell’ideologia nazista e la già citata funzionalità dei lager; la realtà da non trascurare di una Resistenza antifascista tedesca. Non mancano riflessioni di respiro etico e religioso nei testi di V.E. Giuntella e di C. Manziana; ma, concludendo, sembrano da segnalare gli ammonimenti desumibili dal saggio di Rudolf Schneider, l’ultimo della raccolta: “Perché la storia non si ripeta: neonazismo e razzismo nella Germania di oggi” (pp. 319-338).
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Non sono morte le radici economiche, politiche, culturali, del nazismo specialmente nella Repubblica federale di Germania, dove “le associazioni neonaziste militanti fanno proprie in tutto e per tutto le parole d’ordine diffuse dai gruppi di ispirazione Ss e i tentativi di giustificazione ideologica, e prendono le Ss a ‘modello’” (p. 337). Non è dunque possibile né lecito pensare solo al passato quando leggiamo un libro come quello curato da Cereja e Mantelli; pure stavolta il passato rimbalza sul presente, il conoscere postula il fare. Si può essere in molti modi, tutti contemporanei, coerenti con i valori della Resistenza e col giuramento di Buchenwald: la lettura di questo libro stimola all’impegno.
Carlo Ottino
Carlo Vicentini, Noi soli vivi. Quando settantamila italiani passarono il Don, Milano, Cavallotti, 1986, pp. 226, lire 28.000.
La memorialistica sulla prigionia italiana di Russia si arricchisce con questo volume di una nuova testimonianza di grande efficacia per drammaticità di vicende e schiettezza e semplicità del racconto. Giovane ufficiale di complemento del battaglione alpini “Monte Cervino”, l’autore non sente l’esigenza di narrare le sue vicende nei nove mesi in cui fu impegnato con il suo battaglione nei settori più difficili del fronte italiano in Russia, perché è l’esperienza della successiva prigionia che lo ha marcato per la vita. Come racconta, ha dovuto aspettare quasi qua
rantanni per tornare su queste vicende con qualche distacco, ma i ricordi sono ancora tutti nitidi e urgenti. E del resto poche cifre bastano a dare le dimensioni della tragedia: “del centinaio di uomini del mio battaglione, tra cui sette ufficiali, catturati insieme a me, solo due ufficiali e tre alpini sono tornati a casa. Condivisi i primi mesi di prigionia con trenta ufficiali, quasi tutti del gruppo Udine dell’artiglieria alpina: di questi, solo due sono rimasti vivi e della morte di tutti gli altri sono stato testimone oculare”. La prima parte del libro racconta appunto le sempre nuove prove, dalla fame al tifo petecchiale, in cui scomparvero tanti prigionieri: l’autore non forza i toni, non indulge in descrizioni caricate né in invettive contro i russi, lascia parlare i fatti, con molta semplicità.
A partire dall’estate del 1943 le condizioni dei prigionieri si “normalizzarono” (s’intende in relazione a quanto poteva offrire la Russia arretrata e devastata): la seconda parte del libro è meno drammatica, ma sempre efficace nella descrizione della dura vita dei prigionieri e dei loro rapporti con la popolazione, anche con toni umoristici e forse qualche pagina di troppo di conversazioni didascaliche. I sentimenti dominanti e intrecciati sono la rassegnazione dinanzi all’inevitabile e una disperata voglia di vivere; mancano ottimismo e fiducia nell’uomo, e il ritratto che l’autore traccia della psicologia del reduce dalla prigionia di Russia è dominato dall’individualismo: “È un uomo che non è più capace di vere emozioni... tollerante, quasi indifferente... che non si accalora
per nessuna discussione... perché ha imparato che tutto è relativo, che non esiste separazione netta tra bene e male... È un uomo che quando ha male alla pancia, ai denti, ha la febbre, non lo dice a nessuno, se lo tiene e basta... È un uomo che conosce sul serio cosa vuol dire fame... non lascia mai nulla nel piatto anche se è sazio e proibisce che si butti qualsiasi avanzo...”. Questo ritratto è certamente troppo severo (e nella testimonianza accanto a episodi di viltà morale si trovano anche gesti di fiducia e bontà), ma è il tentativo dell’autore di evidenziare l’incomunicabilità finale della sua esperienza, malgrado ogni sforzo di narrazione: “questo reduce, naturalmente, è il prodotto specialissimo di una serie di circostanze eccezionali. Non pretende di costituire un esempio e non vuole insegnare nulla... Sa solo di essere un uomo felice, soddisfatto del molto o del poco che la vita gli offre. Contento di essere vivo, considera regalato ogni giorno che passa, se pensa alle molte migliaia di suoi compagni che quarantanni fa chiusero malamente la loro giovinezza in una terra e per una causa che non era la loro”.
Giorgio Rochat
A a .Vv ., Les armées françaises pendant la seconde guerre mondiale 1939-45, Paris, Institut d’histoire des conflits contemporains, 1986, pp. 458, ff. 95.
Il volume raccoglie gli atti del convegno organizzato a Parigi nel maggio 1985 dall’Institut d’histoire des conflits contemporains e dai servizi storici del
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le forze armate francesi. Si articola in quattro parti: le icause della sconfitta del 1940, la ripresa della lotta, i momenti di crisi, la partecipazione alla vittoria. Oltre trenta contributi di studiosi militari e civili, che con molta libertà e molta documentazione, in un quadro patriottico vissuto con scrupolo scientifico e spirito critico, analizzano le vicende delle diverse forze francesi nella guerra mondiale, dalla guerra del 1939-40 al regime di Vichy, dalle forze golliste e della resistenza alla complessa riunificazione nel 1943-44. Da sottolineare gli studi sulle forze armate francesi nel 1939-40, che ne documentano la scarsa efficienza; ma anche gli apporti sulle complesse vicende delle forze contrapposte del 1940-43 e finalmente sui successi francesi del 1944, rivendicati senza nascondere la quasi totale dipendenza dal controllo e dalle risorse statunitensi.
Giorgio Rochat
François Bédarida, La bataille d ’Angleterre, Bruxelles, Ed. Complexe, 1985, pp. 180, ff 35.
Segnaliamo questo breve studio della battaglia d’Inghilterra dell’autunno 1940, con cui l’aviazione britannica troncò i piani nazisti di invasione, come modello di divulgazione scientifica. L’alta competenza dell’autore, studioso affermato di storia anglofrancese contemporanea, e le sue doti di chiarezza, oltre alla felice formula della collana di alta divulgazione, permettono di riassumere prima gli avvenimenti, poi le interpretazioni e infine di approfondire una serie di problemi chiave,
mettendo in rilievo sia le cause di lungo periodo che permisero agli inglesi di sostenere la difesa del loro paese con mezzi e sistemi moderni, sia gli errori strategici dell’alto comando tedesco, che affrontò la battaglia con improvvisazione e eccessiva fiducia nelle sue forze.
Giorgio Rochat
H erbert R. Lottman, Pétain eroe o traditore? Milano, Fras- sinelli, 1985, pp. 378, lire 19.500.
Quando, nel giugno del 1940, Philippe Pétain fa ai francesi “il dono della sua persona” (un classico cadeau empoisonné), ha già ottantaquattro anni, e da poco più di vent’anni (da Verdun) è un eroe nazionale. Il destino straordinario di quest’uomo si compie dunque tutto in una stagione della vita che normalmente è compresa tra la pensione e la tomba; negli anni in cui più ha lasciato il segno nella vita dei suoi compatrioti, Pétain è addirittura un gran vegliardo: la morte lo coglie in cattività, a novantacinque anni compiuti. È quindi del tutto naturale che il suo più recente biografo dedichi i nove decimi del suo lavoro a ricostruire gli ultimi trentasette anni della vita di Pétain e più della metà addirittura agli ultimi dieci.
Prima d’allora, la vita di Pétain non differisce in niente da quella di migliaia di suoi colleghi: una carriera senza lode e senza infamia, con qualche ritardo anzi nelle promozioni da un grado all’altro, che si svolge secondo l’usuale trafila dei comandi di guarnigione e dei corsi
alla scuola di guerra, anche come insegnante, ma mai in primo piano; una vita da funzionario, che non è nelle poste o nell’insegnamento, ma militare di carriera. La prima guerra mondiale lo strappa alla pensione ormai vicina, e Verdun gli spalanca le porte del trionfo, a sessantuno anni. D’allora in poi è un eroe nazionale. Non è però un eroe che riposi sugli allori; gli alti incarichi a cui viene chiamato, in una sequela quasi ininterrotta che va dagli anni venti fino a Vichy, gli impediscono di realizzare un suo sogno, andare a far la vita del gentleman farmer nel Midi. Quest’aspirazione frustrata al riposo è forse l’unico elemento di simpatia per il suo personaggio che Lottman riesce a indurre anche nel lettore più avvertito. Lo stesso lettore può invece essere infastidito dalle ripetute e minuziose prove della straordinaria vitalità di Pétain: il biografo non gli risparmia i particolari di molti pranzi e cene (sempre affrontati dal vecchio Maresciallo con giovanile appetito), né gli nasconde l’esuberanza amatoria, divenuta leggendaria perfino negli anni di Vichy.
Viene però difficile capire Pétain senza prendere in conto compiutamente quel che ha rappresentato il regime di Vichy; Lottman si pone su un altro piano, e la traduzione italiana del suo lavoro (che riduce, senz’av- vertirne il lettore, a meno della metà il testo francese) richiama fin dal titolo un’annosa controversia che non ha mai prodotto grandi risultati dal punto di vista storiografico. I sostenitori della tesi del tradimento (tra i quali i giudici che l’hanno condannato dopo la liberazione)
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imputano al Maresciallo d’aver messo il suo prestigio personale al servizio del nemico, fiaccando la capacità di resistenza all’occupazione nazista; e d’aver- lo fatto mettendosi a capo d’un regime che non solo ha attivamente collaborato alla guerra tedesca, ma che ha anche distrutto le libertà civiche, non risparmiando ai francesi le misure più vergognose. I difensori del Maresciallo hanno invece sempre insistito su due argomenti: col suo sacrificio personale, Pétain è riuscito ad attenuare i rigori dell’occupazione tedesca, e ad assicurare la sopravvivenza nazionale della Francia. Pétain, prigioniero delle circostanze e della sua vecchiaia, ha salvato il salvabile.
Lottman evita saggiamente di rifare il processo a Pétain, e utilizza tutto ciò che archivi, memorialistica e pamphlettistica hanno prodotto in questi qua- rant’anni per seguire da vicino, in alcuni passi ora per ora, il suo personaggio, riuscendo a metterne in luce anche aspetti poco noti ed a sfumare alcuni luoghi comuni (com’è il caso della pretesa incomprensione del ruolo degli armamenti mobili e dell’aviazione, a proposito dei quali alcuni rapporti stilati dal Maresciallo negli anni trenta ne sostengono tutta l’importanza), ma non riesce a suggerire al lettore alcune risposte d’un certo peso, che la storiografia ha già dato da una buona ventina d’anni. Queste risposte, che riguardano sostanzialmente il senso della politica seguita dai dirigenti di Vichy dal momento della nascita del regime fino al suo crollo, possono essere date se si parte dal dato di fatto che Pétain, al pari degli altri suoi
compagni d’avventura, credeva nella politica che andava applicando.
Pétain, con Lavai o con Dar- lan, o con entrambi, credeva cioè che l’armistizio, la ricerca della collaborazione di stato con il Reich, la cobelligeranza contro gli inglesi, la costituzione d’un regime di dittatura poliziesca, fossero altrettante tappe obbligate d’una strada che avrebbe portato la Francia ad occupare un posto d’onore nel nuovo mondo che sarebbe uscito dall’immancabile vittoria dell’Asse. Se così non è stato, non lo si deve né a pretesi doppi giochi del Maresciallo, né ad un suo atteggiamento di resistenza passiva che non è mai esistito; lo si deve ad i suoi nemici giurati (gli inglesi, De Gaulle, la Resistenza), contro i quali il suo regime non ha risparmiato atti aggressivi, condanne a morte, esecuzioni. Pétain, in definitiva, non era tutta la Francia; era il simbolo della Francia che ha perso.
Giorgio Caredda
Benedetto P afi - Bruno Benvenuti, Roma in guerra. Immagini inedite settembre 1943-giu- gno 1944, Roma, Oberon, 1985, pp. 271, lire 45.000.
Sulla difesa di Roma nel settembre 1943 si è scritto moltissimo, probabilmente più che su ogni altra crisi italiana (più che su Caporetto, crediamo). È quindi difficile che malgrado ampie ricerche e apporti indubbiamente originali, la ricostruzione degli avvenimenti condotta in questo volume possa dire cose davvero risolutive. Del resto il suo ruolo è sostanzialmen
te di supporto alla documentazione fotografica, questa sì di eccezionale novità e interesse. Gli autori sono riusciti a attingere agli archivi fotografici ufficiali, militari e civili, italiani e stranieri; ma soprattutto hanno utilizzato archivi privati inesplorati e di diverso taglio. Possono così presentare una documentazione quasi interamente inedita sui combattimenti intorno e dentro Roma e sulla resa italiana, poi sulla città nei lunghi mesi di occupazione tedesca, con immagini di rara efficacia. Meno nuove, anche se in gran parte inedite, le fotografie sui combattimenti sui fronti di Cassino e Anzio; nuovamente di grande interesse quelle sulla liberazione di Roma. In complesso un bel lavoro (viziato solo dalla rinuncia all’indicazione regolare delle fonti delle fotografie), che ci ricorda con forza l’importanza e l’efficacia della documentazione fotografica.
Giorgio Rochat
Aa .Vv ., L ’antisemitismo ieri e oggi, in “Notiziario” dell’Istituto storico della resistenza in Cuneo e provincia, n. 28, 2° semestre 1985.
Nell’ambito dei numerosi convegni indetti nel nostro paese in occasione del quarantennale della fine della seconda guerra mondiale, una certa attenzione (maggiore di quella riscontrata negli “annali” precedenti) è stata dedicata alla questione ebraica.
Vi sono stati interventi di vario taglio e tenore ai convegni indetti dagli Istituti della Resistenza di Firenze, Genova e Nazionale nei primi mesi dell’anno
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e dalla Fondazione Micheletti ai primi di ottobre, ed un rilievo particolare è stato ovviamente dedicato alla deportazione degli ebrei nel convegno organizzato a Carpi dalla regione Emilia-Romagna sempre ai primi di ottobre.
In questa rinnovata attenzione rientra anche la riflessione collettiva su Antisemitismo ieri ed oggi svoltasi il 22 marzo 1985 a Saluzzo ad iniziativa dell’Assessorato alla cultura di quel Comune e dell’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, con la collaborazione del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e della Comunità israelitica di Torino.
Le relazioni tenute in quella giornata sono ora disponibili sul sempre vivace “Notiziario” dell’Istituto di Cuneo (occupano una buona metà del fascicolo 28) e la loro lettura offre non pochi spunti a chi voglia addentrarsi nella ricostruzione delle vicende degli ebrei nell’Italia del periodo razziale, dal Regno fascista alla Repubblica di Salò.
Lo studio dedicato da Nicoletta Irico e Adriana Muncinelli agli ebrei di Saluzzo dal 1938 al 1945 è senza dubbio il più interessante, per la cura profusa nella ricerca della documentazione, per l’impostazione data alla ricerca e per l’oggetto stesso dell’indagine. Le autrici seguono, mese dopo mese, legge dopo legge, emozione dopo emozione, le vicende del piccolo gruppo ebraico; ne ricostruiscono la vita materiale e quella affettiva, dalle prime normative antiebraiche del 1938 alle esperienze finali della fuga o della deportazione. Aiutate forse anche dalla scarsa consistenza del
la comunità presa in esame, le autrici riescono a distanziarsi dalla “lacrimologia” (ossia dai purtroppo frequenti — ed assai poco utili — elenchi di “quanto male è stato fatto agli ebrei”) e da un tipo di ricostruzione — anch’esso relativamente frequente — impostato principalmente sullo spoglio della stampa e sulle vicissitudini di singoli personaggi importanti (e spesso proprio per questo distaccate da quelle della generalità degli ebrei). Si avverte la mancanza di un confronto con la documentazione prettamente ufficiale degli Archivi di Stato ed inoltre — nell’annunciata prosecuzione della ricerca — sarebbe opportuno tentare un maggior confronto con le altre piccole e grandi comunità piemontesi (colpisce ad esempio il dato di un solo ebreo saluzzese divenuto partigiano). Nel complesso però si tratta di una ricerca certamente apprezzabile e meritevole di essere presa ad esempio.
Due relazioni in particolare completano ed arricchiscono quella sugli ebrei di Saluzzo: la testimonianza di Lidia Rolfi su come lei, non ebrea, conobbe e visse il “problema razziale” a Mondovì e in Valle Varaita, e la comunicazione di Liliana Picciotto Fargion dedicata a tracciare il quadro della persecuzione antiebraica in Italia.
Assai interessante — ma troppo poco approfondito — è l’intervento di Sergio Vizio sugli ebrei croati internati in Alba nel 1942. È, quella delle migliaia di ebrei slavi sottratti — e quindi, per il momento, salvati — dal Regno fascista a ustascia e nazisti, una pagina di storia ancora tenuta nell’ombra, ma
sulla quale occorre finalmente riflettere (e le ricerche oggi in corso sembra che potranno conoscere una prima occasione di confronto grazie ad una prossima iniziativa dell’Istituto di Cosenza) perché dal suo chiarimento verrà nuova luce sulla complessa questione fasci- smo/ebrei.
Completano il quadro delle giornate di studio le relazioni di Giorgina Arian Levi sull’antisemitismo, di Federico Cereja sulla deportazione dei politici e l’internamento dei militari, e di Elena Peano e di Alberto Cava- glion sugli ebrei di Mondovì e di Cuneo.
In sostanza il convegno è stato una iniziativa intelligente e ben riuscita, tanto per quel che riguarda i suoi fini di “microstoria” quanto per ciò che esso ha voluto dire concretamente a proposito della storia degli ebrei in Italia dal 1938 al 1945, storia che sino ad oggi è stata troppo trascurata anche da parte degli studiosi legati agli Istituti della Resistenza. La relazione sugli ebrei di Saluzzo ad esempio ha mostrato che — per affrontare due dei nodi che a mio parere determinano in qualche modo questa trascuratezza — l’adesione degli ebrei al fascismo nel ventennio è del tutto simile a quella dei non ebrei, e non costituisce un ostacolo ad una “indagine antifascista” delle loro vicende nel periodo razziale; ed ha mostrato che è possibile ricostruire queste ultime solo inserendo gli ebrei “tra le tante vittime” e non considerandoli — come oggi la retorica impone — tra gli eroi o, peggio, i martiri della Resistenza.
Michele Sarfatti
Rassegna bibliografica 175
Mario Rigoni Stern, Amore di confine, Torino, Einaudi, 1986, pp. 212, lire 18.000.
Alcune tra le bellissime pagine di questo libro di memorie di vita e di montagna meritano una segnalazione anche su una rivista di storia contemporanea. Ci riferiamo alle pp. 33-61 in cui Rigoni rievoca vari momenti della sua prigionia in Germania nel 1943- 45, della difficile resistenza alla propaganda nazifascista e della tenace difesa dei valori di solidarietà e dignità anche nelle condizioni più pesanti e avvilenti. Sono pagine fatte di niente, nel senso che non parlano di grandi avvenimenti o storiche decisioni, ma delle minori vicende quotidiane e delle tante scelte (piccole in sé, ma quanto pesanti tutte insieme!) di cui si componeva la vita dei soldati italiani nei Lager tedeschi. Pagine fatte di niente, eppure così straordinariamente capaci di evocare un’atmosfera e di rendere giustizia alla tenace resistenza quotidiana.
Giorgio Rochat
Ugo Dragoni, Fiaschi in Jugoslavia. Ricordi polemici della campagna di Grecia 1941-43, Alessandria, Il quadrante, 1983, pp. 215, lire 15.000.
Questo volume di memorie di guerra, scrive l’autore, era stato composto dando nomi fittizi a tutti i protagonisti; ma poi il desiderio di mettere in chiaro le responsabilità degli alti comandi (in apertura polemica con la relazione ufficiale dell’Ufficio storico dell’esercito sulla occupazione italiana della Jugoslavia) ha indotto l’autore a ripristinare i nomi autentici per colonnelli e ge
nerali, lasciando quelli di fantasia per gli ufficiali inferiori. Il volume va quindi letto a due livelli: da una parte la descrizione dell’ambiente degli ufficiali, dagli anni di preparazione (la cui inefficienza è ben descritta) a quelli di occupazione nella Jugoslavia settentrionale con un’efficace rappresentazione della guerriglia partigiana e una rivendicazione della capacità degli italiani di conservare rapporti cordiali con la popolazione. Dall’altra la denuncia amara e pesante della superficialità e inefficienza dei comandi, sia in occasione della nostra avanzata in Jugoslavia dopo le vittorie tedesche (giustamente ridimensionata, anzi distrutta sul piano militare), sia dinanzi alla guerriglia, sia al momento dell’8 settembre, quando tradimento e ignavia consegneranno ai tedeschi truppe disarmate e moralmente in crisi. Meritano rilievo la descrizione di una decina di colonnelli e generali, indicati appunto con nome e cognome, non tutti cinici carrieristi, a tratti anche ricchi di simpatia. Ma è l’apparato militare italiano, di pace e di guerra, che esce ridicolizzato da questo volume di un protagonista.
Giorgio Rochat
Pascal Molinari, Jean Louis P anicacci, Menton dans la tourmente 1939-45, Menton, Société d’art et d’histoire du Mentonnais, 1984, pp. 292, sip.
Le difficili vicende di Mentone nella seconda guerra mondiale (evacuazione della popolazione civile poi invasione italiana nel giugno 1940, tre anni di occupazione italiana e uno con i
tedeschi, poi ancora otto mesi sulla linea del fronte con bombardamenti aerei, navali e terrestri) sono ricostruite in questo volume con molta cura e equilibrio da Panicacci. La parte documentaria comprende una trentina di documenti e tabelle provenienti da archivi italiani e francesi, pubblici e privati; poi cinquanta fotografie assai interessanti; infine il diario 1941-45 di un alto funzionario cittadino, Molinari, utile come testimonianza delle preoccupazioni e degli orientamenti dell’opinione pubblica. Nella parte centrale del volume Panicacci offre un quadro generale del periodo bellico, molto ricco di informazioni (anche grazie all’utilizzazione di testimonianze orali), che documenta i sanguinosi costi dell’attacco italiano del giugno 1940 e la miope protervia della successiva dominazione fascista, ma anche contraddizione e ambiguità dell’occupazione tedesca con il ritorno delle autorità di Vichy, la sovrapposizione di comandi e politiche dopo l’arrivo degli alleati e dei gollisti, infine il difficile ritorno alla normalità. Un bel libro, utile come illustrazione della politica fascista di “italianizzazione” forzata di questo lembo di terra di confine.
Giorgio Rochat
Giorgio Rochat, Enzo Santarelli, Paolo Sorcinelli (a cura di), Linea Gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia) Milano, Angeli, 1986, pp. 722, lire 45.000.
Due anni fa a Pesaro si teneva il convegno inernazionale “Li
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nea Gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani”; ora ne vengono pubblicati gli atti. Nasce, così, un volume robusto ed articolato che, nelle intenzioni dei promotori del Convegno, oltre a contribuire alla conoscenza della seconda fase della guerra sul territorio italiano (estate 1944-primavera 1945) finora poco studiata, si pone come strumento culturale e didattico offerto agli studiosi e operatori culturali che vogliono pervenire a una più approfondita comprensione della realtà attuale e ad una formazione democratica dei giovani.
La notevole quantità di materiale (ventinove relazioni ed otto interventi che, in questa sede, è impossibile sintetizzare) è stata suddivisa in tre sezioni: Gli eserciti e la guerra, La gente e la guerra, La politica e la guerra, rispettivamente curate da Giorgio Rochat, Paolo Sor- cinelli ed Enzo Santarelli.
Rochat, in particolare, nel delineare linee e problemi della campagna d’Italia dal 1944 al 1945 ricorda che questa ebbe un ruolo notevole in termini politici e militari solo fino al giugno 1944, cioè fino a quando si presentava come il “secondo fronte” sul continente europeo ed aveva come principali obiettivi (peraltro raggiunti già nell’estate del 1943) la riapertura del traffico alleato nel Mediterraneo, la caduta del fascismo e la resa dell’Italia. Diversamente, dopo lo sbarco in Normandia e la liberazione di Roma, è il fronte francese a giocare un ruolo decisivo per le sorti del conflitto e qui, dunque, si concentrano gli sforzi maggiori dei belligeranti facendo passare in second’ordine la seconda fase
della campagna d’Italia nonostante l’opposizione di Churchill. Ed è proprio a questo punto che Rochat libera il campo da un primo equivoco: la posizione di Churchill che chiedeva un impegno deciso sullo scacchiere italiano in modo da portare le forze alleate a Trieste e Vienna prima di quelle sovietiche ed assicurare, così, la presenza inglese nella penisola balcanica, è stata vista, soprattutto dopo la guerra fredda, come una manifestazione di lungimiranza e saggezza politica contrapposta all’“ingenua fiducia” che Roosevelt riponeva nei sovietici. Rochat, invece, sostiene chiaramente che non di lungimiranza si tratta ma solo di un anticomunismo viscerale molto datato e sorretto da una concezione imperialistica ormai superata. E alla base dell’equivoco ci sarebbe proprio una insufficienza ed approssimazione degli studi sulla seconda fase della campagna d’Italia: le truppe sovietiche erano già massicciamente presenti nei Balcani nell’autunno del 1944 ed anche se gli alleati fossero arrivati a Trieste alla fine del 1944 non sarebbe stato affatto realistico ipotizzare un rapido proseguimento su Vienna senza compiere una arbitraria sottovalutazione delle capacità di resistenza delle divisioni tedesche. Capacità, peraltro, evidenziate proprio nel corso della campagna d’Italia. Veniamo, così, ad un secondo equivoco relativo, questa volta, al comportamento delle truppe in campo. “L’ammirato stupore suscitato nel 1944 dalla ricchezza dell’apparato logistico alleato [ha generato la leggenda] secondo cui il rendimento delle truppe tedesche, infe
riori in uomini e mezzi, sarebbe stato molto superiore a quello delle truppe anglo-americane”. Rochat, tuttavia, dimostra a sufficienza che la superiorità numerica di aerei, carri armati ed automezzi degli Alleati era in pratica compensata dalla possibilità dei tedeschi di compiere “una battaglia difensiva su posizioni naturali assai favorevoli” e ridimensionata dal particolare carattere di questo scontro che fu “essenzialmente una battaglia di artiglieria e fanteria”. Inoltre la superiorità, per quanto incontestabile, non era affatto tale da garantire una vittoria rapida e schiacciante poiché i comandi alleati, consapevoli della mancanza di obiettivi strategici rilevanti, conducevano la campagna con forze appena sufficienti a mantenere l’iniziativa.
Partendo dalla considerazione che mai in precedenza la popolazione civile italiana era stata coinvolta in modo così diretto nelle vicende belliche, Paolo Sorcinelli delinea il quadro generale e le possibili fonti, le metodologie e gli strumenti che possono evidenziare, sia pure in modo non ancora organico ed omogeneo, “situazioni, comportamenti e reazioni legati alle difficoltà e alla tragicità, strutturali ed esistenziali, di quei momenti”. Si tratta, in pratica, di un tentativo di uscire dagli schemi della storia politico-militare avendo come punti di. riferimento teorici da un lato l’esperienza delle Annales e dall’altro alcune esigenze metodo- logiche ed ipotesi di ricerca che Guido Quazza ha sottolineato da oltre un decennio. Studiando l’evento guerra in ambiti geografici ben delimitati e con
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l’apporto del patrimonio archivistico locale è possibile ottenere uno spaccato della vita sociale di fronte alla guerra (variazioni dei parametri di comportamento e forme di sopravvivenza, consumi, tecniche di produzione, mentalità e cultura, condizioni igienico-sanitarie, strategie matrimoniali) valido non solo come conoscenza di uno specifico contesto ma anche come possibile “proiezione” di un dato più generale.
Infine va almeno ricordato l’intervento di Enzo Santarelli che, utilizzando spesso fonti inedite, individua alcuni elementi di fondo del partigianato tra Marche e Romagna evidenziando da un lato come l’incidenza politico-militare aumenti mano a mano che si procede dal centro Italia verso il Nord e, dall’altro, come tale capacità politico-militare sia in qualche modo connessa anche ad una maggiore penetrazione e diffusione delle organizzazioni del movimento operaio prefascista.
Raffaele Messina
Antifascismo e Resistenza
Giovanni P adoan (Vanni), Un ’epopea partigiano alla frontiera fra due mondi, Udine, Del Bianco, 1984, pp. 533, lire 24.000.
“Vanni”, Giovanni Padoan, già commissario politico della divisione Garibaldi-Natisone, una delle più grandi unità garibaldine del Friuli e del resto d’Italia, operante nel Friuli orientale a ridosso della zona di incontro fra italiani e sloveni (gran parte delle stesse Valli del
Natisone a popolazione slovena rientrava nel settore garibaldino), ci dà in questo ampio volume un quadro complessivo non solo della resistenza in Friuli ma di alcuni aspetti della politica fascista fra le due guerre nelle nuove province annesse dopo il 1918, cioè la Venezia Giulia. Nella parte finale il volume tratta anche le fasi salienti del secondo dopoguerra nella regione fino all’ottobre 1954 quando, con il Memorandum d’intesa italo-jugoslavo patrocinato dagli angloamericani, le due ex Zone A e B del mai realizzato Territorio Libero di Trieste tornarono sotto l’amministrazione italiana e, rispettivamente, jugoslava.
Compito arduo anche per uno specialista, questo affrontato dal Padoan: sono trentasei anni di storia ricchi di fasi complesse e di tensioni e intrecci locali e internazionali: dalla lunga violenza nazionale e di classe praticata dallo stato fascista per liquidare ogni problema di “minoranze” nazionali entro i confini, alla graduale trasformazione della regione in piattaforma di lancio dei disegni espansionistici mussoliniani nell’area danubiano-balcanica fino allo sbocco tragico della guerra, dell’aggressione e smembramento della Jugoslavia accompagnata da nuove e collettive misure poliziesche e militari contro sloveni e croati giuliani, come l’autore sottolinea. La nascita e lo sviluppo al di qua del vecchio confine del 1940 di un movimento partigiano, quello sloveno in particolare, finisce col disgregare la barriera confinaria “saldando” sempre di più la realtà politica ed operativa giuliana a quella della Slovenia e Croazia.
“Vanni” ha costruito un libro che sta fra memoria e storia ed in cui più volte affiora l’ottica e la passione del militare comunista, della propria “drammatica esperienza individuale” (a cominciare dalla dura condanna subita dal Tribunale speciale), della “rivisitazione del passato proprio e del partito”, come scrive Quazza nella sua prefazione. Ma emerge anche la volontà di non servire passivamente la verità del partito “pur amando il partito”. In questo contesto non mancano giudizi schematici e polemici in cui la passione politica offusca talora la comprensione dei fatti. Giudizi che si ritrovano ad esempio là dove l’autore nel ricostruire le vicende della sua divisione par- tigiana, descrive i rapporti che essa ebbe con la brigata Osoppo diretta da militari “indipendenti” e uomini della De e del PdA, rapporti che furono unitari fino alla rottura sul problema sloveno e sulla scelta della Natisone di passare oltre Isonzo nella zona del IX Korpus sloveno per motivi politici oltre che militari.
La “centralità” della Natisone occupa uno spazio sproporzionato rispetto a quello dedicato al movimento garibaldino e osovano nel resto del Friuli. E della Natisone l’autore fa una puntigliosa difesa di fronte alle critiche coeve e successive dello stesso comando delle Garibal- di-Friuli di cui l’unità formalmente dipendeva. “Vanni” si preoccupa di spiegare la situazione in cui l’unità venne a trovarsi appunto “alla frontiera fra due mondi” e di ribattere alle accuse di cedimento alle pressioni e sollecitazioni, anche politico-ideologiche, del IX Korpus.
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Gravissime furono le perdite della Natisone durante questo ciclo operativo. Nel trattare questa tematica, ricca di luci e di ombre, l’autore alterna all’uso, talora impreciso, del documento quello del proprio vivace intervento testimoniale su problemi e vicende controversi.
Benché diviso in periodi cronologici, il volume risente in varie parti di questo intreccio fra memoria e storia con frequenti spunti autobiografici. Tuttavia malgrado questi limiti e la schematicità di certi giudizi, va a merito dell’autore di aver riproposto senza reticenze “diplomatiche” gran parte dei problemi della storia friulana e giuliana della guerra e del dopoguerra, anche quelli che furono spesso considerati “scomodi” dal suo stesso partito, per non parlare della pubblicistica e storiografia jugoslava. Solo a titolo di esempio ne ricordiamo alcuni: dall’eccidio di Porzùs dove un reparto “gappista” eliminò di sorpresa il comando della I brigata Osoppo agli accesi dibattiti e tensioni con l’integralismo nazionale e territoriale del movimento sloveno e croato, dalle deportazioni e uccisioni di italiani da parte jugoslava nel maggio-giugno 1945, all’esodo di massa dall’Istria della popolazione italiana nel dopoguerra. Problemi e nodi in parte ancora storicamente emarginati o rimossi per il prevalere di ragioni ed esigenze politico-ideologiche che hanno per molti anni duramente ostacolato o condizionato la ricerca storica al di qua e al di là del confine.
Galliano Fogar
Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa. Naia guerra re
sistenza, Udine, Omnia Press, 1986, pp. 282, lire 20.000 (Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione).
Queste pagine di guerra e di lotta partigiana di Mario Candotti, nato nel 1915 ad Ampezzo (che fu nel 1944 la “capitale” della Zona libera di Carnia, la più estesa delle zone libere parti- giane), ripercorrono con immediatezza e sincerità umana e culturale, uno dei tragici itinerari della gente carnica e di quella folta schiera di giovani che le guerre d’Albania e di Russia prima e quella partigiana poi, decimarono crudelmente. Studente universitario, uscito dal corso allievi ufficiali nel 1939, Candotti, sulla spinta di quella solidarietà alpina che è tratto caratteristico della gente della montagna — una montagna povera e sfruttata ed ancora oggi carica delle pesanti “eredità” delle guerre, emigrazioni e di una lunga emarginazione sociale ed economica — volle seguire le sorti della divisione alpina “Julia” dove la presenza dei camici e friulani era preponderante. Una scelta che al di là delle ingenue illusioni di molti giovani della generazione del “littorio”, ignari o semplicemente fiduciosi nelle ragioni di una guerra contro le potenze “ricche”, aveva, nel giovane ufficiale Candotti e in molti altri suoi colleghi, un particolare valore morale e sociale: il voler cioè stare con la propria gente, con i contadini, operai, montanari, fra i quali Candotti si riconosceva e con i quali volle condividere rischi, sofferenze, comunanza di vita e di destini. Perciò la sua è anche una testimonianza di quel faticoso processo intel
lettuale ed esistenziale che portò a maturazione 1’“antifascismo di guerra” che fu una delle componenti più importanti della resistenza partigiana.
Il trauma dell’armistizio provoca nel reduce della tragica ritirata di Russia (“lunghe ore di marcia nel freddo crudele della notte: nessuno ha desiderio di parlare, ognuno è immerso nei suoi pensieri, neri come la notte”), sentimenti carichi di amarezza e disgusto di fronte al contegno della gente: “pare incredibile tutti son contenti... non pensano che abbiamo capitolato... che siamo in balia di forze avverse... Povera Italia!” E di fronte allo “sfacelo dei nostri” Candotti, non ira e sconforto rifiuta “un mondo svanito per me nel passato col quale non voglio più avere contatti”. Li avrà invece e in termini rovesciati, combattendo contro quel “passato” e per un mondo diverso.
Dalla psicosi della disfatta emerge però vigoroso il senso di rivolta contro le violenze tedesche e fasciste. I tedeschi “sono rimasti quelli che ho conosciuto in guerra”, vili e crudeli contro le popolazioni inermi. Contro i tedeschi e contro “i repubblichini loro servi... Non si può e non si deve più aspettare. Ognuno deve prendere le armi!”. Come molti altri alpini camici Candotti rompe gli indugi ed entra nella Garibaldi Friuli. Diventa il popolare “Barbatoni”, comandante del battaglione “Carnico” e poi, poiché la sua esperienza militare nel movimento che ha bisogno di quadri esperti, comandante della brigata Garibaldi Val But. “Barbatoni” che resta “apartitico”, si guadagna l’affetto e la stima dei dirigenti comunisti della Garibaldi-Friuli.
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Il diario partigiano scorre veloce e senza orpelli attraverso battaglie, spostamenti, riunioni operative, fino ai grandi attacchi nazifascisti che dall’ottobre al dicembre 1944 scardinano la Zona libera. Cadono comandanti amati per il loro valore ed umanità, cadono giovani e giovanissimi partigiani, imperversano feroci rappresaglie, bruciano i paesi, si insediano in Carnia le truppe cosacche di Domanov e Krassnoff. La situazione di grave crisi costringe le Garibaldi e le Osoppo a “pianurizzare” una grossa parte delle loro unità per sottrarle alla distruzione. Nel gennaio 1945 Candotti è nominato comandante della divisione Garibaldi-Carnia.
“Tutto quello che ho fatto dal 1939 al 1945 — conclude Barba- toni — per la mia Patria, la mia gente, la mia terra, l’ho fatto con la coscienza piena di aver compiuto il mio dovere di uomo, di cittadino, di italiano” . Un tragico incidente spegneva la sua vita I’ll maggio 1985.
Galliano Fogar
Aa .Vv ., La Resistenza ne! Veneziano, a cura di Giannantonio Paladini e Maurizio Reber- schak, 2 voli., Venezia, Stamperia di Venezia, 1985, pp. 544 e 606, sip (Istituto veneto per la storia della Resistenza).
È ormai acquisizione storiografica consolidata la necessità di leggere le vicende della Resistenza all’interno dell’esperienza complessiva della seconda guerra mondiale e altresì di collocare la crisi italiana del 1943-1944 nell’arco lungo delle trasformazioni sociali ed economiche del
paese, mentre è sicuramente cresciuta l’attenzione ai più diversi momenti, alle sfaccettature più complesse dei primi anni quaranta.
In questo filone certamente si collocano — sia pur con qualche scompenso e con qualche interna contraddizione — i due volumi La Resistenza nel Veneziano, pubblicati per iniziativa dell’Istituto veneto per la storia della Resistenza, dell’Università e del Comune di Venezia. Il primo volume, che ha come sottotitolo La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, propone un ricco ventaglio di saggi cui si collegano non superficialmente i documenti raccolti nel secondo volume.
Un primo gruppo di scritti (di Giuseppe Tattara, Francesco Piva, Maria Dri, Bruna Bianchi) è dedicato alle trasformazioni che segnano la provincia fra le due guerre e ipotecano in qualche modo la fase successiva, con attenzione anche (soprattutto nei saggi di Maria Dri e Bruna Bianchi) ai processi specifici innescati dall’economia di guerra.
Il punto d’avvio comune è costituito dall’ossVrvazione di Tattara secondo cui “il problema della formazione di una grande industria di base nella provincia di Venezia, il declino del centro storico, le vicende dell’agricoltura veneziana, così come il problema della periodizzazione stessa di questa evoluzione, hanno trovato un’inquadramento solo molto generale da parte degli studiosi di storia veneta”.
Dai saggi indicati giungono indubbiamente stimoli e apporti conoscitivi importanti, e di particolare interesse sono — per fa
re solo un esempio — alcune chiavi di lettura che percorrono iT saggio di Francesco Piva sull’agricoltura e la società rurale. Trovano qui conferme e arricchimenti gli studi che già da tempo hanno richiamato l’attenzione sulle trasformazioni che tra le due guerre attraversano alcuni settori agricoli e sui processi di modernizzazione che pur si hanno nelle tecnologie produttive e nei metodi di coltura in alcune aree (prevalentemente nel settentrione e quasi esclusivamente nelle grandi aziende capitalistiche). Risulta altresì confermato il quadro generale in cui quei processi si inscrivono, con raggravarsi della precarietà della piccola azienda contadina, il peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro e di vita dei braccianti e dei contadini poveri, le molteplici conseguenze della riaffermata “autorità” padronale. Le pagine dedicate a questi aspetti sono indubbiamente puntuali, anche se — va rilevato — il saggio di Ernesto Brunetta pubblicato nello stesso volume sembra sottolineare maggiormente alcuni elementi che nel veneziano tendono a “rendere meno dure le condizioni di vita delle masse contadine”. È la parte conclusiva del saggio che si segnala però in modo particolare: in essa Piva mette a confronto in modo problematico la qualità e lo spessore delle agitazioni contadine del “biennio rosso” e del secondo dopoguerra, misurandosi con questioni complesse e troppo spesso eluse o liquidate in modo sommario.
Sulla Resistenza vera e propria si sofferma, oltre al già citato saggio di Ernesto Brunetta, il contributo di Cesco Chinello,
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volto a ricostruire le caratteristiche delle agitazioni operaie del 1943-45 a Marghera e a leggerle non come conclusione di una fase quanto come “innesco di massificazione del ciclo di lotte rivendicative/politiche che subito dopo il 25 aprile si avvia in questa zona industriale”.
Ad alcune particolarità dell’esperienza di Venezia (e anche ad alcuni aspetti specifici della Rsi) si riconduce il penetrante contributo di Carlo Fumian su Venezia “città ministeriale” (1943- 45), mentre a partire dalle vicende del quotidiano “Il Gazzettino” e della Sade (Società adria- tica di elettricità) Maurizio Re- berschak ci dà ulteriori elementi per la valutazione di quei complessi processi che riqualificano, all’insegna di una sostanziale continuità, gruppi dirigenti e forme di potere.
Il primo volume è completato dai saggi di Giannantonio Paladini (sulle istituzioni culturali fra la fine degli anni trenta e l’immediato dopoguerra), Silvio Tramontin (sulla Chiesa veneziana) e Paolo Sereni (sulla comunità ebraica a Venezia durante il fascismo), mentre il secondo (.Documenti) propone — come si è detto — una utile antologia di documenti curata da Maurizio Reberschak.
Guido Crainz
Domenico De Napoli, Silvio Bolognini, Antonio Ratti, La resistenza monarchica in Italia (1943-1945), Napoli, Guida, 1985, pp. 227, lire 25.000.
Il volume è composto da tre diversi saggi: il primo, a carattere introduttivo, di Domenico De
Napoli La monarchia dalla crisi del liberalismo all’8 settembre', gli altri due, più propriamente di indagine, rispettivamente di Antonio Ratti L ’attività delle formazioni partigiane e di Silvio Bolognini I contenuti dottrinari della resistenza legittimista.
È proprio il primo saggio, quello di De Napoli, a chiarire gli intenti principali del lavoro. La storiografia “ufficiale” non è ancora riuscita, a giudizio dell’autore, a superare quelle passioni e quei pregiudizi che hanno condotto a un fenomeno di “lottizzazione ideologica e partitica della guerra di liberazione”, impedendo di conseguenza un approccio scientifico al problema della Resistenza. Vittima principale di questa prevalente storiografia sarebbe, a parere di De Napoli, la presenza legittimista nella guerra antinazista, poiché generalmente ignorata o, peggio, relegata “nell’etereo calderone degli autonomi” nel quale smarrirebbe la propria specifica identità.
La resistenza monarchica in Italia si propone di delineare i presupposti per una successiva e sistematica analisi della presenza monarchica nella guerra di liberazione, approntando così i primi strumenti in vista di una più organica revisione storiografica. Ma, prima che nella storiografia, nel prevalere di quella “logica partitocratica” adottata dai Comitati di liberazione nazionale, che non consentì, fatte salve alcune eccezioni, di dare rilevanza alla scelta istituzionale che, secondo la singolare convinzione dell’autore, “per sua natura, prescinde dalle particolari differenziazioni di natura politica, ideologica o culturale” (p. 10).
Nel contesto storico-politico italiano il rapporto tra guerra di liberazione e istituto monarchico ha assunto, di conseguenza, sia nella realtà che nella storiografia, connotati peculiari rispetto a quelli di altri paesi (Norvegia, Danimarca e Belgio), caratterizzandosi soprattutto per una diffusa polemica antimonarchica, basata sulla denuncia della collusione storica tra Corona e fascismo, particolarmente analizzata da De Napoli.
Due ordini di motivi, secondo Antonio Ratti, autore del secondo saggio, sarebbero all’origine del mancato riconoscimento del reale apporto dato alla Resistenza da quanti — uomini e formazioni, ma soprattutto militari rimasti fedeli al giuramento prestato al re — intesero la lotta partigiana “un dovere verso la Nazione e, pertanto, la funzione antitedesca prevalente su quella politica e, più specificamente, partitica”. Innanzitutto, una storiografia “ufficiale” alquanto faziosa, la quale relega nell’indistinto campo degli autonomi o badogliani coloro che non si erano lasciati “etichettare o attribuire alcun partito rappresentato nei vari Cln”. In secondo luogo, i gruppi monarchici che avevano partecipato alla Resistenza, non avendo legami partitici, non potevano basarsi, secondo Ratti, su quella organizzazione che invece i partiti (alcuni partiti) avevano mantenuto anche durante il periodo della clandestinità. Ciò premesso è intenzione dell’autore produrre una dettagliata analisi dei gruppi resistenti monarchici, tenendo conto sia della dimensione territoriale ove operavano, sia dei diversi tipi di formazioni
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resistenti. In realtà, si rende immediatamente evidente una certa incongruenza tra lo scopo del saggio e il metodo adottato. Le fonti utilizzate sono quasi esclusivamente bibliografiche e, all’interno di questa caratteristica generale, spicca un uso acritico della memorialistica.
Il saggio di Silvio Bolognini terzo ed ultimo nell’ordine del volume, prende in considerazione aspetti e questioni della resistenza monarchica, il cui studio chiama in causa altre discipline più che quella propriamente storiografica, e principalmente la filosofia del diritto, la dottrina dello Stato, la filosofia politica, l’antropologia, il diritto costituzionale. Scopo dell’autore è, infatti, quello di indagare il contributo dottrinario dato alla Resistenza da uomini, partiti e formazioni catalogabili come monarchici e legittimisti. Il lavoro, svolto quasi esclusivamente sulla stampa (giornali, opuscoli, foghi delle formazioni), si articola in diversi piani di indagine: innanzitutto, in una approfondita disamina delle diverse componenti dottrinarie che attraversano l’area della resistenza filolegittimista; in secondo luogo, in un’analisi dei differenti atteggiamenti assunti nei confronti del problema del referendum istituzionale;infine, nella riflessione sulle influenze prodotte dalle tesi filomonarchiche sulla successiva evoluzione costituzionale dello Stato italiano.
Meno chiare, infine, risultano le considerazioni dell’autore sulle influenze che le tesi filo- monachiche avrebbero avuto sulla Costituzione italiana. Quest’ultima, secondo Bologni
ni, si presenterebbe come una “documento altamente compromissorio”, le cui formulazioni rimanderebbero a “concezioni teorico-dottrinarie di fondo a loro volta solidali con una antropologia liberale, con una sociahsta e con una persona- lista”.
Salvatore Minolfi
A dolfo Scalpelli, Il generale e il politico. La disarmonia del potere nel Comando Piazza di Milano (1944-45), Milano, Angeli, pp. 192, lire 16.000 (Istituto milanese per la storia della Resistenza e del movimento operaio).
Che la Resistenza sia stato un grande fatto unitario è fuori discussione. Assai meno accettabile è invece quella visione edulcorata e agiografica (e alla fine storicamente scorretta) secondo la quale l’unità delle forze resistenziali sarebbe stata un dato scontato in partenza, spontaneo, automatico, acquisito una volta per tutte.
Una concezione, questa, strumentale e spesso scorrettamente usata per fini di parte, che comunque per tanto tempo ha avuto non poca fortuna. Eppure, come ha scritto Guido Quaz- za, “non c’è altro fatto nella storia italiana del nostro secolo che meglio abbia insegnato, alla luce della tragedia più grande, insieme la distinzione e la collaborazione”.
Se è vero che l’unione delle forze era la condizione prima di ogni possibilità di esistere e di vincere, quella della Resistenza fu un’unità conquistata duramente, attraverso contrapposizioni non irrilevanti, tra diffe
renze fortissime e accesi contrasti. Lungi dall’essere un’improvvisa rivelazione, l’unità raggiunta fu un dato sempre precario, difeso e riconquistato soltanto con compromessi mu- tevoli e mutevoli rapporti di forza.
Alla luce di queste considerazioni e prima ancora che per l’originalità del tema di ricerca (la vicenda dei vertici militari del movimento di hberazione è, infatti, almeno a livello locale, ancora in gran parte da ricostruire), merito del lavoro di Adolfo Scalpelli è soprattutto quello di aver saputo offrire al lettore, facendo giustizia di abusati e fuorvianti luoghi comuni, uno spaccato davvero illuminante di un fenomeno articolato, complesso e non privo di profonde contraddizioni quale è stata la lotta di hberazione.
Dalla puntuale e minuziosa ricostruzione della vicenda di un organismo come il Comando Piazza di Milano, letta dal suo interno documento per documento, esce certamente una storia palpitante di impegni e di sacrifici, di eroismi e di oscuro e paziente lavoro per la costruzione di un efficace movimento di hberazione della città. Ma se alla fine le energie in campo seppero sommarsi e non elidersi vicendevolmente e gli obiettivi unitari vennero raggiunti senza distinzione di simboli e colori, la breve esperienza dell’organismo di direzione militare è costantemente segnata da polemiche, da scontri, da fratture laceranti (basti pensare al cosidetto “caso Marcello”), da dispute accese, da divisioni profonde, da reciproca sfiducia fra molti suoi componenti.
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Alieno tanto da ogni retorica celebrativa quanto dal facile gusto della dissacrazione, Scalpelli propone al lettore, con scrupolo scientifico, una chiave di lettura stimolante e sovente impietosa della più generale vicenda milanese di quegli anni, dimostrando, documenti alla mano, quanto “la Resistenza stessa sia stata faticosa, dolorosa, sofferta all’interno degli stessi organismi che l’hanno condotta e diretta”.
Il Comando Piazza di Milano nasce nell’agosto del 1944 in un momento — sottolinea l’autore — di piena maturazione del movimento resistenziale e la sua costituzione appare indubbiamente come “un passo rilevante sulla strada dell’amalgama fra forze militari e politiche che sembravano essersi arroccate sulle due sponde opposte di un invalicabile fossato”. Emanazione diretta dal Cvl, dotato quindi di autonomia e di collegamenti politico-operativi diretti, composto da elementi senz’altro di primo piano per esperienza e capacità (fra gli altri, Busetto, Liberti, Vaia, Giuliano Pajetta, Sergio Kasman), il Comando Piazza sa dimostrare fin dall’inizio una buona dose di vitalità. Sfruttando anche i margini offerti dalla tardiva nascita del Cln milanese, esso non si riduce mai al rango di “araba fenice”.
Quel che tuttavia il Comando non è in grado di esercitare è un ruolo di autentico motore trainante del complesso mondo resistenziale milanese. Nelle pagine forse fra le più stimolanti del libro, Scalpelli ne attribuisce le ragioni al fatto che “in città esisteva da tempo una struttura clandestina di formazioni militari oltre che di organizzazioni
politiche che il Comando Piazza non potrà mai assorbire interamente anche se gli verranno messe a disposizione alcune forze”. Costretto ad ereditare compiti cui altri organismi avevano rinunciato (quando, beninteso, vi rinunciarono), il Comando era il più delle volte ridotto a mettere il timbro ad azioni decise, organizzate o realizzate da altri. Le formazioni rimasero sempre e comunque legate solo ai partiti che le ispiravano. Del resto, in posizione preminente all’interno del Comando erano uomini designati dai partiti. Furono loro ad assumere compiti squisitamente militari e a ridurre il Comando Piazza a un punto d’incrocio dell’attività e del lavoro dei singoli partiti, causa non ultima di tanti scontri, polemiche e screzi sugli indirizzi e sui metodi che trovavano origine in sede politica. Era la riaffermazione netta del primato di quest’ultima, anche se all’interno del Comando milanese l’equilibrio tra il “generale” e il “politico”, pur soggetto sovente a tensioni e a pesantezza di rapporti, non giungerà mai a stadi di rottura (così come avvenne, ad esempio, a Torino).
Fortemente inibito nei suoi compiti di direzione e di coordinamento della lotta clandestina, il Comando Piazza rivolge così i suoi sforzi maggiori alla preparazione del piano insurrezionale per la città di Milano. Era questo, in effetti, lo scopo istituzionale che l’organismo si era attribuito fin dalla sua nascita. Il piano (il terzo in ordine di tempo) predisposto nel febbraio del 1945, fin troppo particolareggiato e minuzioso, non ebbe molta fortuna. Prima ancora di essere superato dagli
eventi, esso fu impugnato e duramente contestato ai vertici del movimento di liberazione. Anche 'nella battaglia insurrezionale finale “il politico” rivendicava dunque a se stesso il ruolo di direzione. L’esito dell’insurrezione e, più ancora, lo sbandamento all’interno del Comando Piazza in quei giorni decisivi (che porterà, tra l’altro, alla sua fine ingloriosa), sembrano indicare che la strada non poteva essere diversa. Ciò non toglie che, al di là del tono marcatamente militare e della miriade di particolari ingombranti e farraginosi, quel piano seppe indicare senza equivoci nell’insurrezione armata e popolare il fine strategico e il momento conclusivo della lotta di liberazione. Era questa una fondamentale indicazione metodologica e, insieme, la testimonianza della complessa maturità di un movimento che anche un organismo come il Comando Piazza, nella sua pur breve e contrastata esistenza, aveva contribuito a consolidare.
Pierangelo Lombardi
Monumenti alla Resistenza in Europa. Catalogo della mostra, Brescia, 14 dicembre 1985-27 aprile 1986, Milano, Vangelista, 1985, pp. 214, sip.
Nello sfogliare il bel catalogo della recente mostra bresciana, viene spontaneo chiedersi se la piccola lapide collocata nella discreta suggestione dello scenario naturale non sia sovente in fondo “monumento” più convincente della retorica statuaria che inevitabilmente tende a prevalere nella memoria ufficiale di
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quella che fu forse, nel suo farsi, l’epopea più consapevolmente antiretorica della storia d’Europa. Ma numerose sono poi le eccezioni che riconciliano con l’idea tradizionale del monumento, vuoi nella dimensione più raccolta del singolo manufatto scultoreo, vuoi nell’amplificazione architettonico-paesi- stica del grande complesso monumentale: e basterà ricordare qui, tra i molti esempi proposti dai curatori, le intense prove di Picasso, Manzù, Marini e Zad- kinde, accanto alle straordinarie combinazioni plastico-paesistiche di Tjentiste, Kaunas e Auschwitz. Merito non ultimo della mostra bresciana, e del catalogo che ne è scaturito, è anche quello di commentare con ampiezza di orizzonti e intelligenza di scelte la grande varietà di stili, tecniche e ispirazioni che fa dei monumenti alla Resistenza non solo un’eloquente testimonianza di valori essenziali, forse oggi appannati e tuttavia irrinunciabili, come ricorda Mario De Micheli nel suo scritto introduttivo, ma anche uno spaccato significativo dell’arte contemporanea nelle sue meno effimere manifestazioni.
Vittorio De Tassis
La Resistenza in provincia di Varese. Il 1945, a cura dell’Istituto varesino per la storia della resistenza e dell’Italia contemporanea, Angeli, 1986, pp. 412, sip.
Con questo terzo volume dedicato al 1945 si conclude il lavoro di ricostruzione che l’Istituto varesino per la storia della resistenza e dell’Italia contemporanea ha dedicato alla Resi
stenza in provincia di Varese. Una fatica davvero encomiabile, che finisce per fornire ai ricercatori e agli appassionati prezioso materiale di studio e di riflessione.
Capita oggi di interrogarsi, forse ancor più attentamente che non un tempo, sul nostro passato. Alla storia — più o meno recente — chiediamo di aiutarci a capire meglio il presente e cambiare quel che c’è da cambiare. Ci sono poi nella storia del nostro paese momenti e vicende che, più di altre, per il loro significato rilevante e attuale non possiamo assolutamente riporre negli archivi della memoria. Fra questi, la Resistenza. Essa ci costringe a fare i conti, nolenti o volenti, con affinità e differenze rispetto alla realtà che noi ogni giorno viviamo e la sua “spinta propulsiva” non è ancora venuta meno. Certo, sono passati quarant’anni. Il mondo è profondamente cambiato e con esso l’Italia. Ma è appunto alla luce di queste profonde trasformazioni che una rilettura della Resistenza è sempre attuale se non la si vuole considerare soltanto un momento, sia pure glorioso, della storia italiana da collocare in una sorta di museo dei grandi eventi, ma invece uno strumento attraverso il quale operare per costruire una migliore e più matura coscienza etico-civile. Una valenza, questa, che ci pare ben presente nei curatori e promotori dell’articolato progetto varesino. Nel panorama di una produzione locale sulla Resistenza, tanto vasta quantitativamente quanto eterogenea e disuguale sul piano qualitativo, non si può non riconoscere al volume in esame alcuni ben precisi titoli di merito.
Innanzitutto l’importanza che assume una nuova ricerca, scientificamente corretta, condotta su scala locale. Come, infatti ben sottolinea Luigi Ambrosoli nella ampia e documentata prefazione, un profilo completo della Resistenza non potrà emergere se non dal confronto fra le molteplici esperienze che hanno concorso a caratterizzarla nelle diverse, specifiche realtà locali. E molte ancora ne mancano. L’aver privileviato, poi, la raccolta documentaria rispetto alla forma monografica testimonia della serietà (anche metodologica) dell’approccio a un tema che per la sua complessità richiede evidentemente ancora approfondimenti e ricerche sul campo. Con questo non si vuol dire, beninteso, che il volume non offra già chiare linee interpretative generali. I documenti, le note esplicative agli stessi, i brevi saggi, le testimonianze, le indicazioni archivistiche e bibliografiche offrono un affresco ben assortito e certamente stimolante di un anno decisivo di storia varesina.
Attenti al vivace dibattito in corso sui rapporti fra storia locale e nazionale, i curatori, molti dei quali hanno già affrontato altrove con sicurezza e mestiere le vicende della provincia, sanno evitare ogni caduta nel campanilismo e nel localismo per inserire, al contrario, le vicende in esame, con tutta la loro specificità, nella più ampia trama regionale e nazionale (ne fa testo, per tutti, il saggio introduttivo di Simona Colarizi).
Il campo d’indagine assunto pare sufficientemente articolato e, quel che più conta, si è saputo andare ben al di là di quei rigidi termini cronologici della resi
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stenza armata che spesso limitano respiro e analisi. In qualche caso si è opportunamente sconfinato nel 1946 (si vedano i saggi di Pietro Macchione sul governo del popolo e sulle elezioni amministrative) a conclusione di un ciclo, apertosi con la liberazione, che una scelta diversa avrebbe finito col lasciare sospeso a mezz’aria.
Quasi tutti i temi di fondo di una vicenda estremamente ricca e complessa, com’è quella dell’anno della liberazione, sono affrontati con maggiore o minore dovizia di particolari, ma sempre con buon mestiere (dalle operazioni repressive della fase finale della lotta; dall’organizzazione sul piano militare e dalle speranze dei primi mesi di libertà agli irrisolti nodi sociali, economici, giuridici del dopoguerra).
Lo spazio non ci consente di dar conto in questa sede in modo analitico dei contenuti del volume. Basti dunque ricordare che la presentazione della raccolta di documenti sul movi-
f
mento di liberazione in provincia e sulla versione fascista degli avvenimenti sono di Luigi Am- brosoli; che a Pierluigi Galli e a Gianni Perna si devono rispettivamente le parti relative a Gallarate e al clero nei suoi rapporti con il movimento di liberazione; che Maurizio Belloni è l’autore del saggio sull’insurrezione a Varese. Completano la raccolta il ricordo di Ettore Albini e di Leopoldo Gasparotto, rispettivamente di Robertino Ghirin- ghelli e Luigi Ronza, le testimonianze di Domenico Bulferetti e di Mario Talamona, le importanti e ricche note archivistiche di Andreina Bazzi e di Pierluigi Piano sull’archivio del Cln pro
vinciale di Varese e sulle fonti archivistiche per l’anno 1945 conservate presso l’Archivio di Stato locale.
Pierangelo Lombardi
G iorgio Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Genova, Cassa di Risparmio di Genova e d’Imperia, 1985, 3 voli., pp. 2.000, sip.
Comparse nel 1965 con un volume che giungeva all’aprile 1944 (v. n. 82/1966 di questa rivista), proseguite con altro tomo fino al settembre 1944 (cit., n. 96/1969), queste Cronache di Gimelli parevano abbandonate per sempre. E invece riec- cole improvvisamente nel 1985 non solo completate ma in gran parte rielaborate e riscritte oltreché in nuova veste tipografica in tre volumi di cui l’ultimo di sola documentazione. Né il tempo trascorso né qualche progresso verificatosi frattanto anche negli studi sulla guerra partigiana, ci sembrano togliere alcunché all’interesse, all’utilità e — diremmo persino — alla “freschezza” del lavoro. Nonostante vari ampliamenti e la mole delle parti nuove, l’autore ha giustamente mantenuto il titolo Cronache adatto a un’ordinata e spesso minuta rassegna di fatti assistita da vario grado di documentazione. Ciò beninteso non significa che vi manchino giudizi critici anche palesi, ma solo che essi sono contenuti e soprattutto molto “aperti” cioè formulati in modo da richiamare l’attenzione del lettore su aspetti opinabili e non sufficientemente documentati, talora con esplicito invito a rendere
pubbliche carte ancora racchiuse in archivi privati. Interpretazioni più pronunciate su alcuni temi cruciali (ad esempio ruolo dei commissari politici, mancata avanzata degli Alleati dalla Provenza nell’estate 1944, proclama Alexander, dissidi con gli inglesi sulla politicizzazione delle formazioni) sono affidati all’Introduzione, opera di altro studioso. Che i concetti di questa siano condivisi dall’autore sembra evidente al momento che sono posti in apertura del lavoro (incidentalmente anche il recensore ne condivide alcuni), ma altrettanto importante ci sembra il fatto che la collocazione esterna e indipendente aiuta a conservare nel testo la puntigliosa aderenza al documento e all’apporto testimoniale. L’estrema importanza della Liguria nella guerra partigiana difficilmente potrà essere esagerata. Considerando solo la famosa 6a zona operativa e lo Spezzino (4a zona) e prescindendo dai segmenti di importanti rotabili che restavano per lungo tempo incluse nelle “zone libere” (luglio-agosto e ottobre-novembre 1944, poi marzo-aprile 1945), una continua offesa veniva portata su vitali fasci di comunicazioni tedesche: l’Aurelia tra Genova e La Spezia; la strada statale n. 10 Tortona-Stradel- la-Piacenza e parte della via Emilia (queste due ultime battute sia dalle forze dell’Oltrepò Pavese anch’esse dipendenti dal comando ligure sia dalle contigue formazioni del Piacentino, 13a zona); infine la strada allora provinciale del Bocco, che anzi era sorpassata dalle forze spezzine le quali spalleggiavano i partigiani parmensi e quelli della Lunigiana direttamente
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proiettati sulla Cisa. Furono proprio quei continui attacchi al traffico nemico a provocare, oltre a numerosissime puntate a carattere locale, i due grandi rastrellamenti: quello di fine agosto 1944 (attacco concentrico da Liguria, Tortonese e Oltrepò di 5-6.000 uomini fra tedeschi, divisione “Monterosa” e varie formazioni fasciste); e, ancor più terribile, quello invernale protrattosi per oltre settanta giorni (23 novembre 1944-primi di febbraio 1945) condotto dalla 162° divisione “Turkestan”, da altri reparti tedeschi, da aliquote della divisione “Italia” e dalle solite milizie fasciste. Due prove che partigiani e popolazioni, pur con dolorose perdite, riuscirono a superare. La prima in pochi giorni perché il nemico aveva quasi subito ritirato il grosso delle forze lasciando presidi numericamente forti ma sensibili alla corrosione parti- giana perché consistenti di reparti alpini della “Monterosa” che disertarono a migliaia unendosi in parte alle formazioni garibaldine e G.L. La seconda riuscendo a non sciogliere mai del tutto i reparti e adeguandosi alla nuova tattica nemica: non più colonne pesanti e procedenti lungo i fondovalle come in agosto, ma azione di nuclei veloci, quasi privi di impedimenta, e tendenti a spostarsi per le creste. I partigiani liguri seppero trarre utili lezioni da queste esperienze giungendo nella fase finale del marzo-aprile 1945 (che però allora non era affatto certo fosse davvero “finale”) ad evitare l’occupazione stabile dei fondo- valle e dei relativi centri. Anche dopo lo sgombro dei rastrellato- ri, essi seppero organizzare un’abile sorveglianza indiretta
ed elastica. Quanto precede non significa bininteso che i partigiani delle altre formazioni liguri, imperiesi e savonesi, avessero compiti molto meno importanti. Questi anzi sarebbero divenuti decisivi se fosse stato vero quel che Radio Londra proclamò apertamente il 2 settembre (ripetendo poi nei giorni seguenti) e cioè che una “colonna” delle loro truppe, sbarcate senza contrasto in Provenza (op. “Anvil”), muoveva decisamente sulla direttrice di Ventimiglia (anche il sottoscritto ricorda con precisione il messaggio trasmesso “in chiaro” come accadrà più tardi anche col famoso e tanto discusso proclama Alexander del novembre 1944). Mancò poco che le formazioni dell’intera Liguria si avvicinassero scopertamente e pericolosamente ai grandi centri costieri e urbani. Proprio da quei giorni datano infatti i primi piani d’insurrezioni e occupazioni cittadine che diverranno attuabili solo nella primavera 1945. Rispetto ai precedenti volumi queste Cronache, oltre ad arricchire con nuovo materiale gli eventi già trattati contengono tutta la storia del rastrellamnto invernale e della ripresa primaverile. Come in precedenza, e forse di più, esse non schivano gli episodi ingrati e difficili, come ad esempio i due disarmi inflitti nell’estate 1944 alla brigata G.L. Matteotti, l’unica formazione non garibaldina della VI zona, nonché i violenti contrasti che, a poche settimane dalla liberazione, divisero in modo grave e non del tutto rimediato Bisagno, il prestigioso comandante non comunista dalla “Cichèro”, da altri capi di matrice comunista. Ma — come detto all’inizio — uno dei pregi del lavoro è quello di
non tacere nulla ma di offrire le carte a disposizione dell’autore, sempre suscettibili di essere completate e magari contraddette da altre. Siamo lontani da ogni spirito celebrativo anche se non c’è mai posto per una distaccata indifferenza. Ammesso che tale indifferenza possa mai esistere ed essere di una qualche utilità, essa non potrà comunque chiedersi a chi abbia vissuto di persona la stagione 1943-1945 sui monti del Nord Italia. A tacer d’altro, quel tempo ha una caratteristica che nessuno potrà mai negare: quella di non essere stato minimamente prevedibile non solo nel 1942, ma nemmeno per tutto il 1943 e per i primi mesi del 1944. Accennando ora al metodo di Gimelli, non ci sembra nuoccia il fatto di avere proceduto, almeno in gran parte, su documenti a propria privata disposizione dal momento che essi, come assicurano le note introduttive, “sono stati consegnati all’Istituto Storico della Resistenza in Liguria”. Né lamenteremo il fatto che di tali documenti non sia data una collocazione archivistica che non poteva esistere prima del versamento, ma che certo ora esisterà o sarà prossima ad esistere. Chi abbia una conoscenza anche minima di tante vicende parti- giane belliche e post-belliche non si meraviglia affatto di questo stato di cose e si augurerebbe anzi di trovarsi sempre in presenza di una documentazione resa disponibile e quindi verificabile oltreché suscettibile di compieta- menti, come Gimelli auspica. Né ci formalizzeremo per un certo numero di refusi fastidiosi ma tutti perfettamente correggibili da chi legge, e nemmeno per altri piccoli difetti esterni come quello di non aver riservato il “cor
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po minore” alle sole citazioni di documenti e di averlo esteso anche a parti di testo con qualche effetto di confusione. Quanto poi all’opinabilità di vari apprezzamenti, grandi e piccoli, oltre a non costituire in nessun modo un difetto, essa riflette bene taluni importanti caratteri della guerra partigiana (preferiamo non chiamarla “Resistenza” perché in genere assai diversa dall’esperienza francese nonché alla prima “resistenza” italiana, quella lombardo-veneta del 1849-1859 appunto allora così chiamata) che, ancor più di altre vicende, fu un intreccio di fatti emotivi e di azioni rapide, talora convulse, oltreché un divampare di affermazioni individuali e di passioni politiche in certi casi da lungo tempo represse. Farne la storia sarà affare delle generazioni successive (se mai avranno voglia di occuparsene).
È però fuori dubbio che il momento migliore per accumulare materiale e testimonianze fu negli anni sessanta quando molti partigiani erano ancora in vita e quando talune reticenze e prudenze caddero o si attenuarono. Dove non si è approfittato di quel momento sarà arduo scrivere la storia di un movimento sparso e periferico, oltreché poco collegato col suo vertice politico-militare. Il vertice infatti, se potè procurare aiuti, riconoscimenti e tutto quanto servì a differenziare la lotta di liberazione da un generico e scombinato ribellismo, non era in grado per forza di cose né di comandare veramente né molto spesso di ricevere informazioni di qualche esattezza e tempestività. Dobbiamo essere grati a Gimelli e all’Istituto Storico della Liguria di avere offerto una ricchissima e
importante rassegna di dati raccolti soprattutto nell’anzidetta epoca “utile” (anche se pubblicati in gran parte più tardi) assicurando così la base sulla quale, per consenso, dissenso, differenziazione scelta o integrazione, lo storico potrà lavorare, obbedendo soprattutto a quelli che saranno i bisogni del “suo” tempo e che oggi non è dato prevedere.
Lucio Ceva
Aa.Vv., Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fascismo alla Repubblica (1943-1946), Napoli, Guida, 1986, pp. 398, lire 30.000 (Quaderni dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza).
Alle radici del nostro presente, curato dall’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, è un volume multifunzionale diretto ai più diversi settori del mercato librario.
Ad esso potranno far riferimento gli storici ed i ricercatori di professione che vi troveranno un completo e dettagliato inventario di tutto il materiale archivistico dell’Icsr relativo agli anni 1943-45.
Gli insegnanti, invece, potranno apprezzare in modo particolare i vari percorsi didattici proposti da Aurora Delmonaco Lombardi. Si tratta di una vera e propria guida per gli insegnanti che, non accontentandosi della pagine che di solito i manuali riservano alle tematiche resistenziali, vogliono condurre con i loro alunni interessati le più vive esperienze di ‘laboratorio storiografico’.
A tutti, comunque, studiosi o semplici appassionati, il volume offre l’opportunità di cogliere
spunti, conferme e sollecitazioni sulla storia di Napoli e della Campania negli anni del delicato passaggio dal fascismo alla Repubblica.
È impossibile in questa sede dare un’idea completa di tutti i saggi che, nella loro serietà scientifica, rappresentano un primo approccio ad una realtà così complessa ed articolata: dall’analisi dei comportamenti quotidiani dei ceti popolari al ruolo della Chiesa locale, dalle lotte politiche e sociali dell’lrpi- nia alla Resistenza in Terra di Lavoro, dalle radici gramsciane del comuniSmo campano alla politica alleata in Italia durante l’occupazione.
Guido d’Agostino (Napoli: governo e amministrazione della città dalla caduta del fascismo all’avvento della Repubblica 1943-46) che da anni si occupa della storia politico-ammini- trativa del capoluogo campano, ha enucleato una serie di aspetti fondamentali della vita cittadina dì quel periodo (annona, epurazione, assistenza e ricostruzione) costituendo una griglia alla luce della quale valutare l’azione e la portata politica delle Amministrazioni che si succedono a Palazzo San Giacomo. Si ripercorre, così, l’attività della prima amministrazione straordinaria presieduta da Giovanni Solimena; il “nuovo corso” impresso dalla giunta Ingrosso attivamente sostenuta dal colonnello Poletti; e, ancora, la giunta presieduta da Gennaro Fermariello che, nel giudizio di D’Agostino, “per lunghezza [...], per intensità di lavoro e per lo spessore dei problemi affrontati, costituisce il momento più rilevante dell’intero triennio considerato”.
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Ma buona parte del suo saggio D’Agostino la dedica alla definizione di Napoli come città “laboratorio”. Si tratta, cioè, di considerare, riprendendo e perfezionando la ormai decennale tesi di Luigi Cortesi (cfr. L. Cortesi e altri, La Campania dal fascismo alla Repubblica. Società, politica e cultura, Napoli, Esi, 1977) il capoluogo partenopeo come un laboratorio politico della transizione dal fascismo alla Repubblica “nel senso che i suoi risultati vengono acquisiti ai fini della riproposizione dell’esperimento in un contesto ‘altro’ dal punto di vista spaziale e temporalmente successivo” . La città di Napoli ricopre quindi un ruolo di primo piano nell’elaborazione dei modelli e delle forme con cui si ricostituisce quel fronte moderato che, di lì a poco, riacquisterà l’egemonia anche sul resto dell’Italia liberata. Un ruolo che, d’altra parte, proprio Napoli pagherà a caro prezzo in virtù di un particolare “effetto boomerang” per cui proprio sulla città si rifletteranno prima e maggiormente i deleteri effetti di quella egemonia moderata che essa stessa aveva favorito. Infine, vogliamo ricordare anche il contributo d| Vera Lombardi, Resistenza e Ricostruzione. Si tratta di un quadro d’apertura attraverso cui si cerca di cogliere gli aspetti e le condizioni generali che permisero la “riaffermazione dei ceti più conservato- ri” imprimendo, così, alla ricostruzione una svolta moderata che peserà sulla vita nazionale fino ai giorni nostri. Uno scavo, dunque, alle radici del nostro presente che ha la evidente funzione di fornire un quadro nazionale entro cui collocare le
particolari vicende della Campania ma dal quale emerge, al contempo, una sottesa critica alla linea moderata impressa da Togliatti al partito, che in definitiva avrebbe favorito i ceti conservatori. Una tesi questa certamente discutibile ma non priva di fascino.
Raffaele Messina
Libri ricevuti
Aa.Vv., Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fa scismo alla repubblica (1943-1946), Napoli, Guida, pp. 400, lire 30.000 (Quaderni dell’Istituto campano per la storia della resistenza).
Aa.Vv., Contadini e partigiani. Atti del Convegno storico Asti-Nizza Monferrato 14-16 dicembre 1984, Asti, Edizioni dell’Orso, 1986, pp. 446, lire 30.000 (Istituti di storia della resistenza in provincia di Alessandria e Asti).
Aa.Vv., Le Marche nel secondo dopoguerra. Atti del Convegno “Le Marche della liberazione alla fine degli anni cinquanta”, Ancona 27- 29 ottobre 1983. Ancona, Il Lavoro editoriale, 1986, pp. 331, lire 40.000 (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche).
Adalberto Alpini, Baracca otto. I giorni della fam e, Cuneo, L’Arciere, 1985, pp. 222, lire 12.000.
Giulio Andreotti, De Gasperi visto da vicino, Milano, Rizzoli, 1986, pp. 315, lire 22.000.
Franco Andreucci, Il marxismo collettivo. Socialismo, marxismo e circolazione delle idee dalla Seconda alla Terza Internazionale, Milano, Angeli, 1986, pp. 220, lire 18.000.
Aspetti delta società bresciana fra le due guerre, Brescia, Litografia ba
gnolese, 1985, pp. 434, sip (“Annali della Fondazione Micheletti” 1985).
Arnoldo Bagnasco, Torino. Un profilo sociologico, Torino, Einaudi,1985, pp. 88, lire 5.500.
Giuseppe Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Torino, Einaudi, 1986, pp. 408, lire 30.000.
Giulio Bedeschi, Fronte jugoslavo-balcanico: c ’ero anch’io, Milano, Mursia, 1986, pp. 790, lire38.000.
Michelangelo Bellinetti, Squadrismo di provincia. Nascita dei Fasci di combattimento in Polesine (1920- 1921), Rovigo, Associazione Minel- liana, 1985, pp. 155, sip.
Maria Pia Bigaran (a cura di), Istituzioni e borghesie locali nell’Italia liberale, Milano, Angeli, 1986, pp. 364, lire 30.000.
James H. Billington, Con il fuoco nella mente. Le origini della fede rivoluzionaria, Bologna, Il Mulino,1986, pp. 785, lire 60.000.
Donatella Bolech Cecchi, Non bruciare i ponti con Roma. Le relazioni tra l ’Italia, la Gran Bretagna e la Francia dall’accordo di Monaco allo scoppio delta seconda guerra, Milano, Giuffrè, 1986, pp. 526, lire32.000.
Paolo Botta (a cura di), Sud emergenti tra vecchia e nuova identità, Roma, Edizioni Lavoro, 1986, pp. 166, lire 18.000.
Anna Bravo, Daniele Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, Angeli, 1986, pp. 440, lire 25.000.
Fernand Braudel, I tempi della storia. Economia, società, civiltà, Bari, Dedalo, 1986, pp. 410, lire 35.000.
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Manilo Brosio, Diari di Mosca 1947-1951, Bologna, II Mulino, 1986, pp. 705, lire 50.000.
Martin Broszat, Da Weimar a Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 286, lire 35.000.
Marco Brunazzi, Agostino Conti, Le formazioni Matteotti nella lotta di liberazione, Cuneo, L’Arciere, 1986, pp. 170, lire 14.000.
Giovanni Brunelli, Memoria del Polesine. Itinerari di una storia (1882- 1951), Rovigo, Associazione Minel- liana, 1984, pp. 174, sip.
Piero Calandra, Il governo della Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 324, lire 24.000.
Donata Campagnari, Le lotte contadine nel Mantovano dal 1945 al 1950, Mantova, Tipografia Grassi, pp. 164, sip (Istituto provinciale per la storia del movimento di liberazione nel Mantovano).
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