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Rassegna bibliografica Le speranze degli italiani di Mario G. Rossi Sugli anni della ricostruzione si è ormai scritto molto: anzi, mentre permane e si ac- centua il grave ritardo della storiografia sul- l’Italia repubblicana, il periodo della Resi- stenza, della Costituente e della prima ripre- sa economica è stato oggetto di accurate monografie e di un vivace dibattito critico, anche e soprattutto per merito delle ricerche promosse dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione. Il volume di Ennio Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1953), Milano, Mondadori, 1986, pp. 317, lire 25.000, non vuole essere un ulteriore contributo a carattere monogra- fico da iscrivere in questo filone di studi, ma si propone l’obiettivo assai più ambizioso di una riconsiderazione complessiva di quello che l’autore definisce il “più lungo decennio della vita nazionale recente” (p. 9). Proprio i lavori compiuti precedentemente su aspetti particolari della storia italiana nella seconda guerra mondiale e nel dopoguerra gli “han- no suscitato — scrive — l’urgenza di posse- dere un quadro a un tempo più semplice e più comprensivo; l’urgenza di compiere un passo indietro, sul piano della tradizione monografica tipica della ricerca storica, nel- la speranza di compiere un passo avanti ver- so la comprensione delle basi preliminari dei fenomeni di massa” (p. 9). Quello che si presenta in queste pagine, pertanto, è un tentativo di interpretazione generale condotto non in tutte le direzioni, perché sono dichiaratamente accantonati i fattori strutturali (l’economia, i conflitti so- ciali), ma incentrato sull’analisi di un pro- cesso onnicomprensivo, e insieme sfuggente, come “l’evolvere di una psicologia collettiva durante un periodo di guerra, e la trasfor- mazione sociale che scaturisce da questa evoluzione” (p. 11). Quindi anche con un obiettivo metodologico, non meno impegna- tivo, che è quello di mettere a fuoco una “percezione globale” dei “movimenti pro- fondi della società” dal punto di osservazio- ne della psicologia sociale e dell’evoluzione della mentalità collettiva, secondo talune proposte della più aggiornata storiografia francese, esplicitamente richiamate dall’au- tore (p. 11). Un’analisi di questo tipo pone natural- mente il problema della disponibilità, atten- dibilità, verifica delle fonti, anche in relazio- ne alle dimensioni geografiche della ricerca, oltre che al suo diverso spessore cronologico rispetto ai percorsi già collaudati: tra il vil- laggio occitanico del Trecento e una grande società di massa dell’epoca contemporanea le distanze sono evidentemente abissali e la storia delle mentalità, e dell’“inconscio col- lettivo”, per dirla con Philippe Ariès, si è ri- volta soprattutto, e non a caso, a un passato lontano, alle “mentalità non attuali”. Di Nolfo è consapevole della difficoltà, ma, an- ziché delimitare il campo di indagine, prefe- risce circoscrivere la scelta delle fonti: ac- cantonate quelle più comuni della storia po- litica ed economico-sociale, pone l’accento

Rassegna bibliografica Le speranze degli italiani€¦ · Ennio Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1953), Milano, Mondadori, 1986, pp. 317, lire 25.000, non vuole

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Page 1: Rassegna bibliografica Le speranze degli italiani€¦ · Ennio Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1953), Milano, Mondadori, 1986, pp. 317, lire 25.000, non vuole

Rassegna bibliografica

Le speranze degli italianidi Mario G. Rossi

Sugli anni della ricostruzione si è ormai scritto molto: anzi, mentre permane e si ac­centua il grave ritardo della storiografia sul­l’Italia repubblicana, il periodo della Resi­stenza, della Costituente e della prima ripre­sa economica è stato oggetto di accurate monografie e di un vivace dibattito critico, anche e soprattutto per merito delle ricerche promosse dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione. Il volume di Ennio Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1953), Milano, Mondadori, 1986, pp. 317, lire 25.000, non vuole essere un ulteriore contributo a carattere monogra­fico da iscrivere in questo filone di studi, ma si propone l’obiettivo assai più ambizioso di una riconsiderazione complessiva di quello che l’autore definisce il “più lungo decennio della vita nazionale recente” (p. 9). Proprio i lavori compiuti precedentemente su aspetti particolari della storia italiana nella seconda guerra mondiale e nel dopoguerra gli “han­no suscitato — scrive — l’urgenza di posse­dere un quadro a un tempo più semplice e più comprensivo; l’urgenza di compiere un passo indietro, sul piano della tradizione monografica tipica della ricerca storica, nel­la speranza di compiere un passo avanti ver­so la comprensione delle basi preliminari dei fenomeni di massa” (p. 9).

Quello che si presenta in queste pagine, pertanto, è un tentativo di interpretazione generale condotto non in tutte le direzioni, perché sono dichiaratamente accantonati i

fattori strutturali (l’economia, i conflitti so­ciali), ma incentrato sull’analisi di un pro­cesso onnicomprensivo, e insieme sfuggente, come “l’evolvere di una psicologia collettiva durante un periodo di guerra, e la trasfor­mazione sociale che scaturisce da questa evoluzione” (p. 11). Quindi anche con un obiettivo metodologico, non meno impegna­tivo, che è quello di mettere a fuoco una “percezione globale” dei “movimenti pro­fondi della società” dal punto di osservazio­ne della psicologia sociale e dell’evoluzione della mentalità collettiva, secondo talune proposte della più aggiornata storiografia francese, esplicitamente richiamate dall’au­tore (p. 11).

Un’analisi di questo tipo pone natural­mente il problema della disponibilità, atten­dibilità, verifica delle fonti, anche in relazio­ne alle dimensioni geografiche della ricerca, oltre che al suo diverso spessore cronologico rispetto ai percorsi già collaudati: tra il vil­laggio occitanico del Trecento e una grande società di massa dell’epoca contemporanea le distanze sono evidentemente abissali e la storia delle mentalità, e dell’“inconscio col­lettivo”, per dirla con Philippe Ariès, si è ri­volta soprattutto, e non a caso, a un passato lontano, alle “mentalità non attuali” . Di Nolfo è consapevole della difficoltà, ma, an­ziché delimitare il campo di indagine, prefe­risce circoscrivere la scelta delle fonti: ac­cantonate quelle più comuni della storia po­litica ed economico-sociale, pone l’accento

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specialmente sulle “fonti non tradizionali: la narrativa, la poesia, il cinema” (p. 12), di cui mostra di comprendere i rischi, ma che finisce per considerare le più ricche e più fer­tili di indicazioni, anche ai fini del quadro generale e non solo delle singole angolature prospettiche.

La scelta solleva non poche perplessità: è possibile che fonti di questo genere possano rappresentare, in maniera significativa, oltre al pensiero delle élites intellettuali, e magari di settori importanti dei ceti sociali e politici dirigenti, anche gli orientamenti diffusi di quelle masse popolari, che sentono, pensano e agiscono, ma notoriamente non scrivono? La stampa, ci sembra, quantomeno quella del periodo postresistenziale, ma in parte anche quella del dopo 18 aprile, avrebbe po­tuto fornire spunti molto più consistenti, dai moduli culturali delle terze pagine alle cro­nache, agli stessi stereotipi dei commenti po­litici, per ricostruire atteggiamenti, modi di pensare, scelte degli italiani di fronte all’in- calzare degli eventi e al mutare delle pro­spettive interne e internazionali.

In effetti, l’autore riesce a delineare con efficacia alcuni passaggi centrali della crisi di ideali, di obiettivi, di punti di riferimento della borghesia italiana tra il crollo del fasci­smo, il dissolversi dell’istituzione monarchi­ca e di quella militare e l’esplodere della guerra civile e oltre, fino allo scontro sociale e politico del dopoguerra, sfociato nella sta­bilizzazione moderata solo dopo un’altalena di vicende di grande incertezza. Lo fa ricor­rendo largamente a riferimenti e citazioni presi dalla letteratura del periodo, spesso calzanti e suggestivi, tali da sintetizzare in pochi tratti la successione degli avvenimenti e degli stati d’animo, e il formarsi di un cli­ma generale, che una documentazione di ti­po tradizionale avrebbe diluito in descrizioni analitiche assai meno incisive: esemplare, fra gli altri, l’efficacia allegorica del raccon­to di Dino Buzzati, Paura alla Scala, per rendere “l’atmosfera impalpabile che domi­

nava certa borghesia milanese” (p. 261) alla cruciale scadenza del 1948. Tra i testi di Curzio Malaparte e di Corrado Alvaro e il linguaggio anonimo delle relazioni prefetti­zie e dei rapporti dei carabinieri naturalmen­te ci corre.

Ma quale contesto di scelte politiche, di conflitti sociali, di processi economici deter­mina, o almeno influenza, questo flusso di mutamenti graduali e accelerati, marginali e profondi della psicologia collettiva degli ita­liani? I punti di riferimento più precisi e convincenti Di Nolfo li fornisce nelle rapide annotazioni sul contesto internazionale, in cui inquadra aspetti centrali della Resisten­za, dei rapporti tra l’Italia e gli Alleati, della ripresa democratica postbellica. L’inutile crudeltà dei bombardamenti sulle città ita­liane, nell’estate del 1943; il miope tentativo alleato di escludere i sovietici dalla parteci­pazione al controllo politico della penisola, creando quel “precedente italiano” così gra­vido di conseguenze sia interne (con la suc­cessiva contromossa sovietica del riconosci­mento del governo Badoglio) sia internazio­nali (“quasi una prima prova della futura ‘guerra fredda’” : p. 87); lo sfondo militare del proclama Alexander, visto al di là della particolare angolatura della guerra partigia- na: sono alcune delle questioni tracciate con mano sicura dall’autore, frutto della sua di­mestichezza con le fonti relative e di lunghi studi precedenti sui problemi della colloca­zione italiana nell’ambito dei rapporti inter­nazionali fra guerra e dopoguerra.

Restano completamente fuori dal quadro il processo di ricostruzione e di ristruttura­zione dell’economia, la riorganizzazione dei ceti padronali e la loro accentuata pressione sul governo e sulle forze moderate, lo scon­tro sulle linee di politica economica (dal cambio della moneta al controllo degli inve­stimenti e degli aiuti americani), le dure lotte sindacali nell’industria e nell’agricoltura, che accompagnano lo svolgersi delle vicende politiche e sottolineano la grande mobilita­

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zione delle masse e la loro volontà di parte­cipare da protagoniste, e non più come sog­getti passivi, alla vita del paese. (Ma non è anche questa una spia importante dei muta­menti della mentalità collettiva: l’erompere di antiche speranze di riscatto delle classi su­balterne e, per contro, l’aggregarsi delle paure conservatrici dei ceti privilegiati e di quei settori sociali, non direttamente coin­volti nella spinta al cambiamento, ma sensi­bili all’influenza degli apparati, dei grandi mezzi di informazione, del tessuto associati­vo confessionale?).

Non si vuol dire con questo che l’autore avrebbe dovuto affrontare tali tematiche con una documentazione diretta e originale, che avrebbe di fatto spostato l’asse centrale del lavoro rispetto all’assunto: sorprende pe­rò che tutto ciò non trovi posto neppure sul­lo sfondo del disegno tracciato e che risulti assente anche una parte sostanziale della più recente bibliografia sull’argomento. Cito, per tutti, il grosso lavoro di Mariuccia Sal­vati, Stato e industria nella ricostruzione (Milano, Feltrinelli, 1982), e il volume di va­ri autori, Gli anni della Costituente (Milano, Feltrinelli, 1983): in quest’ultimo, fra l’al­tro, il saggio di Massimo Legnani, “L ’uto­pia grande-borghese”. L ’associazionismo padronale tra ricostruzione e repubblica, fornisce un contributo di rilievo anche dal punto di vista dell’approfondimento della mentalità dei ceti padronali.

Finisce così per balzare in primo piano proprio il settore più événementiel, quello dove più lentamente si riflette l’evoluzione della mentalità collettiva e dove più diretta- mente si misura l’influenza degli avvenimen­ti, degli interessi, delle scelte operative: ossia il quadro politico. Infatti, su un asse sostan­zialmente politico poggia il contenuto di gran parte del volume, ma è una politica di­staccata dalla realtà dello scontro di classe, come analizzata in provetta, attraverso le lenti di meccanismi psicologici, che dovreb­bero riassumere il sentire comune degli ita­

liani di fronte alle trasformazioni in atto nel decennio e finiscono per esprimere gli atteg­giamenti di strati non esigui, ma comunque concentrati nei gradini più alti della pirami­de sociale.

Protagoniste, in negativo, sono le forze di sinistra, accomunate nella caduta dei miti, nel logoramento degli entusiasmi, nel falli­mento delle speranze. Il giudizio è severo, e non risparmia socialisti e azionisti, anche se ben più ricorrente e insistita è la critica nei confronti del Pei. Dalla polemica politica del tempo, filtrata nella storiografia succes­siva, deriva un vasto campionario di accuse al partito di Togliatti, che qui viene ripropo­sto anche sotto il profilo delle impressioni che l’ideologia e la prassi dei comunisti scol­pivano nell’attenzione, e più ancora nell’in­conscio, dell’opinione pubblica contempora­nea. Si va dal Pei “campione del trasformi­smo” con la svolta di Salerno (p. 78) alla “spietatezza staliniana” del “pietà l’è mor­ta” di Giorgio Amendola, l’indomani di piazzale Loreto, che “era la negazione degli ideali della Resistenza, poiché la Resistenza aveva scritto sulla sua bandiera la parola speranza e non la parola vendetta” (pp. 128- 129); dai vincoli di fedeltà e di subordinazio­ne (anche finanziaria) all’Urss alla politica del doppio binario, al mantenimento di un potenziale insurrezionale, vero o presunto, ma sufficiente a giustificare le paure “istin­tuali” degli anticomunisti (p. 168).

A queste si potrebbero naturalmente op­porre considerazioni di tutt’altro segno, tratte dal senso comune dell’opinione pub­blica di sinistra come dalla riflessione storio­grafica: ad esempio, sulla “doppiezza” , fe­nomeno che, come scrive Ernesto Ragionieri {La storia politica e sociale, in Storia d ’Ita­lia, vol. IV, Dall’Unità a oggi, t. 3, Torino, Einaudi, 1976, p. 2415), “in varia misura e in forme diverse, investe in questo periodo tutti i partiti politici italiani” , e certo investe largamente una Democrazia cristiana che oscilla fra monarchia e repubblica, Stato

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laico e ossequio confessionale, difesa della legalità e copertura dei mandanti di Portella della Ginestra. Oppure, per quanto riguarda l’autonomia nei rapporti internazionali, sul­la corposa realtà del “partito americano”, che da Sforza e Tarchiani, Saragat e Ivan Matteo Lombardo si spinge ben dentro la De: e non si comprende come Di Nolfo pos­sa affermare che, quando già la tensione fra Est e Ovest si era fatta acuta, a parte i lega­mi del Pei con l’Unione sovietica, “gli altri partiti erano neutrali rispetto allo scontro” (P. 195).

Ma il punto è che dietro attese e timori, orientamenti e impressioni vi sono supporti reali che danno concretezza a determinati stati d’animo, anziché ad altri, e consentono di tradurre in pratica talune aspettative e di confinarne altre nella dimensione ipotetica del futuribile. E allora torna ad imporsi la necessità di fare i conti col potenziale di con­vincimento, di pressione, di coercizione che è rappresentato dal controllo degli apparati di informazione (ecco l’utilità di un’analisi approfondita della stampa quotidiana e pe­riodica); dalla manovra degli aiuti economi­ci e dal suo impatto materiale e propagandi­stico (si vedano i dati sulla diffusione di mo­stre, opuscoli, documentari, cortometraggi, prodotti dall’Erp, che riporta David W. Ell- wood, La propaganda del Piano Marshall in Italia, in “Passato e presente” , n. 9, settem­bre-dicembre 1985, pp. 153-171); dall’inter­vento capillare, anche in termini di orienta­mento e di condizionamento psicologico, della rete associativa e caritativa cattolica (sarebbe illuminante il confronto tra una realtà collaudata da decenni e forte della condizione di privilegio goduta nei venti an­ni del regime e il tessuto sindacale, solidari­stico, ricreativo, ricostituito faticosamente dalle sinistre nel fuoco della lotta antifasci­sta e dello scontro sociale successivo).

Il limite principale dei partiti di sinistra consiste tuttavia, per Di Nolfo, nel loro massimalismo e nella mancanza di un’ade­

guata progettualità riformatrice, in grado di rispondere alle necessità generali del mo­mento e soprattutto di affrontare concreta­mente l’emergenza della situazione economi­ca. Ora, se con questo si vuole addebitare al­le sinistre la mancata acquisizione di “una cultura cattaneana” (p. 194) e, ai comunisti in particolare, la carenza di tecnici ed econo­misti all’altezza dei compiti posti dalla rico­struzione (p. 164), la critica appare per lo meno unilaterale, dal momento che prescin­de dalla dura esperienza del regime e dalla considerazione che misurarsi con i canoni del pensiero classico e keynesiano nelle gale­re fasciste o in montagna, fra i partigiani, era ben più difficile che negli uffici studi del­le banche e sulle cattedre universitarie; e co­munque mentalità e stati d’animo non c’en­trano, ma solo il fatto che i ceti accademici e professionali, per estrazione sociale e per formazione, erano schierati dalla parte op­posta a quella del movimento operaio. Se in­vece si intende l’impegno per “provvedimen­ti sociali contraddittori rispetto a certe dure esigenze imposte dal risanamento economi­co” (p. 136) e il ricorso agli scioperi e — horrihile dieta! — alla lotta di classe (p. 251), allora le speranze e le paure c’entrano, eccome, ma sono solo quelle della borghesia interessata a trovare il sostegno politico ne­cessario a far pagare alle masse popolari i costi della ricostruzione. E si possono attri­buire agli “italiani” tout court soltanto se si tralasciano i termini reali del conflitto socia­le in atto, le aspettative delle grandi masse e la stessa composizione della società naziona­le, basata allora soprattutto su milioni di contadini, di operai e di disoccupati, ben più che sul “ruolo dominante” della piccola bor­ghesia e sull’avvio di un processo di terzia­rizzazione di vasta portata (p. 180).

Del resto, l’assunzione del punto di vista dei ceti dirigenti nel loro insieme spiega an­che il giudizio tutto positivo che Di Nolfo dà della Democrazia cristiana e della politica di De Gasperi. Saltando completamente il no­

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do delle scelte economico-sociali imposte per la ricostruzione del paese e quello della loro convergenza con gli interessi dei gruppi capi­talistici dominanti — anzi, liquidando le in­terpretazioni che ipotizzano un “fronte capi­talistico” centrato sulla De come “dialettica- mente schematizzate” e buone “per dare una rappresentazione paradossale del processo politico” (p. 234) — l’autore si schiera con la più recente storiografia cattolica (Agosti­no Giovagnoli, Pietro Scoppola) nel ricon­durre l’affermazione della De nell’Italia po­stfascista al nuovo prestigio ideale e politico conquistato dalla Chiesa nella socità civile e al processo di modernizzazione compiuto dalla classe dirigente cattolica. Quest’ulti- ma, dunque, “lungo il binario della risco­

perta della spiritualità”, negli anni trenta (p. 203), matura una moderna visione dello Sta­to e dell’economia in chiave di produttivi- smo e di progresso, che ne legittima l’ascesa alla guida del paese: De Gasperi, lungi dal farsi condizionare dal “quarto partito” (quello del potere economico), riesce ad in­serirlo nel suo sistema di governo e a sottrar­lo definitivamente alle tentazioni autoritarie (p. 243).

Così, lasciata sullo sfondo la psicologia collettiva, affiora il modello crociano dell’a­nalisi etico-politica, attenta soprattutto al­l’evoluzione delle idee (e delle classi) domi­nanti. E le speranze degli italiani finiscono nell’area di governo.

Mario G. Rossi

Fascismo, antifascismo, Repubblicadi Massimo Legnani

La pubblicazione di questa raccolta di saggi su Fascismo e antifascismo negli anni della Repubblica, (“Problemi del socialismo” , quaderno 7, Milano, Angeli, 1986, pp. 203, lire 18.000) ha anzitutto il merito, per nulla marginale, di richiamare l’attenzione sul fat­to che, a dispetto di un flusso pubblicistico pressoché ininterrotto, il tema non abbia an­cora formato oggetto di ricostruzioni criti­che complessive. Circostanza singolare solo in apparenza, come anche questi contributi attestano: il “paradigma antifascista” è sta­to infatti per lunghi tratti così presente e pervasivo — motivo di riflessione storica ed arma politico-culturale quotidiana — da rendere difficile quella operazione di estra­polazione che rappresenta pur sempre la precondizione ed il rischio di ogni program­ma di ricerca. Da ciò una ‘costrizione’ che si

riverbera direttamente sulla struttura del fa­scicolo, ovvero la necessità di aggredire l’ar­gomento su fronti diversi, dalla traduzione del paradigma in sede politico-istituzionale (Antonio Baldassarre, La costruzione del paradigma antifascista e la Costituzione re­pubblicana) al dibattito che ha fatto come da controcanto a passaggi nevralgici della storia repubblicana tra gli anni cinquanta e sessanta (Marcello Flores, L ’antifascismo all’opposizione-, Guido Crainz, La “legitti­mazione” della Resistenza. Dalla crisi del centrismo alla vigilia del ’68\ Luigi Canapi­ni, Antifascismo tricolore e antifascismo di classe), dal processo di formazione di un senso comune storiografico che nell’ultimo decennio avrebbe prodotto una “rivalutazio­ne strisciante del fascismo” (Nicola Gallera- no, Critica e crisi del paradigma antifasci­

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sta) a indagini settoriali, nel contesto dell’ul­timo mezzo secolo, su ruoli intellettuali e culture di massa (Mario Isnenghi, Al teatro dell’Italia nuova. Fascismo e cultura di mas­sa; Franco Petroni, L ’intellettuale nella nar­rativa della Resistenza; Mino Argentieri, L ’antifascismo nel cinema del secondo do­poguerra). Una molteplicità di approcci che non esaurisce i percorsi possibili (e la stessa presentazione lamenta in particolare la man­cata presenza di un contributo sul “tema della cosiddetta modernizzazione avviata, in peculiari forme autoritarie, nell’Italia fra le due guerre”) e sulle cui implicazioni tornere­mo più avanti, dopo aver dato conto dell’ar­chitettura del volume, delle ragioni che han­no spinto oggi alla sua preparazione e pub­blicazione.

Sotto quest’ultimo profilo, non v’è dub­bio che i saggi portanti siano quelli di Bal­dassarre e Gallerano, in quanto entrambi ipotizzano agli inizi degli anni ottanta una netta cesura e la pongono alla base dell’inte­ra raccolta. Baldassarre fa scaturire l’esauri­mento del paradigma antifascista dalla or­mai consumata integrazione di tutte le forze politiche nel sistema costituzionale. Essa renderebbe superato il riferimento obbligan­te alla matrice antifascista, riferimento ne­cessario sino agli anni settanta per colmare la distanza tra partiti che “naturalmente” si identificavano nelle istituzioni dello stato rappresentativo e partiti (soprattutto il co­munista) le cui posizioni avrebbero invece lasciato aperto un varco tra la prassi parla­mentare perseguita nei fatti e la programma­tica rivendicazione di obiettivi finali antisi­stema. Gallerano postula invece, come prin­cipio d’eclisse del paradigma antifascista, l’avvio, alla metà degli anni settanta, di una “riabilitazione” del fascismo, che dal campo della ricerca storica — dove l’innesco sareb­be stato dato dal l’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice — si sarebbe dilatato tra­sferendosi ai mass media, ai cui messaggi e stereotipi il saggio è principalmente dedica­

to. Nell’un caso, dunque, a livello di sistema politico, il paradigma si svuota in quanto la stabilizzazione istituzionale coincide con un grado di radicamento dell’assetto democra­tico-parlamentare che rende ormai superfluo il richiamo a quella fonte di legittimazione; nell’altro, a livello di cultura e divulgazione storica, l’esaurimento del paradigma è piut­tosto una crisi in larga misura dettata dal­l’abbandono dei precedenti giudizi sull’espe­rienza storica del fascismo e dal subentrare di valutazioni che riconciliano le vicende tra le due guerre con i successivi cammini della storia nazionale. Si potrebbe osservare, per inciso, che l’acceso dibattito sviluppatosi a cavallo tra gli anni sessanta e settanta circa il nesso tra continuità e rottura nella transizio­ne del fascismo alla Repubbica (dibattito che vide gran parte degli storici moderati reagire bruscamente ai supposti eccessi delle tesi più “continuiste”) sembra essere entrato in una fase in cui quello stesso “continui­smo”, naturalmente rovesciato di segno, vie­ne sostenuto vigorosamente proprio dalla storiografia moderata. Le perspicue osserva­zioni di Gallerano sugli usi disinvolti, tra storiografia e comunicazioni di massa, della categoria della modernizzazione, rendano perfettamente ragione dello scarso spessore culturale e, all’opposto, della pregnante di­mensione politica dell’operazione. Non si tratta, beninteso, di limitarsi a sottolineare l’ironia dell’episodio, ma di indagarne le ri­frazioni e le connessioni con una stagione intellettuale largamente all’insegna del di- sempegno.

Il punto centrale — per tornare alla frat­tura segnalata eqtro orizzonti diversi da Bal­dassarre e Gallerano — è però un altro e sta nelle contrastanti risultanze dei due cammi­ni, nella contrapposizione, a proposito delle sorti del “paradigma antifascista”, dei con­cetti di “esaurimento” e “crisi” . Quali sono i punti di intersezione tra evoluzione del quadro politico-istituzionale, elaborazione storiografica e culture diffuse? Oppure i ri­

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spettivi campi sono governati da logiche di­verse, contrassegnate da un forte grado di reciproca impermeabilità? E che cosa signi­fica questo in termini di rapporti tra politica e cultura? L’interrogativo resta aperto, ma spunti non irrilevanti di discussione vengono da alcuni saggi compresi nel fascicolo, in particolare da quelli di Crainz (che ricucen­do pazientemente e intelligentemente le di­verse sedi ed occasioni mostra i limiti della legittimazione conseguita dall’antifascismo nel corso degli anni sessanta) e Ganapini (che istituisce un nesso non fittizio tra le di­verse Resistenze “immaginate” attraverso le lotte del sessantotto e la natura storicamente composita dell’opposizione antifascista e della lotta armata). L’impressione prevalen­te è che la presenza di oscillazioni anche bru­sche nei giudizi non sia tanto debitrice delle strumentalizzazioni politiche (categoria in­terpretativa debole, produttrice di banaliz­zazioni), quanto di coabitazioni che accom­pagnano l’intero corso della storia repubbli­cana e che sono altrettante spie di tensioni permanenti, ora aperte ora latenti. In questo senso i saggi di Isnenghi, Petroni e Argentie­ri offrono spaccati di storia delle culture col­lettive che integrano, ma anche invitano a ri­

discutere più di un aspetto della storia politi­ca. In altri termini, se l’antifascismo appare come un dato acquisito (e sia pure solo par­zialmente in sede di ricostruzione storiogra­fica) alla storia dell’Italia contemporanea, come modello di lettura del periodo repub­blicano esso non rappresenta una discrimi­nante che possa essere isolata da altri “para­digmi” , con i quali si ricongiunge scontran­dosi o armonizzandosi (si vedano i riferi­menti all’anticomunismo nel contributo di Flores). Diventa allora indispensabile entra­re direttamente nell’area di culture ed ideo­logie che almeno per un lungo tratto sono state egemoni nell’Italia repubblicana e che sommariamente si possono individuare nell’“americanismo” e nel cattolicesimo. Una prosecuzione nel discorso tanto oppor­tunamente avviato da questi saggi dovrebbe maggiormente valorizzare tali riferimenti, inserendo la parabola del “paradigma anti­fascista” in un quadro di più complesse inte­razioni; così come dovrebbe maggiormente sviluppare (sulla scorta soprattutto dei saggi di Crainz, Gallerano e Argentieri) l’indagine sul ruolo svolto dalle comunicazioni di massa.

Massimo Legnani

Camere del lavoro e movimento operaiodi Domenico Scacchi

Le ricerche sulle origini e sullo sviluppo del movimento operaio italiano hanno avuto, negli ultimi anni, un rinnovato impulso. Ciò ha risposto, evidentemente, a varie esigenze: da quelle di colmare le molte lacune su pe­riodi e aspetti particolari, a quelle di ripen­sare una storia del movimento operaio nella quale il soggetto fosse meglio identificato nel contesto specifico e insieme più generale

del suo svolgimento. Una forte spinta allo sviluppo dell’indagine in questo settore è certamente venuta dall’interno del movi­mento stesso, dalle organizzazioni sindacali, particolarmene della Cgil. Molteplici inizia­tive: mostre, convegni, seminari di studi, at­tività editoriale, mosse anche da motivazioni celebrative (in genere le ricorrenze degli an­niversari di fondazione delle Camere del la­

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voro) ma che hanno finito con l’assumere in più occasioni il carattere di riflessioni più scientificamente fondate. Si sono così avuti contributi sia sul piano dell’approfondimen­to e della conoscenza specifica sia su quello storiografico più generale.

Ultimi, in ordine di tempo, sono apparsi due volumi che appartengono al filone sopra indicato: Barbadoro, Chiarini, Cucchini, Dabrazzi, Magri, Porta, Rebecchi, Sciola, Profondo Nord. La Camera del lavoro di Brescia. 1892-1982, a cura di Gianfranco Petrillo, Ediesse, Roma, 1985, pp. XVII- 374, lire 22.000; Angelo Bendotti, Giuliana Bertacchi, Liberi e uguali. La Camera del la­voro di Bergamo dalle origini alla prima guerra mondiale, Associazione editoriale il Filo di Arianna, Bergamo 1985, pp. 203, lire 10.000. Ma va detto che i due lavori, oltre che per l’arco cronologico, hanno un carat­tere diverso innanzi tutto nei motivi che li hanno originati: il volume su Brescia racco­glie gli atti di un convegno, quello su Berga­mo è stato invece “commissionato” dalla lo­cale Camera del lavoro a due studiosi del movimento operaio e delle organizzazioni di sinistra della città.

Bergamo e Brescia, due provincie dalle molte caratteristiche comuni fra cui, la prin­cipale forse, quella di rappresentare uno dei punti di maggior forza dell’influenza cattoli­ca nella classe operaia. Eppure, proprio ri­spetto alle prime vicende del movimento operaio, le ricerche pubblicate evidenziano significative diversità. Ciò innanzi tutto sui tempi di maturazione dell’associazionismo, sicuramente più “precoce” a Brescia. Ma quali furono le radici di questa differenza? Maria Dabrazzi {Le origini delle organizza­zioni nel bresciano) descrive un efficace, sia pur sintetico, quadro della società bresciana post-unitaria. L’articolazione del mondo contadino e di quello industriale, delle con­dizioni di vita e di lavoro, offrono una pri­ma griglia strutturale di comprensione di un fenomeno associativo che partendo dalle

prime forme del mutuo soccorso approda al­le organizzazioni di resistenza e alla fonda­zione della Camera del lavoro (1892). Un or­ganismo, quello camerale, che pur risenten­do di alcuni elementi di ambiguità tipici del­le prime formazioni nate in quel periodo (pubblico servizio di collocamento, di me­diazione tra capitale e lavoro) assume ben presto caratteristiche più specificamente sin­dacali nel vivo delle lotte sociali, ma anche politiche che investono l’area bresciana in quel tempo. A Brescia il mondo cattolico esercitava già una forte presa nelle classi po­polari ed era sicuramente impegnato nel contrastare la penetrazione democratica e socialista negli strati subalterni della popola­zione. Tuttavia il radicamente delle ipotesi liberal-progressiste zanardelliane giocò un ruolo obiettivamente importante nel proces­so di crescita del movimento operaio orga­nizzato e dello stesso sviluppo del socialismo Ne è esempio evidente il favore con il quale la Giunta comunale di Brescia accoglieva la richiesta di contributi avanzata per la fonda­zione della Camera del lavoro, o, al contra­rio, i tentativi dei cattolici di costituire asso­ciazioni alternative con l’intento di svuotare l’istituto camerale, sino a ridurre considere­volmente, con la Giunta municipale cleri- co-moderata, il contributo richiesto dalla Camera del lavoro ricostituitasi dopo lo scioglimento decretato dal Prefetto nel 1898.

A Bergamo le cose andarono diversamen­te. Qui, secondo quanto ricostruiscono An­gelo Bendotti e Giuliana Bertacchi, gli ope­rai stentano a definire proprie ipotesi orga­nizzative e la stessa Camera del lavoro, alla cui costituzione pure si attendeva da anni, vi­de la luce solo nel 1901. I motivi di questa si­tuazione debbono evidentemente essere ricon­dotti ad alcune particolarità della struttura socio-economica bergamasca, un problema, questo, che rimane però un po’ troppo sullo sfondo nell’analisi dei due autori. È un fatto che i primi tentativi associativi avvengono con un certo ritardo (1880) e da parte di ca­

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tegorie più sperimentate e con una lunga storia organizzativa maturata nel resto della penisola (nel caso specifico i tipografi). Ma sicuramente per la società di Bergamo e del­la sua provincia, questo tipo di realtà ope­raia non poteva esercitare un grosso peso, almeno sul piano quantitativo. Ma un altro dato che emerge, se procediamo comparati­vamente con l’esperienza bresciana dello stesso periodo, riguarda la maggior acutezza dello scontro con il mondo cattolico ed un peso decisamente più modesto del campo democratico. E tuttavia si trattava di un campo di un certo interesse, si pensi alla pre­senza di Arcangelo Ghisleri (1879), o a quando, all’inizio degli anni novanta, si co­stituiscono associazioni democratiche molto avanzate che già presentavano alcune vena­ture di stampo socialista. Una particolarità, questa, resa evidente dalla nascita, alla fine del 1892, di un’organizzazione più caratte­rizzata, la Lega operaia socialista, sorta an­che grazie al passaggio nell’area socialista di non pochi democratico-radicali. Proprio nell’analisi del ruolo della Lega sta, forse, il miglior risultato della ricerca condotta dai due autori. La loro ricostruzione consente un giudizio sicuramente più fondato sulle peculiarità del primo grande sciopero delle operaie (1893) che “immette per la prima volta il bergamasco nelle grandi ondate della protesta operaia” (p. 35). Le vicende così ri­costruite dimostrano non solo una penetra­zione socialista già iniziata tra le operaie del­le fabbriche tessili, ma anche un’iniziativa precisa dalla Lega operaia e non il frutto di una spontaneità.

Ma veniamo ad una rapida analisi degli altri saggi pubblicati in Profondo Nord. Qui, come s’è detto, sono raccolti i contri­buti presentati al convegno di studi sul­la Camera del lavoro di Brescia (25-26 no­vembre 1982) e pubblicati con un certo ri­tardo anche a causa dell’improvvisa scom­parsa di Maria Dabrazzi e di Idomeneo Bar- badoro.

Il complesso delle ricerche presentate, pur essendo evidente la lacuna relativa al perio­do fascista, riesce a fornire un quadro suffi­cientemente completo della storia degli ope­rai bresciani.

Roberto Chiarini nel suo saggio (Rifles­sioni sulla storia del movimento operaio a Brescia), ricordando il ritardo con il quale si sono sviluppati gli studi sulla realtà operaia bresciana, nota come anche le ricerche pro­dotte nell’ultimo decennio si siano spesso mosse con alcuni limiti: da una parte, ma ciò anche per la maggiore accessibilità delle fonti, si è puntato l’obiettivo sui gruppi diri­genti, dall’altra si è avuto un approccio qua­si teleologico, teso ad individuare più un fi­ne auspicabile che la reale portata degli av­venimenti. Manca in quegli studi “il lavora­tore in concreto, il suo cosmo, i suoi interes­si, la sua mentalità, le sue condizioni di vita, le sue mansioni specifiche” (p. 9).

Certo il volume, proprio perché a più vo­ci, non poteva non risentire anche di alcune diversità d’impostazione, diversità che fini­scono però con l’arricchire, se non altro sul piano metodologico, il risultato finale, Gianfranco Porta in La riorganizzazione della Camera del lavoro nel primo dopo­guerra, affronta l’analisi “dall’interno” ri­costruendo il processo sulla base della stam­pa operaia coeva. Il lavoro propone di cor­reggere la tendenza a privilegiare il ruolo delle categorie industriali, prospettando l’al­largamento dell’indagine “ai lavoratori delle campagne, dei comparti produttivi residuali o di nuova formazione, alla massa fluttuan­te dei disoccupati, dei marginali, dei poveri” (p. 26). Gli anni del secondo dopoguerra so­no studiati rispettivamente da Gianni Sciola {Ricostruzione, lotta di classe e ristruttura­zione industriale: dalla liberazione agli anni cinquanta), da Maurizio Magri {La terra di nessuno: sindacato e sviluppo nell’agricoltu­ra bresciana degli anni cinquanta), da Ro­berto Cucchini {Nel regno del tondino: ope­rai e sindacato a Nave. 1960-1972). Pur ri­

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ferendosi a problemi specifici, le tre ricerche sono attraversate da problematiche comuni e intersecantesi. Così, ad esempio, il proble­ma della riconversione dell’apparato pro­duttivo, più acuto nel Bresciano per la fine delle commesse militari, riguarda evidente­mente il particolare sviluppo della siderur­gia, ma anche le vicende delle campagne.

All’interno di questi problemi e con il so­stegno di analisi approfondite degli apparati industriali e delle condizioni strutturali del­l’agricoltura, gli autori ricostruiscono la sto­ria dell’istituto camerale e di alcune catego­rie. Sciola ci riporta agli anni della scissione sindacale del 1948, al forte radicamento so­ciale e politico dei cattolici, alle conseguenze che ne derivano. Magri conduce una pene­trante indagine sulle difficoltà incontrate nella ricostituzione delle leghe bracciantili in una situazione nella quale la composizione della forza lavoro era mutata con lo svilup­po della figura del salariato fisso e la conse­guente contrazione del bracciantato. Cuc- chini, e siamo ai problemi ancora in qualche modo aperti, ricostruisce la complessità del­lo scontro di classe a Nave, una realtà quasi da laboratorio. Un’imprenditoria che af­fronta i problemi della congiuntura e del- l’ammodernamento dell’apparato produtti­vo comprimendo il salario, accentuando la divisione in fabbrica, intensificando lo sfrut­tamento, inquinando gli uomini e l’ambien­te. A ciò fa da contraltare una classe operaia che mantiene con l’agricoltura un rapporto non solo culturale ma anche di integrazione del reddito. Da ciò nascono le difficoltà del sindacato a radicarsi dentro la fabbrica, dif­ficoltà che si recuperano certamente per il forte impegno delle organizzazioni, ma an­che grazie ai mutamenti prodottisi nella composizione di classe.

Ricco di spunti metodologici l’intervento di Idomeneo Barbadoro, Non conclusioni ma sollecitazioni. Sollecitazioni volte non solo ad approfondire e ad indicare nuove li­nee di ricerca per gli aspetti rimasti più in

ombra, ma anche a dare significati più pre­gnanti ai risultati già acquisiti. Così, ad esempio, quando l’autore sottolinea che la propaganda svolta da Turati o da Cabrini nella fase costitutiva della Camera del lavo­ro di Brescia riusciva a penetrare proprio perché si rivolgeva alle “avanguardie profes­sionali che innestavano la coscienza sindaca­le sul vecchio tronco di tradizioni associati­ve”, a lavoratori forniti di “una propria cul­tura, che affondava le radici nelle esperienze lavorative, nelle letture da autodidatti, nelle discussioni dei circoli democratici, spesso nel travaglio dell’emigrazione” (p. 303). Ma qual’era la vera realtà della Camera del la­voro? Barbadoro invita a rivolgersi con maggior cautela agli statuti e a concentrare invece l’attenzione sull’attività concreta di questi organismi che, almeno dagli inizi del secolo, rappresentavano un vero e proprio “autogoverno proletario” . Queste ed altre sollecitazioni, ma anche provocazioni, di Barbadoro, stimolano ad alcune schemati­che riflessioni di carattere più generale. Una prioritariamente: quale significato bisogna attribuire oggi allo studio del movimento operaio? Fortunatamente la disputa, spesso tutta ideologica, per la quale la storia del movimento operaio si identificava ora con la storia dei suoi gruppi dirigenti, ora con le lotte più significative o eversive, sembra aver fatto il suo tempo. Ciò non significa ac­cantonare i risultati, alcuni rilevanti, che pu­re in quella disputa si sono prodotti. Si trat­ta di andare oltre, di allargare i campi del­l’indagine utilizzando più pienamente e con maggior convinzione anche metodologie e temi di altre discipline. Se si parte, infatti, dal nodo che rimane ancora cruciale sul co­me si sia formato e si sia sviluppato il movi­mento operaio nel XIX secolo, non possia­mo sfuggire ad una serie di interrogativi cui dare risposte con ricerche più puntuali. Chi erano gli operai dell’Ottocento? Qual’era la loro provenienza sociale e in che modo que­ste si differenziavano nelle varie aree geo-

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grafiche e politiche? Che cosa pensavano? Come lavoravano? Come vivevano? Come lottavano? Come si organizzavano e per quali obiettivi? Ma anche: quali erano nelle varie zone del paese le condizioni economi­che in cui inizia il processo di formazione del proletariato? Quali gli sviluppi delle tec­nologie e le relative incidenze nei vari com­parti produttivi? Quali le scelte dei ceti do­minanti? Quali le connessioni con la storia politica locale e nazionale? La risposta a tutti questi quesiti può consentire un reale salto di qualità della storiografia del movi­mento operaio. Una storiografia che dovrà arricchirsi con un maggior coinvolgimento di aree disciplinari specialistiche quali la storia sociale, la storia della mentalità, la storia della tecnica e della scienza, la stessa storia politica. Non si può quindi non con­sentire con Barbadoro che, nell’intervento già ricordato, osservava come fosse ormai irrinunciabile passar da una storia del movi­mento operaio ancora troppo événementiel­le ad una storia di lunga durata del fenome­no, rivolgendo grande attenzione non solo ai mutamenti ma anche alle continuità delle strutture. Dove, con il termine di strutture si debbono chiaramente intendere “non so­lo quelle oggettive, relative allo sviluppo delle forze produttive, della tecnologia, del­l’organizzazione del lavoro, ma anche quel­le soggettive della mentalità collettiva, del­le consuetudini lavorative ed esistenziali” (p. 302).

Con quest’ottica, di misurare anche aspet­ti particolari all’interno di un quadro di rife­rimento più generale, va osservato l’altro fe­nomeno, anch’esso “esploso” negli ultimi anni e che ha fortemente interessato la sto­riografia del movimento operaio: la storia locale. Non si può certo riprendere in questa sede il vasto dibattito che si è sviluppato sul­la storia locale, sui suoi pregi o sui suoi limi­ti. Certo però si può affermare che quest’ap­proccio, supportato correttamente da una valida metodologia e non separato da coor­dinate di riferimento più generali (quindi de­purato dalle facili generalizzazioni), può portare contributi oltre che sul piano stretta- mente conoscitivo, anche su quello interpre­tativo. Ciò può valere particolarmente quan­do l’oggetto dell’indagine riguardi il movi­mento operaio o, in senso più lato, le classi lavoratrici. È proprio in sede di storia loca­le, infatti, che possono essere recuperate la­cune dovute alla parzialità e alla dispersione della documentazione esistente (si pensi ad esempio alle statistiche ottocentesche e alla loro utilizzabilità). Ripartire dal particolare, da un fenomeno che si sviluppa in un’area circoscritta, può consentire un ampliamento delle fonti possibili, non ultime le testimo­nianze dirette, e determinare le condizioni per una comprensione più fondata non solo dalla realtà così come essa si sviluppa a livel­lo locale, ma anche delle interazioni con quella più generale.

Domenico Scacchi

Potere e vita quotidiana in un comune della campagna romana

di Luigi Parente

Quale molla può spingere una nota pedago- nio direttrice della scuola per assistenti so- gista impegnata in altri ambiti di ricerca — ciali fondata da Guido Calogero — ad inte- Angela Zucconi è stata infatti per un venten- ressarsi e a voler ripercorrere dall’interno la

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storia di una piccola comunità contadina della campagna romana tra la fine dell’Otto­cento e i principi del Novecento? (Angela Zucconi, Autobiografia di un paese. Un pic­colo comune del Lazio dall’Unità al fasci­smo, Milano, Edizioni di Comunità, 1984, pp. 315, con ili.). Inizialmente potremmo ri­spondere la rilevanza del periodo cronologi­co esaminato, che dalla caduta del potere temporale della Chiesa vede quel microco­smo inserirsi nel più vasto Regno d’Italia e attraverso le conseguenze della “Grande Guerra” arrivare alla crisi dello Stato libera­le e relativa nascita del fascismo.

Ma il motivo contingente è quanto di più scontato si possa immaginare. Si tratta cioè di sistemare date e didascalie ad una mostra di vecchie fotografie del paese, scovate in abbandonati cassetti, in un territorio che a motivo del disordinato sviluppo capitalistico di questi ultimi decenni sembrava aver di­menticato con la propria identità la stessa storia di comunità.

Ben più profonda è invece la genesi di questo lavoro, risultando il frutto di un in­tervento socio-culturale sul campo realizzato dalla Zucconi, mediante le strutture del “Movimento di Comunità” di olivettiana memoria, e caratterizzato da un impegno in­tellettuale e umano davvero singolare.

Gli interrogativi di oggi sulle “stanchezze di Clio”, uniti ad un rapporto continuato per anni con i problemi della cultura locale hanno polarizzato l’attenzione della studio­sa sulla ignorata realtà della “gente che non conta”, e nell’operazione di raccolta delle informazioni e di risveglio della memoria, si è vissuta un’esperienza unica, di sincera par­tecipazione, al di fuori dei consueti neutrali schemi della ricerca. “Io ho lavorato — si legge infatti nella premessa — più con ani­mo esistenziale che storiografico”.

Rendere reale il legame delle masse con le proprie origini, saldare il passato al presen­te, è questo il punto di partenza per l’autrice contro il livellamento dell’“amnesia politi­

ca” , per riprendere un’espressione di Russell Jacoby ancora oggi attuale, e con tale scelta metodologica è stato possibile individuare episodi, protagonisti e/o semplici attori del­la vita politica e sociale di mezzo secolo di storia locale.

Siamo in presenza di un riuscito ed origi­nale esempio di storia delle comunità, filone di ricerca che solo da poco la storiografia del nostro paese ha cominciato a praticare, sulle orme di quanto fatto in precedenza dall’antropologia e dalla sociologia orienta­te essenzialmente a scorgere i segni del sotto- sviluppo economico e i “ritardi” culturali del nostro Mezzogiorno.

Un altro elemento di novità della mono­grafia è rappresentato dall’uso del documen­to fotografico, il quale superando la fase del descrittivismo “arcaico”, sempre in agguato allorché ci si avvicina ad analisi di microsto­ria sociale, riesce a darci, insieme alla di­mensione politica e sociale comunitaria, an­che gli aspetti della “cultura materiale” (luo­ghi e modi di lavoro e di comportamento, costumi, usi e oggetti del vivere quotidiano).

Al tempo stesso la Zucconi si rivela disin­cantata critica della funzione sociale della fotografia, non privilegiando la storia visiva quale lettura unica della complessa realtà esaminata, riconoscendo invece indispensa­bile dal punto di vista metodologico il rap­porto organico tra sviluppo delle forze pro­duttive e sua immagine.

Il comune prescelto è Anguillara Sabazia, situato sulle sponde del lago di Bracciano, da sempre zona classica di malaria e brigan­taggio, fuori dei flussi commerciali della vi­cina via Cassia, nonché possesso delle più forti famiglie feudali romane, a partire dagli Anguillara cui seguirono a fine Quattrocen­to gli Orsini, poi i Doria d’Eboli, fino a quando questi ultimi, nel 1850, vendettero alcune tenute ai Torlonia, “mercanti di cam­pagna” allora in ascesa. Si apriva così una fase nuova della vita politica della comunità laziale, caratterizzata dalle rivendicazioni

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dei diritti consuetudinari, occupazioni di ter­re, e comparse giudiziarie, tanto che i suc­cessivi settanta anni vedranno ripetersi que­sta lunga vertenza con alti e bassi delle parti antagoniste. In questa maniera gli scontri tra gli interessi dei piccoli contadini e brac­cianti locali, favoriti per secoli dagli usi civi­ci sulle terre comunali, e quelli di speculatori d’assalto come i Torlonia, contraddistingue­ranno lo sfondo sociale degli anni a venire, così come accadde nel biennio 1903-1904, durante il quale si ebbero come nel resto d’I­talia memorabili manifestazioni di lotta con­tadina.

La privatizzazione delle terre comunali da parte delle nuove forze borghesi in atto nella prima e maggiormente nella seconda metà dell’Ottocento comportava — è risaputo — l’annullamento di antichi diritti (semina, pa­scolo, legnatico), era in una parola la fine dell’“erba dei poveri” , secondo la felice me­tafora di Marina Caffiero, studiosa di que­sto nodo storico (.L ’erba dei poveri. Comu­nità rurale e soppressione degli usi collettivi nel Lazio (secoli XVIII-XIX), Roma, Edi­zioni dell’Ateneo, 1983), rendendo così dif­ficile la stessa sopravvivenza alle numerose masse proletarie.

Pur rimanendo come impostazione una ri­cerca di carattere politico — la maggior par­te dei documenti proviene infatti dall’archi­vio comunale di Sabazia affiancato da quel­lo della Prefettura di Roma, cui apparteneva giurisdizionalmente la zona — l’obiettivo è stato quello di seguire i diversi aspetti della vita quotidiana collettiva, servendosi delle discussioni dell’ente locale. Non polarizzata sull’analisi delle strutture economiche, o die­tro interrogativi di natura pratico-politica, cui si collega ad esempio il pionieristico la­voro di Ernesto Ragionieri sulla nascita del movimento operaio a Sesto Fiorentino (Sto­ria di un comune socialista: Sesto Fiorenti­no, Roma, Rinascita, 1953), la scelta della Zucconi si rivolge essenzialmente alla strut­tura della società e ai rapporti delle classi,

e insieme alla controversia sui diritti civici della comunità, continuamente messi in di­scussione dai feudatari del tempo prima e dai liberali borghesi poi; sono i bisogni con­creti di tre generazioni di cittadini ad essere al centro del saggio. Il vivere quotidiano si presenta allora attraverso le normali espres­sioni della società civile post-unitaria. Così ora saranno i problemi della salute pubblica ad interessare l’autrice, ora le sentenze del conciliatore o i verbali dell’autorità di poli­zia per fatti di sangue o per scomparsa di cittadini in una zona di forte immigrazione; o ancora le relazioni dei maestri al sindaco sulle difficoltà di un esercizio appena ri­spondente alle istanze della popolazione, che rimaneva emarginata dai livelli culturali ed economici che si andavano raggiungendo nel resto dell’Italia.

Un microcosmo, quello di Anguillara, do­ve gli interessi e gli affari di definiti gruppi di potere si scontrano e si evolvono a secon­da della posta in gioco, sempre riflettente però l’andamento della politica governativa, e dove la lotta alla violenza legale deli’élite amministrativa locale ha del titanico, dati gli stretti rapporti di parentela ed amicizia tra le famiglie eminenti e i ricatti sull’impiego di manodopera per la massa di proletari.

Se complesso e difficile risulta il processo unitario-creativo del “paese legale” , in que­sta microrealtà appare maggiormente condi­zionato dalla secolare gestione pontificia, nota — si sa — per l’oltranzista chiusura verso la politica liberale. A tal proposito uno storico del mondo laziale del secondo Ottocento, come ricorda Zucconi, manife­stava giudizi duri quanto fondati sulla “lue clericale” che affliggeva questa comunità la­custre. “Il clericalismo ha tentato, e vi è riu­scito, pur troppo in gran parte — egli ag­giungeva — d’impadronirsi della coscienza dell’anguillarino, di sostituirsi a lui in tutto ciò che è facoltà morale, lasciandogli solo le pratiche dei campi” (p. 101). Ed era tanto vera questa considerazione che tale Stefano

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Ricci, unico patriota liberale in un mondo di reazionari, finì gli ultimi suoi anni di vita in totale solitudine, e morì ossessionato da “complesso di persecuzione” papalino.

Partendo dal primo censimento nazionale (1871) per avere dati sicuri della composizio­ne socio-professionale anguillarina, il qua­dro emergente è quello classico di una dina­mica da area agricola, con una limitata ma coesa borghesia proprietaria e professioni­sta, di contro a decine di contadini addetti a vario titolo ai lavori dell’Agro, nell’ambito della influenza del mercato romano. A causa dello stato malarico del territorio la popolazio­ne agglomerata di circa 1.000 abitanti, è distri­buita tra le 216 case registrate, mentre 179 in­dividui facenti parte di quella sparsa nella campagna sono dediti alla pastorizia, altro importante settore di produzione agricola.

La specificità storica di questa realtà è la questione della terra, e bene ha fatto l’autri­ce a concentrare l’analisi sul tema del rico­noscimento degli usi civici — vero filo rosso di questo mondo — all’accaparramento dei quali la borghesia risorgimentale impiegò tutte le sue capacità parlamentari e i suoi strumenti ideologici.

Sulla scena politica compaiono da una parte i Torlonia, e i grossi proprietari locali loro alleati, e dall’altra le masse dei contadi­ni appoggiati dalla dirigenza comunale, non più subalterna alle scelte dei primi. Sono questi, per dirla con Antonio Gramsci, i “momenti di vita intensamente collettiva e unitaria” della comunità di Anguillara, e so­no essi a rappresentare l’unico “vissuto” di quel numeroso strato dei “senza storia” . Non sono seguite soltanto le fasi alte delle giornate del 9 e 24 agosto 1903, allorquando furono occupate le terre di Valle Facciano appartenenti ai Torlonia, ma anche le diffi­coltà della lotta quotidiana per ristabilire la legittimità dei propri diritti, le contraddizio­ni e le diverse posizioni tra i partecipanti, e ancora la repressione poliziesca e il rientro infine della mobilitazione.

Con l’inizio del Novecento il quadro poli­tico locale si popola di nuove figure sociali, già comparse da alcuni decenni, che premo­no sulla generazione dei liberali del Risorgi­mento, rivelatisi alla prova più sfruttatori dei vecchi signori ed incapaci di dare una svolta moderna ai problemi dello sviluppo economico.

Sarà il movimento socialista a incarnare i desideri di mutamento di queste masse con­tadine, divenendo il protagonista di questo periodo di lotte, e così degli scontri condotti contro il fronte padronale.

È ovvio che per un’indagine di questi te­mi, il documento ufficiale ha bisogno del massimo contesto storico possibile, e il ri­corso alle fonti orali per ricostruire le lotte nelle campagne dell’età giolittiana e poi per il periodo seguente alla “Grande Guerra” è obbligato, ed è questa la parte più innovati­va dell’appassionata “autobiografia” di Sa­bazia. La sorpresa allora è stato l’aiuto dato all’autrice dalle donne, le quali nel rivendi­care il ruolo svolto in quegli anni di tensioni sociali e crisi economica hanno dimostrato la loro capacità di essere protagoniste di de­terminati momenti storici con sentita co­scienza politica.

Si tratta dello stesso fenomeno emerso dalla recente inchiesta di Nuto Revelli, L ’a­nello forte. La donna: storie di vita contadi­na (Torino, Einaudi, 1985), insuperabile stu­dioso del nostro mondo contadino, il quale ripercorrendo il lungo cammino della donna nel Cuneese ha dovuto rivedere non pochi luoghi comuni sulla subalternità politica e culturale di essa in una zona emarginata, in particolare per quanto riguarda l’ultimo quarantennio.

Sarebbe utopico voler seguire, anche se solo per accenni, l’interminabile iter della vertenza “terre pubbliche”, cominciata nel 1903 e passata attraverso tutti i gradi e le di­verse sedi giurisdizionali prima della conclu­sione, che riconoscerà, solo nel 1947, agli anguillarini il pieno diritto di coltivazione.

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Da questo succedersi di lotte sociali nelle campagne e di “sovversivismo” del comune rosso — durato appena un anno, 1920-1921 —, parte la reazione della controparte pa­dronale, composta di amministratori e fitta- voli di grossi agrari e di impiegati statali, di chiamare in aiuto e sovvenzionare lo squa­drismo fascista, e così sul problema della terra sarebbe sceso un interessato silenzio ventennale. Di contro l’immaginario collet­tivo della propaganda fascista enfatizzava invece la realizzazione del monumento ai Caduti, la cui inaugurazione, nel 1926, fe- steggerà sulla base dell’imperante nazionali­smo la fine dell’incubo delle occupazioni dei decenni precedenti.

È questa l’ultima fotografia del libro, di forte icasticità, dove tutti i poteri dello Stato totalitario (sistema politico, Chiesa, ammi­

nistrazione pubblica, forze armate) si pre­sentano nella tronfia volgarità delle loro po­sizioni di comando, mentre gli abitanti di Anguillara appaiono in un ridotto secondo piano di puro contorno.

Purtroppo con questa immagine si chiude anche la interessante ricerca della Zucconi, nella quale VEinfuhlung immessavi è pari al­la coscienza civile che l’ha spinta a rendere viva questa comunità “già fatta cadavere”, i cui bisogni e speranze, anche se volta per volta frustrati, non potranno facilmente es­sere dimenticati. Quanto tempo ancora do­vremo attendere perché storici non profes­sionali, ma mossi da una sensibile quanto attuale attenzione ai problemi della società di ieri, ci diano altri risultati di questo va­lore?

Luigi Parente

Sull’ideologia dell’estrema destradi Vittorio De Tassis

La mancanza di studi generali veramente ap­profonditi sul neofascismo italiano, conside­rato tanto nei suoi connotati più sostanziali quanto nelle sue più rilevanti vicende inter­ne, è cosa abbastanza nota. Libri oltretutto ormai datati come quelli di Pier Giuseppe Murgia o di Petra Rosenbaum non modifi­cano sensibilmente la povertà del quadro complessivo. Il motivo principale di questa singolare lacuna storiografica, che contrasta con l’abbondante produzione giornalistica e militante, di documentazione o di denuncia, è stato in anni recenti individuato da più parti nell’atteggiamento per così dire esorei­stico sempre mantenuto dall’egemone cultu­ra antifascista, oscillante tra il giudizio deri­sorio per gli stanchi rituali nostalgici dei rot­

tami di Salò e la nervosa preoccupazione per il ruolo di provocazione svolto dai giovani squadristi al servizio della destra economica e militare più retriva: con il risultato di tra­scurare, in entrambi i casi, sia le più com­plesse radici e motivazioni ideologiche e po­litiche, sia le interne dinamiche e il latente potenziale di sviluppo del radicalismo di de­stra. C’è sicuramente un pizzico di verità in questa valutazione critica, ma converrà an­che notare come l’orientamento prevalente degli studi più recenti finisca per privilegiare taluni tradizionali motivi ideologici (o per dirla più nobilmente, “culturali”) della de­stra radicale, col rischio di lasciare in ombra non solo le intricate vicende del movimento neofascista nelle sue diverse espressioni e

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manifestazioni politiche, ma anche i suoi molteplici legami con le centrali dell’eversio­ne nera sul piano interno e internazionale.

Di questo curioso “strabismo” soffre, a esempio, il volume curato da Paolo Corsini e Laura Novati, L ’eversione nera. Cronache di un decennio (1974-1984), (Milano, Ange­li, 1985, pp. 314), che raccoglie gli atti del congresso tenutosi a Brescia nel decennale della strage di Piazza della Loggia: delle tra­me nere di quel periodo si occupa una sola relazione, pregevole ma inevitabilmente sommaria, del giudice Tamburino; la parte di gran lunga preponderante del libro è inve­ce dedicata ad aspetti più o meno collaterali (gli atteggiamenti e i comportamenti delle istituzioni, della stampa, dei partiti), e so­prattuto alle matrici culturali e alle posizioni ideologiche della destra reazionaria.

Il complesso fenomeno dell’eversione ne­ra rimane perciò quasi costantemente sullo sfondo, realtà corposa ma alquanto oscura e indistinta sia nelle articolazioni interne che nei collegamenti esterni. D’altra parte, lavo­ri pur in qualche misura ambiziosi come quelli di Gianni Flamini (Il partito del golpe. Le strategie della tensione e del terrore dal primo centrosinistra organico al sequestro Moro, Ferrara, Bovolenta, 1981-1985, 4 voli.) e di Giuseppe De Lutiis (Storia dei ser­vizi segreti in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1985), si occupano delle vicende del neofa­scismo solo di scorcio, soprattutto per quan­to riguardo il torbido intreccio di servizi se­greti, bombaroli neri, agenti provocatori e personaggi della destra reazionaria dentro e fuori dell’apparato dello Stato. Della varie­gata e stratificata fisionomia dell’estrema destra torna ad emergere solo la parte più appariscente, in un certo senso la punta del­l’iceberg.

Giovani studiosi come Chiarini, Ferraresi e Revelli paiono comunque consapevoli dei limiti di un’indagine che, pur partendo da premesse metodologiche rinnovate, rimane per ora confinata prevalentemente al campo

dell’attività culturale e dell’ideologia politi­ca. Altri invece, come Cofrancesco, hanno fin troppo frettolosamente eluso il proble­ma, grazie al disinvolto recupero di una we- beriana distinzione di fatti e valori che in realtà serve a legittimare una sorta di tra­scendenza di principio dell’ideologia rispetto agli interessi e ai comportamenti pratici che la sottendono. Ed è a quest’ultimo filone che si può in definitiva ricongiungere il re­centissimo lavoro di Monica Zucchinali, A destra in Italia oggi (Milano, Sugar, 1986, pp. 288), la lettura del quale si rivela per più d’un verso deludente. Un primo motivo di delusione sta già nel fatto che, contraria­mente a quanto esplicitamente promesso in copertina, non della destra in generale o an­che solo dell’estrema destra si occupa il li­bro, bensì soltanto dall’ala minoritaria rap­presentata dalla destra radicale, per di più vista esclusivamente sotto il profilo culturale della sua riconversione nella cosiddetta “nuova destra” . Il secondo e più intrinseco motivo di delusione risiede nell’immagine sostanzialmente idillica propostaci di tale ri- conversione, dove il dichiarato distacco ser­ve a legittimare un’analisi tutta tesa a stem­perare il peso dell’eredità nazifascista, per valorizzare invece le presunte potenzialità democratiche del nuovo corso.

A rendere credibile una così benevola in­terpretazione delle contorsioni ideologiche della destra radicale non basta l’elogiativa prefazione di Giorgio Galli, lo studioso che pure più ha contribuito a suo tempo, con La crisi italiana e la destra internazionale (Mila­no, Mondadori, 1974, pp. 309), a reimpo­stare in. Italia la riflessione, sino allora al­quanto superficiale, sulla natura e il signifi­cato del neofascismo quale fenomeno sia na­zionale che internazionale. In realtà c’è da dubitare che analisi come questa della Zuc­chinali, abbastanza ampia e diligente nella ricognizione testuale ma carente della neces­saria memoria storico-culturale e degli indi­spensabili strumenti di riconduzione dal­

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l’ideologia alla sfera politico-pratica, possa­no farci fare molti passi avanti sulla via di una più precisa conoscenza della fisionomia odierna dell’estrema destra. Anzi, vien fatto di rivalutare, specie alla luce del sorprenden­te entusiamo mostrato negli ultimi tempi dallo stesso Galli per i valori “comunitari” contenuti nella tradizione reazionaria (si ve­da in particolare G. Galli, La destra in Ita­lia, Milano, Gammalibri, 1983, pp. 23 e sgg.), il discorso così sobriamente illumini­stico propostaci da Furio Jesi nelle sue diva­gazioni sulla Cultura di destra (Milano, Gar­zanti, 1979, pp. 173), il cui linguaggio a trat­ti un po’ ostico non impedisce di apprezzare l’acutezza con la quale porta alla luce il si­gnificato dei miti esoterici della destra estrema.

Decisamente più attendibili, ancorché sommari e sempre limitati al campo dell’in­dagine ideologica, risultano in proposito due dei saggi che compongono il primo volume dell’opera collettiva II pensiero politico con­temporaneo, recentemente uscita a cura di Gian Maria Bravo e Silvia Rota Gribaudi per l’editore Angeli. Si tratta dei contributi di Franco Livorsi e Marco Revelli, entrambi editi contemporaneamente in volumetti se­parati presso lo stesso editore (Franco Li­vorsi, Tradizione, controrivoluzione e fasci­smi, Milano, Angeli, 1985 e Marco Revelli, La cultura della destra radicale, Milano, Angeli, 1985), che pur da angolature diverse focalizzano un tema sin qui largamente tra­scurato dalla letteratura canonica del setto­re, e che hanno d’altronde il pregio di pro­porsi come una sorta di “summa” divulgati­va delle ricerche compiute al riguardo in questi ultimi anni.

Nel suo sintetico profilo storico, Livorsi prende le mosse dalle celebri Riflessioni sul­la rivoluzione francese di Edmund Burke, pensatore peraltro più conservatore che pro­priamente reazionario, per risalire poi attra­verso il pensiero politico della restaurazione al bonapartismo e al bismarckismo, e quindi

al nazionalismo sciovinista e al razzismo, fi­no alla confluenza di tutte queste tendenze nell’originale miscela esplosiva del fascismo e del nazismo, e concludere con una panora­mica dell’odierno radicalismo di destra sul piano mondiale. Il filo conduttore del di­scorso di Livorsi è la tesi dell’ispirazione es­senzialmente controrivoluzionaria di tutte le correnti politiche riconducibili all’area della destra radicale. Tale impostazione permette all’autore di interpretare il fenomeno del ra­dicalismo di destra, sulla scia di studiosi quali Jacques Godechot, non già come una “scheggia impazzita” della cultura politica della società industriale, bensì come una sua intrinseca e organica componente, per quan­to tendenzialmente minoritaria; e gli permet­te altresì di ripercorrere l’evoluzione secola­re della teoria e della pratica dei movimenti reazionari in stretta correlazione speculare con le successive ondate rivoluzionarie della storia europea.

Si spiegherebbe così l’indirizzo sempre più radicale via via assunto dai movimenti rea­zionari, fino alla maschera ambiguamente “rivoluzionaria” ostentata dal fascismo e dal nazismo, come ricerca di una risposta adeguata alla crescente radicalizzazione del processo rivoluzionario nelle sue tappe suc­cessive dal 1789 al 1917. E d’altra parte, su basi analoghe si verrebbe a chiarire la so­stanziale eclissi del fascismo a partire dal se­condo dopoguerra. Osserva in proposito Li­vorsi: “Uno dei punti di maggiore debolez­za, non solo del neofascismo italiano ma di qualsiasi neofascismo dei paesi occidentali, è costituito dalla crisi irrimediabile dei nazio­nalismi, in un mondo in cui si affrontano megasistemi con vocazione espansionistica planetaria”. Ora, “poiché il nazionalismo è l’anima stessa di ogni fascismo”, e poiché esso “poggia, come aveva ben intuito Barrés e come è stato tante volte spiegato da Mos­se, su sentimenti di terra e sangue quasi an­cestrali”, le prospettive di una ripresa del movimento fascista, in quanto movimento

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di massa internazionale, appaiono oggi piut­tosto limitate e sembrano riservare comun­que al radicalismo di destra un ruolo del tut­to subalterno nell’ambito della strategia glo­bale dell’Occidente capitalistico (pp. 73-77).

Pur nei limiti di un’esposizione prevalen­temente divulgativa, il discorso di Livorsi ri­sulta abbastanza convincente, almeno nelle sue grandi linee. Non mancano tuttavia mo­tivi di perplessità, come il ridimensionamen­to forse eccessivo dei caratteri di modernità di fascismo e nazismo in quanto regimi di massa, o come la sottovalutazione dell’in­flusso esercitato da Nietzsche sullo sviluppo del pensiero reazionario tra Otto e Novecen­to. A rimettere un po’ le cose a posto, sotto quest’ultimo profilo, ci pensa Marco Revelli nel suo saggio sulla cultura della destra radi­cale, laddove afferma che “la teoria della sovranità di questa destra presuppone come necessario retroterra l’antropologia antie­gualitaria nietzscheana, e riflette, come co­stante, l’orrore della massificazione, il di­sprezzo-timore [dell’] istinto del gregge..." (p. 43).

Giustamente Revelli vede nella “nuova de­stra” la protagonista di “una metamorfosi formale del radicalismo di destra italiano”, contraddistinta da due aspetti fondamentali: a) la modificazione della sua “geografia cul­turale”, con l’abbandono delle tradizionali ascendenze nazional-corporative del fasci­smo italiano e il recupero, sulla scorta di “maestri” quali Evola, Romualdi e De Be­noist, delle correnti di pensiero proto- e pa- ranaziste (Konservative Revolution, Jiinger, Spengler, Schmitt); b) lo spostamento del suo preminente interesse tematico dalla sfera politico-statuale a quella antropologico-esi- stenziale e alla società civile quale luogo di formazione deH’egemonia intellettuale e mo­rale (“gramsciano di destra”).

La conclusione di Revelli è che, al di là dei superficiali aggiornamenti di contenuto e di linguaggio, la “nuova cultura” della destra radicale “sembra voler confermare... la net­

ta e incontaminata identità della destra più estrema...: tradizione contro progresso, ge­rarchia contro uguaglianza” (p. 45). Si trat­ta, in sostanza, del profilo della “nuova de­stra” già propostoci dallo stesso autore a un livello ben più impegnativo di analisi e di ri­flessione politologica — nel suo contributo al volume curato da Franco Ferraresi {La destra radicale, Milano, Feltrinelli, 1984) che a tutt’oggi rimane quanto di meglio è uscito sull’argomento (esemplari per chia­rezza e rigore d’indagine appaiono in questo libro, che raccoglie i primi risultati di un più vasto programma di ricerche sulla destra ita­liana del secondo dopoguerra, i due primi capitoli, rispettivamente dedicati alle dottri­ne della destra radicale fino al 1977 e alla destra eversiva, entrambi dovuti a Ferra­resi).

Circa il potenziale di diffusione egemoni­ca della cultura di destra, nella sua nuova veste relativamente inedita in Italia, il giudi­zio di Revelli risulta qui meno allarmato di quanto non suonasse nel recente passato, in particolare nella relazione da lui presentata all’importante Convegno di Cuneo del no­vembre 1982 {Panorama editoriale e temi culturali della destra militante, in Nuova de­stra e cultura reazionaria negli anni Ottanta, Atti del Convegno, Cuneo, 19-20-21 novem­bre 1982, “Notiziario dell’Istituto storico della resistenza in Cuneo e Provincia” , n. 23, giugno 1983, pp. 49-61), dove si veniva a stabilire una precisa correlazione tra “crisi d’identità” della sinistra e crescita della “nuova destra” quale portatrice di una sedu­cente metafisica della crisi, alla luce di una lettura un po’ troppo affrettatamente “wei- mariana” del travaglio del sistema politico italiano. In realtà, le vicende successive han­no ridimensionato sia la supposta portata di quella crisi sia la pretesa vocazione catastro­fica delle nuove generazioni.

Valido rimane nondimento il preoccupato richiamo fatto da Guido Quazza in sede di apertura di quello stesso Convegno, ai près-

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santi compiti di natura storiografica e morale che spettano oggi alla cultura di tradizione antifascista di fronte alle insidie comunque non trascurabili di un’ideologia che trova ali­mento e spazio nei limiti e nelle contraddizio­ni del sistema democratico (Introduzione ai lavori, cit, pp. 9-15). In tal senso, pur nella loro ottica prevalentemente settoriale, le ulti­me pubblicazioni menzionate contribuisco­no, certo in diversa misura, ad ovviare alme­no in parte alla carenza di studi veramente si­gnificativi ed esaurienti sul fenomeno neofa­scista. Ma qui, a chiusura di questa nota, con­

verrà rimandare al bel libro di Roberto Chia­rini e Paolo Corsini, Da Salò a Piazza della Loggia. Blocco d ’ordine neofascismo, radica­lismo di destra a Brescia (1945-1974), Milano, Angeli, 1983) che oltre ad offrire una prima sommaria, utilissima bibliografia ragionata sull’argomento, costituisce forse il più interes­sante tentativo di ricostruire per linee interne, e in una prospettiva che trascende ampiamente l’ambito locale della ricerca, le vicende del neofascismo dal dopoguerra alla metà degli anni settanta.

Vittorio De Tassis

Seconda guerra mondiale

I prigionieri militari italiani du­rante la seconda guerra mondia­le. Aspetti e problemi storici, a cura di Romain Rainero, Mila­no, Marzorati, 1985, pp. 339, sip.

Il volume raccoglie gli atti del convegno organizzato a Manto­va nell’ottobre 1984 dall’Ammi- nistrazione provinciale manto­vana, con il concorso del mini­steriale Comitato forze armate e guerra di liberazione (ma perché dimenticare il ruolo dell’Istituto mantovano per la storia del mo­vimento di liberazione?). Il con­vegno è stato il primo dedicato al problema complessivo dei pri­gionieri di guerra italiani 1940- 45 (non il primo a occuparsene, perché la prigionia di Russia era già stata ampiamente trattata nel convegno del 1979 promosso dall’Istituto storico della resi­stenza in Cuneo e provincia su “Gli italiani sul fronte russo”): una grossa benemerenza, anche se il ritardo con cui il tema è sta­to affrontato è pagato con la dif­ficoltà di un discorso generale e

l’impossibilità di un adeguato approfondimento in tutti i cam­pi della prigionia italiana di guerra.

Una parte degli studi presen­tati si basa su ampie ricerche negli archivi e nella produzione straniera: Elena Aga Rossi stu­dia il ruolo dei prigionieri nei rapporti tra il governo italiano e gli alleati angloamericani, Ro­berto Morozzo della Rocca si sofferma su come la prigionia dei soldati italiani in Russia fu sentita, difesa e strumentalizza­ta negli anni 1945-50, Flavio Conti analizza con molto respi­ro le vicende dei militari italiani prigionieri negli Stati Uniti, Stefano Bianchini affronta il caso straordinariamente com­plesso dei Balcani, Jean Louis Miège utilizza gli archivi fran­cesi per la durissima sorte degli italiani lasciati in balia dei fran­cesi, infine Carlo Musso esami­na un tema parallelo, che non va assolutamente confuso con la prigionia di guerra, ossia i militari italiani rifugiatisi in Svizzera nell’ultima fase del conflitto. Altri studi si limitano a utilizzare pubblicazioni già

note, come quelli di Aldo Mola sull’“Alba”, giornale per i pri­gionieri italiani in Russia, dif­fuso in reprint dall’Istituto sto­rico della resistenza nel Cunee- se, di Vittorio E. Giumella sugli internati militari in Germania 1943-45, che riprende temi già trattati più volte dallo stesso autore, di R. Rainero sui pri­gionieri italiani in Africa, che utilizza qualche volume di me­morie e documenti della Croce rossa di provenienza non mai dichiarata. Mancano quasi del tutto ricerche negli archivi mili­tari italiani, benché il convegno godesse dell’appoggio del mini­stero della Difesa e degli Uffici storici delle forze armate. Inte­ressanti invece alcune comuni­cazioni basate essenzialmente su esperienze personali, come quelle di Umberto Cappuzzo, Ferdinando Bersani, Sergio Cecconi e Alberto Rovigni. In complesso una serie di studi di grosso rilievo, pur con tutte le discontinuità di un volume di atti e di un lavoro pionieristico; c’è da augurarsi che si tratti di una base di partenza per l’ulte­riore, sistematico sviluppo de­

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gli studi e non di un punto di arrivo.

Purtroppo l’inquadramento del volume è assai carente. Co­me introduzione generale alla tematica Rainero non riproduce la relazione presentata con suc­cesso al convegno, ma si limita a ristampare parte della relazio­ne ministeriale sui rimpatri del 1947, completamente superata da tutti i punti di vista (partico­larmente disinvolte le cifre sui reduci dall’internamento, che pongono sullo stesso piano i militari rifugiatisi in Svizzera e quelli deportati nei lager tede­schi).

Rainero presenta inoltre una bibliografia sulla memorialisti­ca dei militari italiani prigionie­ri nella seconda guerra mondia­le di venti pagine e novanta ti­toli (parte dei quali nulla hanno a che fare con la memorialisti­ca, come l’appello del cardinale Schuster per l’invio di soccorsi agli internati in Germania), ba­sata su ricerche in tre bibliote­che milanesi soltanto e infatti penosamente incompleta: basti citare la mancanza della fonda- mentale rassegna di Valdo Zilli sulla prigionia in Russia citata come merita da R. Morozzo, e quindi l’elencazione di una doz­zina soltanto di titoli su questo tema contro la sessantina repe­rita da Zilli, oppure i trenta ti­toli suH’internamento in Ger­mania citati contro gli oltre 150 da noi riscontrati.

C’è da chiedersi quale valore abbia una bibliografia così sommaria e se non sarebbe sta­to meglio rinunciare alle cin­quanta pagine di “rassegna stampa” degli articoli di crona­ca dedicati al convegno di Man­tova, trionfalistica quanto inu­tile, e invece dedicare qualche

fatica e qualche pagina in più per fare una bibliografia alme­no decente.

Giorgio Rochat

Service historique de l’armée de terre, Les forces françaises dans la lutte contre l’Axe en Afrique, vol. I; J.N. Vincent, Les forces françaises libres en Afrique 1940-43, Vincennes, 1983, pp. 407; vol. II; M. Spi- vak, A. Leoni, La campagne de Tunisie 1942-43, Vincennes, 1985, pp. 471, sip.

In due grossi volumi, scritti con molta chiarezza e un buon corredo di schizzi e carte, il Ser­vizio storico dell’esercizio fran­cese documenta la parte delle truppe francesi nella guerra in Africa contro gli italo-tedeschi. Il primo volume, dedicato alle forze golliste dal loro debutto in Africa equatoriale alla fine del 1940 alla vittoria in Tunisia, dopo una breve e molto interes­sante analisi dei primi volontari della Francia libera ricostruisce vicende diverse e disperse, in parte già note come la parteci­pazione francese alle operazioni in Libia e Egitto, culminata nel­la brillante resistenza a Bir- Hakeim nel giugno 1942, in parte largamente ignorate, co­me il concorso francese alla conquista dell’Eritrea e gli at­tacchi condotti dal Ciad verso le posizioni italiane nel sud libi­co, con alterne vicende dal 1941 al 1943. Il volume si chiude con la ricostruzione della parte rela­tivamente secondaria che le for­ze golliste ebbero nella campa­gna di Tunisia. Il secondo volu­me è più compatto, perché se­gue le vicende delle forze rego­lari francesi in Nordafrica du­

rante gli anni 1940-42 così densi di dubbi politici, poi dinanzi al­lo sbarco anglo-americano del novembre 1942, infine nella campagna di Tunisia, affronta­ta con molta determinazione malgrado l’insufficienza dei mezzi.

In complesso i due volumi offrono un eccellente esempio di relazione ufficiale, attenta al­la ricostruzione anche delle mi­nori vicende senza perdere di vista il quadro politico-strategi­co generale, solidamente ap­poggiata sugli archivi militari nazionali e sulle relazioni uffi­ciali straniere, ma (a differenza di quanto usi il nostro Ufficio storico) pronta a utilizzare lar­gamente la memorialistica e gli studi e archivi privati, fino a ri­correre alle testimonianze orali dei protagonisti. La valorizza­zione dei risultati ottenuti dalle forze francesi è condotta con equilibrio, gli insuccessi sono spiegati senza minimizzarli, le vittorie inquadrate nel contesto generale (in cui gli anglo-ameri­cani avevano la parte maggiore) gli avversari trattati con ri­spetto.

In particolare questi due vo­lumi offrono un grosso apporto allo studio della guerra italiana in Africa, specialmente prezio­so per settori dimenticati come l’Eritrea e il sud libico. Va però rilevato che le fonti italiane uti­lizzate si limitano alle monogra­fie del nostro Ufficio storico dell’esercito; non sono stati consultati gli archivi italiani, né la memorialistica, né è stata cercata la collaborazione del­l’Ufficio storico, che avrebbe potuto mettere a disposizione dei francesi gli studi sulla cam­pagna di Tunisia che il com­pianto amico Vincenzo Galli-

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nari andava conducendo per la preparazione della relazione ita­liana. Non possiamo che ram­maricarcene, perché la parteci­pazione italiana alle vicende narrate fu sempre importante e onorevole, spesso brillante, e una sua migliore conoscenza avrebbe portato a riconosci­menti francesi più ampi, specie per il secondo dei volumi in que­stione, più avaro sotto questo punto di vista del primo.

Giorgio Rochat

Aa .Vv ., La deportazione nei campi di sterminio nazisti. Studi e testimonianze, a cura di Fede­rico Cereja e Brunello Mantelli, Milano, Aned, Angeli, 1986, pp. 356, lire 25.000.

“La follia nazionalsocialista esplose nel corso degli anni in un orripilante sistema di omici­dio in massa: con ciò proprio venne alla luce il suo fondamen­tale nichilismo. I campi di con­centramento, istituiti nel 1933, si svilupparono a veri e propri ‘macelli umani’”. Così notava un tedesco che ha saputo resiste­re, Ernst Niekisch, in un ampio saggio delle vicende fortunose non sempre opportunamente ri­cordato (li regno dei demoni. Panorama del Terzo Reich, Mi­lano, Feltrinelli, 1959, p. 491). Follia assolutamente lucida, pe­raltro, tanto da potersi opportu­namente rilevare — come ha fatto ad esempio Léon Poliakov nel suo classico II nazismo e lo sterminio degli Ebrei (Torino Einaudi, 1955, p. 241) — che “il genio tecnico dei tedeschi per­mise loro di organizzare nel giro di pochi mesi una industria della morte razionale ed efficace”.

Numerosi e variamente perti­nenti sono certo i richiami di ca­rattere storiografico e memoria- listico che questo argomento suggerisce sia a livello europeo che italiano, per quanto da noi (hanno ragione di sottolineare Cereja e Mantelli) manchi tutto­ra una storia generale della no­stra deportazione; ma ricorren­ti, appunto, sono le immagini del piano, del sistema, del pro­getto lungamente meditato, mi­nuziosamente programmato, ri­gorosamente attuato in un pre­ciso quadro ideologico, econo­mico e politico: per cui si è par­lato in svariatissime occasioni di un tragico efferato “universo concentrazionario” nazista, e qui meglio ancora si suggerisce l’espressione galassia concentra- zionaria evidenziarne, alla luce soprattutto delle testimonianze, (’“impensabile pluralità di si­tuazioni e di percorsi personali” non meno che le “infinite parti­colarità e sfaccettature” del mondo dei lager (p. 13). Tutto funzionale e premeditato, dun­que: “un nazismo senza lager non è pensabile”, ha affermato Primo Levi ribadendo il nesso inscindibile fra il totalitarismo razzista — antisemita in parti­colare — di quel movimento e di quel regime e i suoi programmi di segregazione e di sterminio; il 22 marzo 1933, poche settimane dopo l’inizio del cancellierato di Hitler, l’apertura di Dachau ha spalancato l’abisso della “galas­sia” in primo luogo agli antina­zisti e agli ebrei tedeschi, sicché appare ineccepibile, alla luce della copiosa documentazione che nessun neonazismo e nessun “revisionismo storico” può in­firmare, l’asserzione di Enzo Collotti “che Dachau nel 1934 è già potenzialmente la Auschwitz

del 1944. Ma è anche molto di più; è la proiezione nel microco­smo del lager della società so­gnata dai nazisti: il lager non è solo il campo di concentramen­to, esso riproduce al suo interno tutte le strutture, le gerarchie e le istituzioni della segregazione che già esistono al di fuori di es­so” (pp. 230-231).

Siamo così già entrati in mé­dias res, a proposito di questo libro importante e significativo, la cui preparazione ha avuto i supporti morali, politici, scien­tifici dell’Aned, del Dipartimen­to di storia dell’Università di Torino, degli Istituti piemontesi per la storia della Resistenza, della presidenza dell’Assemblea regionale del Piemonte: una Re­gione che ha dato moltissimo al­la Resistenza e alla deportazione nei loro diversi aspetti: un Con­siglio regionale che da vari anni ha fatto molto “perché non va­da perduta la memoria dei cam­pi di annientamento della crimi­nale dottrina nazista”, e ne sono tra l’altro prove concrete il Con­vegno del 28-29 ottobre 1983 (cfr. gli Atti “Il dovere di testi­moniare”, Torino, 1984) e le iniziative di studio annuali ri­volte agli studenti delle scuole superiori, che hanno stimolato tanti giovani e insegnanti pie­montesi a cimentarsi in serie ri­cerche su temi antifascisti, resi­stenziali e di formazione demo­cratica, consentendo poi loro di prendere diretto contatto con la realtà dei lager e con la calda in­sostituibile testimonianza dei sopravvissuti, dei militanti del- l’Aned.

Si tratta pertanto di un volu­me non isolato, sia perché in­quadrato in una vasta attività pubblica, sia perché anticipato- re di una prossima antologia

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delle testimonianze essendo, co­me ha notato Tranfaglia (p. 7), “il primo dei due legati alla creazione dell’Archivio della Deportazione, attraverso la rac­colta delle testimonianze di tutti gli ex deportati residenti in Pie­monte e sopravvissuti finora”. Certo, sono trascorsi oltre qua- rant’anni dagli avvenimenti e molti e complessi sono stati i motivi di ordine oggettivo e sog­gettivo perché si sia atteso tanto tempo: resta comunque il fatto esemplare che dalla fine del 1981 siano maturate nell’ambito di una regione le condizioni gra­zie alle quali un’équipe di stu­diosi e ricercatori, per lo più na­ti dopo, abbia intrapreso “la raccolta delle storie di vita degli ex deportati” e l’elaborazione critica dei dati, utilizzando op­portunamente le tecniche della storia orale nel quadro della ri­cerca e dell’archiviazione delle fonti e contribuendo quindi a consolidare e arricchire in sede storiografica quell’imperativo di Non dimenticare che è retag­gio soprattutto di chi è caduto nella lotta di liberazione e allo­ra, in prima fila, di chi è “passa­to per il camino” nella galassia nazista della morte.

Un libro assai ricco di apporti differenti, non facilmente sinte­tizzabili, validi in genere per la conoscenza e non di rado stimo­lanti per l’ulteriore sviluppo del­le ricerche: merita qui farne qualche rapida considerazione, relativamente a taluni aspetti es­senziali e anche alla sua artico­lazione in tre parti che amplia il discorso ben al di là della pur densa problematica regionale. Basilare è senza dubbio la prima che, attraverso tre saggi di Fede­rico Cereja, Andrea Devoto e Guido Quazza, propone le que­

stioni storiografiche derivanti, non soltanto a livello italiano, dal vario materiale disponibile: memorie, antologie, resoconti dei processi, contributi su rivi­ste, atti di congressi ed incontri, audiovisivi, non escluse le anali­si spesso non univoche sui po­stumi psicopatologici della de­portazione. Se ne ricava — a parte le scelte piemontesi che hanno puntato sulle “storie di vita di tutti gli ex deportati oggi residenti in Piemonte” — un quadro tutt’altro che definitivo, dove abbondano i “settori da approfondire” (p. 52) ancora nello specifico reperimento di documenti, specie a proposito di gruppi come gli zingari che non hanno a tutt’oggi “goduto di molte attenzioni”.

Le “Riflessioni a partire dalla ricerca piemontese” costituenti la seconda parte si sviluppano in cinque saggi che, facendo am­pio uso delle registrazioni già raccolte nell’Archivio della de­portazione piemontese, testimo­niano della ricchezza di dati pu­re a livello di storia locale per il passato e per il presente (rap­porto tra ex deportati e comuni­tà e vicende politico-sociali del­l’ultimo quarantennio). In spe­cial modo il saggio di Mantelli (pp. 83-106) evidenzia sintoma­ticamente “il rapporto fra de­portazione e lavoro coatto” nel­le imprese tedesche, il senso del­l’esperienza operaia — di me­stiere, ma anche politica — ri­spetto all’emergenza del lager (lavorare, conservare la propria identità, sabotare con intelligen­za), fino ai limiti della tecnolo­gia “alta” che i nazisti tenteran­no di sfruttare dall’agosto 1943 a Dora-Mittelbau; mentre sem­pre perspicua risulta l’analisi di Alberto Cavaglion (pp. 107-

125) sulla deportazione degli ebrei piemontesi.

Importante infine nell’oriz­zonte complessivo si rivela la “dimensione europea” prospet­tata negli otto saggi della terza parte, tra cui sono necessaria­mente da segnalare — oltre al già menzionato caso di Dachau quale “modello di un sistema terroristico destinato a espan­dersi come macchia d’olio sul­l’intera area sotto influenza del nazismo” (p. 225) — i contribu­ti tradotti di Walter Bartei, Georges Wellers, Hermann Langbein e Barbar Bromberger.

Ne emergono tra l’altro l’em- blematicità del campo di Bu­chenwald (anch’esso uno dei pri­mi), con il valore del resto non unico della sua resistenza interna e con il carattere perenne del suo giuramento (“La nostra parola d’ordine è la distruzione del na­zismo fino alle radici! Il nostro obiettivo è la costruzione di un mondo nuovo nella pace e nella libertà!...”); la verità storica del­lo sterminio e il paradosso del suo isolamento di fronte alle re­sponsabilità dello schieramento antinazista e dell’opinione pub­blica mondiale (si veda lo studio di D.A. Morse, Mentre sei milio­ni morivano', ma la bibliografia è più ampia); la peculiarità dell’i­deologia nazista e la già citata funzionalità dei lager; la realtà da non trascurare di una Resi­stenza antifascista tedesca. Non mancano riflessioni di respiro etico e religioso nei testi di V.E. Giuntella e di C. Manziana; ma, concludendo, sembrano da se­gnalare gli ammonimenti desu­mibili dal saggio di Rudolf Schneider, l’ultimo della raccol­ta: “Perché la storia non si ripeta: neonazismo e razzismo nella Ger­mania di oggi” (pp. 319-338).

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Rassegna bibliografica 171

Non sono morte le radici eco­nomiche, politiche, culturali, del nazismo specialmente nella Repubblica federale di Germa­nia, dove “le associazioni neo­naziste militanti fanno proprie in tutto e per tutto le parole d’ordine diffuse dai gruppi di ispirazione Ss e i tentativi di giu­stificazione ideologica, e pren­dono le Ss a ‘modello’” (p. 337). Non è dunque possibile né lecito pensare solo al passato quando leggiamo un libro come quello curato da Cereja e Man­telli; pure stavolta il passato rimbalza sul presente, il cono­scere postula il fare. Si può esse­re in molti modi, tutti contem­poranei, coerenti con i valori della Resistenza e col giuramen­to di Buchenwald: la lettura di questo libro stimola all’im­pegno.

Carlo Ottino

Carlo Vicentini, Noi soli vivi. Quando settantamila italiani passarono il Don, Milano, Ca­vallotti, 1986, pp. 226, lire 28.000.

La memorialistica sulla pri­gionia italiana di Russia si arric­chisce con questo volume di una nuova testimonianza di grande efficacia per drammaticità di vi­cende e schiettezza e semplicità del racconto. Giovane ufficiale di complemento del battaglione alpini “Monte Cervino”, l’auto­re non sente l’esigenza di narra­re le sue vicende nei nove mesi in cui fu impegnato con il suo battaglione nei settori più diffi­cili del fronte italiano in Russia, perché è l’esperienza della suc­cessiva prigionia che lo ha mar­cato per la vita. Come racconta, ha dovuto aspettare quasi qua­

rantanni per tornare su queste vicende con qualche distacco, ma i ricordi sono ancora tutti nitidi e urgenti. E del resto po­che cifre bastano a dare le di­mensioni della tragedia: “del centinaio di uomini del mio bat­taglione, tra cui sette ufficiali, catturati insieme a me, solo due ufficiali e tre alpini sono tornati a casa. Condivisi i primi mesi di prigionia con trenta ufficiali, quasi tutti del gruppo Udine dell’artiglieria alpina: di questi, solo due sono rimasti vivi e della morte di tutti gli altri sono stato testimone oculare”. La prima parte del libro racconta appunto le sempre nuove prove, dalla fa­me al tifo petecchiale, in cui scomparvero tanti prigionieri: l’autore non forza i toni, non indulge in descrizioni caricate né in invettive contro i russi, la­scia parlare i fatti, con molta semplicità.

A partire dall’estate del 1943 le condizioni dei prigionieri si “normalizzarono” (s’intende in relazione a quanto poteva offri­re la Russia arretrata e devasta­ta): la seconda parte del libro è meno drammatica, ma sempre efficace nella descrizione della dura vita dei prigionieri e dei lo­ro rapporti con la popolazione, anche con toni umoristici e for­se qualche pagina di troppo di conversazioni didascaliche. I sentimenti dominanti e intrec­ciati sono la rassegnazione di­nanzi all’inevitabile e una dispe­rata voglia di vivere; mancano ottimismo e fiducia nell’uomo, e il ritratto che l’autore traccia della psicologia del reduce dalla prigionia di Russia è dominato dall’individualismo: “È un uo­mo che non è più capace di vere emozioni... tollerante, quasi in­differente... che non si accalora

per nessuna discussione... per­ché ha imparato che tutto è rela­tivo, che non esiste separazione netta tra bene e male... È un uo­mo che quando ha male alla pancia, ai denti, ha la febbre, non lo dice a nessuno, se lo tiene e basta... È un uomo che cono­sce sul serio cosa vuol dire fa­me... non lascia mai nulla nel piatto anche se è sazio e proibi­sce che si butti qualsiasi avan­zo...”. Questo ritratto è certa­mente troppo severo (e nella te­stimonianza accanto a episodi di viltà morale si trovano anche gesti di fiducia e bontà), ma è il tentativo dell’autore di eviden­ziare l’incomunicabilità finale della sua esperienza, malgrado ogni sforzo di narrazione: “que­sto reduce, naturalmente, è il prodotto specialissimo di una serie di circostanze eccezionali. Non pretende di costituire un esempio e non vuole insegnare nulla... Sa solo di essere un uo­mo felice, soddisfatto del molto o del poco che la vita gli offre. Contento di essere vivo, consi­dera regalato ogni giorno che passa, se pensa alle molte mi­gliaia di suoi compagni che qua­rantanni fa chiusero malamen­te la loro giovinezza in una terra e per una causa che non era la loro”.

Giorgio Rochat

A a .Vv ., Les armées françaises pendant la seconde guerre mon­diale 1939-45, Paris, Institut d’histoire des conflits contem­porains, 1986, pp. 458, ff. 95.

Il volume raccoglie gli atti del convegno organizzato a Parigi nel maggio 1985 dall’Institut d’histoire des conflits contem­porains e dai servizi storici del­

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le forze armate francesi. Si arti­cola in quattro parti: le icause della sconfitta del 1940, la ripre­sa della lotta, i momenti di crisi, la partecipazione alla vittoria. Oltre trenta contributi di studio­si militari e civili, che con molta libertà e molta documentazione, in un quadro patriottico vissuto con scrupolo scientifico e spirito critico, analizzano le vicende delle diverse forze francesi nella guerra mondiale, dalla guerra del 1939-40 al regime di Vichy, dalle forze golliste e della resi­stenza alla complessa riunifica­zione nel 1943-44. Da sottoli­neare gli studi sulle forze armate francesi nel 1939-40, che ne do­cumentano la scarsa efficienza; ma anche gli apporti sulle com­plesse vicende delle forze con­trapposte del 1940-43 e final­mente sui successi francesi del 1944, rivendicati senza nascon­dere la quasi totale dipendenza dal controllo e dalle risorse sta­tunitensi.

Giorgio Rochat

François Bédarida, La bataille d ’Angleterre, Bruxelles, Ed. Complexe, 1985, pp. 180, ff 35.

Segnaliamo questo breve stu­dio della battaglia d’Inghilterra dell’autunno 1940, con cui l’a­viazione britannica troncò i pia­ni nazisti di invasione, come modello di divulgazione scienti­fica. L’alta competenza dell’au­tore, studioso affermato di sto­ria anglofrancese contempora­nea, e le sue doti di chiarezza, oltre alla felice formula della collana di alta divulgazione, permettono di riassumere prima gli avvenimenti, poi le interpre­tazioni e infine di approfondire una serie di problemi chiave,

mettendo in rilievo sia le cause di lungo periodo che permisero agli inglesi di sostenere la difesa del loro paese con mezzi e siste­mi moderni, sia gli errori strate­gici dell’alto comando tedesco, che affrontò la battaglia con im­provvisazione e eccessiva fidu­cia nelle sue forze.

Giorgio Rochat

H erbert R. Lottman, Pétain eroe o traditore? Milano, Fras- sinelli, 1985, pp. 378, lire 19.500.

Quando, nel giugno del 1940, Philippe Pétain fa ai francesi “il dono della sua persona” (un classico cadeau empoisonné), ha già ottantaquattro anni, e da poco più di vent’anni (da Ver­dun) è un eroe nazionale. Il de­stino straordinario di quest’uo­mo si compie dunque tutto in una stagione della vita che nor­malmente è compresa tra la pen­sione e la tomba; negli anni in cui più ha lasciato il segno nella vita dei suoi compatrioti, Pétain è addirittura un gran vegliardo: la morte lo coglie in cattività, a novantacinque anni compiuti. È quindi del tutto naturale che il suo più recente biografo dedichi i nove decimi del suo lavoro a ri­costruire gli ultimi trentasette anni della vita di Pétain e più della metà addirittura agli ulti­mi dieci.

Prima d’allora, la vita di Pé­tain non differisce in niente da quella di migliaia di suoi colle­ghi: una carriera senza lode e senza infamia, con qualche ri­tardo anzi nelle promozioni da un grado all’altro, che si svolge secondo l’usuale trafila dei co­mandi di guarnigione e dei corsi

alla scuola di guerra, anche co­me insegnante, ma mai in primo piano; una vita da funzionario, che non è nelle poste o nell’inse­gnamento, ma militare di carrie­ra. La prima guerra mondiale lo strappa alla pensione ormai vi­cina, e Verdun gli spalanca le porte del trionfo, a sessantuno anni. D’allora in poi è un eroe nazionale. Non è però un eroe che riposi sugli allori; gli alti in­carichi a cui viene chiamato, in una sequela quasi ininterrotta che va dagli anni venti fino a Vi­chy, gli impediscono di realizza­re un suo sogno, andare a far la vita del gentleman farmer nel Midi. Quest’aspirazione fru­strata al riposo è forse l’unico elemento di simpatia per il suo personaggio che Lottman riesce a indurre anche nel lettore più avvertito. Lo stesso lettore può invece essere infastidito dalle ri­petute e minuziose prove della straordinaria vitalità di Pétain: il biografo non gli risparmia i particolari di molti pranzi e cene (sempre affrontati dal vecchio Maresciallo con giovanile appe­tito), né gli nasconde l’esube­ranza amatoria, divenuta leg­gendaria perfino negli anni di Vichy.

Viene però difficile capire Pé­tain senza prendere in conto compiutamente quel che ha rap­presentato il regime di Vichy; Lottman si pone su un altro pia­no, e la traduzione italiana del suo lavoro (che riduce, senz’av- vertirne il lettore, a meno della metà il testo francese) richiama fin dal titolo un’annosa contro­versia che non ha mai prodotto grandi risultati dal punto di vi­sta storiografico. I sostenitori della tesi del tradimento (tra i quali i giudici che l’hanno con­dannato dopo la liberazione)

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imputano al Maresciallo d’aver messo il suo prestigio personale al servizio del nemico, fiaccan­do la capacità di resistenza al­l’occupazione nazista; e d’aver- lo fatto mettendosi a capo d’un regime che non solo ha attiva­mente collaborato alla guerra tedesca, ma che ha anche di­strutto le libertà civiche, non ri­sparmiando ai francesi le misure più vergognose. I difensori del Maresciallo hanno invece sem­pre insistito su due argomenti: col suo sacrificio personale, Pé­tain è riuscito ad attenuare i ri­gori dell’occupazione tedesca, e ad assicurare la sopravvivenza nazionale della Francia. Pétain, prigioniero delle circostanze e della sua vecchiaia, ha salvato il salvabile.

Lottman evita saggiamente di rifare il processo a Pétain, e uti­lizza tutto ciò che archivi, me­morialistica e pamphlettistica hanno prodotto in questi qua- rant’anni per seguire da vicino, in alcuni passi ora per ora, il suo personaggio, riuscendo a met­terne in luce anche aspetti poco noti ed a sfumare alcuni luoghi comuni (com’è il caso della pre­tesa incomprensione del ruolo degli armamenti mobili e dell’a­viazione, a proposito dei quali alcuni rapporti stilati dal Mare­sciallo negli anni trenta ne so­stengono tutta l’importanza), ma non riesce a suggerire al let­tore alcune risposte d’un certo peso, che la storiografia ha già dato da una buona ventina d’anni. Queste risposte, che ri­guardano sostanzialmente il senso della politica seguita dai dirigenti di Vichy dal momento della nascita del regime fino al suo crollo, possono essere date se si parte dal dato di fatto che Pétain, al pari degli altri suoi

compagni d’avventura, credeva nella politica che andava appli­cando.

Pétain, con Lavai o con Dar- lan, o con entrambi, credeva cioè che l’armistizio, la ricerca della collaborazione di stato con il Reich, la cobelligeranza con­tro gli inglesi, la costituzione d’un regime di dittatura polizie­sca, fossero altrettante tappe obbligate d’una strada che avrebbe portato la Francia ad occupare un posto d’onore nel nuovo mondo che sarebbe usci­to dall’immancabile vittoria del­l’Asse. Se così non è stato, non lo si deve né a pretesi doppi gio­chi del Maresciallo, né ad un suo atteggiamento di resistenza passiva che non è mai esistito; lo si deve ad i suoi nemici giurati (gli inglesi, De Gaulle, la Resi­stenza), contro i quali il suo re­gime non ha risparmiato atti ag­gressivi, condanne a morte, ese­cuzioni. Pétain, in definitiva, non era tutta la Francia; era il simbolo della Francia che ha perso.

Giorgio Caredda

Benedetto P afi - Bruno Ben­venuti, Roma in guerra. Imma­gini inedite settembre 1943-giu- gno 1944, Roma, Oberon, 1985, pp. 271, lire 45.000.

Sulla difesa di Roma nel set­tembre 1943 si è scritto moltissi­mo, probabilmente più che su ogni altra crisi italiana (più che su Caporetto, crediamo). È quindi difficile che malgrado ampie ricerche e apporti indub­biamente originali, la ricostru­zione degli avvenimenti condot­ta in questo volume possa dire cose davvero risolutive. Del re­sto il suo ruolo è sostanzialmen­

te di supporto alla documenta­zione fotografica, questa sì di eccezionale novità e interesse. Gli autori sono riusciti a attin­gere agli archivi fotografici uffi­ciali, militari e civili, italiani e stranieri; ma soprattutto hanno utilizzato archivi privati ine­splorati e di diverso taglio. Pos­sono così presentare una docu­mentazione quasi interamente inedita sui combattimenti intor­no e dentro Roma e sulla resa italiana, poi sulla città nei lun­ghi mesi di occupazione tedesca, con immagini di rara efficacia. Meno nuove, anche se in gran parte inedite, le fotografie sui combattimenti sui fronti di Cas­sino e Anzio; nuovamente di grande interesse quelle sulla li­berazione di Roma. In comples­so un bel lavoro (viziato solo dalla rinuncia all’indicazione re­golare delle fonti delle fotogra­fie), che ci ricorda con forza l’importanza e l’efficacia della documentazione fotografica.

Giorgio Rochat

Aa .Vv ., L ’antisemitismo ieri e oggi, in “Notiziario” dell’Istitu­to storico della resistenza in Cu­neo e provincia, n. 28, 2° seme­stre 1985.

Nell’ambito dei numerosi convegni indetti nel nostro pae­se in occasione del quarantenna­le della fine della seconda guer­ra mondiale, una certa attenzio­ne (maggiore di quella riscon­trata negli “annali” precedenti) è stata dedicata alla questione ebraica.

Vi sono stati interventi di va­rio taglio e tenore ai convegni indetti dagli Istituti della Resi­stenza di Firenze, Genova e Na­zionale nei primi mesi dell’anno

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e dalla Fondazione Micheletti ai primi di ottobre, ed un rilievo particolare è stato ovviamente dedicato alla deportazione degli ebrei nel convegno organizzato a Carpi dalla regione Emi­lia-Romagna sempre ai primi di ottobre.

In questa rinnovata attenzio­ne rientra anche la riflessione collettiva su Antisemitismo ieri ed oggi svoltasi il 22 marzo 1985 a Saluzzo ad iniziativa del­l’Assessorato alla cultura di quel Comune e dell’Istituto sto­rico della Resistenza in Cuneo e provincia, con la collaborazio­ne del Centro di documentazio­ne ebraica contemporanea di Milano e della Comunità israe­litica di Torino.

Le relazioni tenute in quella giornata sono ora disponibili sul sempre vivace “Notiziario” dell’Istituto di Cuneo (occupa­no una buona metà del fascico­lo 28) e la loro lettura offre non pochi spunti a chi voglia adden­trarsi nella ricostruzione delle vicende degli ebrei nell’Italia del periodo razziale, dal Regno fascista alla Repubblica di Salò.

Lo studio dedicato da Nico­letta Irico e Adriana Muncinelli agli ebrei di Saluzzo dal 1938 al 1945 è senza dubbio il più inte­ressante, per la cura profusa nella ricerca della documenta­zione, per l’impostazione data alla ricerca e per l’oggetto stes­so dell’indagine. Le autrici se­guono, mese dopo mese, legge dopo legge, emozione dopo emozione, le vicende del picco­lo gruppo ebraico; ne ricostrui­scono la vita materiale e quella affettiva, dalle prime normative antiebraiche del 1938 alle espe­rienze finali della fuga o della deportazione. Aiutate forse an­che dalla scarsa consistenza del­

la comunità presa in esame, le autrici riescono a distanziarsi dalla “lacrimologia” (ossia dai purtroppo frequenti — ed assai poco utili — elenchi di “quanto male è stato fatto agli ebrei”) e da un tipo di ricostruzione — anch’esso relativamente fre­quente — impostato principal­mente sullo spoglio della stam­pa e sulle vicissitudini di singoli personaggi importanti (e spesso proprio per questo distaccate da quelle della generalità degli ebrei). Si avverte la mancanza di un confronto con la docu­mentazione prettamente uffi­ciale degli Archivi di Stato ed inoltre — nell’annunciata pro­secuzione della ricerca — sareb­be opportuno tentare un mag­gior confronto con le altre pic­cole e grandi comunità piemon­tesi (colpisce ad esempio il dato di un solo ebreo saluzzese dive­nuto partigiano). Nel comples­so però si tratta di una ricerca certamente apprezzabile e meri­tevole di essere presa ad esempio.

Due relazioni in particolare completano ed arricchiscono quella sugli ebrei di Saluzzo: la testimonianza di Lidia Rolfi su come lei, non ebrea, conobbe e visse il “problema razziale” a Mondovì e in Valle Varaita, e la comunicazione di Liliana Pic­ciotto Fargion dedicata a trac­ciare il quadro della persecuzio­ne antiebraica in Italia.

Assai interessante — ma troppo poco approfondito — è l’intervento di Sergio Vizio su­gli ebrei croati internati in Alba nel 1942. È, quella delle mi­gliaia di ebrei slavi sottratti — e quindi, per il momento, salvati — dal Regno fascista a ustascia e nazisti, una pagina di storia ancora tenuta nell’ombra, ma

sulla quale occorre finalmente riflettere (e le ricerche oggi in corso sembra che potranno co­noscere una prima occasione di confronto grazie ad una prossi­ma iniziativa dell’Istituto di Cosenza) perché dal suo chiari­mento verrà nuova luce sulla complessa questione fasci- smo/ebrei.

Completano il quadro delle giornate di studio le relazioni di Giorgina Arian Levi sull’antise­mitismo, di Federico Cereja sulla deportazione dei politici e l’internamento dei militari, e di Elena Peano e di Alberto Cava- glion sugli ebrei di Mondovì e di Cuneo.

In sostanza il convegno è sta­to una iniziativa intelligente e ben riuscita, tanto per quel che riguarda i suoi fini di “micro­storia” quanto per ciò che esso ha voluto dire concretamente a proposito della storia degli ebrei in Italia dal 1938 al 1945, storia che sino ad oggi è stata troppo trascurata anche da par­te degli studiosi legati agli Isti­tuti della Resistenza. La rela­zione sugli ebrei di Saluzzo ad esempio ha mostrato che — per affrontare due dei nodi che a mio parere determinano in qualche modo questa trascura­tezza — l’adesione degli ebrei al fascismo nel ventennio è del tutto simile a quella dei non ebrei, e non costituisce un osta­colo ad una “indagine antifasci­sta” delle loro vicende nel pe­riodo razziale; ed ha mostrato che è possibile ricostruire que­ste ultime solo inserendo gli ebrei “tra le tante vittime” e non considerandoli — come og­gi la retorica impone — tra gli eroi o, peggio, i martiri della Resistenza.

Michele Sarfatti

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Mario Rigoni Stern, Amore di confine, Torino, Einaudi, 1986, pp. 212, lire 18.000.

Alcune tra le bellissime pagi­ne di questo libro di memorie di vita e di montagna meritano una segnalazione anche su una rivista di storia contemporanea. Ci rife­riamo alle pp. 33-61 in cui Rigoni rievoca vari momenti della sua prigionia in Germania nel 1943- 45, della difficile resistenza alla propaganda nazifascista e della tenace difesa dei valori di solida­rietà e dignità anche nelle condi­zioni più pesanti e avvilenti. Sono pagine fatte di niente, nel senso che non parlano di grandi avveni­menti o storiche decisioni, ma delle minori vicende quotidiane e delle tante scelte (piccole in sé, ma quanto pesanti tutte insieme!) di cui si componeva la vita dei soldati italiani nei Lager tedeschi. Pagine fatte di niente, eppure co­sì straordinariamente capaci di evocare un’atmosfera e di rende­re giustizia alla tenace resistenza quotidiana.

Giorgio Rochat

Ugo Dragoni, Fiaschi in Jugo­slavia. Ricordi polemici della campagna di Grecia 1941-43, Alessandria, Il quadrante, 1983, pp. 215, lire 15.000.

Questo volume di memorie di guerra, scrive l’autore, era stato composto dando nomi fittizi a tutti i protagonisti; ma poi il desi­derio di mettere in chiaro le re­sponsabilità degli alti comandi (in apertura polemica con la rela­zione ufficiale dell’Ufficio stori­co dell’esercito sulla occupazione italiana della Jugoslavia) ha in­dotto l’autore a ripristinare i no­mi autentici per colonnelli e ge­

nerali, lasciando quelli di fanta­sia per gli ufficiali inferiori. Il volume va quindi letto a due li­velli: da una parte la descrizione dell’ambiente degli ufficiali, da­gli anni di preparazione (la cui inefficienza è ben descritta) a quelli di occupazione nella Ju­goslavia settentrionale con un’efficace rappresentazione della guerriglia partigiana e una rivendicazione della capacità degli italiani di conservare rap­porti cordiali con la popolazio­ne. Dall’altra la denuncia amara e pesante della superficialità e inefficienza dei comandi, sia in occasione della nostra avanzata in Jugoslavia dopo le vittorie te­desche (giustamente ridimensio­nata, anzi distrutta sul piano militare), sia dinanzi alla guerri­glia, sia al momento dell’8 set­tembre, quando tradimento e ignavia consegneranno ai tede­schi truppe disarmate e moral­mente in crisi. Meritano rilievo la descrizione di una decina di colonnelli e generali, indicati appunto con nome e cognome, non tutti cinici carrieristi, a trat­ti anche ricchi di simpatia. Ma è l’apparato militare italiano, di pace e di guerra, che esce ridico­lizzato da questo volume di un protagonista.

Giorgio Rochat

Pascal Molinari, Jean Louis P anicacci, Menton dans la tourmente 1939-45, Menton, Société d’art et d’histoire du Mentonnais, 1984, pp. 292, sip.

Le difficili vicende di Mento­ne nella seconda guerra mondia­le (evacuazione della popolazio­ne civile poi invasione italiana nel giugno 1940, tre anni di oc­cupazione italiana e uno con i

tedeschi, poi ancora otto mesi sulla linea del fronte con bom­bardamenti aerei, navali e terre­stri) sono ricostruite in questo vo­lume con molta cura e equilibrio da Panicacci. La parte documen­taria comprende una trentina di documenti e tabelle provenienti da archivi italiani e francesi, pub­blici e privati; poi cinquanta fo­tografie assai interessanti; infine il diario 1941-45 di un alto fun­zionario cittadino, Molinari, uti­le come testimonianza delle preoccupazioni e degli orienta­menti dell’opinione pubblica. Nella parte centrale del volume Panicacci offre un quadro gene­rale del periodo bellico, molto ricco di informazioni (anche gra­zie all’utilizzazione di testimo­nianze orali), che documenta i sanguinosi costi dell’attacco ita­liano del giugno 1940 e la miope protervia della successiva domi­nazione fascista, ma anche con­traddizione e ambiguità dell’oc­cupazione tedesca con il ritorno delle autorità di Vichy, la sovrap­posizione di comandi e politiche dopo l’arrivo degli alleati e dei gollisti, infine il difficile ritorno alla normalità. Un bel libro, utile come illustrazione della politica fascista di “italianizzazione” for­zata di questo lembo di terra di confine.

Giorgio Rochat

Giorgio Rochat, Enzo Santa­relli, Paolo Sorcinelli (a cura di), Linea Gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani (Istituto nazionale per la storia del movi­mento di liberazione in Italia) Milano, Angeli, 1986, pp. 722, lire 45.000.

Due anni fa a Pesaro si teneva il convegno inernazionale “Li­

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nea Gotica 1944. Eserciti, po­polazioni, partigiani”; ora ne vengono pubblicati gli atti. Na­sce, così, un volume robusto ed articolato che, nelle intenzioni dei promotori del Convegno, oltre a contribuire alla cono­scenza della seconda fase della guerra sul territorio italiano (estate 1944-primavera 1945) fi­nora poco studiata, si pone co­me strumento culturale e didat­tico offerto agli studiosi e ope­ratori culturali che vogliono pervenire a una più approfondi­ta comprensione della realtà at­tuale e ad una formazione de­mocratica dei giovani.

La notevole quantità di mate­riale (ventinove relazioni ed ot­to interventi che, in questa se­de, è impossibile sintetizzare) è stata suddivisa in tre sezioni: Gli eserciti e la guerra, La gente e la guerra, La politica e la guerra, rispettivamente curate da Giorgio Rochat, Paolo Sor- cinelli ed Enzo Santarelli.

Rochat, in particolare, nel delineare linee e problemi della campagna d’Italia dal 1944 al 1945 ricorda che questa ebbe un ruolo notevole in termini politi­ci e militari solo fino al giugno 1944, cioè fino a quando si pre­sentava come il “secondo fron­te” sul continente europeo ed aveva come principali obiettivi (peraltro raggiunti già nell’esta­te del 1943) la riapertura del traffico alleato nel Mediterra­neo, la caduta del fascismo e la resa dell’Italia. Diversamente, dopo lo sbarco in Normandia e la liberazione di Roma, è il fronte francese a giocare un ruolo decisivo per le sorti del conflitto e qui, dunque, si con­centrano gli sforzi maggiori dei belligeranti facendo passare in second’ordine la seconda fase

della campagna d’Italia nono­stante l’opposizione di Chur­chill. Ed è proprio a questo punto che Rochat libera il cam­po da un primo equivoco: la posizione di Churchill che chie­deva un impegno deciso sullo scacchiere italiano in modo da portare le forze alleate a Trieste e Vienna prima di quelle sovie­tiche ed assicurare, così, la pre­senza inglese nella penisola bal­canica, è stata vista, soprattutto dopo la guerra fredda, come una manifestazione di lungimi­ranza e saggezza politica con­trapposta all’“ingenua fiducia” che Roosevelt riponeva nei so­vietici. Rochat, invece, sostiene chiaramente che non di lungi­miranza si tratta ma solo di un anticomunismo viscerale molto datato e sorretto da una conce­zione imperialistica ormai supe­rata. E alla base dell’equivoco ci sarebbe proprio una insuffi­cienza ed approssimazione degli studi sulla seconda fase della campagna d’Italia: le truppe so­vietiche erano già massiccia­mente presenti nei Balcani nel­l’autunno del 1944 ed anche se gli alleati fossero arrivati a Trieste alla fine del 1944 non sarebbe stato affatto realistico ipotizzare un rapido prosegui­mento su Vienna senza compie­re una arbitraria sottovalutazio­ne delle capacità di resistenza delle divisioni tedesche. Capaci­tà, peraltro, evidenziate proprio nel corso della campagna d’Ita­lia. Veniamo, così, ad un se­condo equivoco relativo, questa volta, al comportamento delle truppe in campo. “L’ammirato stupore suscitato nel 1944 dalla ricchezza dell’apparato logisti­co alleato [ha generato la leg­genda] secondo cui il rendimen­to delle truppe tedesche, infe­

riori in uomini e mezzi, sarebbe stato molto superiore a quello delle truppe anglo-americane”. Rochat, tuttavia, dimostra a sufficienza che la superiorità numerica di aerei, carri armati ed automezzi degli Alleati era in pratica compensata dalla possibilità dei tedeschi di com­piere “una battaglia difensiva su posizioni naturali assai favo­revoli” e ridimensionata dal particolare carattere di questo scontro che fu “essenzialmente una battaglia di artiglieria e fanteria”. Inoltre la superiorità, per quanto incontestabile, non era affatto tale da garantire una vittoria rapida e schiacciante poiché i comandi alleati, consa­pevoli della mancanza di obiet­tivi strategici rilevanti, condu­cevano la campagna con forze appena sufficienti a mantenere l’iniziativa.

Partendo dalla considerazio­ne che mai in precedenza la po­polazione civile italiana era sta­ta coinvolta in modo così diret­to nelle vicende belliche, Paolo Sorcinelli delinea il quadro ge­nerale e le possibili fonti, le me­todologie e gli strumenti che possono evidenziare, sia pure in modo non ancora organico ed omogeneo, “situazioni, com­portamenti e reazioni legati alle difficoltà e alla tragicità, strut­turali ed esistenziali, di quei momenti”. Si tratta, in pratica, di un tentativo di uscire dagli schemi della storia politico-mi­litare avendo come punti di. ri­ferimento teorici da un lato l’e­sperienza delle Annales e dal­l’altro alcune esigenze metodo- logiche ed ipotesi di ricerca che Guido Quazza ha sottolineato da oltre un decennio. Studian­do l’evento guerra in ambiti geografici ben delimitati e con

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l’apporto del patrimonio archi­vistico locale è possibile ottene­re uno spaccato della vita socia­le di fronte alla guerra (variazio­ni dei parametri di comporta­mento e forme di sopravviven­za, consumi, tecniche di produ­zione, mentalità e cultura, con­dizioni igienico-sanitarie, strate­gie matrimoniali) valido non so­lo come conoscenza di uno specifico contesto ma anche co­me possibile “proiezione” di un dato più generale.

Infine va almeno ricordato l’intervento di Enzo Santarelli che, utilizzando spesso fonti inedite, individua alcuni ele­menti di fondo del partigianato tra Marche e Romagna eviden­ziando da un lato come l’inci­denza politico-militare aumenti mano a mano che si procede dal centro Italia verso il Nord e, dall’altro, come tale capacità politico-militare sia in qualche modo connessa anche ad una maggiore penetrazione e diffu­sione delle organizzazioni del movimento operaio prefascista.

Raffaele Messina

Antifascismo e Resistenza

Giovanni P adoan (Vanni), Un ’epopea partigiano alla fron­tiera fra due mondi, Udine, Del Bianco, 1984, pp. 533, lire 24.000.

“Vanni”, Giovanni Padoan, già commissario politico della divisione Garibaldi-Natisone, una delle più grandi unità gari­baldine del Friuli e del resto d’I­talia, operante nel Friuli orien­tale a ridosso della zona di in­contro fra italiani e sloveni (gran parte delle stesse Valli del

Natisone a popolazione slovena rientrava nel settore garibaldi­no), ci dà in questo ampio volu­me un quadro complessivo non solo della resistenza in Friuli ma di alcuni aspetti della politica fascista fra le due guerre nelle nuove province annesse dopo il 1918, cioè la Venezia Giulia. Nella parte finale il volume trat­ta anche le fasi salienti del se­condo dopoguerra nella regione fino all’ottobre 1954 quando, con il Memorandum d’intesa italo-jugoslavo patrocinato da­gli angloamericani, le due ex Zone A e B del mai realizzato Territorio Libero di Trieste tor­narono sotto l’amministrazione italiana e, rispettivamente, ju­goslava.

Compito arduo anche per uno specialista, questo affron­tato dal Padoan: sono trentasei anni di storia ricchi di fasi com­plesse e di tensioni e intrecci lo­cali e internazionali: dalla lunga violenza nazionale e di classe praticata dallo stato fascista per liquidare ogni problema di “mi­noranze” nazionali entro i con­fini, alla graduale trasformazio­ne della regione in piattaforma di lancio dei disegni espansioni­stici mussoliniani nell’area danubiano-balcanica fino allo sbocco tragico della guerra, del­l’aggressione e smembramento della Jugoslavia accompagnata da nuove e collettive misure po­liziesche e militari contro slove­ni e croati giuliani, come l’auto­re sottolinea. La nascita e lo svi­luppo al di qua del vecchio con­fine del 1940 di un movimento partigiano, quello sloveno in particolare, finisce col disgrega­re la barriera confinaria “sal­dando” sempre di più la realtà politica ed operativa giuliana a quella della Slovenia e Croazia.

“Vanni” ha costruito un libro che sta fra memoria e storia ed in cui più volte affiora l’ottica e la passione del militare comuni­sta, della propria “drammatica esperienza individuale” (a co­minciare dalla dura condanna subita dal Tribunale speciale), della “rivisitazione del passato proprio e del partito”, come scrive Quazza nella sua prefa­zione. Ma emerge anche la vo­lontà di non servire passivamen­te la verità del partito “pur amando il partito”. In questo contesto non mancano giudizi schematici e polemici in cui la passione politica offusca talora la comprensione dei fatti. Giu­dizi che si ritrovano ad esempio là dove l’autore nel ricostruire le vicende della sua divisione par- tigiana, descrive i rapporti che essa ebbe con la brigata Osoppo diretta da militari “indipenden­ti” e uomini della De e del PdA, rapporti che furono unitari fi­no alla rottura sul problema slo­veno e sulla scelta della Natiso­ne di passare oltre Isonzo nel­la zona del IX Korpus sloveno per motivi politici oltre che mili­tari.

La “centralità” della Natiso­ne occupa uno spazio spropor­zionato rispetto a quello dedica­to al movimento garibaldino e osovano nel resto del Friuli. E della Natisone l’autore fa una puntigliosa difesa di fronte alle critiche coeve e successive dello stesso comando delle Garibal- di-Friuli di cui l’unità formal­mente dipendeva. “Vanni” si preoccupa di spiegare la situa­zione in cui l’unità venne a tro­varsi appunto “alla frontiera fra due mondi” e di ribattere alle accuse di cedimento alle pressio­ni e sollecitazioni, anche politi­co-ideologiche, del IX Korpus.

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Gravissime furono le perdite della Natisone durante questo ciclo operativo. Nel trattare questa tematica, ricca di luci e di ombre, l’autore alterna all’u­so, talora impreciso, del docu­mento quello del proprio vivace intervento testimoniale su pro­blemi e vicende controversi.

Benché diviso in periodi cro­nologici, il volume risente in va­rie parti di questo intreccio fra memoria e storia con frequenti spunti autobiografici. Tuttavia malgrado questi limiti e la sche­maticità di certi giudizi, va a me­rito dell’autore di aver riproposto senza reticenze “diplomatiche” gran parte dei problemi della sto­ria friulana e giuliana della guer­ra e del dopoguerra, anche quelli che furono spesso considerati “scomodi” dal suo stesso partito, per non parlare della pubblicisti­ca e storiografia jugoslava. Solo a titolo di esempio ne ricordiamo alcuni: dall’eccidio di Porzùs do­ve un reparto “gappista” eliminò di sorpresa il comando della I brigata Osoppo agli accesi dibat­titi e tensioni con l’integralismo nazionale e territoriale del movi­mento sloveno e croato, dalle de­portazioni e uccisioni di italiani da parte jugoslava nel maggio-giugno 1945, all’esodo di massa dall’Istria della popo­lazione italiana nel dopoguerra. Problemi e nodi in parte ancora storicamente emarginati o ri­mossi per il prevalere di ragioni ed esigenze politico-ideologiche che hanno per molti anni dura­mente ostacolato o condiziona­to la ricerca storica al di qua e al di là del confine.

Galliano Fogar

Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa. Naia guerra re­

sistenza, Udine, Omnia Press, 1986, pp. 282, lire 20.000 (Isti­tuto friulano per la storia del movimento di liberazione).

Queste pagine di guerra e di lotta partigiana di Mario Can­dotti, nato nel 1915 ad Ampez­zo (che fu nel 1944 la “capitale” della Zona libera di Carnia, la più estesa delle zone libere parti- giane), ripercorrono con imme­diatezza e sincerità umana e cul­turale, uno dei tragici itinerari della gente carnica e di quella folta schiera di giovani che le guerre d’Albania e di Russia prima e quella partigiana poi, decimarono crudelmente. Stu­dente universitario, uscito dal corso allievi ufficiali nel 1939, Candotti, sulla spinta di quella solidarietà alpina che è tratto caratteristico della gente della montagna — una montagna po­vera e sfruttata ed ancora oggi carica delle pesanti “eredità” delle guerre, emigrazioni e di una lunga emarginazione socia­le ed economica — volle seguire le sorti della divisione alpina “Julia” dove la presenza dei camici e friulani era preponde­rante. Una scelta che al di là del­le ingenue illusioni di molti gio­vani della generazione del “lit­torio”, ignari o semplicemente fiduciosi nelle ragioni di una guerra contro le potenze “ric­che”, aveva, nel giovane ufficia­le Candotti e in molti altri suoi colleghi, un particolare valore morale e sociale: il voler cioè stare con la propria gente, con i contadini, operai, montanari, fra i quali Candotti si riconosce­va e con i quali volle condivide­re rischi, sofferenze, comunan­za di vita e di destini. Perciò la sua è anche una testimonianza di quel faticoso processo intel­

lettuale ed esistenziale che portò a maturazione 1’“antifascismo di guerra” che fu una delle com­ponenti più importanti della re­sistenza partigiana.

Il trauma dell’armistizio pro­voca nel reduce della tragica ri­tirata di Russia (“lunghe ore di marcia nel freddo crudele della notte: nessuno ha desiderio di parlare, ognuno è immerso nei suoi pensieri, neri come la not­te”), sentimenti carichi di ama­rezza e disgusto di fronte al con­tegno della gente: “pare incredi­bile tutti son contenti... non pensano che abbiamo capitola­to... che siamo in balia di forze avverse... Povera Italia!” E di fronte allo “sfacelo dei nostri” Candotti, non ira e sconforto ri­fiuta “un mondo svanito per me nel passato col quale non voglio più avere contatti”. Li avrà in­vece e in termini rovesciati, combattendo contro quel “pas­sato” e per un mondo diverso.

Dalla psicosi della disfatta emerge però vigoroso il senso di rivolta contro le violenze tede­sche e fasciste. I tedeschi “sono rimasti quelli che ho conosciuto in guerra”, vili e crudeli contro le popolazioni inermi. Contro i tedeschi e contro “i repubblichi­ni loro servi... Non si può e non si deve più aspettare. Ognuno deve prendere le armi!”. Come molti altri alpini camici Can­dotti rompe gli indugi ed entra nella Garibaldi Friuli. Diventa il popolare “Barbatoni”, coman­dante del battaglione “Carnico” e poi, poiché la sua esperienza militare nel movimento che ha bisogno di quadri esperti, co­mandante della brigata Garibal­di Val But. “Barbatoni” che re­sta “apartitico”, si guadagna l’af­fetto e la stima dei dirigenti co­munisti della Garibaldi-Friuli.

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Il diario partigiano scorre ve­loce e senza orpelli attraverso battaglie, spostamenti, riunioni operative, fino ai grandi attac­chi nazifascisti che dall’ottobre al dicembre 1944 scardinano la Zona libera. Cadono coman­danti amati per il loro valore ed umanità, cadono giovani e gio­vanissimi partigiani, imperver­sano feroci rappresaglie, brucia­no i paesi, si insediano in Carnia le truppe cosacche di Domanov e Krassnoff. La situazione di grave crisi costringe le Garibaldi e le Osoppo a “pianurizzare” una grossa parte delle loro unità per sottrarle alla distruzione. Nel gennaio 1945 Candotti è no­minato comandante della divi­sione Garibaldi-Carnia.

“Tutto quello che ho fatto dal 1939 al 1945 — conclude Barba- toni — per la mia Patria, la mia gente, la mia terra, l’ho fatto con la coscienza piena di aver compiuto il mio dovere di uo­mo, di cittadino, di italiano” . Un tragico incidente spegneva la sua vita I’ll maggio 1985.

Galliano Fogar

Aa .Vv ., La Resistenza ne! Ve­neziano, a cura di Giannantonio Paladini e Maurizio Reber- schak, 2 voli., Venezia, Stampe­ria di Venezia, 1985, pp. 544 e 606, sip (Istituto veneto per la storia della Resistenza).

È ormai acquisizione storio­grafica consolidata la necessità di leggere le vicende della Resi­stenza all’interno dell’esperien­za complessiva della seconda guerra mondiale e altresì di collo­care la crisi italiana del 1943-1944 nell’arco lungo delle trasforma­zioni sociali ed economiche del

paese, mentre è sicuramente cre­sciuta l’attenzione ai più diversi momenti, alle sfaccettature più complesse dei primi anni qua­ranta.

In questo filone certamente si collocano — sia pur con qual­che scompenso e con qualche in­terna contraddizione — i due volumi La Resistenza nel Vene­ziano, pubblicati per iniziativa dell’Istituto veneto per la storia della Resistenza, dell’Università e del Comune di Venezia. Il pri­mo volume, che ha come sotto­titolo La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubbli­ca, propone un ricco ventaglio di saggi cui si collegano non su­perficialmente i documenti rac­colti nel secondo volume.

Un primo gruppo di scritti (di Giuseppe Tattara, Francesco Piva, Maria Dri, Bruna Bian­chi) è dedicato alle trasforma­zioni che segnano la provincia fra le due guerre e ipotecano in qualche modo la fase successi­va, con attenzione anche (so­prattutto nei saggi di Maria Dri e Bruna Bianchi) ai processi spe­cifici innescati dall’economia di guerra.

Il punto d’avvio comune è co­stituito dall’ossVrvazione di Tat­tara secondo cui “il problema della formazione di una grande industria di base nella provincia di Venezia, il declino del centro storico, le vicende dell’agricol­tura veneziana, così come il pro­blema della periodizzazione stessa di questa evoluzione, hanno trovato un’inquadra­mento solo molto generale da parte degli studiosi di storia ve­neta”.

Dai saggi indicati giungono indubbiamente stimoli e apporti conoscitivi importanti, e di par­ticolare interesse sono — per fa­

re solo un esempio — alcune chiavi di lettura che percorrono iT saggio di Francesco Piva sul­l’agricoltura e la società rurale. Trovano qui conferme e arric­chimenti gli studi che già da tempo hanno richiamato l’at­tenzione sulle trasformazioni che tra le due guerre attraversa­no alcuni settori agricoli e sui processi di modernizzazione che pur si hanno nelle tecnologie produttive e nei metodi di coltu­ra in alcune aree (prevalente­mente nel settentrione e quasi esclusivamente nelle grandi aziende capitalistiche). Risulta altresì confermato il quadro ge­nerale in cui quei processi si in­scrivono, con raggravarsi della precarietà della piccola azienda contadina, il peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro e di vita dei braccianti e dei contadini poveri, le molte­plici conseguenze della riaffer­mata “autorità” padronale. Le pagine dedicate a questi aspetti sono indubbiamente puntuali, anche se — va rilevato — il sag­gio di Ernesto Brunetta pubbli­cato nello stesso volume sembra sottolineare maggiormente alcu­ni elementi che nel veneziano tendono a “rendere meno dure le condizioni di vita delle masse contadine”. È la parte conclusi­va del saggio che si segnala però in modo particolare: in essa Pi­va mette a confronto in modo problematico la qualità e lo spessore delle agitazioni conta­dine del “biennio rosso” e del secondo dopoguerra, misuran­dosi con questioni complesse e troppo spesso eluse o liquidate in modo sommario.

Sulla Resistenza vera e pro­pria si sofferma, oltre al già ci­tato saggio di Ernesto Brunetta, il contributo di Cesco Chinello,

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volto a ricostruire le caratteristi­che delle agitazioni operaie del 1943-45 a Marghera e a leggerle non come conclusione di una fa­se quanto come “innesco di massificazione del ciclo di lotte rivendicative/politiche che subi­to dopo il 25 aprile si avvia in questa zona industriale”.

Ad alcune particolarità dell’e­sperienza di Venezia (e anche ad alcuni aspetti specifici della Rsi) si riconduce il penetrante contri­buto di Carlo Fumian su Vene­zia “città ministeriale” (1943- 45), mentre a partire dalle vicen­de del quotidiano “Il Gazzetti­no” e della Sade (Società adria- tica di elettricità) Maurizio Re- berschak ci dà ulteriori elementi per la valutazione di quei com­plessi processi che riqualificano, all’insegna di una sostanziale continuità, gruppi dirigenti e forme di potere.

Il primo volume è completato dai saggi di Giannantonio Pala­dini (sulle istituzioni culturali fra la fine degli anni trenta e l’immediato dopoguerra), Silvio Tramontin (sulla Chiesa vene­ziana) e Paolo Sereni (sulla co­munità ebraica a Venezia du­rante il fascismo), mentre il se­condo (.Documenti) propone — come si è detto — una utile an­tologia di documenti curata da Maurizio Reberschak.

Guido Crainz

Domenico De Napoli, Silvio Bolognini, Antonio Ratti, La resistenza monarchica in Italia (1943-1945), Napoli, Guida, 1985, pp. 227, lire 25.000.

Il volume è composto da tre diversi saggi: il primo, a caratte­re introduttivo, di Domenico De

Napoli La monarchia dalla crisi del liberalismo all’8 settembre', gli altri due, più propriamente di indagine, rispettivamente di Antonio Ratti L ’attività delle formazioni partigiane e di Silvio Bolognini I contenuti dottrinari della resistenza legittimista.

È proprio il primo saggio, quello di De Napoli, a chiarire gli intenti principali del lavoro. La storiografia “ufficiale” non è ancora riuscita, a giudizio del­l’autore, a superare quelle pas­sioni e quei pregiudizi che han­no condotto a un fenomeno di “lottizzazione ideologica e par­titica della guerra di liberazio­ne”, impedendo di conseguenza un approccio scientifico al pro­blema della Resistenza. Vittima principale di questa prevalente storiografia sarebbe, a parere di De Napoli, la presenza legittimi­sta nella guerra antinazista, poi­ché generalmente ignorata o, peggio, relegata “nell’etereo calderone degli autonomi” nel quale smarrirebbe la propria specifica identità.

La resistenza monarchica in Italia si propone di delineare i presupposti per una successiva e sistematica analisi della presen­za monarchica nella guerra di li­berazione, approntando così i primi strumenti in vista di una più organica revisione storio­grafica. Ma, prima che nella storiografia, nel prevalere di quella “logica partitocratica” adottata dai Comitati di libera­zione nazionale, che non con­sentì, fatte salve alcune eccezio­ni, di dare rilevanza alla scelta istituzionale che, secondo la sin­golare convinzione dell’autore, “per sua natura, prescinde dalle particolari differenziazioni di natura politica, ideologica o culturale” (p. 10).

Nel contesto storico-politico italiano il rapporto tra guerra di liberazione e istituto monarchi­co ha assunto, di conseguenza, sia nella realtà che nella storio­grafia, connotati peculiari ri­spetto a quelli di altri paesi (Norvegia, Danimarca e Bel­gio), caratterizzandosi soprat­tutto per una diffusa polemica antimonarchica, basata sulla denuncia della collusione stori­ca tra Corona e fascismo, parti­colarmente analizzata da De Napoli.

Due ordini di motivi, secondo Antonio Ratti, autore del secon­do saggio, sarebbero all’origine del mancato riconoscimento del reale apporto dato alla Resisten­za da quanti — uomini e forma­zioni, ma soprattutto militari ri­masti fedeli al giuramento pre­stato al re — intesero la lotta partigiana “un dovere verso la Nazione e, pertanto, la funzione antitedesca prevalente su quella politica e, più specificamente, partitica”. Innanzitutto, una storiografia “ufficiale” alquan­to faziosa, la quale relega nel­l’indistinto campo degli autono­mi o badogliani coloro che non si erano lasciati “etichettare o attribuire alcun partito rappre­sentato nei vari Cln”. In secon­do luogo, i gruppi monarchici che avevano partecipato alla Resistenza, non avendo legami partitici, non potevano basarsi, secondo Ratti, su quella orga­nizzazione che invece i partiti (alcuni partiti) avevano mante­nuto anche durante il periodo della clandestinità. Ciò premes­so è intenzione dell’autore pro­durre una dettagliata analisi dei gruppi resistenti monarchici, te­nendo conto sia della dimensio­ne territoriale ove operavano, sia dei diversi tipi di formazioni

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Rassegna bibliografica 181

resistenti. In realtà, si rende im­mediatamente evidente una cer­ta incongruenza tra lo scopo del saggio e il metodo adottato. Le fonti utilizzate sono quasi esclusivamente bibliografiche e, all’interno di questa carat­teristica generale, spicca un uso acritico della memoriali­stica.

Il saggio di Silvio Bolognini terzo ed ultimo nell’ordine del volume, prende in considerazio­ne aspetti e questioni della resi­stenza monarchica, il cui studio chiama in causa altre discipline più che quella propriamente storiografica, e principalmente la filosofia del diritto, la dottri­na dello Stato, la filosofia poli­tica, l’antropologia, il diritto costituzionale. Scopo dell’auto­re è, infatti, quello di indagare il contributo dottrinario dato alla Resistenza da uomini, par­titi e formazioni catalogabili come monarchici e legittimisti. Il lavoro, svolto quasi esclusi­vamente sulla stampa (giornali, opuscoli, foghi delle formazio­ni), si articola in diversi piani di indagine: innanzitutto, in una approfondita disamina delle di­verse componenti dottrinarie che attraversano l’area della re­sistenza filolegittimista; in se­condo luogo, in un’analisi dei differenti atteggiamenti assunti nei confronti del problema del referendum istituzionale;infine, nella riflessione sulle influenze prodotte dalle tesi filomonar­chiche sulla successiva evoluzio­ne costituzionale dello Stato italiano.

Meno chiare, infine, risulta­no le considerazioni dell’autore sulle influenze che le tesi filo- monachiche avrebbero avuto sulla Costituzione italiana. Quest’ultima, secondo Bologni­

ni, si presenterebbe come una “documento altamente com­promissorio”, le cui formula­zioni rimanderebbero a “conce­zioni teorico-dottrinarie di fon­do a loro volta solidali con una antropologia liberale, con una sociahsta e con una persona- lista”.

Salvatore Minolfi

A dolfo Scalpelli, Il generale e il politico. La disarmonia del po­tere nel Comando Piazza di Mi­lano (1944-45), Milano, Angeli, pp. 192, lire 16.000 (Istituto mi­lanese per la storia della Resi­stenza e del movimento ope­raio).

Che la Resistenza sia stato un grande fatto unitario è fuori di­scussione. Assai meno accetta­bile è invece quella visione edul­corata e agiografica (e alla fine storicamente scorretta) secondo la quale l’unità delle forze resi­stenziali sarebbe stata un dato scontato in partenza, sponta­neo, automatico, acquisito una volta per tutte.

Una concezione, questa, stru­mentale e spesso scorrettamente usata per fini di parte, che co­munque per tanto tempo ha avuto non poca fortuna. Eppu­re, come ha scritto Guido Quaz- za, “non c’è altro fatto nella storia italiana del nostro secolo che meglio abbia insegnato, alla luce della tragedia più grande, insieme la distinzione e la colla­borazione”.

Se è vero che l’unione delle forze era la condizione prima di ogni possibilità di esistere e di vincere, quella della Resistenza fu un’unità conquistata dura­mente, attraverso contrapposi­zioni non irrilevanti, tra diffe­

renze fortissime e accesi contra­sti. Lungi dall’essere un’im­provvisa rivelazione, l’unità raggiunta fu un dato sempre precario, difeso e riconquistato soltanto con compromessi mu- tevoli e mutevoli rapporti di forza.

Alla luce di queste considera­zioni e prima ancora che per l’originalità del tema di ricerca (la vicenda dei vertici militari del movimento di hberazione è, infatti, almeno a livello locale, ancora in gran parte da rico­struire), merito del lavoro di Adolfo Scalpelli è soprattutto quello di aver saputo offrire al lettore, facendo giustizia di abusati e fuorvianti luoghi co­muni, uno spaccato davvero il­luminante di un fenomeno arti­colato, complesso e non privo di profonde contraddizioni quale è stata la lotta di hbera­zione.

Dalla puntuale e minuziosa ricostruzione della vicenda di un organismo come il Coman­do Piazza di Milano, letta dal suo interno documento per do­cumento, esce certamente una storia palpitante di impegni e di sacrifici, di eroismi e di oscuro e paziente lavoro per la costru­zione di un efficace movimento di hberazione della città. Ma se alla fine le energie in campo seppero sommarsi e non elidersi vicendevolmente e gli obiettivi unitari vennero raggiunti senza distinzione di simboli e colori, la breve esperienza dell’organi­smo di direzione militare è co­stantemente segnata da polemi­che, da scontri, da fratture la­ceranti (basti pensare al cosidet­to “caso Marcello”), da dispute accese, da divisioni profonde, da reciproca sfiducia fra molti suoi componenti.

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Alieno tanto da ogni retorica celebrativa quanto dal facile gu­sto della dissacrazione, Scalpelli propone al lettore, con scrupo­lo scientifico, una chiave di let­tura stimolante e sovente impie­tosa della più generale vicenda milanese di quegli anni, dimo­strando, documenti alla mano, quanto “la Resistenza stessa sia stata faticosa, dolorosa, soffer­ta all’interno degli stessi organi­smi che l’hanno condotta e di­retta”.

Il Comando Piazza di Milano nasce nell’agosto del 1944 in un momento — sottolinea l’autore — di piena maturazione del mo­vimento resistenziale e la sua co­stituzione appare indubbiamen­te come “un passo rilevante sul­la strada dell’amalgama fra for­ze militari e politiche che sem­bravano essersi arroccate sulle due sponde opposte di un invali­cabile fossato”. Emanazione di­retta dal Cvl, dotato quindi di autonomia e di collegamenti po­litico-operativi diretti, compo­sto da elementi senz’altro di pri­mo piano per esperienza e capa­cità (fra gli altri, Busetto, Liber­ti, Vaia, Giuliano Pajetta, Ser­gio Kasman), il Comando Piaz­za sa dimostrare fin dall’inizio una buona dose di vitalità. Sfruttando anche i margini of­ferti dalla tardiva nascita del Cln milanese, esso non si riduce mai al rango di “araba fenice”.

Quel che tuttavia il Comando non è in grado di esercitare è un ruolo di autentico motore trai­nante del complesso mondo re­sistenziale milanese. Nelle pagi­ne forse fra le più stimolanti del libro, Scalpelli ne attribuisce le ragioni al fatto che “in città esi­steva da tempo una struttura clandestina di formazioni mili­tari oltre che di organizzazioni

politiche che il Comando Piazza non potrà mai assorbire intera­mente anche se gli verranno messe a disposizione alcune for­ze”. Costretto ad ereditare com­piti cui altri organismi avevano rinunciato (quando, beninteso, vi rinunciarono), il Comando era il più delle volte ridotto a mettere il timbro ad azioni deci­se, organizzate o realizzate da altri. Le formazioni rimasero sempre e comunque legate solo ai partiti che le ispiravano. Del resto, in posizione preminente all’interno del Comando erano uomini designati dai partiti. Fu­rono loro ad assumere compiti squisitamente militari e a ridur­re il Comando Piazza a un pun­to d’incrocio dell’attività e del lavoro dei singoli partiti, causa non ultima di tanti scontri, po­lemiche e screzi sugli indirizzi e sui metodi che trovavano origi­ne in sede politica. Era la riaf­fermazione netta del primato di quest’ultima, anche se all’inter­no del Comando milanese l’e­quilibrio tra il “generale” e il “politico”, pur soggetto sovente a tensioni e a pesantezza di rap­porti, non giungerà mai a stadi di rottura (così come avvenne, ad esempio, a Torino).

Fortemente inibito nei suoi compiti di direzione e di coordi­namento della lotta clandestina, il Comando Piazza rivolge così i suoi sforzi maggiori alla pre­parazione del piano insurrezio­nale per la città di Milano. Era questo, in effetti, lo scopo isti­tuzionale che l’organismo si era attribuito fin dalla sua nasci­ta. Il piano (il terzo in ordine di tempo) predisposto nel feb­braio del 1945, fin troppo parti­colareggiato e minuzioso, non ebbe molta fortuna. Prima an­cora di essere superato dagli

eventi, esso fu impugnato e du­ramente contestato ai vertici del movimento di liberazione. An­che 'nella battaglia insurrezio­nale finale “il politico” rivendi­cava dunque a se stesso il ruolo di direzione. L’esito dell’insur­rezione e, più ancora, lo sban­damento all’interno del Co­mando Piazza in quei giorni de­cisivi (che porterà, tra l’altro, alla sua fine ingloriosa), sem­brano indicare che la strada non poteva essere diversa. Ciò non toglie che, al di là del tono marcatamente militare e della miriade di particolari ingom­branti e farraginosi, quel piano seppe indicare senza equivoci nell’insurrezione armata e po­polare il fine strategico e il mo­mento conclusivo della lotta di liberazione. Era questa una fondamentale indicazione me­todologica e, insieme, la testi­monianza della complessa ma­turità di un movimento che an­che un organismo come il Co­mando Piazza, nella sua pur breve e contrastata esistenza, aveva contribuito a consolidare.

Pierangelo Lombardi

Monumenti alla Resistenza in Europa. Catalogo della mostra, Brescia, 14 dicembre 1985-27 aprile 1986, Milano, Vangelista, 1985, pp. 214, sip.

Nello sfogliare il bel catalogo della recente mostra bresciana, viene spontaneo chiedersi se la piccola lapide collocata nella di­screta suggestione dello scenario naturale non sia sovente in fon­do “monumento” più convin­cente della retorica statuaria che inevitabilmente tende a prevale­re nella memoria ufficiale di

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quella che fu forse, nel suo far­si, l’epopea più consapevolmen­te antiretorica della storia d’Eu­ropa. Ma numerose sono poi le eccezioni che riconciliano con l’idea tradizionale del monu­mento, vuoi nella dimensione più raccolta del singolo manu­fatto scultoreo, vuoi nell’ampli­ficazione architettonico-paesi- stica del grande complesso mo­numentale: e basterà ricordare qui, tra i molti esempi proposti dai curatori, le intense prove di Picasso, Manzù, Marini e Zad- kinde, accanto alle straordinarie combinazioni plastico-paesisti­che di Tjentiste, Kaunas e Au­schwitz. Merito non ultimo del­la mostra bresciana, e del cata­logo che ne è scaturito, è anche quello di commentare con am­piezza di orizzonti e intelligenza di scelte la grande varietà di sti­li, tecniche e ispirazioni che fa dei monumenti alla Resistenza non solo un’eloquente testimo­nianza di valori essenziali, forse oggi appannati e tuttavia irri­nunciabili, come ricorda Mario De Micheli nel suo scritto intro­duttivo, ma anche uno spaccato significativo dell’arte contem­poranea nelle sue meno effime­re manifestazioni.

Vittorio De Tassis

La Resistenza in provincia di Va­rese. Il 1945, a cura dell’Istituto varesino per la storia della resi­stenza e dell’Italia contempora­nea, Angeli, 1986, pp. 412, sip.

Con questo terzo volume de­dicato al 1945 si conclude il la­voro di ricostruzione che l’Isti­tuto varesino per la storia della resistenza e dell’Italia contem­poranea ha dedicato alla Resi­

stenza in provincia di Varese. Una fatica davvero encomiabi­le, che finisce per fornire ai ri­cercatori e agli appassionati pre­zioso materiale di studio e di ri­flessione.

Capita oggi di interrogarsi, forse ancor più attentamente che non un tempo, sul nostro passato. Alla storia — più o me­no recente — chiediamo di aiu­tarci a capire meglio il presente e cambiare quel che c’è da cam­biare. Ci sono poi nella storia del nostro paese momenti e vi­cende che, più di altre, per il lo­ro significato rilevante e attuale non possiamo assolutamente ri­porre negli archivi della memo­ria. Fra questi, la Resistenza. Essa ci costringe a fare i conti, nolenti o volenti, con affinità e differenze rispetto alla realtà che noi ogni giorno viviamo e la sua “spinta propulsiva” non è ancora venuta meno. Certo, so­no passati quarant’anni. Il mon­do è profondamente cambiato e con esso l’Italia. Ma è appunto alla luce di queste profonde tra­sformazioni che una rilettura della Resistenza è sempre attua­le se non la si vuole considerare soltanto un momento, sia pure glorioso, della storia italiana da collocare in una sorta di museo dei grandi eventi, ma invece uno strumento attraverso il quale operare per costruire una mi­gliore e più matura coscienza etico-civile. Una valenza, que­sta, che ci pare ben presente nei curatori e promotori dell’artico­lato progetto varesino. Nel pa­norama di una produzione loca­le sulla Resistenza, tanto vasta quantitativamente quanto ete­rogenea e disuguale sul piano qualitativo, non si può non rico­noscere al volume in esame al­cuni ben precisi titoli di merito.

Innanzitutto l’importanza che assume una nuova ricerca, scien­tificamente corretta, condotta su scala locale. Come, infatti ben sottolinea Luigi Ambrosoli nella ampia e documentata pre­fazione, un profilo completo della Resistenza non potrà emergere se non dal confronto fra le molteplici esperienze che hanno concorso a caratterizzar­la nelle diverse, specifiche realtà locali. E molte ancora ne man­cano. L’aver privileviato, poi, la raccolta documentaria rispet­to alla forma monografica testi­monia della serietà (anche meto­dologica) dell’approccio a un te­ma che per la sua complessità ri­chiede evidentemente ancora approfondimenti e ricerche sul campo. Con questo non si vuol dire, beninteso, che il volume non offra già chiare linee inter­pretative generali. I documenti, le note esplicative agli stessi, i brevi saggi, le testimonianze, le indicazioni archivistiche e bi­bliografiche offrono un affre­sco ben assortito e certamente stimolante di un anno decisivo di storia varesina.

Attenti al vivace dibattito in corso sui rapporti fra storia lo­cale e nazionale, i curatori, mol­ti dei quali hanno già affrontato altrove con sicurezza e mestiere le vicende della provincia, san­no evitare ogni caduta nel cam­panilismo e nel localismo per in­serire, al contrario, le vicende in esame, con tutta la loro specifi­cità, nella più ampia trama re­gionale e nazionale (ne fa testo, per tutti, il saggio introduttivo di Simona Colarizi).

Il campo d’indagine assunto pare sufficientemente articolato e, quel che più conta, si è saputo andare ben al di là di quei rigidi termini cronologici della resi­

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stenza armata che spesso limita­no respiro e analisi. In qualche caso si è opportunamente scon­finato nel 1946 (si vedano i saggi di Pietro Macchione sul gover­no del popolo e sulle elezioni amministrative) a conclusione di un ciclo, apertosi con la libe­razione, che una scelta diversa avrebbe finito col lasciare so­speso a mezz’aria.

Quasi tutti i temi di fondo di una vicenda estremamente ricca e complessa, com’è quella del­l’anno della liberazione, sono affrontati con maggiore o mino­re dovizia di particolari, ma sempre con buon mestiere (dalle operazioni repressive della fase finale della lotta; dall’organiz­zazione sul piano militare e dal­le speranze dei primi mesi di li­bertà agli irrisolti nodi sociali, economici, giuridici del dopo­guerra).

Lo spazio non ci consente di dar conto in questa sede in mo­do analitico dei contenuti del volume. Basti dunque ricordare che la presentazione della rac­colta di documenti sul movi-

f

mento di liberazione in provin­cia e sulla versione fascista degli avvenimenti sono di Luigi Am- brosoli; che a Pierluigi Galli e a Gianni Perna si devono rispetti­vamente le parti relative a Gal­larate e al clero nei suoi rapporti con il movimento di liberazione; che Maurizio Belloni è l’autore del saggio sull’insurrezione a Varese. Completano la raccolta il ricordo di Ettore Albini e di Leopoldo Gasparotto, rispetti­vamente di Robertino Ghirin- ghelli e Luigi Ronza, le testimo­nianze di Domenico Bulferetti e di Mario Talamona, le impor­tanti e ricche note archivistiche di Andreina Bazzi e di Pierluigi Piano sull’archivio del Cln pro­

vinciale di Varese e sulle fonti archivistiche per l’anno 1945 conservate presso l’Archivio di Stato locale.

Pierangelo Lombardi

G iorgio Gimelli, Cronache mi­litari della Resistenza in Ligu­ria, Genova, Cassa di Rispar­mio di Genova e d’Imperia, 1985, 3 voli., pp. 2.000, sip.

Comparse nel 1965 con un volume che giungeva all’aprile 1944 (v. n. 82/1966 di questa ri­vista), proseguite con altro to­mo fino al settembre 1944 (cit., n. 96/1969), queste Cronache di Gimelli parevano abbando­nate per sempre. E invece riec- cole improvvisamente nel 1985 non solo completate ma in gran parte rielaborate e riscritte ol­treché in nuova veste tipografi­ca in tre volumi di cui l’ultimo di sola documentazione. Né il tempo trascorso né qualche progresso verificatosi frattanto anche negli studi sulla guerra partigiana, ci sembrano togliere alcunché all’interesse, all’utilità e — diremmo persino — alla “freschezza” del lavoro. Nono­stante vari ampliamenti e la mole delle parti nuove, l’autore ha giustamente mantenuto il ti­tolo Cronache adatto a un’ordi­nata e spesso minuta rassegna di fatti assistita da vario grado di documentazione. Ciò beninteso non significa che vi manchino giudizi critici anche palesi, ma solo che essi sono contenuti e soprattutto molto “aperti” cioè formulati in modo da richiama­re l’attenzione del lettore su aspetti opinabili e non sufficien­temente documentati, talora con esplicito invito a rendere

pubbliche carte ancora racchiu­se in archivi privati. Interpreta­zioni più pronunciate su alcuni temi cruciali (ad esempio ruolo dei commissari politici, manca­ta avanzata degli Alleati dalla Provenza nell’estate 1944, pro­clama Alexander, dissidi con gli inglesi sulla politicizzazione del­le formazioni) sono affidati al­l’Introduzione, opera di altro studioso. Che i concetti di que­sta siano condivisi dall’autore sembra evidente al momento che sono posti in apertura del lavoro (incidentalmente anche il recensore ne condivide alcuni), ma altrettanto importante ci sembra il fatto che la collocazio­ne esterna e indipendente aiuta a conservare nel testo la punti­gliosa aderenza al documento e all’apporto testimoniale. L’e­strema importanza della Liguria nella guerra partigiana difficil­mente potrà essere esagerata. Considerando solo la famosa 6a zona operativa e lo Spezzino (4a zona) e prescindendo dai seg­menti di importanti rotabili che restavano per lungo tempo in­cluse nelle “zone libere” (lu­glio-agosto e ottobre-novembre 1944, poi marzo-aprile 1945), una continua offesa veniva por­tata su vitali fasci di comunica­zioni tedesche: l’Aurelia tra Ge­nova e La Spezia; la strada sta­tale n. 10 Tortona-Stradel- la-Piacenza e parte della via Emilia (queste due ultime battu­te sia dalle forze dell’Oltrepò Pavese anch’esse dipendenti dal comando ligure sia dalle conti­gue formazioni del Piacentino, 13a zona); infine la strada allora provinciale del Bocco, che anzi era sorpassata dalle forze spez­zine le quali spalleggiavano i partigiani parmensi e quelli della Lunigiana direttamente

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proiettati sulla Cisa. Furono proprio quei continui attacchi al traffico nemico a provocare, ol­tre a numerosissime puntate a carattere locale, i due grandi ra­strellamenti: quello di fine ago­sto 1944 (attacco concentrico da Liguria, Tortonese e Oltrepò di 5-6.000 uomini fra tedeschi, di­visione “Monterosa” e varie formazioni fasciste); e, ancor più terribile, quello invernale protrattosi per oltre settanta giorni (23 novembre 1944-primi di febbraio 1945) condotto dalla 162° divisione “Turkestan”, da altri reparti tedeschi, da aliquo­te della divisione “Italia” e dalle solite milizie fasciste. Due prove che partigiani e popolazioni, pur con dolorose perdite, riusci­rono a superare. La prima in pochi giorni perché il nemico aveva quasi subito ritirato il grosso delle forze lasciando pre­sidi numericamente forti ma sensibili alla corrosione parti- giana perché consistenti di re­parti alpini della “Monterosa” che disertarono a migliaia unen­dosi in parte alle formazioni ga­ribaldine e G.L. La seconda riu­scendo a non sciogliere mai del tutto i reparti e adeguandosi alla nuova tattica nemica: non più colonne pesanti e procedenti lungo i fondovalle come in ago­sto, ma azione di nuclei veloci, quasi privi di impedimenta, e tendenti a spostarsi per le creste. I partigiani liguri seppero trarre utili lezioni da queste esperienze giungendo nella fase finale del marzo-aprile 1945 (che però al­lora non era affatto certo fosse davvero “finale”) ad evitare l’occupazione stabile dei fondo- valle e dei relativi centri. Anche dopo lo sgombro dei rastrellato- ri, essi seppero organizzare un’abile sorveglianza indiretta

ed elastica. Quanto precede non significa bininteso che i partigia­ni delle altre formazioni liguri, imperiesi e savonesi, avessero compiti molto meno importanti. Questi anzi sarebbero divenuti decisivi se fosse stato vero quel che Radio Londra proclamò apertamente il 2 settembre (ripe­tendo poi nei giorni seguenti) e cioè che una “colonna” delle lo­ro truppe, sbarcate senza contra­sto in Provenza (op. “Anvil”), muoveva decisamente sulla di­rettrice di Ventimiglia (anche il sottoscritto ricorda con precisio­ne il messaggio trasmesso “in chiaro” come accadrà più tardi anche col famoso e tanto discus­so proclama Alexander del no­vembre 1944). Mancò poco che le formazioni dell’intera Liguria si avvicinassero scopertamente e pericolosamente ai grandi centri costieri e urbani. Proprio da quei giorni datano infatti i primi piani d’insurrezioni e occupazio­ni cittadine che diverranno at­tuabili solo nella primavera 1945. Rispetto ai precedenti vo­lumi queste Cronache, oltre ad arricchire con nuovo materiale gli eventi già trattati contengono tutta la storia del rastrellamnto invernale e della ripresa primave­rile. Come in precedenza, e forse di più, esse non schivano gli epi­sodi ingrati e difficili, come ad esempio i due disarmi inflitti nell’estate 1944 alla brigata G.L. Matteotti, l’unica formazione non garibaldina della VI zona, nonché i violenti contrasti che, a poche settimane dalla liberazio­ne, divisero in modo grave e non del tutto rimediato Bisagno, il prestigioso comandante non co­munista dalla “Cichèro”, da altri capi di matrice comunista. Ma — come detto all’inizio — uno dei pregi del lavoro è quello di

non tacere nulla ma di offrire le carte a disposizione dell’autore, sempre suscettibili di essere com­pletate e magari contraddette da altre. Siamo lontani da ogni spi­rito celebrativo anche se non c’è mai posto per una distaccata in­differenza. Ammesso che tale in­differenza possa mai esistere ed essere di una qualche utilità, essa non potrà comunque chiedersi a chi abbia vissuto di persona la stagione 1943-1945 sui monti del Nord Italia. A tacer d’altro, quel tempo ha una caratteristica che nessuno potrà mai negare: quel­la di non essere stato minima­mente prevedibile non solo nel 1942, ma nemmeno per tutto il 1943 e per i primi mesi del 1944. Accennando ora al metodo di Gimelli, non ci sembra nuoccia il fatto di avere proceduto, almeno in gran parte, su documenti a propria privata disposizione dal momento che essi, come assicu­rano le note introduttive, “sono stati consegnati all’Istituto Sto­rico della Resistenza in Liguria”. Né lamenteremo il fatto che di tali documenti non sia data una collocazione archivistica che non poteva esistere prima del ver­samento, ma che certo ora esiste­rà o sarà prossima ad esistere. Chi abbia una conoscenza anche minima di tante vicende parti- giane belliche e post-belliche non si meraviglia affatto di que­sto stato di cose e si augurerebbe anzi di trovarsi sempre in presen­za di una documentazione resa disponibile e quindi verificabile oltreché suscettibile di compieta- menti, come Gimelli auspica. Né ci formalizzeremo per un certo numero di refusi fastidiosi ma tutti perfettamente correggibili da chi legge, e nemmeno per altri piccoli difetti esterni come quel­lo di non aver riservato il “cor­

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po minore” alle sole citazioni di documenti e di averlo esteso an­che a parti di testo con qualche effetto di confusione. Quanto poi all’opinabilità di vari ap­prezzamenti, grandi e piccoli, oltre a non costituire in nessun modo un difetto, essa riflette bene taluni importanti caratteri della guerra partigiana (prefe­riamo non chiamarla “Resisten­za” perché in genere assai diver­sa dall’esperienza francese non­ché alla prima “resistenza” ita­liana, quella lombardo-veneta del 1849-1859 appunto allora così chiamata) che, ancor più di altre vicende, fu un intreccio di fatti emotivi e di azioni rapide, talora convulse, oltreché un di­vampare di affermazioni indivi­duali e di passioni politiche in certi casi da lungo tempo repres­se. Farne la storia sarà affare del­le generazioni successive (se mai avranno voglia di occuparsene).

È però fuori dubbio che il mo­mento migliore per accumulare materiale e testimonianze fu ne­gli anni sessanta quando molti partigiani erano ancora in vita e quando talune reticenze e pru­denze caddero o si attenuarono. Dove non si è approfittato di quel momento sarà arduo scri­vere la storia di un movimento sparso e periferico, oltreché po­co collegato col suo vertice poli­tico-militare. Il vertice infatti, se potè procurare aiuti, riconosci­menti e tutto quanto servì a dif­ferenziare la lotta di liberazione da un generico e scombinato ri­bellismo, non era in grado per forza di cose né di comandare veramente né molto spesso di ri­cevere informazioni di qualche esattezza e tempestività. Dob­biamo essere grati a Gimelli e al­l’Istituto Storico della Liguria di avere offerto una ricchissima e

importante rassegna di dati rac­colti soprattutto nell’anzidetta epoca “utile” (anche se pubbli­cati in gran parte più tardi) assi­curando così la base sulla quale, per consenso, dissenso, diffe­renziazione scelta o integrazio­ne, lo storico potrà lavorare, ob­bedendo soprattutto a quelli che saranno i bisogni del “suo” tem­po e che oggi non è dato preve­dere.

Lucio Ceva

Aa.Vv., Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fascismo alla Repubblica (1943-1946), Napoli, Guida, 1986, pp. 398, lire 30.000 (Qua­derni dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza).

Alle radici del nostro presen­te, curato dall’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, è un volume multifunzionale di­retto ai più diversi settori del mercato librario.

Ad esso potranno far riferi­mento gli storici ed i ricercatori di professione che vi troveranno un completo e dettagliato inven­tario di tutto il materiale archivi­stico dell’Icsr relativo agli anni 1943-45.

Gli insegnanti, invece, potran­no apprezzare in modo particola­re i vari percorsi didattici proposti da Aurora Delmonaco Lombar­di. Si tratta di una vera e propria guida per gli insegnanti che, non accontentandosi della pagine che di solito i manuali riservano alle tematiche resistenziali, vogliono condurre con i loro alunni interes­sati le più vive esperienze di ‘labo­ratorio storiografico’.

A tutti, comunque, studiosi o semplici appassionati, il volume offre l’opportunità di cogliere

spunti, conferme e sollecitazioni sulla storia di Napoli e della Campania negli anni del delica­to passaggio dal fascismo alla Repubblica.

È impossibile in questa sede dare un’idea completa di tutti i saggi che, nella loro serietà scientifica, rappresentano un primo approccio ad una realtà così complessa ed articolata: dall’analisi dei comportamenti quotidiani dei ceti popolari al ruolo della Chiesa locale, dalle lotte politiche e sociali dell’lrpi- nia alla Resistenza in Terra di Lavoro, dalle radici gramsciane del comuniSmo campano alla politica alleata in Italia durante l’occupazione.

Guido d’Agostino (Napoli: governo e amministrazione del­la città dalla caduta del fasci­smo all’avvento della Repubbli­ca 1943-46) che da anni si occu­pa della storia politico-ammini- trativa del capoluogo campano, ha enucleato una serie di aspetti fondamentali della vita cittadi­na dì quel periodo (annona, epurazione, assistenza e rico­struzione) costituendo una gri­glia alla luce della quale valuta­re l’azione e la portata politica delle Amministrazioni che si succedono a Palazzo San Giaco­mo. Si ripercorre, così, l’attività della prima amministrazione straordinaria presieduta da Gio­vanni Solimena; il “nuovo cor­so” impresso dalla giunta In­grosso attivamente sostenuta dal colonnello Poletti; e, anco­ra, la giunta presieduta da Gen­naro Fermariello che, nel giudi­zio di D’Agostino, “per lun­ghezza [...], per intensità di la­voro e per lo spessore dei pro­blemi affrontati, costituisce il momento più rilevante dell’inte­ro triennio considerato”.

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Ma buona parte del suo sag­gio D’Agostino la dedica alla definizione di Napoli come città “laboratorio”. Si tratta, cioè, di considerare, riprendendo e per­fezionando la ormai decennale tesi di Luigi Cortesi (cfr. L. Cortesi e altri, La Campania dal fascismo alla Repubblica. So­cietà, politica e cultura, Napo­li, Esi, 1977) il capoluogo parte­nopeo come un laboratorio po­litico della transizione dal fasci­smo alla Repubblica “nel senso che i suoi risultati vengono ac­quisiti ai fini della riproposizio­ne dell’esperimento in un conte­sto ‘altro’ dal punto di vista spaziale e temporalmente suc­cessivo” . La città di Napoli ri­copre quindi un ruolo di primo piano nell’elaborazione dei mo­delli e delle forme con cui si ri­costituisce quel fronte moderato che, di lì a poco, riacquisterà l’egemonia anche sul resto del­l’Italia liberata. Un ruolo che, d’altra parte, proprio Napoli pagherà a caro prezzo in virtù di un particolare “effetto boome­rang” per cui proprio sulla città si rifletteranno prima e mag­giormente i deleteri effetti di quella egemonia moderata che essa stessa aveva favorito. Infi­ne, vogliamo ricordare anche il contributo d| Vera Lombardi, Resistenza e Ricostruzione. Si tratta di un quadro d’apertura attraverso cui si cerca di cogliere gli aspetti e le condizioni gene­rali che permisero la “riaffer­mazione dei ceti più conservato- ri” imprimendo, così, alla rico­struzione una svolta moderata che peserà sulla vita nazionale fino ai giorni nostri. Uno scavo, dunque, alle radici del nostro presente che ha la evidente fun­zione di fornire un quadro na­zionale entro cui collocare le

particolari vicende della Cam­pania ma dal quale emerge, al contempo, una sottesa critica al­la linea moderata impressa da Togliatti al partito, che in defini­tiva avrebbe favorito i ceti con­servatori. Una tesi questa certa­mente discutibile ma non priva di fascino.

Raffaele Messina

Libri ricevuti

Aa.Vv., Alle radici del nostro pre­sente. Napoli e la Campania dal fa ­scismo alla repubblica (1943-1946), Napoli, Guida, pp. 400, lire 30.000 (Quaderni dell’Istituto campano per la storia della resistenza).

Aa.Vv., Contadini e partigiani. Atti del Convegno storico Asti-Nizza Monferrato 14-16 dicembre 1984, Asti, Edizioni dell’Orso, 1986, pp. 446, lire 30.000 (Istituti di storia del­la resistenza in provincia di Alessan­dria e Asti).

Aa.Vv., Le Marche nel secondo do­poguerra. Atti del Convegno “Le Marche della liberazione alla fine degli anni cinquanta”, Ancona 27- 29 ottobre 1983. Ancona, Il Lavoro editoriale, 1986, pp. 331, lire 40.000 (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche).

Adalberto Alpini, Baracca otto. I giorni della fam e, Cuneo, L’Arciere, 1985, pp. 222, lire 12.000.

Giulio Andreotti, De Gasperi visto da vicino, Milano, Rizzoli, 1986, pp. 315, lire 22.000.

Franco Andreucci, Il marxismo col­lettivo. Socialismo, marxismo e cir­colazione delle idee dalla Seconda alla Terza Internazionale, Milano, Angeli, 1986, pp. 220, lire 18.000.

Aspetti delta società bresciana fra le due guerre, Brescia, Litografia ba­

gnolese, 1985, pp. 434, sip (“Annali della Fondazione Micheletti” 1985).

Arnoldo Bagnasco, Torino. Un pro­filo sociologico, Torino, Einaudi,1985, pp. 88, lire 5.500.

Giuseppe Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irriga­zione e bonifica nell’Italia contem­poranea, Torino, Einaudi, 1986, pp. 408, lire 30.000.

Giulio Bedeschi, Fronte jugosla­vo-balcanico: c ’ero anch’io, Mila­no, Mursia, 1986, pp. 790, lire38.000.

Michelangelo Bellinetti, Squadri­smo di provincia. Nascita dei Fasci di combattimento in Polesine (1920- 1921), Rovigo, Associazione Minel- liana, 1985, pp. 155, sip.

Maria Pia Bigaran (a cura di), Isti­tuzioni e borghesie locali nell’Italia liberale, Milano, Angeli, 1986, pp. 364, lire 30.000.

James H. Billington, Con il fuoco nella mente. Le origini della fede ri­voluzionaria, Bologna, Il Mulino,1986, pp. 785, lire 60.000.

Donatella Bolech Cecchi, Non bru­ciare i ponti con Roma. Le relazioni tra l ’Italia, la Gran Bretagna e la Francia dall’accordo di Monaco al­lo scoppio delta seconda guerra, Mi­lano, Giuffrè, 1986, pp. 526, lire32.000.

Paolo Botta (a cura di), Sud emer­genti tra vecchia e nuova identità, Roma, Edizioni Lavoro, 1986, pp. 166, lire 18.000.

Anna Bravo, Daniele Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di due­cento sopravvissuti, Milano, Ange­li, 1986, pp. 440, lire 25.000.

Fernand Braudel, I tempi della sto­ria. Economia, società, civiltà, Bari, Dedalo, 1986, pp. 410, lire 35.000.

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188 Rassegna bibliografica

Manilo Brosio, Diari di Mosca 1947-1951, Bologna, II Mulino, 1986, pp. 705, lire 50.000.

Martin Broszat, Da Weimar a Hi­tler, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 286, lire 35.000.

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