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– Antonio Monda, «Stephen King: “Ho riscritto la storia dell ’omicidio Kennedy per salvare O bama”» la Repubblica, primo novembre 2011 3 – Mariarosa Bricchi, «Nelle impurità la linfa della lingua» il manifesto, 2 novembre 2011 6 – Rossana Miranda, «Vuelvo al “Sur”, le case editrici in Italia puntano sulla letteratura sudamericana» il Riformista, 4 novembre 2011 9 – Dario Oli vero, «Haruki Murakami: “Cari lettori, vi racconto il mio mondo parallelo”» la Repubblica, 5 novembre 2011 10 – Ugo T ramballi, «La pr imavera del romanzo»  Il Sole 24 Ore , 6 novembre 2011 13 – Dave Eggers, «Lo scrittore etico» la Repubblica, 8 novembre 2011 15 – T ommy Cappellini, «Il grande ribaltone dell ’editoria» il Giornale , 9 novembre 2011 17 – Matteo B. Bianchi, «T redici storie tra Proust e Tarantino» l’Unità, 9 novembre 2011 18 – Raffaella De Santis, «Microeditori crescono» la Repubblica, 10 novembre 2011 20 – Paolo Fallai, «Fiera editori senza fondi. Così rischia di lasciare presto Roma» Corriere della Sera, 10 novembre 2011 22 – Paola Dècina Lombardi, «Ve li do io i ferri dell ’editore» Tuttolibri della Stampa, 12 novembre 2011 23 – Redazione, «Così la dolce Inge divenne “la” Feltrinelli» il Giornale , 12 novembre 2011 25 – Bruno Ventavoli, «Einaudi, i mercoledì da leoni» La Stampa, 16 novembre 2011 27 – Antonio Prudenzano, «Libri, i rischi e i dubbi sull’abbassamento dei prezzi»  Affari italiani , 16 novembre 2011 29 – Gianni Riotta, «La ruvida America e il suo profeta» Tuttolibri della Stampa, 19 novembre 2011 31 La rassegna stampa di Oblique novembre 2011 «A me piace scrivere in modo selvatico» | Pier Vittorio Tondelli

Rassegna stampa di novembre

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– Antonio Monda, «Stephen King: “Ho riscritto la storia dell ’omicidio Kennedy per salvare Obama”»la Repubblica, primo novembre 2011 3

– Mariarosa Bricchi, «Nelle impurità la linfa della lingua»il manifesto, 2 novembre 2011 6

– Rossana Miranda, «Vuelvo al “Sur”, le case editrici in Italia puntano sulla letteratura sudamericana»il Riformista, 4 novembre 2011 9

– Dario Olivero, «Haruki Murakami: “Cari lettori, vi racconto il mio mondo parallelo”»la Repubblica, 5 novembre 2011 10

– Ugo Tramballi, «La primavera del romanzo» Il Sole 24 Ore , 6 novembre 2011 13

– Dave Eggers, «Lo scrittore etico»la Repubblica, 8 novembre 2011 15

– Tommy Cappellini, «Il grande ribaltone dell ’editoria»il Giornale , 9 novembre 2011 17

– Matteo B. Bianchi, «Tredici storie tra Proust e Tarantino»l’Unità, 9 novembre 2011 18

– Raffaella De Santis, «Microeditori crescono»la Repubblica, 10 novembre 2011 20

– Paolo Fallai, «Fiera editori senza fondi. Così rischia di lasciare presto Roma»Corriere della Sera, 10 novembre 2011 22

– Paola Dècina Lombardi, «Ve li do io i ferri dell ’editore»Tuttolibri della Stampa, 12 novembre 2011 23

– Redazione, «Così la dolce Inge divenne “la” Feltrinelli»il Giornale , 12 novembre 2011 25

– Bruno Ventavoli, «Einaudi, i mercoledì da leoni»La Stampa, 16 novembre 2011 27

– Antonio Prudenzano, «Libri, i rischi e i dubbi sull’abbassamento dei prezzi» Affari italiani , 16 novembre 2011 29

– Gianni Riotta, «La ruvida America e il suo profeta»Tuttolibri della Stampa, 19 novembre 2011 31

La rassegnastampa diOblique

novembre 2011

«A me piace scrivere in modo selvatico» | Pier Vittorio Tondelli

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Raccolta di articoli pubblicati da quotidiani e periodici nazionali tra il primo e il 30 novembre 2011.Impaginazione a cura di Oblique Studio.

– Paolo Di Stefano, «Ferrante: felice di non esserci»Corriere della Sera, 20 novembre 2011 33

– Maria Cecilia Averame, «E-pub: adelante con juicio» Nazione indiana, 21 novembre 2011 36

– Antonio Prudenzano, «L’Aie torna ad attaccare gli editori che non rispettano la legge Levi» Affari italiani , 24 novembre 2011 38

– Giancarlo Mancini, «Ernesto Ferrero: “L’editoria era una lotta. Ora si cerca il consenso”»il Riformista, 25 novembre 2011 39– Livia Manera, «Quando essere gay pareva una malattia»

 Io donna del Corriere della Sera, 26 novembre 2011 41– Pier Vittorio Tondelli, «Io, Tondelli. Dubbi e trucchi narrativi di un vero libertino»

La Lettura del Corriere della Sera, 27 novembre 2011 43– Raffaele Aragona, «A me mi pare un attimino un errore»

 Il Mattino, 29 novembre 2011 45

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Il 22 novembre del 1963, giorno dell’omicidio di  John Fitzgerald Kennedy, Stephen King avevacompiuto da poco 16 anni. Oggi, quasi cinquan-ta anni dopo, quel giorno è diventato il suo ultimoromanzo. Su Kennedy, e quel delitto che sconvolsel’America, ma anche su Obama. «Perché temo perlui», confessa.Peraltro, per King, il 1963 resta una data cruciale. Aquell’epoca la vita gli aveva già riservato due shock molto dolorosi: l’abbandono da parte del padre, cheera andato via di casa, lasciando la famiglia in con-dizioni economiche disperate, e la morte del miglio-re amico d’infanzia, travolto da un treno sotto i suoiocchi. Ma l’omicidio del presidente lo turbò al punto

da convincersi che nulla al mondo sarebbe più stato lostesso, e in quel periodo iniziò un percorso esistenzialecostellato da trionfi e tormenti ricorrenti, che lo han-no portato anche ad abusare di alcool e droghe.A incontrarlo oggi, ci si trova di fronte ad un uomogentile e spiritoso alto quasi due metri, che vestein maniera trasandata, zoppica lievemente a causadel grave incidente del ’99 e fissa con curiosità l’in-terlocutore dietro occhiali troppo piccoli. Dal ’74,anno in cui ha pubblicato Carrie, ha scritto 49 ro-manzi (sette dei quali con lo pseudonimo RichardBachman), nove raccolte di racconti e cinque sag-gi, vendendo più di trecentocinquanta milioni dilibri. Molti suoi scritti sono diventati film, diretti

Stephen King«Ho riscritto la storia dell’omicidio Kennedy per salvare Obama»

Esce il romanzo del re dell’horror dedicato al giorno in cui fu ucciso il presidente.«Il mio protagonista cerca di sventare il delitto. Nell’America di oggi ho paura per Barack»

Antonio Monda, la Repubblica , primo novembre 2011

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da registi come Kubrick, Cronenberg, De Palma eReiner. Sin dall’inizio le sue storie hanno sconfina-to nel paranormale, ma, invecchiando, non è mairiuscito a togliersi di mente lo shock di quella mat-tina di novembre, e la tentazione di pensare a comesarebbe stato possibile evitare quella tragedia.

Un tentativo di risposta è nelle 780 pagine di 22/11/’63, in uscita in Italia per Sperling & Kupfer,un libro tra i più appassionanti che ha scritto negliultimi anni, nel quale immagina che un personag-gio torni indietro nel tempo per tentare di sventarel’attentato. «Si tratta di un evento che ha generatoun’enorme angoscia in me», spiega nel suo ufficiodi Bangor, arredato unicamente da disegni ispiratiai suoi libri e pupazzi che rielaborano in puro stileKing gli spaghetti western di Sergio Leone. «Sentivola necessità di affrontare narrativamente quel senti-mento e quel momento».

 È vero che ha iniziato a scrivere questo libro nel’72, primadi Carrie? Avevo scritto una ventina di pagine, poi non misono sentito all’altezza. Il tema era troppo gran-de, c’era bisogno di molta ricerca e non avevo tempo:all’epoca facevo l’insegnante. Ma compresi subitoche sarei stato un idiota a lasciar cadere un’idea delgenere.

Lei dichiara di credere alle conclusioni della Commis-sione Warren e scrive di essere convinto al 99 per cento che l’omicidio sia stato opera del solo Oswald.Ci sono molte prove contro di lui, mentre solo indizie ricostruzioni dietrologiche a supporto delle teoriecospirazioniste. Se si fosse trattato di un complot-to, in questi 48 anni sarebbe certamente uscito fuoriqualcosa. Norman Mailer ha scritto: «Se un omettosolitario ha ucciso il leader della nazione più po-tente della terra, allora un mondo di sproporzionici avviluppa, e viviamo in un universo assurdo», e ioaggiungo che abbiamo bisogno di credere che nonpuò essere stato un poveraccio come Oswald, e quin-di pensiamo alla Cia, alla mafia, agli anticastristi,persino a Johnson. Io sono con la teoria del rasoiodi Guglielmo da Ockham: la soluzione più sempliceè quella giusta.

Kennedy era estremamente popolare ma anche moltodetestato.Il clima a Dallas era terribile: pochi giorni primadell’attentato Adlai Stevenson e Lady Bird Johnsonerano stati accolti con urla e sputi da casalinghe delceto medio. Il presidente trovò bandiere americane

rovesciate e stendardi confederati, e all’aeroportoun cartello con scritto: «Aiutate JFK a distruggere lademocrazia». C’è un elemento che mi ha convinto ascrivere il libro oggi: sento lo stesso tipo di odio perObama, e vedo con preoccupazione troppe affinità.Ancora una volta un magnifico oratore, che provieneda una breve esperienza al Senato, molto attraente,con una moglie affascinante, che tenta di imporre ilsuo sogno in un mondo politico che lo consideracome un corpo estraneo.

Ritiene che Obama rischi la vita? Spero di no, ma purtroppo la storia ci ha insegnatoche è possibile uccidere il presidente. Quando è ve-nuto a parlare qui a Bangor l’ho visto salire su unpodio con una protezione ridicola.

Quali sono le cose che spaventano Stephen King? Spero che non si aspetti una risposta come «i vam-piri». Mi spaventa la terribile crisi economica, quelloche sta succedendo in Grecia e il possibile effetto do-mino. E quello che l’uomo fa per distruggere l’am-biente in cui vive.

Perché allora scrive storie così terrificanti? Secondo lei ho altra scelta? Le cose che ho elencatonascono tutte dall’animo umano.

Lei ha sempre professato le sue idee liberal.C’è stato persino chi mi ha suggerito di scenderein politica, ma non ci penso minimamente: so diavere davanti a me non più di una decina di anniproduttivi da un punto di vista creativo, e l’unicacosa che posso fare è dare il mio supporto ai politi-ci che hanno idee simili alle mie. Spero che si facciaqualcosa per limitare la diffusione delle armi, e vor-rei che abbandonassimo per sempre l’Afghanistan,anche se ho più di un dubbio a riguardo: non si puòtollerare che un paese torni in mano ai talebani, per

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quello che fanno alle donne e alla cultura moder-na. Al confronto i sauditi sono dei liberali.

 Il protagonista del libro torna alla fine degli anni Cin-quanta e vive anche una storia d’amore. Ha nostal- gia di quel tempo? 

Solo nella misura in cui rappresenta la mia adole-scenza. Ho descritto quegli ambienti con affetto, acominciare dalle macchine, i vestiti e le musiche,ma non ho nascosto alcune mostruosità, come lasegregazione, i bagni separati per le persone di co-lore, la totale incuria per l’inquinamento. E ricor-do l’angoscia con cui seguivamo la crisi dei missilia Cuba: vivevamo con la convinzione di una terzaguerra mondiale.

Due dei suoi figli e sua moglie sono scrittori.Se è per questo anche la terza: è un ministro dellachiesa universalista, e scrive bellissimi sermoni, cheprima o poi pubblicherà. Sono orgoglioso di avereuna famiglia di scrittori e discutiamo sempre di tuttii nostri progetti: mio figlio Joe Hill mi ha convinto acambiare il finale di questo libro, e dopo molte resi-stenze, ammetto che aveva ragione lui. E devo a mia

moglie Tabitha se non ho cestinato il manoscrittodi Carrie.

 È soddisfatto degli adattamenti tratti dai suoi film? Non amo Shining, del quale sto scrivendo un sequelintitolato Dr. Sleep, ma capisco che un autore come

Kubrick abbia voluto realizzare il suo film. Amo in- vece Stand by Me , La zona morta, Shawshank Re-demption e Cujo. E sono sicuro che Jonathan Dem-me farà un ottimo lavoro con  22/11/’63.

Ha dichiarato che il suo maestro letterario è Richard  Matheson.Ha portato la letteratura fantastica e del terrore nelVentesimo secolo, raccontando non più geni, scien-ziati o ricchi, ma uomini comuni. Ma gli autori cheprediligo sono Steinbeck, Faulkner, Carver e Mc-Carthy.

Lei è apprezzato da gran parte della critica, ma Harold Bloom non le attribuisce alcun valore letterario.Ne sono molto dispiaciuto, perché Bloom è ungrande critico. Ma è anche un uomo con i suoi gustie i suoi limiti: spero che un giorno cambi idea.

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dei centocinquant’anni dall’unità, diversi volumi.Franco Brevini, nel suo La letteratura degli italiani ,punta i riflettori non sul deficit di una lingua comu-ne, ma sul ruolo, preziosissimo se pur marginale, deidialetti, capaci di afferrare il reale come l’estraneitàrarefatta della tradizione, soprattutto poetica, nonpoteva fare.Per contro, il colore espressivo delle parlate locali –ricorda Gian Luigi Beccaria in  Mia lingua italiana– ha scontato un limite uguale e contrario a quellodella lingua letteraria, perché in dialetto si poteva (sipuò) parlare e scrivere di vita pratica, di affetti, di

Ci abbiamo messo otto secoli perché la lingua italia-na diventasse bene comune. E anche ora, le cose nonfunzionano come dovrebbero. Per riflettere, oggi, sucome i parlanti parlano, ma anche su come gli scrit-tori scrivono, non è male partire da lontano: magarida una serie di libri che, raccontando la storia dell’i-taliano, forniscono strumenti utili anche per leggerei caratteri della lingua del presente.Il racconto consueto prevede due modalità. La pri-ma è un percorso lineare in tappe dissimmetriche:una campata lunga caratterizzata dall’assenza diuna lingua d’uso condivisa (mentre sono disponi-bili la lingua della letteratura e i diversi dialetti); euna campata breve, successiva, che vede l’affermarsidell’italiano standard, mentre sbiadiscono l’autore- volezza della lingua letteraria da un lato, la padro-nanza dei dialetti dall’altro.Il secondo modo di mettere in scena la stessa vicen-da procede dando risalto a una serie di opposizioniche hanno segnato l’identità dell’italiano: tra scrit-to e parlato; tra prosa e poesia; tra tradizione e uso;tra letteratura e mondo; tra lingua e dialetto. A uncerto punto della storia i contrasti si compongono(e qui si saldano anche i due modi di raccontare):parlanti e scrittori arrivano a condividere la stessalingua, perché uso quotidiano e scrittura finalmenteattingono, per dirla con Eugenio Montale, allo stes-so semenzaio.

Vanti e limiti del dialettiRivitalizzando e combinando l’uno e l’altro percorso,questa vicenda l’hanno messa in scena, in occasione

Nelle impurità la linfa della lingua

Dai testi che ripercorrono la storia dell’italiano in occasione dei centocinquant’anni dell’unità,emerge la ricchezza della nostra tradizione linguistica. Una ricchezza che gli scrittori dovrebbero oggi recuperare,attingendo ai molti serbatoi forniti dalla realtà quotidiana

Mariarosa Bricchi, il manifesto , 2 novembre 2011

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La rassegna stampa di Oblique | novembre 2011

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errori, oppure con pigrizia e convenzionalità, sen-za padronanza dei registri. Questo è un corno delproblema. L’altro aspetto è che, piuttosto che av-  vantaggiarsi del possesso di una lingua condivisa,molti scrittori paiono indifferenti al mezzo di cui siservono, inerti o inattivi di fronte alla possibilità di

«scrivere bene». Che certo non significa oggi quelloche significava per Manzoni duecento anni fa: usareparole e frasi che tutti usavano e capivano. Significa,invece, essere scrittori veri: con una voce, un ritmo,una zampata. Uno stile.E qui ritorna l’utilità di prendere il problema da

lontano. Il possesso diffuso di unostandard, che rifornisce la lin-gua della letteratura come quellaquotidiana, ha fatto un sacco dibene, ma ha generato due perdi-te: l’appannamento della memorialetteraria e il tramonto del bilin-guismo.

Giacimenti da esplorareScrivere di necessità in una linguadiversa da quella dell’uso quo-tidiano, come i nostri letteratihanno fatto per secoli, implicavaassimilare, insieme con la gram-matica, un intero sistema di codi-ci, un repertorio di stampi (formesintattiche, parole, figure reto-riche, anche argomenti) entro iquali calare il pensiero e il mondo.Che ne venivano insieme plasmati

e sfoltiti. Costrizione? Impoverimento? Certo. Maanche, in qualche modo, la garanzia di una qualitàminima, precipitato inevitabile dalla conformità amodelli eccellenti.E, soprattutto, la ricchezza di una tradizione varie-gata, creativa, traboccante di variazioni così nume-rose da viziare la memoria e l ’orecchio. La scrittura èun dispositivo infinitamente dialogico, che funzionaquando sa guardare fuori da sé, ma non può nonguardarsi addosso – pena un impoverimento che sitraduce in deficit di stile.La voce di uno scrittore vero, quando c’è, è nutri-

sentimenti, ma non, poniamo, di scienza, di tecnica,di filosofia («si può parlare con Dio, ma non di Dio»,diceva un poeta dialettale importante, Raffaello Bal-dini). Per gli italiani la lingua, si sa, è venuta primadella nazione.In realtà non solo la lingua, ma il concetto, l’idea

di Italia precedono di secoli il suo inveramentopolitico, come mostra il libro di Francesco Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea. Virando, ma soloin apparenza, dal piano storico-linguistico a quellostorico, Bruni insegue, secondo la grande lezione diSpitzer, il ciclo vitale di un nome, Italia, che ha pro-sperato nei secoli in assenza di unoggetto politico corrispondente.

Medietà o mediocrità?Ma questa lingua avventurosa-mente afferrata è, anche oggi,sede di contrasti. Pietro Trifone,in Storia linguistica dell’Italia disu-nita, rovescia l’assunto del pacificoapprodo a uno standard condivi-so; e analizza fratture, voragini,incrinature, isolando per esempiogli aggressivi stereotipi con cui gliitaliani descrivono i connaziona-li di regioni diverse. Alla salutedell’italiano guardano invece Va-leria Della Valle e Giuseppe Pa-tota con l’ultimo nato della loroserie di manuali di pronto inter- vento: anche questo Viva la gram-matica celebra l’italiano e la suastoria mentre dispensa strumenti per servirsene inmaniera responsabile.Primi piani diversi, tutti di qualità, capaci di testi-moniare, nel ventaglio dei punti di vista, il dinami-smo delle riflessioni linguistiche. Un filo, neanchetroppo sotterraneo, che corre dall’uno all’altro diquesti volumi, e li aggancia al presente, è la pre-occupazione per il diffondersi di un italiano piùprossimo alla mediocrità che alla medietà. Abbia-mo finalmente una lingua che tutti capiamo e tutti,più o meno, scriviamo. Un privilegio poco sfruttato,perché spesso la parliamo e la scriviamo male, con

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ta di letteratura (di letture) non meno che di realtà.Azzerare la tradizione, per volontà o per ignoran-za, ha un costo. Sul versante opposto, il dialetto hamantenuto ogni scrivente non toscano in uno statodi bilinguismo: frustrante, sì, ma aperto, come tuttele contaminazioni, all’aria fresca della lontananza.

Insomma, i due impacci secolari della letteraturaitaliana avevano anche i loro lati positivi: il dialettooffriva depositi di realtà, la storia letteraria serbatoidi memoria. L’uno e l’altro sono stati, nei casi eccel-lenti, ostacolo ma anche stimolo.Mutilati del dialetto come della familiarità con latradizione, gli scrittori di oggi sono i primi a mi-surarsi con un vuoto uguale e contrario a quello deiloro antenati: a questi mancava la materia prima diuna lingua condivisa, a quelli l’humus variopinto chederiva e da un sostrato letterario e da una «linguaprofonda» (così Meneghello definirà il dialetto).Che fare? È tempo, gli stimoli, di trovarli altrove.Gli autori disinteressati alla ricerca stilistica, le pagi-ne piatte o sgangherate ci sono sempre stati. Ma nonper colpa della lingua. Come scriveva a metà Ot-tocento uno che, di suo, non aveva una gran prosa,Pietro Fanfani, «la lingua italiana, benedetto Dio, c’èstata, c’è e si muove». Allora magari no, ma adesso è vero. Messo il tema in prospettivastorica, acquisita la verità che gliingredienti tradizionali sono quasiinattivi, per gli scrittori in cerca distile si aprono altri depositi doverovistare.

Tra regole e derogheCito quasi a caso: l’inglese, con lesue infinite infiltrazioni, carsicheo vistose, in ogni livello dell’i-taliano; la varietà dei linguaggi

settoriali (dal burocratese alla lingua proliferantedel marketing); l’italiano nutrito di linfa stranieradelle (molte) traduzioni belle e quello povero delletraduzioni brutte; l’italiano contaminato che parlachi non è nato qui; le stesse disperanti banalità dicerta scrittura disattenta allo stile; la disponibilità di

grammatiche, dizionari, storie linguistiche (l’italia-no è, oggi, una lingua benissimo descritta), ai qualiscrittori con orecchie per intendere possono rivol-gersi per regole e deroghe, per stimoli e avventure.La voce, quella voce che per ogni vero scrittore è di- versa da qualunque altra voce, si raggiunge (i pochiche la raggiungono) attraverso un processo stratifi-cato: si impasta di scorie; ha bisogno – non impor-ta quanto levigato sarà il risultato finale – di non-purezza, di complicazioni e di disuniformità; eleggemodelli positivi ma sa assimilare, rielaborandola,l’energia di quelli negativi, anche i più bassi e risibi-li. Tutte opportunità che, negli ultimi decenni, nonsono affatto mancate: l’inglese di cui oggi si vituperal’invasività ha generato mezzo secolo fa impasti dacapolavoro in Fenoglio.

Tragico rasoterraLa lingua più conformista, tapina e cafona con la

quale è possibile confrontarsi,quella televisiva, ha rifornito dimeraviglie il grottesco esaspera-to e dolente del libro più bello diquesti ultimi anni, Troppi paradisi di Walter Siti. Mentre le paginedel primo Aldo Nove stanno lìa mostrare come da una varietàlinguistica a elettroencefalogram-ma piatto sia scaturita una forma,rasoterra, di tragico. Io non sonopessimista.

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minimun fax ha presentato alla scorsa edizione dellaFiera del Libro di Torino un nuovo progetto che puntadritto al nuovo polo: Sur, una casa editrice indipenden-te dedicata alla letteratura latinoamericana di qualità,si dedicherà agli autori di oggi e ai classici contem-

poranei da riscoprire. I primi titoli, usciti ad ottobre,sono Prima della fine di Ernesto Sabato, I fantasmi diCésar Aira e Scene da una battaglia sotterranea di Ro-dolfo Fogwill. Dopo aver scoperto esordienti italiani e valorizzato autori nordamericani, minimun fax puntaai latinoamericani, dopo esser stati folgorati nel 2008dalla vivacità della narrativa argentina alla fiera del li-bro di Buenos Aires. In questa fase di partenza, l’ideaè riscoprire i classici «fuori moda» e salvare un filoneletterario impregnato di traduzioni anni Sessanta eSettanta che accentuavano l’esotismo letterario.Da ormai dieci anni va avanti con crescente succes-so il progetto editoriale La Nuova Frontiera. Hannocominciato nel 2002 con la pubblicazione di  Nessunosguardo di José Luis Peixoto e non hanno intenzionedi fermarsi, grazie anche a buoni risultati (l’ultimo casoè La ballata del re di denari di Yuri Herrera). La mis-sione è sempre stata pescare o ripescare testi in linguaspagnola e portoghese sconosciuti al pubblico italiano.Scommettono anche su un genere a metà strada tra ilgiornalismo e la narrativa, conosciuto in Italia. Si trattadelle «crónicas», una forma di racconto di fatti reali cheutilizza forme narrative e di descrizione per coinvol-gere il lettore nelle informazioni, lasciando trapelare lasoggettività e la prospettiva di chi scrive (Gomorra pri-ma di Gomorra, per intenderci). La collana Cronachedi frontiera è stata inaugurata con i titoli Cronache dal continente che non c’è di Alma Guillermoprieto e Opera-zione massacro di Rodolfo Walsh. ¿Qué mas?Nel 2012, l’anno apocalittico dei maya, La Nuova Fron-tiera pubblicherà i classici Felisberto Henàndez dell’U-ruguay, José Emilio Pacheco del Messico e Juan JoséSaer dell’Argentina. Tra i contemporanei punteranno suValeria Luiselli, il noir del messicano Élmer Mendoza eil cileno Alberto Fuguet, già noto per essere uno dei cre-atori di McOndo, un’antologia (e anche una postura) checerca di dimostrare dal 1996 che la letteratura in Ame-rica Latina non è più dettata dai canoni del «realismomagico». La realtà è più cruda, la magia è più nera.

Quando si parla di letteratura latinoamericana nonsi può che partire da riferimenti forti come i premiNobel Gabriel García Màrquez e Mario Vargas Llo-sa. Amici di pensieri e parole, poi diventati rivali inpolitica e amore, rappresentano un’epoca d’oro per lanarrativa dell’America Latina. Erano gli anni Sessan-ta e questi scrittori residenti in Europa, insieme ad al-tri come Julio Cortázar, Carlos Fuentes e Juan Rulfo,hanno portato le loro copertine nelle vetrine delle li-brerie del vecchio continente. La cosiddetta correntedel «realismo magico» divenne un marchio e in moltipaesi (inclusa l’Italia) ci fu un boom che ora s’è esau-rito, ma si continua a girare attorno a questi colossiche in alcuni casi, come García Màrquez, non scrivo-no più. La letteratura latinoamericana non è rimastaferma nelle farfalle gialle di Cent’anni di solitudine . Cisono nuovi nomi che raccontano situazioni, ambientied esperienze diverse. Altre realtà.L’anno scorso la rivista Granta ha pubblicato una se-lezione dei migliori giovani autori in spagnolo, pun-tando per la prima volta su una lingua diversa all’in-glese; negli Stati Uniti nel 2010 è stato assegnatoil National Book Critics Circle degli Stati Uniti a 2666 di Roberto Bolaño, un riconoscimento poche volte arrivato a un testo in una lingua straniera. Maqualcosa sembra essere cambiato nelle coordinatedella letteratura mondiale, le bussole puntano a Sud.L’Italia non è l’eccezione, grazie all’attività di editri-ci che non hanno mai abbandonato il filone, anchedopo il boom. marcos y marcos ha permesso al pub-blico italiano di leggere autori latinoamericani con-temporanei come il cileno Pedro Lemebel. Guandaha pubblicato il libro cult colombiano Rosario Tije-ras (con l’improbabile titolo di Donna in rosso).Non mancano novità assolute. La casa editrice romana

Vuelvo al «Sur», le case editrici in Italiapuntano sulla letteratura latinoamericana

Superato il «realismo magico», c’è un nuovo fermentonella letteratura di lingua ispanica. minimum fax

e la Nuova Frontiera vi dedicano una collana specializzataRossana Miranda, il Riformista , 4 novembre 2011

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quale ha appena festeggiato i quarant’anni di matri-monio, della «vita A» affiorano le seguenti cose: chescrive in molti posti, ma preferisce a casa. Che si alzaalle quattro del mattino e lavora fino alle dieci. Cheanche se la città è sul mare, dal suo studio si vedono lemontagne («e nient’altro: solo i colori che cambianocon le stagioni»). Che vicino alla finestra ci sono dellegrandi casse Jbl («le ho comprate trentacinque annifa») che servono per ascoltare i vecchi lp che riem-piono le pareti («credo di averne diecimila. A destrac’è il jazz, a sinistra la musica classica»). Che sulla pa-rete vuota ci sono i ritratti dipinti a olio di CliffordBrown e di Stan Getz e un poster di Glenn Gould.C’è appesa anche una fotografia di Raymond Carver

«Accumulando dati che non sono reali è possibilecostruire un mondo che appare più realistico di quel-lo esistente. In altre parole, è possibile costruire unmondo irreale che ci mostra la realtà in modo ancorapiù realistico. Questa è la cosa, una delle cose, che voglio fare nei miei romanzi». Forse è questo sistemadi pensiero binario postulato a inizio intervista chespiega perché si sa poco della vita reale, chiamiamo-la «vita A», di Murakami Haruki. E molto di più diquella, chiamiamola «vita non A», immaginaria. Dal-la sua casa nei sobborghi di Tokyo, dove il più popo-lare scrittore giapponese – 62 anni, amato fino alla venerazione da milioni di lettori in tutto il mondo eda anni in odore di Nobel – vive con la moglie con la

Haruki Murakami«Cari lettori, vi racconto il mio mondo parallelo»

Intervista al grande autore giapponese alla vigilia dell’uscita italiana del suo «1Q84»,romanzo a più livelli di realtà già considerato un capolavoro

Dario Olivero, la Repubblica , 5 novembre 2011

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La rassegna stampa di Oblique | novembre 2011

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dettagli percettibili, che si sviluppano e confluisco-no fino a creare un’unica grande vibrazione. Una vi-brazione che diventa l’asse portante del racconto. Il Moby Dick che è presente in ogni racconto.

  I mondi paralleli che lei descrive sono sempre assurdi,

ma le sue descrizioni sono così accurate e le logiche cosìcoerenti che diventano appunto più realistici della cosid-detta realtà. Ma se tutto è nel non A, che cosa resta in A? Non ho riflettuto profondamente su quelli che vengo-no chiamati «mondi paralleli». Ma che il mondo in cui viviamo sia stato scelto per caso tra infinite possibilitàe sia soltanto qualcosa di provvisorio è un fatto reale eindiscutibile. Ad esempio, se l’attacco dell’11 settem-bre non avesse avuto un successo così totale, il mondocon ogni probabilità non sarebbe diventato quello cheè attualmente. È un pensiero che mi dà sempre unasensazione strana. Il suolo su cui mi trovo, pur essendodotato di una massa ben reale, può darsi che in quantorealtà sia qualcosa di inadeguato. E probabilmente nonsono il solo a provare questo disorientamento.

Lei dice in 1Q84 che quando si scrive, l’io dovrebbe scom- parire. Se la letteratura è funzione del reale, quali conse- guenze ha questa scomparsa nelle sue relazioni personali? Più che scomparire, si può dire che l’io sale su quel  veicolo rappresentato dal racconto. Non ho più bi-sogno di pensare, di giudicare. Perché è il raccontoa svolgere al mio posto queste funzioni. In un certosenso, questa è una condizione molto comoda. Maappena smetto di scrivere, devo tornare nel mondoreale. E assumermi di nuovo il fardello di analizzare edi giudicare. In quanto scrittore professionista, sonoabituato a questo andirivieni quotidiano. Ma se qual-cuno, una volta preso il via, non riesce a tornare indie-tro, può darsi che finisca col trovarsi davvero nei guai.

Come si riflette questa visione della coscienza indivi-duale nella politica? Lei scrive in 1Q84: «La maggior  parte della gente non crede nella verità, ma in quello che vorrebbe che la verità fosse». Questo è uno dei riferimen-ti più forti al 1984 di Orwell. Invece di parlare di unbig brother, lei parla di little people.Quando ho pensato ai little people non volevo attri-buirvi alcun tipo di significato. Semplicemente mi

con sua moglie Tess («me l’ha regalata lei per ricor-do quando suo marito è morto»). Che la scrivania èlunga tre metri e mezzo e che c’è un divano di pellefatto in Italia («sono vent’anni che lo uso per fare lasiesta. Ci dormo benissimo. Prima di addormentar-mi, metto Schubert a basso volume»). Fine. Resta la

«vita non A», quella letteraria. Molto più estesa e sot-terranea come molto più esteso è il non essere rispettoall’essere. L’occasione per parlarne è l’uscita in Italiadi 1Q84 . Einaudi pubblica in unico volume i primidue romanzi di quella che in realtà è una trilogia. Illibro (tradotto dal giapponese da Giorgio Amitranoesce l’8 novembre, 20 euro) si ferma a pagina 724,l’ultimo volume uscirà l’anno prossimo. 1Q84 è purostile Murakami: un romanzo con più livelli di realtà.I personaggi passano attraverso porte che separanomondi (ancora A e non A) e da quel momento le loroazioni hanno conseguenze sia nell’uno che nell’altro.Come se non bastasse un mondo solo per spiegarela condizione umana, chiamiamola X. Come se tut-to, letteratura, vita, amore, morte, X fosse il risulta-to dell’interazione continua tra A e non A. È così?«Credo che uno dei compiti più importanti di unoscrittore sia attivare quel territorio dello spirito chenella vita quotidiana non viene usato. Per farlo è ne-cessario spostare in posizione ON alcuni interruttoriche si trovano sul pannello della coscienza. Se si rie-sce, quei territori di solito addormentati lentamente sirisvegliano. I romanzi – cioè i buoni romanzi – hannoquesto potere. E se tutto va bene, attraverso quel pas-saggio segreto che siamo riusciti ad aprire, possiamomettere piede in un mondo che non siamo abituati a vedere. I miei romanzi mostrano il percorso per ar-rivare a quel mondo interiore, un percorso che è unametafora che provoca una reazione. Insomma, strut-turalmente, ciò che viene narrato dentro il racconto èla sua funzione stessa».

Come e quando si preme il tasto ON ? La leggera alterazione di certi dettagli, senza darenell’occhio, prepara mentalmente il lettore all’arrivodi un «grande mutamento». Questa è una delle stra-tegie che si usano quando si scrivono romanzi, maal tempo stesso è il fondamento del mio modo di vedere il mondo. Ogni cosa si manifesta attraverso

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L’amore è senza dubbio una di queste. Nei miei ro-manzi molte delle scene di sesso hanno la funzionedi accendere un certo tipo di interruttore sul pannel-lo della coscienza. Per parlare dell’amore è necessa-rio salire il gradino che lo precede. Come per parlaredi certi concetti religiosi è assolutamente necessario

menzionare la violenza.La sua abilità nell’accendere questi interruttori ha gene-rato una sorta di venerazione dei lettori nei suoi confronti,quasi un culto. Ma la letteratura, per citare solo Orwell, è antidoto al potere. Come concilia questi due aspetti? In quanto persona che racconta, prima di tutto devoconquistare la fiducia del lettore. Poi, possibilmente,anche la sua simpatia. Questo, non c’è bisogno didirlo, è un dovere essenziale per uno scrittore. E per-seguendo ulteriormente quest’obiettivo, è probabileche nasca empatia. C’è un genere di storia che stain piedi proprio perché c’è empatia. Se lei ascoltaotto battute di un’opera di Mozart, probabilmentecapirà subito che si tratta di Mozart. Se legge unapagina di un libro di Raymond Chandler, capiràsubito di essere davanti alla scrittura di Chandler.Questo è uno degli effetti che produce l’empatia.Dove c’è empatia, nasce un sentimento di compro-prietà. Anch’io, nella misura del possibile, desiderocreare questo genere di mondo personale. Un mon-do in cui chiunque possa entrare liberamente, da cuichiunque possa uscire liberamente. Un mondo cheè sì il mio, ma è anche democraticamente condiviso.Se posso dire, qualcosa che si trova all’estremità op-posta del mondo del culto.

Come ci si sente a essere un eterno candidato al Nobel? Quest’anno si aspettava di vincere? La giuria non ha mai comunicato una lista dei fi-nalisti, è soltanto dalle congetture dei media che hosaputo di essere candidato al premio. Riflettere susemplici congetture non penso sia mio compito. Hol’impressione di dire e ridire di continuo le stessecose, ma per me ciò che conta non sono i premi ole onorificenze, bensì i tanti lettori, e l’empatia cheloro provano (spero) nei confronti delle mie opere.Non c’è una sola cosa al mondo che meriti di esseredata in cambio.

piaceva il suono delle parole «little people» (ho usatol’espressione inglese anche nel testo originale giap-ponese). Queste parole sono un semplice suono, unconcetto. Il lettore può interpretarle come vuole. Èqualcosa che è dentro di te, e al tempo stesso fuoridi te. Qualcosa che ti rode dall’interno e al tempo

stesso qualcosa che ti opprime dall’esterno. Le suedimensioni e il suo aspetto variano di minuto in mi-nuto. Può darsi che in certi momenti addirittura nonabbia né dimensioni né forma. Per questa ragione èqualcosa che non posso descrivere concretamente.

Pensa che il prossimo totalitarismo sarà un totalitarismoa rete, il potere di una moltitudine di piccoli centri, in-vece della classica dittatura di uno o di pochi? È del tutto concepibile che possa prendere quest’a-spetto. Per lo meno, non è qualcosa che si possa ve-dere con i propri occhi come un big brother . Può dar-si che anche la radioattività di Fukushima sia unodegli aspetti che assume.

Quali conseguenze ha avuto questa tragedia sull’incon-scio collettivo giapponese? Fukushima è un evento che dovrebbe mantenereuna profonda cicatrice nell’animo dei Giapponesi.Dal modo in cui questa cicatrice rimarrà dipendeil nostro futuro. Non dobbiamo permettere che ilnostro animo guarisca facilmente. Come individuie come comunità, dobbiamo fare in modo che lanostra coscienza evolva in maniera chiara. Dob-biamo creare un contesto del dopo Fukushima. Ediffondere quest’idea fra la gente. Una società chetiene conto soltanto del rendimento e del profittodeve cogliere quest’occasione per cambiare. Siamoin molti a pensarlo. Peccato che i governanti non vogliano affrontare questo problema fondamentale.Penso che sia una grave mancanza di senso di re-sponsabilità. Il Giappone sta andando incontro a unperiodo estremamente critico.

 Anche in 1Q84 lei contrappone il vuoto all’amore. Il vuoto è associato al sesso estremo, violento. L’amore vie-ne nascosto, protetto. Perché? Mi piacciono le cose che costituiscono un’occasioneper cambiare completamente lo scenario del mondo.

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sfruttare l’onda della Primavera con scelte editorialisuperficiali e traduzioni frettolose, l’interesse caleràancora». Il problema non è nuovo nel mercato edi-toriale sulla letteratura araba. Secondo ElisabettaBartuli, dei 225 testi pubblicati a partire dal 1944,cinquantatré traduttori hanno lavorato su un solotesto arabo e quindici ne hanno tradotti due. «Dallospagnolo mediamente un traduttore lavora su ses-santa titoli» spiega Bartuli. «La prima traduzionenon è mai la migliore». A parte quella israeliana, laletteratura mediorientale ha sempre avuto un anda-mento fiacco in Italia. Solo 225 romanzi tradotti di-rettamente dall’arabo in 67 anni non sono una grancosa. Fino al 1988 erano dodici. Quello fu l’anno delprimo e per ora unico Nobel mediorientale per laletteratura, all’egiziano Naguib Mahfouz. Da allo-ra l’interesse è cresciuto, ma in maniera lineare: maimeno di cinque, mai più di dieci opere l’anno. Finoal 2005 quando quell’edizione della Fiera di Fran-coforte fu dedicata alla letteratura araba. È da allorache si sono messe in moto le grandi case editrici chefanno la differenza.

Due diari rivoluzionari dei blogger, quattro saggi fracronaca e storia di autori italiani, sette di riflessionisul tema: due soli di scrittori arabi. Tredici titoli indieci mesi dall’inizio delle Primavere sull’altra spon-da del mediterraneo è una media più che buona perl’editoria italiana. Non tutto entrerà nella Bibliotecadi Alessandria ma è già un piccolo fenomeno.Per la letteratura è ancora presto, i sentimenti han-no bisogno di più tempo per depositarsi e maturare.Prima di averne di vera bisogna aspettare almeno unaltro anno. Ma all’ombra della Primavera è il roman-zo arabo in quanto tale che vive una piccola rinascitaitaliana. Nel 2009 erano stati tradotti e pubblicatidodici titoli, tredici l’anno successivo. Nel 2011 nesono usciti già ventuno e altri quattro sono in pro-grammazione entro la fine dell’anno. Ogni successoha le sue controindicazioni. «Se trattiamo la lettera-tura araba come le altre, pensando che debba essereuna lettura piacevole, il fenomeno sarà durevole»,ammonisce Elisabetta Bartuli, una delle principalitraduttrici italiane della letteratura araba, fra cui leopere del libanese Elias Khuri. «Se il mercato vuole

Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore , 6 novembre 2011

La primavera del romanzo

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La rivoluzione tunisina non è incominciata il 17dicembre quando Mohammed Bouazizi si è datofuoco per protesta contro il regime che gli nega-  va qualsiasi futuro. I blogger egiziani non sononati d’improvviso il 25 gennaio in piazza Tahrir.Gli scrittori arabi e i social network registrano e

raccontano i malesseri delle loro società civili dadecenni, sfidando i regimi, la loro censura e quel-la ancora più pericolosa delle moschee. La dif-ferenza è che ora vengono ascoltati e letti di piùin Occidente. «In realtà è ancora presto per regi-strare gli effetti realisul mercato librario.Certamente c’è statoun nuovo interessesulla stampa e que-sto dovrebbe averedelle conseguenze»,spiega ChiarastellaCampanelli di Si-rente, una piccolacasa editrice abruz-zese che ha apertola collana Altriarabi,incominciando a co-gliere i fermenti del-le società dall’altraparte del Mediterra-neo molto prima cheesplodessero nellepiazze. Alla fine del2008 Sirente avevapubblicato, tradu-cendolo dall’inglese,Taxi , originariamen-te scritto in vari dialetti egiziani da Khaled al-Khamissi: un successo editoriale internazionaleanche se la trasformazione dei  patois egiziani innapoletano e romanesco ha sollevato qualche cri-tica fra i puristi. I titoli di Altriarabi usciti fino aora sono cinque, dovrebbero arrivare a sette entrol’anno. «Cerchiamo autori giovani e contempora-nei che escano dai temi convenzionali della lette-ratura araba e dagli stereotipi; che non raccontinosolo dei protagonisti delle Primavere ma anche i

personaggi della periferia delle rivoluzioni», spie-ga Chiarastella Campanelli.In Medio Oriente il libro è un prodotto costosoe spesso politicamente complicato. Un’opera pub-blicata in Libano, la capitale editoriale della regio-ne, è quasi introvabile al Cairo o a Marrakech. Gli

egiziani faticano a racimolare i soldi per comprareun’opera che viene da Beirut. Come i siriani e glialgerini, vivono di libri pirata, fotocopie di testifotocopiati e i mercati sono in gran parte bacininazionali: gli autori egiziani pubblicano e vendono

in Egitto. Per questol’industria editorialearaba è un businessdifficile: niente di-stribuzione regionale,mancano le statisti-che di mercato perchéi lettori non riesconoa essere un termome-tro reale di ciò cheinteressa. In questecondizioni, per le caseeditrici straniere è an-cora più difficile fareuna ricerca approfon-dita e trovare le operemigliori della lettera-tura araba.Infine la censura.Le Primavere nonsono ancora riuscitea scalfirla. In Egittoi tribunali militarinon sono stati aboliti

e la censura dell’università islamica di al-Azharè sempre un muro insormontabile: senza la suaapprovazione, alle opere viene negato l’ingressonella Biblioteca di Alessandria. In Giordaniamigliaia di copie in inglese dell’autobiografia dire Abdullah sono rimaste per settimane fermealla dogana perché mancava il timbro dell’ufficiodella censura, nella sede centrale della polizia diAmman. Perché anche questo finisca occorre chetrascorra qualche altra primavera.

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dobbiamo mantenere, coltivare, in modo che deci-ne di stili e generi diversi possano coesistere senzala malaugurata idea che ci sia una forma letterariamiracolosa che renda inutili tutte le altre – in unambiente come questo, non potremmo avere qual-che scrittore che se ne esce fuori e ci dice: «Questoè cattivo, questo è buono»? Pochi, preziosi scrittorilo fanno. Ci siamo ritirati collettivamente da ogniaspetto istruttivo del nostro lavoro. Sarò il primo adammettere che anch’io sono stato educato a tenermicautamente lontano dall’offrire un finale pulitino,una morale chiara, ai miei racconti […]. Ma Von-negut l’ha sempre fatto. E, sempre di più, ciò che hadetto sembra raro e necessario. I suoi racconti hannospesso finali che rendono abbondantemente chiaroche una lezione è stata imparata, dai personaggi (disolito) e dal lettore (sempre).Sono un grande lettore di Vonnegut fin dall’adole-scenza, ma solo dopo aver letto queste due raccoltepostume di racconti, Baci da 100 dollari  e Look at the Birdie , ho capito quanto forte era il Vonnegutmoralista. Sapevo che come uomo e saggista non si vergognava di rendere note le sue opinioni. Parla- va benissimo di Gesù Cristo e diceva sempre cosechiare e semplici come: «Maledizione, bisogna esse-re gentili». E siccome assomigliava a un Mark Twainhippy e sembrava più vecchio di quello che era, eraconvincente […]. Quando hai combattuto nella Se-conda guerra mondiale, sei sopravvissuto a Dresda,hai mantenuto la tua famiglia e hai adottato i quat-tro bambini orfani di tua sorella (dopo che lei e suomarito sono morti a pochi giorni di distanza l’unadall’altro), allora disponi di un po’ di credito nellabanca dell’autorità morale.E così eccoci a questi racconti, che furono scritti all’i-nizio della sua carriera, quando Vonnegut cercava di

Ci ho pensato molto a cosa abbiamo perso quandoabbiamo perso Kurt Vonnegut, e la cosa principaleche mi torna sempre in mente è che abbiamo per-so una voce morale. Abbiamo perso una voce moltoragionevole e credibile – il che non significa seriosao non incisiva – che ci aiutava a capire come vivere.Da quando c’è internet, Dio lo benedica, siamoassolutamente sommersi da commenti e opinioni.Non si può ancora dire di preciso, ma fin qui sembrafunzionare. L’accesso a tutti – chi commenta e chilegge – è disponibile in modo più democratico, e ciòè senz’altro un bene. Abbiamo un milione di per-sone o giù di lì che quotidianamente offre consigli,riflessioni, punti di vista, e un tentativo qua e là didarci una mano a vivere in maggiore armonia con ilnostro pianeta e gli altri esseri umani. D’altro canto,per ottenere attenzione in Rete (e in televisione, seè per questo), un commentatore, spesso e volentie-ri, dev’essere rumoroso, radicale o pazzo. Perciò lagran parte dei commentatori rientra in tutte e tre lecategorie.Poi abbiamo i nostri romanzieri e scrittori di rac-conti. In confronto, queste persone sembrano sane edi buone maniere. La fregatura è che, nel complesso,sono molto schivi. Lavorano senza sosta nei boschio nei campus o a Brooklyn, e sono così educati chenon direbbero mai a nessuno, figuriamoci ai lorolettori, come vivere. E così il grosso della lettera-tura contemporanea, sebbene sia davvero geniale esplendida in moltissimi modi, è anche priva di in-tenti morali.Ora, non sto dicendo che la letteratura debba spie-garci come stare al mondo, o debba offrire chiaredirettive morali. No. No. Non sto dicendo questo,commentatori di internet. […] In un ambienteletterario pluralistico – e ne abbiamo bisogno, lo

Lo scrittore etico

Perché non sappiamo più raccontare il bene come faceva Vonnegut

Dave Eggers (traduzione di Francesco Pacifico), la Repubblica , 8 novembre 2011

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qualche parte. Che Vonnegut ti dirà qualcosa concandore e chiarezza. Che essere una persona one-sta è un obiettivo desiderabile e raggiungibile. Checredere ha un valore. Che la ricchezza risolve pochiproblemi. Messaggi semplici, sì, ma c’è un moti- vo per cui dobbiamo farci ricordare simili cose, e si

prova sollievo quando le si vede espresse ad arte masenza opacità.Queste storie d’inizio carriera sono diverse dai ro-manzi successivi di Vonnegut, dove il tono è piùcupo, scuro, più esasperato, dove le sfumature sonomolte e le lezioni più complesse […]. Più avanti,ovviamente, avrebbe scritto, ripetutamente, del-la fine del mondo. E a volte di incesto, e moltospesso della follia della guerra, e dell’avidità e delladepravazione delle nostre industrie e del governo.Ma per ora abbiamo il giovane volenteroso fabbri-cante di trappole per topi, e noi siamo la sua predaconsenziente.

guadagnarsi da vivere con la scrittura. Scriveva moltiracconti all’epoca, e cercava – spesso con successo – di venderli a riviste come Collier’s e The Saturday Eve-ning Post , che all’epoca pubblicavano molta narrativabreve. Chiaramente, il modo in cui scriveva allora eraparecchio influenzato da ciò che volevano queste rivi-

ste. Volevano racconti in prosa relativamente scarna,con intreccio forte, un conflitto semplice, e idealmen-te una sorpresa sul finale.Potremmo definire questi racconti a trappola per topi . Era una forma popolare, se non dominante.Oggi siamo nell’èra, diciamo, del racconto fotore-alista. Nel grosso dei racconti contemporanei tro- viamo un realismo, un naturalismo, che ci dà più omeno quel che ci dà un fotografo […]. In un rac-conto a trappola per topi non è così. Questo tipo diracconto esiste per fregare o mettere in trappola illettore. Muove il lettore lungo la storia attraverso unmeccanismo complesso (ma non troppo complesso),fino alla fine, quando scatta la molla e il lettore siritrova in trappola. E così, in questo tipo di storia,i personaggi, l’ambientazione, l’intreccio, sono tuttigrossomodo dei mezzi rivolti a un certo scopo.Non significa che i personaggi non siano realistici,credibili, difficili da capire o non abbiano in generele caratteristiche che ci aspettiamo dai personaggi.Al contrario, Vonnegut è un maestro quando si trattadi abbozzare un personaggio che sia istantaneamen-te riconoscibile e che il lettore abbia subito voglia diseguire. Ma alla fine, i loro giri sono determinati dalfabbricante della trappola, i loro destini sono al servi-zio di uno scopo superiore. E così, quando cominciateun racconto di questa raccolta, sapete che state pertrovarvi in trappola. E sapete una cosa? È bello farsimettere in trappola. Questa raccolta è piena di sto-rie relativamente semplici su persone relativamentesemplici. In un racconto, un marito gioca troppo coni suoi trenini, trascurando la moglie (c’entra davveropoco con Ghiaccio-nove ). In un altro, un giornalistache irride il Natale è costretto a fare da giudice inun concorso di luci natalizie. Una giovane eredita unafortuna ma si sente oppressa dal peso del denaro enon riesce a fidarsi dei suoi nuovi corteggiatori.In ogni caso, qualunque sia l’intreccio, tu comelettore sai che alla fine del racconto arriverai da

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per il traino delle anteprime su Amazon. Gli autoriitaliani, invece, sono disinteressati ai diritti digitali;tra i nostri, solo Antonio Pennacchi ne ha fatto unabattaglia intransigente».C’è anche chi, tra gli agenti, ha giocato al rilancio,

ampliando la propria area di competenze: «Innan-zitutto» ci dice Vicki Satlow, agente, tra gli altri, diSusanna Tamaro «tutti gli autori vogliono ancoral’edizione cartacea, quindi il business è quello. Peradesso». Esiste, però, il pericolo che qualche autoredi bestseller decida di autopubblicarsi, falciando viaagente e editore. «Occorrerebbe» commenta Satlow «che dedicassero parecchio tempo ad autopromuo- versi sul web, molto più di quanto fanno ora. Sonopochi ad averne voglia e a saperlo fare. In futuro tra iservizi proposti dagli agenti letterari potrebbe esserciquesto. Non tutti gli editori sono come St Martin’sPress, che ha portato via dalla Sony un esperto dimusica, per fare del marketing efficace. Perciò, comeagente, sono fiduciosa, anche se il “business model”dell’ebook non ha trovato una sua sostanza. Sappia-mo solo che chi vendeva due milioni di copie, mettiLe Carré, continua a venderne due milioni: di cui il20 per cento in ebook. Altro discorso è la vanity press:qui ha ragione Mondadori, gli affari sono affari, loroprendono, metti, il 30 percento su ogni libro vendutoe si riempiono di contenuti, perché non dovrebberoandare in questa direzione? Anche contro gli agenti».Argomento affrontato anche con Marco Vigevani,agente letterario a Milano: «Quello che speriamo noiche facciamo questo mestiere antiquato è che ci sia sem-pre bisogno di una figura che tratti per conto degli autoriquando, ed è probabile, Amazon sarà diventato mono-polista nel mercato degli ebook, pubblicazione compre-sa. Intanto, i nostri contratti digitali hanno un orizzontedi un paio d’anni: poi si vedrà se è il caso di rinegoziarliperché il mercato dell’ebook si sarà ampliato».E c’è da sperare che si ampli parecchio: le percentualiche riescono a strappare gli agenti più affermati vannodal 17 al 20 per cento del prezzo di download, oppureil 25 per cento sui ricavi netti (cioè una volta tolta lapercentuale della distribuzione). In un mercato per ilmomento così di nicchia, è già tanto se ci si paga ilcaffè la mattina.

L’impalpabile ebook, con la sua per ora invisibile quotadi mercato, è comunque riuscito in un paio di anni asparigliare le carte nel mondo dell’editoria. Oggi ab-biamo librai digitali che si mettono a fare gli editorio i bibliotecari privati (Amazon, il cosiddetto «Wal-mart dei contenuti»), case editrici che pensano di of-frire servizi di auto pubblicazione (progetto Monda-dori), agenti letterari che diventano editori (il caso diAndrew Wylie, che però pare usi la sua Odysseus solocome arma di ricatto contro Random House) e autoriaffermati che si pubblicano da sé, bypassando ogni in-termediazione e intascandosi il prezzo pieno o quasi.L’anello debole in tutta questa rivoluzione, la figura«a rischio estinzione», è l’agente letterario. Per unpaio di anni gli agenti hanno «tirato avanti» ricon-trattando i diritti per traghettare il catalogo stori-co degli editori in digitale. Si firmavano mazzi dicontratti ogni settimana. Poi, il vuoto. Di che vivere,con i tagli alle uscite editoriali per via della crisi? Discouting? Di letture di manoscritti? Oltretutto fioc-cavano accuse: «Gli agenti letterari? Dei conserva-tori» disse Riccardo Cavallero (Mondadori) primadell’ultima Fiera dei Libro di Francoforte.«Per adesso» ci racconta Simone Morandi, dellostudio Cau Morandi Minutillo Turtur di Roma, tra ipochi crossover tra letteratura e cinema, «quello chestiamo facendo nel digitale è soltanto preparatorio, èuna scommessa. Oggi con gli ebook non si rendicon-ta un centesimo. E sì che siamo stati il primo studioitaliano a trattare il copyright digitale: tra il 1999 eil 2007 curavamo i diritti mondiali per Pirandello,la Mondadori aveva tenuto per sé solo la gestionedi quelli italiani, e dall’America ci arrivavano questestrane richieste di diritti per lo “sfruttamento elet-tronico”. Negli Usa le cose funzionano per il bassoprezzo degli ebook, quasi quello di un paperback, e

Il grande ribaltone dell’editoria

Pubblicazioni a pagamento, autori fai da te, Amazon che dilaga…E gli agenti letterari? Sono rimasti col cerino in mano

Tommy Cappellini, il Giornale , 9 novembre 2011

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Ora che finalmente esce in Italia pubblicato da mi-nimum fax col titolo Il tempo è un bastardo, nell’otti-ma traduzione di Matteo Colombo, i lettori potran-no rendersi conto di persona del perché sia talmenteoriginale da aver conquistato in patria un’infinità dipremi, non ultimo il National Book Award, soffian-dolo al grande favorito Jonathan Franzen.

Un mosaicoIl libro è costituito da tredici storie correlate tra loro.Difficile, e riduttivo, definirle «capitoli». Non a caso

Quando in aprile Jennifer Egan ha vinto il Pulitzercon A visit from the goon squad sui media italiani si eradiffusa la voce che a ottenere il più prestigioso premioletterario americano fosse un romanzo scritto in Po- wer Point, ossia il software usato in tutti gli uffici perrealizzare tavole e diagrammi illustrativi. Si trattava,ovviamente, di un’esagerazione. In realtà, il volumecontiene un solo capitolo illustrato sotto forma di ta- vole, tuttavia resta un libro molto particolare: benchéil resto sia pura narrativa non si può certo affermareche ci troviamo davanti a un romanzo tradizionale.

Tredici storie tra Proust e Tarantino

Jennifer Egan. Arriva anche in Italia il romanzo premio Pulitzer 2011. Non c’è un ordine cronologico,ma l’autrice lascia spazio ai personaggi come se volesse definire un disegno unico senza tracciarlo

Matteo B. Bianchi, l’Unità , 9 novembre 2011

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La rassegna stampa di Oblique | novembre 2011

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di aver impiegato molto tempo per stabilire laconsequenzialità dei capitoli, come una sapientedosatrice di indizi ed emozioni. L’insieme che sicompone alla fine è dunque un grande affrescopostmoderno.L’ispirazione principale dell’autrice è stata la lettura

integrale della Recherce . Il modo di rappresentare la vita e le esperienze individuali di Proust l’ha spintaa concentrarsi sulla complessità e la frammentarie-tà del vivere contemporaneo. Per questo ha sceltodi focalizzare la sua attenzione su singoli episodipiuttosto che su una trama corale. A spingerla versoquesta libertà nativa è stata anche un’altra grandeinfluenza, ma di ordine cinematografico, quel Pulp fiction di Tarantino nel quale lo spettatore è cattura-to dalle diverse vicende prima di arrivare a capire larelazione che le lega.

Diventerà una riduzione tvLa complessità strutturale non deve però spaventa-re. La vera forza del romanzo sta proprio nella stra-ordinaria qualità delle sue storie: una pr chiamata arinnovare l’immagine di uno spietato dittatore, ungiornalista che si prende delle libertà con l’attricettache deve intervistare, un safari in Africa nel quale unfiglio s’invaghisce della giovane amante del padre,le pagine di diario di un’adolescente del futuro informato Power Point.La potenza visiva di questi episodi non è sfuggitaai produttori televisivi. Così come è successo per Le correzioni di Franzen, anche il romanzo della Eganè stato opzionato dal canale via cavo Hbo per unariduzione televisiva. Trattandosi della stessa rete cheha prodotto serie tv spettacolari del livello de  I so- pranos e Six feet under  è legittimo avere aspettativeelevate sul progetto. Il tempo è un bastardo è un romanzo profondamentecontemporaneo, che racconta senza svelare, che aprescenari e li richiude, e al termine lascia una curiosasensazione di inedita pienezza. E se è difficile tro- varne equivalenti letterari il motivo va ricercato neltema del libro stesso, quello musicale. Questo libroè come un album: si può scegliere di ascoltarne lesingole canzoni, ma è nell’ascolto completo che sene assapora tutta la potenza.

l’autrice ne ha pubblicate numerose come singo-li racconti su riviste letterarie. Testi autoconclusividunque, che però riuniti acquistano un senso gene-rale, come piastrelle colorate che, una volta avvicina-te, si rivelano tessere di un grande mosaico.Non è certo la prima volta che un autore sceglie di

scrivere un romanzo in forma di racconti. Citiamoper esempio il bestseller internazionale di qualcheanno fa Manuale di caccia e pesca per ragazze di Me-lissa Banks, la cui protagonista era ritratta in rac-conti che partivano dalla sua adolescenza fino adarrivare alla completa maturità. Quello che Jenni-fer Egan ha fatto però è qualcosa di più azzardatoe ambizioso: ha lavorato sui testi come entità indi- viduali, non ha seguito alcun ordine cronologico,ha dato spazio a una ventina di personaggi. In altreparole, ha mischiato le tessere del puzzle, come se  volesse suggerire il disegno conclusivo senza maitracciarlo.Le due figure principali attorno alle quali ruota illibro sono un produttore musicale, Bennie, e la suaassistente, Sasha. Il lettore li incontra in varie fasidella loro vita e del loro rapporto. Il libro si aprecon un incontro di Sasha adulta dall’analista. Neicapitoli successivi la ritroviamo ragazzina mentreassiste a un concerto rock, madre di famiglia matu-ra e sistemata in una villetta borghese di provincia,giovane irrequieta mentre vaga nei vicoli di Napo-li vivendo di piccoli furti ed espedienti: sembranodonne diverse, ma è sempre la stessa, colta in mo-menti differenti della propria esperienza. AncheBennie lo vediamo come produttore di successo,adolescente cantante scatenato in un gruppo punk,professionista in declino alla ricerca di un riscat-to… Attorno a loro una miriade di comprimari (fi-gli, mariti, mogli, fratelli, compagni di università,persino vecchi flirt dimenticati) che a volte sonorelegati nel ruolo di comparse, altre assurgono aquello di protagonisti.L’andamento del romanzo è continuamente oscil-lante fra momenti storici, punti di vista e intensitàdifferenti, in un arco temporale che va dagli anniSettanta sino al 2020. Ogni volta il lettore non sacosa aspettarsi, si abbandona al flusso che l ’autriceha programmato per lui. La Egan ha dichiarato

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Ogni libreria ha un 35 per cento di titoli di cui non vende neanche una copia e la maggior parte dei libriesposti sugli scaffali non superano le cinquecento co-pie vendute, mentre oltre il 60 per cento del fatturatodell’editoria libraria è intascato dai grandi gruppi,Mondadori, Rcs, Gems, Feltrinelli, Giunti.In provincia spopolano le vite dei santi e i catechi-smi tascabili. «I libri religiosi vendono tanto a livel-lo locale. Ma vanno forte anche le guide turistiche,come quelle dell’editore fiorentino Bonechi», spiegaGiuliano Vigini, esperto di editoria e docente allaCattolica di Milano. In Trentino la casa editrice IlMargine, con l’autobiografia di don Dante Clauser,il «prete dei barboni», ha esaurito la prima edizione vendendo tremila copie. E un buon successo vannoraccogliendo Qiqajon, le edizioni della comunità diBose di Enzo Bianchi, mentre è diventato un best-seller YouCat , incoraggiamento a studiare il catechi-smo uscito per Città Nuova. I piccoli, quelli che se-condo la classificazione Istat producono fino a diecilibri in un anno, investendo tra i 20 e i 50 mila euro,conquistano i festival. Un appuntamento è stato a Torino, al Salone del libro, dove è stato presentatol’«Incubatore» delle case editrici con meno di dueanni di vita. Erano ventotto.Va molto l’oriente, piacciono le donne (di ogni tipo,ironiche, istrioniche, in menopausa), si corteggianomamme e pupi, dai pannolini ai banchi di scuola.Così le edizioni Il leone verde hanno creato la col-lana Il bambino naturale, mentre Lo stampatello,casa editrice milanese nata quest’anno, racconta aibambini storie di famiglie non tradizionali. Fami-glie con due mamme, ad esempio, o con un sologenitore. L’editore Ponte33 propone invece la let-teratura persiana e nasce da un’idea di tre studiosee amiche: «Siamo partite con un investimento di 15

Può accadere che un libro affidato a un piccolissimoeditore arrivi a vendere migliaia di copie. È andatacosì quindici anni fa quando le edizioni locali Gammandarono alle stampe  El Bibbiù, la bibbia in dia-letto bresciano di Achille Platto, un canto delle ori-gini che mescolava il sacro con il mondo contadinoe che fece duemila copie. L’esordio incoraggiantespinse l’editore e sua figlia, Daniela Mena, a ideareuna fiera per quelli come loro. Nasceva così la Ras-segna della Microeditoria italiana che da nove annisi tiene a Chiari, in provincia di Brescia. Quest’annotorna, da domani a domenica, dedicata all’articolo 1della Costituzione. Titolo: «Valori di carta». L’annoscorso La felicità di Emma di Claudia Schreiber, unastoria d’amore a sfondo agreste pubblicata da Kellereditore e presentata in fiera, ha venduto cinquemilacopie in un anno.Certo, la crescita esponenziale degli editori è segnodi vitalità. Solo quest’anno si sono registrati più di1200 nuovi esperimenti editoriali. In gran parte sitratta di associazioni, parrocchie, stamperie locali eautopubblicazioni. Grazie al digitale, i libri stampa-ti in proprio, finanziati dagli autori stessi e regolar-mente registrati con un proprio codice isbn, fanno laparte del leone, ma sono almeno 79 le case editrici vere e proprie. Un numero impressionante, vuol direpiù di sei al mese, una ogni cinque giorni. Anche seè altissimo il tasso di mortalità: quelle che hannocessato l’attività sono ben 122. Un’armata di formi-che ingrossata dalle truppe digitali degli ebook (unquarto del totale), che dal cyberspazio provano l’as-salto alla carta, rimodellando le regole della letturae soprattutto della distribuzione. D’altra parte ognianno in Italia si pubblicano 60 mila nuovi libri, dicui il 25 percento, un libro su quattro, è edito da unpiccolo e medio editore. Tanti e difficili da smaltire.

Microeditori crescono

Il paese dove tutti fanno libri. Un nuovo marchio ogni cinque giorni

Raffaella De Santis,la Repubblica 

, 10 novembre 2011

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magico in cui sugli alberi crescono i libri. Qualcuno,come la torinese Alga, offre libri low cost (3 euro,formato ebook e cartaceo) con distribuzione alter-nativa: negozi, bar, vendita dal sito. Caribou, nataa Verbania nel 2009, pubblica invece classici fuoricommercio: Manzoni, Cavour, Cattaneo.

Il salto non è scontato. È riuscito a Keller con il col-paccio da Nobel di Herta Müller, ad Aragno, che ha vinto il premio Alassio «Un editore per l’Europa»,a Interlinea che, partita da Novara venti anni fa, hapubblicato più di 800 titoli divisi in venti collane.La sigla Add, che ha alle spalle grandi nomi comeAgnelli, Dalai, Dileo, ha invece fatto centro con Indignatevi di Stéphan Hessel. Può incoraggiare ilfatto che scrittori di successo come Mauro Corona oSilvia Avallone abbiano debuttato con piccoli edito-ri: il primo con l’editrice Sacco e l’autrice di Acciaio,agli esordi poetessa, con le Edizioni della Meridia-na. Ma dei 7590 editori italiani censiti nel 2010,quelli commercialmente attivi sono circa 2500. Tan-ti si arrendono. Le edizioni milanesi Cabila hannorinunciato alle loro ambizioni. Pubblicavano classicidimenticati. Stessa sorte per le edizioni di poesiaCoen Tanugi di Trieste o quelle per bambini I fio-ri di campo. D’altra parte la maggioranza dei librisparisce presto dalle librerie: ogni anno ne esconodi scena più di 40 mila. Nella struggle for life moltinon ce la fanno. La lotta per la vita, si sa, premia ipiù forti.

mila euro», racconta Felicetta Ferraro, che a Teheranlavorava come addetta culturale all’ambasciata ita-liana. Oggi Felicetta è una «donna libro», che recitaa memoria interi capitoli di romanzi. Legge qual-che riga da Come un uccello in volo di Fariba Vafi:«Sfoglio un libro. Ogni volta torno alla prima riga e

ricomincio a leggere la frase dall’inizio».Negli anni Settanta molti indipendenti si lanciaro-no contro le «tigri di carta» della grande editoria.Guaraldi, Marsilio, Mazzotta erano tra i piccoli cherivendicavano un’«editoria democratica». Guaraldicon libri spiazzanti come il Diario di un educastra-tor e di Jules Celma o  I pampini bugiardi (introdu-zione di Umberto Eco). Negli Ottanta, AlbertoCasiraghy, editore artista, ha creato con Pulcinoe-lefante libri-opera d’arte: copie numerate e rilegatea mano, in catalogo nomi come Vassalli, Pasolini eGadda. Oggi emergere non è facile. Alla fine a vin-cere saranno i più creativi e i più tenaci. E la tenutala stabilirà il tempo: «Per testarla» spiega Vigini «ci vogliono almeno cinque anni e una trentina di tito-li». Quest’anno esordiscono a Chiari anche l’editoremilanese Rayuela, che espone tra gli altri un librodi racconti sul filo rosso delle migrazioni (MiltonFernàndez, Sapessi, Sebastiano…) e le edizioni Piu-ma, nate dall’idea di due mamme, con l’obiettivo dipubblicare storie per divertire e, perché no, educarei bambini, come Dottor B. e il pericolo dei batteri  oGiannino e il Bibliobosco, che racconta di un paese

Certo, la crescita esponenziale degli editori è segno di vitalità. Soloquest’anno si sono registrati più di 1200 nuovi esperimenti editoriali.In gran parte si tratta di associazioni, parrocchie, stamperie locali

e autopubblicazioni. [...] ma sono almeno 79 le case editrici vere eproprie. Un numero impressionante, vuol dire più di sei al mese, unaogni cinque giorni. Anche se è altissimo il tasso di mortalità: quelle

che hanno cessato l’attività sono ben 122.

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da Roma, sperando di trovare altrove maggioresensibilità».Ci vuole un anno per organizzare una Fiera del libroseria – insistono gli editori – e per dicembre sonoattesi a Roma Amélie Nothomb, Santiago Gamboa,Shun-Luen Bynum, Zachar Prilepin, ma oggi «nonsappiamo cosa accadrà e cosa dovremmo tagliare»,dice il direttore Fabio Del Giudice. «Due terzi de-gli editori e un terzo dei visitatori vengono da fuo-ri la Regione Lazio e questa fiera» insiste Pollo «èuna gemma di Roma, prima era tagliata fuori dalmondo editoriale. Questo silenzio istituzionale mistupisce perché va contro gli interessi della città, piùche degli editori». La piccola e media editoria nellaRegione Lazio, come ha spiegato Enrico Iacomet-ti, presidente del Gruppo piccoli editori dell’Aie,«rappresenta un comparto economico importante:ci sono 500 marchi editoriali e oltre seimila addetti».Oggi partirà una nuova lettera indirizzata al sindacoGianni Alemanno («che dichiarava il sostegno allaFiera perfino nel programma elettorale» ricorda Po-lipo) e alla presidente del Lazio, Renata Polverini.Ma il rischio che Roma perda l’appuntamento nel2012 resta altissimo. «Nessuno sottovaluta la crisi»insiste il presidente degli editori italiani «eravamopronti a discutere dei tagli, ma tacere fino alla fine,nascondersi, scappare, è inspiegabile».Federculture ha stimato in 7,2 miliardi di euro lerisorse che i Comuni italiani saranno costretti atagliare nel 2012: tra il 2005 e il 2009 lo Stato haridotto gli stanziamenti del 32,5 per cento, in com-penso negli ultimi dieci anni il cosiddetto turismoculturale è cresciuto di oltre il 50. Il risultato è nel-lo sconforto di chi, nonostante tutto, non vuole ar-rendersi: «Tagliare è una cosa, uccidere un settore èun’altra».

La fondazione che organizza la Fiera del Libro di Torino sta discutendo in questi giorni i tagli ai fondiper l’edizione 2012. L’ultimo Festivaletteratura diMantova ha dovuto fare i conti con le casse «vuote»del Comune. E il Festival della Filosofia di Mode-na ha talmente stretto la cinghia che per salvare gliappuntamenti ha ridotto all’osso tutto, compresa lastampa dei programmi.Non c’è appuntamento culturale che non stia fa-cendo i conti con la riduzione dei budget. Ma al-meno se ne parla. A Roma, quando mancano menodi quattro settimane alla Fiera della piccola e me-dia editoria «Più libri più Liberi», per uscire daun silenzio definito «insultante» gli editori si sonorivolti ai giornali. La Fiera, unica riservata ai pic-coli editori, avrebbe voluto festeggiare la decimaedizione (con tanto di invito al presidente Gior-gio Napolitano) al Palazzo dei Congressi di Romadal 7 all’11 dicembre. Ma dopo mesi di contatti(negati) e lettere (senza risposta) gli organizzatorinon hanno notizie del finanziamento del Comunedi Roma (centomila euro), hanno saputo per vietraverse che non avranno quello della Regione La-zio (220 mila euro) e solo ieri hanno avuto confer-ma che i centomila euro della Provincia in qualchemodo arriveranno. Confermati anche i fondi delministero (220 mila euro) e della Camera di com-mercio (60 mila) che insieme agli albi garantivanouna copertura del 50 per cento dei costi. «Roma èla capitale della piccola editoria» ha detto il pre-sidente dell’Associazione editori, Marco Polillo «equesta manifestazione con 430 editori e 50 mila vi-sitatori ogni anno, rappresenta un unicum europeo.Noi garantiremo questa edizione, con uno sforzogigantesco, ma è evidente che senza garanzie do- vremo decidere se chiudere nel 2012 o andarcene

Fiera dei piccoli editori senza fondi.Così rischia di lasciare presto Roma

Paolo Fallai,Corriere della Sera 

, 10 novembre 2011

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marketing. La promessa di una circolazione più liberae democratica delle opere è un’utopia. Può valere per iclassici, ma non per i buoni romanzi.

Da un progetto preciso a una diversificazione eclettica,c’è un filo rosso che dà identità ad e/o? Sandra: «All’inizio sono stati determinanti i mieistudi e i consigli di maestri come Angelo Ripelli-no o di amici come Milan Kundera, che ha direttola nostra prima collana ma ha poi pubblicato conAdelphi perché sua moglie ci riteneva troppo “pic-coli”. Contava anche la nostra visione del mondo el’esperienza della libreria di Sandro, La Vecchia Tal-pa, specializzata in rivoluzioni di tutti i tipi. L’edi-toria, in quegli anni di contestazione, ci è sembratauna scelta molto libera, un impegno che corrispon-deva alla nostra voglia di capire e di fare. Avevamointuito che dietro la cortina di ferro c’era un fer-mento diverso dallo stereotipo della società sociali-sta e cercando storie personali e collettive abbiamoscoperto Christa Wolf, Hrabal, Brandys, tra gli altri.Poi io ho voluto il filone delle scrittrici, da Lia Levia Ferrante, da Sebold a Barbery alla giovanissimaViola Di Grado. E siamo andati avanti proponendoquello che ci piaceva, anche contro il parere di ami-ci autorevolissimi che si sono scandalizzati quandoabbiamo inaugurato il “giallo mediterraneo” conCarlotto e Izzo… Alcune iniziative avventurose, lesvolte, e le innovazioni di e/o appartengono più aSandro, ma le ho sempre condivise con entusiasmo.Il filo rosso è il piacere della lettura, per entrambi».Sandro: «La lettrice forte è lei. Anche io leggo moltis-simo, ma velocemente e dovunque. Sandra si occupadelle traduzioni e dell’editing in modo maniacale, iodel lato imprenditoriale. Per sopravvivere è necessariopuntare al libro o al genere che assicuri la pubblicazione

Avevano poco più di vent’anni, Sandro Ferri e SandraOzzola, quando nel 1979 hanno fondato e/o puntandosulle letterature dell’Est. Dopo aver allargato lo sguar-do all’Ovest e aver creato nel 2005 Europa Editions,negli Stati Uniti dove com’è noto poco si traduce laletteratura del vecchio continente, si sono rivolti al Suddel mediterraneo con Sharq/Gharb, che pubblica inarabo. Intanto, diversificando i generi, il catalogo si èarricchito di autori importanti e libri di successo. Lui,«un umbro-americano ruvido» con esperienze familia-ri di emigrazione, studi in Francia, interessi socio-filo-sofici; lei, piemontese, figlia di un ufficiale, approdataa Roma a diciannove anni e laureata alla Sapienza inslavistica: qual è il segreto del loro successo?A giudicare da come lui descrive il loro lavoro ne I fer-ri dell’editore si direbbe che un solido accordo tra duetemperamenti diversi, un atteggiamento non confor-mista rispetto al mercato e alle abitudini e conventi-cole letterarie, oltre a un attaccamento passionale allaloro creatura hanno funzionato. E la ristretta cerchiaamicale di collaboratori come la bravissima Anita Raja,germanista, o Goffredo Fofi e Grazia Cherchi, ha por-tato valore aggiunto. Ma non è la storia di e/o che San-dro Ferri ha voluto proporre. Si è messo in gioco congrande schiettezza, ripercorrendo un’esperienza a duericca di proposte originali e in continua crescita perdifendere il ruolo dell’editore-demiurgo che selezio-na, consiglia, migliora il testo con l’editing, e che oggiè minacciato dalla diffusione dell’ebook. Per i piccolieditori indipendenti, il rischio di estinzione c’è – dicepessimisticamente nel pamphlet appena uscito. Il libroelettronico «moltiplicherà la mediocrità e confonderàil lettore» fino alla rinuncia a leggere o all’acquisto dieffimeri bestseller imposti, come già avviene, da unaoligarchia editoriale, primo fra tutti il «neo-editore»Amazon, che su quei titoli concentra tutte le risorse di

Paola Dècina Lombardi,Tuttolibri 

dellaStampa 

, 12 novembre 2011

Un’avventura cominciata nel 1979, come guide Ripellino e Kundera,per poi approdare al giallo mediterraneo di Carlotto e Izzo e ai giovani americani

«Ve li do io i ferri dell’editore»

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riletto di recente, ha cambiato il mio modo di vedereil mondo svelandomi una realtà letta in chiave meta-fisica e orientando il taglio dell’esordio di e/o. Nellanostra lettura dell’Est abbiamo apprezzato il rifiutodi ogni storicismo, quella che Hrabal chiama l’ironiapraghese: sguardo ironico sull’assurdità della storia e

atteggiamento anarchico dell’individuo che si ribellaal potere. Così come il romanzo Rondò di Brandysè una bellissima storia d’amore ma anche un innoironico alla libertà di ribellarsi alla Storia».Sandra: «Sono  I Demoni , Delitto e castigo, ma soprat-tutto l’ Idiota le opere che mi hanno lasciato il segno.Da una parte la follia e il male cui l’individuo per la suafragilità è esposto, dall’altra il problema dell’ingiustiziasociale e della ribellione, trattati con una profonditàche per me resta insuperabile. Si tratta di temi di ca-rattere morale ed esistenziale che hanno spinto ancheme ad amare Sartre, Beauvoir, Camus in un momentoche è coinciso con il passaggio all’età adulta. Leggen-do La peste  ho capito che si può superare l’angoscianel rapporto solidale con gli altri. Ma questi libri miprocuravano un continuo interrogarmi, una sofferenzache mi spingeva all’altro piacere della lettura, la puraevasione. E continuo a farlo, anche nella scelta dei librida pubblicare: le storie d’avventura e le storie d’intro-spezione… La profondità dei classici russi e l’impegnodell’esistenzialismo francese li ho poi ritrovati in Cas-sandra di Christa Wolf, tanto che mentre correggevo lebozze ho pianto per l’emozione di fronte a una presa dicoscienza dell’identità femminile tanto irrisa».

  È appena uscito L’amica geniale di Elena Ferrante,una magnifica scrittrice ma anche un caso di anonimatoletterario con una consegna del silenzio così stretta daalimentare il sospetto di un’operazione editoriale. L’a-mica geniale, primo accattivante volume di una trilo- gia che ricostruisce due percorsi femminili e un grande affresco storico sociale dagli anni Cinquanta a oggi, ha le caratteristiche del grande romanzo popolare da adattare  per il cinema o la tv. Una serie di successo, come quelle che piacevano a Sandra Ozzola, ma ad alto livello? Sandra (ridendo, orgogliosa): «Confesso di averspinto io la Ferrante a scrivere questo libro. Solo io eSandro conosciamo la sua identità, ed è l’unica con-dizione perché lei possa seguitare a pubblicare».

degli altri perché il 90 per cento dei titoli pubblicati dagrandi e piccoli editori vendono mille, duemila copie…I nostri modelli sono stati Einaudi, Adelphi, Feltrinelli,la nostra ambizione passare da piccoli a medi editori.È vero, e/o con i suoi sconfinamenti può rischiare diapparire senza una precisa identità, e ne paghiamo lo

scotto, ma il contrario ci sembrerebbe una mancanza dicreatività. Non amiamo la distinzione tra alto e basso.Anche in un giallo o in un thriller lo sguardo criticosulla realtà può stimolare la riflessione».

Dunque niente pregiudizi ideologici, a determinare le scelte di e/o sono un occhio al mercato e soprattutto i vostri  gusti. Da quali libri è nato il vostro piacere della lettura? Sandra: «Dai romanzi di Salgari e dalle fiabe russe,in cui c’era tutto: amore, magia, leggenda e peripe-zie, racconti sociali e di costume. Il pesciolino d’oro diPuskin era la mia preferita e l’ho raccontata per anni amia figlia. Poi c’è stata la passione per la serie di Ange-lica di Anne e Serge Golon e La primula rossa. Questeavventure di aristocratici con trame scontate sul temadell’opposizione tra buono e cattivo mi entusiasma- vano come le storie d’amore di Delly con le sue eroi-ne bellissime ma povere che nonostante le contrarietàapprodano al lieto fine. E mi piacevano al punto darileggerle anche dopo aver scoperto Dostoevskij la cuilettura, insieme a un piacere diverso, esigeva un coin- volgimento più intenso. Da allora, il gusto del rac-conto popolare e dell’avventura, come l’abitudine adalternare questo tipo di letture mi è rimasto». Sandro:«Il mio amore per la lettura è nato con la letteraturaamericana d’azione e di esperienza di vita, piena di ro-manticismo, coraggio, sfida. Fitzgerald, Hemingway,Faulkner mi davano la possibilità di identificarmi coni loro personaggi. Il grande Gatsby e Tenera è la notte  sono tra i libri più belli sul sogno dell’individuo ditrasformarsi e di realizzare la propria visione. Di qui,la nostra collana di giovani autori americani».

  E le letture di formazione, determinanti per le altre scelte editoriali? Sandro: «Tra i libri che mi hanno cambiato la vitac’è la letteratura di idee, Sartre e Camus soprattutto,che ad esser sincero oggi non leggerei con lo stessotrasporto. Anche Kafka, e penso al Processo che ho

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Come incontrò Feltrinelli? Nel luglio 1958 Feltrinelli, separatosi poco primadalla seconda moglie, decide di fare un viaggio inSvezia per acquistarvi un nuovo panfilo. Nello stessotempo va a fare visita all’editore amburghese Hein-rich Rowohlt, col quale ha già un rapporto di amici-zia e d’affari, che dà una festa in suo onore. Inge è lì.Sgargiantemente abbigliata. Lei partecipa alla festa,chiarisce, in quanto svolge incarichi di fotoreporteranche per Rowohlt. Cena al tavolo con i due editorie ce la mette tutta per far colpo su Feltrinelli. Ripor-tando un successone. Lo stesso editore amburghesetestimonierà molti anni dopo che Inge e Feltrinelli«simpatizzarono subito e, quando lasciarono la festa,credo non avessero più bisogno di nessun altro».

Dopo di che? I due vanno a Milano. Non possono sposarsi (lui

Chi era Inge Schóntal prima di incontrare GiangiacomoFeltrinelli? Inge nasce in Germania, a Essen(Ruhr), nel 1930.È ancora nella primissima infanzia quando il padre,ebreo, emigra in America per scampare al potere na-zista. Lei cresce a Gottinga, nella Bassa Sassonia,accanto alla madre e a due fratelli, fra seri pericoli eristrettezze economiche.

 E alla fine della guerra? 

Inge trascorre ancora a Gottinga, con la famiglia,pochi altri anni che preferisce dimenticare. Poidecide di andarsene per suo conto ad Amburgo.Ha vent’anni, è una bella ragazza che non passainosservata, molto intraprendente. Cerca lavoro,cerca di fare conoscenze, e infine riesce a essereassunta come apprendista fotoreporter dalla rivistaConstanze .

Così la dolce Inge divenne «la» Feltrinelli

Sergio D’Angelo rivela come la moglie tedesca di Giangiacomo conquistò la casa editrice

Redazione, il Giornale , 12 novembre 2011

 Anticipiamo uno stralcio di una lunga intervista rilasciatada Sergio d’Angelo a Edward Lozansky, giornalista emigra-to negli anni Settanta dall’Urss agli Stati Uniti, che uscirà

nel prossimo numero dei settimanale Kontinent Usa, rami- ficazione della tuttora esistente rivista Kontinent, fondatanel 1974 a Parigi da Vladimir Maximov e altri dissidenti 

sovietici. L’intervistato è il giornalista italiano che nella pri-mavera del 1956 ottenne da Boris Pasternak (1890-1960)

il dattiloscritto del Zhivago per passarlo a Giangiacomo Fel-trinelli, che lo pubblicò – in prima edizione mondiale – nel novembre 1957 (vicenda raccontata dall’Angelo ne Il casoPasternak , Bietta, 2006). Nella lunga intervista d’Angeloracconta in particolare il ruolo esercitato da Inge Schóntal 

nella vita di Giangiacomo Feltrinelli.

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 Non è molto…In compenso, durante una pausa dei viaggi in Afri-ca, Inge dà alla luce Carlo, nel 1962. Il neonato èsenza dubbio figlio di Feltrinelli, la somiglianza conlui è fuori discussione, e poco importa se nella cer-chia dell’editore corre voce che ci sia stato un ricor-

so all’inseminazione artificiale. Sia come sia, si deverilevare un fatto. Questo figlio – che il padre subitoriconosce e nomina per testamento suo erede uni- versale – sarà determinante nel consentire a Inge dimantenere la sua presa su Feltrinelli quando fra nonmolto finirà la loro convivenza sotto lo stesso tetto esoprattutto dopo che lui, alcuni anni più tardi, pas-serà alla clandestinità.

 E la passione per Cuba? Quando esattamente comincia? Nel gennaio 1964. Inge e Feltrinelli sbarcano a Cuba,dove entrambi sono già stati. Adesso qui tutto è cam-biato. C’è Fidel Castro, il socialismo caraibico, il mi-raggio dell’esplosione rivoluzionaria nell’intera Ame-rica Latina. Feltrinelli, che di tutto ciò si entusiasma, viene ricevuto varie volte dal lider màximo, ne con-quista la benevolenza. […] Poi Feltrinelli ci torneràmolto spesso. Ma senza Inge. Durante una festa lei viene scoperta in estrema intimità con un noto gior-nalista del Pci, suscitando a dire il vero più perplessitàche scandalo. Ad ogni modo il risultato è che Feltri-nelli va ad abitare per conto proprio, lasciando a lei ladisponibilità della dimora patrizia, la cura del figlio,l’usufrutto su una cospicua parte del patrimonio fa-miliare e l’incarico di dirigente nella casa editrice.

Un po’ troppo. Segno che lui resta succubo della persona-lità di Inge.È così e sarà sempre così. Intanto il nuovo assettonon impedisce a Inge, che conserva intatte tutte lesue funzioni materne e professionali, di incontraree condizionare Feltrinelli tutte le volte che vuole.E le dà in più la possibilità di dissociarsi in modonaturale da quei viaggi nel Terzo mondo che fini-rebbero col rendere poco credibile la sua coltivataimmagine pubblica di intellettuale progressista manon rivoluzionario. Del resto Feltrinelli, esaurito ilsuo compito di editore europeo, si considera solo«un combattente contro l’imperialismo».

ha un’altra moglie, sia pure separata), ma Inge, sta-bilitasi nella casa avita di Feltrinelli, inaugura condisinvoltura la sua nuova vita da miliardaria. Cheperò non è una vita oziosa. Chiede e ottiene infat-ti di essere presto inserita nella casa editrice qualeincaricata dei rapporti con editori e autori stranie-

ri e, proprio in questa veste, all’inizio del 1959 ac-compagna Feltrinelli in un viaggio di quattro mesinel continente nordamericano. Si fermano a lungonegli Stati Uniti per discutere progetti e scambi didiritti con diversi illustri editori. Ma sono sicuro cheincontrano pure alcuni militanti di estrema sinistra.

Perché ne sei sicuro? Perché proprio al ritorno da quel viaggio Feltrinellimi dice per la prima volta di avere scoperto che imassimi poteri degli Stati Uniti si stanno preparan-do alacremente a fascistizzare tutto l’Occidente e ascatenare la terza guerra mondiale. Io ci scherzo su.Ma di questa presunta scoperta lui continua a van-tarsi in giro.

Torniamo all ’impegno di Inge nella casa editrice.Allo scorcio degli anni Cinquanta la casa editricepresenta diverse novità significative. Licenziamentie nuove assunzioni, cancellazione di libri tradotti ogià in bozze… Più rilevante, tuttavia, è il «maggiorerespiro internazionale» che Inge si vanta esplicita-mente di promuovere: soprattutto affiancando Fel-trinelli, dai primi anni Sessanta, in moltissimi viaggidi lavoro nel Terzo Mondo.

Cercano libri da tradurre? In teoria sì. In pratica, invece, quei viaggi hannoper effetto soprattutto l’iniziazione rivoluzionariadell’editore. In Africa, dove per qualche anno siconcentra il loro interesse, i due visitano ripetu-tamente Algeria, Marocco, Guinea, Nigeria, Gha-na. Feltrinelli, coadiuvato da Inge, riesce a stabilirerapporti personali con i leader saliti di recente allaribalta della storia anticoloniale, da Ben Barka aSékou Touré. In particolare si infervora per la cau-sa dell’indipendenza algerina… Quanto alle sco-perte editoriali i giri africani fruttano solo un ma-noscritto sull’Algeria…

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ma sovietico, idee di Stalin, e altre volte a lasciare perdereun Heidegger che, dopo Jaspers e Kojève, «sposterebbedecisamente il già pericolante equilibrio della collana»,e magari a respingere scioccamente Se questo è un uomo.Certo, nella scoperchiatura dei preziosi archivi einau-diani si troverà conferma, persino rude nel suo steno-grafismo, di imbarazzanti genuflessioni all’egemoniadel Pci. Il collaboratore Renato Poggioli, per esempio,non viene difeso come si deve dagli attacchi della falcee martello. Se si parla di autori russi, c’è una lista conse-gnata dall’ambasciata di Mosca con i buoni e i cattivi.L’ideologia spesso è forte. Magari è una censura, anchese si preferisce parlare di «scelta». Magari è solo questio-ne di mood: Lo Gatto propone di pubblicare articoli diDostoevskij, e assicura che sono tutti «compresi nell’e-dizione critica sovietica». Ma alla fine quello che contadavvero è che i libri abbiano «leggibilità e fantasia».Al di là dei peli dell’uovo che gli eterni polemisti vor-ranno rintracciare nella formidabile macchina da culturaeinaudiana, trasuda l’immenso amore, la cura, la valuta-zione del peso letterario o scientifico che sta dietro ognilibro, e che forse nella prossima èra sbrigativa dei libridigitali non ci sarà mai più. Le traduzioni, per esem-pio, sono fondamentali. Per il Don Chisciotte il nome diMacrì «suscita dubbi e diffidenze», il lavoro che mai faràdeve essere ripulito prima dagli esperti traduttori dellaCasa, e poi «attentamente vagliato filologicamente». Permandare in catalogo gli scritti di Cavour, segue «un’e-sauriente discussione» di Einaudi, Cantimori, Serini,Bobbio, Scassellati, Bollati.La riunione, «Il consiglio», del mercoledì era una ceri-monia di altissima eucaristia. Da lì usciva ogni decisio-ne, nasceva il libro come tassello di una casa editrice,«era un respiro di gruppo che lavora e scopre le cose,ancora tutto proteso in avanti per cui, anche se con di- vergenze, ogni cosa che scopre è un’avventura». C’eraamicizia, stima, passione intellettuale, naturalmenteanche gelosia e amor proprio. Spesso veniva battutoun pugno, una guancia diventava paonazza. Essere

A ciascun libro è dedicato un piccolo paragrafo. Pocherighe per dire quanto vale, e se è opportuno pubbli-carlo. Talvolta la registrazione è analitica e meticolosa,per divulgare come nasce il titolo di una collana («Igettoni»), altre volte è più elusiva. Se quelle carte fos-sero finite a Forster Wallace sarebbero un romanzo, ilcanovaccio di come si forgia la cultura dell’Italia de-mocratica e repubblicana. Così, I verbali del mercoledì.Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952 (appena rac-colti per Einaudi, a cura di Tommaso Munari, prefa-zione di Luisa Mangoni, primo omaggio delle inizia-tive per il centenario della nascita del fondatore Giulionel 1912), sono invece un viaggio frammentato, bal-bettante, focoso, pieno di curiosità (nessuno scandaloinedito) dietro le quinte di grandi libri. Raccontanoi periodici incontri, sempre il mercoledì, che furonocuore e vertebre della casa editrice torinese, fin dagliesordi. Se del periodo in cui piovevano ancora bombesulla Torino in guerra, e su Giulio Einaudi e i suoi gio- vani amici, non restano praticamente scritti, dopo, laRiunione divenne un rito, e il verbale uno strumentoper far circolare idee nelle varie sedi («con la massimadiscrezione»), e istruzioni pratico-metodologiche.Giulio Einaudi è il sovrano dei mercoledì. Un po’ me-galomane, un po’ snob («Continuare con gli scrittori più validi, eliminando il criterio di amena lettura»). Intornosiedono Pavese, Bobbio, Calvino, Vittorini e molti altri.La meglio gioventù delle lettere italiane (siamo alla finedegli anni Quaranta). L’adunata è nel salone dell’edi-trice, che profuma di carta, silenzio, vecchia aristocra-zia piemontese, ed è innervata da baldanzose simpatiecomuniste. Si discute di tutto lo scibile, arte bizantina,anatomia, forza atomica, Kant e Sinclair, vette poetiche,miserie umane, dodecafonia, con la pacatezza sapientedi chi ha le spalle cariche di infinite letture. Si pensa  vulcanicamente a pagine e copertine, mai a tirature eprezzi. Ogni tanto l’ideologia corsara, che tinge di belrosso mediocrità pesantissime, porta ad accogliere consbrigativo unanimismo opere di Marx, Storie del cine-

Einaudi, i mercoledì da leoniIn vista del centenario del fondatore, nel 2012, lo Struzzo pubblica i verbali delle riunioni editoriali ’43-’52

Bruno Ventavoli, La Stampa , 16 novembre 2011

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intermediario, con Giolitti, del Pci, si scaldava subito,irrequieto di temperamento, per l’ortodossia marxiana,ma la stemperava in migliaia di interessi, ideò i Mil-lenni, e volle fare una collana di sceneggiatura di film.Calvino promuoveva opere della Resistenza, curava ilibri postumi di Pavese con amore da discepolo, racco-

mandava sempre narratività, anche quando si trattava disaggi molto seri. Bocciò Frankenstein, promosse SherlockHolmes. Chissà perché. Era il segreto dell’Einaudi.

ammessi al tavolo era un sigillo d’onore. Cantimori«si meraviglia e si scandalizza violentemente per esse-re stato annoverato tra le persone non comprese tra i“consulenti abituali della Casa”».Pavese, sardonico e icastico, è di fatto «il direttore edi-toriale». Bollati, il grande mediatore culturale. Mila, un

lettore attento, ironico, rassegnato di fronte ai disguidi.Natalia (Ginzburg), una voce sempre concreta, punti-gliosa, estrosa. Bobbio, un consigliere severo. Muscetta,

Il Senato einaudiano tiene puntualmente le sue riunio-ni ogni mercoledì alle 18. Ci sono i dirigenti, redattoriscelti, consulenti, collaboratori esterni, ospiti illustri dipassaggio. Ultimo arrivato, tocca a me verbalizzare. Cer-co di conservare su carta anche il tono dei discorsi, lebattute, i momenti umoristici. L’aria è insieme consa-pevole e famigliare, molto british. Mentre viene servitoil tè (Twinings affumicato) in bellissime tazze bianchedi Rosenthal. Giulio Einaudi, pipa alla mano, saluta gliospiti con deferenza un po’ ironica, cercando l’occasionedi una qualche provocazione scherzosa; sogghigna comeun grosso gatto in agguato. Si sa che la sua tecnica èquella: l’unanimità lo annoia e lo insospettisce, detestalo specialismo fine a éstesso, vuole la discussione anchedura, lo scontro, convinto com’è che solo una dialetticaserrata sia produttiva. Sogna una rivoluzione culturalepermanente, e la mette in pratica ogni giorno.Alla sua destra è solito accomodarsi Norberto Bobbio,con il suo forte profilo granducale. Qualche giovane re-dattore lo ha ribattezzato «il Gran Rapace», ma il Maestronon ha nulla del predatore che si fionda sulla vittima. Èl’uomo del dubbio metodico, delle misurazioni scrupo-lose. Dice che gli piace venir lì perché così si aggiorna.Ascolta Calvino che parla di romanzi, Carena di classicilatini e greci, Castelnuovo e Fossati di storia dell’arte, Gal-lino di sociologia, Strada di autori russi. Se deve proporrequalche titolo, ne sottolinea i difetti prima delle eventualiqualità. Così vuole il bon ton einaudiano, che tutti rispet-tano scrupolosamente. Spesso ha un’aria divertita. Sorridealle provocazioni dell’editore, alle gags e alle imitazioni diDavico Bonino, alle argute metafore contadine del tenero

Daniele Ponchiroli, redattore capo. Accanto Bobbio staCalvino, che cesella la parte dell’oratore imbranato, inse-gue la parola trinciando gesti per aria, sembra cercare unastrada nella nebbia. Rarissimi i suoi entusiasmi dichiarati.Alla sinistra di Einaudi si è accampato Massimo Mila.Ha l’aria tonica di un alpinista appena rientrato da un’a-scensione impegnativa, appare serafico e quasi distante,traffica a testa bassa nel borsone pieno di libri. Lui invecenon è uomo di dubbi. Gli piace recitare la parte del ba-stian contrario, dice cose anche dure con finto candore ela lagna bonaria del socio di una bocciofila lungo il fiume.Si ride spesso, in riunione. Esplodono come fucilate lerisate di Franco Venturi, sistemato accanto al meditativoBollati che presiede. Ha una barbetta mefistofelica, den-ti bianchi e fortissimi, fisico d’atleta anche lui. Con le suerisate esorcizza la stupidità, l’ignoranza, la disorganizza-zione che vede in giro. Proverbiale è lo humour di CesareCases, di sottile eleganza illuminista, malgrado lui sia ilprofeta di Lukàcs, Adorno e Horkheimer, che l’Illumi-nismo lo hanno fatto a pezzi. Giorgio Manganelli, tapi-ro baffuto e malinconico, cerca di spacciare certi classiciminori delle letterature antiche con la complicità un po’losca di chi ti mostra sottobanco un libro erotico. Dirigeuna collana sperimentale e quasi si indigna quando untitolo vende qualcosa in più del poco che si prevedeva.Il mercoledì è un teatrino di primattori che non cercanodi sopraffarsi o rubare la scena, ma è anche una miniera acielo aperto in cui si setacciano tonnellate di scorie da cuiestrarre una pietra che ancora non si sa quanto preziosa.L’editoria si fa in primo luogo con i «no», e anche inquesto i senatori einaudiani sono maestri.

Alla corte di Giulio teatrino di senatori maestri del «no»Ernesto Ferrero, La Stampa , 16 novembre 2011

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preparato l’Olocausto e, «con la forza percussiva edrammatica della parola scritta», «racconta la storiaatroce e dimenticata degli esperimenti di eugeneticache i nazisti condussero sui malati psichici e i porta-tori di handicap fra il ’39 e il ’45».

Il fantasy a 12 euro di RizzoliE Rizzoli? In attesa di capire cosa stanno studiandoalla Rcs Libri (il secondo gruppo editoriale naziona-le) sul fronte dei prezzi in vista del 2012, è in uscitain libreria, guarda caso, il fantasy «low cost» di Ales-sia Fiorentino Sitael - La Seconda vita (12 euro).

Ma scrittori e agenti guadagneranno meno?Ci sono poi altre questioni da considerare, non pro-prio secondarie: per un romanzo breve l’autore diturno è destinato a prendere un anticipo inferiore,quindi «proporzionato»? E basteranno le probabili vendite maggiori dovute al prezzo più basso del librodi turno a garantire allo scrittore lo stesso guadagnodi prima? E gli agenti letterari, a loro volta, nei casidei romanzi brevi «low cost» vedranno diminuire ipropri introiti? Insomma, l’abbassamento dei prezziche si sta diffondendo a gran ritmo rischia di mette-re a repentaglio la «sostenibilità» dell’intero sistemadell’editoria libraria? E ancora: se quella dei roman-zi brevi a prezzi bassi diventerà una moda, la con-correnza in questa fetta di mercato inevitabilmenteaumenterà. Con quali conseguenze?

Il sistema resterà sostenibile? E come la si mette con la

qualità? I pareri di Gems, Marsilio, Feltrinelli e minimum fax Tornano così in mente le parole di Marco Tarò, di-rettore generale di Gems, che abbiamo intervistatoproprio sulla questione prezzi in un’inchiesta pubbli-cata lo scorso 5 ottobre: «Un allineamento genera-lizzato verso il basso dei prezzi delle novità potreb-be verificarsi solo se si riuscisse a dimostrare che laconseguenza di ciò è un incremento della lettura nel

Ieri abbiamo anticipato la notizia della partenza, dagennaio, della nuova collana «low cost» di Monda-dori, Le libellule: romanzi brevi (non solo italiani)a 10 euro (edizioni brossura). I primi quattro tito-li (novità) saranno di Chiara Gamberale, RaffaeleLa Capria, Andrea Camilleri e del francese ArnaudRykner. E a febbraio toccherà a Francesco Guccinie ad altri.

Da Newton Compton a EinaudiA conferma che in tempi di crisi economica ge-nerale (e quindi di flessione del mercato del libro)molti editori giocano (e giocheranno) la cartadell’abbassamento dei prezzi (considerato anche ilsuccesso dei bestseller portati in libreria a 9,90 euroda Newton Compton in questi mesi e sostenuti dauna notevole campagna di marketing), pure Einaudisi muove nella stessa direzione: tra qualche giorno,infatti, pubblicherà (nella collana L’Arcipelago) unbestseller annunciato, il romanzo («breve come unafavola») di Margaret Mazzantini   Mare al mattino (136 pagine, 12 euro).

Le mosse di Stile liberoE sempre restando in casa Einaudi (gruppo Mon-dadori, il primo in Italia per quota di mercato), mapassando alla fortunata collana Stile libero, a quantorisulta ad affaritaliani.it quest’ultima proseguirà conle periodiche uscite di «bestseller annunciati» a 10euro (o poco più, a seconda dei casi): dopo il suc-cesso nei mesi scorsi di Io e te di Niccolò Ammaniti,di Giudici  del «super-trio» Camilleri-De Cataldo-Lucarelli, e dopo che nei giorni scorsi è uscito (a 12euro) il romanzo breve di Giorgio Faletti Tre atti e due tempi (subito ben piazzatosi nella top ten dei li-bri più venduti), a febbraio arriverà il racconto breve Ausmerzen – Vite degne di essere vissute di Marco Pa-olini. In 80 pagine (che fanno seguito all’omonimospettacolo teatrale) l’attore bellunese spiega come fu

Libri, i rischi e i dubbi sull’abbassamento dei prezzi

Antonio Prudenzano, Affari italiani , 16 novembre 2011

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«Continueremo a essere attenti alla convenienzadei nostri libri, ma non prevediamo per i prossimimesi iniziative di abbassamento indiscriminato deiprezzi. Nel prezzo è compresa una cura redaziona-le meticolosa. Non vogliamo rischiare di mettere arepentaglio questi aspetti che sono qualificanti della

nostra proposta editoriale almeno quanto il prezzo».Dal canto suo, Marco Cassini, co-fondatore di mi-nimum fax (che nei mesi scorsi ha fatto discutere peralcune prese di posizioni piuttosto forti sulle «ano-malie» del mercato editoriale), ci ha detto preoccu-pato: «[…] Bisogna cercare di capire, quando ci sitrova davanti un prodotto editoriale con un prezzoapparentemente competitivo, a che costo l’editore èriuscito a definire quel prezzo… È vero che oggi illettore, abituato da anni di promozione selvaggia inlibreria, oppure dall’acquisto di ebook, tende a volerspendere meno. Noi ci stiamo facendo i conti. E peril momento pensiamo di sperimentare alcune strate-gie e politiche di prezzo proprio sugli ebook».

nostro paese e quindi un allargamento del mercato, inquesto modo la filiera editoriale verrebbe compensatadei minor ricavi legati al prezzo più basso dalle mag-giori vendite, permettendo di mantenere quel deli-cato equilibrio economico che oggi contraddistinguequesto settore. Ma questo è tutto da dimostrare e

oggi come oggi non abbiamo ancora avuto segnaliin tal senso neanche dall’estero». Tarò ha anche ag-giunto, entrando nello specifico di Gems: «Certo nonescludo che in futuro, con uno dei nostri marchi ocon una singola collana, sperimenteremo prezzi infe-riori rispetto agli attuali. Non certo copiando New-ton Compton, ma a modo nostro, spingendo ancorapiù di adesso sulla leva del prezzo». In quella stessainchiesta sull’abbassamento dei prezzi ha detto lasua ad affaritaliani.it anche Jacopo De Michelis (re-sponsabile della narrativa Marsilio), che ha difeso lascelta di non abbassarli, ma non ha escluso che ciòalla Marsilio accada in futuro. Gianluca Foglia (di-rettore editoriale Feltrinelli) invece ci ha spiegato:

«Un allineamento generalizzatoverso il basso dei prezzi delle novità potrebbe

verificarsi solo se si riuscisse a dimostrare che la

conseguenza di ciò è un incremento della lettura nelnostro paese e quindi un allargamento del mercato»[Marco Tarò]

«Nel prezzo è compresa unacura redazionale meticolosa. Non vogliamo

rischiare di mettere a repentaglio questi aspetti chesono qualificanti della nostra proposta editoriale

almeno quanto il prezzo»[Gianluca Foglia]

«Bisognacercare di capire, quando ci si

trova davanti un prodotto editoriale con unprezzo apparentemente competitivo, a che costo

l’editore è riuscito a definire quel prezzo…»[Marco Cassini]

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cadaveri son sbattuti dalle ondate sulle spiagge bian-chissime di sabbia, villaggi dove una capanna «conun solo chiodo arrugginito» è riservata a fare da ri-fugio ai marinai che han perduto la nave sugli scoglitraditori.  Thoreau, evasore fiscale per protesta contro laschiavitù, amico del poeta Whitman, di Emerson,Hawthorne e John Brown, scrive Cape Cod  comedocumentario, meditazione sull’umanità e mani-festo, ironico e profondo, della tradizione yankee.Si ride, quando l’autore e un amico sono invitatia colazione da un novantenne che fa l’imitazionedel presidente Washington, conosciuto in gioventùe trattato da bellimbusto che flette i muscoli perdarsi arie. E ci si commuove con il naufragio di unanave a Cohasset, il recupero dei corpi delle 145 vit-time, la fossa comune che li accoglie, mentre intor-no i commerci, la pesca, gli affari, la raccolta dellealghe come concime, proseguono stoici e indiffe-renti. Scrive Thoreau: «Nell’insieme, la scena nonera tanto impressionante quanto mi aspettavo. Seavessi trovato un cadavere spiaggiato in un luogosolitario, forse ne sarei stato più colpito. Ero più insintonia con le onde e con i venti, come se sballot-tare e straziare quelle povere spoglie umane fosseuna cosa all’ordine del giorno. Se questa era unalegge di Natura, perché sprecare tempo a impie-tosirsi e sgomentarsi? […] Mi sono reso conto chei cadaveri possono moltiplicarsi, come sul campodi battaglia, fino al punto che non ci commuovo-no più in nessun modo come eccezioni al destinocomune dell’umanità. Se si considerano tutte insie-me, le tombe rappresentano sempre la maggioran-za. Sono solo gli individui e i destini personali cheesigono la nostra simpatia». Nel 1851, su richiestadi Emerson, era andato a cercare a Fire Island, la

Fare il caporedattore dello scrittore americanoHenry David Thoreau non doveva essere un me-stiere semplice. Nel 1858 James Russell Lowell, delmensile Atlantic , gli tagliò una riga da un reportagenello stato del Maine «Quell’albero di pino è im-mortale come me e andrà in cielo in Paradiso» e loscrittore troncò i rapporti. Tre anni prima, il mensilePutnam’s decise di stampare due diari di viaggio di Thoreau, uno dal Canada, l’altro da Cape Cod inMassachusetts, ma anche lì lo scrittore litigò conil vicedirettore George William Curtis, annotandofurioso: «Curtis si prende la libertà di omettere le(mie) eresie, un privilegio che neppure la ricca Cali-fornia può permettersi».Così la pubblicazione integrale di Cape Cod  saltòdopo quattro puntate e il libro apparve nel 1865,quando l’autore era già scomparso da tre anni,stroncato dalla tubercolosi, «Buona navigazione...Alce... Indiano» le ultime parole. In vita era riusci-to a pubblicare appena due titoli, Una settimana sui  fiumi Concord  e   Merrimack e Walden, l’apologo, oraclassico, sui 24 mesi passati da eremita nei boschidi Concord. L’insuccesso di Una settimana gli avevaalienato gli editori, che lo costrinsero a ricompra-re 706 copie invendute delle mille stampate: «Hoadesso in soffitta una biblioteca di 900 volumi: 700scritti da me».A frenare il lancio di Cape Cod , che adesso l’editoreDonzelli rimanda in libreria nella traduzione di Ric-cardo Duranti e con illustrazioni di Hopper, il timoreche i residenti del Capo, rustici pionieri del New En-gland, si risentissero del ritratto di Thoreau, «donne vizze», vecchi che sputano sulla tavola imbandita pergli ospiti saliva resa nera dal tabacco da masticare,una folla cinica che cerca di recuperare quel che puòdai naufragi rubando pezzi di corda mentre ancora i

La ruvida America e il suo profeta

Ritorna «Cape Cod», scritto come documentario, meditazione sull’umanità e manifesto,ironico e profondo, della tradizione yankee

Gianni Riotta, Tuttolibri della Stampa , 19 novembre 2011

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con il frastuono del mare, onnipresente, che Tho-reau lamenta di non rappresentare bene e che, ci-tando i Greci nell’originale imparato ad Harvard,sente fragoroso «più del Mediterraneo».A tratti divertente come i Tre uomini in barca di J.K. Jerome, coevo di Moby Dick – identiche a Melvillele citazioni dai cenotafi dei balenieri perduti in mare–, Cape Cod è teso tra i due pilastri d’America, l’i-dealismo e l’amore della natura paralleli a spirito diiniziativa, industrioso costruire, sogno di arricchirsi.Paladino dei primi, Thoreau comprende, se non giu-stifica, i secondi. E lasciandosi alle spalle le spiaggedi Cape Cod, che con la vicina isola di Martha’sVineyard diverranno palcoscenico di tante star, daiKennedy a Hollywood, vaticina: «Dovrà venire iltempo in cui questa costa diventerà un luogo di vil-leggiatura per quegli abitanti del New England che vogliono davvero vedere il mare… Il tempo per visi-tare questo posto è durante una tempesta d’autunnoo d’inverno; un faro o una baracca di pescatori, l’al-loggio migliore. Un uomo può starsene lì e gettarsitutta l’America dietro le spalle». Oggi il costo della  vita a Cape Cod è doppio della media americanae le case costano il 96 per cento in più: eppure seguardate l’Oceano Atlantico grigio rotolare le sueonde sulla sabbia candida, con una vela all’orizzontee le nuvole alte in cielo, capite cosa intendesse dirciHenry David Thoreau.

spiaggia di New York, il corpo della signora Mar-garet Ossoli, annegata in un altro disastro con il fi-gliolo: aveva trovato, dopo il saccheggio del relitto,solo resti senza nome.La compassione di Thoreau abbraccia i due vaga-bondi italiani che sopravvivono suonando l’organet-to, gli indiani ingenui che alla domanda dei PadriPellegrini, i primi pionieri, «Chi è il proprietariodi queste terre, vogliamo comprarle» rispondono«Nessuno» legittimando i Padri a non pagare uncentesimo. Ma Thoreau riconosce poi il diritto yan-kee: quando il furbo indiano «Tenente Anthony» sipresenterà come «proprietario» delle terre, gli pa-gheranno un canone. Chissà, si chiede, se un giornoun intraprendente «Tenente Anthony» non arriveràalla Casa Bianca: a Obama manca un secolo e mez-zo, ma l’intuizione è giusta.Cape Cod è regione rustica e i suoi abitanti ruvi-da gente di mare. Lo scrittore John Cheever nellanovella dedicata al Don Giovanni Baxter, sedottoda una bellezza fulva tra le ragazze sempliciottedella costa, cita l’antica filastrocca «The Cape Codgirls they have no comb, they comb their hair withcodfish bones», le ragazze di Capo Cod non hannopettini, si pettinano i capelli con le lische di mer-luzzo. E vongole, aragoste, squali, meduse, merluz-zi, sgombri, cetacei, balene soprattutto, popolano lepagine del libro come una fantasia di Arcimboldo,

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Le due amiche di cui si racconta l’infanzia, Elena Greco,l’io narrante, e la sua amica-nemica Lila Cerullo, sonosimili e diverse. Si sovrappongano di continuo proprioquando sembrano prendere le distanze. Un romanzosull’amicizia e su come un incontro possa determinare una vita? Ma anche di come l’attrazione per il cattivoesempio aiuti a maturare un’identità? Chi impone la propria personalità, in genere, nelfarlo, rende opaco l’altro. La personalità più forte,più ricca, copre quella più debole, nella vita e forseancor più nei romanzi. Ma nella relazione tra Elenae Lila accade che Elena, la subalterna, ricavi propriodalla sua subalternità una sorta di brillantezza chedisorienta, che abbaglia Lila. È un movimento dif-ficile da raccontare, ma mi ha interessata per questo.Diciamo così: i moltissimi fatti della vita di Lila eElena mostreranno come l’una tragga forza dall’al-tra. Ma attenzione: non solo nel senso di aiutarsi, maanche nel senso di saccheggiarsi, rubarsi sentimentoe intelligenza, levarsi reciprocamente energia.

Come hanno agito la memoria e il tempo trascorso, ladistanza (temporale e forse spaziale), nell’elaborazione del libro? 

Credo che «mettere distanza» tra esperienza e rac-conto sia un po’ un luogo comune. Il problema, perchi scrive, è spesso il contrario: colmare la distanza;sentire fisicamente l’urto della materia da narrare,avvicinare il passato delle persone a cui abbiamo voluto bene, delle vite come le abbiamo osservate,come ci sono state raccontate. Una storia, per pren-dere forma, ha bisogno di superare moltissimi filtri.

L’amica geniale è molto diverso dai romanzi prece-denti di Elena Ferrante. È un bellissimo Bildungsro-man, anzi due, anzi più di due. Il romanzo di unagenerazione di amici-nemici. Per intervistare ElenaFerrante bisogna ricorrere alla mediazione degli edi-tori, Sandro Ferri e Sandra Ozzola. Dunque, do-mande per mail, risposte per mail.

  Elena Ferrante, in che modo ha maturato il passag- gio da un tipo di romanzo psicologico-familiare (vedi L’amore molesto e  I giorni dell’abbandono  ) a unromanzo, come questo, che promette di essere multiplo(il primo di una trilogia o quadrilogia) e che è insieme così centrifugo e così centripeto per l’intreccio e per lostile? Non sento questo romanzo tanto diverso dai pre-cedenti. Parecchi anni fa mi venne in mente diraccontare l’intenzione di una persona anziana disparire – che non significa morire –, senza lasciaretraccia della propria esistenza. Mi seduceva l’ideadi un racconto che mostrasse quanto è difficilecancellarsi, alla lettera, dalla faccia della terra. Poila storia si è complicata. Ho introdotto un’amicad’infanzia che facesse da testimone inflessibile diogni piccolo o grande evento della vita dell’altra.Infine mi sono resa conto che ciò che mi interessa- va era scavare dentro due vite femminili ricche diaffinità e tuttavia divergenti. Alla fine è ciò che hofatto. Certo, si tratta di un progetto complesso, lastoria abbraccia una sessantina d’anni. Ma Lila eElena sono fatte con la stessa pasta che ha nutritogli altri romanzi.

Ferrante: felice di non esserci

La scrittrice fantasma parla (via mail) del suo nuovo romanzo e un po’ di sé stessa.«È stata Didone, la regina di Cartagine, l’eroina della mia adolescenza»

Paolo Di Stefano, Corriere della Sera , 20 novembre 2011

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modifichi, le orienti o le confonda, mi interessa piùdei sociologismi canonici.

Lei cede di rado al colore dialettale: lo fa in poche battu-te, ma di solito preferisce la formula «lo disse in dialetto». Non ha mai avuto la tentazione di una coloritura più

espressionistica? Da bambina, da adolescente, il dialetto della miacittà mi ha spaventata. Preferisco che echeggi perun attimo nella lingua italiana, ma come se la mi-nacciasse.

 I volumi successivi sono già pronti? Sì, in uno stato molto provvisorio.

Domanda ovvia ma obbligatoria:quanto c’è di autobiografico nellastoria di Elena? E quanto c’è delle sue passioni letterarie nelle letture di Elena? Se per autobiografia intende at-tingere alla propria esperienzaper nutrire una storia di inven-zione, quasi tutto. Se invece mista chiedendo se racconto le miepersonalissime vicende, niente.Quanto ai libri, sì, cito sempretesti che amo, personaggi chemi hanno modellata. Didone,per esempio, la regina di Car-tagine, è stata una figura fem-minile fondamentale della miaadolescenza.

  Il gioco di allitterazione ElenaFerrante – Elsa Morante (una sua passione) è sugge-stione? È solo fantasia l’accostamento Ferrante – Ferri (i suoi editori)? Assolutamente sì.

 Non si è mai pentita di aver scelto l ’anonimato? In fon-do le recensioni si soffermano più sul mistero-Ferrante che sulle qualità dei suoi libri. Insomma, con risultati opposti rispetto a quelli che lei auspica, cioè enfatizzan-do la sua ipotetica personalità? 

Spesso cominciamo a scriverla troppo presto e lepagine vengono fredde. Solo quando la storia ce lasentiamo addosso in ogni suo momento o angolo (ea volte ci vogliono anni), essa si lascia scrivere bene.

L’amica geniale è anche un romanzo sulla violenza

della famiglia e della società. Il romanzo racconta come si riesca (o si riuscisse) a crescere sulla violenza e/o no-nostante la violenza? Certo, si cresce parando colpi, restituendoli, ancheaccettando di riceverne con stoica generosità. Nelcaso dell’ Amica geniale , il mondo in cui le ragazzecrescono ha alcuni tratti visibilmente violenti e altrinascostamente violenti. A me interessano soprattut-to questi ultimi, anche se i primi non mancano.

 A pagina 126 c’è una bella frase, a proposito di Lila: «Prendeva i fatti e li rendeva con naturalezza cari-chi di tensione; rinforzava la realtàmentre la riduceva a parole…». E  poi a pagina 222: «La voce incasto-nata nella scrittura mi travolse…era del tutto depurata dalle scorie di quando si parla». È una sua dichia-razione di stile? Diciamo che, tra i tanti modi dicui ci serviamo per attribuire unordine narrativo al mondo, pre-ferisco quello dove la scrittura ènitida, onesta, e i fatti – i fattidella vita comune – a leggernerisultano straordinariamenteavvincenti.

C’è un filo rosso più sociologico, l’Italia degli anni del boom, il sogno di benessere che fa i conti con resistenze arcaiche.Sì e quel filo arriverà fino a oggi. Ma ho ridotto losfondo storico al minimo. Preferisco che tutto siainscritto nei movimenti esterni e interni dei perso-naggi. Lila, per esempio, vuol diventare ricca già asette-otto anni e si tira dietro Elena, la convince chela ricchezza è una meta urgente. In quale modo que-sto proposito lavori dentro le due amiche, come si

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autore. I libri li ha scritti quella determinata signorao quel determinato signore e questo basta a farceliconsiderare tasselli di un percorso. Parleremo tran-quillamente dei suoi esordi, di libri riusciti e di altrimeno riusciti. Diremo che ha trovato subito la suastrada, che ha sperimentato generi e stili diversi, rin-

tracceremo temi ricorrenti, occorrenze, un’evoluzio-ne o un’involuzione. Mettiamo invece che abbiamoa disposizione  Menzogna e sortilegio e  Aracoeli , manon una scrittrice di nome Elsa Morante. In quelcaso siamo così poco abituati a muovere dalle opere,a cercare in esse coerenza o disparità, che subito ciconfondiamo. Abituati alla supremazia dell’autore,quando l’autore non c’è, o si sottrae, finiamo per ve-dere mani diverse non solo nel passaggio da un libroall’altro ma addirittura da una pagina all’altra.

 Insomma, si può sapere lei chi è? Elena Ferrante. Ho pubblicato sei libri in venti anni.Non è sufficiente?

No, nessun pentimento. A mio modo di vedere,ricavare la personalità di chi scrive dalle storie chepropone, dai personaggi che mette in scena, daipaesaggi, dagli oggetti, da interviste come questa,sempre e soltanto insomma dalla tonalità della suascrittura, è nient’altro che un buon modo di leggere.

Ciò che lei chiama enfatizzare, se è fondato sulleopere, sulla energia delle parole, è un onesto enfa-tizzare. Ben diversa è l’enfatizzazione mediatica, ilpredominio dell’icona dell’autore sulla sua opera. Inquel caso il libro funziona come la canottiera sudatadi una popstar, indumento che senza l’aura del divorisulta del tutto insignificante. È quest’ultima enfa-tizzazione che non mi piace.

 Il sospetto che la sua opera sia il frutto di un lavoro a piùmani la infastidisce? Mi pare un esempio utile per il discorso che stiamofacendo. Siamo abituati a ricavare dall’autore la co-erenza delle opere, non dalle opere la coerenza di un

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  vogliono ripetere in Italia l’esperienza di AmazonKindle, come Leggo di IBS e Biblet di Telecom. Maanche questa volta le polveri sembrano bagnate. Lasensazione è che manchi un elemento fondamen-tale: i lettori. Certo è difficile invogliare i lettori aleggere digitale quando i titoli a disposizione sonoancora così pochi.Passa un anno. Al Salone del Libro 2011 i trecen-tocinquanta titoli in digitale dell’anno precedentesono ora tredicimila, e si vocifera di altri ventimiladisponibili per Natale 2011. Girando fra gli standsi notano i piccoli e medi editori che, magari con uncartello scritto a penna all’ultimo momento, avver-tono i lettori che i loro titoli sono disponibili anchein digitale. I dati di vendita dicono che l’ebook oggi vale l’uno per cento dell’intero mercato editoriale (aNatale si era attorno allo 0,04 per cento). Edigitaannuncia di aver venduto, nel primo semestre 2011,centomila ebook (a luglio BookRepublic presente-rà uno studio che conteggia in 250 mila il numerocomplessivo di ebook venduti in Italia nello stessoperiodo), anche se i bestseller restano pochi: solouna ventina di titoli sono riusciti a superare le cin-quecento copie. L’atmosfera del Salone del Libroè però turbata da un articolo di Mario Baudino suLa Stampa, che annuncia catastrofico «Aiuto, mi siè sgonfato l’ebook». Medi e grandi editori, intervi-stati, ammettono sconcertati di non avere ottenutoi risultati sperati dalle loro prime mosse nel digita-le. L’analisi non va troppo in profondità: quello checonta sono i numeri e per adesso i numeri paionoancora troppo bassi. Si alzano anche voci contro il

Parlare di ebook in Italia risulta quasi pericoloso: frainfervorati sostenitori che preconizzano la scompar-sa della carta stampata e detrattori convinti che ildigitale causerà l’ennesima vendita al ribasso del si-

stema cultura. Trovare i numeri  per comprendere lereali dimensioni del fenomeno non è immediato. Equando anche li si ha in mano, la loro analisi non èscontata.Facciamo un passo indietro. Salone del Libro di  Torino, 2010. Di ebook tra gli stand ce ne sonopochissimi o niente, ma tra addetti ai lavori se neparla molto: si snocciolano gli incredibili risultaticonseguiti da Amazon in Usa, viene presentata unapiattaforma tutta italiana a opera di SimplicissimusBook Farm (dove si potranno acquistare circa 350ebook) che anticipa di qualche mese una secondapiattaforma, BookRepublic. Anche i grandi editorientrano in campo: si preannuncia la piattaforma diEdigita – presentata ufficialmente durante la Fieradi Francoforte – che riunisce il gruppo Feltrinelli,Messaggerie-Gems e gruppo Rcs. In questi mesianche gli store on line come Bol, Ibs e Mediaworldaprono settori ebook e, last but not least , Mondadoripromette l’arrivo di 1200 titoli in digitale fra cui 400novità. Si parla dell’anno a venire come «l’anno deldigitale» in Italia. Non c’è giornale di informazionesenza la sua bella rubrica sul  fenomeno ebook. Fuoridal coro paiono restare le sole riviste specializzate dicritica letteraria.Arriva la fatidica data di dicembre: periodo natali-zio, in cui si dovrebbero accendere le micce dell’an-no dell’ebook 2011. Escono lettori eReader che

E-pub: adelante con juicio

Maria Cecilia Averame, Nazione Indiana , 21 novembre 2011

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– secondo le loro stime – rappresentano il 25 percento del mercato, il 39 per cento dei venduti pres-so il loro store è proprio di editori non appartenen-ti ai grandi marchi editoriali. Proporzioni differen-ti dal mercato tradizionale, che lasciano sperare innuovi spazi vitali per le indies.

Differente infatti è anche il modello di distribu-zione. È vero che la commercializzazione in Reteriproduce modelli simili a quella tradizionale condiversi intermediari: piattaforme che tengonoi file e li mettono a disposizione di stores dovegli ebook vengono venduti (a ogni passaggio l’e-ditore lascia una percentuale dei suoi ricavi, inproporzione alla grandezza dell’attore). Contem-poraneamente però editore e lettore si possonoincontrare per la prima volta direttamente, sen-za intermediari, in Rete. L’editore può diventaredistributore ma soprattutto comunicatore di séstesso. Cambia la promozione, non più legata amedia massimalisti, ma che lavora ad esempio suinetwork sociali. Nel momento in cui cambiano imezzi, cambia anche il linguaggio. Quello lette-rario si appropria di quello digitale sviluppato inquesti ultimi anni in Rete e sui computer: già oggicon l’ebook si naviga negli indici e nelle note, sipossono socializzare i passaggi letti, condividerele proprie annotazioni e leggere quelle degli altr i,accedere a parti di «libro» che sono fuori dal libroe che si aggiornano in tempo reale, vedere video eandare a leggere le fonti di un testo citato.Social reading , nuovi modelli di comunicazione edi-toriale, un nuovo ruolo per l’editore. Ma anche ilrapporto con il self publishing , la presunta facilità didigitalizzare e vendere qualsiasi testo puntando sul-la quantità e tralasciando la qualità, il digitale comeopportunità di conservazione e consultazione: soloalcune fra le questioni che andranno analizzate nonsolo dagli addetti ai lavori ma anche dal mondo cul-turale e letterario. Sarebbe utile una critica profes-sionale, accanto a quella spontanea dei lettori, cheevidenzi la qualità dei contenuti e della loro digita-lizzazione. Che apra gli ebook per osservare cosa stacambiando lì dentro: cosa si perde e cosa invece sipotrebbe guadagnare, utilizzando i nuovi strumentidi lettura e scrittura.

pessimismo dell’articolo: sono quelle degli opera-tori che sul digitale hanno scommesso e che paio-no muoversi più agilmente e consapevolmente nelnuovo mercato. I numeri, si protesta, sono in cre-scita. Non solo: i numeri potrebbero essere condi-zionati da una realtà ben nota agli addetti ai lavori,

che potrebbe disincentivare il grande pubblico allalettura digitale. È una realtà fatta di diversi elemen-ti quali l’uso spropositato, soprattutto da parte deigrandi editori, dei fatidici DRM, i «blocchi» antipi-rateria che impediscono il passaggio di un file daun device all’altro, spesso rendendo difficile la con-sultazione del testo. Ma anche la politica dei prezzi,che si assestano – quando va bene – al 20 per centoin meno rispetto al corrispondente cartaceo: perce-piti ancora troppo alti. E la questione della qualitàdelle conversioni, ricche di refusi che fanno mostradi sé nei testi digitalizzati in fretta e furia (  Il Ci-

mitero di Praga di Umberto Eco esce in contem-poranea alla novità cartacea, ma abbondano i co-pia-e-incolla che tralasciano gli stili; alcuni periodirisultano grossolanamente persi nella transizione).Se i numeri sono importanti, dipendono anche dauna serie di sfide qualitative da affrontare nell’im-mediato futuro. Per l’autunno infatti Mondadori haannunciato un patto con Amazon, il quale potrebberivelarsi un attore determinante per la penetrazionedegli ebook in Italia: si prevede l’arrivo del Kindle,assieme al suo tablet, a combattere la supremaziadell’iPad di Apple. Prima o poi anche l’Ibook Storedi Apple potrebbe iniziare a vendere i suoi titoli inItalia, e a questo punto sarebbero presenti sul cam-po tutti gli attori internazionali. I device ci sono,la piattaforme di distribuzione anche, gli attori in-ternazionali capaci di dare una scrollata al mercatostanno arrivando.Queste le «taglie» del nuovo abbigliamento digi-tale. Taglie che però non rispondono appieno alladomanda più importante: il digitale sta veramen-te impattando in qualche maniera l’editoria, inci-dendo sulla diffusione della cultura in Italia e sullemodalità di lettura quotidiana? Secondo l’analisidi BookRepublic di luglio, un primo effetto delle  vendite digitali riguarda proprio gli editori indi-pendenti: se i titoli pubblicati in digitale da questi

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Si andrà a finire in tribunale? Pisanti ne parla conaffaritaliani.it

L’Ali è quindi pronta a intraprendere le vie legali? Loabbiamo chiesto direttamente al presidente Pisanti:«Come abbiamo scritto nella lettera, stiamo valutan-

do questa possibilità… E se si andasse dal giudice,quest’ultimo mi chiederebbe cosa va inteso per “cam-pagna promozionale”, a quel punto glielo spiegherei,dimostrandogli che in molti casi la legge non vienerispettata. Sì perché non c’è stato solo il caso di Ca-rofiglio e della campagna della Rizzoli… Sta capitan-do anche, tra l’altro, che in alcuni casi la comunica-zione della promozione viene anticipata sui portali di vendite online anche di dieci giorni rispetto all’iniziodella promozione stessa, con la possibilità per il clien-te di effettuare la prenotazione. Ma se la Levi parla di30 giorni al massimo, la promozione anche sul webdeve durare 30 giorni e non 40, “lancio pubblicita-rio” compreso… Dire infatti che “tra 10 giorni partiràla promozione” non è consentito». Pisanti resta co-munque fiducioso: «Speriamo che si apra subito unconfronto serio con gli editori. In effetti, dopo cheun mese fa è stato sollevato il caso, molti tra questi sisono presi una sorta di “pausa di riflessione”…».

L’Ali favorevole alla «svolta low cost»E mentre si discute sulle promozioni, in un mercatoin difficoltà gli editori cercano anche altre risposte allacrisi: la settimana scorsa, ad esempio, abbiamo antici-pato la partenza, da gennaio, della nuova collana «low cost» di narrativa della Mondadori, Le libellule. Sullatendenza che pare delinearsi e che vede alcuni editori(grandi ma non solo) pronti a lanciare collane di libripiù brevi a prezzi limitati (visto anche il successo dei«bestseller a sorpresa» pubblicati in questi mesi dallaNewton Compton di Raffaello Avanzini), il presiden-te dell’Associazione librai italiani non si mostra affattopreoccupato: «La tendenza a un abbassamento gene-rale dei prezzi sul lungo periodo prevarrà, è una con-seguenza dell’entrata in vigore della legge Levi. Titolidi qualità a prezzi competitivi. Noi dell’Ali l’avevamoprevisto. Si spera che ciò porti a un aumento generaledelle vendite sul medio-lungo periodo. Naturalmentenon tutti i libri dovranno essere low cost».

Mentre in tutta Italia continuano a chiudere le librerieindipendenti (a Verona, ad esempio, dopo 32 anni haappena abbassato le serrande Rinascita, spazio sim-bolo dalla sinistra locale, mentre a Roma, come segna-la oggi sul suo blog Loredana Lipperini, la medesimasorte è toccata alla storica Libreria Croce, fondata nel1945 e «stritolata dalle grandi catene»), torna a fardiscutere la legge Levi che regola gli sconti sui libri,entrata in vigore lo scorso primo settembre (nel belmezzo di una delle annate più difficili per il mercatodei libri in Italia…). E soprattutto, dopo che circa unmese fa aveva fatto parlare sul web e non solo il «ca-so-Carofiglio» l’Associazione librai italiani esprimenuovamente forte preoccupazione per come alcunieditori non starebbero applicando la legge. Una lettera per avvertire gli editoriA quanto risulta ad affaritaliani.it, infatti, pochi giorni fal’Ali ha inviato ai medi e grandi editori (e per conoscen-za anche all’Associazione italiana editori) una lettera,firmata dal presidente Paolo Pisanti e dal responsabiledella varia dell’Ali Alberto Galla, in cui tra l’altro si leg-ge: «Poiché dall’entrata in vigore della normativa ad oggiabbiamo riscontrato atteggiamenti non conformi alledisposizioni contenute nella normativa stessa, avvaloratida lettere di protesta da parte di molte librerie associatee non che, non essendo vostri “correntisti”, o non sonostate informate delle promozioni, oppure non sono statemesse in condizione di aderire, vi invitiamo ad effettuarele vostre campagne promozionali nel rispetto delle rego-le dettate dalla chiara normativa vigente». Pisanti e Gal-la nella missiva aggiungono: «Nel dichiararci disponibiliad un confronto, ci corre l’obbligo di avvertire che, cosìcome deliberato nell’ultima riunione del nostro direttivonazionale, ritenendo ormai superata la fase di start-up,tuteleremo nei luoghi e nei modi che riterremo più op-portuni gli interessi dell’intera categoria da noi rappre-sentata per il rispetto della legalità».

L’Ali torna ad attaccare gli editoriche non rispettano la legge Levi

Antonio Prudenzano, Affari italiani , 24 novembre 2011

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Nei verbali si evince un fermento culturale, una vo-racità, un desiderio di partecipazione di intellettualialla vita culturale e politica del paese a cui oggi nonsi può guardare soltanto con nostalgia. «Uno deitratti più evidenti della genialità di Giulio Einaudi,sprezzante di ogni yesman, era proprio quello di cir-condarsi di gente che la sapeva più lunga di lui. Dalsuo grande padre Luigi aveva imparato che la cul-tura, come la democrazia, vive e si nutre di dibattitianche duri, serrati. Per questo si sforzava di trovaread ogni protagonista un antagonista degno di lui efomentava dibattiti anche rischiosi; e incrocia  va lecompetenze, per cui chiedeva ai letterati di leggere

di scienze, e viceversa. Una stra-tegia rischiosa, ma quanto fertiledi risultati».Gli incontri erano iniziati prati-camente con la fondazione del-la casa editrice, avvenuta il 15no  vembre del ’33, ad opera del  ventunenne Giulio Einaudi, fi-glio del futuro Presidente dellaRepubblica Luigi. Nel nucleooriginario c’era il cofondato-re Leone Ginzburg, al qualepoi si aggiunge Cesare Pavese.Quando il gruppo si allarga na-sce l’esigenza di collegare colla-boratori sparsi a Milano, comeVittorini, o a Roma.La vocazione antifascista, laica,progressista della casa editrice è

Non più un’orchestra esaltata da un direttore, mauna piramide verticistica. In questa graffiante sin-tesi risiede la differenza fra la Einaudi di ieri e quel-la di oggi nel pensiero di Ernesto Ferrero, direttoredel Salone del libro e storico della casa editrice di via Biancamano. Gli chiediamo un esame sullo statoattuale della più importante casa editrice italiana, inoccasione dell’uscita dei Verbali del mercoledì (curatida Tommaso Munari, pp. LXVIII-534, euro 40) chehanno riportato l’attenzione sulle storiche riunionitra intellettuali come Cesare Pavese, Elio Vittorini,Massimo Mila, Norberto Bobbio, Carlo Muscetta,Delio Cantimori, Franco Venturi, Natalia Ginzburg,Italo Calvino, Giulio Bollati.«Oggi un libro corre per contosuo» dice Ferrero «non è inseritoin una tela. Non si fa più ricer-ca, le scommesse sono ridotteal minimo, si rincorre la gran-de balena bianca che ti salva iconti dell’anno. I grandi editorisono parti di enormi holding fi-nanziarie il cui compito è creareprofitto e basta. Non si cerca piùbiodiversità culturale».I libri sono un segmento di unafiliera produt tiva assai articola-ta, pensata per creare non unacultura condivisa ma per accon-tentare le esigenze del più vastopotenziale pubblico di lettoripossibile.

Ernesto Ferrero: «L’editoria era una lotta. Ora si cerca il consenso»

Il direttore del Salone del libro polemizza sull’Einaudi di oggi in occasione dell’uscita dei «Verbali del mercoledì»

Giancarlo Mancini, il Riformista , 25 novembre 2011

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non trovo molto diverso dalla composizione di unbrano musicale».«Tempi irrepetibili» puntualizza Ferrero, forse pernon esser accusato di adulazioni passatiste. Dallasua disamina però poche sono le possibilità di nu-trire speranze verso il futuro. Vorremmo chiedergli

quanti intellettuali sono disposti oggi a sporcarsi lemani con il lavoro editoriale, il quale consta di moltafatica, poca visibilità, regole da rispettare. Ma que-sto ovviamente è un altro tema. Fondamentale è tor-nare a dialogare con il passato, non semplicementeadorandone il fatto che sia passato. «In una editoriasempre più marketing-oriented e sempre meno di-sposta a sperimentare, a fare ricerca vera, l’ambiziosainventività degli einaudiani, la loro stessa vocazionepedagogica, le loro passioni civili ci ricordano le ne-cessità di una forte tensione progettuale: che occor-rerà ricuperare non solo in campo editoriale».

chiara sin dall’inizio, per questo il regime comminaa Einaudi il confino. E proprio le prime sessioni diquesti verbali, iniziate nel ’43, hanno chiaro il pro-blema della ri costruzione morale e civile di un paesealle pre se con la guerra civile. Le case editrici, diràBobbio, «si misurano a decenni». E il passo di quel-

la torinese è pesante, capace di imprimersi da su-bito nel dibattito italiano e non solo. «Ogni libroè il frutto di un lavoro di gruppo, di un’orchestradiretta da un direttore capace di tenere in un dif ficileequilibrio dialettico personalità fortissime». Ogni li-bro rimanda ad un altro, importante è il percorso dacompiere, la distanza da colmare rispetto agli altripaesi. Di distanza rispetto al resto d’Europa d’altraparte ce n’era molta.«Un saggio» diceva Einaudi «poteva, per analogia oper contrasto, rimandare a un romanzo, in un con-tinuo gioco di echi, di suggestioni e di incroci, che

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all’ansia e alla rabbia che hanno dominato la suaadolescenza ogni volta che ha cercato di separareamore e sesso dicendo a sé stesso, come tanti ra-gazzi cresciuti nei moralisti anni Cinquanta, che perguarire dal proprio istinto omosessuale sarebbe statasufficiente una donna molto femminile.Quante cose sono cambiate da allora, grazie alla ri- voluzione sessuale degli anni Sessanta, alla lotta peri diritti civili e alla political correctness che nella pro- vincia americana bullista si ha per i più deboli.Eppure, in Italia si è reso ancora poco omaggio alfenomeno culturale della gay fiction. Prendiamoil caso di Playground, la casa editrice che ha ilmerito di rilanciare in questi giorni un libro come

«Vede, molti di noi hanno cominciato pensando diessere fondamentalmente eterosessuali, salvo perquesta piccola cosa cui avevamo fatto l’abitudinesenza rendercene tanto conto – perché mai e poi maici saremmo considerati omosessuali. L’idea stessa diuna cultura omosessuale ci sarebbe sembrata comicao ridicola, e comunque ne avremmo avuto orrore. Tutto quello che volevamo era confinare la nostramalattia a un angolo della nostra vita, a un’abitudinesessuale e niente più».Edmund White ha oggi 71 anni, una trentina in piùdi quando scrisse una pietra miliare della gay fic-tion e un’opera letteraria di valore universale comeUn giovane americano, in cui è riuscito a dare voce

«Quando essere gay pareva una malattia»

«Pensavamo di guarire incontrando una donna iperfemminile» ricorda Edmund White.E, mentre torna il suo «Un giovane americano», esalta il valore terapeutico dei libri. Per sé e per gli altri

Livia Manera, Io donna del Corriere della Sera , 26 novembre 2011

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sé, in un momento particolarmente delicato del per-corso adolescenziale. Di qui a un romanzo come Un giovane americano il salto è grande e l’occasione im-portante: portare la tematica dell ’amore omosessualea un pubblico non solo gay, usando come leva unaqualità letteraria alta e una capacità di introspezione

e di analisi che hanno fatto di Edmund White unodei maggiori scrittori americani contemporanei.Quella di Un giovane americano è la storia di unuomo che guarda con ironia e affetto al suo passa-to, quando era il fragile figlio di genitori divorziati,con una madre inattendibile e un padre ricco edeccentrico che è il primo oggetto del desiderio delragazzino. Ma il cammino verso la maturità im-plica una presa di coscienza che il ragazzo cercadi evitare, diventando il custode di una moralitàferoce che lo porta a denunciare le stesse perso-ne che seduce: in una spirale autodistruttiva che loporterà a cercare rifugio tra le braccia di uno psi-chiatra come in quelle di una prostituta. Fino allarivelazione finale: quella di usare la scrittura comeforma di terapia.«E se fossi riuscito a descrivere la mia vita esatta-mente per quella che era? E se fossi riuscito a rap-presentarla sulla pagina in tutta la sua densità, etedio, e passione frustrata?» si chiede il narratore.Oggi, col senno di poi, sappiamo che il suo esperi-mento è riuscito.

Un giovane americano. «Il genere letterario dellagay fiction per giovani adulti è nato negli anniSettanta con una matrice conservatrice per dareun aiuto all’autostima e alla fiducia nel futurodei ragazzi gay, che avevano bisogno di sentir-si supportati da una promessa di normalità» dice

l’editore Andrea Bergamini. Una matrice con-servatrice significa storie di formazione omo incui il sesso è finalizzato all’amore. «Testi senzaambizioni estetiche» li chiama Bergamini. «Più vicini all’artigianato che alla letteratura. Potrem-mo chiamarli romanzi a scopo».Questi romanzi a scopo che Playground ha comin-ciato a pubblicare nel 2004 nella collana High School– che si differenzia dalla collana letteraria cui appar-tengono i libri di Edmund White per la propria ma-trice di genere – sono solitamente storie gay ambien-tate nei licei americani (ma ora anche europei) chenarrano vicende di ragazzi e ragazze che scoprono lapropria omosessualità con tutto ciò che ne consegue:il coming out  in famiglia e a scuola, le reazioni deigenitori, l’ostilità o la comprensione da parte degliinsegnanti, le prime esperienze omosessuali, l’Aids.E ruotano intoro a personaggi stereotipati: lo sban-dato, l’emancipato, l’atleta di cui sono innamorateanche le ragazze, e lo studente timido che sogna aocchi aperti. In due parole, un mondo riconoscibi-le utilizzato per spianare la strada all’accettazione di

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compagni mi han chiesto del perché Gigi e Anna sisono mollati, altri che fine ha fatto il crudelissimoDilo, io ridacchiavo e rispondevo pensaci tu, fattelate la storia che vuoi. Facevo un po’ il superbone peròmi dicevo che era giusto lasciare dei vuoti e dellesospensioni, suspence naturalmente. Come avrànotato le parti nuove sono solo tre. Quella inizia-le della vacanza sull’asse Bruxelles-Amsterdam cheprima non andava assolutamente bene perché legataancora a uno stile evocativo o indiretto, dopo quellodello scazzo con pugni e baci che ho voluto fin trop-po sopra tono perché un po’ di psicologismo fa benese rende verosimile il tutto, poi quella del suicidio diMicel che non so se sia troppo dilungata col discorsopiagnone della «vittima». Un dubbio rimane riguar-do il discorso diretto che qui viene assorbito nellanarrazione senza punteggiatura come tanti illustrihan fatto. Però vorrei che il lettore capisse quali coseson dette «direttamente » e quali evocate senza ri-correre alle virgolette che producono un arresto delflusso discorsivo, che non voglio, però non vorreinemmeno confusione. Insomma che ne pensa?

 Mimi e istrioni 

Una sola cosa. È troppo concatenata la sequen-za delle azioni una dietro l’altra praticamente unaridosso all’altra quasi un manualetto titolato «chefanno i giovani sbandati in provincia?». Vorrei cheuscisse da tutto quest’attivismo anche un po’ di noiae di vuoto, perché è giusto così. Magari posso dila-tare certe sequenze troppo «veloci», troppo intensa-mente «fatti», creare qualche risacca narrativa, nonpensierosa né ideologicizzata ma semplicemente unbuon respiro di scrittura, se ne fossi capace.

Caro Tagliaferri, vorrei con questa lettera esprimere inodi del libro ( Altri libertini , ndr) ancora per me inso-luti e anche punti di vista, perplessità e affini in mododa produrre una carta di lavoro che mi sarebbe moltoutile poter discutere dettagliatamente quando ci si ri- vedrà dopo l’agosto. In sostanza vorrei fornire una seriedi questioni che riguardano il libro da poter affianca-re alla sua lettura per ottenere chiarimenti e per nonallungare oltre i tempi della redazione definitiva delmanoscritto tanto da non poterne poi più, insommastufarsi reciprocamente di tutta quanta la faccenda.Questi appunti si svolgeranno partendo da ogni epi-sodio. Il primo quindi.

Le solite strade 

Il titolo non mi piace, vorrei qualcosa che avesse ache fare con l’avventura, o l’esperienza o il viaggio.Magari non è importante però ci sto pensando. An-che il titolo del libro lo considero del tutto prov-  visorio. Funzionerebbe meglio qualcosa che nonriportasse già la titolazione di un episodio, farebbepiù romanzo. O no? Comunque questo momentod’avvio mi va abbastanza bene. Ho dilatato alcunipassaggi per sfruttare al meglio questa ubriacaturadi vissuti, credo che il racconto non abbia perso ilsuo interno e velocissimo movimento che è il fattoche più mi premeva, strutturalmente, cioè scrivereun raccontino che lasciasse, una volta terminato, conquel senso di sospensione prodotta da un roman-zo di trecento pagine in modo da coinvolgere cioèil lettore fino al parossismo, facendogli divorare lepagine una dietro l’altra e restare alla fine con unmagone d’ansia e il rimpianto di non assistere oltreallo sviluppo della storia. Terminata la lettura alcuni

Io, TondelliDubbi e trucchi narrativi di un vero libertino

La lettera inedita del 27 giugno 1979 inviata dall’autore all’editor del libro che lo renderà celebre.Il 16 dicembre sono vent’anni dalla morte

Pier Vittorio Tondelli, La Lettura del Corriere della Sera , 27 novembre 2011

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inverno e da lì è scattata la scintilla dei racconti velocie descrittivi. Mi accorgo che un po’ ne ho smussatola violenza e l’asprezza non solo togliendo quella pa-rentesi di accoppiamenti carnali (troppo cruda in ve-rità, ricorda? Lui sta lì io lo metto là lo tiro fuori daquell’altro là e lo piazzo qui, lui fa così quell’altro fa

colà ecc.) ma giocando l’inseguimento in toni fumet-tistici che faran sorridere, ma io vorrei anche piantarcil’accoltellata. Non so fino a che punto ci sono riuscito.

 Altri libertini 

Ecco, questo è l’unico episodio di cui non cambiereinulla. Forse solo qualche passaggio che rende troppocerebrale lo svolgimento del libertinaggio. Io sperocomunque che funzioni così.

 Autobahn

Ho tolto quella merda di filastrocca dei numeri per-ché faceva cadere troppo sull’endecasillabo la prosanelle pagine avanti e indietro. Già di rimette e slo-gan pubblicitari il libro è pieno. Basta così.Come vede il libro nella mia testa non è per nul-la terminato. Visto che non posseggo esperienza inmerito non so se questo dipenda da una «naturale»insoddisfazione che si ha quando si consegna unmanoscritto e ci si dice in testa tutto quello che si èdimenticato o tralasciato, oppure (ma è più probabi-le) se invece, obiettivamente, c’è ancora da rifinire efar artigianato, la qual cosa mi andrebbe bene.Per questo, visto che sia luglio sia agosto sarò a studiac-chiare e lavorare, chiederei, se compatibile al suo lavoroe alle sue esigenze di riposo, di avere qualche comuni-cazione riguardo a queste cose in modo da arrivare alperiodo di riapertura con le idee già chiare e terminarein breve tempo la questione. Se questo non sarà possi-bile nulla di grave, spero di chiarirmi alcune questioniin questi mesi e poi discutere il tutto a settembre, ma-gari portando a Milano qualche pagina nuova.In una sola cosa (ahi, ahi!) la pregherei di insistere nono-stante le sue grane e le sue esigenze, che è quella dell’an-ticipo. Il mio recapito resta fissato al borgo, ma se vanbene queste spedizioni bolognesi a settembre finalmenteci sarà la casa! Auguri, auguri. La ringrazio del tempo edell’attenzione che vorrà accordare a questa lettera e aimiei problemi, passo a salutare quindi cordialmente.

Ritrovi 

Il punto dolente del libro. L’ho già detto tante volte or-mai; non mi convince del tutto l’azione centrale, quel-la dell’ultima estate perché non si capisce bene se siascritta dall’Ente Turismo Emiliano o dalla Pro Locoreggiana, a parte che emerge sotterraneo il tentativo di

una mitizzazione di certe condizioni esistenziali che dàfastidio neanche fosse scritto da Piero Chiara o Gof-fredo Parise o altri intellettuali di campagna. Però mipiaceva che al centro materiale del libro fosse presenteuna dilatazione sia temporale (prima viene la notte alposto ristoro e dopo la notte in collina) sia geografica(si investe tutta la regione in una prospettiva dall’altocome davanti a una cartina dell’Aci e non solo per lastoria dei voli in aereo ma soprattutto per lo scorraz-zare fra balere e festival dell’Unità ecc.), Questa cosadell’imperfetto narrativo ancora non mi soddisfa deltutto perché obbliga a proposizioni strette, a tanti puntie a capo e così via, mentre a me piace scrivere in modoselvatico come si capisce dal resto del libro.Nel progetto del romanzo questo episodio vuole rap-presentare una certa «regressione» anche stilistica-mente e dar corpo così all’unico discorso del libro cioèche la nostra esperienza è fatta di tutte queste cose,slanci e regressioni eccetera eccetera che bisogna ac-cettarsi addosso senza vittimismi. Però ho paura chequalche buonanima di critico leggendo questa cosaqui dica «allora è solo una questione di forme, guardate il Tondelli che si scopre proprio qui e fa capire cheil suo linguaggio è solo un espediente giocato da ungran baro e nulla più». Ci sarà qualche idealista chemi confonderà col Vincenzo Monti della situazione?(con tutto il rispetto per il V.M. come l’Ugo Fosco-lo dovrebbe insegnare) Boh! Però questa cosa se creatroppe complicazioni si può sempre saltare (magarila tengo per un numero di Playboy che lì andrebbeproprio bene) ed essere sostituita, come in un primotempo pensavo, dal racconto di un’altra giornata cosìche il titolo dell’episodio può diventare «tre notti alposto ristoro» o ai bar o ecc. ecc.La cosa nuova di questo episodio comunque è quel-la riscrittura dell’inseguimento cui tenevo parecchioperché ad esser sincero tutto il lavoro di questi mesie questo libro son nati dalla rilevanza che quelle po-che pagine hanno avuto nei nostri incontri lo scorso

8/3/2019 Rassegna stampa di novembre

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perché non utilizzalo? È esemplare l’uso del puntodi domanda spagnolo posto all’inizio di una fraseinterrogativa, provvidenziale quando la lunghezzadel periodo è tale che della dovuta intonazione ci siavveda soltanto alla fine.Il dilagare dell’italiano scorretto è quello che Calvi-no definiva «pestilenza» nelle sue Lezioni americane ;«pestiferi» sono l’«assolutamente sì» e l’«assoluta-mente no», divenuti ormai superlativi irrinunciabili,o le deformazioni improprie come quella dell’«atti-mino», parola risultata la più odiata in un’inchiestadi anni addietro. Vocabolo insulso e ingiustificato,«attimino» è entrato nel lessico abituale di molti(finanche con funzione avverbiale a significare «ap-pena appena», «un poco»). Per non dire del man-cato uso del congiuntivo: non usarlo, sostituendolobellamente con l’imperfetto, significa sminuire lepossibilità offerte dalla nostra lingua; il fatto che ilfrancese vi abbia rinunciato non è buon motivo per-ché lo faccia anche l’italiano.È recente il volume di Stefano Bartezzaghi Come dire. Galateo della comunicazione (Mondadori, pagg.212, euro 17) che analizza modi di dire divenuti,ahimè, frequenti ma che difettano di correttezza.Un libro preziosissimo dove l’unica nota stonata èla brutta copertina. Non si tratta di un manuale digrammatica ma di un «galateo», qualcosa di più leg-gero e rassicurante, un libro che consiglia ciò che èpiù conveniente secondo il contesto e le circostanze.Vero è – dice Bartezzaghi – che non è più tempodi regole ferree e che l’evoluzione linguistica nonsi può fermare, ma un conto è una comunicazione

La lingua soffre continuamente di guasti genera-ti dal parlare colloquiale o gergale che vanno fa-cilmente diffondendosi. La cosa può diventare un vero tormento, come quello che ha spinto CarlottaMazzoncini a caricare sul web un frenetico video nelquale si fa portavoce di una crociata contro quellache l’Accademia della Crusca ha definito una «in-felice novità lessicale»: nata al Nord, pare stia pianpiano scendendo al Sud (per fortuna c’è anche qual-che male che viaggia in senso contrario…). Si trattadell’abuso del «piuttosto che». «Eppure, non c’è bi-sogno di essere dei linguisti» nota l’Accademia «perrendersi conto dell’inammissibilità del “piuttostoche” in sostituzione della disgiuntiva “o”».Di crociate come queste ci sarebbe da farne tante;a cominciare dal saluto di alcuni conduttori di te-legiornali con il frequente «grazie di averci seguìto»(è corretto dire «seguìti») e continuando col man-cato accento che, si sa, andrebbe messo quando ilsignificato della parola varia secondo la sua posizio-ne (bàlia, balìa; sùbito, subìto; prìncipi, princìpi ecc.)o secondo che esso sia grave o acuto: fóro (buco) eforo (piazza), ésca (nutrimento) ed èsca (da «usci-re») e così via. Per non dire dell’accento sul «sé» di«sé stesso»: il contesto può chiarire se si tratti dipronome o di congiunzione, ma perché attendereil séguito quando lo si può far capire sùbito? Nellèggere un testo italiano uno straniero riceverebbegrande aiuto da un’accentazione rispettata anchegraficamente. Nel caso di parole sdrùcciole, bisdrùc-ciole o trisdrucciole, potrebbe pure essere utile, una«accentuazione dell’accentazione»: il segno esiste,

A me mi pare un attimino un errore

Da «piuttosto che» a «grazie di averci seguìto»: strafalcioni e orrori dell’italiano ai tempo di email e tv

Raffaele Aragona, Il Mattino, 29 novembre 2011

8/3/2019 Rassegna stampa di novembre

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Il volume si snoda nel racconto di tante storie di pa-role, di modi di dire e di strafalcioni linguistici con ilsolito tratto cólto e raffinato dell’autore che, pur no-tando il cattivo dire e indicandone la forma corretta,si mostra non un maestro inflessibile ma un educatoretollerante, sempre pronto a ricordare che il problema

della lingua «non è mai se una parola o una frase sidice o non si dice, ma se si addice». Negli ultimi deisuoi ventotto capitoli Bartezzaghi si lascia andare auna ricca serie di notazioni interessanti, come quellasugli assurdi linguaggi dei libretti d’opera analizzatiin maniera dotta, divertente e approfondita, o comequella sull’evoluzione della comunicazione, dal tele-gramma all’email: un variegato vademecum nel qualesi alternano considerazioni sociologiche, aneddoti econsigli. Il tutto è sempre riportato in maniera argu-ta e gradevolissima, con la costante caratteristica dichi non vuole affatto catechizzare, ben sapendo chela lingua è qualcosa di vivo e mutevole, difficilmenteimbrigliabile in stretti cordoni.

informale o per email, altra cosa è la scrittura di untesto ufficiale: anche se nel parlato càpita di dire «ame mi piace», nello scritto è da evitare.Quando anni fa a me capitò di scrivere «la sinda-ca non la vogliono» c’era anche da riferirsi al brut-to femminile «sindaca», accettabile in un contesto

colloquiale ma altrove lessicalmente poco elegante.Non volevo la sindaca, neppure un attimino!… Nonmi riferivo alle due signore in corsa per due Muni-cipi, ma all’uso di «sindaca» invece di «sindaco»; è vero, si può anche dire (per i dizionari è «non prefe-ribile») ma non è bello: non mi piaceva una «sinda-ca», figuriamoci due «sindache»! Chiedevo un patto:si votasse pure per l’una e per l’altra, ma si facessero  vóti perché anche al femminile continuasse a dire«sindaco». «Non è diverso il caso» scrive Bartez-zaghi «di “assessora” e di “ministra” (a me ricordatanto la minestra…): sono forme corrette gramma-ticalmente, ma non rispondono a un uso fluido dellalingua, “suonano” male».