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Rivista Gobetti Scienza · 2018-06-11 · 3 Editoriale F inalmente esce il numero della rivista “Il Gobetti” dedicato ad argomenti e tematiche scienti-fiche! E’ infatti la prima

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EditorialeFinalmente esce il numero della rivista “Il Gobetti” dedicato ad argomenti e tematiche scienti-

fiche! E’ infatti la prima volta che ciò accade, e questo rappresenta un vanto per la nostrascuola in particolare, e, più in generale, per la divulgazione della cultura scientifica al di fuori

dell’ambiente degli addetti ai lavori. Particolarmente significativo ci sembra, in tal senso, il fatto chesi siano create condi-zioni favorevoli affin-ché questo lavoro ab-bia potuto vedere laluce, con numerosi esignificativi contributi“trasversali” da partedel personale docentedella scuola, e nonsolo.Il problema della diffu-sione del la culturascientifica è irrisoltonel nostro paese. Per-sonalità illustri del no-stro panorama politicoe culturale si sonopubblicamente vantatedi ignorare totalmenteaspetti fondamentalidella matematica, del-la fisica, della chimica,e delle altre scienze.La spiegazione di ciò si può trovare nella impostazione politico-culturale “ostile” nei confronti dellediscipline scientifiche, in particolare nella scuola ad indirizzo scientifico, dove orari e programmisono ancor’oggi fortemente sbilanciati a favore della cultura letteraria. Spesso si adduce comegiustificazione la difficoltà di approccio a queste discipline, che richiede conoscenze specifichematematiche. Ciò non toglie che, spinti da un interesse culturale, si possano superare tali difficol-tà, così come, per esempio, le difficoltà stilistiche della poesia non impediscono di accedere allalettura della Divina Commedia.Crediamo fermamente che anche la scienza, in senso lato, sia cultura, non in antitesi con la cultu-ra nell’accezione comune, ma complementare ad essa. Il lavoro compiuto vuole esser un primopasso per raggiungere questo ambizioso obiettivo. La speranza è quella che l’esperienza continui,anche in altre forme, estendendosi al di fuori dell’ambiente scolastico. Infatti, nella società moder-na, non è concepibile una cultura mancante del tutto delle conoscenze scientifiche, penal’emarginazione e la perdita di contatto con il mondo reale. ◊◊◊◊◊

Questa foto presa dal BEBC (Big European Bubble Chamber) mostra uninterazione tra un neutrino e un protone che genera un Mesone D eccitato.

Paolo Boncinelli - Nello Mangani

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Indice

Numero monografico a diffusione interna

Hanno collaborato a questo numero:

Liceo Scientifico Statale “Piero Gobetti”Via Roma, 75/77 - 50012 Bagno a Ripoli (Firenze)tel. 055 6510035 - fax 055 [email protected] - www.lsgobetti.it

Stampa: IT.COMM. S.r.l. - Via di Ripoli, 48-50r - Firenze

Questa pubblicazione è stampatasu carta riciclata Cyclus Offset Polyedra.

La realizzazione grafica e l’impaginazione di questo numerosono state curate dagli studenti del Liceo Gobetti che hannopartecipato allo stage di formazione professionale.

Coordinatore dello stage: Giovanni De LorenzoAssistente tecnico: Luigi Roseto

Silvio BiagiPaolo BoncinelliAntonio BorraniStefano DominiciNello ManganiMarice MassaiDoria PolliAntonio RestivoMarco SalucciFabio SottiliManuela TaddeiFrancesca Tatinie inoltre:Massimo Bartoli

Gli studenti che con il loro impegno e la lorocreatività hanno realizzato questo numero:

Editoriale ........................................................ pag. 1

Moscarda e Einstein:relatività in letteratura e in fisicadi Gregorio Formiconi ............... pag. 3

A Gregoriodi Silvio Biagi .................................................. pag. 3

Le scienze al Gobetti:dalla massa oscura alle balenedi Antonio Restivo............................ pag. 6

Opabinia, ovvero i fossili e l’enigma della complessitàdi Antonio Borrani ........................................... pag. 7

Dal fondo del maredi Stefano Dominici ......................................... pag. 8

Bioinformatica;i database della conoscenza scientificadi Francesca Tatini ........................................... pag. 11

Potenziale o attuale?di Nello Mangani .............................................. pag. 14

Il poliedrico mondo di Ipazia d’Alessandriadi Doria Polli .........................................pag. 21

Determinismodi Massimo Bartoli .............................pag. 21

Le lezioni di anatomia in età modernafra arte e scienzadi Fabio Sottili ...................................pag. 24

La distanza fra noi e la scienza:discorso semiseriodi Marco Salucci ................................pag. 29

Costruzione geometrica delle radicidell’equazione di secondo gradodi Marice Massai ..............................................pag. 34

I Fluidi, questi sconosciuti!di Paolo Boncinelli .......................... pag. 36

Le conichecome luoghi geometricidi Marice Massai ....... pag. 42

Il futuro, la scuola digitale?di Manuela Taddei ................................pag. 45

Cosimo Marcoti 4a ALorenzo Orlandi 4a AFederico Perodi Ginanni 5a ESherry Saggese 5a EMartina Santarlasci 3a ADebora Tempo 5a EChristian Trapani 4a EJacopo Zurlo 5a A

Francesca Bottai 4a EGiulia Branchi 4a ASara Brunelleschi 5a EFrancesca Burroni 5a EElena Giorni 4a BTommaso Lai 5a CKhaufra Maggini 5a FLeonardo Magursi 5a E

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Moscarda e Einstein:relatività in letteratura e in fisica.

A Gregorio,

A scuola, normalmente, noi insegnanti ci andiamo per insegnare. Però vi troviamoanche molto da imparare. Soprattutto persone che ci fanno imparare. Ho avuto la fortunadi avere Gregorio come allievo per cinque anni, dal 1999 al 2004. E ho avuto la fortuna diaverlo come amico fino all’ottobre 2005. Considero accessorio il fatto che io sia stato suoinsegnante: il ‘caso’ ha fatto sì che ci incontrassimo quando lui aveva quattordici anni ed ioquarantuno. Considero essenziale, invece, l’averlo incontrato. Da lui ho imparato tanto e,sono sicuro, non solo io. Il modo di aiutare i compagni, il modo per farli stupire per quelloche riusciva a fare senza che nessuno provasse per lui invidia, ma solo stima ed affetto; ilmodo di porsi nei confronti dell’insegnante, pieno di rispetto e umiltà, ma anche di unnaturale senso di parità frutto non di presunzione bensì della consapevolezza della suaintelligenza; un senso critico costruttivo utile a se stesso e agli altri. La sua lucida intelligenza,duttile e profonda, la sua originalità, la sua profondissima umanità, il sorriso nei confrontidella vita, la pazienza, la serenità e la speranza nei momenti di terribile sofferenza fisica einteriore, anche quando sembrava non esserci prospettiva, le ho sempre vive in me. Ma lamaggioranza delle cose restano inespresse. Quello che resta è il fatto che l’aver conosciutoGregorio è stata ed è, per molti di noi, una grande lezione di vita.

Gregorio Formiconi ha frequentato il Liceo Gobetti dal 1999 al 2004, anno in cui si è licenziatocon il massimo dei voti. Iscrittosi a Matematica, dopo aver superato brillantemente tutti gliesami del primo anno, nonostante la grave malattia che lo aveva colpito tre anni prima,aveva manifestato l’intenzione di passare a Lettere Classiche. Dall’ottobre del 2005 non èpiù con noi. Il testo che proponiamo è un suo lavoro scritto nel 2004 in occasione di unconvegno su Luigi Pirandello, a partire dal romanzo Uno, nessuno e centomila. ◊◊◊◊◊

Silvio Biagi

Uno specchio e un naso. Tutto inizia con uno specchio e un comunissimo naso. Che però pende ver-

so destra, fatto di cui l’ignaro proprietariomai si era accorto se non quando, quellafatidica mattina, la moglie glielo fece nota-re. Se fosse stato un uomo normale tuttosarebbe finito qui, al massimo con la con-siderazione “che notiamo facilmente i di-fetti altrui e non ci accorgiamo dei no-stri”, ma si dà il caso che non possa essere

definito tale un personaggio pirandelliano,tanto più Vitangelo Moscarda, alias Gengè,che si definisce lui stesso “fatto per spro-fondare, a ogni parola che mi fosse detta,o mosca che vedessi volare, in abissi diriflessioni e considerazioni che mi scava-vano dentro e bucheravano giù per tortoe su per traverso lo spirito, come una tanadi talpa”. Una riflessione inizia quindi a“bucherare” lo sfortunato Gengè: “ch’ionon ero per gli altri quel che finora, den-

tro di me, m’ero figurato d’esse-re”. E il problema era che il suoaltro neanche poteva conoscerloperché “davanti a uno specchio,avveniva come un arresto in me;ogni spontaneità era finita, ognimio gesto appariva a me stesso fit-tizio e rifatto”. Il che porta Gengèalle prime forme di follia: “ ... quellepiccole (pazzie) che cominciai afare in forma di pantomime,

Gregorio Formiconi

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nella vispa infanzia della mia fol-lia, davanti a tutti gli specchi dicasa ...”. Uno specchio e un naso, dun-que, il principio della fine, il prin-cipio della follia ... Mala questione si compli-ca ulteriormente quan-do Vitangelo si rendeconto di non essere unsolo altro per tutte quan-te le persone che gli sta-vano attorno, bensìcentomila altri a secon-da di come ognuno lovede:”Ma Tizio lo co-noscete anche voi, ecerto quello che cono-scete voi non è quelloche conosco io, perchéciascuno di noi lo conosce a suomodo e gli dà a suo modo unarealtà.”. Addirittura Gengè si ri-troverà alle prese con l’aritmeti-ca, quando cercherà di stabilirequante persone ci sono realmen-te in una stanza assieme con lui:p= n2 – 1, questa la formula a cuigiunge Vitangelo e nella quale eglifigura come il -1 “visto che io –per me stesso – ormai non con-tavo più”. La presa di coscienza della mol-teplicità del suo essere scatenain Moscarda un feroce impulsodistruttore che lo porterà a cerca-re di distruggere una ad una tuttele varie realtà che gli altri gliattribuivano,ovvero a commette-re azioni che agli occhi altrui nonpossono che apparire come ec-cessi di un matto, “pazzie per for-za”. La prima delle quali fu cerca-re di smentire la fama di “usurajo”che ormai Moscarda, volente onolente, anche per tradizione fa-miliare, si era ritrovato addosso.Gli intenti di Vitangelo, tuttavia,falliscono tutti ed egli, etichetta-to come pazzo, finisce perimpelagarsi in un processo chesupererà ‘indenne’ solo grazie al-l’ormai lampante pazzia: “Si ven-

ne alla decisione che io avrei dato unesmplare e solennissimo esempio di pen-timento e d’abnegazione”, ovvero la fon-dazione con i soldi della liquidazione dellabanca di un ospizio di mendicità in cui il

donatore stesso sarebbe stato internato,essendo stato riconosciuto come pazzo al-l’unanimità. decisione che porta Moscardaalla naturale conclusione del suo iter di fol-lia, già indicata precedentemente dal me-desimo come unica auspicabile: “Ah, nonaver più coscienza d’essere, come una pie-tra, come una pianta! Non ricordarsi piùneanche del proprio nome! Sdraiati quasull’erba, con le mani intrecciate allanuca, guardare nel cielo azzurro le bian-che nuvole ...”. E’ proprio questa, infatti, lafine di Moscarda, una totale negazione delproprio essere come qualcosa di a sé stan-te e con una propria storia personale: “Nessun nome, nessun ricordo oggi delnome di ieri; del nome d’oggi, domani”.Nell’assenza di ogni ricordo è come se l’ex-Moscarda morisse e rinascesse in ogniistante: “ ..muoio ogni attimo, io, e rinasconuovo e senza ricordi … “; e la sua perce-zione del mondo circostante è priva di al-cuna interpretazione personale, ovvero noncrea più una propria realtà per le cose chepercepisce: “Ma ora quelle campane leodo non più dentro di me, ma fuori, per sésonare”, giungendo quindi ad identificar-si con ogni altro essere che percepisce:“Sono quest’albero. Albero, nuvola; do-mani libro o vento: il libro che leggo, ilvento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.”. Forse però Moscarda è molto più di unsemplice individuo spostato, forse è un

personaggio emblematico del suo tempo,o meglio, di quello dell’autore. Forse neidubbi che assalgono Vitangelo è anche rac-chiuso lo sconcerto suscitato dalle nuoveteorie scientifiche di inizio XX sec.: lo spa-

zio e il tempo, quegli innati prin-cipi sintetici a priori, vanto e or-goglio dell’austero filosofo te-desco, vengono ad un tratto afarsi labili e relativi. Da una par-te Moscarda, sgomento di fron-te alla lucida percezione della re-latività del suo essere, dall’al-tra la teoria della relatività, al li-mite del comprensibile per la no-stra intuizione, che relativizza iconcetti di spazio e tempo, pri-ma ritenuti indubbiamente as-soluti. Alla fine del XIX sec. la teoria

di quel “maestro venerando e terribile” cheera stato Newton per la fisica si incrinòirrimediabilmente al riscontro con la crudarealtà dei fatti: la velocità della luce è sem-pre la stessa, un raggio di luce che sia lan-ciato o no in movimento si muove semprealla stessa velocità, sovvertendo così leleggi della fisica che avrebbero voluto chesi muovesse ad una velocità diversa a se-conda della velocità alla quale è stato lan-ciato. I più si arrovellarono a cercare le piùimprobabili spiegazioni a questo apparen-temente inspiegabile fenomeno, un sem-plice impiegato dell’ufficio brevetti diBerna, un tale Albert Einstein, invece, sene uscì con una “Zur Elektrodynamicbewegter Korper” che rappresentò unavera e propria pietra miliare della fisica mo-derna. In questo articolo Einstein mostròcome si potesse superare questo punto fer-mo a cui era giunta la fisica cessando diconsiderare lo spazio e il tempo come as-soluti ma relativi allo stato di moto degliosservatori: più ci muoviamo velocementepiù scorre lentamente il nostro orologio perun osservatore fermo, e più ci assottiglia-mo nella direzione del moto. Lo spazio e iltempo appaiono quindi differenti a osser-vatori che non si muovono del medesimomoto rettilineo uniforme. Ma chi ha ragione? Tutti, perché non c’èuna verità assoluta se parliamo di spazio etempo, ma tante relative allo stato di moto

“notiamo facilmentei difetti altrui e non ci

accorgiamo deinostri”

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dei corpi facenti parte del sistema preso inesame. E’ un po’ come la risposta che oggidiamo a Zenone quando ci dice che il mo-vimento non può esistere in quanto duecorridori che corrono in sensi opposti per-cepirebbero la velocità reciproca maggiorerispetto ad uno spettatore fermo, e ciò asuo parere violerebbe il principio di noncontraddizione: la velocità da sé, come in-segna Galileo, non ha un valore assoluto,ma, poiché deve essere sempre riferita adaltri corpi, relativo. Questo il vecchioZenone stentava a comprenderlo, noi sten-tiamo invece forse ancor di più ad afferrareil senso della teoria di Einstein, perché trop-po è radicata nel nostro essere la percezio-ne dello scorrere del tempo come qualcosadi assoluto, come scandito da un grandeed inesorabile orologio cosmico. Anche Gengè, in fondo, arriva alla stessaconclusione, pur se, invece della luce, l’ele-mento scatenante delle sue considerazioniè il suo più comprensibile naso che pendeverso destra: se all’osservatore in moto so-stituiamo Vitangelo, al suo orologio la suapersonalità e all’osservatore fermo Dida (lamoglie), l’equazione torna ancora: la suapersonalità appare diversa a Dida da quel-la che appare a lui, come le lancette degli

orologi scandiscono i se-condi in modo diverso peri due osservatori; e Gengèconstata inoltre che en-trambe le realtà sono vereallo stesso modo tantoche ad un certo puntoprende per vera quelladella moglie. Così come siviene a perdere in fisica ilconcetto di simultaneità,dal momento che tutti gliorologi scorrono a secon-da del loro moto, Vitange-lo perde l’illusoria conce-zione del proprio esserecome unico e quindi as-soluto. Questa però erasolo la “relatività ristretta”, che nel 1916verrà integrata da Einstein nella più ampiaed esauriente “relatività generale” che com-prenderà anche la descrizione di fenomeniquali l’attrazione gravitazionale e l’accele-razione, che verranno rivisti e riclassificatisotto un aspetto totalmente differente dacome lo erano stati fino a quel momento. Ma già davanti a quella ristretta il nostroGengè si è spaurito e vaga senza meta pren-dendo a prestito ora questa ora quella real-

tà che lui o gli altri hanno decisodi assegnargli. Perché un conto èscherzare con orologi e osserva-tori, un conto è sostituire a que-sti la bistrattata personalità delpovero Gengè! Dietro a quella c’èmolto di più di una semplice quan-tità fisica misurabile come il tem-po, c’è un uomo! Uomo? E’ forseancora appropriato il termine perl’individuo che ora, toltosi la

maschera molte-plicemente sfac-cettata che lui stes-so e tutti gli altri gliattribuivano, si èesposto alla crudaluce della verità cheha illuminato unvolto mancante diogni connotato,totalmente anoni-mo… Un senso di in-quietudine ci salesu per la spinadorsale, un volut-tuoso desiderio diautodistruzione ciassale mentre im-maginiamo cosasarebbe se anchenoi mettessimo anudo le nostrefattezze... ◊◊◊◊◊

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A ben guardare tra la miriade di circolari e i numerosi manife-

sti che si accavallano neicorridoi della scuola l’offer-ta di approfondimenti sulletematiche scientifiche alGobetti è veramente ampia,diversificata e sempre piùricca.

Si inizia già nel mese diottobre con il “PianetaGalileo”, una serie di con-ferenze a carattere scienti-fico promosse dal ConsiglioRegionale della Toscana incollaborazione con gli entilocali e gli atenei della regio-ne che hanno l’obiettivo dimettere in comunicazione ilmondo della ricerca con lescuole superiori. Il nostro li-ceo è tra le scuole protago-niste essendo sede di im-portanti incontri con perso-naggi di primo piano delmondo accademico.

Sempre in ottobre par-te l’ormai tradizionale cor-so teorico-pratico sullebiotecnologie. Gli studen-ti, sequenziando il proprioDNA mitocondriale, hannol’opportunità di conoscerele tecniche utilizzate neilaboratori di paleoantropo-logia dove si studiano lemodificazioni del patrimo-

Le scienze al Gobetti:dalla massa oscura alle baleneAntonio Restivo

nio genetico degli esseri umani ele migrazioni dei nostri antenati.Senza l’uso dei moderni calcola-tori elettronici sarebbe impossibi-le ricavare e utilizzare l’enormemole di informazioni contenute nelnostro DNA. Di bioinformatica, edelle scoperte di qualche intra-prendente liceale, ci parla in que-ste pagine la prof.ssa Tatini, do-cente di scienze in una classeprima dove gli alunni iniziano dasubito a frequentare il nuovo labo-ratorio del liceo.

Significative sono anche le le-zioni con i docenti delle diverse fa-coltà scientifiche per orientare glistudenti nella difficile scelta del-l’indirizzo di studio. Può così ca-pitare di sentire parlare unastrofisico di “Massa oscura” ouno specialista di informatica di“Etica hacker”.

Gli studenti hanno anche l’op-portunità di partecipare a con-gressi, stage e ad iniziative orga-nizzate dalle diverse istituzioniche operano nel nostro territorio.Interessante è stata la giornata distudio sull’origine della vita che siè svolta lo scorso anno nell’aulamagna dell’ateneo fiorentino a cuihanno partecipato alcune classiterze. In quell’occasione è statoanche possibile visitare in antepri-ma la balena fossile ritrovata adOrciano Pisano che fra qualchetempo verrà esposta nel museo

di Paleontologia di Firenze e di cuici parla il dott. Dominici in questonumero. Altri ragazzi di quartahanno invece tenuto una relazio-ne al la mostra-convegno“Terrafutura” sui primi risultati a cuisi è giunti con il progetto sul ri-sparmio energetico della scuola.

All’orizzonte ci sono anche lecelebrazioni dell’”Anno Internazio-nale dell’Astronomia” proclamatodalle Nazioni Unite per celebrareil quarto centenario dell’uso delcannocchiale da parte di Galileoe le iniziative legate ai 200 annidalla nascita di Darwin e ai 150anni dalla prima pubblicazione de“L’origine delle specie” che sicu-ramente potranno essere occa-sione per docenti e studenti di ul-teriori approfondimenti.

Anche i docenti del liceo da qual-che tempo si stanno cimentandonella divulgazione scientifica rivol-ta non solo ai propri studenti ma an-che alla cittadinanza. Gli argomen-ti scelti sono spesso insoliti e affa-scinanti, basti pensare ad esempioalla logica matematica o alla fisicadei fluidi.

Per concludere, l’invito a tutti èdi trasformarsi in Opabinia regalis,lo strano fossile dotato di cinqueocchi ritrovato nelle argilliti diBurgess, per non lasciarsi sfuggi-re le tante occasioni di arricchimen-to culturale che con tanta passionevengono organizzate al Gobetti. ◊◊◊◊◊

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Ogni tanto, nella storia dellascienza, avvengono scoperteche segnano la fine di un’era

e l’inizio di un’altra. Qualcosa del ge-nere è accaduta anche in paleontolo-gia, ed in tempi ben più recenti rispet-to alla pubblicazione dell’ “origine del-la specie”. Tale rivoluzione ha originecon la scoperta di uno strano anima-le, Opabinia, avvenuto in una localitàcanadese chiamata Burgess. Nelleformazioni geologiche di tale luogo, ri-salenti a più di 500 milioni di anni fa,sono stati ritrovati fossili straordina-riamente ben conservati, tra i quali irappresentati di phyla fino ad allorasconosciut i : t ra quest i appuntoOpabinia (fig.1, mentre afferra un ver-me gelatinoso). Un phylum è gruppodi animali dotati di un piano struttura-le comune, evolutosi da un antenatoancestrale; per esempio i tonni e l’uo-mo fanno parte del phylum Cordataperché, perlomeno nei primi stadi del-lo sviluppo embrionale, presentanouna struttura di sostegno del corpo,situata sul dorso, chiamata notocorda.La classificazione di Opabinia è pro-blematica dato che sembra unire lecaratteristiche di almeno due o trephyla moderni a tratti assolutamenteinusuali. È infatti un invertebrato, lun-go una decina di centimetri e dotatodi segmenti, come i comuni lombri-chi, ma le 10 paia di zampe (o pagaie)che esso possiede sono dotate dibranchie, la testa è munita di cinqueocchi e di una specie di proboscideflessibile, atta a portare il cibo ad una

bocca posta ventralmente. Ecco per-ché i paleontologi lo hanno classifica-to in un phylum estintosi in tempi an-tichissimi. Tuttavia, la scomparsa diun intero phylum apre numerosi inter-rogativi: è come se il piano strutturaletipico dei cordati non avesse lasciatodiscendenti, per cui animali come l’uo-mo non avrebbero avuto la possibilitàdi evolversi. Si suppone infatti chel’ambiente nel quale viveva Opabiniafosse sostanzialmente simile al no-stro, ma, a differenza degli ecosistemiattuali, gli habitat erano quasi tutti dacolonizzare. Per questo motivo l’evo-luzione di organismi pluricellulari por-tò inizialmente alla diversificazione dimoltissimi phyla; tuttavia, nel corsodel tempo, alcuni phyla, come icordati, si sono imposti su altri, chesi sono estinti.In definitiva, lo studio dei fossili delleargilliti di Burgess ha fatto crollaredefinitivamente la vecchia teoria chedescriveva l’evoluzione come un con-tinuo aumento della complessità deiviventi. La complessità di Opabinia erapari o superiore a quella di molti rap-presentanti di phyla odierni. L’evolu-zione tende invece a prediligere pochiphyla, cioè pochi piani strutturali e ladirezione intrapresa sembra esserecasuale.All’interno dei phyla si assiste invecealla comparsa di una grande abbondan-za di forme. L’adattamento all’ambien-te porta quindi ad un perfezionamentocontinuo di poche caratteristiche favo-revoli.

Opabinia,ovvero i fossilie l’enigma dellacomplessità

Antonio Borrani 5a B

In conclusione, se fosse pos-sibile riavvolgere il nastro dellastoria della vita sulla Terra e ri-cominciare da capo, il risulta-to sarebbe un mondo con vi-venti dotati di pochi piani strut-turali, completamente diversida quelli odierni e probabilmen-te altrettanto diversificati. ◊◊◊◊◊

Indicazioni bibliografiche:- Stephen J. Gould,“La vita meravigliosa”,Feltrinelli- Simon Conway Morris e H.B.Whittington,“La testimonianza dei fossili”,Le Scienze quaderni N. 42(pp.24-35)

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La dinamica interna dellaTerra, i movimenti dellacrosta, il lento incedere

del tempo geologico concorro-no a realizzare un fenomenoche è stato oggetto di scruti-nio da parte degli antichi filo-sofi: la presenza sotto il soledi antichi fondali marini dissec-cati e delle ricchezze da lorocustodite nel tempo. Ma se ifilosofi potevano essere permestiere attenti alle manifesta-zioni della natura, a molti di noifacilmente sfuggono le schie-re di conchiglie che a volteriemergono dopo la pioggia suicampi coltivati di Piemonte,Emilia o Toscana. Quando no-tandole si riaffacciassero lenozioni inculcate dalla maestrenel tempo della scuola elemen-tare, preferiamo passare oltrepiuttosto che soffermarci conmeraviglia. Ma quando ad af-fiorare sono le ossa del gros-so cetaceo che un tempo in-ghiottì Pinocchio, la regina deimari, il più grande animale vi-vente, le cose cambiano.Quando accanto alle conchi-glie si stagliano le grosse co-stole e le vertebre sbiancate diuna balena, allora la notizia daicampi emerge sulle pagine deiquotidiani locali e da lì fin sulloschermo della televisione, etutti ne discutono, affollandonella mente immagini ditirannosauri, felci arboree, libel-lule gigantesche, e per un atti-mo chiunque diventa geologo.Così è successo dopo l’enne-simo ritrovamento in un cam-po arato nei pressi di OrcianoPisano, a qualche chilometronell’entroterra alle spalle di Li-vorno, di alcune vertebre digrosse dimensioni e colorerossastro. Lo scheletro ritrovatoalla fine dell’estate 2006, tut-tavia, racconta una storia diparticolare interesse. Raccon-ta di una balena lunga 10 me-tri, ma non solo. Una storia che

ci ricongiunge ad una scoperta scienti-fica fatta nei moderni fondali oceanicidai biologi marini del sommergibile Alvin,poco più di venti anni fa. Una storia dibalene affondate e banchetti pantagrue-lici.

Quando muoreuna balena

Molti grandi cetacei hanno una struttu-ra corporea con densità complessivamaggiore della densità dell’acqua.Quando una balena muore, quindi, af-fonda, trasformandosi in una particelladi detrito organico di dimensioni consi-derevoli (una balenottera di 18-20 metripesa circa 30 tonnellate) che rapida-mente raggiunge il fondo del mare. Or-ganismi di diversa natura approfittanodi una tale abbondanza, organismi incompetizione per lo stesso oggetto:batteri che decompongono i tessuti apartire dagli intestini e pesci necrofagiche si accingono a mangiare la carcas-sa dall’esterno, carne a volontà per tut-ti, ma non solo. Dopo qualche giorno igas della decomposizione spingono lacarcassa a riaffiorare, a meno che essanon sia finita a profondità sufficienti per-ché la pressione idrostatica favorisca ilpassaggio in soluzione dei gas, impe-dendo la risalita della carcassa. Unacarcassa riemersa continua a decom-porsi e ad essere mangiata da pesci einvertebrati, fino al cedimento degli in-testini e allo smembramento delle man-dibole, degli arti e infine della testa.Dopo poco non esiste più una balena,ma brandelli dall’incerto destino. Altracosa sono le balene finite oltre i limitidella piattaforma continentale, a profon-dità maggiori di circa 200 metri, che simantengono integre al procedere delbanchetto per dare vita allo spettacoloche si sono trovati davanti i biologi ma-rini Chris Smith e compagni dell’Univer-sità dell Hawaii, al largo della California,nel 1987: uno scheletro mostruoso af-follato da lamprede, squali dormiglioni(si chiamano così), crostacei isopodi evermi policheti. La scoperta dei biologiamericani e le successive spedizionihanno portato alla realizzazione che lecarcasse dei grandi cetacei che ‘piovo-

no come manna dal cielo’ nelledesertiche profondità oceaniche ospi-tano una catena alimentare particolare,con forti analogie con quella di altrihabitat abissali, come i caminiidrotermali lungo gli assi delle dorsalioceaniche. La successione ecologicacaratteristica delle comunità presso lecarcasse di balena (Whale FallCommunity, WFC) può essere suddivi-sa in quattro stadi: 1) degli spazzini, 2)degli opportunisti, 3) dei solfofilici e 4)di ‘scogliera’. Durante il primo stadio enell’arco di pochi giorni o settimane glispazzini mangiano i tessuti molli dellabalena. Dapprima intervengono inecrofagi di dimensioni maggiori, glisquali dormiglioni (sleeper sharks) e lemixine parenti delle lamprede (pescisenza mandibole). Poi carnivori sem-pre più piccoli che ‘puliscono le bricio-le’ lasciate dai più grossi vertebrati, ov-vero crostacei anfipodi ed isopodi, finoalla completa ripulitura delle ossa. Nelfrattempo tessuti sparsi e grasso han-no impregnato il fondale circostante,portanto ad un secondo e più duraturostadio di sfruttamento, detto degli op-portunisti. Gli invertebrati che si nutro-no della grande quantità di sostanzeenergetiche, presenti in un sedimentosolitamente povero, popolano in grannumero i luoghi prossimi alle ossa, adot-tando strategie a rapida riproduzione edalto numero d’individui, da cui il nomedi opportunisti. Tra questi troviamodepositivori come oloturie e bivalvi, e poipesci e invertebrati predatori che si nu-trono dei gradini più bassi della pirami-de trofica, insomma il banchetto di cuici aveva parlato Craig Smith nel suo pri-mo, meravigliato resoconto. In mezzoalla mischia, a formare tappeti rossastrisopra e sotto le ossa esposte, si trova-no i piccoli vermi mangiatori d’ossa,policheti sibonoglinidi parenti dei vermiscoperti qualche anno presso i caminiidrotermali in popolazioni sterminate.Ovviamente, i bone-eating worms dellecarcasse di balena hanno adattamentidel tutto particolari che li differenzianoda qualsiasi altro cugino: ‘radici’ fattedi tessuto epiteliale che penetrano nel-le ossa di balena e, dentro le radici,batteri chemosimbiotici che degradano

Dal fondo del mareStefano Dominici

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il grasso presente nelle ossa, nutren-dosi di esso e a loro volta nutrendo ivermi policheti. Osedax il nome del ver-me, da os- (osso) ed -edax (mangiatore),caratteristico per il pennacchio di cigliarossastre esposto alle correnti marinedalle quali estrae l’ossigeno necessa-rio al suo metabolismo aerobico, privodi bocca e tubo digerente, quindi diver-so da tutti gli altri policheti. Dopo qual-che ulteriore settimana dalla morte del-la balena, qualche mese al massimo,si esauriscono le sostanze nutritizie eall’interfaccia grasso-radici l’ossigenonecessario al metabolismo dei batterichemosimbiotici aerobi. Gli opportuni-sti del secondo stadio cominciano ascemare. Ma all’interno delle ossa piùgrosse rimane in abbondanza grassoinutilizzato (fino al 60% delle ossa dibalena è fatto da lipidi, come ben san-no i famigerati cacciatori delle balenie-re). Niente deve evidentemente andarperduto in mezzo al ‘deserto’ oceanicoe la preziosa sostanza rimasta diventanutrimento per una particolare florabatterica anaerobia che si instaura den-tro le ossa. Questi batteri anaerobi, di-versi dai precedenti, nel degradare i lipidisottraggono solfato dall’acqua del maree riducono lo zolfo in sulfuro. L’acidosolfidrico che si sviluppa impregna leossa e le zone adiacenti, un veleno in-tollerabile per la maggior parte degli or-ganismi a noi noti, ma non per quelliche si sono adattati ad utilizzare l’ener-gia chimica contenuta in questo com-posto riducente. Di nuovo batteri, ap-partenenti al genere Beggiatoa, proli-feranti sulla superficie delle ossa a for-mare tappeti mucillagginosi bianchicome neve (il secondo colore dominan-te documentato dai biologi delle profon-dità nelle riprese video giunte fino a noi).La comparsa di Beggiatoa indica il ter-zo stadio detto appunto dei solfofilici,o ‘amanti dell’acido solfidrico’. I tappetibianchi di batteri costituiscono unappettitoso cibo per una grande varietàdi animali invertebrati solfo-tolleranti,che pascolano come snow-boarders suifianchi delle montagne. Altrove sulleossa e sotto di esse grossi bivalvi ap-partenenti ad altri gruppi di specialistidell’acido solfidrico, vesicomyidi e ba-thymodioline, lucinidi e thyasiridi,beneficiano di una simbiosi particolarecon batteri riducenti, ospitati entro lebranchie e nutriti con l’amore con il qualeun contadino coltiva la lattuga. Duranteil terzo stadio una nuova e più comples-

sa catena alimentare così si forma, perdurare fino a molte decine d’anni per lebalene più grosse, più ricche di ‘carbu-rante lipidico’. Al termine i ricercatoripresuppongono - ma non hanno ancoradocumentato - che le ossa possanocostituire un banco rilevato dove le cor-renti subiscono un minor rallentamentoda attrito rispetto al fondo e pertantouna zona preferenziale per organismifiltratori. E’ lo stadio di ‘scogliera’ chetermina la successione ecologica. Que-sta la storia conosciuta prima del ritro-vamento del fossile di Orciano Pisano,assieme al fatto che gli strati con il fos-sile si erano deposti in ambienti nonprofondi. Cosa ci potevamo aspettaredi trovare, al di là di una balena fossile?Esistono anche in acque relativamentebasse le WFC documentate dagli ame-ricani in acque profonde? Può il regi-stro fossile fornire indicazioni finora nondisponibili ai biologi marini? La storia sifaceva interessante.

Balene fossili italianeWFC fossili sono state documentate daricercatori giapponesi in ossa di etàmiocenica (22-5 milioni d’anni fa), as-sociate a bivalvi specialisti di ambientiriducenti profondi come vesicomye e ba-thymodioline (i bivalvisono molluschi dallaconchiglia carbonaticafacilmente conservataallo stato fossile), tro-vate in sedimenti diambiente profondo. Al-cune carcasse impian-tate artificialmente daricercatori inglesi e sve-desi hanno mostratoche Osedax vive anchein acque basse, fino asoli 30 m di profondi-tà. Tuttavia non è sta-to documentato finoralo stadio solfofilico inacque basse, quellopiù ricco di complica-te specializzazioni bio-logiche. D’altra parteda più di un secolo glistrati pliocenici (5-1,5milioni d’anni) che af-fiorano estesamente inItalia hanno restituitoscheletri anche com-pleti di grossi misticetiappartenenti alle fami-

glie di balene e balenottere,cetacei che più facilmente af-fondano. Tali scheletri fossilisono spesso in buono stato diconservazione, non come lecarcasse che subiscono glieffetti di decine d’anni di attivi-tà chemiosimbiotica. Quindi, inacque basse la storia sembraessere diversa. Con questaconsapevolezza, il ritrovamen-to di Orciano ha fornito l’oppor-tunità di condurre uno scavocon lo scopo di recuperare unoscheletro fossile e quante piùinformazioni possibile sullacomunità fossile associata. Ilrisultato ha ripagato delleaspettative, fornendo indicazio-ni su una successione ecolo-gica simile a quelle di mareprofondo, ma con alcune so-stanziali differenze.La balena (o balenottera) diOrciano giace sulla pancia edè ben articolata, ma le ossanon sono in buono stato di con-servazione. Lo strato superfi-ciale (corticale) è spesso man-cante e quello spugnoso sot-tostante è molto fragile, con uncolore diverso da quello origi-

La balena di Orciano

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nale per la presenza di ossididi ferro. Le vertebre toracichemancano completamente, pro-babilmente a causa della com-pleta dissoluzione in loco. Ilcranio, articolato alle vertebrecervicali, è pure profondamen-te consumato, rendendo diffi-cile il riconoscimento tasso-nomico del cetaceo. Le man-dibole giacciono una a fiancodel cranio, l’altra ruotata di 90°.Le ossa degli arti sono altera-te superficialmente, mentresono ben conservate le pochefalangi ritrovate (i cetacei han-no un numero di falangi più ele-vato degli altri mammiferi). Sot-to uno degli arti è emerso ungrosso dente di squalo bianco(Carcharodon carcharias) e leossa del timpano presentanoincisioni prodotta da denti si-mili a quello ritrovato. Altri dentiappartenenti allo squalo azzur-ro (Prionace glauca) sono sta-ti trovati nelle vicinanze. Tra icarnivori tre grossi esemplari dicrostacei decapodi. I molluschisono ovunque abbondanti econ molte specie: grossi pre-datori, piccoli e numerosinecrofagi tra i gasteropodi,filtratori e depositivori tra ibivalvi. Tra questi ultimi trovia-mo infine la specie più signifi-cativa ai fini della comprensio-ne della successione ecologi-ca, il lucinide Megaxinusincrassatus, abbondante nellazona del torace e del cranio,con le valve articolate e in po-sizione di vita. I lucinidi sonoorganismi chemiosimbiotici,ospitando nei filamenti dellebranchie colonie di batterisolfofilici e per questo sonoabbondanti in ambienti ricchi dimateria organica e riducenti,sia in acque basse (ad esem-pio presso le praterie diPosidonia) sia in profondità.Tramite correnti create all’in-terno delle cavità dove si tro-vano le branchie, Megaxinuspompa acido solfidrico dalfondale riducente e con essonutre la flora batterica, man-tenendo tale liquido separatodall’acqua ricca di ossigenoutilizzato per la respirazione.

Cosa è successo su quel fondale mari-no riemerso dopo 3 milioni di anni? Lamoderna distribuzione batimetrica dimolte specie ritrovate ci rivela che laprofondità di sedimentazione era com-presa nell’intervallo tra 50-150 m, quin-di a profondità alle quali non è a tutt’og-gi noto come si strutturi una comunitàpresso una carcassa di balena. L’ab-bondanza di tracce e resti lasciate da-gli squali rivela che pesci lunghi anche4 metri hanno dato l’avvio al banchetto,consumando le carni prima della decom-posizione. Perché diciamo ‘prima’?Perché grossi predatori che strappanocarne da un animale anche solo par-zialmente decomposto non lascerebbe-ro uno scheletro ben articolato comequello di Orciano (la decomposizione in-debolisce le giunture articolari). Perchélo squalo bianco preferisce comunqueattaccare prede vive e non è annoveratotra gli spazzini. I grandi pesci cartilagi-nei hanno quindi dato inizio alla fase deglispazzini, ma non sono stati i soli atto-ri. Lo stato delle ossa può essere in-teso come indice dell’opera estensivadi Osedax, come prova il confrontocon gli analoghi attuali brevementeraccontati sopra. In questa ricostru-zione, i vermi mangia-ossa avrebberoeroso il cranio fino a cancellarne ogniasperità e le vertebre toraciche fino afarle scomparire, indebolendo ovunquela struttura dei tessuti spugnosi. Ipo-tesi alternative come l’abrasione di ori-gine meccanica sono da escludere,nuovamente a ragione dell’alto gradodi articolazione dei resti. Quindi al-l’azione dei necrofagi si è affiancata eha seguito quella degli opportunisti,t ra i qual i possiamo contare idepositivori. Possiamo aggiungere chel’azione è stata più intensa nella zonetoracica e cranica, probabilmente acausa della maggiore quantità di ma-teria organica presente. In questestesse zone si è passati allo stadiodi produzione di acido solfidrico e adun ambiente riducente favorevole allaproliferazione di Megaxinus e dei suoichemiosimbionti, il terzo stadio di unatipica WFC, anche se priva delle for-me specializzate incontrate negli am-bienti riducenti profondi. Rimane soloun’ipotesi la presenza dell’ultimo sta-dio di ‘scogliera’ avendo trovato solofiltratori mobili, non necessariamentelegati alla presenza di ossa sul fon-do.

Ambienti riducentiin acque basse

L’insieme dei fossili studiati a OrcianoPisano costituisce la prima documen-tazione che la successione ecologicadi una WFC in acque basse è analogaa quella riconosciuta presso WFC pro-fonde. Nello stesso tempo rivela che imolti specialisti dello stadio solfofilicoe di altri habitat riducenti incontrati ne-gli abissi sono assenti in piattaforma.Alcuni ricercatori, lavorando su altriambienti riducenti, propongono che laragione di una tale assenza sia da ri-cercarsi nella più intensa pressioneecologica causata da competizione epredazione. In acque basse, dove il fon-dale è raggiunto da luce più o meno viva,la catena alimentare è incentrata sullafotosintesi. La grande quantità di mate-ria organica distribuita in modo stagio-nale favorisce la diversità degli adatta-menti e la competizione per le risorse,originando una maggiore diversità dispecie e quindi una pressione ecologi-ca sulle forme adattate agli ambienti ri-ducenti maggiore che in ambienti pro-fondi afotici. Tra queste i bivalvi lucinidisono presenti in ambienti di piattafor-ma continentale dal Palezoico inferiore(Siluriano: 415-440 milioni di anni), oc-cupando le stessa nicchia ecologicanella quale vivono oggi. Sembrano per-tanto aver avuto una la prerogativa sullachemiosimbiosi ben prima dell’evoluzio-ne dei cetacei (Eocene: 55-35 milionidi anni) e tra questi delle grandi baleneche solcano gli oceani (Oligocene: 35-22 milioni di anni fa). Non così nei fon-dali oceanici, dove la competizione èpiù trascurabile e dove le grandi quanti-tà di materia organica che si rendonodisponibili in poco tempo, in uno spa-zio limitato circondato da un ‘deserto’,costituiscono un laboratorio evolutivoben più efficace, fonte di nuovi adatta-menti e di stili di vita altamente specia-lizzati.Il patrimonio fossile in genere, e quel-lo italiano in particolare, costituisco-no un’importante fonte di informazionisull’ecologia di organismi difficilmen-te raggiungibili in ambienti moderni,fornendo alla conoscenza una dimen-sione temporale profonda a sostegnodelle teorie evolutive e delle tappe at-traverso le quali si è diversificata lavita nel nostro pianeta. Una buona ra-gione per dedicare una vita allapaleobiologia. ◊◊◊◊◊

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Era il 1970 quando fu pubblicato ilprimo algoritmo in grado di confrontare due sequenze di DNA;

solo 26 anni dopo una liceale sedicennepuò identificare un gene umano scono-sciuto semplicemente collegandosi allarete dal suo PC di casa, come è in ef-fetti accaduto nel luglio scorso.L’enormeavanzamento nella produzione di datiche si è avuto negli ultimi vent’anni èdovuto in massima parte allo sviluppodella tecnologia informatica. Una delleconseguenze più eclatanti è che oggisu internet sono presenti, e accessibilia tutti, le banche dati in cui è presenteil genoma umano, completamentesequenziato e comparabile con il DNAdi altre specie.La bioinformatica è una disciplina gio-vane, rappresentata dalle applicazionidi tecniche e supporti informatici allevarie aree della ricerca scientifica. Purtrattandosi non di una scienza ma di uninsieme di tecniche, le dimensioni delsuo sviluppo e la profondità con cui stamodificando tempi e modi della ricercascientifica meritano sicuramente una ri-flessione.

Un po’ di storia…Il nostro DNA è caratterizzato da un in-sieme di sequenze nucleotidiche, oggicompletamente sequenziate (ilgenoma), che contiene le informazioniper l’organizzazione e il funzionamentodelle nostre cellule, e quindi dell’interoorganismo.Gli acidi nucleici e le proteine hanno laparticolarità di essere costituiti da se-quenze lineari di unità, rispettivamentedai nucleotidi e dagli amminoacidi, chepossono essere rappresentate da sin-gole lettere; in questo modo le sequen-ze possono essere codificate e utiliz-zate come una stringa di caratteri at-traverso programmi informatici. Dal mo-mento che una particolare sequenza haanche un significato biologico, che, per

quanto sia più complesso, è racchiusonella sequenza stessa, il datoinformatico può essere utilizzato per ot-tenere informazioni; le informazioni ot-tenute, se correttamente manipolate einterpretate, avranno anch’esse un si-gnificato biologico.Le prime sequenze di DNA vennerosequenziate negli anni ’70, periodo incui si iniziò quindi a sentire la necessi-tà di una qualche forma di archivio perun insieme di informazioni, quello ap-punto delle sequenze nucleotidiche, chegià si profilava di notevole mole; è pro-prio in questi anni infatti che nacque labioinformatica.Il primo database fu quello della National

Biomedical Research Founda-tion e raccoglieva dati relativialle sequenze proteiche cheerano state pubblicate fino adallora.Nel 1970 nacque il primoalgoritmo in grado di confron-tare fra loro due sequenzeestrapolando il migliore alline-amento, ossia la migliore com-binazione fra le due sequenzedal punto di vista della somi-glianza. Nel 1971 nacque in-vece il primo programma pervisualizzare le regioni di mag-giore o minore similarità fra se-quenze diverse.

Bioinformatica; i databasedella conoscenza scentifica

Francesca Tatini

elica del DNA

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La comparazione fra le se-quenze è un punto centrale: sealla similarità fra due sequen-ze corrisponde una similaritàdal punto di vista funzionale, èevidente come lo studio com-parativo delle sequenze possafornire dati di grande valore.L‘analisi delle regioni simili in-fatti è fondamentale sia peridentificare un percorsoevolutivo fra le diverse sequen-ze analizzate, sia per ipotizza-re funzioni plausibili per unasequenza dal significato sco-nosciuto.A seguito del completamentodel genoma umano, avvenutonel 2000-2001, sono stati svoltinumerosi studi che hanno per-messo di rilevare la sequenzadi moltissimi geni umani sco-nosciuti, che codificano perproteine dalla funzione altret-tanto ignota. A partire dalla se-quenza nucleotidica è possibi-le risalire alla sequenzaamminoacidica di queste pro-teine, ovvero a quella che sidefinisce struttura proteica pri-maria; in seguito, per capirecome la proteina svolga la pro-pria funzione, è utilissimo,quando non essenziale, con-frontarla con altre proteine si-mili dal punto di vista della se-quenza, la cui funzione è giànota.L’analisi della similarità fra pro-teine diverse, e quindi dell’alli-neamento rilevato dai program-mi informatici, è quindi un pas-so fondamentale per lo studiodelle proteine, della loro evolu-zione e delle loro funzioni.A partire dai primi anni settan-ta fino ad arrivare ai giorni no-stri, la mole di programmi ebanche dati è cresciuta inmodo esponenziale, ben oltrela crescita delle pubblicazioniscientifiche, rappresentando difatto una realtà di riferimentoessenziale per qualsiasi ricer-catore.

Le banche datiLe banche dati di cui la ricerca in cam-po biologico fa un maggiore utilizzosono quelle che raccolgono le sequen-ze nucleotidiche del DNA o le sequen-ze amminoacidiche delle proteine. Unabanca dati di questo tipo è organizzataun po’ come lo schedario di un ufficio,e raccoglie quindi moltissime informa-zioni fruibili in maniera semplice e velo-ce.Le due maggiori banche dati al momen-to sono rappresentate da quelle del-l’americano N.C.B.I. (National Center forBiotechnology information) e dell’euro-peo E.B.I. (European BioinformaticsInstitute.I database rappresentano lo strumentoattraverso il quale la bioinformatica ope-ra nel campo che ha modificato più diogni altro: quello della comunicazionescientifica. È infatti evidente come lapossibilità di accedere a informazionicosì preziose e sofisticate da parte dichiunque abbia ampliato la gamma diinterventi in un campo che prima eraappannaggio esclusivo di pochi scien-ziati esperti.Tutto ciò che è necessario possedereo utilizzare per confrontarsi con questidati è un computer, una connessione ainternet e qualche informazione essen-ziale. Per verificarlo è sufficiente acce-dere al sito http://www.ncbi.nlm.nih.gov/BLAST/; BLAST è il programma attual-mente più utilizzato per effettuare ricer-che nelle banche dati al fine di identifi-care il migliore allineamento fra sequen-ze selezionate. Sul sito segnalato èpresente anche un tutorial (in inglese)che consente di acquisire le informa-zioni necessarie per l’utilizzo del pro-gramma.Certamente la fruizione di questi stru-menti necessita di una certa familiaritàdell’utente con le nozioni basilari dellabiologia molecolare e della navigazionein rete, ma il livello richiesto è tale daconsentirci di definire popolare la diffu-sione delle informazioni.La rivoluzione bioinformatica delle co-noscenze scientifiche è solo all’inizio,la necessità di rendere sempre più im-mediata la consultazione delle banchedati consente infatti di guardare al futu-

ro con entusiasmo; già oggi per esem-pio è possibile risalire, da una sequen-za nucleotidica alla proteina da essacodificata e, se nota, alla sua funzione.Inoltre le banche dati riguardano nonsolo la catalogazione delle sequenze,ma anche un’enorme mole di altre in-formazioni, dalle pubblicazionibiomediche alle malattie geneticheumane alla tassonomia.Se consideriamo anche la sempre mag-giore diffusione delle risorse on line e lanascita di programmi in grado di orga-nizzare i vari tipi di informazione nelmodo più funzionale possibile, è chiarocome comunicazione e produzione del-l’informazione si evolveranno parallela-mente e come dall’interazione fra le duecose potrà nascere un’interessante sfi-da intellettuale per gli scienziati delnostro tempo.

Lo studio della strutturadelle proteineUn altro campo modificato in modo ra-dicale dallo sviluppo dell’informatica èquello dello studio della struttura delleproteine.Gli amminoacidi presentanodelle caratteristiche chimico-fisichenote che, se analizzate nell’insieme del-la sequenza che compongono, posso-no indicare in che modo tale sequenzasi dispone nello spazio. È possibileanche rilevare in che modo gli ammino-acidi che compongono la sequenzainteragiscono fra loro all’interno dellastruttura proteica tridimensionale; inol-tre, a un livello ancora successivo, dal-lo studio della struttura tridimensionaledella proteina si possono identificare lesue interazioni chimico-fisiche con l’am-biente circostante.Attraverso software sofisticati, le cuiversioni più commerciali sono disponi-bili gratuitamente in rete, è possibilevisualizzare la struttura di molte protei-ne e ottenere quindi preziose informa-zioni che in precedenza si potevano ac-quisire solo mediante tecniche com-plesse e dispendiose.

Analisi dei dati e dell’immagineUn’immagine digitale è, per definizio-ne, rappresentata da un insieme di dati;di conseguenza è possibile acquisire

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un’immagine e, in seguito, ottenere in-formazioni qualitative e quantitative sul-la base dell’analisi dei dati relativi al-l’immagine stessa.Per fare un esempio pratico, molte tec-niche di laboratorio si basano sullo svi-luppo di reazioni che colorano in modospecifico alcune strutture cellulari o al-cune molecole. In seguito all’esecuzio-ne di queste reazioni è possibile foto-grafare, con una fotocamera digitale po-sta sul microscopio, le cellule trattate,riportate per esempio su un vetrino dalaboratorio.La fotografia riporterà l’immagine otte-nuta dalla reazione e conterrà anche idati relativi alla localizzazione, alla quan-tità e alla distribuzione del colore, chesono ovviamente rappresentativi del pa-rametro biologico che la tecnica in que-stione intendeva misurare.Con un software per l’analisi dell’im-magine è possibile tradurre queste in-formazioni, in maniera immediata, indat i faci lmente quanti f icabi l i einterpretabili.Per esempio, per analizzare quantecellule all’interno di una determinatapopolazione contengono una partico-lare proteina, è possibile effettuareuna reazione che porti allo sviluppo diun colore solo nelle cellule che con-tengono la proteina ricercata; una vol-ta fatto ciò si dovrebbero contare tut-te le cellule risultate “positive” allacolorazione. Evidentemente è moltopiù immediato premere un tasto delcomputer e lasciare che sia il softwarea quantificare, in un istante, quantesono le cellule colorate.L’analisi dell’immagine consente di faremolte operazioni che richiedevano tem-po e risorse in modo molto efficace edeconomico, e rappresenta quindi unostrumento informatico essenziale, delquale probabilmente oggi non potrem-mo più fare a meno, soprattutto in alcu-ni campi, come quello dell’immunoisto-chimica, che fanno un largo impiego ditecniche basate sulla visualizzazionedei risultati sperimentali.

Dalla tecnica alla scienzaLa bioinformatica, per quanto poten-te, è uno strumento, un insieme di tec-

niche, che rende i suoi fruitori comun-que in grado di fare “scoperte” che solouno scienziato avrebbe potuto fare inmomenti diversi della storia, e conmolta dedizione e fortuna. Ma è pro-prio questo il punto: oggi chi usa lostrumento, se, come in questo caso,lo strumento è particolarmente sem-plice, non è necessariamente unoscienziato ma un tecnico. Senza nien-te togliere a chi svolge un lavoro nobi-le e fondamentale per la ricerca scien-tifica moderna, anche le scoperte chederivano dalle applicazioni della bioin-formatica sono spesso non vere e pro-prie scoperte ma semplicemente datiaggiuntivi. Questa distinzione, perquanto scontata, merita di essere sot-tolineata perché è andata via via scom-parendo dalla coscienza scientificacomune, e soprattutto dalle pagine deigiornali. Da essa inoltre nasce la con-sapevolezza di quanto sia oggi neces-sario tornare ad una figura che sia in-sieme tecnico e scienziato, al con-trario di quanto sembra avvenire neilaboratori di ricerca e nelle Universi-tà, non per responsabilità personali maa causa di un sistema che premia laproduttività prima di tutto, l’acquisizio-ne di dati più della speculazione sulleleggi che governano la realtà.La bioinformatica fa emergere questatematica in modo particolarmente evi-dente. Grazie agli strumenti che essafornisce è infatti possibile trovare nuovidati semplicemente utilizzando unostrumento, senza necessariamenteconoscere ciò che è alla base del datoin questione; in altre parole chi ana-lizza le banche dati che comprendo-no le sequenze di tutto il genomaumano, può non comprendere la bio-logia cellulare nel suo complesso, nonne ha bisogno. È così che una licealemilanese ha potuto “scoprire” un nuo-vo gene umano; senza voler svalutareil suo lodevolissimo lavoro, come quel-lo di altri, questo è un caso evidentein cui siamo di fronte non a una sco-perta di concetto, non a qualcosa pro-dotto da un ragionamento e poi verifi-cato sperimentalmente, ma a un datonuovo che, solo a condizione di esse-re utilizzato scientificamente, potrà

produrre un avanzamento del-la conoscenza.La differenza può appariresottile, forse a posteriori per-sino inesistente, ma è quellache, almeno secondo il miopensiero, caratterizza la ri-cerca scientifica come tale;la differenza è quella che c’èfra chi da una mela che cadeintuisce una legge fondamen-tale e chi, analizzando unelenco di equazioni che rap-presentano il moto della mela,scopre che una di esse èplausibile.A fronte dell’affascinante avan-zamento della bioinformatica,è bello anche ricordare che nonc’è un modo facile per dedicar-si alla ricerca scientifica, loscienziato studia per anni, inquesto paese spesso lo fa qua-si gratis e senza crediti né ap-poggio dalla società, ma è con-tento di cercare una connes-sione e un senso fra i dati asua disposizione, a prescinde-re dalla tecnica utilizzata perottenerli, esalta l’importanzadei progressi della tecnologiainformatica perché la conside-ra un mezzo straordinario, enon il fine, della sua ricerca.Proprio la bioinformatica puòconsentire di far emergere col-legamenti fra discipline diver-se in modo molto più facile e,se di per sé non è una scien-za, per uno scienziato è unostrumento formidabile. Se daun lato infatti è pur vero chespesso è il computer che at-tua i collegamenti e i confrontifra una quantità di dati cosìenorme che l’uomo non puòanalizzare, dall’altro è vero an-che che non si può prescinde-re da quell’analisi, sospesa frail caso e la ricerca, insita nellescoperte più fortunate, chequalcuno chiama serendipity eche solo la mente umana è ingrado di produrre, almeno peril momento. ◊◊◊◊◊

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Nello Mangani

Il “cattivo” infinito

Bernard Bolzano, matematico e fi-losofo estremamente acuto, nellasua opera più geniale “I parados-si dell’infinito”1riporta il giudiziosprezzante di alcuni filosofi, tra iquali Hegel2, che consideranol’infinito dei matematici il “catti-vo” infinito pretendendo di cono-scerne il “vero” infinito, quellodella filosofia prima e della teolo-gia.Trascuriamo il “vero” infinito eoccupiamoci dell’infinito dei ma-tematici.In matematica, l’infinitezza è laproprietà che appartiene unica-mente alla molteplicità o plurali-tà, un insieme omogeneo di ele-menti dello stesso tipo, grandez-ze e numeri, che sono specificatida un unico concetto. Il «cattivoinfinito quantitativo» è l’ infinitopotenziale, vale a dire il concettodi infinito contrapposto a quelloattuale.Più avanti spiegheremo perchél’infinito dei matematici è consi-derato “cattivo”, ma procedia-mo con ordine e proviamo a chia-rire le due diverse concezionidell’infinito, che sono state esono oggetto di speculazioni,dibattiti, confronti e contrappo-sizioni.Non c’è filosofo o matematicoche non abbia affrontato il pro-blema e non abbia preso posizio-ne, pur con diverse sfumature,per l’una o l’altra concezione.

L’illimitato (indefinito) ovvero l’infinitopotenziale

«I numeri (naturali) non finiscono mai, sonoinfiniti.»L’idea è così naturale e spontanea da rite-nere che sia nel bagaglio genetico di cia-scuno. Se si aggiunge uno ad ogni numerosi ottiene un numero più grande e non esi-ste un numero più grande di tutti, ed è pos-sibile continuare l’operazione quanto sivuole, senza fine, in un processo inesauri-bile.Non possiamo immaginare l’insieme di tut-ti i numeri in quanto è illimitato nel sensoche, volendo individuarne uno ad uno tut-ti gli elementi, non si riesce a formare untutto perché c’è sempre e in ogni caso,qualche elemento che non avremo consi-derato.Forse non ne siamo consapevoli, ma con-cepiamo l’insieme dei numeri come un in-sieme illimitato, un infinito potenziale.Un’idea questa che ha radici lontane ed èdominante almeno fino alla fine del XIIIsecolo, ma che non è l’unica. Nel mondogreco, infatti, si allude all’infinità con iltermine (apeiron) che letteralmen-te vuol dire «senza limiti», ossia «illimita-to»3 e che appare per la prima volta nellafilosofia di Anassimandro4 . All’ èassociata un’idea negativa, espressionedi incompletezza e di potenzialità non at-tuata e non attuabile; sarebbe consigliabiletradurre il termine con «indefinito», o con«illimitato», piuttosto che con «infinito»in quanto in passato, come vedremo in se-guito, non sempre è chiara la distinzionetra limitatezza e infinità, nella terminolo-gia attuale, tra l’infinito limitato (attuale) e

l’infinito illimitato (potenziale).Nella matematica greca, salvo rare ecce-zioni, non è introdotto l’infinito.Aristotele è consapevole delle due conce-zioni dell’ , usa i termini

per l’infinito in potenza o infinitopotenziale, e

per l’infinito in atto o infinitoattuale.Nel Medioevo si inventa una originale for-mula per distinguere tra le due concezionidell’infinito. Petus Hispanus5 , nel settimotrattato delle Summulae logicale, intendel’infinito in due modi distinti; usa il termine«categorematico» per designare qualcosache è più grande di qualsiasi grandezza finitaesistente, qualcosa di simile all’infinito at-tuale, mentre con «sincategorematico» espri-me l’idea di infinito potenziale aristotelico,privato però del termine (potenza),ritenuto ambiguo e in un certo senso con-traddittorio, all’ in quanto si ritieneche il termine (potenza) presuma un fine, unorientamento, all’indefinito che implica in-vece disordine e casualità.Contorcimenti filosofico-linguistici di cuiè piena la storia del concetto di infinito.L’illimitato, dai Presocratici alla sistema-zione aristotelica, è manipolato con estre-ma cautela nei procedimenti del pensierodiscorsivo ed è sempre trattato da infinitopotenziale, concepito nel segno della «ne-gazione » (non-esistenza), vale a dire ciòche non può contenere

L’

I significati che tradizionalmente sono at-tribuiti all’ si ricavano dalle affer-mazioni di Aristotele6 che ne rivelano la na-

Potenziale o attuale?Aristotele

Descartes Leibniz

Cantor

Bolzano

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tura, da un lato divina e incorruttibile, dal-l’altro ambigua e refrattaria ad ogniaccostamento e tentativo di comprensione.«.. esso non ha principio ma sembra essereesso principio di tutte le altre cose..», pernatura divino «…ingenerato e incorruttibi-le,…. immortale e indistruttibile..».7L’illimitato esiste: il tempo è illimitato e cosìpure la divisione delle grandezze.La specificità dell’ è l’inesauribilità:«…siccome non sono mai pienamenteesaurite nel pensiero il numero e le gran-dezze matematiche e tutto quel che c’è ol-tre i cieli pare siano illimitati»8. Aristote-le si esprime in questi termini: «L’non è ciò al di fuori di cui non c’è nulla,ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualco-sa.»9

Di conseguenza, l’indefinito, in nessuncaso, può essere pensato come un tuttocompleto dato che non ha una fine, ossiaun elemento limitante, , (limite). Ed èil limite ciò che fa esistere concretamenteogni oggetto e che determina un ordinelogico agli eventi e ne evita la casualità.Se da un lato il divenire temporale sembracostituire il campo di azione dell’ ,d’altro, l’esistenza di un insieme illimitatosi spiega con l’idea che gli elementi nonesistono tutti simultaneamente ma esisto-no uno dopo l’altro in un susseguirsi in-terminabile.

Infinito illimitato e infinito limitato.

Aristotele, nel libro III della Phisica, trat-ta la questione dell’infinito al fine di stabi-lire in quale modo sia possibile ammetterel’esistenza di grandezze infinte. Egli osser-va che, secondo l’accezione comune, unagrandezza si dice infinita se è maggiore diqualunque altra e nessun’altra può esseremaggiore di essa. In questo senso, nessu-na grandezza sensibile è, o può essere,infinita in atto o in potenza, in quanto,necessariamente limitata , non può essereaumentata oltre ogni limite.Non esistono grandezze attuali infinitamen-te grandi.Una grandezza può essere infinita per divi-sione (o per sottrazione) e per addizione10

È infinita per divisione in quanto divisibileillimitatamente11; è infinita per addizionein quanto la si può immaginare formata daun numero infinito di altre grandezze. «Ciòche è infinito per addizione, in un certosenso, è allo stesso modo infinito di quelloper divisione; giacché in una cosa finitasi ha l’infinito per addizione in un modoinverso [a quello in cui si ha l’infinito perdivisione]. A quel modo infatti che la divi-

sione tende all’infinito, allo stesso modocon l’addizione si ritorna al finito. Infatti,data una grandezza limitata e presane unadeterminata parte, se questa si aumentanello stesso rapporto, ma in modo che nonsi aggiunga sempre una medesima gran-dezza alla totale [risultante dalle successi-ve grandezze aggiunte], non si arriveràmai al termine della grandezza limitata.Se invece il rapporto si aumenta in manie-ra che si aggiunga sempre una medesimagrandezza, si arriverà al termine; perchéogni grandezza limitata vene esaurita dauna qualsiasi determinata parte di essa. Ecosì dunque non si ha altro modo l’infinito, ma in questo modo soltanto: cioè in po-tenza e per sottrazione»12

In altre parole, Aristotele considera unagrandezza limitata infinita per sottrazionema, di conseguenza , anche infinita peraddizione nel senso che si può considera-re l’infinità esauribile in essa.Sul concetto di infinito per addizione Ari-stotele insiste spiegando che è da escluderela possibilità di un altro infinito per addizioneche possa dar luogo ad una grandezza infini-tamente grande sia pur potenziale.«In questo modo si ha un infinito poten-ziale anche per addizione, il quale in uncerto senso diciamo essere lo stesso chequello per divisione; ché ci sarà semprequalche cosa di esso da prendere fuori diesso. Però esso mai oltrepasserà tutte legrandezze limitate, come quello per divi-sione oltrepassa qualsiasi grandezza li-mitata e diventa più piccolo. Di modo cheper addizione non è possibile superareogni grandezza neppure in potenza»13

Vale a dire, con la divisione si possonoottenere grandezze sempre più piccole diqualunque grandezza data e quindi la pos-sibilità di grandezze infinitamente piccolema è da escludere la possibilità di grandez-ze infinitamente grandi.Ma ciò non vale per i numeri:«Con buona ragione si ammette, che perquanto riguarda l’infinito nei numeri, esi-ste un limite verso più piccolo e verso il più[grande] si può superare ogni moltitudine;e che al contrario, nel caso delle grandezzeverso il più piccolo si può oltrepassare ognigrandezza, verso i più grande non esiste unagrandezza infinita»

L’infinitamente piccolo

Dunque , c’è l’illimitato, ma c’è anche l’in-finito limitato e l’infinitamente piccolo.Le teorie di Democrito14 e di Epicuro15 sonoriferite alla materia, gli atomi che sono le partielementari che la costituiscono sono piccoli

ma non infinitamente piccoli. Unimplicito accenno all’infinitamentepiccolo lo si può trovare inAnassagora16 che definisce illimi-tato il caos in cui nulla esiste e leforme non sono ancora concepite.In un frammento , tramandato daSimplicio scrive «insieme eranotutte le cose, illimiti per quantità eper piccolezza poiché anche il pic-colo era illimite». Il riferimento èalle omeomerie, entità costituenti icorpi, che sono in quantità infini-te, ma diversamente dagli atomi, in-finitamente divisibili. In questopasso: «del piccolo non c’è un mi-nimo sempre un più piccolo» comepure «anche del grande c’è sem-pre un più grande e per quantità èuguale al piccolo..» l’allusione all’infinitamente grande e all’infini-tamente piccolo.Ma anche nei tentativiAntitonte17 e Brisone18 di quadra-tura del cerchio19, trovare un qua-drato di area uguale a quella diun cerchio, si fa ricorso ai con-cetti di infinitamente piccolo e in-finitamente grande e anche se l’in-finito è potenziale se ne intrave-de la possibilità di una diversaconcezione.Antifonte, sofista, indovino escrittore di versi e contempora-neo di Socrate, argomenta cheun arco minimo non si distingueda una porzione minima di retta equindi un poligono regolare conun numero illimitato di lati non sidistingue da una circonferenza epoiché è possibile costruire unquadrato di area uguale a quelladi un qualunque poligono rego-lare è possibile quadrare il cer-chio20.L’insieme dei poligoni iscritti nel-la circonferenza è un insieme illi-mitato nel senso che, dato unpoligono di un numero qualun-que di lati di lunghezza datainscritto nella circonferenza, se nepuò sempre iscrivere un altro conun numero di lati maggiore ma diminore lunghezza.Il numero dei lati dei poligoniinscritti è infinitamente grande,la lunghezza dei lati è infinita-mente piccola, ossia è minore diuna qualunque lunghezza data.Un altro classico esempio è il pri-mo argomento di Zenone21 con-

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tro il moto. In esso si sostiene chechi voglia percorrere una unità dilunghezza non potrà mai portarea compimento la sua impresa per-ché dovrà percorrere la successione infinita di intervalli in cuil’unità è divisibile per dicotomia.Chi vuole arrivare a 1 partendoda 0 dovrà prima raggiungere

21

, poi

43

41

21 =+ e ancora

87

81

41

21

=++

e così di seguito.

........ n +++++21

21

21

21

32

I termini della successione sonoinfiniti

.....,...,, n21

21

21

21

32 ma di am-

piezza sempre più piccola

Verso una diversa concezionedell’infinito: il limite

Il punto di vista aristotelico rima-ne nella sostanza rispettato neiprocedimenti di Eudosso22, diArchimede23 e di Euclide24, que-st’ultimo, ad esempio, formula ilIII postulato degli Elementi inquesti termini: «E che una rettalimitata si possa prolungare con-tinuamente in linea rettae nella proposizione 20 del libroIX :“I numeri primi sono più di unaqualsiasi assegnata moltitudinedi numeri primi”Anche Antifonte, nel tentativo didella quadratura del cerchio, nonammette alcun termine finale masolo un indefinito sviluppo, l’in-sieme dei poligoni non può com-prendere un termine conclusivo,un poligono limite che coincidacon la circonferenza, in quantocon ciò si ammetterebbe l’esi-stenza attuale dell’infinità dei po-ligoni contraria alla concezionedell’illimitato. E’ sufficiente, però,

ammettere che è possibile ridurre l’areadella regione residua tra il cerchio e il poli-gono a una grandezza arbitrariamente pic-cola senza introdurre il concetto di un in-sieme attualmente infinito.Allo stesso modo, nell’argomento diZenone non si ammette che la somma di

infiniti termini ........ n +++++21

21

21

21

32

sia uguale a 1.Aristotele sostiene che i matematici, nelleloro dimostrazioni, non hanno bisogno digrandezze attualmente infinite in quanto ciònon pregiudica il conseguimento dei risul-tati. Tuttavia nel pensiero classico si in-travede la possibilità di liberare l’infinitodalla negatività specifica dell’essere poten-ziale, dall’esame dei metodi si può indivi-duare la premessa di una diversa conce-zione dell’infinito.Per esempio, la successione dei poligoninon è arbitrariamente indeterminata, ma èorientata, pur nell’indeterminatezza, versoun limite rappresentato dalla circonferenzache, pur non costituendo un termine effet-tivo della successione dei poligoni, rap-presenta comunque una soluzione all’in-definita potenzialità di sviluppo.È quindi possibile configurarsi concreta-mente la soluzione finale di un processoillimitato pur non rinunciando al caratterepotenziale di quest’ultimo.Il limite non è un termine della successionee perciò non è una semplice approssima-zione del risultato della somma infinita, masi può raggiungere rinunciando all’analisiindefinita della successione e ponendosiin un punto di riferimento esterno.

Esiste l’infinito attuale ?

Nel tempo si forma la convinzione che l’in-finito possa esistere come totalità attuale.È lunghissimo l’elenco di coloro che av-vertono l’esigenza di un infinito statico chenon sia un puro sinonimo di divenire tem-porale. Per avere l’idea dell’infinito passi-bile di essere pensata, nominata o designa-ta con un simbolo, come ogni altra cosaconcreta, si deve risalire a RenèDescartes25, il primo a cambiare punto divista e a concepire l’infinito in un modo dainfluenzare il pensiero successivo.Nella prima metà del XVII secolo ci si ado-pera per dimostrare l’inesistenza di insiemiinfiniti, in particolare, Mersenne26, amicodi Descartes, sostiene che non può esiste-re una linea infinita in quanto esistendodovrebbe contenere infiniti piedi ma an-che infinite tese, (una tesa è sei volte più

grande di un piede) e l’insieme infinito ditese dovrebbe paradossalmente contene-re come sua parte propria l’insieme infinitodei piedi. Dunque, la linea non può esiste-re poiché se esistesse dovrebbe contene-re due insiemi infiniti di cui uno più “gran-de” dell’altro.Descartes, in una lettera del 1630, dichiara diaccettare il contenuto paradossale dell’argo-mentazione ma non la conclusione, soste-nendo che non si può estendere a insiemiinfiniti la relazione d’ordine stabilita per in-siemi finiti, come quella tra tesa e piede. L’in-finito è paradossale proprio perché ad essonon sono applicabili le relazioni di confrontoche spettano al finito.Due secoli dopo Cauchy27 riprende il ra-gionamento di Mersenne con lo stesso pro-posito: dimostrare l’inesistenza di insiemiattualmente infiniti. Citando un esempioche egli attribuisce a Galileo, vuole dimo-strare l’inesistenza dell’insieme dei numeri(naturali). Se si assume come dato l’insie-me dei numeri esso contiene come partepropria l’insieme dei quadrati dei numeri ei due insiemi infiniti hanno lo stesso nume-ro di elementi ( n n2) ma d’altra parte l’in-sieme dei quadrati è solo una parte dell’in-sieme più “grande “ formato da tutti i nu-meri interi.Per Cauchy , l’atto per esistere deve esse-re finito. Non è possibile contare tutti i nu-meri, uno per uno, fino ad arrivare ad untermine conclusivo senza sentirsi costrettia pensare di aver agito come fosse una to-talità finita, come se, invece di aver conta-to tutti i numeri ne fossero stati contatimille o un milione.In effetti, concezione potenziale dell’infi-nito come quantità illimitata più grande diqualsiasi limite prefissato, ma che restaattualmente finita, è conseguente alla ne-gazione, mai perfettamente compiuta, delfinito e quindi, proprio perché l’infinito èdefinito per negazione del finito

non-finito → infinitoche è considerato un «cattivo infinito».Si deve a Dedekind28 il capovolgimentodella definizione.Egli usa il paradosso di Cauchy, non comeprova dell’inesistenza dell’insieme infini-to, ma come contenuto per la definizionedello stesso:Un insieme è infinito se è posto in corri-spondenza biunivoca con una parte propria.Proprietà questa peculiare di insiemi in-finiti per cui non deve meravigliare il fat-to che i numeri possano essere posti incorrispondenza biunivoca con i loro qua-drati (n n2) o coi numeri pari (n 2n) euna retta essere in corrispondenza

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biunivoca con un segmento.Con la definizione di insieme infinito è l’in-sieme finito ad essere definito per negazione

non-infinito → finitoTuttavia Descartes non arriva ad ammette-re la possibilità di comprendere l’infinitotutto intero. Egli ragiona in questi termini:se concepiamo “qualcosa” non è possibi-le concepire l’infinito proprio perché l’infi-nito trascende qualsiasi cosa concepita, madi ciò siamo consapevoli e proprio questaconsapevolezza rivela l’esistenza dell’idea.L’infinito, pur non essendo riferibile ad al-cuna cosa concreta, ha un contenuto dioggettività, diventa accessibile almenocome idea esprimibile con parole.L’altro aspetto dell’infinito di cui Descartesè anticipatore è legato al concetto di conti-nuità dello spazio. In una lettera aDesargues29, condivide l’idea di conside-rare le rette parallele come caso limite dirette incidenti e, come queste, hanno unpunto in comune anche le rette parallelehanno qualcosa in comune che è la «dire-zione» che Desargues chiama «punto al-l’infinito».I punti all’infinito si possono giustificarecon l’applicazione particolare del cosiddet-to principio di continuità che Leibniz30 for-mula successivamente in questi termini: sela differenza tra due casi o configurazionipuò diminuire al di sotto di ogni livello ef-fettivamente assegnabile in dati concreti,allora è necessario che tale differenza pos-sa trovarsi diminuita al di sotto di ogniquantità assegnata anche in quelle confi-gurazioni che non possono esistere «inconcreto» ma solamente cercate e immagi-nate come risultato di una variazione con-tinua. Ciò che le rette hanno in comune intutte le configurazioni intermedie deve esi-stere anche nell’ultima conseguenza dellavariazione, rappresentata appunto dal pa-rallelismo. Tale deduzione, inconfutabilesull’esistenza dell’infinito, si basa sullacontinuità dello spazio nell’accezioneintuitiva ed è il risultato di un’idea di infi-nito opposta a quella di Aristotele.Sul principio di continuità Leibniz defini-sce il differenziale e lo fa in modo esclusi-vamente geometrico.Data una curva C rappresentata in un pia-no cartesiano,

se dx e dy rappresentano le corrispettivevariazioni finite nel passaggio dal punto Pdi coordinate x e y al punto Q di coordinatex+dx e y+dy, entrambi sulla curva C e ∆xun segmento fissato, si può definire unaquantità ∆y con questa relazione

In cui dx/dy è la tangente dell’angolo for-mato della retta passante per P e Q e dal-l’asse x.Se dx diminuisce fino ad avvicinarsi allo zero,il rapporto dx/dy diventa il rapporto tra gran-dezze molto piccole, se poi dx si annulladefinitivamente la retta c, attraverso infinitipassaggi intermedi, coincide con la retta tan-gente t. alla curva in P. Ciò significa, spiegaLeibniz, che anche la quantità ∆y può esse-re definita anche con dx=0, poiché il rapporto∆y/ ∆x in tal caso deve coincidere con latangente dell’angolo dalla retta t con l’asse xe rimane un rapporto finito anche se dx=0 e diconseguenza in questo caso il rapporto dx/dy significa qualcosa che non può essereespresso assegnando a dx un valore nulloma deve essere espresso da un concetto chesi riferisca allo zero conservando la visibilitàdel simbolo. È questo il concetto diinfinitesimo e in tal caso si dice che dx e dysono infinitesimi e risulta naturale ritenerel’infinitesimo una quantità più piccola diqualsiasi quantità finita assegnata.Applicando il principio di continuità è pos-sibile supporre che ci sia una configura-zione finale di una successione infinita dicasi intermedi, ma Leibniz non immagina laconfigurazione finale un limite, come suc-cessivamente lo intende Weierstrass31, macome una configurazione cui è possibileavvicinarsi indefinitivamente senza rag-giungerla. È un ritorno al riferimento tem-porale in perfetta assonanza con Aristote-le.La meta finale di un percorso illimitato èl’apparente dimostrazione dell’esistenzadell’infinito attuale e in questa prospettivauna curva è come una linea poligonale conun numero infinito di lati e la somma infini-ta di numeri si può estendere al caso “con-tinuo”, ad una somma infinita di differen-ziali, cioè l’integrale pensato come infinitàattuale.Leibniz parla degli infinitesimi come di «fin-zioni», entità immaginarie non corrispon-denti a cose esistenti al di fuori della men-te. All’occorrenza in sostituzione di essi sipossono usare espressioni quali «piccoloquanto occorre affinché l’errore sia più

piccolo di qualsiasi errore asse-gnato», sostituendo , di fatto, al-l’infinito attuale dell’infinitesimo,l’infinito potenziale delle dimo-strazioni per esaustione diEudosso e Archimede.Euclide giudica confrontabili32,solo le quantità omogenee di cuiuna può diventare più grandedell’altra se moltiplicata per unnumero33. Due grandezze che dif-feriscono per un infinitesimosono uguali in quanto nonconfrontabili poiché qualunquemultiplo di un infinitesimo rima-ne minore di una qualunque gran-dezza finita assegnata34. La nozione di infinitesimo rima-ne nel linguaggio matematico an-che dopo Weierstrass e vieneusata come finzione didattica. Nel ‘700 si discute sui fondamentimetafisici del differenziale e delprincipio di continuità ma persi-ste la convinzione che l’idea del-l’infinito deve affermarsi e con-solidarsi nel linguaggio matema-tico.Nella prima metà dell’800,Bolzano si convince dell’esisten-za dell’infinito almeno comerealtà intellettuale. Egli pervienealle conclusioni simili a quelle diDescartes ma sostiene tesi deci-samente più audaci. Le idee nonsono in generale qualcosa di “esi-stente” ma semplicemente “qual-cosa” che non cessa di esistererealmente anche quando nonsono pensate. Ci sono anche le«idee oggettive» in quantoinequivocabili cui tuttavia noncorrisponde alcun oggetto con-creto, per esempio «nulla», «0»,«√-1».La determinazione di una cosaqualsiasi non deve basarsi neces-sariamente sull’effettiva esisten-za di un oggetto e l’infinito non èun’eccezione, e anche se essonon è determinabile come descri-zione degli elementi nondimenoesistono metodi che consentonodi definirlo senza ambiguità. Dalle tesi espresse nel I para-dossi dell’infinito comincia adessere sottointeso che i legittimidepositari del concetto di molte-plicità infinita sono i matematici.A Bolzano si deve anche un’in-

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novazione finalizzata a ridurre alminimo i vincoli ontologici del lin-guaggio, l’abbozzo di una logicacapace di ridimensionare i problemi di esistenza. Egli distingue trai diversi tipi di proposizioni esi-stenziali. Dire «A esiste» non è lostesso che dire «c’è un A», in-fatti, nella prima espressione, di-versamente dalla seconda, l’esi-stenza appare come predicato e«c’è un A» allude al fatto che l’idea«A» ha referenza, come dire «c’èl’ippogrifo» non significa chel’animale esista davvero.

Insieme attualmente infinito

Una classe di oggetti è definibilea prescindere dal fatto che sia fi-nita o infinita, all’idea spetta lacoerenza in virtù del principio delterzo escluso: una cosa è deter-minata o determinabile se soltan-to uno dei due attributi (a è non-a) appartiene ad essa.Bolzano confida nell’infinito at-tuale convinto che l’atto mentaledi concepire un’insieme non pro-duca contraddizioni logiche. I fattilo smentiranno e determinerannola rinuncia ad ogni tentativo didare una definizione di insieme,tuttavia le idee di Bolzano antici-pano un periodo dell’800 in cui siinventa un linguaggio matemati-co, quello della teoria degli insie-mi, che dell’infinito intende for-mare una totalità attuale e statica(infinito attuale), non governatadal divenire temporale.Infatti, termini infiniti possonoessere definiti mediante leggi diformazione (costruzione) che ren-dono superflua l’enumerazionedei termini stessi.Per esempio gli infiniti terminidella successione

possono essere individuati esi-bendo il termine generico

oppure mediante la legge di co-struzione (induzione o ricorren-za) con cui si individua il primotermine e ogni altro a partire dal

precedente

Anche la definizione di funzione continuain un punto:“f(x) è continua in x=c intendendo checonverge a f(c) quando x si avvicina inde-finitamente ad c” che suggerisce l’idea deldivenire e della potenzialità può esseresostituita da quella di Weierstrass in cuil’uso di ε e δ mostra l’esigenza di staticità:“Per ogni ε positivo esiste un δ positivotale che per tutti gli x, con

in cui termini chiave della definizione: ogni,esiste, tutti, indicano totalità infinite estatiche non soggette all’inesauribilità deldivenire temporale.Inoltre, anche nella teoria di Weierstrassdei numeri irrazionali, basata sulla nozionedi insieme, le operazioni e le relazioni d’or-dine sono estese ad aggregati infiniti dinumeri razionali e l’’infinità potenziale del-lo sviluppo di cifre dei numeri razionali èracchiusa in un’entità attuale indipenden-te dall’idea di successione temporale.

Il paradiso di Cantor

È però con Cantor35 che l’infinito attualeassume un ruolo importante nella matema-tica.Egli rifiuta l’apriorismo kantiano del tempo,l’apriorismo dello spazio non resiste all’in-venzione delle geometrie non-euclidee, e sta-bilisce la priorità dell’idea del continuo. Lanozione o l’idea di tempo non deve servire lanozione più primitiva del continuo; l’idea deltempo presuppone, per essere chiaramentespiegata, la nozione di continuità, più primi-tiva e generale. Il tempo «non può essereconcepito né oggettivamente come sostan-za, né soggettivamente come idea necessa-ria a priori».La serie dei numeri non deve essere co-struita sull’intuizione dello spazio e deltempo ma deve essere emanazione direttadelle pure leggi del pensiero e non c’è l’esi-genza di un unione inscindibile, nel pen-siero arcaico, tra numero e tempo(Simplicio36).La crisi dell’apriorismo kantiano risulta deci-siva nella matematica di fine ‘800, lo svolger-si di un’aritmetica e di una geometria fuori

dal tempo consente una definizione dell’infi-nito in termini statici che precede una fonda-zione matematica dell’infinito attualeLa svolta arriva con la teoria degli insiemidi Cantor ma alcuni fatti matematici la anti-cipano riproducendo meccanismi di gene-razione di numeri che Cantor chiamerà«transfiniti» .Soprattutto merita di essere ricordato, perl’idea che in esso è espressa, il teorema didu Bois-Reymond37 sulle successioni difunzioni crescenti:«Data una qualunque successionenumerabile38 di funzioni crescentif1(x) < f2(x) < f3(x) <…….< fm(x) <.. …esiste una funzione crescente ed effetti-vamente costruibile f(x) tale chefm(x) <f(x) 39 »

Con questo teorema è assicurata l’esisten-za di funzioni dominanti un infinità poten-ziale di funzioni crescenti.Per esempio, sia n un qualunque numeronaturale, le funzioni

f1(n)=1×n = 1, 2, 3,…….,ν, …f2(n)= 2×n = 2, 4, 6,…….,2ν, …f3(n)= 3×n= 3, 6, 9,…….,3ν, ……….fm(n)=m×n= m×1, m×2, m×3,…….,m×ν, ………..……..costituiscono una successione indefini-ta strettamente crescente, cioè:f1(n) < f2(n) < f3(n) <…….< fm(n) <.. …Allora esiste una funzione che è «maggio-re» di tutte, almeno da un certo termine inpoi, per esempio la successione dei qua-drati dei numeri naturalif(n)=n2=1, 4, 9, 16, ….,ν2,…e si può continuare con una nuova suc-cessione di funzioni:g1(n)=n2=f(n)g2(n)= n3

g3(n)=n4

……………..…………….gm(n)=nm+1

.....................

....................Ma anche in questo caso esiste una fun-zione che è «maggiore» di tutte, almeno daun certo termine in poi, per esempio,g(n)=2n, che può essere generatrice diun’altra successione indefinita di funzionicrescenti maggiorabile da un’ulteriore fun-zione, h(n), anch’essa generatrice di una

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nuova successioneh1(n)=2n=g(n)h2(n) =22n=g(h1(n))………………

...........................In questo modo si ottiene una successio-ne di funzioni

f(n), g(n), h(n),……………..per le quali risulterebbe l’esistenza di unafunzione maggiore di ciascuna di esse.Se da un lato il teorema costituisce il“fatto”matematico per esibire l’infinito at-tuale come evento concreto, ossia l’esi-stenza di una entità che limita un’infinitàpotenziale di oggetti ma a cui non appar-tiene, dall’altro, l’inesauribilità dell’

esclusa dall’indeterminato infi-nito potenziale, si trasferisce, mediante ilmeccanismo di generazione, dall’infinitoall’oltre infinito, cioè al «transfinito».Nel 1883 Cantor ritiene i tempi maturi per l’in-troduzione di una nuova specie di infinito,un infinito perfettamente determinato e dun-que attuale. Ha presente i risultati derivantidall’applicazione del teorema du Bois-Reymond ma la costruzione che egli fa deinumeri «transfiniti» è originale poiché nongiustificata da teoremi o fatti matematici,come nel caso dei numeri reali definiti daDedekind, ma da due principi a priori.È un atto del pensiero che crea i nuovi og-getti della matematica.Egli assume come primo principio di for-mazione quello per la costruzione dei nu-meri naturali finiti per cui si può addiziona-re un’unità ad un numero già formato«La serie dei numeri interi 1,2,3,…ννννν,…deve la sua formazione alla ripetizione ealla riunione di unità che sono prese comepunto di partenza e che sono consideratecome uguali. Il numero í esprime un nu-mero finito determinato di ripetizioni suc-cessive di questo genere, così pure comela riunione delle unità scelte in un’unicatotalità. Il numero dei numeri í della clas-se formata in questo modo è infinito e fratutti questi numeri non c’è uno che sia piùgrande degli altri»Il secondo principio di formazione: «datauna successione qualsiasi di numeri (re-ali) interi definiti, tra i quali non ce ne siauno che sia più grande di tutti gli altri, sipone, basandosi su questo secondo princi-pio di formazione, un nuovo numero che siconsidera come limite dei primi, che è cioè

definito come immediatamente superiorea tutti questi numeri.»« Sarebbe contraddittorio parlare di nu-mero massimo della classe, tuttavia si puòimmaginare un nuovo numero, ωωωωω cheesprime che l’intero insieme è dato in vir-tù della legge nella sua successione natu-rale. Si può anche rappresentarsi il nuovonumero come limite cui tendono i numeriννννν, alla condizione di intendere con ciò cheωωωωω sarà il primo numero intero che segui-rà tutti i numeri ννννν, in modo che occorradichiararlo superiore a tutti i numeri ννννν»40

Associando il numero ω con le unità e ap-plicando il primo principio si costruisconoi numeriω+1, ω+2, ω+3,…, ω+ í+… ω+ω= ω2e ancora conω×2+1, ω2+2, ω×2+3,…, ω×2+ν, ...,ω×2+ω=ω×3 e ancora………………………….ω×2, ω×3, ω×4,….,ω×ω=ω2 eω2+1,…fino ad ottenere la seguente disposizione:1,2,3,…..ω+1, +2, ω+3,… ω+ωω×2, ω×2+1, ω×2+2, ω×2+3,…. ω×2+ωω×3, ω×3+1, ω×3+2,…. ω×3+ω………………………………ω2, ω2+1,…ω2+ω×,ω2+ω×2, ω2+ω×3….ω22+ω,….ω3,…ω4,…….Questi sono i primi numeri transfiniti onumeri della seconda classe numerica,come li definisce Cantor, che si ottengonocontinuando a contare oltre l’ordinario in-finito numerabile, ossia mediante una pro-secuzione del tutto naturale eunivocamente determinata dell’ordinariocontare nel finito.Se , per esempio, si considerano, dal puntodi vista quantitativo , due insiemi infiniti:

1. insieme dei numeri naturali, 1, 2,3,…, n, ...

2. insieme dei numeri reali dell’in-tervallo [0,1]

è possibile dimostrare le proprietà specifi-che dell’ infinito che male si conciliano colsenso comune.L’insieme dei numeri naturali è equipotentesia all’insieme dei numeri interi relativi, maanche a quello dei numeri razionali e all’in-sieme dei numeri algebrici (numeri ottenibili mediante estrazioni di radici). Questiinsiemi, per il fatto di essere equipotenticon l’insieme dei naturali , sono dettinumerabili.Inaspettatamente anche l’insieme dei pun-

ti di un quadrato o di un cubo epersino l’insieme di tutte le fun-zioni continue, dal punto di vistadella quantità non è più grandedell’insieme [0,1].Contrariamente al senso comunenon esiste un unico infinito, gliinsiemi 1. e 2. non sonoequipotenti. Il secondo insiemenon è numerabile, anzi contienepiù elementi del primo insieme, inquesto consiste la svolta concet-tuale provocata da Cantor e cheHilbert giudica con queste paro-le: «Questa mi appare come il fio-re più bello dello spirito mate-matico e in generale una dellepiù alte prestazioni dell’attivitàintellettuale dell’uomo…»41

In questa situazione si pone ilproblema di sapere se con que-sto modo di contare transfinito èpossibile contare anche insiemiche non sono numerabili. In par-ticolare, il «famoso problema delcontinuo posto ma non risolto daCantor», consiste nel domanda-re se i numeri reali di [0,1] possa-no essere contati mediante i nu-meri della seconda classe.Cantor costruisce la teoria dei nu-meri transfiniti e crea un calcolocompleto per essi ma sulla “effetti-va” esistenza dei nuovi oggetti ma-tematici non si pronuncia. Credeche la matematica possa essere svi-luppata in modo autonomo purchésoggetta all’unica condizione del-la non contraddittorietà e dellacoerenza intrinseca dei proprienunciati e separata dalla metafisi-ca. Il problema di “esistenza” èmetafisico e pertanto estraneo agliscopi della matematica. Successi-vamente però è di diverso avviso.Poiché il termine “attuale” coinvol-ge in qualche modo anche la realtàdel mondo esterno egli ritiene cheanche le invenzioni intellettualipossano trovare un corrispettivonella realtà.Per merito del lavoro collettivo diFrege42, Dedekind e Cantor, l’in-finito, raggiunge una «vertigino-sa vetta di successi».Non mancano però le reazioni cheportano alla scoperta di contrad-dizioni, i cosiddetti paradossidella teoria degli insiemi. In parti-colare la contraddizione scoper-ta da Zermelo43 e Russell44 ha un

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Bibliografia essenzialeEuclide Elementi a cura di A.Frajese e M. Maccioni,Torino, Utet, 1970Aristotele, Metaphisic, Gamma (IV), in Opere, vol. II, trad.A. Russ, Roma-Bari, Laterza, 1994Aristotele, Opere, Roma, Laterza, 1995Dedekind, J.W.R., Scritti sui fondamenti della matematica,trad. F. Gana, Napoli, Bibliopolis 1982Carruccio, E., Matematiche elementari da un punto di vistasuperiore, a cura di B. D’Amore, Bologna, Pitagora, 1972Bernard Bolzano (1781-1848) I paradossi dell’infinito,Milano, Cappelli Editore, 1965Zellini, P., Breve storia dell’infinito, Milano, AdelphiEdizioni s.p.a., 19996Rufini, E., Il “metodo di Archimedee le origini del calcoloinfinitesimale nell’antichità, Milano, Biblioteca ScientificaFeltrinelli, 1961Boyer, Carl B., Storia della Matematica, Milano,Mondatorieditore,1980Mangani, N., Relog. Regole logiche nelle dimostrazionimatematiche, Firenze, Libri Liberi, Firenze, 2004

1 Bernard Bolzano(1781-1848)I paradossi dell’infinito, Cappelli Editore, Milano 1965, pag.49

2 Georg,Wilhelm, Friedrich, Hegel (1770-1831)3 Limite in greco è 4 Anassimandro (609-547 a.C.)5 Abitualmente identificato con Pietro Giuliano (1226-1277)6 Aristotele , (384 a.C-322 a.C)7 Aristotele, Phisica, III, 6, 203 b 68 Aristotele, Phisica, III, 6, 203 b 209 Aristotele, Phisica, III, 6, 206 a710 Aristotele, op. cit, 4, 204 a6; 6, 206 a15: Metaphysica, X, 10, 1066 b 111 Secondo Aristotele la linea è una grandezza continua e come tale sempre

divisibile in parti sempre divisibili Metaphysica, IV, 13, 1020 a11; IV, 6,1016, b 24 e non è possibile che possa essere composta di punti nédi parti indivisibili (linee indivisibili) Phisica,VI, 2, 233 b 15; 6, 237, b8; IV, 12, 220, e 30 contrariamente a Senocrate e Platone.

12 Aristotele,Phisica,III, 6, 206 b 3-1313 Aristotele,Phisica,III, 6, 206 b 16-2214 Democrito (460-370 a.C.)15 Epicuro (341-271/270 a:C.)16 Anassagora (496-428 a. C.)17 Antitonte (480-441 a.C.)18 L’argomentazione di Brisone (VI sec. a. C.), contemporaneo e

discepolo di Pitagora, consiste nell’inscrivere nel cerchiosuccessivamente poligoni regolari di 2, 4, 8, .. lati e crede cosìfacendo in continuazione e in questo modo inscrivere un poligonocon i lati abbastanza piccoli da coincidere con l’arco sotteso

19 Problema classico la cui soluzione comporterebbe esprimere π a partiredal raggio, unità di misura, mediante operazioni razionali eestrazioni di radici quadrate. In altre parole π dovrebbe essere unnumero algebrico (soluzione di un’equazione della forma a nx

n+an-1xn-

1+…+a1x+a0=0 con an, an-1,…,a0 numeri razionali)

20 Nel 1882 Carl Louis Ferdinand von Lindemann(1852-1939) dimostrache π è un numero trascendente (non algebrico) e mette fine alla ricercadella soluzione del problema.

21 Zenone di Elea (495 a.C.- 430 a.C.)

Nella tabella sono riportati i nomi di alcuni illustri filosofi e matema-tici che hanno condiviso l’uno o l’altro significato di infinito

22 Eudosso di Cnido (408 a.C.– 355 a.C.)23 Archimede (circa 287 a.C.–212 a.C.)24 Euclide di Alessandria (seconda metà XIII sec.-

inizio XIV sec. a.C.)25 Renè Descartes (1596-1650).26 Marin Mersennus(1588 – 1648)27 Augustin-Louis Cauchy(1789 – 1857)28 Julius, Wilhelm, Richard Dedekind (1831-1936)29 Girard Desargues (1591-1661)30 Gottfried, Wilhelm von Leibniz (1646-1716)31 Karl Weierstrass (1815-1897)32 Si possa stabilire una relazione d’ordine.33 Libro V 5a definizione conosciuta anche come il postulato di

Archimede: due grandezze diseguali sono tali che esiste unmultiplo della minore che supera la maggiore.

34 Un infinitesimo è una grandezza non archimedea in quanto unqualsiasi multiplo rimane minore di una qualunque grandezzafinita assegnata. Il postulato esclude l’esistenza di infinitesimi.

35 George Cantor (1845-1918)36 Simplicio (attivo verso il 520 d.C.)37 du Bois-Reymond, Emile. (Berlino 1818-1896)38 U insieme infinito è numerabile se è in corrispondenza

biunivoca con l’insieme dei numeri interi positivi o naturali39 Per tutti gli m40 Foundements d’une théorie générale des ensembles, in «Acta

mathematica» 2, 188341 David Hilbert, Ricerche sui fondamenti della matematica, a

cura di M. Abrusci, Napoli, Bibliopolis, 1985,pag 23942 Gottlob Frege (1848-1925)43 Ernst, Friedrich, Ferdinand Zermelo (1871-1953)44 Bertrand, Arthur, William Russell (1872-1970)45 Jules-Henri Poincaré (1854-1912)46 Carl, Friedrich Gauss (1777-1855)47 Leopold Kronecher (1823-1891)48 Luitzen, Egbertus Brower (1881-1066)49 David Hilbert Ricerche sui fondamenti della matematica, op. cit

pag.242.

Note:

effetto catastrofico nel mondo matematico. Di fronte a queste contraddizioni Dedekind e Frege abbandonano di fatto le loroposizioni e rinunciano. Contro la teoria di Cantor sono indirizzati, da parti più diverse, violenti attacchi, e consigliati i piùsvariati rimedi. Poincaré45 nella controversia con Russell, sostiene la tesi che la causa delle antinomie derivanti dalla teoriadegli insiemi è da ricercarsi nell’assunzione di insiemi attualmente infiniti. Gauss46 pensa che nella matematica non si puòparlare di un infinito completato e Kronecher47 conduce una campagna contro il programma cantoriano. Brower48, massimoesponente della corrente dell’ intuizionismo, nella sua prolusione all’università di Amsterdam, ammette che lo sviluppo dellageometria non-euclidea ha screditato la concezione kantiana dello spazio ma che l’aritmetica e con essa tutta la matematicadeve essere derivata dall’intuizione del tempo. Hilbert ritiene insopportabile la condizione in cui si trovano i matematici di fronte alle contraddizioni e ipotizza la via perevitarle senza però rinunciare ai risultati raggiunti da Cantor:«Dal paradiso che Cantor ha creato per noi, nessuno deve poterci mai scacciare.».49 ◊◊◊◊◊

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Il poliedrico mondo di Ipazia d’AlessandriaDoria Polli

“E il fanatismo è infido, travolge chi vi si affidanon meno di chi vi si scontra” (da Libro di Ipazia di M. Luzi)

Un modo per accostarsi alla conoscenza ditale donna è proprio quello di leggere il ro-manzo citato sopra, perché ci offre un’ap-passionante ricostruzione di una parte del-la vita di Ipazia, dal I Luglio del 391 d.C.all’8 marzo del 415 d.C., giorno funesto perIpazia e per la stessaricerca scientifica delmondo antico. Le pa-gine di questo libro cifanno percorrere le viedi Alessandria d’Egit-to tra la fine del IV edinizio V secolo d. C. escoprirne celebri luo-ghi, come già indicatodai titoli delle tre diver-se parti in cui il testo èsuddiviso: La Biblio-teca e il Serapeo; IlCentro studi in via delSole; la cupola neradel Cesareo. Il fasci-no di Alessandriad’Egitto, al tempo deltramonto di un’epoca,traspare continuamen-te dall’intersecarsi del-le sue strade e dei suoicelebri palazzi descrit-ti nella loro progressi-va rovina, nel conti-nuo avvicendarsi diluce, talora sfolgoran-te, e tenebre che li av-volgono, in un’atmo-sfera che diviene sem-pre più cupa; ma l’in-canto è offerto dalletracce di quel crogiolodi lingue e culture di-verse che lì si eranoincon-trate e contaminatenel generare nuovimodi di convivenza,

DETERMINISMOdi Massimo Bartoli

Voce secondo cui qualunque effetto,è sempre provocato da un motivo.E il mondo dice, è all’ordine perfettodi un suo fattore determinativo.Così per soddisfare l’intellettodell’uomo dal sapere volitivo,esprime quella legge universaleappunto del preambolo causale.

Insomma tutto quello che succede,è sempre e in ogni forma necessario.E il mondo, e tutto quello che si vedeè un solo gigantesco macchinario.Perciò che dal seicento l’uomo diedela vita al suo famoso corollario:Le cose stanno tutte in relazione,tra loro e in matematica funzione.

Rispose bene allora a quelle scienze,di indagine sul mondo naturale.Di indagine sui nessi e dipendenzeper mezzo della via sperimentale.Ma lo sviluppo delle conoscenzepiù tardi lo piegò proprio a star male:al mondo non esiste l’immutabile,ma solo la certezza del probabile1.

1La Meccanica quantistica

Incontrai Ipazia nel 1991-2 durante lalettura, in classe, delle Città invisibilidi I. Calvino: di Ipazia, quarta città della

sezione “le città e i segni”, sottolineai concura il passo “I segni formano una lingua,ma non quella che credi di conoscere”1. Ame ed ai miei studenti di allora Ipazia diCalvino suggerì cautela, consapevolezzadei limiti di ogni nostra conoscenza, maanche coraggio ed entusiasmo, necessitàdi continuo spostamento di punto di vista,o meglio confronto per pervenire ad unqualche risultato e quindi ripartire per nuoviluoghi in senso lato, facendo tesoro puredello scacco, delle sconfitte.Rincontrai Ipazia, come personaggio stori-co, nel dicembre 2005 ad una serie di incon-tri su Città reale/città possibile, promossidalla Libera Università di donne e uominiIpazia, nata dalla collaborazione fra l’As-sociazione Rosa Luxemburg e il Giardinodei Ciliegi. In tale occasione conobbi il te-sto Ipazia, scienziata alessandrina, 8 mar-zo 415 d. C., di A. Petta e A. Colavito2. Que-sto avvincente romanzo storico, che si svi-luppa secondo due percorsi strettamentelegati ma distinti, perché l’uno riguarda lavicenda biografica di Ipazia ricostruita sto-ricamente, l’altro privilegia il pensiero, gliinsegnamenti di questa donna scienziata,mi ha indotto a continuare a leggere altreopere che la riguardano, appartenenti adambiti e periodi diversi, che pure consen-tono di comprendere quanto il mondo diIpazia fosse poliedrico, e dunque capacedi interessare filosofi, scienziati, storici,pittori e letterati. Anche solo per questo,in quanto argomento capace di attrarre in-dagini di saperi diversi, in occasione di unnumero della nostra rivista dedicato prin-cipalmente a temi di carattere scientifico,mi è sembrato che Ipazia meritasse un po’di spazio, ma soprattutto perché la sua stes-sa vicenda di donna scienziata ci ricorda ilfaticoso e doloroso cammino della libertàdi pensiero.

capaci di muoversi secondoun’ottica trasversale non tollera-bile da chi deteneva il potere: ilpotere predilige una configurazio-ne verticale capace di controllarequanto si agita in basso, nelle vie,

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nelle piazze e induce a cercare luo-ghi nascosti per continuare a stu-diare, costringe alla solitudine, im-paurisce fino ad aggredire ed uc-cidere, come è successo ad unadonna che era riuscita ad intra-prendere nuove strade conosciti-ve, sul tracciato del pensiero filo-sofico greco. Ipazia, una delle prime donne discienza, è stata violentata ed uc-cisa ed il suo stesso cadavere èstato fatto a pezzi, perché la suamorte fosse di monito ai suoi stes-si discepoli e/o perché non ne re-stasse memoria alcuna, secondodiverse interpretazioni.I suoi studi si collocano entrola linea della tradizione matema-tico-astronomica di Alessandriae del Neoplatonismo logico, matutti i suoi scritti sono andatiperduti. Nata nel 370 d. C., figliadi Teone, un matematico eastronomo del Museo, venneavviata allo studio dallo stessopadre, cui probabilmente offrìforte collaborazione nella stesu-ra di un commento all’Almage-sto di Tolomeo e per l’edizionedelle Opere di Euclide; le ven-gono anche attribuiti un com-mento all’Aritmetica di Diofan-to, un trattato Sulle coniche diApollonio, un matematicoalessandrino del III sec. d. C..Ipazia ci è nota grazie in parti-colare alle lettere a lei indirizza-te da parte del suo discepoloSinesio di Cirene, divenuto poivescovo di Tolemaide. Numero-se sono le testimonianze indi-rette da parte di storici a lei con-temporanei: la sua vita si è svol-ta in un periodo di decadenzadell’Impero, ormai diviso, sem-pre più esposto alle invasioni,in cui il Cristianesimo andavadiffondendosi ma anche cristal-lizzandosi in religione di statoed in dispute teologiche, fino acostituire un patrimoniodottrinale di cui lo stesso ve-scovo Ambrogio di Milano siservì per sostenere la suprema-

zia dell’autorità spirituale su quella tem-porale. Non era trascorso nemmeno unsecolo dal celebre Editto del 313 con cuiCostantino riconoscendo la libertà diculto ai cristiani stabiliva la fine delle tre-mende persecuzioni e la restituzione deibeni loro confiscati, ed ancor meno tem-po era trascorso dal tentativo di un ritor-no al paganesimo sotto l’imperatore Giu-liano, quando l’imperatore Teodosio,indotto dal vescovo Ambrogio a fareammenda pubblica per il massacro dellapopolazione di Tessalonica del 390, ema-nò poi tutta una serie di decreti per ren-dere il cristianesimo religione di Stato eper vietare i culti pagani ed ebraici. Tali

misure ebbero le loro ripercussioni an-che nei territori provinciali, dove il pote-re dei vescovi andò via via rafforzando-si: ad Alessandria il vescovo Teofilo or-dinò la distruzione del Serapeo. La storiadi Ipazia si inserisce in questa intricatatrama di vicende.Mentre alle sue lezioni affluivano pagani,ebrei e cristiani, il criterio dei potenti eraquello fin troppo noto del ‘divide et impera’da un lato, dall’altro, consapevoli dell’im-portanza della conoscenza quale instrumen-tum regni, cercarono di imbrigliarla ed as-soggettarla ai loro disegni, senza per altroriuscirvi e quindi ricorsero alla violenza.

“Sembra che Ipazia, sempre a seconda diSinesio, svolgesse il suo insegnamento, di-stinguendo il piano più strettamente reli-gioso-privato, dal piano logico-scientifico,in una ricerca che non concedeva nulla atutto ciò che potesse avere sapore di dog-ma(…).”3 Gli stessi autori del romanzo sto-rico a lei dedicato così la fanno parlare nelrivolgersi al vescovo Teofilo. “Non esisteuno scontro tra Scienza e Religione. Esisteun’avversità, non voglio dire da parte delcristianesimo, ma da parte di alcuni suoirappresentanti nei riguardi della Scienza.”4

Ed ancora: “la Scienza unisce gli uomini, epuò aiutare a unire i popoli, e può contribu-ire alla diffusione del messaggio d’amore diCristo.In questo Centro Studi siamo pagani, ebrei,cristiani, uomini, donne, di qualunque con-dizione sociale. Sette secoli fa, ad Atene,nel giardino di Epicuro, alla sua scuola dovesi studiava proprio l’atomismo, vennero am-messe donne e schiavi, più o meno di paricondizione (…). Il ruolo della donna non èstato scritto da Dio, ma da uomini come te,patriarca. La donna si è quasi sempre vistanegare l’accesso al sapere e alle scienze,alle scuole, alle accademie, alle biblioteche,ai centri studi. Tu sai perfettamente che chidetiene la conoscenza, detiene un potere.Tu hai paura della mia scienza, di quelloche ho imparato e di quello che imparerò.Perché quello che io sto scoprendo puòmettere in pericolo la tua posizione di ve-scovo e patriarca.”5

Se i rapporti di Ipazia con l’autorità reli-giosa divennero sempre più tesi, complessifurono quelli con l’autorità politica, tantopiù che essa “era la portavoce dell’aristo-crazia cittadina presso i rappresentanti delgoverno centrale romano e in particolarepresso Oreste d’Egitto.”6

Morto Teodosio, i suoi successori conti-nuarono nell’azione da lui intrapresa di chiu-dere tutti i templi pagani, Ipazia pure conti-nuò ad insegnare “a dubitare, a disobbedi-re… non a credere e obbedire!”7 Continuòa costruire e perfezionare importanti stru-menti, come un astrolabio, un idroscopioed un aerometro; sul finire del 414 ottennequalche sovvenzione da parte dell’autoritàimperiale di Costantinopoli per il suo Cen-tro Studi, ma ad Alessandria, nel 412, al ve-scovo Teofilo successe Cirillo, “fanatico mi-litante della cristianità, che si pose in aper-

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note

“Tempo di tolleranza da coniugarsi al passato-al passato, temo, irreversibile-quando tutto poteva convivere.La città era famosa per questo.

La differenza qui perdeva le unghie.Uomini, navi e mercanzie,fogge, pratiche, costumi

e credenze e dottrine di ogni nazione,questa linfa le correva nel sangue,

le scoppiava in gemme, in fioriture perenni..”11

(…)“Il fanatismo le ha cambiato volto, la deforma in tutte

le ossa.”12

(…)“Bruciano libri,

distruggono le statue, devastano i templi.”13

Ed in questa città sempre più devastata,

“Ipazia è una forza non consumata,un dente non eroso dall’attrito. Inoltre ne è consapevole.”14

(…)“Ipazia insiste, non so se per sola imprudenza,

a far gente ai crocicchi, a eccitare e sferzare lamoltitudine

inseguendo quel sogno con discorsi che pochicapiscono” (…)

“Essa vede lontano. Promana una luce di aurorada quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo.”15

1 Cfr. I. Calvino, Le città invisibili,1977,Torino, Einaudi, pp.53-4.2 Cfr. A. Petta e A. Colavito, Ipazia, scienziataalessandrina, 8 marzo 415 d. C., 2004, Milano, Lampi di stampa: il testo è corredato daun’ampia bibliografia.3 Cfr. F. Adorno, La filosofia antica, vol. 2,Milano, Feltrinelli, p. 704.4 Cfr. A. Petta e A. Colavito, op. cit., p. 64.5 ibidem.6 Cfr. S. Ronchey, Ipazia , l’intellettuale, inRoma al Femminile, (a cura diA.Fraschetti),1994, Bari, Laterza, p.216.Anche questo testo contiene una Nota

bibliografica assai ben documentata chepermette di avviare uno studio approfonditocirca le diverse fonti ed interpretazioni diIpazia.7 Cfr. A. Petta e A. Colavito, op. cit., p. 217.8 Cfr. M. Alic, L’eredità di Ipazia, trad. it. di D.Minerva, Roma, Editori Riuniti, p. 65.9 Cfr. G. Leopardi M. Hack, Storiadell’astronomia, dalle origini al duemila eoltre, Roma, Edizioni dell’Altana, p. 157.10 Cfr. M-Luzi, Libro di Ipazia, 1993, Milano,Garzanti.11 op. cit. p. 12.12 op.cit. p.13.

13 cfr. op. cit., p. 19.14 op. cit., p. 30.15 op. cit., p. 31.

16 op. cit., p. 18.17 op. cit., p. 40.18 op. cit., p. 47.19 op. cit., p. 49.

ta ostilità con Oreste, prefetto romanod’Egitto e da tempo amico e discepolo diIpazia.”8 Cirillo perseguitò gli ebrei control’opposizione di Oreste che venne accusa-to di averli sostenuti contro i cristiani, eche inutilmente cercò di convincere Ipaziaad allontanarsi da Alessandria. Ipazia nonrinunciò alla battaglia combattuta tutta unavita, alla sua libertà di pensiero e vennepertanto massacrata ed uccisa dai monacifanatici guidati da un tal Pietro lettore dellaChiesa del vescovo Cirillo, più noto cometeologo e proclamato, per le sue dottrine,dottore della Chiesa.L’uccisione di Ipazia è rimasta impunita el’intera vicenda ha ispirato autori che nehanno dato tante diverse interpretazioni: im-possibile, in tale sede, ricordarle tutte. Ilnostro Leopardi, giovanissimo, nella suaStoria dell’Astronomia, così la ricorda:“Questa fece sì grandi progressi nelle scien-ze, ed in particolare nell’Astronomia: chefu tenuta per la più dotta persona del suotempo. Compose vari trattati di Matemati-ca, che disgraziatamente si sono smarriti.Venne crudelmente massacrata perchécredevasi che ella impedisse la riconcilia-zione di S. Cirillo con Oreste governatoredella città, o come vuole Esichio Milesio, acagione della invidia, che contro di lei ave-va suscitata la sua perizia in particolarenelle cose atronomiche.”9

Per restare in Italia, in particolare nella no-stra città, non posso non ricordare almenoil testo teatrale di M. Luzi, Libro di Ipazia.10

Anche in quest’opera emerge con forza ilcontrasto tra un solare passato di un’Ales-sandria d’Egitto, perché luogo di incontro,studio e confronto, e un cupo periodo diun’Alessandria in preda ai divieti, agli in-cendi e distruzioni fino alla morte di Ipazia.

Svolge dunque instancabilmente la suafunzione socratica per le strade ed èproprio questo che incute timore ai po-tenti: da sempre non possono tollerareche la conoscenza si diffonda, si facciaappunto strada, arrivi alle moltitudini;quando questo accade talora scendonoa patti, altre volte ricorrono alla loroforza distruttiva e colpiscono, fino aduccidere.

“..com’è proteiforme il potere e com’è sempre identico a se

stesso.”16

Inutile che la stessa Ipazia riba-disca il suo intento pacifico:

“Non siamo noi che portiamo la guerra.E’ una parola di pace vera la nostra.Se provoca clamore e scandalo, è

necessaria lo stesso.”17

Nel Libro di Luzi l’uccisione diIpazia, le cui sole armi erano quel-le della conoscenza, non ci vie-ne descritta, ma solo dichiaratanella sua orribile crudeltà:

“Ipazia è morta. Uccisa. Il modo è anchepiù crudele,

ma, ti prego, non chiedermi altro.”18

Poche pagine dopo ci ricorda:

“Così finisce il sogno della ragione ellenica.Così, sul pavimento di Cristo.”19

Ci lascia quindi un monito con-tro ogni tipo di fanatismo di-struttivo ed omicida, tanto piùche la tragica vicenda di Ipaziadel marzo del 415 d. C. accaddea distanza di circa un secolo daun’altra tragica morte, nel 307,quella di Caterina: una martirecristiana, anche lei studiosa diAlessandria, soprattutto di filo-sofia, (secondo la tradizione)tanto da essere stata resapatrona della stessa facoltà diFilosofia dell’Università di Pa-rigi. ◊◊◊◊◊

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Le lezioni di anatomia in età modernafra arte e scienza

Fabio Sottili

Ametà del settecento, nella Napoli borbonica, il principe Raimondo di Sansevero, nobile eccentrico, curioso, esperimentatore, fu forse il primo a riuscire nella difficile operazione di rappresentare il sistema venoso umano. Isuoi contemporanei sostenevano che tale risultato fosse stato ottenuto iniettando sostanze sclerotizzanti in uomi-

ni vivi, ma pare che ricerche condotte in tal campo neghino l’accusa, e portino le sue ricerche all’interno dellosperimentalismo iniziatico dell’epoca. La stessa cappella Sansevero di Sangro (fig. 1) nella quale sono conservate le

figure umane ricostruite dal principe napoletano, è unvero e proprio scrigno tardo barocco, nel quale domina alcentro l’anatomia perfetta del marmoreo Cristo morto diGiuseppe Sammartino (1753), avvolto virtuosisticamenteda un velo trasparente (fig. 2).Il risultato al quale era arrivato il nobile partenopeo avevaavuto i suoi inizi dallo studio del corpo umano, nei primisecoli della nostra era, con Galeno, un medico di Perga-mo, nell’Asia Minore, che operò nel II secolo D. C., racco-gliendo il risultato delle ricerche condotte dagli antichiegizi, greci, etruschi e romani. Un altro grande contributoarrivò, successivamente, sempre dall’oriente, conAvicenna, il più importante medico della fine del primomillennio, nato in Persia, a Bukhara, luogo famoso anco-ra oggi per la realizzazione di tappeti. La cultura araba,infatti, giocò un ruolo fondamentale nella scienza medie-vale del mondo occidentale.A cavallo dell’anno Mille prese avvio la prima importantescuola di medicina, quella di Salerno, che riassumeva insé le conoscenze degli antichi, con quelle recenti, prove-

nienti dall’altra sponda del Mediterraneo: gli studi anatomici vennero ripresi con sezioni di animali e di cadaveri umani,fino ad arrivare all’imperatore Federico II che promulgò una legge, che vietava l’esercizio della medicina a chiunquefosse profano di esperienze anatomiche dirette sul cor-po dell’uomo.Con Mondino de’ Luzzi (1270-1326), laureatosi a Bolo-gna nel 1290, l’osservazione del corpo umano diventòdiretta, svolgendo lezioni sopra i cadaveri, come giàne erano state fatte ad Alessandria d’Egitto oltre unmillennio prima; nel 1316 scrisse un testo base dianatomia, intitolato “Anathomia Mundini”, edito decinedi volte, nel quale si afferma che le viscere devonoessere ritenute le fondamenta della stabilità del corpoumano, e non il sistema scheletrico.Nel rinascimento l’arte riscopre le citazioni più antichedi epoca greco-romana, insieme agli scritti di Galeno,nei quali la concezione del corpo si basava sullo sche-letro come asse portante della struttura umana. Di-venne sostanziale il rapporto fra ricerca artistica e ri-cerca medica nel campo dell’anatomia, com’èravvisabile nel disegno raffigurante la Battaglia degliignudi di Antonio del Pollaiolo (1470).Mentre nelle università fioriva l’indagine anatomica,pittori, disegnatori e scultori studiavano essi stessi leparticolarità anatomiche sui cadaveri. Piero della Fran-cesca, Andrea Verrocchio, Luca Signorelli, Antonio delPollaiolo e Andrea Mantegna conobbero profondamen-te l’anatomia; Benvenuto Cellini partecipava, secondo quanto racconta egli stesso nella sua autobiografia, alle dissezio-ni di Vido Vidi e di Berengario da Carpi.

Fig. 1 - Napoli, Cappella Sansevero di Sangro

Fig. 2 - Giuseppe Sammartino, Cristo morto (1753), Napoli, Cappella Sansevero di Sangro

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Fu Leonardo da Vinci, però, con i celeberrimi disegni di anatomia del cosiddetto “CodiceWindsor” (fig. 3), a evidenziare quanto l’indagine sperimentale da lui condotta sulla naturafosse un percorso parallelo, sia nell’arte, che nella scienza, perché l’arte veniva considera-ta area di indagine, tanto quanto la medicina. Il disegno artistico serviva a spiegare i risultatiottenuti in campo scientifico, ed a comprendere meglio l’indagine sperimentale da lui pro-mulgata, che andava contro il pensiero neoplatonico allora egemone.Mosso dal duplice amore della conoscenza e del bello, si fece anatomista, compiendo ladissezione di una trentina di cadaveri maschili e femminili, e fissò sulla carta note e dise-gni, che ci fanno comprendere la profondità della sua visuale di scienziato e di artista. Aquesti studi desistette solo quando, denunciato alla corte di papa Leone X come profanatoredi corpi umani, gli fu vietato l’accesso all’Ospedale di S. Spirito, dove abitualmente si recavaper le sue dissezioni.I disegni del codice Windsor, al contempo modelli di bellezza e di esattezza scientifica,

testimoniano la potenza di osservazione del grande maestro anche in questa scienza, a cui egli avrebbe inteso dar formaattraverso un trattato di anatomia umana, di anatomia comparata e di fisiologia di ben centoventi libri, mai attuato.Nella qualità tecnica del disegno maniacale di Leonardo si possono trovare assonanze con le ricerche sulle proporzioniumane dell’artista tedesco Albrecht Dürer, pubblicate fra il 1510 ed il 1515 nel trattato “Della simmetria de’ corpi umani”:entrambi tendevano al rispetto del foglio di carta, e dell’impostazione grafica ed estetica totale, con un equilibrio fra idisegni e la perfezione della calligrafia.Nel cinquecento i dottori tentarono sempre più di visualizzare temi, che, né l’esposizione verbale, né la descrizione scrittaavrebbero reso con la stessa efficacia.Nacque così il disegno dal vero, sussidio fondamentale per lacomprensione e la memorizzazione. La stretta collaborazione dianatomisti, artisti, incisori, e tipografi permise la creazione diopere didatticamente efficaci e artisticamente significative.La prima rivoluzione nel campo dei testi di divulgazione scienti-fica sull’anatomia umana avvenne nel 1543 con il “De humanicorporis fabrica”, opera di Andrea Vesalio (1514-1564), al qualesi deve l’inizio della grande scuola di anatomia dell’Università diPadova, ed al quale spetta il merito di aver compreso la straordi-naria importanza scientifica delle tavole anatomiche, perfetta-mente disegnate per i medici e gli studenti.La sua fondamentale opera sull’anatomia, composta da settelibri, proponeva una riscrittura complessiva dell’anatomia uma-na, ed era arricchita da stupende incisioni del fiammingo Gio-vanni Stefano Calcar, allievo di Tiziano, così magistralmente di-segnate, da essere ritenute a lungo, da alcuni studiosi, di manodello stesso Vecellio. Si tratta di immagini di stampo prettamentemanierista, dove scheletri assumono pose artistiche e filosofi-che, ma che dimostrano al contempo una conoscenza incredi-bilmente articolata del corpo umano, cervello compreso.Fin dal XVI secolo furono in uso le cosiddette “dissezioni di car-ta”: sollevando il foglio di superficie, che mostra le parti esternedel corpo, si aprivano le cavità, evidenziando gli organi mobili,ritagliati in carta, che potevano essere collocati al loro postonell’ordine anatomico o su fogli volanti, o su volumi. Lo stessoVesalio utilizzò questo espediente; ci sono infatti pervenuti foglivolanti di organi intercambiabili da lui stesso elaborati.Dopo la Controriforma il corpo umano all’interno delle pubblicazioni scientifiche diventò ricettacolo di indicazioni etichesul comportamento, e sul significato morale che ciascuna parte del corpo doveva racchiudere.Agli inizi dell’epoca barocca apparve il volume “Monstrorum historia”, scritto dallo scienziato bolognese Ulisse Aldrovandi(1522-1605), e pubblicato postumo nel 1642, fondamentale per una visione dello studio dell’anatomia che si concentrasugli aspetti più curiosi o mai visti, secondo il più puro spirito seicentesco, poiché si punta l’attenzione su corpi affetti dadeformazioni, esseri bizzarri e donne pelose.Ma l’anatomista più rappresentativo in Italia nei primi anni del XVII secolo fu Girolamo Fabrizi di Acquapendente (1565-1616), filosofo e medico, professore all’Università di Padova. Il suo testo “De locutione et eius instrumentis” (1601)contiene tavole anatomiche che sono degli autentici capolavori artistici nel migliore gusto chiaroscurale seicentesco. Lasua indagine è totale, sia nel campo animale, che in quello umano, studiandolo alla perfezione.Negli anni di Fabrizi da Acquapendente, Padova era l’Università di Medicina più importante d’Europa, ed in quella sede, nel1594, da Paolo Sarpi venne costruito il Teatro Anatomico, una grande sala con una struttura in legno, costruita probabilmenteda maestri d’ascia veneziani in uno stile che recupera l’estetica cinquecentesca della capitale lagunare (fig. 4).

Fig. 3 - Leonardo da Vinci,Testa maschile,dal Codice Windsor

Fig. 4 - Padova, Teatro Anatomico

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È composto da sette ordini di forma ellissoidale, che servivano acontenere 250 studenti, i quali, proprio come in un teatro per spet-tacoli, guardavano dall’alto l’operazione di dissezione dei cadave-ri, operata dai docenti universitari, che così insegnavano l’anato-mia del corpo umano. Al centro il tavolo operatorio era il fulcrodella vasta sala, sulla quale dominava lo scranno del professore:da questo posto, dal 1715 fino alla sua morte, insegnòGiovanbattista Morgagni, fondatore dell’anatomia patologica, chia-mato “Sua Maestà Anatomica”, perché fu il più famoso medicoanatomista del XVIII secolo. Nel XIX secolo, per evitare sgradevoliproblemi olfattivi, la parte bassa fu chiusa e fu previsto un mecca-nismo elevatore per poter portare il cadavere nell’aula, trasfor-mando così il progetto originario che prevedeva un letto al centrodella cavea.Nell’Archiginnasio di Bologna troviamo un altro Teatro Anatomico,costruito quarant’anni dopo di quello di Padova (1637); distruttodurante l’ultimo conflitto mondiale, è stato ricostruito recuperandole settecentesche statue degli “Scorticati” di Ercole Lelli (fig. 5).Come in quello di Padova, anche in questa aula gli studenti sede-vano su delle gradinate concentriche; il professore, detto il Letto-re, era seduto sul seggio più alto, e sotto di lui stava in piedil’Ostensore, che, con una pertica, indicava le parti del corpo dasezionare al barbiere, detto il Cerusico, il quale, davanti al tavolocentrale di marmo, eseguiva manualmente la dissezione del ca-davere. Anche questa struttura di Bologna è interamente in legno,ed è arricchita, alle pareti, dalle sculture del Lelli, alle quali hoaccennato precedentemente, dove si evidenzia, insieme alla ri-cerca della bellezza fisica e della precisione anatomica, anche illato ironico e fantasmagorico, tipico della città felsinea.Ercole Lelli (1700-1766) fu uno dei maggiori ceroplasti italiani delsettecento, che, collaborando con gli anatomisti Giovanni Manzolini e Anna Morandi (moglie di quest’ultimo), fondò unadelle scuole più straordinarie di ceroplastica, nella quale si elaborarono strepitosi materiali didattici in cera, secondo lanuova visione dell’anatomia, promossa dal papato illuminato di Benedetto XIV. Fu grazie alle sue cere, alle statuemiologiche in legno e in bronzo, e all’opera pubblicata postuma “Anatomia esterna del corpo umano per uso delli pittori

e scultori”, della quale fu autore ed illustratore, che riuscì a tenere alto il presti-gio dell’alleanza tra arte e anatomia.Una volta sciolto il veto sullo studio dei cadaveri nei Paesi Bassi, Germania eFrancia, anche gli artisti di quei paesi poterono assistere alle pubbliche lezionidi anatomia, che si svolgevano in sale appositamente create, come il teatroanatomico di Leida.Così, vari pittori, soprattutto di ambito fiammingo, si cimentarono nella raffigu-razione delle lezioni di anatomia, sintomo anche del raggiunto stato socialedel medico e dell’importanza sempre maggiore che la medicina aveva assun-to successivamente al rinascimento.Pochi anni dopo la costruzione del Teatro Anatomico di Padova, nel 1632,Rembrandt, il più innovativo pittore dei Paesi Bassi settentrionali, dipinse Lalezione di anatomia del professor Tulp (fig. 6). L’artista era stato studenteall’Università di Leida, e conosceva medici ed anatomici, presso i quali sirecava ad assistere alle dissezioni, forse obbedendo alla moda, la quale ri-chiamava in quell’epoca davanti al tavolo chirurgico ricchi, nobili, e curiosi.Il dottor Nicolaes Tulp, primo anatomista della gilda dei chirurghi di Amsterdam,nel gennaio di quell’anno tenne una lezione pubblica sulla conformazione del

braccio, sezionando il cadavere di un giustiziato. Quest’ultimo nel dipinto viene raffigurato con un pallore spettrale,accentuato anche dalla dominanza dei toni bruni e neri del fondo e degli abiti, seguendo la caratteristica del rapportoluce-ombra della pittura naturalistica caravaggesca che nei primi decenni del seicento dominava la scena artisticaeuropea.La disposizione obliqua del cadavere sul tavolo anatomico crea movimento e coinvolgimento con lo spettatore, maancor più grazie ai ritratti rubicondi dei membri della corporazione che stanno assistendo alla lezione, attraverso iquali Rembrandt riesce ad individuare le loro personalità e la loro vivezza, superando il rischio dell’ufficialità e dellamonotonia, e diventando, pertanto, emblemi di una vita vera intorno alla morte, e simbolo di una società moderna,pulsante, ed organizzata.

Fig. 5 - Bologna, Teatro Anatomico

Fig. 6 - Rembrandt Van Rijn, La lezione di anatomia del professor Tulp, 1632

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Purtroppo di un’altra scena anatomica dipinta da Rembrandt, quella che rap-presenta il dottor Deyman, non è rimasta che una parte, salvatasi da unincendio.Ben diversa è la situazione nel dipinto La lezione di anatomia del dottorEgbertsz di Aert Pietersz (fig. 7), nel quale si evidenza la voglia degli spettatoridi partecipare alla scena, poiché il cadavere e l’anatomista non sono i veriprotagonisti dell’opera, ma i medici che assistono alla lezione, e che perpoter avere un posto nel dipinto pagavano una cospicua cifra, facendo per-tanto diventare la tela un’immagine ufficiale e priva di espressività.L’iconografia della “lezione di anatomia” si ritrova anche nella cultura

sperimentatrice ed enciclopedica del settecento, come è esemplificato nell’opera La lezione di anatomia del professorRoëll del pittore olandese Cornelis Troost (fig. 8), dove con maggior crudezza si raffigura l’articolazione di un ginocchio,intorno a dottori dalle pose manierate.L’insegnamento dal vero, però, era difficile, sia per il reperimentodi cadaveri per autopsie, sia per la possibilità di conservare neltempo i reperti anatomici.Iniziarono quindi ricerche per solidificare e rendere maneggevoli leparti anatomiche: i metodi maggiormente usati furono l’essicca-zione e la colorazione.Ci furono anche anatomisti che, dopo aver ottenuto buoni risultati, nonne divulgarono i segreti, o li descrissero in modo così vago da nonpoter essere trasmessi. Il processo di conservazione dei preparatisecchi provocava la riduzione di volume del preparato stesso: nonessendo immersi in un liquido atto a conservarli, inevitabilmente ilraggrinzimento ne provocava la deformazione.Pertanto, insieme ai testi scientifici e alle dissezioni dei cadaveri,la produzione di oggetti plastici in legno, terracotta e cera, che ri-producevano figure umane ed organi animali e umani, divennesempre più diffusa come materiale didattico fra XVII e XVIII secolo.Furono anche costruite statue anatomiche smontabili in legno a grandezza naturale. Di quelle settecentesche fatteeseguire da Felice Fontana a Firenze, nel Museo di Fisica e Storia Naturale, solo due sono sopravvissute: una si trovaattualmente al Museo Zoologico “La Specola”, l’altra al Museo di Storia della Medicina di Parigi.La cera, comunque, si dimostrò sempre più un materiale particolarmente adatto per riprodurre le immagini dal vero, perchéestremamente duttile, colorabile, economico, e soprattutto qualitativamente simile alla materia che voleva imitare.

La scuola degli “Scorticati” iniziò nel ‘600, ed ebbe degli esitieccellenti non soltanto a Bologna, ma anche nella Firenzegranducale, dove operava l’abate Giulio Gaetano Zumbo (1665-1701), rinomato ceroplasta siciliano.Allo Zumbo si devono quattro gruppi simbolici, le cosiddette “Pe-sti”, rappresentazioni di epidemie diverse, conservate al Museodella Specola di Firenze, intitolate Il Teatro della Peste, Il Trionfodel Tempo, La Corruzione dei Corpi, La Sifilide (fig. 9), con ripro-duzioni delle varie fasi di decomposizione di corpi umani ma-schili e femminili, che, atteggiati in pose affettate dimichelangiolesca memoria, mostrano un gusto realistico forte-mente impressionante, tipico del barocco gesuitico, anche senon propongono un fine ed un trionfo cristiani, ma soltanto un’os-servazione del fenomeno coraggiosamente distaccata e tecni-camente analitica.I gruppi suddetti, realizzati a Firenze fra il 1691 ed il 1694, furono

patrocinati dal clima creato nella corte di Cosimo III de’ Medici dalla letteratura di scrittori gesuiti, e dal gusto del granduca, ilquale, ad esempio, proprio nel 1693, aveva ordinato a Giuseppe Nasini gli affreschi dei Quattro Novissimi in Palazzo Pitti, oggiscomparsi, contenenti la rappresentazione di corpi in disfacimento.I riferimenti artistici dello Zumbo furono quelli tipici di un artista aggiornato della sua epoca, vale a dire Michelangelo,Caravaggio, Mattia Preti, Poussin, i berniniani, ma anche la scultura greca di stampo ellenistico.L’interesse sempre maggiore del ceroplasta siciliano per una scultura costruita sull’anatomia del cadavere umano,forse spinto verso un’arte “scientifica” dal medico aretino Francesco Redi che in quegli anni proseguiva i suoi esperi-menti sulla decomposizione, lo portò alla decisione di recarsi a Bologna, il centro più importante per l’anatomia. Ilsoggiorno a Bologna nel 1695 ebbe su di lui un’influenza notevole, e che lo condusse alla creazione delle sue opere piùcelebri: le “teste anatomiche”. La sua Anatomia di una testa maschile modellata in cera su un vero cranio, realizzata aGenova fra il 1695 ed il 1700, e inviata come regalo per Cosimo III, fu molto ammirata, tra gli altri, dal grande anatomico

Fig. 7 - Aert Pietersz,La lezione di anatomia del dottorSebastiaen Egbertsz de Vrij, 1603

Fig. 8 - Cornelis Troots, La lezione di anatomiadel professor Willem Roëll, 1728

Fig. 9 - Giulio Gaetano Zumbo, La Sifilide,frammenti del gruppo originario, 1691-94

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e naturalista settecentesco Albrecht von Haller. Il capolavorodello Zumbo fu eseguito basandosi su numerosi decapitati, tracui una donna, e gli dette una fortuna tale da portarlo alla corteparigina di Luigi XIV, dove riscosse una fama eccezionale, edove creò altre teste anatomiche.La ceroplastica anatomica nacque, così, a Firenze, nel tardoseicento, dalla collaborazione di Gaetano Zumbo conl’anatomista Guillaume Desnoes (chirurgo parigino degli Ospe-dali di Genova col quale il plasticatore siciliano si associò dal1695 al 1700), ma fu solo nella seconda metà del settecentoche, seguendo la spinta delle idee illuministiche, divenne sem-pre più urgente uno studio anatomico del corpo umano e lacostituzione di una vera e propria scuola di ceroplasti.Nelle attuali collezioni del museo zoologico fiorentino “LaSpecola”, fondato dal granduca Pietro Leopoldo nel 1775 con ilnome di “Imperiale Regio Museo di Fisica e Storia Naturale”, si

trovano gli esemplari della raccolta dei preparati anatomici in cera, conservati in circa 600 teche (fig. 10), eseguitinell’antica officina ceroplastica del museo, che fu attiva fra la seconda metà del ‘700 ed il 1895. Sono opera di CarloCalenzuoli, di Luigi Calamai, e, soprattutto, del fiorentino Clemente Susini, il più importante modellatore di cera dell’opi-ficio, che vi lavorò fra il 1775 ed il 1814, sotto la direzione del famoso anatomico e fisiologo Felice Fontana.I modelli più recenti, creati fra il 1848 ed il 1895, sono invece dovuti al Tortuoli. Questa raccolta di cere anatomi-che rappresenta ancora oggi la maggiore attrattiva del museo, è costituita da 1400 pezzi unici al

mondo per bellezza ed accuratezza scientifica, e fu eseguita con lo sco-po di creare un vero e proprio trattato di anatomia umana, infatti

ogni pezzo è accompagnato da uno o più disegni e da diversifogli esplicativi.

Fra tutti spiccano le figure della famosa Venere e de LoScorticato (figg. 11-12).

Un’altra importante collezione di cere didattiche, intornoal 1770, venne commissionata al modellatore Giusep-pe Ferrini da Giuseppe Galletti, professore di ostetri-cia nell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, sulla basedei più aggiornati trattati ostetrici e reperti autoptici, edopo aver potuto ammirare la serie di cere bolognesi,commissionate da Gian Antonio Galli e realizzate daErcole Lelli.

Detti modelli, insieme ad alcune riproduzioni in gesso, vennero acquistati nel 1785dall’Arcispedale stesso per la scuola di ostetricia, ma andarono poi perduti. Negli ultimi decen-

ni del XVIII secolo ne furono eseguiti altri in cera ed in terracotta dall’of-ficina ceroplastica del Museo di Fisica e Storia Naturale, i quali, nel1816, furono trasferiti alla scuola di ostetricia. In tal modo l’Arcispedalene diventò proprietario ed i modelli servirono per più di un secolo ad istruire il personale medicofiorentino. Una volta perduta la funzione didattica, i 21 pezzi superstiti sono stati trasferiti alMuseo di Storia della Scienza dove si trovano tuttora.

Ancora oggi è evidente la volontà di studiare il corpo umano in ogni minimo dettaglio e diimpressionare lo spettatore. É il caso di Gunther von Hagens, anatomopatologo epseudo-artista, il quale in questi ultimi anni ha allestito mostre in vari paesi del mon-do, nelle quali espone veri corpi umani, ceduti da donatori, e trattati con la tecnicadella plastinazione, attraverso la quale liquidi e grassi vengono sostituiti, tramite par-ticolari processi, con polimeri reattivi come silicone, resine epossidiche, poliesteri,dando forma e consistenza agli organi, permettendo così di poterli esaminare e stu-diare direttamente.A queste figure fa poi assumere pose quotidiane: ad esempio, mentre rende evidente ilsistema muscolare di una persona, quest’ultima sta correndo o sta leggendo il giorna-le, in un’estetica neobarocca che stupisce e attira folle di curiosi, ma che non può certovenire considerata un’operazione artistica (fig. 13).Oggi la medicina ha varcato i confini della vecchia anatomia ed è entrata nel mondo

complesso ed invisibile della biogenetica. E l’arte sembra aver messo da parte larappresentazione umana per concentrarsi su astrattismi e concettualismi or-mai sorpassati, non pensando che, forse, il futuro possibile potrebbe esserequello che parte proprio dall’uomo. ◊◊◊◊◊

Fig. 10 - Una delle sale che conservano le cere anatomichedel Museo della Specola

Fig. 11 - Venere, Museo della Specola

Fig. 12 - Lo Scorticato,Museo della Specola

Fig. 13 - Gunther Von Hagens, Lo Spellato

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L’atteggiamento dell’opinione comune nei confronti della scienza mi

sembra caratterizzato da due ele-menti: l’uomo della strada ritieneche (a) la scienza descriva e spie-ghi la realtà e che(b) tale spiegazio-ne sia accessibileagli scienziati esolo limitatamenteall’uomo comune.Si tratta di due ca-ratteri che hanno a che fare conambiti diversi: il primo attiene allariflessione sulla scienza, il secon-do concerne i risultati conseguitidalla scienza. Ma mentre nel secon-do caso si ammette esplicitamen-te un’ignoranza, nel primo caso siritiene di essere nel giusto: checosa potrebbe altrimenti essere lascienza se non una spiegazione dicosa accade in natura? Nella pri-ma parte richiamerò uno dei possi-bili modi con cui è possibile mette-re in dubbio i luoghi comuni relativial modo di procedere della scien-za; nella seconda parte accenneròa una ragione che spiega il caratte-re esoterico che l’uomo comune at-tribuisce alla scienza – in verità l’im-presa più democratica che esista -. Lo scopo è quello di misurare ladistanza che corre fra noi e la scien-za.

A) Cosa significa “spiegare”?

Comunemente si afferma –e quasi sempre perché lo si è im-parato a scuola – che la scienzamoderna sia caratterizzata dal me-todo sperimentale. E fin qui tuttobene. Quando si cerca però di pre-cisare in cosa tale metodo consi-

sta ci si sente raccontare più omeno la (solita) storia seguente:uno scienziato elabora una teoria epoi procede a effettuare esperimentiper verificarla. Se una teoria ha su-perato un certo numero di verifiche

sperimentali è, ap-punto, vera. Que-sto metodo funzio-na, si conclude, inquanto sono i fattistessi a decideredella verità di una

teoria. Ebbene non c’è una sola frale affermazioni che ho appena ri-portato che sia pacifica. In primoluogo non si può dire di aver verifi-cato la teoria “tutti i corvi sono neri”perché tutti icorvi osservatifino ad oggisono risultatineri: nulla infattiimpedisce chedomani si os-servi un corvobianco. Non èneppure possi-bile appellarsiall’esistenza diuna legge di natura per la quale tut-ti i corvi – compresi quelli non os-servati - sono neri; per giustificaretale legge, infatti, dovremmo citarepur sempre il fatto che tutti i corviosservati sono neri, esponendocicosì alla stessa obiezione. In con-clusione l’osservazione di un certonumero di corvi neri non rende cer-tamente vera ma solo probabilmen-te vera la teoria “tutti i corvi sononeri”. Ma qui si presenta un’altra dif-ficoltà: siccome l’enunciato “tutti icorvi sono neri” è logicamente equi-valente a “tutte le cose che nonsono nere non sono corvi” allora

l’osservazione di un tra-monto rosso conferma lateoria “tutti i corvi sono neri”.Il che è, evidentemente,paradossale. I guai dell’opi-nione comune sul metodousato dalla scienza nonsono però finiti: cosa sono i“fatti” l’osservazione deiquali dovrebbe decideredella “verità” di una teoria?Sono fatti osservati i quark?I buchi neri? I neutrini? Nonosservavano lo stesso fat-to Tolomeo e Copernicoquando vedevano il Solesorgere all’orizzonte? Ep-pure per Tolomeo si trattava

del Sole che si al-zava mentre perGalileo dell’orizzon-te terrestre che siabbassava. Se,dunque, uno stes-so fatto è compati-bile con teorie diver-se, come si può so-stenere che una te-oria descrive ed èverificata dai fatti?

I problemi appenamenzionati hanno, nellaletteratura specialistica,un nome e un cognome:si tratta dei problemi del-l’induzione, della verifica,della conferma, della di-stinzione fra termini os-servativi e termini teorici,della sottodeterminazionedelle teorie. Per ovvi moti-vi di spazio non possofare nulla di più che nomi-narli1. Tuttavia, vorrei dareun’idea meno sommaria al-meno di una questione, una

La distanza fra noi e la scienza:discorso semiserio. Marco Salucci

Nonostante la suanatura democratica

la scienza non èaccessibile a tutti

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delle grandi que-stioni della filo-sofia della scien-za contempora-nea: quella dellaspiegazione. Ildibattito ha unpunto di riferi-mento ben preci-so e imprescin-dibile rappresen-tato dal modellocosiddetto no-mologico deduttivo propo-sto nel 1948 da C. G.Hempel e P. Oppenheim2.Secondo tale modello unevento E è spiegato quan-do è stato dedotto da pre-messe che esprimono lecondizioni iniziali C e alme-no una legge universale L.Per esempio, se vogliamospiegare la dilatazione diuna certa quantità di mer-curio in un termometro, frale condizioni iniziali ci sa-ranno la temperatura inizia-le del mercurio, dell’ampol-la di vetro, di una bacinellad’acqua calda e la legge perla quale i metalli si dilatanoquando riscaldati.La deduzione avverràcome segue:

• un’ampolla di vetrocontenente mercurioalla temperatura di 200

gradi centigradi è stataposta in una bacinellad’acqua calda alla tem-peratura di 500;• il mercurio è un me-tallo;• tutti i metalli si dila-tano se riscaldati;

• il mercurio nell’am-polla si è dilatato.

Tutto bene? No. Pri-mo problema: quello dell’in-duzione, lo stesso proble-ma che abbiamo avuto con

i corvi neri. Come faccia-mo a sapere che tutti imetalli se riscaldati siespandono? Solo quellifino ad oggi osservati siespandono. Vogliamoprecisare allora che tuttii metalli se riscaldati sidilatano perché c’è unalegge di natura che affer-ma “tutti i metalli se ri-scaldati si dilatano”. Matale legge deriva sempre

dal fatto che i metalli osservati finoad oggi si espandono. Dunque nonsiamo nelle condizioni di fare pre-visioni sul futuro o affermazioni ge-nerali, anzi siamo di fronte a un evi-dente circolo vizioso.

Secondo problema. Consi-deriamo la seguente spiegazionedel perché un cucchiaio di sale si èsciolto nell’acqua:

• sono stati fatti gesti e reci-tate formule magiche sul cuc-chiaio di sale;• il sale è stato posto nell’acqua• tutti i cucchiai di sale sotto-posti a gesti e a formule magi-che si sciolgono nell’acqua;

• il cucchiaio di sale si è sciol-to nell’acqua.

Questa evidentemente nonè una spiegazione scientifica, macome distinguerla da una genuinaspiegazione scientifica? Qualcheautore si è appellato al concetto dirilevanza (gesti e for-mule magiche sonoirrilevanti per il veri-ficarsi del fenome-no), qualche altroalla distinzione fra generalizzazio-ni accidentali e leggi. Ciò che distin-gue una legge da una generalizza-zione lo si può capire immaginan-do cosa accadrebbe se… Nel no-stro caso se “tutti i cucchiai di salesottoposti a gesti e a formule ma-giche si sciolgono nell’acqua” fos-se una legge allora “se i cucchiai disale non sono sottoposti a gesti e

formule magiche non si sciolgononell’acqua” sarebbe falsa, mentre“se i metalli non sono sottoposti acalore non si dilatano” è vera. Il pun-to però è che non sempre possia-mo sapere se una condizione è ri-levante o se è una generalizzazio-ne senza aver già un’idea di cosasia rilevante e di quale sia la legge.

Terzo problema. Supponia-mo che l’arrivo di un certo tipo difronte atmosferico di bassa pres-sione sia sempre seguito da unatempesta e che certe letture di unbarometro siano un segno certodell’arrivo di tale tipo di fronte. Dun-que la lettura di bassa pressione delbarometro è sempre seguita da unatempesta. Ma la tempesta non puòessere spiegata dalla lettura delbarometro. Per ovviare a tale pro-blema si è cercato di far giocare ilconcetto di causa: la lettura del ba-rometro non è una spiegazione per-ché non causa la tempesta. Modifi-care la spiegazione introducendo lacausa non è tuttavia un’operazionegratuita: essa eredita tutta una se-rie di problemi che non è qui possi-bile neppure elencare ma che sonooggetto di discussione da almenotre secoli3.

B) Perché a volte la scien-za sembra difficile?

Nell’opinione comune è al-tresì diffusa una diagnosi del punto

b: l’analfabetismoscientifico. Le ragio-ni di tale analfabeti-smo sono varie ecomplesse, richie-

derebbero un esame delle politicheeducative e scolastiche, degli indi-rizzi dell’industria culturale e deimass media, dei caratteri della cul-tura nazionale (nel caso del nostropaese tradizionalmente di tipo let-terario, umanistico e giuridico).L’analfabetismo scientifico esiste,innegabilmente; e in Italia il proble-ma è particolarmente grave. Affer-

“L’analfabetismoscientifico è in Italia

particolarmente grave”

Carl Gustav Hempel

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mato con decisione tutto ciò, vorreiperò concentrarmi su un aspetto di-verso che chiamerò antropologico:l’ignoranza scientifica dell’uomocomune dipende dalla distanza chec’è fra le teorie scientifiche e ilmodo con cui l’uomo comune vedee percepisce spontaneamente ilmondo. La formulazione forse piùefficace della distanza fra l’imma-gine scientifica del mondo e quelladell’esperienza comune è stataespressa da Eddington nel 1929quando, introducendo la sua operaThe Nature of the Physical World,dichiarava di averla scritta sedutoai suoi due tavoli: “uno di essi mi èfamiliare fin dall’infanzia [...] Haestensione; è relativamente costan-te; è colorato; soprattutto, è solido[...] L’altro [...] è soprattutto vuoto.Disseminate in questo vuoto cisono numerose cariche elettricheche viaggiano a gran velocità; mala loro massa complessiva è menodi un miliardesimo della massa deltavolo medesimo [...] Non ho biso-gno di dirvi che la scienza moder-na mi ha assicurato [...] che il miosecondo tavolo, quello scientifico,è il solo che esista realmente”4.

Poiché ho detto sopra chela distanza tra scienza e uomo co-mune dipende da caratteri psico-antropologici, tenterò di esprimereil mio punto di vista in modo un po’scherzoso immaginando tresottospecie di homo sapiens: l’ho-mo aristotelicus, l’ho-mo positivisticus el’homo einstenianus. Sitratta, come si capi-sce, di una classifica-zione che ripercorre tretappe fondamentali del-la storia del pensiero:rispettivamente quellaantica e medievale rap-presentata da Aristote-le “maestro di colorche sanno”, quella mo-derna ottocentesca della qualeprendo a simbolo il positivismo, e

quella novecentesca contempora-nea. Il punto che vorrei sottolineareè però che tali specie di homo nonsono estinte, ma convivono oggitutte insieme. L’homo aristotelicusè l’uomo della strada, è colui chenon ha nessunac o n o s c e n z ascientifica e cheper conoscere larealtà usa la dota-zione di strumentifornitagli dalla natura: i cinque sen-si e qualche semplice struttura ra-zionale della logica classica. L’homo positivisticus ovviamente èdotato di tutte le conoscenze e ca-pacità percettive dell’uomo comu-ne ma in più ha una media culturascientifica, normalmente appresa ascuola. L’homo einstenianus, infine,è colui che ha accesso alla scien-za ad un livello abbastanza eleva-to; sicuramente appartengono a talespecie gli scienziati ma anche chiabbia una cultura scientifica aggior-nata (il che, dunque, non vuol direottocentesca). Per saggiare il valo-re esplicativo della nostra nuovateoria antropologico-culturale, ve-diamo quali sono le culture delle trespecie di homo citandone alcunesemplici credenze. Il mio lettore puòutilizzarle come un test per scopri-re a quale specie di homo appartie-ne, a seconda delle affermazioniche condividerà.

L’homo aristotelicus pensa,per esempio, che: sic-come se smettiamo dipedalare la bicicletta siferma, allora in natura unoggetto si muovefintanto che dura la for-za che lo fa muovere;siccome una palla dipiombo raggiunge il suo-lo prima di una piumaanche quando entram-be siano fatte caderedalla stessa altezza al-

lora in natura i corpi più pesanti ca-dono più velocemente; un oggetto

posto su un corpo in movi-mento, se non vi è fissato,tende a cadere in direzionecontraria al senso del mo-vimento; in natura tutti i corpihanno grandezze loro pro-

prie indipenden-temente dal fat-to che sianomisurate o no;tutti i corpi cheruotano su se

stessi presentano la stes-sa faccia dopo ogni giro. Seanche il mio lettore condivi-de tali affermazioni alloraappartiene alla speciehomo aristotelicus. Che c’èdi male? Approfondiamo leconseguenze di tali affer-mazioni e lo capiremo. “Innatura un oggetto si muovefintanto che dura la forzache lo fa muovere”, signifi-ca che tutti i corpi tendononaturalmente a stare inquiete e anche che le legginaturali che valgono sullaTerra non valgono nel restodell’universo dal momentoche i corpi celesti, come ilSole, ruotano incessante-mente. Falso! Galilei eNewton hanno mostratoche tutti i corpi, in Terra e incielo, perseverano nel lorostato di quiete o di movi-mento a meno che una for-za non intervenga a cam-biarne lo stato (principiod’inerzia). Non va meglioneppure per le altre creden-ze dell’homo aristotelicus.Infatti: la piuma giunge atoccare il suolo dopo la pal-la di piombo perché offrepiù resistenza all’aria, incondizioni di vuoto entram-be toccherebbero terra nelmedesimo istante. La velo-cità di caduta è una funzionedel tempo e degli spazi per-corsi, non della pesantezza.

“le leggi naturaliche valgono sulla Terra

valgono in tuttol’universo”

Aristotele

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Si può dare una de-scrizione matematica dellacaduta (in termini di spazie tempi) senza ricorrere aconcetti come pesantez-za e leggerezza. La pe-santezza e la leggerezzanon sono proprietà intrin-seche dei corpi ma dipen-dono dalla forza di gravitàcon cui la Terra li attrae.“Un oggetto posto su uncorpo in movimento, senon vi è fissato, tende acadere”; non è forsevero? Non è per questoche leghiamo le valigie sulportapacchi della macchi-na? Ma se fosse vero neconseguirebbe che la Terraè immobile, altrimenti gli og-getti che si trovano o checadono dall’alto di una torre,per esempio, toccherebberoil suolo spostati in direzionecontraria al movimento dellaterra, cioè verso est5. Appar-tenete alla specie homo ari-stotelicus fino a questo pun-to? Mai sentito nominare ilconcetto di sistema inerzia-le? Beh, è un concetto vec-chio di tre secoli6.

Ciò che mi interessamostrare non è però quantofosse errata la dottrina di Ari-stotele, ma quanta fatica èoccorsa ed occorra per mo-strare che è sbagliata: oltreventi secoli di storia perl’umanità e oltre dieci anni distudio per i nuovi nati dellespecie homo positivisticus ehomo einstenianus. Si fa pre-sto a dire che la dottrina diAristotele è tutta sbagliata:che stupido Aristotele a pen-sare che la Terra fosse fer-ma al centro del sistema so-lare! Che ingenuo a credereche se un cavallo smette ditrainare un carro il carro siferma! Ma non è forse vero

che non percepiamo il movimentodella Terra e che anzi ci sembra pro-prio di star ben piantati immobili sullaterra? E non è forse vero anche che

se smettiamo di pedalare la biciclet-ta si ferma? Dunque la condizione diAristotele in cui si trovava quando ela-borava la sua scienza è la stessa incui ci troviamo noi nel percepire larealtà nella vita quotidiana (l’immagi-ne del senso comune di Eddington):la fisica di Aristotele è la fisica spon-tanea che deriva dal nostro ordinariouso dell’apparato percettivo esensoriale di cui siamo naturalmen-te dotati. I sensi di cui noi uomini con-temporanei disponiamo sono gli stes-si di quelli di cui disponeva Aristotele:gli antichi non credevano che la Ter-ra fosse immobile perché ci vedeva-no peggio di noi!La fisica di Aristo-tele è dunque benradicata nel modoin cui il nostro ap-parato percettivoè fatto: è dunqueuna fisica spontanea, ingenua7.

I nostri sensi ci fanno crede-re, per esempio, che la Terra sia im-mobile, ma sappiamo che ci ingan-nano: la Terra si muove. I nostri sen-si sono uguali a quelli dell’homo ari-stotelicus e noi continuiamo a perce-pire la Terra immobile; tuttavia la no-stra ragione e le nostre conoscenzesi sono evolute: sappiamo che la na-tura non è esattamente come appa-

re. Abbiamo così compiuto un saltoevolutivo (cognitivo) che ci ha fattolasciare lo stadio dell’homo aristote-licus per quello successivo. Fuori di

metafora: siamo stati a scuola eabbiamo imparato un po’ di scien-za galileiana. Ma non è finita: ilpeggio deve venire perché resta-no ancora due delle nostre affer-mazioni esemplari che anche chiha studiato un po’ di scienza nonpuò mettere in discussione e cioè- prima affermazione - “in naturatutti i corpi hanno grandezze loroproprie indipendentemente dal fat-to che siano misurate” (banal-mente ciò significa che la lunghez-za di una strada non dipende dal-l’atto di misurarla); - seconda af-

fermazione - “tutti i corpi che ruotanosu se stessi presentano la stessafaccia dopo ogni giro” (banalmenteciò significa che rivedremo il nostroamico seduto sulla giostra al terminedi ogni giro). Se non condividete piùle affermazioni di Aristotele ma con-dividete ancora queste due appenacitate allora appartenete alla speciehomo positivisticus, cioè avete unacultura scientifica, sì, ma ottocente-sca, vecchia cioè di cento anni.

La prima affermazione è fal-sa perché la fisica atomica ha mo-strato che le particelle fondamentalidi cui è composta la realtà acquisi-

scono certe gran-dezze solo nelmomento in cuivengono misura-te. La seconda af-fermazione è fal-sa perché, per

esempio, l’elettrone possiede una pro-prietà, detta spin, che può essere ap-prossimativamente immaginatacome la strana proprietà che avreb-be un corpo in rotazione su se stes-so se presentasse la stessa facciaogni due giri. L’amico seduto sulla gio-stra sarebbe visibile un giro sì e ungiro no! Sono, questi appena ricor-dati, risultati conseguiti tra la fine del-l’Ottocento e il Novecento quando

“L’amico seduto sulla giostrasarebbe visibile

un giro sì e un giro no!”

La forma dello spazio in prossimità del Sole

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sono avvenuti cambiamenti così pro-fondi nella scienza che vanno ben aldi là non solo del nostro modo natu-rale di percepire il mondo ma sfidanoanche la nostra ordinaria capacità diimmaginazione.Crisi dei fondamen-ti della matematica,geometrie noneuclidee, teoria del-la relatività e mec-canica quantisticasono i campi in cuila scienza ha conosciuto talisconvolgimenti. Si tratta di ambiti neiquali sono sorte teorie che sono or-mai non solo ampiamente accettatedalla comunità scientifica ma che fan-no parte del normale curriculum uni-versitario delle facoltà scientifiche. Te-orie ormai vecchie di quasi cento anni,sono ancora ignote all’uomo comu-ne e ignorate anche da coloro che ab-biano una cultura scientifica di livellomedio perché i curricula scolastici almassimo riescono a formare unhomo positivisticus. Le “stranezze”della fisica contemporanea non si li-mitano ovviamente alle due appenamenzionate, sono innumerevoli, sipensi al rallentamento del tempo e al-l’accorciamento delle lunghezze pervelocità prossime a quella della luce,ad un universo a n dimensioni (nonpiù solo quello quadridimensionaledello spazio-tempo di Einstein eMinkowski), alla casualità degli even-ti subatomici. In tutti questi casi si haa che fare con risultati ottenuti construmenti matematici. La soluzionedi certe equazioni ci conduce a con-clusioni che non è possibilevisualizzare neppure con la fantasia(si pensi ad alcuni risultati non solodella meccanica quantistica ma an-che della cosmologia nonché alle pro-spettive aperte dalla teoria delle cor-de o superstringhe8).

C’è una morale in tutto que-sto? Ce ne sono molte, ne suggeri-sco una che chiamerò “la moraledelle tre meraviglie” (vi ricordo che laconoscenza era per i greci figlia del-

la meraviglia). La prima: “meraviglio-sa è la ragione” che ci permette dielaborare teorie che vanno al di là diciò che è possibile percepire. La se-conda: “meravigliosa è la matemati-

ca” che ci permet-te di trascenderenon solo i limitidella percezionema anche quellidell’immaginazio-ne. La terza: “me-ravigliosa è la na-

tura” nella quale ci sono più cose diquanto la tua scienza e la tua poesia,Orazio, possano immaginare.

Oltre a una morale c’è ancheuna conclusione, e come ogni con-clusione che si rispetti si trova all’ini-zio, già nel titolo: la distanza fra noi ela scienza è un buon motivo per avvi-cinarla, non per evitarla.

P.S. Rileggendo quanto hoscritto inclino a credere nella veritàdel motto “si diventa ciò che si è”.Fanno parte delle caratteristichedelle persone non solo i tratti fisicie psicologici ma anche opinioni,idee e interessi molti dei quali af-fondano le radici negli anni della gio-vinezza. Per quanto mi ricordosono sempre stato affascinato dal-la capacità della scienza di oltre-passare sistematicamente le co-lonne d’Ercole della percezione edell’immaginazione. Ho anche sem-pre provato un sentimento di am-mirazione per gli scienziati-esplo-ratori e di meraviglia per i nuovimondi scoperti. Ovviamente conuno stile e con contenuti diversi ri-cordo di aver svolto lo stesso argo-mento in un tema di italiano al pri-mo anno delle superiori. La profes-soressa lo valutò gravemente insuf-ficiente (ritenendomi anche merite-vole di una pubblica reprimenda) emi giudicò senza appello inadattoa proseguire gli studi. Dedico que-sto scritto a lei, e a quegli studenti(ormai rari) che si sentono scorag-giati da un brutto voto. ◊◊◊◊◊

“ la distanzafra noi e la scienzaè un buon motivo

per avvicinarla,non per evitarla”

1 Si veda un qualunquemanuale introduttivo allafilosofia della scienza, per es.fra i più recenti:S. Okasha, Il primo libro difilosofia della scienza, Torino,Einaudi 2006;M. Dorato, Cosa c’entra l’animacon gli atomi? Introduzionealla filosofia della scienza,Bari, Laterza 2007; J.Ladyman, filosofia dellascienza, Roma Carocci 2007.

2 C. G. Hempel, P. Oppenheim,Studies in the Logic ofExplanation, in “Philosophy ofScience” 15, 1948, pp. 135-175, si può leggere in italianoin C.G. Hempel, Aspetti dellaspiegazione scientifica, Milano,Il Saggiatore,1986.

3 Intendo almeno dalladiscussione fattane da D.Hume.

4 A.S. Eddington, The Nature ofthe Physical World, New York,Cambridge UniversityPress,1929, pp. IX-XII.

5 E’ l’obiezione degli aristotelicicontro Galilei.

6 Cioè almeno quanto coluiche l’ha elaborato: Galilei.

7 Sulla fisica ingenua cfr.M.McCloskey,Intuitive Physics, in “ScientificAmerican“, 248(4), 1983, pp.122-130 e P. Bozzi,Fisica ingenua, Milano,Garzanti 1998.

8 Sulla quale si può vedere B.Greene, L’universo elegante,Torino, Einaudi 2003. Fra imoltissimi testi divulgativi citosolo: S, Hawking, Dal Big Banga i buchi neri, Milano Rizzoli1988 e P. Davies, Il cosmointelligente, Milano, Mondadori,1989.

Note

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La risoluzione dell’equazione di secondo grado mediante costruzioni geometriche viene affrontata e risolta da Cartesiosuddividendola in vari casi a seconda del segno dei coefficienti.Riportiamo la costruzione che permette di determinare lesoluzioni della seguente equazione di secondo grado (1) che corrisponde all’equazione

nel caso in cui ci sono due soluzioni reali distinte. ( )

La soluzione di è che può essere scritta

ovvero

(2)

COSTRUZIONE GEOMETRICA

Si costruisca la circonferenza di raggio NL uguale ad

(a = coefficiente della x nella (1))

Si tracci la parallela ad un diametro alla distanza pari a b (*), siano R ed Q le intersezionidella retta con la circonferenza.Si tracci da L la perpendicolare a tale retta e si indichi con M la loro intersezione.

Per il teorema di Pitagora applicato al triangolo NQO

, ovvero

segue

- (prima soluzione)

(seconda soluzione)

Verifichiamo geometricamente che MQ e MR sono le soluzioni cercate:Si unisca L con Q ed Q con L’ il triangolo L’QL è rettangolo perchè inscitto in unasemicirconferenza.Si mandi la perpendicolare da Q ad NL

Costruzione geometrica delle radici dell’eq. 2°

MQ e MR sono le soluzioni cercate

Marice Massai

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Per il Teorema di Pitagora applicato al traingolo rettangolo LQH si ha

Per il teorema di Euclide applicato al triangolo rettangolo LQL’

ovvero

Ne segue che MQ è soluzione

Si unisca L’ con R ed R con L il triangolo L’RL è rettangolo perche inscitto in unasemicirconferenzaSi mandi la perpendicolare da R ad NL’

per differenza di segmenti uguali, ne segue:

Per il Teorema di Pitagora applicato al traingolo rettangolo LRH’ si ha

Per il teorema di Euclide applicato al triangolo rettangolo LRL’

ovvero Ne segue che MR è soluzione

(*) Si dovrà saper costruire un segmento di lunghezza

Si riporta la costruzione con riga e compasso di

Si dispongono consecutivamente un segmento OA = x ed un segmento AB =1; si traccia quindi la circonferenza didiametro OB (centro nel punto C) e la perpendicolare per A al diametro OB , che Incontra in D la circonferenza. Essendo il

triangolo ODB rettangolo in D, il segmento DA , per il II° teorema di Euclide, risulta appunto . ◊◊◊◊◊

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INTRODUZIONEParlare di fluidi significa par-

lare di sistemi fisici incontrati innumerose esperienze di vitaquotidiana. Aprire il rubinetto del-l’acqua in casa, ripararsi da unforte vento, fare il bagno fra leonde del mare, gonfiare glipneumatici dell ’automobile,compiere un viaggio in aereo,sono tutti semplici esempi dioccasioni in cui ci si trova adinteragire con un fluido e con ilsuo stato di quiete o di moto.

Le caratteristiche e il com-portamento dei fluidi iniziano adessere oggetto di studio scien-tifico a partire dal XVII secolo,con i lavori di Torricelli e Pascal,anche se già Archimede nel IIIsecolo a.C. se ne era occupato,formulando il suo celeberrimoPrincipio riguardante la spintaricevuta dai corpi immersi in unliquido. Lo studio si è poi svilup-pato con il contributo, fra i tanti,di Eulero, Bernoulli, Navier eStokes, Reynolds, Rayleigh,Prandtl. Inoltre, soprattutto nelcorso dell’ultimo secolo, è cre-sciuto in modo enorme il nume-ro di applicazioni tecnologichein cui i fluidi rivestono un ruoloimportante, se non essenziale:basti pensare ai motori a com-bustione interna per le automo-bili, o ai turbojet per gli aerei, perfare due esempi.

Perché allora parlare di flui-di come di “sconosciuti”?

In questo lavoro, si è cercatodi approfondire, da un punto divista fisico, la conoscenza deifluidi. Partendo da una defi-nizione di tali sistemi basatasulle loro proprietà meccanichee termodinamiche, che chiari-scono in modo più preciso ilconcetto di fluido, l’attenzione siè concentrata sulla fluidodina-mica, cioè sullo studio del motodei fluidi. Sono presentate leprincipali caratteristiche fisichedei fluidi in movimento (flussi),associate alla comprimibilità,che distingue i gas dai liquidi, ealla viscosità, cioè all’attrito in-terno di un fluido. Nella secon-da parte del lavoro, sono stati

discussi alcuni aspetti particolari delmoto, in cui gli effetti della comprimibilitàe della viscosità caratterizzano in modofondamentale la struttura del flusso. Nel-le conclusioni, sulla base di quanto emer-so dalle precedenti considerazioni, si ècercato di dare una risposta alla doman-da da cui è originato il presente lavoro.

IL CONCETTO DI FLUIDOLo stato fisico della materia definito

come “fluido” comprende, in generale,tutte quelle sostanze che non hanno ca-ratteristiche meccaniche di rigidità, e chepossono deformarsi e scorrere. Di con-seguenza, un fluido non ha una formapropria, ma assume quella del recipien-te che lo contiene. In tale categoria rien-trano tutte le sostanze allo stato liquido ogassoso, in cui i legami intermolecolarisono costituiti da forze di coesione moltodeboli, che consentono appunto lo spo-stamento delle molecole l’une rispettoalle altre [1]. Una caratterizzazione formal-mente rigorosa di un fluido può esserefatta solo ricorrendo a strumenti di calco-lo tensoriale, ed esula dalla presente trat-tazione. Tuttavia è possibile dare ancheuna definizione di fluido più semplice ealtrettanto corretta, anche se meno for-male.

Si consideri un corpo continuo in quie-te, e si supponga di sezionarlo idealmen-te in due parti tramite un piano. Le dueparti in cui il corpo è suddiviso esercite-ranno una certa forza l’una sull’altra incorrispondenza dell’interfaccia di sepa-razione sul piano. Tale forza, espressa intermini di “forza per unità di superficie”(sforzo), può essere scomposta in gene-rale in due componenti: una componen-te normale alla superficie (sforzo norma-le σ ), e una tangente alla superficie stes-sa (sforzo tangenziale o “di taglio” τ )(Fig.1). Si definisce “fluido” un corpo chein condizioni statiche è incapace di appli-care sforzi tangenziali (τ = 0) [2]. In base atale definizione, un corpo solido in quietesottoposto aduno sforzo esterno è in gra-do di deformarsi opponendo sia sforzinormali che tangenziali, mentre un fluido(liquido o gas), può applicare solo sforzinormali (o “di pressione”).

Per caratterizzare fisicamente un flui-do, è necessario definire anche due gran-dezze essenziali per descriverne il com-portamento dinamico e termodinamico:densità e pressione.

Si definisce densità (puntuale) ρ di un

corpo il rapporto fra la massa δm e il volu-me δV di una porzione “infinitesima” delcorpo. Da un punto di vista fisico è es-senziale precisare esattamente cosa siintende per porzione “infinitesima” di cor-po. Dato che i fenomeni studiati dalla flui-dodinamica sono macroscopici, un flui-do viene schematizzato come un corpocontinuo [3]. D’altra parte, la fisica mo-derna ha mostrato come la materia siafortemente disomogenea e discontinuaa livello molecolare. Ciò significa che ilmodello di fluido come sistema continuoè valido solo se per porzione infinitesimasi considera un volume di fluido sufficien-temente grande da contenere una granquantità di molecole. Esiste quindi unvolume minimo δV* al di sotto del qualenon è possibile scendere. Tale volumecorrisponde, come ordine di grandezza,al volume medio intermolecolare. Nei li-quidi e gas in condizioni normali di pres-sione si ha δV* ~ 10-9 mm3. δV* viene co-munemente indicato come elemento flui-do o particella fluida. Quindi, quando siparla di “spostamento di una particellafluida”, non ci si riferisce al moto di unasingola molecola, ma a quello di un volu-me contenente molte molecole, anche sele dimensioni di tale volume vengono tra-scurate, e il volume assimilato ad un punto[3].

La pressione p in un punto del fluido,associata allo sforzo normale σ , è dovu-ta all’azione di una forza dFn che agisceperpendicolarmente su una superficiedA. Essa è definita come il rapporto fral’intensità della forza dFn e l’area dA, nellimite di dA infinitesima. La pressione p,come la densità, è una quantità scalare ilcui valore è indipendente dall’orientamen-

I FLUIDI, QUESTI SCONOSCIUTI! Paolo Boncinelli

Figura 1. Sforzo normale σe tangenziale τ su una sezionedi un corpo continuo.

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to spaziale della superficie dA. Tale risul-tato è conosciuto come Principio diisotropia della pressione, o Principio diPascal.

CARATTERISTICHE FISICHE DEI FLUSSILa fluidodinamica è la parte della mec-

canica che studia il moto dei fluidi e laloro interazione con altri fluidi e/o con cor-pi solidi, utilizzando le consuete grandez-ze fisiche della cinematica (spostamen-to, velocità, accelerazione) e della termo-dinamica (densità, pressione, tempera-tura,....). Un fluido in movimento vienegeneralmente indicato come un flusso.Esistono diverse tipologie di flusso os-servate in natura, caratterizzate da parti-colari fenomeni fisici associati a deter-minate proprietà del fluido. In questasede saranno discussi gli effetti dellacomprimibilità e della viscosità del flui-do.

Flussi Incomprimibili e ComprimibiliUna prima importante distinzione ri-

guarda la differenza fra flussi incompri-mibili e comprimibili. Un criterio di mas-sima per distinguere le due tipologie diflusso può basarsi sullo stato fisico delfluido di cui si studia il moto: liquido ogassoso. I liquidi danno generalmenteluogo a flussi incomprimibili, mentre va-pori e gas in movimento rappresentanoflussi comprimibili. Tale criterio, anche sefondamentalmente corretto, non è tutta-via rigorosamente esatto. Se infatti si con-siderano, ad esempio, i flussi dell’atmo-sfera, i venti, questi possono essereschematizzati nella pressoché totalità deicasi, come flussi incomprimibili, anchese il fluido in questione è un gas. È quin-di necessario precisare meglio tale di-stinzione, basandosi non sono sullo sta-to fisico del fluido, ma anche sulle carat-teristiche cinematiche del moto.

Una distinzione più precisa fra flussicomprimibili e incomprimibili si basasull’analisi del comportamento della den-sità ρ del fluido durante il moto. Un flussoè incomprimibile se la densità di ogni sin-golo elemento fluido rimane costantequalunque sia la sua condizione di moto,e varia solo per effetti termodinamici.Quando invece il valore della densità ρdel singolo elemento fluido dipende an-che della velocità dell’elemento fluidostesso, il flusso è comprimibile.

Dalle precedenti considerazioni,emerge il fatto che in comprimibilità ecomprimibilità sono associate alla la ve-locità u del flusso, da confrontarsi conun’altra velocità caratteristica del fluido,la velocità del suono a, funzione del tipodi fluido e della sua temperatura T. Lapropagazione di onde sonore all’internodi un fluido, con velocità a, costituisce ilprincipale fenomeno associato alla com-

primibilità del mezzo. Se la velocità u ri-sulta molto più piccola di a (u a), allorail flusso è incomprimibile. Nel caso inve-ce in cui u sia confrontabile o superioread a (u a), il flusso è comprimibile.

Questa distinzione fra fluissi incom-primibili e comprimibili prescinde dal fat-to che il fluido in movimento sia un liqui-do oppure un gas. In generale, però, lavelocità del suono nei liquidi è moltomaggiore che nei gas: a 1100km/h inaria, mentre in acqua il suo valore è quasicinque volte più grande (a 5100km/h).Per questo motivo, i flussi comprimibilisono caratteristici dei gas, mentre i flussiincomprimibili sono associati al moto deiliquidi. Tuttavia, tornando all’esempio pre-cedente dei venti, anche in un fenomenoatmosferico particolarmente intenso qua-le un potente uragano la velocità del ven-to u difficilmente supera i 200km/h, cioèmeno di un quinto della velocità del suo-no a. Ne consegue che tale flusso puòconsiderarsi a tutti gli effetti incomprimi-bile, pur essendo l’aria un gas.

Flussi Ideali e ViscosiCome visto, un fluido è incapace di

applicare sforzi di taglio τ in risposta aduna sollecitazione proveniente dall’ester-no se esso si trova in uno stato di quiete(in condizioni statiche). Questo però nonè più vero in condizioni dinamiche, cioèse il fluido si muove. In tal caso, il movi-mento relativo dei diversi elementi flui-di uno rispetto all’altro è ostacolato dal-la presenza di attriti interni, che deter-minano sforzi di taglio non nulli. Taliattriti vengono descritti per mezzo di unagrandezza fisica, la viscosità dinamicaµ del fluido, che dipende dalle caratteri-stiche fisiche e termodinamiche del flui-do (principalmente dalla sua tempera-tura T ).

Il valore della viscosità µ è “piccolo”per molti fluidi di interesse comune (aria,acqua). Questo fa sì che, in alcuni casi, lostudio delle caratteristiche del flusso pos-sa trascurare l’effetto della viscosità edegli sforzi di taglio τ ad essa associati.Sulla base di questo, si distinguono duediverse tipologie di flussi:

flussi ideali:flussi nei i quali la viscosità non neinfluenza le caratteristiche principali,e può pertanto essere trascurata;

flussi viscosi:flussi nei i quali non è invece possibiletrascurare la viscosità, dato che questainfluenza in modo fondamentale le ca-ratteristiche del moto stesso.

I flussi ideali, in alcune particolari con-dizioni, possono essere descritti dallaseguente equazione che lega fra loro legrandezze cinematiche (u) e termodina-

miche (p e ρ), detta equazionedi Bernoulli:

(1)

dove g = 9.81m/s2 è l’accelerazio-ne di gravità. Tale sempliceequazione, ricavata applicandola seconda legge di Newton del-la meccanica e il primo princi-pio della termodinamica (con-servazione dell’energia) ad unflusso ideale, è tuttavia validasolamente se il flusso è idealee stazionario, e in presenza delcampo di gravità g, conservativo.Pur sotto tali ipotesi limitative,l’equazione di Bernoulli è estre-mamente utile nello studio dinumerose configurazioni di flus-so, proprio in virtù della suasemplicità.

Se la viscosità µ non può in-vece essere trascurata, l’equa-zione di Bernoulli non è più vali-da, e le equazioni che governa-no il flusso si complicano note-volmente. Di fatto, non esiste an-cora una teoria generale capa-ce di descrivere in modo com-pleto i flussi viscosi, e probabil-mente non esisterà mai. Que-sto perché il comportamento diun flusso è profondamente esostanzialmente modificato dal-la presenza della viscosità, conla comparsa di un fenomenoestremamente complesso: laturbolenza.

L’importanza degli effetti vi-scosi nel determinare le carat-teristiche di un flusso è “misu-rata” mediante un parametroadimensionale, il cosiddettoNumero di Reynolds, definitocome:

(2)

ρ e µ sono la densità e laviscosità del fluido, mentre u e Lrappresentano rispettivamentela velocità e la lunghezza scalacaratteristiche del flusso (cioèl’ordine di grandezza delle velo-cità e delle dimensioni del flus-so in esame). Se il numero diReynolds Re è “basso” gli effettiviscosi sono importanti, mentrese Re è “alto” gli effetti viscosisono trascurabili, e il flusso puòessere considerato quasi idea-le. Naturalmente occorre preci-sare in modo quantitativo cosasi intende per Re basso o alto.Senza entrare nei dettagli, i flus-

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Figura 2. Sviluppo dello strato limite suuna lastra piana.

Figura 3. Visualizzazione dello stratolimite su un profilo alare

(a) Flusso laminare (Re basso)

(b) Flusso turbolento (Re alto)

Figura 4. Confronto tra un flussolaminare e un flusso turbolentouscenti da un condotto

si più comuni incontrati quotidia-namente (l’acqua che esce dalrubinetto, il vento, le onde delmare, ...) sono caratterizzati davalori del numero di Reynolds“alti” (Re ≥ 105). Pertanto, essipossono essere descritti utiliz-zando il modello di flusso idea-le in modo sostanzialmente cor-retto ed accurato. Tuttavia, an-che in un flusso ideale vi pos-sono essere regioni del fluidoin cui l’effetto della viscosità di-venta importante (basso valorelocale di Re), e non può esseretrascurato. Di seguito sarannoillustrati e discussi alcuni esem-pi.

ALCUNI ASPETTI PARTICOLARILo “Strato Limite”

Come detto, anche in flussicaratterizzati da un valore eleva-to del numero di Reynolds Re, equindi sostanzialmente ideali, cipossono essere regioni in cuigli effetti viscosi sono importan-ti, e influenzano il comportamen-to dell’intero flusso.

Un caso tipico è quello in cuiun flusso viscoso viene a con-tatto con la superficie di un cor-po solido in esso immerso. Intal caso, gli elementi fluidi im-mediatamente a contatto con laparete solida hanno velocitànulla rispetto alla parete stes-sa, per effetto dell’attrito fra soli-do e fluido. Questo fenomenofisico viene generalmente de-scritto come condizione di ade-renza a parete. Gli elementi flui-di a contatto con la parete, a lorovolta, applicano agli elementiimmediatamente adiacenti sforzidi taglio non nulli. Tali sforzi sonoproporzionali alla variazione divelocità in direzione perpendico-lare alla parete e alla viscositàdel fluido, e determinano un ral-lentamento degli elementi stes-si. Come illustrato in Fig. 2, muo-

vendosi lungo il corpo, in direzione x, ilfenomeno si estende progressivamenteall’interno del flusso fino ad una certa di-stanza dalla parete δ(x). In prossimitàdella parete, quindi, il flusso ha una velo-cità u(x,y) variabile punto per punto, e piùbassa rispetto alla velocità del flussoindisturbato U. La regione così individua-ta viene detta strato limite. Lo strato limitesi genera in prossimità della superficiedi ogni corpo solido immerso in un flus-so viscoso in moto relativo rispetto adesso. In Fig. 3 si riporta, come esempio,la visualizzazione, ottenuta da esperimentidi laboratorio, dello strato limite svilup-pato su un profilo alare.

Nello strato limite sono dunque im-portanti, e quindi non trascurabili, gli ef-fetti viscosi. Il suo spessore δ(x), indicatoin Fig. 2 dalla linea tratteggiata, dipendedalle caratteristiche del flusso (viscositàµ, densità ρ e velocità del flussoindisturbato U) e dalla lunghezza L delcorpo solido, cioè dal numero diReynolds Re. Tipicamente lo spessoredello strato limite è piccolo rispetto alledimensioni del corpo solido. Ad esem-pio, sull’ala di un comune aereo passeg-geri in volo, lo strato limite che si generaper effetto del moto relativo dell’aria puòavere uno spessore dell’ordine di qual-che centimetro. Tuttavia, l’impatto deglieffetti viscosi all’interno dello strato limiteè importante, dato che da essi dipende

la resistenza all’avanza-mento che il corpo soli-do incontra muovendo-si rispetto al fluido.

Flussi Laminari e Tur-bolenti

In natura è possibi-le osservare essenzial-mente due diversi regi-mi di flusso, aventi ca-ratteristiche molto diver-se fra loro: flussi in re-gime laminare e flussiin regime turbolento.

Si parla di flusso laminare quando ilmoto del fluido avviene in modo ordinato,simile a quello di tante lamine sovrappostein relativo scorrimento (da cui il nome). Inun flusso laminare, le velocità e le variabilitermodinamiche sono stazionarie o varia-no lentamente e con regolarità nel tempo,e piccole perturbazioni del moto sono rapi-damente smorzate.

(c) Struttura del flusso nei diversi regimi

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(a) Strato limite laminare (Re basso)

(b) Strato limite turbolento (Re alto)

Figura 5. Struttura dello stratolimite e resistenzaviscosa per una sferain acqua (da [2]).

mero di Reynolds Re per una sfera. Sipuò osservare come, all’aumentare delvalore di Re (passando cioè da un flussolaminare ad un flusso completamente tur-bolento) il valore di CD diminuisce di di-versi ordini di grandezza, passando dalvalore CD = 100 per Re = 1 ad un valorecirca mille volte più piccolo (CD 0,1) perRe 106. Nel caso di una sfera, dunque,un flusso turbolento offre una resistenzaall’avanzamento notevolmente inferiore ri-spetto ad un flusso laminare.

Flussi Subsonici e TransoniciCome visto, se un flusso acquista una

velocità u confrontabile con la sua veloci-tà del suono a (u a), la sua densitàvaria significativamente al variare dellecondizioni di moto, e gli effetti di compri-mibilità diventano importanti. Due sono iprincipali fenomeni fisici osservati:

1. la comparsa di onde d’urto al-l’interno del flusso, che consistono inbrusche e forti variazioni della veloci-tà e delle altre grandezze termodina-miche in una regione molto ristrettadel flusso;

2. il fenomeno del choking (in in-glese, “soffocamento”), per il qualeesiste un valore massimo della por-tata (cioè della massa per unità di tem-po) di fluido smaltibile da un condot-to.

In analogia col ruolo svolto dal nume-ro di Reynolds Re nel caso degli effettidella viscosità, anche nel caso degli ef-fetti di comprimibilità è possibile definireun parametro adimensionale capace dimisurare la loro importanza. Tale para-metro si chiama numero di Mach, ed èdefinito come il rapporto fra la velocità delflusso u e la velocità del suono a:

(3)

Così, se il valore del numero di Mach Maè “basso” (Ma < 0.3), il flusso è incompri-mibile. Al crescere del suo valore, si in-contrano i regimi di “flusso comprimibilesubsonico” (0.3 < Ma < 0.8), “flussocomprimibile transonico” (0.8 < Ma < 1.2)e “flusso supersonico” (1.2 < Ma). Consi-derando, ad esempio, l’aria, in condizioninormali di temperatura e di pressione lavelocità del suono è circa a 1100km/h.Tutti i moti dei venti rientrano quindi nelregime dei flussi incomprimibili, mentreil moto degli aerei viene a cadere nei re-gimi di flussi subsonici (aerei civili) etransonici (aerei militari), con alcune puntein campo supersonico, nel caso degliaerei militari di ultima generazione.Il primo fenomeno associato alla com-primibilità, le onde d’urto, è, come det-to, caratterizzato da una improvvisa va-

riazione delle grandezze fluido-dinamiche e termodinamichedel flusso, che avviene in unaregione spaziale molto limitata.A tale fenomeno sono dovuti glieffetti associati alla propagazio-ne delle onde sonore emesseda una sorgente acustica in mo-

I flussi turbolenti sono invece caratte-rizzati da un moto fortemente disordinatoe vorticoso, in cui si osserva un intensomiscelamento fra strati diversi di fluido.Sia la velocità che le variabili termodina-miche hanno un andamento mediamen-te regolare nel tempo, come nel caso la-minare, ma a questo campo di moto me-dio si sovrappongono fluttuazioni rapidee casuali, che rendono estremamentedifficile descrivere il moto in dettaglio.

In Fig. 4 sono riportati per confronto idue diversi regimi nel caso di un flussouscente da un tubo. È evidente la mag-gior complessità della struttura del flus-so turbolento (Fig. 4(b)) rispetto a quellolaminare (Fig. 4(a)). La diversa strutturadel flusso nei due diversi regimi è sche-maticamente illustrata in Fig. 4(c): in re-gime laminare, ogni strato di elementi flui-di si muove con regolarità dall’ingressoall’uscita del tubo, senza mescolarsi congli strati adiacenti. In regime turbolento,invece, i diversi strati si mescolano fraloro, e non è più possibile individuare tra-iettorie regolari per i singoli elementi. Èpossibile che un flusso sia inizialmentelaminare, e successivamente, nel corsodel suo sviluppo, diventi turbolento. Lafase in cui avviene il passaggio da lami-nare a turbolento viene detta transizione.

Come nel caso dei flussi ideali e vi-scosi, la tipologia di flusso, laminare oturbolento, è determinata dal valore as-sunto dal numero di Reynolds Re. Tipica-mente, se Re è “basso” (generalmenteRe ≤ 103), il flusso è laminare. Per valoridi Re compresi fra 103 e 104 si ha transi-zione da regime laminare a turbolento.Se invece Re è “alto” (Re ≥ 104) il flusso èturbolento. Tali valori di Re non sono daconsiderare come limiti “rigidi” di pas-saggio da un regime ad un altro, ma piut-tosto come valori indicativi, ordini di gran-dezza di riferimento. Dato che, come pre-cedentemente discusso, i flussi più co-muni sono caratterizzati da alti valori delnumero di Reynolds (Re 105), in naturasi incontrano più facilmente flussi turbo-lenti che laminari.

Il diverso regime, laminare o turbolen-to, non ha influenza solo sulla strutturadel flusso, ma anche su altri effetti globa-li, quale la resistenza opposta ad un cor-po solido che si muove rispetto al fluido.Si consideri, ad esempio, il moto di unasfera in acqua (flusso incomprimibile), il-lustrato in Fig. 5. Forma e spessore dellostrato limite che si sviluppa sulla sferasono notevolmente diversi nei due diver-si regimi, laminare (Fig. 5(a)) o turbolen-to (Fig. 5(b)). Così è anche per la forza diresistenza viscosa applicata dall’acquaalla sfera nei due casi. In Fig. 5(c) è ripor-tato l’andamento sperimentale delcoefficiente di resistenza viscosa CD, pro-porzionale a tale forza, in funzione del nu-

(c) Coefficiente di resistenzaviscosa cd in funzione delnumero di Reynolds Re

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(b) Sorgente a velocitàsonica (Ma = 1)

vimento all’interno di un fluido,noti dall’esperienza di tutti igiorni. Si consideri una sorgen-te acustica (ad esempio, un ae-reo in volo) in movimento in unfluido con velocità U. Per sem-plicità, si supponga che la sor-gente sia puntiforme e cheemetta rumore in modo unifor-me in ogni direzione dello spa-zio, cosicché i fronti delle ondesonore sono circonferenzeaventi il centro in corrispon-denza del punto dello spazioin cui si trova la sorgente al mo-mento della emissione. Il fe-nomeno è illustrato schemati-camente in Fig. 6. Sono possi-bili tre diversi casi:

sorgente in moto con velocitàsubsonica (Ma < 1):in questo caso, l’onda sonoraraggiunge ogni punto dellospazio attorno alla sorgente,come illustrato in Fig. 6(a). Pereffetto del moto della sorgente,i fronti d’onda circolari sischiacciano dalla parte in cuila sorgente avanza, e si allon-tanano dalla parte opposta. Ciòdetermina il ben noto fenome-no dell’effetto Doppler per cui,il tono del rumore dell’aereo inavvicinamento sembra più acu-to del normale, mentre quandol’aereo si allontana il tono sem-bra più basso;

sorgente in motocon velocità sonica(Ma = 1):in questo caso, la sor-gente acustica simuove assieme aifronti d’onda da essaemessi, e l’onda so-nora raggiunge sola-mente i punti situatinel semispazio da cuila sorgente proviene(Fig. 6(b));sorgente in moto convelocità supersonica(Ma > 1):in questo caso, la sor-gente precede nel suomoto i fronti d’onda, e

l’onda sonora può essere per-cepita solo all’interno di una re-gione conica detta cono di Mach(Fig. 6(c)) (zona del rumore),mentre all’esterno di tale regio-ne nessun segnale acusticopuò pervenire (zona del silen-zio). La superficie di separazio-ne del cono di Mach costituisceun’onda d’urto di spessore

estremamente ridotto. L’apertura geome-trica del cono di Mach dipende dal valoredel numero di Mach Ma, ed è tanto piùridotta quanto maggiore è tale valore.

Questo comportamento delle ondesonore è responsabile del ben noto fe-nomeno del “boom” sonico che si avver-te al passaggio di un aereo supersonico,illustrato in Fig. 7. Infatti, un osservatoreche si trova a terra non si accorge delpassaggio dell’aereo se non nel momen-to in cui entra all’interno del cono di Machda esso prodotto. In quel momento eglipassa bruscamente dalla zona del silen-zio alla zona del rumore, percependo unrumore tanto intenso quanto improvviso.

Il secondo fenomeno associato aglieffetti di comprimibilità, il choking, si os-serva ogni volta in cui si ha un flussocomprimibile all’interno di un condottoa sezione variabile, come quello illu-strato in Fig. 8: il flusso proviene da si-nistra, dove sono fissate determinatecondizioni a monte (essenzialmentepressione e temperatura), incontra unrestringimento di sezione del condotto(la cui sezione ad area A minima è det-ta gola), e di seguito un nuovo allarga-mento. Tale configurazione viene indi-cata come condotto convergente–diver-gente. A valle, in uscita dal condotto stes-so, la pressione viene fatta variare inmodo da variare le condizioni di flussoall’interno del convergente–divergente.Sperimentalmente, si osserva che, sela velocità u del flusso ne condotto rag-giunge e supera la velocità del suonoa, la portata, cioè la massa di fluido cheattraversa il condotto nell’unità di tem-po, raggiunge un valore massimo e nonaumenta più, anche aumentando ulte-riormente la velocità. Questo fenomenoviene indicato come choking del con-dotto, dato che esso risulta “strozzato”,e non può smaltire una portata maggio-re di quella massima, a meno di nonaumentarne la sezione. Risolvendo leequazioni che governano il moto del flui-do, si osserva che la condizione di

(a) Sorgente a velocitàsubsonica (Ma < 1)

(c) Sorgente a velocitàsupersonica (Ma > 1)

Figura 6. Fronti d’onda emessida una sorgente acusticain movimento in un fluido(da [2]).

Figura 7. Fenomeno del “boom” sonicodovuto ad un aereo in motosupersonico (da [2]).

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sonicità (Ma = 1) è sempre raggiuntanella sezione di gola, mentre a valle diquest’ultima si forma un’onda d’urtoche r iporta i l f lusso ad un regimesubsonico (Ma < 1).

Occorre considerare l’effetto dichoking in tutte quelle applicazioni in cuiè importante l’effetto della portata di flus-so in un condotto. Ad esempio, nel moto-re di un aereo (Fig. 9(a)), la portata è as-sociata alla spinta che il motore può svi-luppare, e quindi al massimo caricotrasportabile dall’aereo. Come illustratoin Fig. 9(b), l’aria che entra nel motore sitrova ad attraversare un complesso in-sieme di condotti di sezione variabile, incui viene accelerata, prima di uscire dal-la parte posteriore e fornire la spinta al-l’aereo. Dato che il flusso all’interno delmotore può raggiungere velocità soniche,l’effetto di choking deve essere tenuto indebito conto nel determinare le presta-zioni del motore.

CONCLUSIONIPerché dunque i fluidi sono “scono-

sciuti”? Da quanto discusso, risultachiaro che il comportamento dinamicodi questo stato fisico della materia, in-contrato nelle esperienze quotidiane piùcomuni ed in una serie innumerevole diapplicazioni tecnologiche, è in genera-le estremamente complesso. Questacomplessità non è dovuta tanto alle leggidella fisica che lo governano, rappre-sentate dalle ben note leggi di Newtondella meccanica classica e dai principidella termodinamica, quanto ai fenome-ni ad esso associati, quali gli effetti del-la viscosità (in particolare la turbolen-za) e della comprimibilità del fluido(onde d’urto, choking, etc...). Tutto ciòsi riflette nella complessità dei modellimatematici utilizzati per la descrizionedelle caratteristiche dei flussi, e nellamancanza, a tutt’oggi, di una teoriacompleta ed esaustiva, capace di forni-re previsioni dettagliate sul moto dei flui-di in ogni condizione di moto.

A tali difficoltà di ordine fisico e ma-tematico, si aggiunge, inoltre, il fatto che

le equazioni della fluidodinamica nonpossono essere risolte esattamente inconfigurazioni geometriche complesse,quali quelle incontrate nelle applicazio-ni. Così, soluzioni teoriche esatte pos-sono essere ottenute solo in casi mol-to semplici (lastre piane, condotti circo-lari a sezione costante, etc..), e sottoipotesi molto restrittive (flussi ideali olaminari). Negli altri casi, il supportodell’attività sperimentale rappresentaancora un complemento essenzialedello studio teorico. Come giustamen-te osservato da White [2], “bisogna te-nere ben presente che teoria ed espe-rimenti devono sempre marciare manonella mano in ogni studio di fluidodina-mica.”

Per concludere, è importanteevidenziare il fatto che, nel corso degliultimi anni, a fianco della “sperimenta-

Riferimenti bibliografici[1] Caforio, A., and Ferilli, A., 2004.

Fisica, Vol. 1. LeMonnier.[2] White, F. M., 2002. Fluid

Mechanics. McGraw–Hill.[3] Landau, L. D., and Lifshitz, E.

M., 1987. Fluid Mechanics.Butterworth–Heinemann.

Figura 8. Condotto convergente–divergente.

(a) vista esterna del motore montato sull’ala dell’aereo

(b) spaccato del motore

Figura 9. Motore aeronautico per aerei commerciali.

zione tradizionale” di laborato-rio ha acquisito sempre mag-giore importanza la “sperimen-tazione numerica”, basata sul-la risoluzione al calcolatoredelle equazioni della fluidodi-namica, capace di fornire infor-mazioni sempre più dettaglia-te ed accurate sulla strutturadei flussi, per applicazioni siain ambito scientifico che tecno-logico. ◊◊◊◊◊

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LE CONICHE COME LUOGHI GEOMETRICI

ELLISSEDefiniamo l’ellisse come il luogo geometrico dei punti del piano per i quali ècostante la somma delle distanze da due punti fissi detti fuochi.

ELLISSE costruzioneDalla definizione seguono due semplici costruzioni dell’ellisse, unameccanica e l’altra geometrica:

• “metodo del giardiniere” (costruzione meccanica)• costruzione geometrica a partire da unacirconferenza• costruzione geometrica a partire da unsegmento

Metodo del giardiniereQuesta costruzione consiste nel fissare i due capi diun filo inestensibile in due punti F1 e F2 di un foglio dadisegno. Facendo scorrere la punta P di una matitalungo il filo tenuto ben teso, si traccia una linea curva chiusa

formata da punti per i quali la somma delle distanze da F1 e F2 è costante, inquesto caso uguale alla lunghezza del filo. Questo metodo è detto anche delgiardiniere perché può essere utilizzato per tracciare sul terreno aiuole acontorno ellittico.

Costruzione geometrica a partire da una circonferenzaLa seconda costruzione si effettua con riga e compasso: Si stabilisce laposizione dei due fuochi F1 e F2 si disegna una circonferenza di centro un puntoF1 e raggio = k (ovvero uguale alla somma delle distanze dai due punti fissiPF1 + PF2 = k), F2sarà interno alla circonferenza. Preso un punto A sullacirconferenza si traccia la retta AF1 e l’asse del segmento AF2. Il loro punto di intersezione P appartiene adun’ellisse di fuochi F1 e F1 . Si può dimostrare inoltre che: l’asse del segmento AF2 è tangente all’ellisse.

Marice Massai

Dicesi LUOGO GEOMETRICO l’insieme di tutti e soli i punti che soddisfano a certe condizioni, o godono unastessa proprietà.

Sono luoghi geometrici:

la bisettrice di unangolo: luogo deipunti del pianoequidistanti dai latidell’angolo.

Anche le coniche ovvero quelle curve che siottengono intersecando un cono rotondo indefinitocon un piano non passante per il vertice del cono,sono luoghi geometrici.

l’asse di un segmento:luogo dei punti del pianoequidistanti dagli estremidel segmento.

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Costruzione geometrica a partire da un segmentoFissiamo sul piano un segmento AB uguale alla somma delle distanze di unpunto dell’ellisse dai due fuochi. In seguito, scelto ad arbitrio un punto P internoal segmento AB, si tracciano due archi di circonferenza rispettivamente di

centro 1F e raggio PB e di centro 2F e raggio AP. I punti P e P’ in cui gli archisi intersecano appartengono all’ellisse. Facendo variare P su AB si ottengono, acoppie, tutti i punti della curva.

ELLISSE e le sue proprietà geometriche

1) Sia 0P un punto dell’ellisse di fuochi 1F e 2F . Allora la bisettrice di

uno dei due angoli formati dalle rette 10 FP e 20 FP è la tangente all’ellisse

in 0P , l’altra la normale all’ellisse in 0P . (ovvero la perpendicolareall’ellisse in un suo punto qualsiasi divide per metà l’angolo formato daisegmenti che uniscono questo punto con i due fuochi).

Definiamo la parabola come il luogo geometrico dei punti del piano equidistanti daun punto fisso detto fuoco e da una retta fissa detta direttrice. L’asse della parabola è la retta passante per il fuoco e perpendicolare alla direttrice. Il vertice è il punto di intersezione tra l’asse e la parabola.

PARABOLA costruzioneAssegnata la retta d e il puntoF, consideriamo un punto Hsu d, quindi consideriamo ilpunto di intersezione P tral’asse del segmento FH e laperpendicolare a d passanteper H. Poiché P appartieneall’asse del segmento FH, èequidistante dagli estremi,pertanto P appartiene alla parabola di fuoco F e direttrice d.

Dimostrazione sinteticaLa dimostrazione procede per assurdo.Supponiamo, per assurdo, che sull’asse del segmento FH(che sicuramente non è perpendicolare alla direttrice) visia un ulteriore punto P’ della parabola (ovvero che l’assedel segmento FH non sia tangente in P ma passi per duepunti della parabola P e P’) Poiché P’ si trova sull’asse delsegmento FH, → P’F=P’HD’altra parte poiché P’ si trova anche sulla parabola (quindiè equidistante dal fuoco F e dalla direttrice)→P’F = P’H’Ma allora nel triangolo rettangolo P’HH’ abbiamo l’ipotenusaP’H uguale al cateto P’H’ ma sappiamo che l’ipotenusa èsempre maggiore dei cateti e quindi c’è contraddizione.

2) Coppie di tangenti ortogonali ad un ellisse si incontrano in un punto di una stessa circonferenza avente centrocoincidente con il centro dell’ellisse.

PF = PH

PARABOLA

“L’asse del segmento FH è tangente alla parabola”

PARABOLA e le sue proprietà geometriche

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BibliografiaBoyer, Carl B., Storia della matematica, Oscar Studio Mondadori.Descartes, René, Discorso sul metodo,Eric T. Bell, I grandi matematici, Sansoni, Firenze, 1997Università di Roma “Tor Vergata” - Laboratorio: Geometria della visioneManuali scolastici di vari autori (Ferrauto, Maraschini-Palma, Lamberi-Mereu-Nanni, Dodero...)

“Le tangenti a una parabola condotte da unqualunque punto P della direttrice sono tra loroperpendicolari e il segmento di estremi i punti ditangenza passa per il fuoco F”

“In ogni punto P della parabola, gli angoli che latangente forma con la retta congiungente P e il fuocoF e che la tangente forma con la retta perpendicolare per P alla direttrice hanno ugualeampiezza”

Definiamo l’iperbole come il luogo geometrico dei punti P del piano per iquali è costante il valore assoluto della differenza delle distanze da duepunti fissi F1 e F1 detti fuochi

IPERBOLE costruzioneMetodo del giardiniereLa costruzione dell’iperbole con il metodo del giardiniere è molto menonota della costruzione utilizzata per l’ellisse.Considerato un righello rigido AB, di lunghezza l, libero di ruotare attorno al

punto A fissato, si prenda una corda, con una lunghezza s inferiore a quelladel righello, e la si fissi in un punto H come in figura. Si faccia inoltre inmodo che la corda, rimanendo sempre tesa, tocchi il righello in un punto Pe poi vi rimanga attaccata fino all’estremo B, dove è fissata sul righellostesso. Allora PH + PB = s = PH + 1 - PASe ne deduce che PA - PH = 1 - s = costante, cioè che il punto P descriveproprio un tratto di iperbole (naturalmente fin che lo spago è sufficiente!).Scambiando i ruoli di A e H si descrive il ramo simmetrico di iperbole.

Costruzione a partire da un segmentoSi disegni la retta passante per AB poi segnare su di essa un altropunto P, con P esterno ad AB sarà PA - PB = 2a.Disegnare una qualunque retta, poi prendere su di essa due puntiF1, F2.Utilizzando il compasso costruire le due circonferenze di centro F1e raggio AP e di centro F2 e raggio PB.Siano P’, P’’ l’intersezione tra le due circonferenze. Si costruiscanoi segmenti F1,P’, F2P’. Al variare di P sulla retta per AB varia anchela posizione di P’ restando però invariata la differenza delle lorodistanze. Il punto P’ descrive quindi un’iperbole.

IPERBOLE e le sue proprietà geometricheL’iperbole equilatera gode della seguente proprietà:1) Sia P un punto dell’iperbole equilatera. Al variare di P, l’area del triangolodelimitato dalla retta tangente all’iperbole in P e dagli asintoti è costante. Tutte le proprietà geometriche enunciate possono essere dimostrate pervia analitica. ◊◊◊◊◊

IPERBOLE

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Il percorso che deve compiere la scuola di fronte alrivoluzionario cambiamento apportato nella formazione dall’informazione e la comunicazione tecnologiche;

come cambiano i tempi e gli spazi dell’apprendimento;gli stili cognitivi degli allievi del nuovo millennio; il proble-ma della formazione degli insegnanti: come evitare il gapgenerazionale tra scuola e studenti: questi gli argomen-ti fondamentali affrontati in questo interessante testo diPaolo Ferri (1), La scuola digitale, B. Mondadori,2008. La rivoluzione digitale in corso, in seguito soprat-tutto all’introduzione del web2.0 (2) può essere parago-nata a invenzioni secolari come l’introduzione del vapo-re nei processi produttivi oppure a eventi chiave dellastoria dell’umanità come per esempio l’invenzione dellascrittura o della stampa? Quest’ultima ipotesi potrebbeessere confermata da ricercheche sostengono come l’ homoda economicus si stia finalmen-te trasformando in sapiens,“inverando” così l’attributoscientifico; rapidissima è sta-ta infatti la diffusione della tec-nologia cognitiva: secondo unaricerca di P.C. Rivoltella (3) del-l’Università Cattolica di Milanoun italiano su due ha accessoai servizi digitali e la percen-tuale di adolescenti è addirit-tura al 78%.Dall’introduzione di internet,non siamo più né nell’epoca gutemberghiana né in quel-la dei massmedia, la fissità della stampa e l’intransitivitàpassivante del mezzo televisivo non sono più in grado direggere la necessità di un flusso bidirezionale di infor-mazioni: ormai siamo immersi in un universo ipermedialedi comunicazione audio visuale fluido, in perenne tra-sformazione attraverso la rete mondiale ed è proprio lascuola a doversi far carico della nuova alfabetizzazioneconnessa con questo processo. Ma qual è la differenzafra l’apprendimento gutemberghiano e quello tramiteipertesto o ipermedia fruiti on-line si chiede l’autore?Riprendendo una teoria elaborata da Cesare Segre nel1974 (4) sul problema della sintesi memoriale, possiamoaffermare che di fronte a un libro non ancora letto unostudente ha davanti a sé un’infinita possibilità di signifi-cato limitata solo dal campo semantico del titolo delvolume ma, a mano a mano che procede nella lettura lasua sintesi memoriale diviene sempre più preponderantementre il campo di possibilità aperte diminuisce fino agiungere al grado 0 delle possibilità quando la lettura hatermine, in quanto la formazione avviene tramite un’or-

dinata successione di significati contrapposti, in modoomogeneo e lineare; invece nell’ipertesto e nell’ipermediadidattici l’ordine del discorso cambia strutturalmente: nonè gerarchico intanto ed è espresso in una rete di unità dilettura (lessìe) attraversabile dai fruitori e modificabile,fatto che comporta che la sintesi memoriale dell’utentenon è più un orizzonte che si saturi progressivamentesulle intenzioni del docente ma, come dice Ferri, “ unaquinta mobile che si sposta a ogni nuovo percorso intra-preso”.Tratti distintivi della didattica ipermediale saranno dun-que:a) l’impossibilità di controllo gerarchico del percorsoformativo da parte del docente, che dovrà modulare lasua offerta di contenuti in base alle integrazioni del grup-

po di apprendimento;b) la fusione di differenti modali-tà comunicative come elementilinguistici, grafici, video, iconici,e sonori che in generale si inter-secano in una struttura a rete(network).Se osserviamo le camere deibambini o preadolescenti di oggici accorgiamo che esse sonotecnologicamente molto più ric-che di quelle della nostra gioven-tù e soprattutto di quanto lo sia-no le loro aule scolastiche: ac-canto a radio televisione e libri,

troviamo computer, servizi Internet, webcam e videogiochi.Il processo è inarrestabile, afferma Ferri e rischia di aprirsiuno iato incolmabile fra società e scuola, iato tanto piùpericoloso se si pensa che è compito proprio della scuoladi educare ai media, mettendo ordine nella confusionedi messaggi che bombarda tutti noi, ma che colpiscesoprattutto i giovani.Considerando che la crescita o il declino di un paesedipende dal ruolo e dalla capacità innovativa di universi-tà, centri di ricerca,sistema scolastico, gravissimo erro-re sarebbe lasciare ai giovani la galassia digitale cheporterebbe ad un autodidattismo confuso e pericoloso eprobabilmente ad un progressivo, inesorabile allontana-mento dall’istituzione formativa.La scuola avrà quindi il dovere di educare bambini e ado-lescenti ad una fruizione mediale che permetta loro diaccedere a un livello di “alfabetizzazione mediale”taleda consentire di codificare in modo critico e con consa-pevolezza la molteplicità di messaggi e di contenuti co-municativi, informativi e formativi che li inonda.Prima di analizzare quali siano gli stili cognitivi degli stu-

Il futuro, la scuola digitale?

ormai siamo immersiin un universoipermediale di

comunicazione audiovisuale fluido

Manuela Taddei

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denti del nuovo millennio, Ferri definisce la differenza fra idigital native (DN) e i digital immigrant o gutemberg native:I primi sono coloro che sono nati intorno alla metà deglianni ottanta se non, per lo meno in Italia, addirittura dal1996 in poi e che crescono, apprendono, comunicano esocializzano all’interno dell’ecosistema mediale dell’infor-mazione e della formazione digitali e globalizzate; i secon-di coloro che, come tutti gli immigranti, hanno dovuto adat-tarsi al nuovo ambiente socio-tecnologico ma, come dire,conservano il loro accento gutemberghiano; Internet saràsempre una seconda scelta e questi leggeranno sempre imanuali di un software invece di affidarsi all’ uso del pro-gramma stesso per capirne l’uso. In altre parole per gliimmigrant vivere nel mondo digitale è come apprendereanche alla perfezione una seconda lingua, che però nonuseranno mai per pensare!Dunque i DN stanno probabilmente sviluppando schemidifferenti nell’interpretare la realtà che li circonda, dico“probabilmente” perché insufficiente è ancora una trat-tazione scientifica dell’argomento data la recente diffu-sione del fenomeno. (5)

I DN sono molto più abituati di noi ad ambienti digitali diapprendimento; pensiamo ai videogiochi, per esempio: nontutti inficiano le capacità di apprendimento, ce ne sonoalcuni che richiedono riflessione, sviluppando nei ragazziun’attenzione selettiva e forse un’intelligenza secondo unamodalità nuova. Ma per Ferri, questi videogiochi sono solola punta di un iceberg perché i DN hanno a disposizioneuna gran quantità di strumenti di apprendimento e comuni-cazione: Messenger, cellulare, chat di internet, siti di scam-bio e condivisione di contenuti on-line. Da non sottovaluta-re nello studio dei nuovi comportamenti cognitivi il cosid-detto multitasking: i DN studiano mentre ascoltano musi-ca, mantengono il contatto MSN, mentre il televisore èacceso. Per l’autore questo comportamento non è neces-sariamente foriero di disattenzione e disorientamento, inquanto forse i DN stanno imparando a “navigare” attraversofonti differenti di informazione e comunicazione, muoven-dosi in maniera non lineare. Essi imparano per esperien-za, approssimazione, assestamenti, non hanno bisognocome noi adulti di inquadrare un oggetto di studio prima diaffrontarlo (attenzione! Ferri non esprime valutazioni su que-sto, individua solo i fatti da cui dobbiamo partire per uncorretto approccio). Essi procedono attraverso prove ederrori, imparando dai medesimi, sicuramente in modo menodogmatico del nostro. “Per trovare la soluzione a un pro-blema o apprendere il significato di un concetto i digitalnative utilizzano un nuovo approccio: piuttosto che inter-pretare, configurano; piuttosto che concentrarsi su oggettistatici, vedono il sapere come un processodinamico;piuttosto che essere spettatori, sono attori e au-tori delle trame multiple e delle molteplici conclusioni chedanno alle storie che essi stessi costruiscono in coopera-zione con i loro pari. L’approccio del digital native alla co-noscenza può (…) essere descritto nel modo seguente:basato sulla ricerca e la scoperta, a rete, esperienziale,collaborativo, attivo, autorganizzato, centrato sul proble-ma solving e sulla condivisione dei saperi.” (Ferri, ibidem,p.54).La scuola si trova dunque di fronte a una situazione nuo-va, ad un’ accelerazione del tempo della formazione, auna disponibilità di contenuti in tempo reale che potreb-bero portare ad una rincorsa all’informazione piuttostoche a una riflessione, cosa, invece, che avveniva e avvie-ne nell’universo gutemberghiano; ma il problema, notalucidamente Ferri, “non è quello di sostituire integral-mente il paradigma lineare della formazionegutemberghiana di scrittura/lettura alfabetica con quel-lo reticolare e multicodicale dei multimedia. Non è nem-meno quello di sostituire integralmente lo spazio e il tem-po lineare e riflessivo dell’apprendimento testuale conquello reticolare, topologico e distrattentivo (6) degliipermedia”. Si tratta invece di ri-mediare la linearità e lariflessione stimolate dal testo gutemberghiano, inseren-dole nella “temporalità estesa” dei media telematici.Per esempio, dato che la rete rende elastici spazio etempo di apprendimento, perché non utilizzarla, renden-do sempre disponibili i contenuti on-line, offrendo in ognimomento agli alunni la possibilità di interagire fra loro e/

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il laboratorio informatico confina ladidattica multimediale in una

dimensione specialistica, isolandola daldialogo con la didattica tradizionale

o con l’insegnante? Anche la lezione in classe potrebbecosì essere più stimolante, grazie alla possibile discus-sione su quanto elaborato on-line. Questo tipo di forma-zione è definito blended, mista cioè on-line e tradiziona-le.E’ evidente a questo punto, come del resto già prece-dentemente accennato che forse sono da ridefinire iltempo e lo spazio. Ferri suggerisce che “Il tempo e lospazio della vita e della formazione si sgancianodefinitivamente, anche nella loro dimensione interiore,dalla loro origine astronomica e assumono caratteristi-che individuali e so-ciali di natura multiplae variabile. Peresempio, uno studen-te che partecipi a unprogetto di formazio-ne on-line che preve-da il coinvolgimentoattraverso la mail, unaclasse virtuale o unostrumento divideoconferenza, puòtrovarsi in contattodiretto e quotidiano con altri studenti negli Stati Uniti oin Albania, che non condividono la sua lingua, le suepratiche sociali, alimentari, familiari e di relazione oltreche di apprendimento. In questo modo avrà la possibili-tà, oltre che di sviluppare quel progetto didattico speci-fico, anche di ampliare la sua formazione conoscendo econdividendo nuovi modi di relazionarsi al mondo e nuo-ve culture.”Ecco perché occorre abbattere i muri e ridisegnare glispazi di un’aula scolastica.Un elemento che rivela il gap che si sta creando frastudenti digital native e insegnanti digital immigrant èproprio il fatto che il computer che è entrato a pienodiritto addirittura nelle camere dei bambini e degli adole-

scenti, stenta a trovare una collocazione centrale nellescuole ( per lo meno in Italia ). La modalità più diffusanella scuola italiana è il laboratorio informatico che, difatto, confina, sostiene Ferri, la didattica multimedialein una dimensione specialistica, isolandola dal dialogocon la didattica tradizionale. Per l’autore questo è pro-fondamente sbagliato: la ghettizzazione del computerveicola un messaggio per cui tecnologia e crescita cul-turale sono incommensurabili.Ma come può e deve essere strutturato allora un am-biente formativo che permetta alla didattica di valersi

appieno dellepotenzialità della rivo-luzione digitale?Occorreranno, sugge-risce Ferri, banchimobili e ricombinabili,un videoproiettore so-speso al soffitto, uncomputer per docen-te, dotato di schedatelevisiva, di scanner,e stampante e di unapostazione di

videoripresa digitale; ovviamente l’aula dovrà essere do-tata di una connessione di rete a banda larga e di uncomputer portatile per lo meno ogni quattro alunni, dota-to del software di fruizione e di produzione multimedialeper web.Nella fase di insegnamento frontale l’aula sarà simile aduna tradizionale, quando l’insegnante lo riterrà opportu-no lo spazio potrà essere modificato con la formazionedi isole di lavoro, intorno alle quali prenderanno posto glistudenti collegati con Internet, stampanti, scanner,videoproiettore. (7) E il libro di testo?Sta subendo e subirà sempre di più una metamorfosi digi-tale. Per ora la maggior parte delle case editrici si limita acorredarlo di eserciziari in DVD e solo alcune (Palumbo,

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Note1) Laureato in filosofia presso l’Università degli studi di Milano,Paolo Ferri lavora presso la casa editrice Bruno Mondadori diMilano in qualità di editor per il settore Università; tra le altreattività dirige la collana di Classici della filosofia commentatidella casa editrice.

(2)Tim O’Reilly, l’inventore di questo termine ( 2005, What IsWeb 2.0, Safari Books ) sostiene che questo consistenell’affermarsi di applicazioni che permettono agli utenti di crearee condividere contenuti online tramite strumenti quali Wiki, blog,YouToube, recensioni di Amazon. Questo fenomeno si basa quindisul fatto che gli utilizzatori del Web, attraverso la loro azionepartecipativa, aggiungono valore alle proposte del sito medesimo.Da qui il concetto di intelligenza collettiva (definizione di PierreLévy in L’intell igenza collettiva. Per un’antropologia delcyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996) per cui gli interventi degliutenti attraverso nuovi concetti e nuovi siti vengono integrati allastruttura del web da altri utenti che creano a loro volta link cosìcome le sinapsi nel cervello si rafforzano con le associazioni.

(3) Rivoltella P.C.,Screen Generation. Gli adolescenti e leprospettive dell’educazione nell’età dei media digitali, Vita ePensiero, Milano, 2006.

(4) Segre C., Le strutture e il tempo. Narrazione, poesia, modelli,Einaudi, 1974.

(5) Si sono occupati di questo tema fra gli altri, uno scrittorerusso, Viktor Pelevin con un romanzo e uno studioso di tecnologiedidattiche, Wim Veen, con alcuni saggi:

Pelevin V., Babylon. Un romanzo, A. Mondadori , 2000. VavilenTatarskij, il protagonista, appartiene a quella “generazionePepsi”nata in Russia negli anni ’60 che ora si trova a vivere nel melmosointerregno tra il vecchio e il nuovo.Vavilen a 21 anni leggePasternak, è iscritto all’Istituto di Lettere ed è un aspirante scrittore,ma assieme all’URSS crollano i suoi ideali e il ragazzo è costrettoad affrontare la realtà che lo circonda. Comincia così la suarapida ascesa sociale in una Russia ormai neocapitalista,cambiando così da aspirante scrittore a copywriter abituato allepiù sottili falsificazioni dei media. Il romanzo è una denuncia diuna società assoggettata al regime dell’informazione televisiva epubblicitaria. Veen W., A New Force for Change. Homo Zappiens,in “The Learning Citizen”, n. 7; Veen W., Vrakking B., HomoZappiens. Growing up in a Digital Age, Network ContinuumEducation, London.

(6) Per “distrattenzione” Ferri intende la modalità con cui si accedeai contenuti del web. “Invece di fruire i contenuti secondo latemporalità omogenea della successione dei significantialfabetici, adottiamo una modalità non lineare e “veloce” di accessoall’informazione che procede per associazioni non lineari,secondo una temporalità sincopata che prevede lunghe pause di“distrazione” e improvvise accelerazioni di “attenzione”concentrata.”

(7) Per conoscere un esempio concreto di un nuovo spazio peruna nuova scuola confronta i l caso della SnaefellsnesComprehensive Upper Secondary School (Islanda )nell’interventodi Jòna Pàlsdòttir “From idea to reality” al Convegnointernazionale”Re-mediare la scuola”organizzato da INDIRE edal Ministero della pubblica istruzione il 3 e 4 marzo 2006, i cuiatti sono disponibili in formato elettronico all’indirizzohttp://www.bdp.it/-convegno/remediarelascuola/materiali/.Ferri comunque nel testo in questione esamina il caso della scuolaislandese, dedicandole una decina di pagine (pp.78-87)

per esempio) a fornire una versione ridotta del manuale,contenente la trattazione essenziale della materia, letturedi base, test di verifica, integrata da DVD con fonti, appro-fondimenti, schede, iconografia. Ma questo nonbasta,afferma Ferri, occorrerebbe invece che le integrazionisi trovassero all’interno di un sito web correlato al volumestesso; tutti i materiali di approfondimento potrebbero es-sere inseriti in una piattaforma open source che favorisse iltrasferimento di materiale didattico e ambienti virtuali dicomunicazione e insegnamento. Nascerebbe così neglianni anche una specie di banca dati di contenuti utilizzabilida altri insegnanti della medesima disciplina.E’ questo ciò che l’autore intende per ri-mediare lalinearità del testo gutemberghiano.Emergono due dati certi, secondo Ferri, da quanto dettofin qui: il primo è che gli attuali studenti non sono piùuna versione in piccolo di quello che gli insegnanti eranoda studenti; il secondo è che con ogni probabilità gliattuali insegnanti non saranno mai in grado di utilizzarela tecnologia con l’ abilità dei loro studenti, ma hanno ildovere di adattare i loro metodi educativi alle esigenzedei loro allievi.Si arriva così all’ultimo punto analizzato dall’autore: laformazione degli insegnanti.Ferri ripercorre le politiche governative degli ultimi 10-15 anni, a partire dal 1995, col primo intervento strut-turato in questo campo, il PNI che prevedeva la forma-zione di circa ventimila docenti e la realizzazione disettemila strutture informatiche in altrettante scuolesuperiori. Il più serio intervento di abilitazione digitaledella scuola italiana è stato il PSTD, voluto daBerlinguer che però dopo la fine della stagione del-l’Ulivo, o per volontà politica o per incuria non ha rag-giunto gli obiettivi fissati; successivamente la“controriforma Moratti” (Ferri, ibidem) ha inteso la tec-nologia come strumento per premiare l’efficienza del-le realtà già avvantaggiate, snaturando così tutto ciòche era stato fatto fino a quel momento; attribuendoinoltre competenze esclusive alle regioni ha fatto sìche quelle più ricche come Lombardia e Veneto han-no potuto finanziare e rinnovare il nuovo sistema sco-lastico, mentre non hanno potuto farlo quelle più disa-giate. Ferri parla poi di “strabismo mediale e cultura-le” del governo di centro-destra, che ha annunciatocon grandissima visibilità sui media opere ed inter-venti grandiosi, che poi non sono stati sostenuti darisorse finanziarie. L’errore più grave degli ultimi anni èindividuato da Ferri nel cercare di insegnare l’informati-ca e non “con” l’informatica.

Confessiamo che la lettura di questo testo ci ha confu-so e a volte disorientato. Credo che noi insegnanti, cirendiamo conto che occorre un cambiamento nella di-dattica, ma forse non siamo ancora preparati, perché,come dice giustamente il nostro autore, “la rivoluzionedigitale è stata così rapida da mettere in forte tensionela capacità dei digital immigrant di comprendere la tra-sformazione in atto”. ◊◊◊◊◊

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