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SOMMARIORivista della società nazionaledegli operatori della prevenzione

NUMEROMONOGRAFICOSUL CONTROLLO DEGLIINFESTANTI DI INTERESSEURBANO E SANITARIO

Splendida primavera Domenica TaddeoPresentazione dei lavoriIl ruolo e la competenza: condizioni indi-spensabili per affrontare le problematichespecifiche Luigi SOlizzatoInfestanti urbani: rischi reali erischi immaginari Massimo Trentini 8Panoramica sulla disinfestazione italiana:professionisti e professionalità Luciano SassRapporti pubblico-privato e qualità deiservizi disinfestazione Angelo Tamburro 15Prodotti per la disinfestazione: conoscenzae loro impiego in sicurezzaLerella Faraoni, Franca Davanzo 17Comportamento e biologia delle principalispecie italiane di zanzara e strategie di lottaRomeo bellini 21Diffusione di Aedes albopictus in Italia eanalisi del rischio sanitario Roberto Romi 23Monitoraggio e controllo di Aedes albopictusnel cesenate Simona Macchini 28I vettori di leishmaniosi e prospettive dicontrollo Michele Morali 32Il controllo di zecche e pulci in ambientedomestico e urbano Giuseppe 7-asini 40La biologia e il comportamento delle principalispecie muscidiche Annunziata Giangaspero 44Le infestazioni nel campanoagro-zootecnico: un esempio di lavorointegrato Claudio Venturelll 49La corretta gestione degli effluentizootecnici Giuseppe Bonazzi 52HACCP e sicurezza alimentare:controlli e educazione quali strumentidella prevenzione Marino Fridel 57Il monitoraggio delle popolazioni murine diambiente urbano come sistema di controllodella qualità dell'ambienteMauro Cristo (di, Giorgio Chiuchiarelli 61Il controllo dei roditori in città e negliallevamenti zootecnici Dario Copizzi 69Infestanti del verde cittadino:interventi in qualità Nicoletta Vai 73Riflessioni sul controllo delle blatte in ItaliaGuglielmo Rompigliene 78Zecche e Roto-dosi di Lyme: epidemiologiae prevenzione Walter Oscar Pavan 83Avifauna selvatica in città Stefano Pirozzini 85Appendice Termiti: nemici in casa...fin troppo discreti! Valeria Zaf egnini 91La sicurezza degli operatori addetti alladisinfestazione A, Monteverdi, F. Escuti 94

In copertinaRackam, illustrazione perla fiaba "La pallad'oro"

NewsnopUn numero tutto dedicato agli atti di unconvegno, un numero un poco al di fuoridagli schemi classici di Snop. SolTideteallora agli insetti e alle altre bestiole chelo accompagnano, che sono frutto difantasia e nulla hanno a che fare con gliarticoli e dunque tutto posson fare fuor-ché infestare. Buona lettura.

Avvio campagna nazionale sottoscrizioneper finanziare lo sviluppo del sito web.

Si possono inviare contributi per la rivi-sta (articoli, notizie, lettere, ecc.) arivista @snop.itmateriali per il web aweb @ snop.it

NUMERO 61GIUGNO 2003

Autoriz.Trib. di Milano n.416 del 2517186Direttore respons. Claudio VenturelliDirettore Alberto BaldasseroniProg. grafico e disegni Roberto MaremmaniRedaz. Milano, via Mellerio 2

sped. in abbi post art2, comma 201c L.662/96 filiate Milanostampa:Tipografia Alfredo Colombo LECCO

Proprietà - Editore: Snop - Società NazionaleOperatori della PrevenzioneVia Prospero Finzi, 15 20126 Milano

AbbonamentiEuro 26,00 per tre numeriEuro 50,00 per sei numeriTramite versamento postale c/c n. 36886208SOCIETÀ NAZIONALE OPERATORI DELLAPREVENZIONE Via P Finzi, I5 20126 MILANOIndicando la causale del versamento el'indirizzo a cui spedire la rivista.Prezzo di un numero Euro 10,00

Dallo statuto SNOPArtl -E costituita l'Associazione denominata "Società NazionaleOperatori della Prevenzione ", in sigla SNOP, con fina!itascientifiche e culturali. L'Associazione, in quanto ente noncommerciale, si propone di:• sostenere ('impegno politico e culturale per lo sviluppodi un sistema integrato di prevenzione, finalizzato alla rimo-zione dei rischi e alla promozione della salute negli ambien-ti di vita e di lavoro, con particolare attenzione alla rete deiServizi e Presidi pubblici;• promuovere conoscenze ed attività che sviluppinoprevenzione e la promozione della salute dei lavoratoridella popolazione in relazione ai rischi derivanti dallodell'ambiente e dalle condizioni di vita e di lavoro;• favorire lo scambio di esperienze ed informazioni fra

ed il confronto sulla metodologia ed i coniapGMtà, per raggiungere l'omogeneità delle mod

perseguendo il miglioramento continuariatezza delle attività di prevenzione r

ndìàmale;• promuovere il confronto e l'integrazione tra sistemaprevenzione pubblico e sistema di prevenzione delle imp• promuovere un ampia confronto con le Istituzioni .Forze Sodati e le altre Associazioni Scientifiche su qtemi;• diffondere Tinfam azione e la cultura della prevenzione

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indirizzo del sito della nostra associazionewww.snop.it

L'Associazione non ha fini di lucro.

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Splendida primaveraDomenico Taddeo

Presidente SNOP

Tutto è (ri)cominciato tra Dicembre 2002 e Gennaio 2003 con un "let's go" i cui esiti erano tutti da verificare. Lebasi erano state poste dalla vita della SNOP stessa negli ultimi anni, da scelte di continuità ma anche di rinnova-mento, a partire da una rinnovata identità.

Per condensare le scelte, ci si può riferire alla trasversalità delle tematiche scientifiche inerenti la prevenzione, allarelazione tra le specificità di aree tematiche e gli aspetti integrativi di tutte le attività di Prevenzione.Altri passaggi sono stati realizzati nella scelta degli strumenti di comunicazione da adottare,nelle scelte di rela-zioni e anche sinergie con soggetti scientifici e sociali,nella scelta di una vita associativa che si legasse ai temispecifici locali,le sezioni regionali, ma fosse capace di dare opportunità anche in circuiti sovralocali,sollecitandoi legami sovranazionali e quelli del rapporto salute e globalizzazione.Distintiva è stata la propensione a legare la specificità della SNOP allo stare in rete con soggetti scientifici e isti-tuzionali, rifuggendo dall'appiattimento indistinto ma sapendo cogliere al massimo le sinergie possibili, coerenticon il mandato di "promuovere la prevenzione".Un giudizio su quanto realizzato lo si può formulare valutando l'importanza di documenti di politica sanitaria cir-colati in questi mesi all'interno della società, pensando alla concretezza di di presenze strutturate regionali, soprat-tutto alle iniziative culturali e scientifiche messe in campo, da cui sono scaturiti contatti con tanti che si sono cosìpotuti porre in relazione con SNOP.

Iniziative nazionaliPisa Convegno sulla prevenzione del rischio cancerogeno nei luoghi di lavoro con ECM Febbraio 2003. 350iscritti oltre 400 partecipanti, atti preparati per il convegno e materiali finali già fruibili sul sito web, con vasta ecoanche nel circuito informativo internet di settore. Abbiamo avuto picchi giornalieri di frequentazione del sito a cuinon eravamo abituati: Iniziativa che ha legato la tematica specifica della tutela della salute nei luoghi di lavoro aipiani territoriali di salute, allo sviluppo sostenibile, all'interfaccia sistema sanitario e danni alla salute legati allavoro. Motivo di rinnovato interesse tra soci, ex e nuovi della Toscana,III Convegno Evidence Based Prevention in Aprile a Verona con ECM. 380 partecipanti anche; qui sinergiecostruite e pervenute con più soggetti istituzionali e scientifici,temi e relazioni trasversali a tutti i settori della pre-venzione,atti già fruibili sul sito di Epicentro con prospettive di crescita ma anche di capitalizzazione e governodei risultati dell'iniziativa.Cesenatico 15-16 Maggio "Gli infestanti di interesse urbano e sanitario: comportamento, biologia e gestioneintegrata pubblico/privato". corsoECM 160 partecipanti da tutti i settori della Prevenzione,tema,contatti e rela-tori relativamente nuovi per SNOP, ma al centro di una impensabile rete di interesse. Si è dovuto respingere molterichieste di partecipazione e SNOP dedica a questi contenuti il monografico della rivista che state leggendo conla pubblicazione e divulgazione degli atti, già forniti ai partecipanti in tempo reale. Atti che per l'interesse mani-festato diventeranno una fonte di documentazione e informazione d'uso corrente indispensabile.

Iniziative regionaliCasamassima Bari 20 Maggio - ECM. Convegno sulla protezione dal rischio chimico e cancerogeno nei luoghidi lavoro organizzato dalla sezione Puglia oltre 250 iscritti, partecipanti ancor di più, provenienti sia dalla Puglia

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che dai sud e da altre regioni del centro e del Nord, atti forniti in CD ROM. Iniziativa nata come regionale ma cheha avuto una eco molto più vasta.

Ancona 28 Maggio convegno regionale SNOP -in due sessioni -di interesse per la tutela della salute nei luoghidi lavoro e per attività di ambito veterinario: "Prospettive della sicurezza sul lavoro nelle Marche: epidemio-logia del fenomeno infortunistico e strategie di controllo" e "La sicurezza alimentare e nutrizionale nelleMarche: problematiche, epidemiologia ed esperienze". La vitalità dei soci della sezione regionale delle Mar-che è stata evidenziata dal successo dell'iniziativa che peraltro già promette un seguito in in autunno su "Analisidel ruolo professionale degli operatori del sistema pubblico di prevenzione oggi".

30 Maggio Convegno regionale su Amianto a Catanzaro, partecipazione di oltre 200 operatori, illustrazione diconcrete esperienze di Prevenzione del rischio amianto e tempestività per un esame di importanti novità legisla-tive sull'amianto di cui parleremo nel prossimo numero di SNOP InForma, la nostra newsletter.In tutte le iniziative è stato elevato il coinvolgimento istituzionale che SNOP ha realizzato,per la Calabria soprat-tutto motivo di rilancio e riconoscimento della sezione SNOP.

Maggio Giugno, varie iniziative locali in Puglia e Campania di formazione delle figure del sistema della preven-zione nei luoghi di lavoro.

28 maggio Iniziativa della CIIP per la presentazione del Progetto Indaco, Ospedale sicuro, al quale, nella CIIP,rilevante è stato il contributo di rappresentanti SNOP coinvolti.

Maggio si rifà viva la Sicilia dove le proposte di grave stravolgimento delle funzioni dei servizi e dei dipartimentidi Prevenzione, riattiva il progetto di lavoro per la sezione locale SNOP e una iniziativa per l'autunno su rischiochimico e agricoltura.

La presenza in Abruzzo della realtà locale SNOP vivacizza e dà il contributo ad una iniziativa sindacale Incasulla salute nei luoghi di lavoro in Aprile.Tutte le iniziative sono state costruite e realizzate in collaborazione con istituzioni,società scientifiche vicine eloriavvicinatesi, con un ritorno d'immagine, ma anche di credibilità nei confronti dei livelli istituzionali almeno dirango regionale. Il maggio nella primavera di SNOP, vede anche un incontro a Parigi del CPE il 24 dove si cele-bra purtroppo la chiusura delle attività dell'associazione francese Villermè collegata al CPE. Tuttavia si pongonole basi di contatti in rete di vari esperti, essendo per statuto il Cpe costituito dalla federazione di società naziona-li ma anche di singoli esperti di vari paesi.

Gli strumenti di comunicazioneNe avevamo pensati tre: sito Web, rivista cartacea monografica e newsletter in Pdf scaricabile dalla rete. Siamo difatto passati a 4 con la periodica e-mail informativa dell'ufficio di presidenza, inviata ai soci,agli iscritti al sito, acoloro che nei convegni che abbiamo organizzato ne hanno fatto richiesta, alle strutture dei dipartimenti di Pre-venzione e delle Agenzie di Protezione ambientale, alle società scientifiche federate nella CIIP.Per l'interesse e l'attenzione che le iniziative suscitano si realizza un virtuoso moltiplicarsi delle informazioni daisiti che hanno a cuore le nostre iniziative nel contesto del rilancio della Prevenzione. Cosa che intendiamo reci-procamente fare sempre più anche con lo strumento del nostro sito WEB, attualmente in fase di ristrutturazione.Sarà aggiornato sempre più in tempo reale, forniremo "stanze" virtuali di discussione per temi, aperte a soci eiscritti al sito. È in corso una sperimentazione di questa forma di utilizzo da parte del direttivo nazionale SNOPcon una stanza di discussione riservata. Comunicare al meglio oggi significa saper combinare e dosare tutte letipologie di strumenti disponibili. Per ora riceviamo apprezzamenti e consensi per gli strumenti di cui ci stiamoavvalendo e che hanno allargato molto la capacità di contatto della nostra Associazione.

I RITORNI E NONEconomico finanziariLe iniziative hanno dato qualche modesta risorsa economica, mai sufficiente per gestire attività e strumenti di

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comunicazione. Attendiamo una risposta anche in termini di associazione, iscrizione e abbonamento alla rivista.Le quote di iscrizione sono una base democratica di finanziamento, legame anche culturale e partecipativo. Lapubblicità sulla rivista, che comunque è una strada da percorrere e obiettivo comunque da raggiungere, non saràmai altrettanto "appagante. Parafrasando una affermazione famosa diciamo che è importante quello che SNOPpuò dare ai soci e ai lettori ma molto più importante è quello che i soci possono dare alla SNOP, e non ci riferia-mo meramente alla (modesta ma preziosa) quota di iscrizione, ma ai feedback,i contenuti, i temi le esperienzeriguardanti la prevenzione.

Relazioni istituzionali e interassociativeIl documento sullo stato della prevenzione, reperibile sul nostro sito e preparato in questa primavera, è anche frut-to del rinnovato interesse per la nostra Associazione.È stata una iniziativa necessaria, e non solo in vista del seminario dei Ds al quale eravamo stati invitati sempre aMaggio.Lo stesso vale per il documento per un piano di attività congiunto con l'INCA nazionale,sul tema delle malattieProfessionali, danni da lavoro in genere e azioni congiunte sullo stato della Prevenzione.Dai soggetti istituzionali e sociali attendevamo attenzione maggiore soprattutto ora che a tappe forzate si procede coniniziative che rischiano di sconvolgere il settore della Prevenzione. Nelle discussioni che hanno preceduto e fatto segui-to alla predisposizione di questi importanti documenti abbiamo ricevuto numerosi consigli di soci, e semplici lettoriche apprezzavano queste iniziative, ma ci invitano a essere prudenti nelle critiche a priori, sottolineando come unaqualche svolta innovativa nel mondo della prevenzione sia necessaria. È un giusto richiamo a essere conservatori quan-to serve delle cose buone, ma anche innovatori laddove le condizioni rendano inevitabili aggiornamenti.

Proprio sui temi del mondo del lavoro che cambia e sui rischi che ne conseguono, abbiamo contribuito con unnostro documento di 1000 parole (tante ne erano consentite) ad una survey che il NIOSH, l'ente americano pre-posto alla ricerca sui rischi e danni da lavoro, sta conducendo. La nostra voce, con tutta la modestia dovuta, saràcosì presente nel forum mondiale sull'argomento lanciato dal NIOSH stesso.Cominciano a pervenire inviti per consultazione di SNOP a Comitati di normazione nazionali. La CNA vuole pro-porci un piano di lavoro, in rete con altri sul tema della Piccola e media impresa e rischio chimico.Sul piano internazionale, sta per partire un nuovo confronto con i colleghi ispettori del lavoro del Sudamerica e anco-ra un progetto di collaborazione per il Nicaragua. In Europa siamo coinvolti con il CPE, con il ENSHPO -forumdegli specialisti della prevenzione nei luoghi di lavoro -; ci hanno anche contattato di nuovo i colleghi della reteEWHN.La cosa che più è appagante come ritorno delle nostre attività è l'allargamento di interesse a operatori della pre-venzione di tutti i settori, al mondo della ricerca e universitario che si interfaccia alla prevenzione nel nostro paese,alle figure che operano in ambito privato alle attività di prevenzione. Lo avevamo immaginato e sta succedendo.Certo, se avessimomo più energie potremmo garantire più contatti,curare anche parte della nostra comunicazionein inglese, ormai indispensabile, avere più volontari per gestire attività "amministrative "che una società richiedeo più risorse per remunerare servizi che comunque hanno dei costi.

L'estate e l'autunno come saranno? Da ora già si vedono molti impegni e altri ne costruiremo spero insieme atanti soci e lettori. L'agenda può essere ampia e lo testimonia l'articolazione predisposta in sottosezioni del nostrosito web dove c'è, tra le altre un'inedita, per SNOP, sezione "Globalizzazione e salute". Cito volutamente questasezione per chiudere con queste considerazioni:abbiamo peccato di presunzione a parlare solo di noi come asso-ciazione? Siamo consapevoli che il tempo di questa primavera è stato anche tempo di guerra, in Irak. E stata anchela primavera della SARS mediatica e della SARS reale, vero e proprio paradigma di una mancata previsione cheimpedisce un'adeguata prevenzione. Se avessimo guardato alla realtà da quei punti di vista allora difficilmenteavremmo potuto usare l'attributo che da il titolo a questo pezzo.Ma forse qualcosa di estremamente positivo lo avremmo ugualmente trovato: l'impegno, questo non altrimentidefinibile che splendido, di tanti, tantissimi, giovani e meno giovani, contro la terribile epidemia bellica; ma anchela constatazione che perfino regimi illiberali come quello cinese, sono costretti ad aprirsi alla società civile, accet-tando l'aiuto dell'OMS e rendendo finalmente trasparente l'informazione su quest'ultima peste umana.

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Rivista SNOP N° 61 DIR. RESP. Claudio Venturelli

INFESTANTI URBANI DI INTERESSE SANITARIO

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Presentazione dei lavori Negli ultimi anni sono profondamente modificate le condizioni del lavoro e dell’ambiente di vita, allo stesso tempo si sono evoluti nuovi stili di vita che influenzano le aspettative di salute della popolazione. Le nuove formule di tutela si rivolgono ad un sistema produttivo coinvolto nei processi con forme di autocontrollo per riconoscere la competenza dell’imprenditore e snellire i tempi eliminando molti vincoli burocratici, nel settore della disinfestazione, alimentare, della sicurezza sul lavoro, degli strumenti urbanistici. Per i Servizi e i Dipartimenti di Prevenzione delle Aziende Sanitarie come pure per le Agenzie ambientali, s’impone il passaggio di ruolo da organi di vigilanza a regolatori di sistema, è necessario quindi: ridefinire l’oggetto delle diverse azioni spostando la logica d’intervento dall’adempimento burocratico alla valutazione dei problemi ambientali e di salute, analizzare le moderne strategie per la prevenzione, adeguandole ai cambiamenti intervenuti nelle condizioni di vita e di lavoro, promuovere presso gli organismi istituzionali il miglioramento degli ordinamenti giuridici, contribuire alla definizione di obiettivi appropriati e di alleanze utili per la loro soluzione. Tutto ciò deve servire a modificare il rapporto pubblico/privato nell’ottica di un dialogo sempre più aperto alle innovazioni nel rispetto delle leggi vigenti. La problematica correlata agli infestanti di interesse urbano e sanitario entra a pieno titolo nel merito di tali cambiamenti sviluppando nelle due giornate di studio gli aspetti tecnico-scientifici e quelli gestionali. L’incontro offre a tutti i partecipanti la possibilità di approfondire le proprie conoscenze sulla tematica specifica, sulle più aggiornate metodologie di intervento e sugli strumenti di controllo attuabili nel settore della disinfestazione. Nell’ambito delle due giornate di studio si da particolare rilievo alla gestione integrata tra gli operatori pubblici e quelli privati, alla scelta di tecnologie a basso impatto ambientale, ai mezzi di protezione personale e all’uso di strumenti adeguati al contenimento del singolo infestante. L’organizzazione dei lavori è stata organizzata e curata da SNOP “Società Italiana Operatori della Prevenzione”, società che si è costituita nel 1987 con finalità scientifiche e culturali. Per centrare il proprio obiettivo, essa si propone di sostenere l’impegno politico e culturale di un sistema integrato volto alla rimozione dei rischi e alla promozione della salute negli ambienti di vita e di lavoro, con particolare attenzione alla Rete dei Servizi e Presidi pubblici. Il sito della Società è www.snop.it Si ringraziano per la cortese collaborazione: Hera Spa – Copyr – Vape – Leica industrie chimiche - Bluline Segreteria organizzativa Dott. Claudio Venturelli [email protected] - Fausto Magnani [email protected] di Sanità Pubblica - Ausl Cesena - Via Marino Moretti, 99 – 47023 Cesena Tel: 0547.352068/73 - Fax: 0547.304719 - www.ausl-cesena.emr.it

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INDICE

Il ruolo e la competenza: condizioni indispensabili per affrontare le problematiche specifiche._ 5

Dott. Luigi Salizzato __________________________________________________________ 5

Infestanti urbani: rischi reali e rischi immaginari _____________________________________ 8

Massimo Trentini ____________________________________________________________ 8

Panoramica sulla disinfestazione italiana: professionisti e professionalità ________________ 11

Luciano Süss _______________________________________________________________ 11

Rapporti Pubblico-Privato e qualità dei servizi disinfestazione __________________________ 16

Dr. Angelo Tamburro ________________________________________________________ 16

Prodotti per la disinfestazione: conoscenza e loro impiego in sicurezza ___________________ 18

Lorella Faraoni, Franca Davanzo ______________________________________________ 18

Comportamento e biologia delle principali specie italiane di zanzara e strategie di lotta______ 22

Romeo Bellini_______________________________________________________________ 22

Diffusione di Aedes albopictus in Italia e analisi del rischio sanitario ____________________ 25

Roberto Romi_______________________________________________________________ 25

Monitoraggio e controllo di Aedes albopictus nel cesenate _____________________________ 32

Simona Macchini____________________________________________________________ 32

I vettori di leishmaniosi e prospettive di controllo ____________________________________ 37

Michele Maroli______________________________________________________________ 37

Il controllo di zecche e pulci in ambiente domestico e urbano___________________________ 48

Giuseppe Tasini _____________________________________________________________ 48

La biologia e il comportamento delle principali specie muscidiche_______________________ 53

Annunziata Giangaspero _____________________________________________________ 53

Le infestazioni nel comparto agro-zootecnico:un esempio di lavoro integrato ______________ 59

Claudio Venturelli___________________________________________________________ 59

La corretta gestione degli effluenti zootecnici________________________________________ 62

Giuseppe Bonazzi ___________________________________________________________ 62

HACCP e sicurezza alimentare: controlli ed educazione quali strumenti della Prevenzione___ 67

Marina Fridel_______________________________________________________________ 67

Il monitoraggio delle popolazioni murine di ambiente urbano come sistema di controllo della qualità dell'ambiente ___________________________________________________________ 73

Mauro Cristaldi & Giorgia Chiuchiarelli ________________________________________ 73

Il controllo dei roditori in città e negli allevamenti zootecnici___________________________ 85

Dario Capizzi _______________________________________________________________ 85

Infestanti del verde cittadino: interventi in qualità____________________________________ 90

Nicoletta Vai________________________________________________________________ 90

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Riflessioni sul controllo delle blatte in Italia ________________________________________ 96

Guglielmo Pampiglione_______________________________________________________ 96 Habitat ___________________________________________________________________ 97

Zecche e Borreliosi di Lyme: epidemiologia e prevenzione ____________________________ 103

Walter Oscar Pavan.________________________________________________________ 103

Avifauna selvatica in citta’______________________________________________________ 106

Stefano Pirazzini ___________________________________________________________ 106

Appendice_________________________________________________________________ 114

Termiti: nemici in casa … fin troppo discreti ! _____________________________________ 114

Valeria Zaffagnini __________________________________________________________ 114

La sicurezza degli operatori addetti alla disinfestazione ______________________________ 118

A. Monteverdi, F. Escati _____________________________________________________ 118

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Il ruolo e la competenza: condizioni indispensabili per affrontare le problematiche specifiche.

Dott. Luigi Salizzato Direttore Dipartimento di Sanità Pubblica-ASL di Cesena.

Come per tutti i problemi che interessano la Sanità Pubblica diversi sono gli attori competenti che possono e dovrebbero interagire per ottenere soluzioni soddisfacenti di problemi dovuti ad infestazioni di diversa natura. In primo luogo le Amministrazioni comunali, ed eventualmente le Municipalizzate preposte all’erogazione dei Servizi, che sono competenti per la gestione di tutte le attività (monitoraggio e valutazione, informazione, trattamenti sul campo, ordinanze e sanzioni). I Servizi di prevenzione ambientale e sanitaria sono organi tecnici preposti a fornire supporto all’Amministrazione locale per la parte relativa alla valutazione dei problemi, all’individuazione delle soluzioni idonee ed alla comunicazione del rischio. Le Imprese specializzate nel settore d’intervento svolgono le operazioni sul campo, nel caso in cui i Comuni non provvedano autonomamente. I cittadini sono molte volte i segnalatori di disagi percepiti, inoltre possono essere responsabili di situazioni che sono all’origine delle infestazioni, dal sottovaso dei fiori sul balcone di casa all’allevamento adiacente ai centri abitati. La prevenzione ambientale è oggi affidata alle Agenzie per la protezione dell’Ambiente che quindi sono chiamate in causa per tutti i problemi originati da situazioni d’inquinamento ambientale, mentre, per le situazioni che potremmo definire come inconvenienti igienico-ambientali, la competenza va condivisa con i Servizi di prevenzione sanitaria, oggi organizzati nei Dipartimenti di Sanità pubblica. Per evitare inutili sovrapposizioni è opportuno concordare tra l’ARPA ed il Dipartimento le procedure per la gestione degli interventi a seguito di segnalazioni per inconvenienti igienico sanitari nell’ambiente di vita. Le competenze dei Dipartimenti di prevenzione si riferiscono anche alla tutela dai rischi per chi lavora utilizzando prodotti pericolosi, alla gestione degli allevamenti ed alla salubrità degli animali, alla sicurezza alimentare, tutte situazioni in cui si possono manifestare problemi di e da infestazioni di diverso tipo. Spesso è utile che le diverse competenze, di tutela ambientale e sanitaria, si integrino tra loro per valutare una determinata situazione a rischio sotto tutti i punti di vista professionali e poter quindi fornire all’Ente Locale indicazioni operative semplificate e coerenti, quello che noi chiamiamo un parere integrato. Naturalmente la stessa procedura può essere applicata a situazioni di diversa complessità, per cui non è sempre necessario che tutti i professionisti diversamente competenti lavorino sullo stesso episodio, ci sono casi che possono essere trattati da un singolo professionista che ha però il dovere, che rappresenta anche un piacere professionale per la qualità della prestazione erogata, di valutare la situazione con un’ottica integrata cioè tenendo presenti anche gli aspetti di competenze non specificamente sue, ma su cui è in grado di intervenire in base alla sua esperienza e su cui può sempre chiedere l’aiuto dei colleghi specificamente competenti in caso di necessità. D’altra parte la varietà delle situazioni in cui si creano problemi di infestazioni è tale per cui di volta in volta vengono chiamati in causa professionisti con competenze diverse, ad es. per un problema di mosche può essere chiamato in causa in prima battuta un tecnico dell’ARPA o del SIAN, per le zanzare quello del SISP e per i piccioni il Veterinario, sta quindi a loro valutare come intervenire, se da soli o coinvolgendo altri Servizi, l’importante è che l’intervento risponda a criteri di interdisciplinarietà perché sono i soli che ne garantiscono appropriatezza ed efficienza. Per comprendere meglio queste affermazioni bisogna riflettere su quale sia il ruolo che oggi compete ai Servizi di prevenzione, la SNOP ritiene che sia un ruolo di regolatore di sistema che orienta le proprie azioni alla tutela e promozione della salute piuttosto che all’adempimento burocratico (per un approfondimento si veda gli atti del Convegno “La prevenzione che cambia. La Prevenzione che cresce. Riforma federale del sistema sanitario pubblico”, Caserta giugno 2002 (www.snop.it sezione contributi). Se l’obiettivo prioritario dei Servizi diventa la salute assumono grande rilevanza i ruoli che possono svolgere altri soggetti istituzionali, professionali e sociali,

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diversamente competenti perché questo è quanto ricaviamo dall’analisi dei determinanti di salute, ma non è questa la sede per approfondire questo argomento che diamo quindi per acquisito (per un approfondimento si consiglia la lettura del bel libro “Per una nuova sanità Pubblica”, dei colleghi inglesi Jim Connelly e Chris Worth, tradotto in Italiano dal dott. Angelo Stefanini, edito dal Centro Scientifico Editore – Torino 1998). Le teorie sull’autocontrollo e sulla sburocratizzazione maggiormente condivisibili si ispirano a queste analisi mentre sono ovviamente incompatibili con la tutela della salute quelle che si ispirano al neoliberismo, cioè alla abolizione delle regole per non ostacolare lo sviluppo, inteso come l’arricchimento di pochi, con conseguente venir meno delle tutele per i soggetti deboli. E’ bene riflettere su queste cose perché il nuovo ruolo regolatore dei nostri Servizi non modifica il fatto che noi non agiamo super partes ma dalla parte appunto dei soggetti deboli. Fatte queste considerazioni, il ruolo regolatore va interpretato nel senso di promuovere conoscenze, cioè saper descrivere i problemi di salute presenti in un territorio e saperli comunicare, e proporre alleanze, cioè invitare a mettersi attorno allo stesso tavolo i diversi soggetti che possono svolgere un ruolo per la soluzione di un determinato problema di salute. (Per un approfondimento si veda “ Linee guida per la prevenzione sanitaria e lo svolgimento delle attività del Dipartimento di prevenzione delle ASL ” , Conferenza Stato-Regioni 20,07,2002 (http://www.ministerosalute.it/promozione/malattie/ppRisultato.jsp?id=364). Come abbiamo già detto i problemi hanno complessità diverse per cui a volte è sufficiente far intendere tra loro due vicini di casa ma altre è invece necessario riunire Amministratori locali, associazioni di categoria o singoli imprenditori, Enti di Servizio per condividere responsabilità e concordare azioni. Per poter svolgere al meglio il proprio ruolo i Servizi di prevenzione devono dotarsi delle competenze necessarie integrando le figure professionali tradizionali con esperti nella materia specifica, in questo seminario si analizza il controllo degli infestanti e quindi questi esperti sono rappresentati dagli entomologi, che conoscono le caratteristiche delle specie che ci si prefigge di controllare, ma anche gli epidemiologi per l’analisi e la valutazione dei problemi di salute e la definizione delle priorità ed i comunicatori per gestire l’informazione ai cittadini e le attività educative. Quando ci riproponiamo di definire delle priorità sono diversi gli elementi che dobbiamo considerare, tra cui la rilevanza epidemiologica locale di un fenomeno, ma anche la percezione del rischio da parte dei cittadini, gli aspetti economici, quelli relativi alle diseguaglianze sociali e, non da ultima, la reale possibilità per i Servizi di contribuire al raggiungimento di particolari obiettivi, per la disponibilità di strumenti appropriati d’intervento o per il governo diretto di determinate situazioni; ad es. i casi di tetano in un determinato territorio non sono frequenti ma la gravità della patologia ed i costi delle cure, stimati in € 200 000 per ogni caso, a fronte dell’efficacia e del basso costo della vaccinazione possono far inserire l’obiettivo del controllo dell’incidenza del tetano tra gli obiettivi di salute di una comunità locale. Così pure per le infestazioni la necessità di tutelare comunità a rischio, come quelle scolastiche, o presidi di cura ed assistenza socio sanitaria, oppure condizioni di buona qualità di vita negli insediamenti abitativi e ancora situazioni ottimali di igiene negli allevamenti sono tutti elementi che possono contribuire ad inserire il controllo degli infestanti tra gli obiettivi di salute. Condizione indispensabile per orientare la propria attività alla soluzione di problemi di salute è abbandonare la logica del lavoro svolto come adempimento burocratico e programmare le proprie attività con piani di lavoro in cui siano individuati i problemi di salute su cui si vuole intervenire, siano indicati obiettivi, azioni, risorse dedicate, tempi, e siano valutati i risultati. Ad es. per quanto riguarda il controllo degli infestanti può, come minimo, essere individuata una funzione in grado di rispondere alle segnalazioni per inconvenienti igienico sanitari e ambientali ma, se alcuni problemi sono più complessi, va predisposto un progetto obiettivo con cui affrontare più efficacemente il problema. D’iniziativa dei Servizi di prevenzione dovrebbe anche essere la gestione di una funzione di monitoraggio dei fenomeni locali a rischio di infestazioni, di informazione sui comportamenti utili per controllare quei fenomeni, senza tralasciare il ruolo di sanzione dei comportamenti scorretti che rappresenta comunque un’importante ulteriore garanzia per la tutela dei cittadini. Questo tipo di programmazione è finalizzato a migliorare il nostro modo di lavorare, evitando interventi inutili o

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dannosi, e a svolgere attività efficaci coerenti con la nostra mission (conoscere per prevenire). Quello che si propone non è comunque un salto mortale in avanti con triplice avvitamento, l’idea è quella di riconsiderare anche le attività che consideriamo routinarie in termini di obiettivi di salute perché in molti casi sono diverse solo le fonti di ispirazione delle azioni, i motivi per cui facciamo qualcosa. La programmazione per obiettivi di salute non opera rinnegando tutta l’attività finora svolta ma piuttosto riorientandola nelle sue parti compatibili con i nuovi obiettivi ed ampliando il campo di azione sulla base della conoscenza delle situazioni di rischio territoriali. Alcune normative o disposizioni sovraordinate sono fortemente orientate alla salute in campo sia umano sia animale quindi le azioni che ne derivano sono coerenti con obiettivi di salute che però vanno esplicitati e valutati, considerando la normativa di settore come strumento e non come fine. Naturalmente questo tipo di programmazione consente anche di cominciare ad occuparsi di problemi solitamente nuovi per i nostri Servizi ma di notevole rilevanza epidemiologica e sociale come nel caso della sicurezza stradale o degli stili di vita salubri. Generalmente lavorare per obiettivi di salute e non per adempimenti burocratici dovrebbe consentire di coordinare le diverse competenze valorizzando il ruolo di tutti gli attori che possono contribuire al risultato concordato, in questo senso il controllo degli infestanti non sarà più affidato ad inutili e pericolosi interventi chimici generici ma, partendo dalla conoscenza delle caratteristiche biologiche delle specie infestanti, ad azioni di monitoraggio ambientale, bonifica dei siti a rischio, adeguamento della programmazione urbanistica, promozione di interventi utili e mirati ed informazione sui rischi dimostrati. Come per tutte le azioni di prevenzione sarebbe quindi preferibile, anche per il controllo degli infestanti, promuovere interventi appropriati ed efficaci ed in questo senso diventa quindi prioritario saper comunicare il rischio ma anche saperne valutare la percezione da parte della popolazione e degli altri soggetti interessati, tenendo conto dei diversi interessi in campo e che non sempre questi sono tra loro compatibili. Noi per parte nostra dobbiamo aver chiaro che l’interesse da tutelare è quello alla salute ma dobbiamo anche saper valutare che non sempre il punto di vista dell’esperto e quello del cittadino coincidono, anche se ambedue questi soggetti dichiarano di perseguire gli stessi obiettivi, è qui che ci viene in aiuto l’integrazione tra il sapere del comunicatore e quello dell’esperto di disciplina che assieme possono affrontare meglio il problema. Per chi volesse documentarsi sull’attività di analisi ed informazione del Dipartimento di Sanità Pubblica di Cesena segnaliamo il nostro sito web: http://www.delfo.forli-cesena.it/AUSLCesena/DipPrev qui sono disponibili ad es. i documenti della 4a Conferenza di organizzazione (novembre 2002 – gennaio 2003) sulla programmazione per obiettivi di salute ed un settore dedicato all’informazione sul controllo degli infestanti.

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Infestanti urbani: rischi reali e rischi immaginari

Massimo Trentini Docente di Zoologia della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Bologna

Quando insieme al dott. Venturelli, ideatore di queste giornate di studio, abbiamo deciso il titolo del mio intervento e cioè “Infestanti urbani: rischi reali e rischi immaginari”, pensavo, scorrendo mentalmente gli infestanti di cui mi sono occupato in questi ultimi anni, di illustrare i rischi reali, ma anche quelli immaginari dovuti ad animali infestanti presenti in città. Ora scrivendo questa breve relazione mi sorge subito un dubbio: ma che cosa è esattamente un‘infestante urbano? Penso sia utile cercare di definire il termine, facendo un passo indietro. Fauna urbana Gli animali selvatici presenti nei centri urbani rappresentano la cosiddetta fauna urbana; il numero delle specie è consistente e va, a seconda dei gruppi animali, dal 10 al 60% delle specie note per l’Italia. La fauna urbana è costituita in gran parte (80-90%) da specie indigene, cioè che fanno parte stabilmente della fauna di quel territorio, e in piccola parte da specie sinantropiche (5-10%), specie cioè permanentemente associate all’uomo e alle sue attività, e da specie inurbate (1-5%), specie cioè che di recente hanno colonizzato le città. Mentre le specie indigene sono in gran parte indifferenti all’uomo, al contrario le specie sinantropiche e quelle di recente inurbamento costituiscono la maggioranza delle specie infestanti e/o di interesse igienico-sanitario (Zapparoli, 2002). Che cosa è un infestante urbano ? Penso sia utile cercare di definire il termine “infestante urbano”, poichè spesso lo si usa con un significato molto più ampio di quello originario.

Per infestante si intende un organismo non utile per l’uomo che ha la capacità di moltiplicarsi in gran numero a scapito di altri organismi utili. Bisogna però subito notare come in ambito urbano la capacità moltiplicativa dell’animale infestante sia a “danno” non tanto di altri organismi, quanto direttamente dell’uomo e delle sue attività. Quindi tutti quegli animali sinantropici, che non rientrano tra quelli graditi o indifferenti all’uomo, vengono visti come infestanti, nel senso più lato di animali non graditi, molesti, ostili o pericolosi (Domenichini e Crovetti, 1989; Süss, 1990). E’ importante però notare come il definire un animale infestante oppure no sia spesso una considerazione umana del tutto soggettiva, come quella tra animale gradito o non gradito. Ad esempio, mentre la stragrande maggioranza dei cittadini ritiene che il ratto delle chiaviche (Rattus norvegicus) rappresenti uno degli infestanti urbani da combattere, così non è per lo scoiattolo grigio americano (Sciurus carolinensis), introdotto in alcuni parchi cittadini in Piemonte e Liguria; questa specie, attiva di giorno e quindi ben visibile e che arriva a mangiare il cibo portatogli dai cittadini, viene molto “amata” soprattutto dai bambini (sono gli scoiattoli cip e ciop immortalati da Walt Disney), ma in realtà è un forte infestante, poiché dove arriva soppianta e fa estinguere lo scoiattolo rosso nostrano (Sciurus vulgaris). Lo stesso concetto di animale molesto, dannoso o ritenuto pericoloso è molto aleatorio essendo dipendente dalla “sensibilità” delle persone. Un classico esempio è quello della presenza delle mosche (soprattutto Musca domestica e Fannia canicularis) negli impianti zootecnici e spesso nelle abitazioni vicine; fin quando il fenomeno è rimasto tipico delle abitazioni rurali, i contadini non hanno mai sollevato problemi, ma quando, sia per l’espansione delle città sia per il desiderio dei cittadini di vivere in campagna, la presenza di mosche ha interessato nuove abitazioni costruite nei pressi di allevamenti, ecco che i cittadini hanno visto la presenza di questi insetti come intollerabile (Trentini et al., 1998). Discorso analogo potrebbe essere fatto per il colombo di città (Columba livia domestica), la cui presenza in città è ben vista da alcuni e detestata da altri. In altre parole il cittadino ama gli

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animali e vuole vivere a contatto con la natura, ma non gradisce affatto i suoi, a volte inevitabili, aspetti “negativi I principali infestanti urbani Le relazioni che seguiranno tratteranno dei principali infestanti urbani, sia degli ambienti aperti, come zecche, pappataci e zanzare, sia degli edifici e delle abitazioni, come ratti, blatte e pulci. E’ interessante notare come tra gli infestanti urbani “emergenti” giochino un ruolo sempre più importante animali di nuova introduzione, sia specie autoctone di recente inurbamento (storno, zecche, pulci) sia specie alloctone (nutria, zanzara tigre, blattella) introdotte accidentalmente o volontariamente dall’uomo. L’aumento della capacità di inurbamento e di sinantropia di molte specie autoctone e alloctone, mai osservata in precedenza, è dovuta senz’altro alle condizioni favorevoli che offre l’ambiente urbano per quanto riguarda le risorse trofiche, il microclima (temperatura più alta, assenza di vento) e soprattutto la presenza di molti microhabitat diversi. Rischi reali degli infestanti urbani I dati in nostro possesso ci indicano che i rischi dovuti agli infestanti urbani non sono certo in aumento rispetto al passato. L’impressione che questi rischi siano viceversa in aumento è, a mio avviso, dovuta ad una serie di fattori che qui cercherò di sintetizzare: a) la comparsa di nuovi infestanti, spesso esotici, come Aedes albopictus e Suppella

longipalpa, allarmano e fanno pensare che il fenomeno sia in aumento; in realtà negli ultimi decenni molti infestanti “classici”, come cimici, pidocchi e altri, si sono fortemente ridotti o sono scomparsi; b) il cittadino, inurbato da più generazioni, è ormai del tutto privo di conoscenze pratiche

sul mondo animale e quindi non ha quasi più alcuna tolleranza verso l’animale sinantropico che può occasionalmente incontrare in casa o in città; c) il cittadino, spesso per notizie televisive o giornalistiche non corrette, ha maggior timore

di potenziali malattie portate o trasmesse dagli animali sinantropici o infestanti, ma la situazione in Italia è a questo riguardo del tutto rassicurante. Rischi immaginari degli infestanti urbani Dalla mia esperienza di studio sugli animali sinantropici, soprattutto di quelli presenti nelle abitazioni, posso dire che negli ultimi anni è in forte aumento il numero di cittadini che si rivolge alle strutture pubbliche (AUSL, pronto soccorsi, università, etc.) portando, allarmati, soprattutto piccoli Artropodi (insetti, ragni e altro) trovati nelle abitazioni. Queste persone non solo vogliono sapere che cosa è l’animale in questione, ma soprattutto quanto è pericoloso, quali malattie può portare e come si fa ad eliminarlo. In altre parole il serpentello trovato in giardino è una vipera, il ragno è velenosissimo, la zanzara trasmette chissà quali malattie. Inoltre la “colpa” della presenza di questi animali indesiderati è sempre di qualche vicino o di lavori fatti nello stabile o nelle vicinanze. La riprova di questo atteggiamento mentale la si ha quando si dichiara e si certifica che l’animaletto in questione è del tutto innocuo, anzi a volte utile, e che non è necessario nessun tipo di lotta; il cittadino se ne va spesso non del tutto convinto, quasi come se fosse deluso della diagnosi dello specialista. Alcuni esempi possono a mio avviso chiarire la presenza di queste paure nei confronti dell’infestante urbano. Pipistrelli. Trovare un pipistrello morente o morto sul pavimento di una stanza è un’esperienza che viene vissuta negativamente e con molte paure; se poi dal pipistrello sono usciti alcuni parassiti, come Penicillidia o altri, ecco che le paure aumentano. A poco vale rassicurare il cittadino dicendo che il pipistrello è un animale completamente innocuo (in Italia non sono mai stati segnalati casi di rabbia silvestre nei pipistrelli), anzi utile per l’uomo in quanto insettivoro e divoratore di zanzare. Gechi. Sempre più frequenti negli ambienti urbani anche lontani dalle coste, queste innocue “lucertole” casalinghe, forse per la loro piattezza e la capacità di camminare sui soffitti, sono viste come pericolose.

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Ragni. Al di là dei casi di aracnofobia, gli innocui ragni delle abitazioni vengono sempre visti come pericolosi e perseguitati, soprattutto dopo notizie allarmanti, come quella dell’estate del 2000 riguardante la morte di una donna a Milano per una presunta morsicatura di ragno. Leggende metropolitane e psicosi Collaborano ad aumentare le paure di rischi da infestanti urbani le cosiddette “leggende metropolitane” che spesso hanno come protagonisti gli animali. Citerò solo due casi. Coccodrilli e fogne. Si sente dire e a volte scrivere sulla stampa che le fogne delle città sono ormai “colonizzate” da coccodrilli e alligatori, anche di grandi dimensioni, che lì si riproducono pur se diventati ciechi e albini per l’oscurità in cui vivono; sarebbero arrivati alle fogne attraverso gli scarichi dei water dove sarebbero stati gettati da cittadini che se ne volevano disfare. Questa leggenda metropolitana è più americana che europea, ma il lettore pensi al successo che anni fa hanno avuto anche in Italia le “tartarughe ninja” che si erano trasformate in personaggi “umani” proprio a seguito di una mutazione avvenuta nelle fogne di New York. Ai più scettici ricordo che alcuni anni fa in Emilia Romagna, alle prime segnalazioni di nutria in ambiente urbano, alcuni giornali parlarono di topi giganti a causa di mutazioni dovute all’inquinamento. Zanzare. Le leggende metropolitane hanno attribuito alle zanzare il potere di trasmettere malattie, come l’AIDS, di cui non sono assolutamente vettori; il diffondersi in molte città della zanzara tigre ha alimentato questo falso sospetto. Per ultimo non bisogna sottovalutare il diffuso fenomeno delle fobie verso molti animali anche sinantropici sia vertebrati, come topi, ratti, colombi, serpenti, lucertole, rospi, che invertebrati, come ragni, scarafaggi e insetti vari. A volte queste fobie sconfinano, per fortuna raramente, in vere e proprie psicosi (delusory parasitosis), fenomeno poco studiato in Italia (Pampiglione e Trentini, 1998). Bibiografia Domenichini G. e Crovetti A., 1989. Entomologia urbana. UTET, Torino. Pampiglione S. e Trentini M., 1998. Un caso di “Parassitosi Illusoria Contagiosa” in una coppia di mature gemelle. Parassitologia, 40: 467-471. Süss L., 1990. Gli intrusi. Guida di entomologia urbana. Edizioni Agricole, Bologna. Trentini M., Ruggeri L., Governatori M., Pocaterra C:, 1998. Lotta biologica integrata alle mosche negli allevamenti: l’esperienza condotta nel triennio 1995-1997 in 15 impianti zootecnici della Val Samoggia (Bologna). Igiene Alimenti – Disinfestazione & Igiene Ambientale, 15 (5): 25-26. Zapparoli M. 2002. La fauna urbana, pag.: 204-224. In “La fauna in Italia” a cura di A. Minelli, C. Chemini, R. Argano, S. Ruffo, Touring Editore, Milano e Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, Roma, 448pp.

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Panoramica sulla disinfestazione italiana: professionisti e professionalità

Luciano Süss Istituto di Entomologia agraria – Università degli Studi di Milano

La difesa antiparassitaria negli ambienti industriali e urbani ha avuto un forte sviluppo in questi ultimi anni e le prospettive, per l’avvenire, sono di un ulteriore incremento. Ciò è dovuto a molteplici fattori, che sebbene per lo più noti a chi opera nel settore, vale la pena di ricordare, almeno per sommi capi. Innanzitutto, se si considerano gli agglomerati urbani, stiamo assistendo ad un loro sviluppo inarrestabile; a volte realizzato razionalmente, spesso però in modo disordinato; comunque, in una prima fase, inevitabilmente si verifica una serie di squilibri nell’ambiente che finiscono con il favorire l’insediarsi di organismi infestanti, nostri competitori. Un recente caso eclatante è stato l’immediato insediarsi delle zanzare nel caso delle opere di urbanizzazione del villaggio olimpico, a Sidney in Australia, con la necessità di organizzare immediatamente la difesa contro tali insetti. Ma pure reti fognarie, condutture sotterranee di cavi elettrici, gallerie per il transito di ferrovie metropolitane, finiscono con il divenire vere e proprie autostrade per i ratti, nonché per le blatte, che possono così trasmigrare agevolmente da un sito riproduttivo ad un altro, da colonizzare. La produzione di rifiuti solidi di qualsiasi città viene smaltita in discariche a cielo aperto, oppure in impianti di riciclaggio e compostaggio, ovvero in impianti inceneritori. Basta dare un’occhiata, seppur distratta, a tali ambienti, per rendersi conto di quanti animali traggano giovamento dai cumuli di rifiuti: gabbiani e cornacchie, ratti e topi, blatte e mosche, dermestidi ed acari qui si moltiplicano a dismisura, divenendo veri e propri flagelli, per il grave rischio di diffusione di microrganismi patogeni che la loro presenza determina. Se consideriamo le possibilità di infestazione nelle industrie, con particolare riferimento a quelle alimentari, si deve evidenziare come le strutture ancor oggi, purtroppo sono progettate per lo più senza tenere in alcun conto la possibilità di insediamento di organismi nocivi. Inoltre, frequentemente, le produzioni sono a ciclo continuo, quindi senza alcuna pausa lavorativa da utilizzare per agevoli interventi antiparassitari; le reti elettriche, supportate da apposite canaline sospese a grande altezza, sono comode vie di transito per i roditori, in particolare per Rattus rattus, ma nel contempo sono molto difficili, se non impossibili, da monitorare adeguatamente. I cosiddetti “magazzini automatici” sono pure in via di progressiva diffusione: si tratta di enormi volumetrie, con incastellature altissime, che evidentemente è pressoché impossibile tenere sotto controllo nelle parti più alte, divenendo così il regno, ancora una volta, del ratto nero, oltre che di diversi insetti. Ma numerose altre problematiche si trova oggi ad affrontare chi opera nel settore della disinfestazione civile e industriale. Basti pensare alla diffusione di mense aziendali, ristoranti e self-service, in cui frequente è l’insediarsi di topi e blatte; i villaggi turistici richiedono adeguate misure di contenimento di mosche e zanzare; le navi da crociera, i vagoni ferroviari adibiti a ristorante, presentano miriadi di interstizi ove potenzialmente si possono moltiplicare le blatte: le navi tornano al porto base dopo mesi e mesi di navigazione, i treni praticamente si fermano nelle stazioni di “testa” al massimo solo per qualche ora …. sono tutte situazioni molto difficili da gestire nelle pratiche di disinfestazione. Nei casi sopra ricordati, si tratta di problemi provocati da organismi nocivi “tradizionali”, insediati però in ambienti particolari, che si assommano a quelli di sempre, determinati da blatte, mosche, zanzare, pulci e pidocchi, formiche e insetti delle derrate, topi, ratti ed uccelli, acari della polvere e zecche, senza dimenticare gli insetti infestanti il verde urbano.

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Il disinfestatore opera quindi in industrie alimentari e abitazioni, ospedali e ristoranti, sul verde pubblico e privato, nelle reti fognarie, in musei e magazzini, ove sono accumulate le merci più svariate. In questi anni, però, nuovi importanti problemi si sono dovuti affrontare ed altri con tutta probabilità seguiranno con il trascorrere del tempo. Va ricordata innanzitutto l’introduzione in Italia di nuove specie dannose; nel settore civile, all’arrivo di alcuni decenni fa del Blattodeo Supella longipalpa, è seguito più recentemente l’insediarsi della zanzara tigre, Aedes albopictus, in progressiva, forse inarrestabile diffusione in numerose città. Infine, è solo da poco tempo che si debbono lamentare gli attacchi della “termite del legno secco”, Cryptotermes brevis, da noi giunta con l’importazione dei cosiddetti “mobili etnici” dal Sud America. Per quanto riguarda il verde pubblico e privato, si sono succedute e insediate in questi decenni l’Ifantria americana (Hyphantria cunea), la Metcalfa (Metcalfa pruinosa) e, molto più recentemente, la minatrice dell’ippocastano (Cameraria ohridella); si tratta di una serie di progressive emergenze, che hanno richiesto e continuamente esigono all’operatore nel settore della disinfestazione nuovi interventi attuati con apposite strategie. In particolare, ricordo il metodo che prevede l’inoculo a pressione di insetticidi nel fusto delle piante. Tra le “introduzioni” va pure ricordata la possibilità di arrivo dall’estero di ceppi di insetti infestanti, appartenenti a specie ben note (Blatte, Punteruoli e Cappuccino dei cereali, Triboli), ma resistenti ai trattamenti antiparassitari. Oltre tutto il fenomeno della resistenza ai trattamenti sta verificandosi anche nel nostro Paese, in conseguenza di ripetute e frequenti applicazioni degli stessi principi attivi, sia su insetti, che su roditori. Il risultato, inevitabile, è il fallimento della lotta antiparassitaria predisposta. Al momento attuale il disinfestatore si trova ad affrontare ulteriori problemi. Se fino a poco tempo addietro aveva a disposizione numerosi p.a., appartenenti vuoi ai piretroidi, che ai carbammati ed ai fosforganici, tutti dotati di ampio spettro d’azione e caratterizzati per lo più da una certa tossicità anche nei riguardi dell’uomo, attualmente le molecole utilizzabili tendono progressivamente a ridursi, anche in conseguenza dei procedimenti di revisione delle loro caratteristiche (tossicologiche, di impatto ambientale, di residui, ecc.) da parte delle Autorità sovrannazionali, che a volte portano alla revoca delle autorizzazioni all’impiego, anche solo per motivi economici. E’ doveroso ricordare che altre sostanze, di recente o prossima disponibilità, sono invece caratterizzate da meccanismi di azione molto raffinati, che ne consentono un utilizzo “sicuro”, ma la cui attività, per esplicarsi appieno e dare risultati attesi, presuppone molte più conoscenze di quelle richieste ad un applicatore di prodotti “tradizionali”. Faccio riferimento, a titolo esemplificativo, all’uso degli IGR, all’applicazione di formulazioni in gel per le blatte, all’uso di innovative strategie nella lotta contro le termiti, all’utilizzo di metodi confusionali e attratticidi, per il controllo dei Lepidotteri infestanti le derrate, grazie alla disponibilità dei feromoni specifici e di appositi erogatori: in ogni caso è richiesta una formazione tecnica e pratica che non si può improvvisare. Nel settore della lotta contro i roditori, da anni ormai non vengono più messi a disposizione nuovi principi attivi, ragion per cui quelli disponibili vanno utilizzati con il massimo raziocinio, per non provocare anche in questo caso l’insorgere di ceppi resistenti. Per soffermarsi ancora su questi aspetti del problema, si vuole qui ricordare che, entro breve, notoriamente, non si potranno più effettuare disinfestazioni con il bromuro di metile, oppure saranno imposti limiti severissimi al suo impiego; altri gas tossici verranno probabilmente messi a disposizione, così come ci si dovrà orientare verso diverse tecniche di disinfestazione delle merci e degli ambienti produttivi e di immagazzinaggio. A tal proposito è doveroso evidenziare la decisione presa da diverse imprese specializzate nel settore delle fumigazioni che hanno deciso, già a partire da quest’anno, di sospendere i trattamenti con bromuro di metile all’interno delle industrie alimentari. E’ un momento importante, che certamente dovrà determinare una svolta “epocale” nei criteri di lotta antiparassitaria, sia da parte degli utenti che tradizionalmente facevano conto sull’uso del bromuro stesso, sia da parte di

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applicatori, che dovranno offrire servizi differenti, puntuali e comunque efficaci, in grado di soddisfare le esigenze delle industrie alimentari. Ma i problemi per le imprese di disinfestazione non finiscono certo qui. Da alcuni anni, ormai, è stato introdotto nelle realtà produttive il concetto dell’HACCP, in cui si sono tra l’altro codificati i rischi, di tipo fisico, chimico e biologico. Nel “codice di autodisciplina” che ciascuna realtà si è dovuta dare, sono quindi entrati “in pianta stabile” anche i rischi biologici, provocati da microrganismi e da organismi infestanti. Nel contempo, ovviamente, si è concluso che, se è necessario eliminare tali rischi, ciò non può essere fatto introducendo “nuovi rischi” di tipo chimico, determinati da un uso improprio di sostanze antiparassitarie. Ne scaturisce ancora una volta l’esigenza di attuare più raffinate tecniche di lotta, imperniate innanzitutto sulla prevenzione e sul monitoraggio delle infestazioni: solo quando e laddove sarà realmente necessario, si effettuerà un intervento di difesa diretto, per lo più localizzato, privilegiando le sostanze o i mezzi meno pericolosi. Il monitoraggio, tra l’altro, è ora possibile per numerosi organismi infestanti, anche grazie alla disponibilità di feromoni (sessuali, o di aggregazione) da utilizzare con apposite trappole. Ma spesso si osserva una loro non corretta applicazione, oppure le “letture” dei risultati sono effettuate in modo approssimativo, oppure ancora non sono affatto coordinate con l’attuazione di tecniche di lotta, nel tentativo di eliminare le cause che hanno provocato l’insorgere dell’infestazione! Quanto sin qui illustrato ha voluto evidenziare i problemi che deve affrontare il disinfestatore moderno, che si possono quindi così riepilogare:

- incremento di problemi tradizionali, a causa dell’inarrestabile, a volte disordinato, urbanesimo;

- infestazioni di nuovo tipo, provocate dall’introduzione di specie precedentemente non presenti;

- sviluppo di ceppi di insetti e roditori resistenti agli antiparassitari comunemente utilizzati; - scomparsa dal mercato di vecchi p.a., con disponibilità di alcune nuove molecole o nuovi

formulati, caratterizzati da meccanismi d’azione “raffinati”; - imminente messa al bando del bromuro di metile; - disponibilità di feromoni per attuare il monitoraggio delle infestazioni; - introduzione dell’HACCP e conseguenti modifiche sostanziali delle strategie di lotta.

Ci si trova quindi di fronte ad una completa rivoluzione nella lotta antiparassitaria, che può portare ad una rivalutazione del ruolo del disinfestatore, se questi saprà sfruttare positivamente l’opportunità. Al momento attuale, però, la situazione degli operatori che operano nel settore della disinfestazione in Italia, non è gran che entusiasmante e, a mio giudizio, richiede nella generalità dei casi un rapido e forte aggiornamento. Si riconosce che esistono diverse realtà costituite da Imprese di grosse e media dimensioni, in cui esercitano un ruolo importante tecnici laureati – diversi dei quali provengono tra l’altro dall’Istituto di cui faccio parte – in grado di lavorare in modo aggiornato e corretto. In numerosi altri casi, però, ci si trova di fronte ad Imprese dall’organico molto ridotto, che intervengono sulla base di “linee guida” tradizionali, ormai obsolete, ma che risultano essere, con tutta probabilità, le uniche conosciute. Si osserva, nel complesso, che manca una qualificazione professionale, ottenuta a seguito di corsi di specializzazione nel settore, organizzati da Enti ufficiali e riconosciuti a livello ministeriale. Mancano inoltre corsi di formazione permanente, che dovrebbero invece essere obbligatori per chi utilizza antiparassitari in ambienti “delicati”, quali ospedali, industrie alimentari, le città in genere. Spesso l’aggiornamento tecnico è sostenuto dalle Case produttrici di antiparassitari, ovviamente interessate a pubblicizzare i propri prodotti: ma se non ci fosse nemmeno questa attività, i disinfestatori sarebbero abbandonati a loro stessi! Nel settore civile, quindi, siamo in una situazione che, paradossalmente, nel complesso, può essere considerata più arretrata che nel settore della difesa antiparassitaria delle colture; tale stato di fatto può essere rapportato allo stadio di sviluppo della lotta contro gli infestanti che

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si riscontrava in agricoltura una ventina di anni fa, ovvero prima dell’affermarsi dei concetti di lotta integrata. Esistono alcuni aspetti che incidono negativamente sulla necessità di preparazione professionale e, quindi, sulla qualità del servizio. Si osserva innanzitutto che spesso gli appalti per la disinfestazione civile sono assegnati a costi eccessivamente ridotti. Si tende, nei condomini come nelle industrie alimentari, a spendere il meno possibile per un servizio, la cui importanza è sottovalutata. Il risultato è che il personale utilizzato è spesso raccogliticcio, da cui consegue che le attività di disinfestazione saranno certamente scadenti, anche facendo conto sulla mancanza di verifiche dei risultati o, comunque, sulla scarsa preparazione sull’argomento specifico da parte del committente. Si deve anche evidenziare come, in diversi casi, a fronte di appalti ritenuti interessanti, si è disposti ad “abbassare i prezzi” in modo eccessivo, per non soccombere di fronte ad un concorrente che “garantisce” il medesimo servizio ad un costo più basso. In tale situazione, come pretendere poi buoni risultati? Se si passa a considerare gli appalti pubblici, notiamo come in molti casi siano organizzati in modo non tempestivo, o con capitolati tecnici per lo meno discutibili. Spesso i pagamenti delle attività vengono effettuati con gravi ritardi: anche in questi casi, ne va della validità complessiva dei servizi resi, con operatori indotti ad operare in modo approssimativo. Con la globalizzazione imposta dalla Comunità Europea di cui facciamo parte, sempre più però le Imprese di disinfestazione dovranno confrontarsi con concorrenti stranieri che si affacciano al mercato, con altra impostazione e diversa professionalità. Del resto, anche alcune Società italiane del settore stanno entrando in altri Paesi europei, in quanto in grado di operare in modo tecnicamente aggiornato. Questo fenomeno, con ogni probabilità, si estenderà con il trascorrere del tempo. Piaccia a o meno, è inevitabile che ci si dovrà confrontare con realtà agguerrite, ben preparate, pronte a subentrare e ad offrire un servizio competitivo tecnicamente. In altri Paesi, anche a noi confinanti, si trovano disinfestatori che operano nei molini con la tecnica del riscaldamento ambientale o delle atmosfere controllate; altri sono in grado di stabilire, prima di un intervento antiparassitario, se i Tribolii con cui hanno a che fare sono resistenti o meno ad una determinata molecola; altri, aggiornati sulle novità nel settore del monitoraggio proposte in tutto il mondo, sono in grado, anche tramite internet, di importare direttamente i nuovi più efficaci mezzi di monitoraggio; altri ancora si presentano presso il committente di una deblattizzazione esclusivamente con una minuscola valigetta, contenente alcune siringhe di gel ed una torcia elettrica e, utilizzando il tutto con perizia, ottengono ottimi risultati in breve tempo, senza dover interrompere le attività produttive; altri ancora, infine, installano, negli ambienti da trattare con una fumigazione, appositi punti test con insetti prelevati da allevamenti, per verificare i risultati dell’intervento. E’ evidente quindi che non vi sarà più spazio per i cosiddetti “praticoni”, semplici distributori di antiparassitari o di bustine di esche per topi (per non dire di esche sfuse, abbandonate qua e là in magazzini e scantinati). Certamente non troveranno più molto spazio nemmeno coloro che, offrendo come servizio associato alla disinfestazione il monitoraggio degli infestanti, presenteranno però report non chiari su quanto rilevato, o non saranno in grado di utilizzare in modo corretto i mezzi tecnici che la ricerca ha reso disponibili. Troppe volte capita ancor oggi di vedere installate trappole in punti ove certamente gli insetti da monitorare mai andranno: il risultato riferito è “infestazione nulla”, mentre la realtà è ben altra! In questi casi, la colpa è del mezzo utilizzato, o del disinfestatore? L’operatore deve avere la capacità di interfacciarsi tecnicamente con il committente indicandogli le reali cause che hanno portato al rilievo di una infestazione, collaborando nella predisposizione di programmi di monitoraggio e lotta adeguati, proponendo quindi le tecniche, sia di prevenzione che di lotta, che possano risolvere quel problema specifico. Il disinfestatore, a fronte di un trattamento antiparassitario non riuscito, deve essere in grado di capire – e spiegare – il perché dell’insuccesso. Sarà opportuno quindi che abbia alle spalle un

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proprio laboratorio, seppur piccolo, oppure sia in grado di rivolgersi a qualche struttura già organizzata in merito, che esamini il problema e possa fornire le indispensabili spiegazioni. Sono tutti aspetti da meditare: la professionalità è e sarà sempre più richiesta nella lotta contro insetti, acari, roditori e volatili. E’ necessario elevare al più presto la qualificazione degli operatori del settore, non più intesi come semplici “acchiappatopi” o sterminatori – se ci riescono – di mosche e scarafaggi, bensì come operatori che esercitano un ruolo fondamentale per il benessere e la salute della popolazione, oltre che nella protezione delle merci e di quanto di prezioso l’uomo è andato accumulando nel tempo.

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Rapporti Pubblico-Privato e qualità dei servizi disinfestazione

Dr. Angelo Tamburro U.F. Zoologia Ambientale - Direttore U.O.C.

Dipartimento di Prevenzione - Az. USL n° 9 di Grosseto Viale Cimabue, 109 – 58100 Grosseto

Recenti incontri sul tema “Legislazione italiana in materia di appalti pubblici di servizi”, hanno evidenziato l’esistenza di numerose difficoltà di ordine amministrativo e tecnico per l’elaborazione di idonei capitolati mirati al raggiungimento di obiettivi specifici in un settore, quale quello dei servizi di disinfestazione, la cui domanda pubblica e privata è in costante espansione. Verrebbe da chiedersi però, se sia utile dibattere ulteriormente questo argomento, vista l’inadeguata capacità del legislatore nazionale nel recepire e tradurre le necessità della Società, in disposizioni semplici e chiare, e soprattutto mirate alla reale domanda da regolamentare. Inoltre, se alla poca chiarezza legislativa sommiamo la mancanza, nelle Amministrazioni pubbliche, di tecnici e di dirigenti adeguatamente formati in un settore la cui attività risulta essere non solo complessa ma in continua evoluzione, ci rendiamo subito conto di quanto sia ancora lungo il cammino da percorrere per acquisire un servizio che corrisponda efficacemente alle esigenze della comunità, nel rispetto della salute pubblica e dell’ambiente. Il Decreto legislativo 17 marzo 1995 n. 157 “Attuazione della direttiva 92/50 CEE in materia di appalti pubblici di servizi” all’art 1, detta disposizioni per la corretta applicazione delle norme per l’aggiudicazione, da parte delle Amministrazioni, di appalti il cui valore di stima del servizio, al netto dell’IVA, è uguale o superiore al controvalore di € 200.000. Questo importo però raramente viene messo a disposizione dal soggetto appaltante, specie per i servizi di disinfestazione che riguardano gli ambienti confinati (ospedali, mense, scuole, ecc.); pertanto la maggior parte degli appalti del settore sfugge al dettato del D.Lgs, con evidenti difficoltà nella formulazione dei bandi di gara e nell’applicazione delle procedure per l’aggiudicazione. Inoltre, per appalti il cui importo è inferiore ad € 200.000, non è consentita l’applicazione dell’art. 14 riguardante la verifica della “Capacità tecnica” dei concorrenti, con conseguente difficoltà in ordine alla richiesta ed alla verifica, in sede di gara, di alcuni elementi tecnici che partecipano alla formazione del progetto, ad esempio le procedure per il controllo della qualità del servizio. L’Ente pubblico, in questo modo, non solo non sarebbe in grado di garantire ai cittadini un servizio i cui requisiti corrispondano realmente ai criteri della qualità, ma non sarebbe nemmeno in grado di migliorare nel tempo le prestazioni da acquisire. In pratica, se consideriamo la qualità come “l’insieme delle caratteristiche di un servizio che soddisfi i requisiti del cliente (espressi o impliciti)”, in campo pubblico l’attuale gestione degli appalti per il controllo e la bonifica degli agenti infestanti, non consente di garantire “a priori” la qualità del servizio offerto. E’ importante sottolineare difatti, che trasparenza ed autorevolezza, nel rapporto tra pubblico e privato costituiscono in tema di appalti, elementi di correttezza amministrativa. Ugualmente, l’assunzione da parte delle Imprese di un sistema qualità, circoscritto e limitato alla sola applicazione della normativa ISO 9001 (recepita in Italia come UNI EN 9001), non può costituire elemento di garanzia della capacità tecnico-professionale dell’impresa, ma semplicemente un indicatore dell’organizzazione, il cui valore in sede di aggiudicazione non può costituire titolo di preferenza. L’intento del legislatore comunitario però, era quello di utilizzare il settore dei pubblici appalti di servizi come “testa di ponte” per promuovere, attraverso la crescita di un mercato

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interno, lo sviluppo degli elementi che devono concretamente concorrere con la Direttiva 92/50 CEE alla qualità delle Imprese. Lo strumento utilizzato a tal fine è stato quindi un atto normativo che per sua natura è in grado di indirizzare alla progressiva armonizzazione degli ordinamenti nazionali, lasciando a ciascuno Stato piena autonomia sulla forma e sui mezzi da adottare. Pertanto, se gli obiettivi della direttiva comunitaria fossero stati correttamente recepiti ed interpretati dal legislatore nazionale, la regolamentazione delle Imprese della disinfestazione sarebbe risultata adeguata e conforme alle esigenze interne di mercato. Diversamente, dall’analisi del testo della Legge 25 gennaio 1994 n. 82 “Disciplina delle attività di pulizia, di disinfezione, di disinfestazione, di derattizzazione e di sanificazione” nonché del Decreto 7 luglio 1997 n. 274 “Regolamento di attuazione degli articoli 1 e 4 della Legge 25 gennaio 1994, n. 82”, emergono carenze nella definizione delle capacità tecniche ed organizzative che un Impresa del settore deve possedere. Le stesse carenze che risultano essere presenti nel settore pubblico, ove per la scarsa formazione del personale preposto alla gestione delle problematiche igienico-sanitarie causate da artropodi vettori o semplicemente da agenti infestanti, difficilmente consente di valutare correttamente la qualità delle prestazioni e tanto meno, di formulare idonei capitolati per il conferimento dei servizi a terzi. Nella pubblica amministrazione, la formazione continua delle categorie professionali interessate alla prevenzione ed alla gestione del rischio delle malattie a trasmissione vettoriale nonché alla valutazione delle attività di disinfezione, disinfestazione derattizzazione conferite a terzi, deve costituire pertanto un elemento determinante di qualità del servizio che l’Ente pubblico intende fornire alla comunità. Questa affermazione oggi condivisa ed apparentemente scontata, è allo stesso tempo molto distante dalle attuale modello d’organizzazione pubblica e sanitaria; basterebbe testimoniare le difficoltà che molti operatori della sanità incontrano nel valutare la correttezza e la congruità dei piani di autocontrollo previsti dal D.Lgs. 155/97, elementi che costituiscono argomento primario di molte richieste formative nel settore. Pertanto, la formazione, come aggiornamento ed addestramento continuo del personale deve riguardare non solo il settore pubblico, ma anche quello privato, ove il Responsabile tecnico dell’impresa deve dimostrare “sempre” di saper gestire in modo corretto ed adeguato le problematiche igienico-sanitarie emergenti in tema di pest control. Molto in questo campo potrebbero fare le Regioni e gli Enti pubblici mediante l’istituto della formazione del personale, come pure le Associazioni delle Imprese della disinfestazione; le prime, mediante l’istituzione di idonei corsi che contemplino la formazione di figure professionali tecniche e dirigenziali preposte al management del “pest control”, le seconde, nell’associare imprese realmente in grado di svolgere servizi di qualità, attraverso il deposito, al momento della richiesta di iscrizione, della documentazione specifica riguardante i sistemi di gestione della qualità, il processo formativo dei soggetti responsabili delle prestazioni di servizio, nonché delle procedure tecniche da applicare per settori d’intervento e per singolo agente infestante.

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Prodotti per la disinfestazione: conoscenza e loro impiego in sicurezza

Lorella Faraoni, Franca Davanzo Centro Antiveleni Azienda Ospedaliera Ospedale Niguarda Ca’ Granda - Milano

Introduzione Il Centro Antiveleni di Milano si pone come monitor delle intossicazioni acute che occorrono su tutto il territorio nazionale.Ad esso pervengono richieste di consulenze da privati cittadini e da medici di base ed ospedalieri riguardanti qualsiasi tipo d’intossicazione con qualunque prodotto quindi anche i prodotti fitosanitari che rappresentano il 6,5% di tutte le consulenze (circa 54869 nel 2000). Per quanto riguarda i prodotti utilizzati dai disinfestatori, questi sono registrati come Presidi Medico Chirurgici. Non dobbiamo in ogni modo dimenticare, che i prodotti che sono classificati come PMC di fatto non si discostano come tossicità dai prodotti che si utilizzano in agricoltura, l’unica differenza è, o la formulazione o le dimensioni delle confezioni o la concentrazione dei principi attivi. L’ambito d’applicazione di questi prodotti ”per uso civile” è molto ampio (scuole, ospedali, fabbriche, allevamenti ecc.), quindi quando si opera una “disinfestazione” non dobbiamo ignorare una variabile molto importante e difficile da gestire che è l’affollamento delle strutture interessate. Ci sono moltissimi esempi, nella nostra esperienza ormai più che trentennale, che suffragano questo pericolo in cui, per un utilizzo non idoneo di un prodotto, sono stati esposti più individui al pericolo di un’intossicazione acuta. Prodotti per la disinfestazione Numerose sono le sostanze, con caratteristiche tossicologiche differenti, che l’operatore deve imparare a conoscere, per svolgere il proprio lavoro in sicurezza (per se e per gli altri). Un primo aiuto all’identificazione del pericolo, deriva dall’attenta lettura dell’etichetta riportata sulla confezione originale. Sebbene non sia esaustiva, essa può indirizzare l’operatore sulla pericolosità della sostanza contenuta. I simboli di pericolo, disegni riquadrati su sfondo arancione, sono fondamentali per determinare il tipo di pericolo. Alcuni simboli sono d’immediata comprensione, ci riferiamo ad esempio al “facilmente infiammabile”, fiamma nera su sfondo arancione, che diventa “altamente infiammabile” con una F+ sopra; Un altro esempio ancora, è quello del simbolo con il teschio e le tibie incrociate che può suscitare l’errata convinzione che la sostanza sia pericolosa/mortale solo se ingerita. Vediamo allora in dettaglio i quattro simboli di pericolo di “pertinenza” tossicologica:

T+ 1. Molto tossico, senza la T+ solo tossico, sostanze o preparati che, per inalazione, ingestione o penetrazione cutanea possono comportare rischi gravi per la salute, acuti o cronici, ed anche la morte.

Xn 2. Nocivo: sostanze o preparati che, per inalazione, ingestione o penetrazione cutanea possono comportare rischi per la salute.

Xi

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Irritante: le sostanze e i preparati che non corrosivi, a contatto immediato prolungato o ripetuto con la pelle o le mucose, possono provocare una reazione infiammatoria .

Corrosivo: le sostanze e i preparati che, a contatto con i tessuti vivi, possono esercitare su di essi un’azione distruttiva.

La tossicità di una sostanza oltre che dal principio attivo è determinata anche dal tipo di solvente che la tiene in soluzione. Infatti, se a parità di principio attivo, cambia il solvente con un solvente meno tossico, cambierà anche la tossicità del preparato e il simbolo di pericolo sull’etichetta. L’esposizione ad antiparassitari, sia professionale e non, ha in se due tipi di rischio: uno acuto che si caratterizza per un’esposizione ad alte dosi e di breve durata, ed uno cronico che prevede un’esposizione a basse dosi per periodi prolungati. Un parametro importante per definire la tossicità acuta è la DL50, dose letale 50, in altre parole quella quantità di sostanza che uccide il 50% degli animali sottoposti all’esperimento. Più è piccola la DL50 maggiore è la tossicità acuta della sostanza. Tale parametro però non si può trasferire tal quale all’uomo, perché, le capacità metaboliche possono variare e incidere sensibilmente sull’emivita della sostanza e sulla sua trasformazione all’interno dell’organismo. Oltre al prodotto in se bisogna considerare anche altre variabili come la concentrazione, la formulazione, la durata dell’esposizione, la via di contatto. Tanto più un prodotto è concentrato tanto più è tossico, perciò al momento della miscelazione l’operatore è più a rischio di assorbire una dose tossica. La formulazione è un’altra caratteristica importante da valutare, infatti, la presenza di solventi aumenta i rischi di tossicità. Per esempio il metanolo può provocare cefalea, nausea, debolezza, vomito, dolori addominali, disturbi visivi; nei casi più gravi midriasi areflessica, annebbiamento della vista che può esitare in disturbi permanenti o in cecità completa. Altri segni sono l’ipotermia, l’ipopotassiemia, l’ipotensione. Il toluolo solvente che manifesta la sua tossicità con sintomi come confusione mentale, ebbrezza, nausea, cefalea, astenia, disturbi della coordinazione motoria, allucinazioni, perdita di coscienza. Lo xilolo ha un’azione locale di tipo irritante sulle mucose, la cute e le congiuntive, a cui si aggiungono, nausea, vomito, vertigine in coordinazione motoria; azione depressiva sul Sistema Nervoso Centrale. Gli effetti iniziali sono di tipo inebriante-anestetico. Consideriamo ora, come esempio, alcuni principi attivi frequentemente utilizzati.

• Esteri organofosforici (insetticidi): inibitori irreversibili dell’enzima acetilcolinesterasi, deputato alla degradazione dell’acetilcolina a livello dello spazio intersinaptico. L’accumulo di acetilcolina provoca la comparsa di sintomi di tipo muscarinico per la stimolazioni delle fibre parasimpatiche, sintomi nicotinici, per la stimolazione dei gangli vegetativi e delle terminazioni dei nervi motori, e sintomi a carico del sistema nervoso centrale.

• Carbamati (insetticidi): inibitori reversibili dell’enzima acetilcolinesterasi, determina una sintomatologia simile alla precedente ma che si autolimita nel tempo e di minor gravità. Spesso sono associati a solventi

• Piretroidi (insetticidi) sono molto più tossici per gli insetti nei quali provocano paralisi che nei mammiferi. Svolgono un’azione irritante sulla cute e le mucose. La sensibilizzazione può indurre reazioni allergiche talora gravi con la comparsa di danni cutanei rilevanti, rinite vasomotoria, asma, reazioni anafilattiche. Ad alte dosi sono considerati degli eccitanti per il Sistema Nervoso Centrale, con la possibilità quindi di dare convulsioni. La presenza di solventi può essere comportare aspirazione nelle vie aree con conseguente polmonite con segni d’edema polmonare acuto. Gli erbicidi che sono classificati come Presidi Sanitari, quindi registrati per un utilizzo agricolo, sono comunemente utilizzati anche per i diserbi in ambito civile.

• Organofosforici Erbicidi (glifosate): erbicida che agisce nelle piante inibendo l’EPSP sintetasi (via metabolica dell’acido scichimico che è il maggior precursore della biosintesi

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degli alcaloidi vegetali) enzima non presente nell’uomo; il meccanismo di tossicità nell’uomo non è ancora del tutto chiaro ma sembra che agisca disaccopiando la fosforilazione ossidativa mitocondriale. La tossicità del glifosate è data alla presenza di un surfactante (poliossietilendiamina) che ha provocato per contatto l’irritazione delle mucose e della cute. Se si verifica un assorbimento sistemico possono comparire, vomito diarrea, ipotensione, aritmie cardiache, shock cardiogeno nei casi più gravi, edema polmonare, acidosi e iperpotassiemia.

• Triazine (atrazina, erbicida): le informazioni sulla tossicità umana sono ancora scarse. Sono irritanti per le mucose, e la pelle. Nell’animale l’ingestione di cospicue dosi porta a anoressia, salivazione, spasmi muscolari e fascicolazioni, atassia, aumento della temperature corporea, dispnea. Un discorso a parte merita il Paraquat (erbicida dipiridilico) infatti, l’ingestione di piccole quantità di prodotto concentrato sono spesso mortali. Per tale motivo deve essere usato con estrema prudenza e attenzione, evitando comportamento che possono mettere a repentaglio la propria salute o quella degli altri (travaso del prodotto dal contenitore originale, maneggiare senza DPI, lasciare incustodite le confezioni). La tossicità del paraquat si può schematizzare nel seguente modo:

meno di 30 mg/kg di paraquat. minime lesioni a livello gastroenterico, i danni renali ed epatici sono minimi o assenti, la funzionalità polmonare di solito è normale.

30-50 mg/kg di paraquat. Il decorso clinico può essere suddiviso in tre fasi: 1) compaiono le lesioni da caustico con dolore al cavo orale, esofageo, gastrico, con vomito dolori addominali e talvolta diarrea. 2) In seconda quinta giornata compaiono gravi danni renali con oligoanuria e danni epatici con manifestazione di ittero. Può comparire ipovolemia. 3) Dopo circa 5-7 giorni si sviluppa fibrosi polmonare che porta solitamente a morte il paziente.

Superiore a 50 mg/kg: entro un ora si manifestano nausea, vomito, diarrea, ipotensione, ipotermia, acidosi metabolica, insufficienza epatica e renale, shock cardiogeno. Dopo 12-24 ore si manifesta insufficienza respiratoria e cianosi da edema polmonare. Spesso il decesso del paziente si verifica per MOF (insufficienza multi organo). Tra i ratticidi consideriamo:

Anticoagulanti: Bromadiolone, Brodifacoum, Clorofacinone, ecc. Anticoagulanti a lunga durata d’ azione, inibiscono la sintesi della vitamina K cofattore fondamentale per l’attivazione del fattore X. Sintomi: modificazione del PT ( tempo di Quick) o la comparsa di sanguinamento (petecchie, emorragie nasali, ematuria, nei casi più gravi emorragia sub-aracnoidea ecc).

Fosfuro di zinco“Vecchio” ratticida. L’azione tossica è svolta dalla fosfina che si libera a contatto con gli acidi (anche l’acido cloridrico dello stomaco).La fosfina è un gas incolore di odore agliaceo, spontaneamente infiammabile. Azione tossica: a livello del Sistema Nervoso Centrale, con senso di prostrazione, vomito, tremori, convulsioni; a livello dell’apparato respiratorio, con dispnea, edema polmonare; si può manifestare inoltre ipotensione ed emolisi. Impiego in sicurezza Come può difendersi l’operatore da tali rischi e come può proteggere le altre persone? Per poter utilizzare correttamente questi prodotti è indispensabile prendere confidenza con i Dispositivi di Protezione Individuale(DPI).

La maschera che deve coprire l’intero viso, essere dotata di filtri al carbone e pre-filtri per la polvere. I filtri hanno una classificazione a seconda della capacità di trattenere le sostanze, sono distinguibili tramite una A (filtro di carbone) ed un numero progressivo da 1 a 3 (a numero maggiore corrisponde una capacità assorbente maggiore), ed una P (pre-filtro) con numerazione anche qui da 1 a 3. I filtri devono essere cambiati, secondo le indicazioni riportate sulla confezione. La scelta del grado del filtro dipende dal luogo del trattamento (all’aperto, al chiuso, con mezzo cabinato isolato)

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Tute non devono essere di cotone, ma materiale impermeabile tipo Tyvek, Attualmente ci sono delle tute usa e getta; per le altre si raccomanda di lavarle separatamente dagli altri indumenti, per evitarne la contaminazione.

Guanti in neoprene e stivali di gomma, dei quali si raccomanda una adeguata manutenzione. Gli operatori del settore devono essere sensibilizzati ad utilizzare tutte quelle accortezze che possono evitare che terzi entrino in contatto con queste sostanze e ne traggano dei danni. Soprattutto in questo ambito vale il detto “meglio prevenire che curare”, anche perché il curare può significare avere numerosi pazienti contemporaneamente. L’operatore non deve mai sottovalutare né la curiosità, né l’imprudenza delle persone che possono accidentalmente entrare in contatto con queste sostanze. E’ sempre indispensabile informare, sia verbalmente che con l’apposizioni di cartelli specifici, del tipo di trattamento che si andrà a svolgere (specificando la sostanza, il giorno e l’ora del trattamento e l’eventuale tempo di rientro quando previsto). Quando possibile, l’utilizzo di erogatori di esche, preserva dalla curiosità di adulti, ma soprattutto di bambini. Dalla nostra esperienza di Centro Antiveleni emergono diversi casi in cui, per mancanza di professionalità (non conoscenza o sottovalutazione dei rischi), si è verificata l’esposizione di bambini, adulti e animali domestici, ed in alcuni di essi casi conclamanti di intossicazione. Non esiste, purtroppo, a tutt’oggi, una normativa che istituisca un patentino specifico per gli operatori che utilizzano questi prodotti in ambito civile, nonostante tutti siano consapevoli della necessità di una preparazione specifica all’utilizzo di queste sostanze in un ambito ben diverso di quello agricolo. L’unico patentino disponibile per usare sostanze tossico-nocive che a volta sono indispensabile è quello per gli agricoltori con conseguentemente una preparazione non idonea.

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Comportamento e biologia delle principali specie italiane di zanzara e strategie di lotta

Romeo Bellini Centro Agricoltura Ambiente “G.Nicoli” – Crevalcore

Delle oltre 60 specie di Culicidi italiani solo una frazione minoritaria è da considerare nociva e quindi idonea a diventare bersaglio di lotta. In linea di massima le specie che per comportamento e densità di popolazione entrano nel novero degli organismi nocivi per l’uomo sono: Aedes albopictus, Ae. vexans, Anopheles messeae, An. labranchiae, Culex modestus, Cx. pipiens, Ochlerotatus caspius, Oc. detritus, Oc. mariae/zammitii. Altre specie possono raggiungere livelli di nocività consistenti per brevi periodi ed in ambiti delimitati. In ogni caso primo elemento di valutazione, spesso tutt’altro che agevole, risulta proprio sull’opportunità o meno, in termini di valutazione costi/benefici, di implementare campagne di lotta organizzate. Sarebbe utile inserire criteri metodologici ed elementi di standardizzazione a questo riguardo, in quanto al momento la decisione sul se organizzare la lotta alle zanzare ha un carattere eccessivamente sintetico primariamente politico-amministrativo ed il tecnico si trova a fare i conti con un budget largamente prefissato. Non è raro ad es. che i budget inadeguati a disposizione rendano impossibile il raggiungimento del benchè minimo risultato pratico. In questo caso si potrà dire che il risultato è esclusivamente politico, gli amministratori raggiungendo l’obiettivo di dimostrare il loro impegno agli elettori. Nel nostro Paese la commistione tra lotta alle zanzare e politica locale è tale da rappresentare spesso un serio ostacolo allo sviluppo di programmi di lotta basati su criteri di razionalità. Altro elemento strutturale che si è andato definendo sempre più chiaramente negli ultimi anni è il carattere temporaneo, in genere annuale, e la forma privatistica della gestione della lotta. Ovviamente alla corrente fase storica di privatizzazione dei servizi non poteva fare eccezione il nostro settore che vive però all’insegna di una precarietà tipicamente italiana. Non risulta infatti che il modello privatistico abbia avuto altrettanto successo in altri Paesi europei dove si fa lotta alle zanzare, ad es. Francia, Spagna e parzialmente Germania. Stante l’attuale situazione risulta conveniente che l’ente pubblico che intenda affrontare la spinosa questione della lotta alle zanzare individui un livello cui attribuire i compiti di direzione tecnica, autonomo dal livello operativo. In questo modo avendo due figure che si interfacciano sarà possibile per il committente sperare in una maggiore trasparenza ed efficienza gestionale. In questa direzione va anche la suddivisione dell’affidamento dell’incarico in due servizi, uno relativo alla distribuzione, l’altro all’acquisto dei prodotti insetticidi. L’organigramma per l’applicazione della L.R. Piemonte n.75/1995, una delle esperienze più significative in essere, è riassumibile nello schema seguente. La strutturazione affronta il complesso problema di considerare e contemperare le esigenze di natura tecnica, normativa, sanitaria, ambientale ed amministrativa.

RTS DI PROGETTO DIREZIONE TECNICA

DITTE APPALTATRICI

ENTI PUBBLICI

RICHIEDENTI L.R.75/95 A.S.L. – DIPARTIMENTI

PREVENZIONE

REGIONE PIEMONTE DIREZIONE SANITA’ PUBBLICA

REFERENTE TECNICO-SCIENTIFICO REGIONALE

C.S.I. PIEMONTE Gestione

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Le esigenze amministrative sono complesse e la struttura difficile da gestire con la finalità prioritaria di rendere compatibili i tempi burocratici con quelli biologici. Anzi, francamente, con una facile battuta, si ha spesso la sensazione che sarebbe più facile fare il contrario. Val la pena soffermarci su un’altra questione di carattere strutturale: la divisione delle competenze. Nonostante la normativa in materia risulti diversificata a livello regionale, dovrebbe risultare evidente che la miglior separazione delle competenze e quindi la miglior trasparenza si ha quando il Comune, eventualmente in forma associata con altri enti locali, si occupa della gestione della lotta e l’ASL si occupa di valutare sia preventivamente attraverso parere sui progetti sia direttamente in campo la compatibilità sanitaria delle attività di lotta. Risulta evidente che l’ASL non può ragionevolmente essere l’organo deputato alla conduzione operativa perché in questo caso scatterebbe un palese conflitto d’interessi tra ruoli di controllore e controllato ricondotti in un unico ente. Chi controllerebbe gli operatori ASL? Il quadro normativo nazionale è certamente idoneo a supportare le scelte operative che gli enti e i professionisti devono compiere in fase di progettazione della lotta. Stiamo anche attraversando un periodo di progressivo adeguamento della legislazione nazionale a quella europea. Un aspetto che appare contraddittorio e sul quale val la pena riflettere riguarda il divieto nazionale alla commercializzazione e all’impiego di formulati concentrati per distribuzione ULV. Si tratta di una tecnica ormai di riferimento a livello mondiale che ha superato come garanzia d’efficacia e come riduzione delle dosi d’impiego le vecchie tecniche di nebulizzazione a medio e alto volume. L’Italia si colloca su questo aspetto fuori dal contesto dei paesi più sviluppati. Credo che la ragione alla base di questa scelta stia nel maggior rischio di inalazione che particelle di diametro inferiore presentano rispetto a particelle di diametro superiore a causa del più lungo periodo di sospensione nell’aria. Però il diametro delle particelle risulta anche elemento fondamentale nel determinare il grado di efficacia di un trattamento. Ne risulta che impiegando i nebulizzatori disponibili sul mercato italiano, che producono particelle nel range di 30-70 micron e oltre si ottengono risultati assai modesti e confinati nella fascia prossima al passaggio del mezzo irroratore. Provate poi a cercare in bibliografia scientifica dati sull’efficacia di trattamenti ambientali con attrezzature a medio e alto volume e troverete poco o niente. La loro bassa efficacia crea di conseguenza la necessità di ulteriori frequenti interventi. E’ anche da considerare che le quantità di insetticida somministrate ad ettaro risultano indicativamente 10-30 volte maggiori con la tecnica a medio volume rispetto all’ULV, con conseguenti maggiori depositi su superfici, prodotti alimentari ecc. Rimanendo stabile il panorama sanitario di riferimento, il presente e il prossimo futuro della lotta alle zanzare in Italia è legato al potenziamento delle strutture organizzate in grado di affrontare adeguatamente il complesso problema della gestione della lotta larvicida. Come già affermato in passato da esperti del settore il problema della lotta alle zanzare in Italia non è un problema di prodotti ma di organizzazione. La lotta larvicida rimane una scelta difficile per molte realtà, ma diventa sempre più una scelta obbligata a causa delle crescenti pressioni di carattere ambientale che l’opinione pubblica esercita e per l’assenza di tecniche di lotta adulticida non ecotossiche. In particolare assai difficile risulta affrontare la lotta larvicida nel caso delle specie legate ad allagamenti temporanei ed effimeri che richiedono uno sforzo organizzativo ragguardevole fonte di non poche frustrazioni per gli addetti ai lavori. In questo senso la disponibilità di personale fisso che abbia acquisito negli anni una conoscenza territoriale capillare sta alla base di ogni possibile successo. L’impostazione avviata tempo fa introducendo i criteri della lotta guidata ed integrata alla lotta alle zanzare risulta tuttora valida e senza alternative. Permette di investire il massimo delle risorse disponibili nella lotta alle larve e contemporaneamente, a seguito di continuo

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monitoraggio delle popolazioni di adulti, di attivare la fase adulticida solo dietro riscontro di reale necessità. L’individuazione di soglie di tolleranza basate sull’impiego di strumenti di valutazione oggettiva e standardizzata consente di avere riferimenti guida e di raffronto storico. Nel caso del progetto di Comacchio dove questa impostazione ha trovato ampia sperimentazione fin dal 1991 è stato possibile ottenere una forte riduzione dell’impiego di insetticidi a largo spettro d’azione e del numero di trattamenti adulticidi a favore del prioritario ruolo sostenuto dai trattamenti larvicidi, in particolare a base di Bacillus thuringiensis israelensis. Si è così innescato un meccanismo di feed back positivo che ha visto un sostanziale travaso di risorse non più impiegate nella fase adulticida ma in quella preventiva e larvicida. Attualmente il processo si è stabilizzato su un rapporto circa costante larvicidi/adulticidi compatibilmente con la variabilità stagionale. Questo è spiegabile con una sorta di legge della produttività decrescente per cui mentre i più importanti focolai di Ochlerotatus caspius sono relativamente più facili da rinvenire e trattare, quelli più piccoli e diffusi, ma che comunque per il loro numero contribuiscono significativamente a determinare l’entità di adulti, costituiscono una difficoltà crescente. In altre realtà ambientali, dove numero ed estensione dei focolai larvali sono contenuti, è invece stato possibile giungere in tempi relativamente brevi all’attuazione di una lotta esclusivamente mirata alle larve mediante formulati di B.t.i..

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Diffusione di Aedes albopictus in Italia e analisi del rischio sanitario

Roberto Romi Primo Ricercatore Laboratorio di Parassitologia, Istituto Superiore di Sanità

Generalità Nel settembre del 1990 veniva segnalata per la prima volta in Italia Aedes albopictus, la cosiddetta “Zanzara Tigre”, una specie non indigena di origine asiatica (Sabatini et al.,1990). Fino al secondo dopoguerra Ae. albopictus era rimasta relegata al proprio areale naturale di disitribuzione, che grosso modo comprendeva il sud-est asiatico, con propaggini nel sub-continente indiano a occidente e fino al giappone ad oriente. Con l’aumentare degli scambi commerciali tra paesi, è cominciata la lenta ma inarrestabile colonizzazione di altre aree geografiche, avvenuta principalmente attraverso il commercio di copertoni usati, dentro ai quali sono adese le uova di Ae. albopictus, resistenti anche a lunghi periodi di disseccamento. Raggiunti nuovi Paesi, la specie si è rapidamente adattata alle condizioni ambientali locali. Questo fenomeno è legato soprattutto alla plasticità ecologica della zanzara tigre, che consiste soprattutto nel poter utilizzare una varietà di piccole raccolte d'acqua dolce per lo sviluppo larvale, e nel deporre uova in grado di ibernare attraverso una diapausa embrionale (Hawley,1988 ). Alcune popolazioni di Ae. albopictus sono certamente arrivate in Italia col commercio di copertoni usati importati dagli USA (Dalla Pozza et al, 1994), ma non si può ragionevolmente escludere che altre vi siano giunte con l’importazione di merci diverse. Anche la rapida diffusione della zanzara avvenuta nel nostro paese è legata al commercio interno di copertoni usati che le grandi aziende importatrici, prevalentemente localizzate nelle regioni di nord-est, rivendono ad imprese minori che li rigenerano (Romi e Majori, 1998). Come tutte le altre zanzare, lo sviluppo di Ae. albopictus è strettamente legato alla presenza di raccolte d’acqua ove deporre le uova e dove si svolge il ciclo pre-immaginale. L “Tifre” predilige piccole raccolte di acqua pulita e generalmente non utilizza i focolai larvali tipici delle zanzare più comuni, siano essi naturali (pozze, stagni, piccoli corsi d’acqua, ecc.) che artificiali (fontanili, canali per l’irrigazione, fognari, ecc.); questo ne fa una specie tipica degli ambienti fortemente antropizzati, dove trova disponibili centinaia di microfocolai, costituiti da contenitori di varia natura (secchi, barattoli, bidoni, ecc. lasciati all’aperto). Come molte zanzare del genere Aedes, la “Tigre” si distingue per l’attività trofica diurna che si esplica soprattutto all’aperto e con estrema rapidità, nelle ore più fresche della giornata. Gli ospiti sui quali le femmine possono effettuare il pasto di sangue sono molteplici, praticamenete tutti gli animali a sangue caldo, con una spiccata preferenza per gli esseri umani. Cenni di biologia e comportamento Le popolazioni di Ae. albopictus che hanno colonizzato i paesi a clima temperato dell’emisfero settentrionale, sono dotate di un tratto genetico che consente loro di superare stagioni invernali anche molto rigide, con la produzione di uova svernanti. Studi di varia natura hanno dimostrato che queste popolazioni originano, con ragionevole certezza, dalla parte più settentrionale del continente Asiatico, con buona probabilità da zone a clima temperato del Giappone (Hawley et al., 1987). Come già detto, l'eccezionale capacità diffusiva di Ae. albopictus è dovuta al trasporto passivo delle sue uova. Queste, come tutte le uova del genere Aedes, sono dotate di una struttura particolare che permette loro di resistere al disseccamento e quindi di ritardare la schiusura anche di parecchi mesi. Durante il periodo estivo, quello più favorevole allo sviluppo, gran parte delle uova deposte schiudono appena sommerse dall'acqua, mentre quelle deposte dalle femmine delle ultime generazioni stagionali sono in grado di ibernare

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attraverso una diapausa embrionale indotta dal breve fotoperiodo, sopravvivendo così anche a temperature di parecchi gradi sotto lo zero. Secondo quanto riportato in letteratura le femmine di Ae. albopictus appartenenti a popolazioni di aree temperate sono indotte a produrre uova diapusanti da un fotoperiodo inferiore alle 13-14 ore di luce e si riattivano solo in presenza dello stesso numero di ore di luce. D’altra parte sappiamo che anche la temperatura gioca un ruolo importante nell’induzione della diapausa. Da nostre osservazioni dirette, condotte a Roma tra il 1998 e il 2000 (Di Luca et.al, 2001) sappiamo che il ciclo biologico della specie si riattiva anche in presenza di sole 11,5-12 ore di luce, in presenza di temperature medie intorno ai 10° C (periodo che corrisponde solitamente al mese di marzo, più o meno inoltrato). Sebbene la deposizione di un certo numero di uova a schiusura ritardata avvenga anche durante l’estate (come meccanismo di sicurezza per la sopravvivenza della specie in condizioni ambientali difficili), la deposizione di un numero cospicuo di uova invernali (>50%) comincia gradualmente quando il fotoperiodo diminuisce ancora intorno alle 12-13 ore di luce, all’inizio di ottobre, anche con temperature medie ancora superiori ai 15°C. A metà novembre la quasi totalità delle uova deposte è ormai destinata a svernare. I focolai larvali di Ae. albopictus cessano dunque di essere produttivi tra la fine di ottobre e metà novembre, mentre adulti pienamente attivi dell’insetto sono stati rinvenuti fino a dicembre inoltrato (con temperature medie inferiori ai 10°C). Nel settentrione del nostro paese, dove le temperature sono mediamente più basse, il periodo favorevole allo sviluppo della specie è più breve, con la schiusura delle uova invernali che può essere ritardata di alcune settimane (aprile) e la sopravvivenza di pochi adulti limitata, massimo, al mese di novembre. Nel Mezzogiorno, invece, le condizioni ambientali determinate dalle temperature medie più elevate e dalla scarsità di precipitazioni durante i mesi estivi, rendono l’ambiente meno favorevole alla colonizzazione da parte di Ae. albopictus e comunque limitano il suo sviluppo massivo (Romi, 1999). L’infestazione in Italia Secondo i dati pervenuti al centro di coordinamento dell’I.S.S., focolai dell’insetto sono

attualmente presenti, in maniera discontinua, sul territorio di 12 regioni, 43 Provincie (Fig. 1) e oltre 260 Comuni, prevalentemente concentrati nella porzione di nord-est della Pianura Padana, dove evidentemente la zanzara tigre ha trovato le condizioni climatiche ed ambientali più favorevoli alla sopravvivenza e alla riproduzione (Romi et al., 1999). I pochi focolai presenti nelle regioni centro-meridionali non hanno dato luogo a colonie di rilevante importanza, proprio grazie alla relativamente scarsa quantità di precipitazioni e al basso tenore di umidità relativa. Fa eccezione l’area urbana di Roma, dove la zanzara è presente dal 1997 e dove ha trovato condizioni particolarmente favorevoli alla rapida diffusione sul territorio cittadino, tanto che attualmente focolai d’infestazione più o meno estesi sono presenti in tutti i 19 Municipi cittadini, con propaggini extraurbane lungo le strade consolari e in molti comuni della provincia. Fattori che favoriscono l’insediamento di nuove colonie La proliferazione massiva di Ae. albopictus è legata a fattori diversi, i più importanti dei quali sono: - la disponibilità di focolai larvali, quindi di contenitori di natura varia; - l’abbondanza di precipitazioni atmosferiche che li riforniscono d’acqua; - la temperatura elevata che riduce la durata del ciclo di sviluppo larvale; - la presenza di vegetazione bassa dove gli adulti possono trovare riparo. La disponibilità di contenitori è generalmente maggiore dove le aree industriali/commerciali si interfacciano con quelle prettamente residenziali, ma è sostanzialmente la tipologia abitativa che costituisce, anche in aree non periferiche, il fattore più importante allo sviluppo della specie. Quartieri dove siano predominanti case basse o villette, con orti e giardini, o condomini con spazi verdi interni e terrazzi costituiscono le aree più favorevoli alla colonizzazione da parte di Ae. albopictus, perchè rendono disponibili in gran numero sia focolai per lo sviluppo larvale che rifugi per gli adulti (siepi, erba alta, alberi bassi). Il clima

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è altrettanto importante, tanto più favorevole quanto più vicino a quello caldo umido dei tropici: le precipitazioni, oltre a fornire acqua ai focolai larvali, innalzano l’umidita ambientale, necessaria per la sopravvivenza degli adulti, e le temperature elevate consentono alla zanzara un numero elevato di generazioni nell’arco della stagione favorevole, con relativa crescita esponenziale della popolazione. Nel periodo di massimo caldo in Italia, tra la metà di luglio e la metà di agosto, Ae. albopictus è in grado di effettuare un ciclo completo di sviluppo in 10 giorni. Le aree del centro-nord dove la “Tigre” è maggiormente presente sono accomunate da una quantità di precipitazioni annue >600 mm. Ne consegue che parte delle regioni centrali e la totalità di quelle meridionali-insulari risultano a bassissimo rischio di infestazione. Questo non significa naturalmente che la zanzara Tigre non possa stabilirvi dei focolai, ma solamente che le condizioni ambientali non sono favorevoli alla riproduzione massiva. Va peraltro considerato che altri fattori possono svolgere un ruolo importante nel determinare il micloclima di un agglomerato urbano. Ci sono poi fattori secondari, ma non meno importanti, in grado di contribuire in maniera determinante alla infestazione permanente di una certa area. Il primo è legato a una carenza della normativa vigente che non specifica chi debba realizzare materialmente gli interventi di controllo (leggi disinfestazione) e/o sostenerne i costi. La differente interpretazione del concetto di “Profilassi”, così come riportato nel Piano Sanitario Nazionale, ha fatto si che le competenze sul controllo siano state ritenute ove di pertinenza ambientale, dunque a carico dei Comuni, ove di pertinenza sanitaria, quindi a carico delle Aziende Sanitarie Locali. Altro fattore è una diffusa sottostima dell’entità del problema da parte delle Autorità locali, fino a quando questo non si manifesta nella sua interezza. Nel frattempo il problema emerge e diviene una realtà che stagionalmente coinvolge centinaia di migliaia di persone. Potenziali focolai larvali La grande plasticità ecologica che caratterizza specie come Ae. albopictus, le ha consentito di adattarsi rapidamente ad ambienti diversi da quelli d’origine (foresta), in particolare a quelli suburbani e urbani. L’elemento determinante per la sua diffusione è la capacità di poter utilizzare per la deposizione delle uova una grande varietà di micro e macro contenitori derivanti dall'attività umana. A seconda delle condizioni ambientali, ogni manufatto in grado di contenere piccole raccolte d'acqua dolce, non importa di quale materiale sia costituito, costituisce un potenziale focolaio larvale. In ambiente industriale/commerciale risultano particolarmente soggette all’infestazione le aree dove siano ammassati all’aperto rottami o contenitori vari, quali ad esempio i depositi di copertoni, di rottamazione auto, i vivai e i cantieri edili; nell’interfaccia tra campagna e città prevalgono contenitori di grosse dimensioni (bidoni, secchi) utilizzati, ad esempio, per l’innaffiatura degli orti; nell’ambiente peridomestico cittadino prevalgono contenitori più piccoli adibiti a funzioni diverse (bacinelle, sottovasi di piante, vaschette ornamentali senza ricambio d’acqua, grondaie otturate, ecc. ). In Italia Ae. albopictus ha trovato focolai larvali ideali anche nelle caditoie dei chiusini per la raccolta e lo smaltimento delle acque di superficie. Queste caditoie sono di dimensioni diverse, con volumi d’acqua variabili, ricche in materiale organico costituito principalmente da terriccio e foglie in disfacimento. Questi chiusini costituiscono la quasi totalità dei focolai larvali presenti sul suolo pubblico dei centri abitati, ma la loro produttività varia nello spazio e nel tempo, in relazioni al clima e alle precipitazioni, e rimane da accertare quale sia il loro reale contributo alla produzione totale di zanzare in una certa area. I lunghi periodi di siccità, e/o le temperature molto elevate, che si registrano in piena estate, soprattutto nelle regioni centro-meridionali, possono rendere improduttivi focolai invece molto attivi in tarda primavera e tarda estate. Va peraltro detto che, mentre e l’acqua meteorica rappresenta quasi l’unica possibilità di rifornimnto per i chiusini posizionati lungo le strade, quellii posti in fondi privati possono essere riforniti d’acqua con continuità da attività diverse quali l’innaffiatura, il lavaggio d’auto, ecc.

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Cosa è stato fatto e cosa bisogna fare L’eradicazione di una colonia di Ae. albopictus da una certa area non è un obiettivo impossibile da raggiungere ma certamente richiede un impegno notevole e, soprattutto la concomitanza di più circostanze favorevoli. La più importante è la scoperta precoce dell’infestazione, quando questa è ancora limitata al sito di ingresso (in genere un deposito di copertoni) e la popolazione della zanzara non è ancora saldamente radicata nel territoro circostante. Le probabilità di successo aumentano quando l’area del sito d’ingresso non sia strettamente contigua a zone densamente abitate e quando detto sito si trovi in un’area climaticamente poco favorevole allo sviluppo massivo della specie. Ultima, ma non meno importante condizione, è che gli interventi di controllo siano condotti da personale qualificato e esperto, supportato da un sistema di monitoraggio capillare. Dove e quando si rivela vana la possibilità di eradicare la zanzara da una determinata area, gli interventi di controllo devono puntare alla riduzione della densità della specie fino a livelli di buona sopportabilità. Anche questo secondo obiettivo non è comunque facile da raggiungere se non integrando attività tra loro diverse. Infatti, poichè la gran parte dei focolai larvali della zanzara tigre sono costituiti da contenitori è evidente che i soli interventi di disinfestazione (che per forza di cose interessano prevalentemente il suolo pubblico) non sono sufficienti a risolvere il problema. Il principale metodo di controllo rimane dunque l’azione preventiva, ovvero l’eliminazione dei focolai, che va condotta durante tutto l’anno, anche durante i mesi invernali, informando la popolazione (e forzandola quando necessario con apposite ordinanze) sui corretti comportamenti da adottare per la riduzione di detti focolai. In questa ottica gli interventi di disinfestazione vanno intesi come un completamento dell’attività di prevenzione. Un monitoraggio capillare delle aree infestate è essenziale per rilevare precocemente la presenza della zanzara all’inizio della stagione favorevole, e avere così la possibilità di intervenire con decisione sulla popolazione dell’insetto prima che ne aumenti la densità, sia con trattamenti antilarvali che, dove necessario, con quelli adulticidi. Una volta accertato se e quanto i tombini risultino produttivi in una certa area, i trattamenti antilarvali sul suolo pubblico possono essere proseguiti fino a ottobre-novembre, riservando gli interventi adulticidi ad ambienti specifici (giardini di scuole e ospedali, parchi pubblici e cimiteri) o, in generale, ai momenti di maggiore densità della specie. Importanza sanitaria L' introduzione della zanzara Tigre in Italia e nel Bacino del Mediterraneo costituisce un nuovo problema sanitario, sia come potenziale vettore di patogeni, sia come ectoparassita. Nel continente di origine è vettore del virus della dengue e probabilmente gioca un ruolo anche nella trasmissione di quelli della febbre gialla e dell'encefalite giapponese (Boromisa et al. 1987; Shroyer 1986). Ae. albopictus è un potenziale vettore anche di altri arbovirus: sperimentalmente è stata dimostrata la sua competenza a trasmettere oltre 20 diversi arbovirus (Mitchell 1991). Negli Stati Uniti, dove la specie è presente dal 1986, sono stati isolati esemplari naturalmente infetti con virus indigeni. Alle nostre latitudini Ae. albopictus potrebbe inserirsi nel ciclo di trasmissione di alcuni arbovirus trasmessi da zanzare, agenti di encefaliti, di cui è stata riportata attività nel Bacino del Mediterraneo (Mitchell,1995). La capacità di Ae. albopictus a infettarsi e a trasmettere alcuni di questi arbovirus è stata dimostrata sperimentalmente (Shroyer 1986). Va anche ricordato che Ae. albopictus è stata infettata in laboratorio con ceppi italiani di Dirofilaria repens e D. immitis (Cancrini et al. 1992). A tutt’oggi non ci sono però evidenze che la specie sia coinvolta nella trasmissione di agenti patogeni responsabili di malattie nell’uomo, nè in Europa nè negli Stati Uniti. Ma è soprattutto l'attività ectoparassitaria di Ae. albopictus la causa dei maggiori problemi in Italia. L'intensità degli attacchi è spesso tale da costringere le vittime ad abbandonare attività condotte all'aperto per rifugiarsi al coperto. La reazione alle punture è costituita da pomfi dolorosi, sovente edematosi o emorragici. Elevate densità della specie sono causa di vere e proprie emergenze sanitarie, perchè le numerose punture contemporanee che si ricevono nell’unità di tempo, principalmente concentrate sugli arti inferiori, possono essere origine di risposte allergiche localizzate, soprattutto in persone particolarmente sensibili. Questi effetti

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sono particolarmente visibili su bambini e anziani e spesso richiedono un intervento medico. Nelle regioni dove questa zanzara ha impiantato colonie stabili, è rapidamente diventata l'insetto di maggiore interesse sanitario. Conclusioni Nonostante l’allarme lanciato da questo Istituto all’inizio degli anni ’90, a tutt’oggi l’importazione di copertoni usati in Italia da zone di endemia di Ae. albopictus non è ancora regolamentata a livello nazionale, sebbene iniziative isolate siano state prese a livello regionale (In Italia si importano annualmente circa15 tonnellate di copertoni usati di cui il 3-6% proviene da aree di endemia di Ae. albopictus ,principalmente il sud degli Stati Uniti - dati ISTAT). D’altra parte l’esperienza degli Stati Uniti, dove la materia è regolamentata con legge federale (Reiter, 1998) ha dimostrato che una legge sull’importazione non è da sola sufficiente, senza successivi controlli, nè a prevenire completamente l’ingresso di materiali potenziamente infestati né, tantomeno, a frenare la diffusione interna dell’infestazione. Esiste infine il rischio di importare nuove specie di zanzare che si sviluppano nei copertoni. Carichi infestati provenienti dagli USA hanno causato, nel 1997 l’importazione di una seconda specie, Aedes atropalpus che però, grazie alla efficienza della rete di sorveglianza nel frattempo attivatasi, è stata circoscritta all’area d’ingresso (Treviso) e quindi eradicata (Romi et al., 1997, 1999). Anche l’importazione di nuove popolazioni di Ae. albopictus va comunque prevenuta per limitare la variabilità genetica di quelle esistenti e per evitare l’accidentale introduzione di virus esotici. Come già detto, l’entità del problema è spesso sottostimata dalle Autorità competenti, col risultato che la specie può raggiungere localmente densità decisamente preoccupanti. Tutto questo contribuisce a determinare una situazione di rischio sanitario che non può essere ignorata. Infatti, se in Italia il rischio che la zanzara tigre possa trasmettere arbovirus è attualmente solo teorico, non si può comunque del tutto escludere un evento accidentale legato alla temporanea importazione di serbatoi di infezione. Non va peraltro dimenticato che una importante epidemia di dengue emorragica è già occorsa nel passato in Europa, in Grecia nel 1927-28, con circa un milione di casi e 1000 decessi (Halstead &Papaevangelolou, 1980):Sebbene all’epoca l’insetto responsabile della trasmissione fosse stato Ae. aegypti, vettore certamente più efficace di Ae. albopictus, riteniamo che la potenziale pericolosità di quest’ultima non vada comunque sottovalutata. Eventuali epidemie di dengue in paesi Europei, oggi, potrebbero avere un impatto devastante, a causa dell’elevata densità di popolazione delle aree urbane e della scarso uso che si fa nel nostro continente di aria condizionata, di zanzariere alle finestre e di altri mezzi di protezione contro gli insetti. A dieci anni dal suo primo ingresso Ae. albopictus è saldamente radicata in Italia e può essere ormai considerata parte integrante della nostra entomofauna. La localizzazione prevalentemente urbana insieme alla spiccata attività trofica diurna ne fanno però una zanzara speciale, la cui intensa attività ectoparassitaria, oltre alla potenzialità come vettore di patogeni, non può essere sottovalutata dalle Autorità Sanitarie. Dove Ae. albopictus è presente, gli enti localmente responsabili degli interventi di disinfestazione devono programmare annualmente delle campagne di informazione e di controllo della specie al fine di contenerne lo sviluppo, come già detto, entro livelli di accettabilità. Parrallelamente occorre mettere a punto nuove strategie di controllo che assicurino risultati sempre migliori e richiedano risorse sempre minori. Bibliografia

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Monitoraggio e controllo di Aedes albopictus nel cesenate

Simona Macchini HERA S.p.A.

Premessa Aedes albopictus risulta presente nell’area cesenate dal 1995, data in cui, grazie alla collaborazione tra l’azienda Sanitaria locale e le aziende di servizio operanti sul territorio, è stato attivato un mirato progetto di monitoraggio, seguendo le indicazioni e i protocolli indicati dall’Istituto Superiore di Sanità. Il territorio cesenate cui si fa riferimento comprende aree agricole collinari e pianeggianti, su cui sorgono centri urbani densamente abitati, senza interruzione tra i diversi comuni. Inoltre, la stretta vicinanza con la zona costiera, dove prevale una economia legata al turismo estivo, fa si che, oltre che al disagio causato dalla zanzara tigre alla cittadinanza, si debba considerare anche il danno economico collegato alle perdite di immagine. L’attività condotta nell’ambito del progetto di riduzione dei focolai e della popolazione di Aedes albopictus, ha permesso di raggiungere buoni livelli di controllo con l’ottimizzazione del rapporto costo/beneficio. Ciò è stato possibile grazie all’impiego di una metodologia di lavoro che ha previsto, oltre agli interventi di lotta contro gli insetti, l’attuazione di mirate campagne di sensibilizzazione rivolte sia agli amministratori locali, sia alla cittadinanza. La presenza dei tecnici ispettori sul territorio è stata utile per fornire istruzioni sulla riduzione dei potenziali focolai di sviluppo. Diverse amministrazioni comunali si sono impegnate nella stampa e distribuzione porta a porta di depliants informativi, riportanti indicazioni sulla biologia della zanzara tigre e sugli accorgimenti da adottare, a livello privato, per contrastarne lo sviluppo. Risulta di fondamentale importanza coordinare le attività ricordando che le zanzare adulte “volano”, si spostano e non conoscono confini geografici. Una Amministrazione isolata rischia di non ottenere i risultati sperati, mentre azioni effettuate su larga scala permettono di ottimizzare i costi e di incrementare l’efficacia degli interventi. In merito a ciò va ricordato l’impegno e la notevole sensibilità al problema degli amministratori dei comuni di Cesena, Savignano, San Mauro, Gambettola e Gatteo, che hanno finanziato le attività di monitoraggio, lotta e divulgazione, con un impegno economico anche molto importante per il loro bilancio. Cenni sulla eto-biologa di Aedes albopictus Aedes albopictus è un insetto di origine asiatica trasportato in diverse parti del mondo attraverso il commercio dei copertoni usati. Le uova, deposte nella parte concava dei pneumatici, viaggiano adese a questi in attesa, per schiudere, di essere sommerse dall’acqua piovana. Nelle aree a clima temperato Aedes albopictus impianta colonie stabili in quanto le sue uova, che resistono per mesi al disseccamento e al freddo, riescono a superare i rigori dell’inverno, nonostante gli adulti muoiano con l’abbassamento della temperatura. Le forme alate si riparano all'ombra, tra la bassa vegetazione di parchi e giardini, prediligendo ambienti umidi. Le femmine fecondate cercano un ospite da cui prelevare il sangue necessario per maturare le loro uova, che depongono in piccoli depositi di acqua. Le uova schiudono non appena la temperatura diviene ottimale e dopo essere state sommerse dall’acqua. La colonia iniziale è data da pochi individui e può passare inosservata, ma in un paio di anni l'infestazione diventa evidente a causa del fastidio arrecato ai residenti dalla accresciuta popolazione di zanzare. Al contrario delle zanzare “comuni”, che scemano naturalmente alla fine dell’estate, Aedes albopictus presenta un picco massimo di presenze alla fine del mese di agosto quando la colonia cresce favorita dall’aumento delle precipitazioni, e gli adulti rimangono attivi nei mesi di settembre, ottobre e novembre, se la temperatura permane favorevole.

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Nei paesi di origine Aedes albopictus è vettore del virus della Dengue (febbre emorragica), inoltre risulta un potenziale vettore di diversi Arbovirus, sospetti agenti di encefaliti umane. In Italia i rischi sanitari sono solo teorici, legati all’ipotetica importazione di serbatoi di infezione: attualmente le problematiche derivanti dalla presenza di Aedes albopictus sono limitate all'elevato grado di fastidio che essa provoca, soprattutto in orari diurni, con le sue dolorose punture, la cui reazione varia in base alla sensibilità dei soggetti colpiti. Per le aree romagnole, inoltre, la presenza di tale insetto potrebbe rivelarsi molto dannosa sul piano dell'immagine turistica. Area cesenate infestata La presenza della zanzara tigre in Romagna è stata accertata nel 1995, quando su segnalazione dell'Istituto Superiore di Sanità e l'Assessorato alla Sanità della Regione Emilia Romagna, l’Azienda Usl di Cesena, in collaborazione con Aura spa e Amga Spa (attuale HERA Spa), hanno predisposto uno specifico programma di monitoraggio per sorvegliare i punti classificati a più alto rischio (gommisti, autodemolizioni). Nel cesenate Aedes albopictus è stata rinvenuta inizialmente nei comuni di Cesena e Savignano sul Rubicone, presso gommisti che commerciavano pneumatici provenienti da aree infestate. Per individuare l’esatta estensione dell’infestazione, sono state posizionate ovitrappole di controllo seguendo una disposizione a cerchi concentrici di raggio crescente attorno alle aree infestate. Ciò ha permesso di evidenziare la distribuzione e di seguire l’avanzamento della zanzara tigre. Attualmente l’area occupata comprende cinque comuni: nel comune di Savignano s.R., la presenza dell’insetto è accertata dal 1995, e l’importazione è legata al trasporto di pneumatici infestati. Dal 2001 l’infestazione ricopre la totalità del territorio comunale, ad esclusione dell’area a mare. A San Mauro Pascoli l’infestazione è stata accertata nel 1999, a partire dalle aree di confine con Savignano; dal 2001 tutto il territorio comunale risulta infestato, ad esclusione dell’area a mare. Nel comune di Gambettola il monitoraggio è iniziato nel 1996, con il posizionamento, nei pressi di gommisti e rottami, di ovitrappole attraverso le quali sono state rinvenute le prime ovature e le forme alate. L’infestazione, scoperta precocemente e rimasta di estensione limitata, era stata eradicata attuando capillari interventi larvicidi su suolo sia pubblico che privato e trattando l’area di stoccaggio di copertoni infestati con interventi adulticidi mirati. Dopo un periodo di 4 anni in cui i controlli davano risultati negativi, nel 2000 è stata nuovamente riscontrata la presenza di Aedes albopictus in un quartiere con giardini ricchi di verde e ombreggiati, con ampia disponibilità di focolai larvali (vasi, secchi contenitori di varia natura colmi di acqua). Da una indagine sui residenti è risultato come questi fossero soliti frequentare il cimitero di Savignano. Da tale area, inizialmente limitata e circoscritta, l’insetto si è distribuito su un territorio più ampio; dal 2002 è interessata buona parte di Gambettola, in forma spazialmente discontinua e puntiforme (distribuzione a macchia di leopardo). A Gatteo il monitoraggio è iniziato nel 2000 nell’area cimiteriale e nel centro storico del comune, dove a tutt’ora i risultati sono negativi. La prima segnalazione della presenza della zanzara tigre risale al 2001, nel giardino di un asilo della zona mare. Nell’area non ci sono zone a rischio (gommisti ecc.), per cui si presume si sia verificato un trasporto passivo degli adulti. Nel 2002 è stata rilevata una bassa infestazione anche in una limitata area del centro, localizzata nel giardino di un cittadino da poco trasferitosi in loco dal comune di Savignano. A Cesena il monitoraggio è iniziato nel 1995 in località Diegaro, nell’area di stoccaggio di pneumatici risultati infestati. Dal 2002 sono state individuate diverse zone infestate distribuite in forma discontinua e puntiforme, a confine con l’area infestata di Gambettola e nei pressi di un gommista. Si rammenta che l’assenza di controlli nei comuni confinanti a quelli indicati non sottintende una assenza dell’infestazione. Cause dell’infestazione Quali sono le cause di questa inesorabile e continua diffusione? Aedes albopictus non è una buona volatrice: si alza solo di pochi centimetri da terra e non si sposta, in genere, più di un

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centinaio di metri rispetto al focolaio di origine. Può però sfruttare la direzione dei venti oppure le automobili, in cui entra dai finestrini aperti, per spostarsi anche di diversi chilometri. La diffusione da una zona all'altra, che fino ad oggi era attribuita principalmente al trasporto passivo delle uova deposte all'interno dei copertoni usati o di piccoli recipienti, oggi può essere collegata anche alla frequentazione di aree infestate da parte di cittadini che, aprendo lo sportello della macchina durante una sosta, non si accorgono del clandestino a bordo. Riferendosi alla zona oggetto di studio, si vuole rammentare come l’abitudine di portare nei cimiteri, in estate, i vasi di fiori con sottovasi (più resistenti al caldo rispetto ai fiori recisi) e di riportarli a casa al sopraggiungere dell’autunno, può essere imputata come una delle cause che hanno provocato l’ampia e rapida diffusione della zanzara tigre su tutto il territorio di Savignano e di San Mauro. Il cimitero di tali comuni risulta essere, a tuttora, una delle aree più infestate. A questo punto il danno è fatto: Aedes albopictus è in grado di colonizzare tutti i ristagni d'acqua di piccole dimensioni come possono essere le caditoie dei tombini stradali di raccolta delle acque superficiali, i vasi dei cimiteri, i sottovasi, gli annaffiatoi, i secchi, l’interno dei pneumatici, vasche e bacinelle abbandonate in orti e nei giardini. La numerosa presenza di microfocolai in ambiente urbano favorisce lo sviluppo della zanzara e rischia di rendere inefficaci i trattamenti effettuati sul suolo pubblico. Strategie di lotta: il monitoraggio, lo studio del territorio, la divulgazione, le ordinanze, gli interventi larvicidi Quali strategie di lotta sono state attuate per contrastarne la presenza? L’attività di monitoraggio si è rivelata uno strumento fondamentale per ricercare la presenza di Aedes albopictus, per definire l’estensione dell’infestazione, per guidare le attività di lotta e verificare l’efficacia degli interventi attuati. Per tale tipo di attività sono state impiegate ovitrappole costituite da contenitori di plastica nera con volume di circa 500 cc, riempiti per 2/3 da acqua declorata, dentro cui è stata immersa una stecchetta di masonite, larga circa 2 cm e lunga 10 cm. Tali contenitori vengono collocati ad una altezza non superiore ai 50 cm in zone ombreggiate (né gli adulti né le larve di Aedes albopictus gradiscono l’esposizione alla luce diretta del sole), lasciando sopra la trappola uno spazio libero di almeno 30 cm. Le femmine fecondate di zanzara tigre si avvicinano alla trappola attirate dall'acqua e dal colore scuro del contenitore e depongono le loro uova sulla parte di stecchetta che emerge dall'acqua. Ogni 7 giorni la stecchetta viene sostituita, si cambia l’acqua all’interno del barattolo, avendo cura di pulire le pareti del contenitore per eliminare le uova ad esso adese. Le stecchette prelevate vengono siglate con un numero di identificazione e portate in laboratorio dove vengono esaminata con l’ausilio di uno stereomicroscopio, per cercare e contare le uova su di esse deposte, il cui numero è registrato su apposite tabelle Le ovitrappole hanno un raggio di azione di 100-200 metri e vengono posizionate da maggio fino alla fine di ottobre. E’ di fondamentale importanza conoscere la morfologia del territorio e ricercare i focolai di sviluppo delle larve, che vanno eliminati o trattati con appositi larvicidi. L’area studiata presenta aree abitate in cui prevalgono quartieri con villette e giardini ombreggiati e ricchi di vegetazione, luogo privilegiato dagli adulti di zanzara tigre. Non sempre i siti infestati si sono mostrati di facile accesso e individuazione e questo ha complicato il lavoro degli operatori addetti al controllo e alle operazioni di disinfestazione; è stato perciò necessario individuare strategie di lotta per coinvolgere i cittadini. Frequente è stato il ritrovamento di contenitori in giardini privati dove, nonostante le ripetute sollecitazioni fatte ai proprietari, questi ultimi non hanno provveduto ad eliminarli neppure quando risultavano permanentemente infestati. Per tale motivo, accanto ai trattamenti insetticidi è stata prevista una mirata attività divulgativa, con diffusione di materiale informativo (depliant, manifesti, articoli su quotidiani), incontri con la cittadinanza (nelle scuole, interventi porta a porta, ecc.), impiego dei media dell’informazione (giornali, radio, televisioni, ecc.). I Sindaci dei comuni interessati si sono mostrati disponibili nell’emanare e

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adottare ordinanze specifiche per rendere più semplice il controllo, facilitare la bonifica delle aree abbandonate, imporre comportamenti adeguati alla cittadinanza. Le indicazioni date fanno riferimento al divieto, nel periodo aprile-ottobre, di accumulare acqua in contenitori, bidoni e secchi o in vasche presso orti, giardini e pertinenze delle abitazioni, a meno che non si tratti di contenitori o vasche tenuti costantemente chiusi ermeticamente con un apposito coperchio o con altri mezzi idonei (teli di nylon, ecc.). I contenitori inutili (bottiglie, barattoli, copertoni) devono essere eliminati. Nelle vasche e nelle fontane ornamentali devono essere immessi pesci larvivori, i sottovasi, i secchi e gli annaffiatoi devono essere mantenuti rovesciati. Gli interventi di lotta alle zanzare effettuati hanno previsto come forma preferenziale la lotta antilarvale, con uso mirato di prodotti specifici da inserire nei ristagni d’acqua colonizzati dalle larve. Nelle aree infestate da Aedes albopictus, sono stati effettuati trattamenti alle tombinature sia in suolo pubblico sia all’interno degli spazi privati. Gli interventi adulticidi sono stati disposti solo a fronte di infestazioni di grave entità. Per quanto riguarda i gommisti o le aree di stoccaggio di pneumatici infestate da Aedes albopictus, i provvedimenti sono a carico del titolare della ditta cui è stato imposto di trattare con permetrine nebulizzate (trattamento adulticida) tutti i pneumatici ogni volta che pioveva, entro cinque giorni dalla precipitazione atmosferica. I tecnici ispettori hanno verificato che lo stoccaggio e l’accatastamento dei pneumatici all’aperto fosse effettuato ponendo i copertoni l’uno sull’altro in pile verticali regolari e ordinate (per facilitare i trattamenti adulticidi all’interno della pila), coperte mediante teli di plastica impermeabili in modo da evitare la raccolta di acqua piovana al loro interno. Per quanto concerne i pneumatici non più commerciabili, al titolare della ditta è stato imposto di comunicare al servizio di Igiene e Sanità Pubblica dove questi venivano trasportati e con quali modalità di smaltimento; il pericolo di trasmissione dell’infestazione rimane anche nel caso di pneumatici infetti tritati nelle rottamaie o accatastati in discarica (spesso utilizzati per fissare i teli impermeabili di copertura). Prodotti larvidici utilizzati I prodotti larvicidi che sono stati utilizzati sono:

Larvicida chimico a base di Temephos, insetticida estere fosforico che agisce come inibitore della colinesterasi. La disinfestazione è stata svolta con irroratori a spalla con formulati fluidi utilizzati in dose di 1 g di principio attivo per tombino. In questa quantità il prodotto ha una persistenza d’azione di circa 20 giorni: durante la stagione estiva sono stati effettuati da un minimo di 6 ad un massimo di 8 interventi (da maggio a ottobre).

Larvicida biologico a base di Bacillus thuringiensis var. israeliensis in formulazione liquida o in compresse effervescenti, con durata dell’efficacia di circa 7 giorni (per essere efficace il trattamento deve essere ripetuto in questo lasso di tempo). Tale prodotto è stato utilizzato dai residenti in aree infestate all’interno dei tombini privati e dei focolai non eliminabili.

Rame metallico: è stato consigliato l’inserimento di rame metallico (filo elettrico privato della guaina di plastica) nei sottovasi; tale metallo in acqua determina una alta mortalità larvale e raddoppia i tempi di sviluppo delle larve. Trattamenti in area privata Le tombinature site in area privata sono state trattate con interventi larvicidi finanziati dalla Pubblica Amministrazione nel comune di Savignano e nelle aree infestate del comune di Cesena. Il comune di Gambettola, in alternativa, ha optato per la fornitura gratuita di specifici prodotti larvicidi biologici, delegando i tecnici ispettori che si sono attivati nella verifica del corretto impiego dei prodotti. I comuni di San Mauro e Gatteo hanno preferito consigliare ai cittadini l’acquisto di opportuni larvicidi. In tal caso è stata prevista una forma semplificata per il reperimento dei prodotti da impiegare, contattando le rivendite specializzate di zona (consorzi agrari, farmacie, …) per incentivarle a dotarsi degli insetticidi suggeriti. Sono state effettuate prove di campo e di laboratorio per testare l’efficacia, la

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persistenza e la comodità d’uso di diversi prodotti larvicidi biologici e chimici a basso impatto ambientale, registrati in confezioni di ridotte dimensioni per uso privato. Sia sui focolai trattati siti su suolo pubblico che su quelli localizzati in area privata sono stati attuati sopralluoghi periodici a campione dopo 48 ore dagli interventi e dopo 15-20 giorni dagli stessi, per verificarne l’efficacia, per testare la persistenza dei prodotti e la periodicità ottimale con cui intervenire. Nel caso in cui i tombini pubblici siano risultati non infestati e nell’area si sia verificata invece una massiccia presenza di zanzare, i controlli sono stati indirizzati con maggiore insistenza sulle aree private, contattando i residenti attraverso una attività attuata porta a porta. ConclusioniIn conclusione, possiamo affermare che le zone in cui si sono ottenuti i migliori risultati, con riduzione della densità della popolazione fino a livelli altamente tollerabili, sono in effetti quelle in cui gli interventi di controllo e di lotta sono stati effettuati su suolo sia pubblico che privato già da diversi anni. In queste aree, anche grazie alla attenta e costante attività di divulgazione (riproposta annualmente), unita alla emissione di apposite ordinanze, gli accorgimenti proposti sono divenuti una prassi abituale del comportamento della cittadinanza.

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I vettori di leishmaniosi e prospettive di controllo

Michele Maroli Laboratorio di Parassitologia, Istituto Superiore di Sanità, Roma - [email protected]

Riassunto - In Italia, come pure in tutti i paesi dell’Europa meridionale, i flebotomi (Diptera: Psychodidae) sono responsabili della trasmissione di Leishmania infantum, il protozoo agente della leishamaniosi umana, viscerale (LV) e cutanea (LC) e della leishmaniosi canina (LCan) e di due arbovirus, “sand fly fever” e virus Toscana. Dalle ricerche che hanno interessato negli ultimi anni la maggior parte dei focolai endemici di LV, risulta che in Italia sono presenti otto specie di flebotomi di cui sette appartenenti al genere Phlebotomus ed una al genere Sergentomyia (S. minuta, 13.30%). Tra quelle del primo genere, Phlebotomus perniciosus (45.75%) e P. perfiliewi (40.40%) sono le più diffuse, seguite da P. papatasi (0.30%), P. neglectus (0.20%), P. ariasi (0.01%), P. mascittii (0.03%) e P. sergenti (0.01%).

La LV, se non curata, è potenzialmente fatale. Nelle zone endemiche di L. infantum, la malattia in genere è prevalente nei bambini. L’aumento della frequenza di casi di co-infezioni HIV-L. infantum ha portato ad un consistente aumento della prevalenza anche nell’adulto. Nei focolai del Mediterraneo il cane rappresenta l’unico serbatoio domestico della malattia. La LCan è in continuo aumento e risulta espansa dalle aree rurali a quelle urbane. Tradizionalmente, solo le regioni meridionali, centrali ed insulari dell’Italia, particolarmente le zone costiere del Tirreno, erano considerate focolai endemici stabili sia per la LV sia per la LCan. Recentemente, nuovi focolai con caratteristiche di trasmissione permanente sono apparsi anche in regioni settentrionali. Negli ultimi anni, casi indigeni di LCan sono stati osservati in Veneto ed in Piemonte. Nella lotta contro la LCan, recenti studi di laboratorio sull’efficacia di collari impregnati con deltametrina hanno dimostrato che questi, oltre ad impedire in modo significativo la puntura da parte di P. perniciosus sui cani, hanno anche un elevato effetto tossico sulla frazione di femmine che eventualmente si è nutrita sull’ospite. In particolare, considerando il lungo periodo d’efficacia dei collari (più di 34 settimane), è stato ipotizzato che l’applicazione di questi collari al maggior numero di cani in un focolaio di LCan, potrebbe ridurre il contatto tra vettore e serbatoio canino a livelli tali da diminuire il rischio di trasmissione non solo per il cane ma anche per l’uomo. Sulla base di questa ipotesi sono stati condotti i primi interventi di campo per valutare l’efficacia di questa misura protettiva in un focolaio iperendemico di LCan, in Campania, utilizzando due coorti d’animali: (i) una popolazione di cani padronali di San Sebastiano al Vesuvio e (ii) un significativo numero di cani randagi ospitati presso un canile sito nelle vicinanze del primo focolaio. Nel primo intervento i collari sono stati applicati per due stagioni consecutive di trasmissione (1998 e 1999) al 70% della popolazione canina del comune d’intervento. Come cani di controllo sono stati utilizzati quelli di quattro comuni vicino a San Sebastiano al Vesuvio. L'impatto dei collari sulla LCan è stato molto evidente soprattutto durante il secondo anno d’applicazione, producendo una protezione del 86%. Comparando i risultati dei due anni è risultato che l’effetto del collare potrebbe essere trascurabile durante stagioni a bassa trasmissione o/e in focolai di LCan instabili caratterizzati da bassa endemia, ma risulta essere molto efficace quando la forza di trasmissione della malattia è alta. Per lo studio sui cani randagi è stato utilizzato un canile di Torre del Greco che ospitava circa 650 cani randagi. All’inizio dello studio, 180 cani (27,7%) erano sieropositivi per Leishmania. Per l’intervento è stato selezionato un gruppo di 249 cani risultati sieronegativi prima della stagione di trasmissione. Ai primi di giugno del 2000, a 49 di questi animali (7,5%) sono stati applicati i collari e gli altri 200 sono stati tenuti come cani di controllo. La protezione stimata ad otto mesi dalla stagione di trasmissione è stata molto significativa

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(P=0,02) rispetto ai cani controllo. Il tasso di protezione (52,3%) è stato perfino sorprendente se si considera che i cani saggiati erano in presenza di un’elevata forza trasmissione rappresentata dai cani positivi non protetti dal collare (stimati essere circa 180). I flebotomi (Diptera: Psychodidae) sono responsabili della trasmissione di protozoi del genere Leishmania e di alcuni arbovirus della famiglia Buniaviridae. Delle oltre 700 specie fino ad ora descritte, circa 70 appartenenti a due generi diversi, Phlebotomus e Lutzomyia, sono vettori provati o sospettati di trasmettere le leishmaniosi. Nella presente relazione saranno trattati sinteticamente: (i) la biologia ed ecologia dei flebotomi; (ii) le specie presenti in Italia; il ruolo vettore nella trasmissione della leishmaniosi; (iv) le recenti acquisizioni sulla prevenzione e controllo della parassitosi. 1. I flebotomi: ciclo di sviluppo e comportamento Comunemente il flebotomo, letteralmente "tagliatore di vene", dal greco "flebo temno", è noto anche come "pappatacio" per il suo volo silenzioso durante la ricerca del pasto di sangue. L'aspetto del flebotomo adulto è quello di un piccolo insetto, il cui corpo non supera i 3 mm di lunghezza, di colore che va dal quasi bianco al quasi nero. Alcune caratteristiche fondamentali li fanno facilmente distinguere dagli altri insetti della stessa taglia in quanto sono molto pelosi e mentre pungono, o comunque a riposo, dispongono le ali ad angolo sopra l'addome. Il nome della famiglia di appartenenza, Psychodidae, dal greco "Psyche" (anima), deriva dal fatto che essi durante i loro brevi e frequenti spostamenti compaiono e scompaiono come "ombre", in quanto essendo dei cattivi volatori, sono facilmente trasportati dal vento. La famiglia Psychodidae viene distinta in due sottofamiglie, Psychodidinae e Phlebotominae. Secondo la classificazione corrente, i flebotomi sono raggruppati in cinque generi: Phlebotomus, Sergentomyia, Warileya, Lutzomyia e Brumptomyia. Degli ultimi tre generi fanno parte i flebotomi del Nuovo Mondo (America, meridionale e centrale). Tutti i flebotomi del Vecchio Mondo appartengono ai generi Phlebotomus e Sergentomyia. Per l'identificazione delle specie presenti in Italia, le caratteristiche principali sono, per le femmine, le differenze morfologiche dell'armatura faringea e della struttura delle spermateche, e nel maschio l'armatura genitale dell'ipopigio, in particolare le caratteristiche morfologiche delle valve copulatrici. Alcune specie di flebotomi in condizioni sfavorevoli possono svilupparsi con fenomeni d’autogenia sebbene siano insetti ematofagi. Il ciclo biologico si svolge con una metamorfosi completa dove la fase preimaginale presenta uno stadio embrionale di uovo, quattro stadi larvali ed uno di pupa. Gli stadi larvali differiscono fra loro per la diversa grandezza e per la presenza di due setole caudali, nel primo stadio e, di quattro, negli stadi successivi. La pupa durante lo sviluppo in genere rimane attaccata ad un substrato mediante l'esuvia del quarto stadio. L'areale geografico dei flebotomi è vasto e comprende diverse regioni del globo, ma qualunque sia la latitudine o longitudine, lo sviluppo delle loro larve terricole esige una temperatura relativamente costante, un’oscurità quasi completa ed un mezzo nutritivo ricco di materiale organico composto di foglie secche, spoglie d’altri insetti, feci di roditori ecc. Lo sviluppo poi richiede un grado d’umidità relativa pressoché vicino alla saturazione. Le larve si possono sviluppare in spaccature del terreno fino a 20-30 cm di profondità, o in qualsiasi altro micro-habitat, con le caratteristiche sopra descritte. L'identificazione dei focolai larvali comporta tuttavia notevoli difficoltà e le ricerche non sempre sono coronate da successo. Recentemente, in Italia ed in Francia sono state compiute intensive ricerche che hanno portato all’identificazione di alcuni focolai larvali di Phlebotomus perniciosus, P. perfiliewi e P. ariasi (BETTINI et al., 1991; KILLICK-KENDRICK, 1987). Il ciclo di sviluppo del flebotomo è strettamente legato a fattori climatici, che lo influenzano in modo particolare nelle zone temperate del bacino del Mediterraneo. In Italia lo sviluppo è fortemente rallentato dalla stagione fredda e le larve attraversano l'inverno in diapausa. Durante la stagione calda, giugno-ottobre, possono svilupparsi almeno due cicli completi corrispondenti quindi a due generazioni di adulti.

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L'attività dei flebotomi inizia al crepuscolo e dura tutta la notte sebbene pochissime specie possono pungere anche di giorno. In genere non percorrono lunghe distanze dai focolai larvali. Sono disturbati dal vento e da temperature sotto alla media estiva. In condizioni avverse la loro attività è notevolmente ridotta. Durante il giorno riposano in luoghi relativamente freschi ed umidi quali abitazioni, cantine, stalle, grotte, fessure di muri, di roccia o del suolo. Possono riposare anche fra la vegetazione, in buchi di alberi o di barbacani, in tane di roditori o di altri mammiferi, nei nidi degli uccelli e nei termitai. Le femmine della maggior parte delle specie di flebotomi sono esofaghe, in altre parole attaccano l'ospite all'esterno, e possono essere anche esofile perché durante il periodo della digestione del sangue e maturazione delle uova restano all'esterno. Queste specie difficilmente potranno essere controllate con l'uso di insetticidi all'interno delle abitazioni, mentre possono essere attaccate in questo modo le specie endofile che durante la maturazione delle uova restano all'interno delle abitazioni. 2. I flebotomi in Italia Le otto specie finora reperite in Italia appartengono a due generi, Phlebotomus e Sergentomyia. Quest'ultimo è rappresentato dalla sola S. minuta che si nutre su animali a sangue freddo e quindi senza alcuna importanza sanitaria. Le specie del genere Phlebotomus sono: P. perniciosus, P. perfiliewi, P. neglectus, P. papatasi, P. sergenti, P. ariasi, P. mascittii La distribuzione delle specie reperite in Italia è stata oggetto di una recente rassegna (MAROLI & KHOURY, 1998) e può essere così riassunta: (i) P. perniciosus è presente nella maggior parte delle nostre regioni con densità apprezzabili nelle aree della costa tirrenica e ionica, in Sicilia e in Sardegna; (ii) P. perfiliewi, sebbene abbondante solo in ambiente rurale, ha un'ampia diffusione, raggiungendo alte densità nel versante adriatico degli Appennini, dall'Emilia Romagna fino all’Abruzzo; altri focolai di notevole entità si ritrovano in Toscana, Calabria e Sicilia; (iii) P. neglectus, noto per avere una diffusione prevalente meridionale essendo stato trovato in Puglia, Calabria e Sicilia, recentemente è stato segnalato in diversi focolai del Veneto e del Piemonte (MAROLI et al., 2002°; FERROLGLIO et al., 2002a); (iv) P. papatasi, specie strettamente endofila ed antropofila, che aveva subito una forte diminuzione in seguito alle campagne antimalariche, recentemente è ricomparsa in diverse regioni con un’alta prevalenza nell'ambiente urbano (MAROLI & BETTINI, 1997; (v) P. ariasi è presente solo al confine con la Francia; (vi) P. mascittii è una specie molto rara; (vii) P. sergenti è stata trovata solo nella Sicilia orientale. Delle specie sopra menzionate, quattro, tutte del sottogenere Larroussius, possono essere implicate nella trasmissione della leishmaniosi. P. perniciosus è il vettore provato della leishmaniosi viscerale umana e canina (BETTINI et al., 1986; MAROLI et al. 1988; 1994). Anche P. perfiliewi è stato trovato infetto con L. infantum in un focolaio di leishmaniosi cutanea del versante adriatico degli Appennini (MAROLI et al., 1987). P. neglectus e P. ariasi sono vettori provati in focolai del bacino del Mediterraneo. In Italia non si può escludere un loro ruolo nella trasmissione della leishmaniosi viscerale umana e canina anche se questo non è stato ancora provato. 3. La leishmaniosi in Italia In questi ultimi anni la leishmaniosi è comparsa anche in aree peri-urbane ed urbane. I casi umani denunciati al Ministero della Salute tuttavia rappresentano una sotto stima dell'incidenza reale della malattia perché spesso accade che molti casi non sono denunciati, ed altri non sono identificati. Da un monitoraggio effettuato dall'Istituto Superiore di Sanità, nell'ultima decade l'incidenza annuale della LV è andata aumentando da pochi casi osservati in età pediatrica, a quasi 200 l’anno, di cui una larga percentuale in soggetti infetti dal virus dell'immunodeficienza umana (HIV). In Italia il cane rappresenta l'unico serbatoio della malattia. La leishmaniosi canina (LCan) sembra essere aumentata e migrata anch'essa dalle aree rurali a quelle della periferia urbana. Vi sono casi recenti nella stessa area urbana. Dai dati dei centri diagnostici presso gli Istituti

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Zooprofilattici regionali, che annualmente esaminano oltre 100.000 sieri di cani sospetti per leishmaniosi, risulta che ogni anno ci sono circa 20.000 nuovi casi di LCan. Tradizionalmente le aree di distribuzione della LCan sono considerate sovrapponibili a quella della patologia umana (BETTINI & GRADONI, 1986). Un'ampia rassegna ricavata dalla "Bibliografia delle Leishmaniosi in Italia" (PAMPIGLIONE & BETTINI, 1981) e analizzata sulla base delle metodiche diagnostiche, ha fatto il punto della situazione della LCan in Italia fino al 1983 (POZIO et al., 1985). Da questa rassegna risulta chiaramente che tutte le regioni dell’Italia settentrionale (Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia), esclusi alcuni territori della provincia di Bologna, erano fino a quel momento praticamente indenni da LCan. L'unica segnalazione sporadica riguarda nove cani positivi riscontrati nella provincia costiera di Trieste, per i quali non è documentata chiaramente l'origine (VLACHI, 1936). Dagli inizi degli anni novanta, sono sempre più numerose le segnalazioni di nuovi focolai di LCan. Questi riguardano nuovi territori compresi all'interno dell'endemia tradizionale quali alcune aree dell'Emilia Romagna (BALDELLI & DI FRANCESCO, 1997; BALDELLI et al., 2001), della Toscana (PEDONESE et al., 2000), dell'Umbria (CORRADETTI et al., 2002), delle Marche (BONGIORNO et al., 2002) e dell’Abruzzo (DALLA VILLA & RUGGERI, 1999). In tutte le regioni del centro-sud, inoltre, si assiste ad un aumento preoccupante dell'incidenza dell'infezione nel cane. Tuttavia le segnalazioni di LCan hanno interessato anche aree tradizionalmente non endemiche dell’Italia settentrionale. In particolare, sono stati segnalati due nuovi macrofocolai di tipo stabile, rispettivamente in Veneto (POGLAYEN et al., 1997) e in Piemonte (FERROGLIO et al., 2002b; ROSSI et al., 1999). Il primo riguarda diversi comuni della zona di Negrar-Valpolicella in provincia di Verona, il secondo comprende un vasto territorio caratterizzato da significative sieroprevalenze rilevate nella collina torinese di Moncalieri, Ivrea e Casale Monferrato; basse prevalenze sono state anche riscontrate a Biella e Aosta. Sembrerebbe quindi che l'endemia di LCan sia in rapida espansione verso latitudini settentrionali, costituendo per queste aree un problema emergente di sanità veterinaria. Inoltre la parassitosi ha già interessato anche l'uomo. Vi sono, infatti, segnalazioni di casi recenti autoctoni di leishmaniosi viscerale umana avvenuti rispettivamente nella valle dell'Ossola (MONDINO et al., 2001) e a Decio, in Valpolicella (Z. BISOFFI, comunicazione personale). Inchieste entomologiche condotte in queste aree a partire sin dagli inizi degli anni novanta hanno dimostrato non solo che P. perniciosus è diffuso in tutti i nuovi focolai (FERROGLIO et al., 2002a; MAROLI et al., 1995), ma anche che un altro possibile vettore, P. neglectus, reperito per la prima volta nel 1994 in Valpolicella (Verona) e successivamente (1998) ad Ivrea (MAROLI et al., 2002a), potrebbe aver avuto un ruolo nella diffusione della LCan nel nord d'Italia. Questi nuovi focolai di leishmaniosi hanno generato una situazione di allerta che attualmente vede l'Istituto Superiore di Sanità impegnato a promuovere ricerche di campo e di laboratorio, sia sul vettore sia sul serbatoio canino, con lo scopo di chiarire se, oltre al probabile aumento di spostamento di cani infetti da altre aree della penisola, anche altri fattori, in particolare quelli climatici, avrebbero potuto influenzare l'abbondanza dei vettori nelle aree di confine dei focolai endemici con un conseguente aumento dell’intensità di trasmissione e diffusione della malattia in nuovi e permanenti focolai.

4. Profilassi e lotta contro i flebotomi Attualmente non esistono altre misure di profilassi per le leishmaniosi, oltre al risanamento dell'ospite vertebrato e la lotta ai vettori stessi. La lotta al vettore può essere condotta principalmente attraverso due tipi d’intervento: il primo prevede misure di protezione contro la puntura dei flebotomi; il secondo, teso a ridurre significativamente la densità dei flebotomi, implica l'uso d’insetticidi e/od operazioni di bonifica ambientale atte ad eliminare le cause favorenti lo sviluppo larvale dei flebotomi, in particolare in aree urbane e peri-urbane.

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Nella protezione individuale e collettiva, oltre l'uso di repellenti chimici, va ricordato che l'uso di zanzariere a maglie molto fitte alle finestre e l'evitare di soggiornare all'aperto durante le ore notturne nella stagione calda, sono misure da prendere qualora si soggiorni in zone molto endemiche di leishmaniosi. Recentemente l'uso di tende impregnate con piretroidi ha trovato larga sperimentazione nella lotta contro la malaria (LENGELER et al., 1996; CHAVASSE et al., 1999). Questo tipo di controllo potrebbe essere impiegato anche contro i flebotomi in particolari situazioni ambientali ed epidemiologiche. Studi preliminari di laboratorio e di campo sui flebotomi hanno mostrato che le tende impregnate con piretroidi sintetici, oltre a prevenire l'ingresso dei flebotomi nelle abitazioni, provocano anche una significativa riduzione del numero dei flebotomi che pungono dopo essere venuti a contatto con la permetrina (FELICIANGELI et al., 1995; ALEXANDER et al. 1995; MAROLI & LANE 1987; MAROLI & MAJORI, 1991; MAJORI et al., 1989; BASIMILKE & MUTINGA, 1995; MUTINGA et al., 1992, 1993; ELNAIEM et al. 1999a; 1999b; TAYEH et al. 1997; DESJEUX, 2000). In Italia l'impiego d’insetticidi ad azione residua negli ambienti domestici, ha provocato nel passato una consistente diminuzione della densità dei flebotomi. Negli anni 1948-50, una campagna di lotta per mezzo del DDT in alcuni focolai di leishmaniosi cutanea dell'Abruzzo, portò anche ad una consistente riduzione del numero di casi di malattia (CORRADETTI, 1954). Il problema della resistenza agli insetticidi, che costituisce un grosso problema per i vettori di malaria, è per ora limitato nei flebotomi sebbene la resistenza ad alcuni principi attivi (DDT, malathion, BHC, fenitrothion, deltametrina, permetrina, lambda-cialotrina) sia già apparsa in India da alcuni anni in P. papatasi, P. argentipes (KAUL et al., 1978) e più recentemente in S. shortii (KAUL et al., 1994). Le scarse conoscenze su predatori o parassiti dei flebotomi, non fanno per ora ipotizzare l'attuazione di programmi di lotta biologica, e le enormi difficoltà da affrontare in grossi allevamenti di massa escludono anche l'impiego di mezzi genetici. 5. Prospettive per il controllo della leishmaniosi canina La LCan risulta essere diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo dove per alcuni focolai sono riscontrati valori di sieroprevalenza anche del 40% (GRADONI, 1999). E’ noto che il trattamento farmacologico fa regredire solo i segni clinici della malattia (OLIVA et al., 1995; CAVALIERO et al., 1999), restando il cane infettante per tutta la vita nei confronti del vettore. Inoltre è da osservare anche che nel nostro paese non è proponibile né è fattibile la soppressione dei cani sieropositivi. Sulla base di queste considerazioni sono state intraprese da poco intensive ricerche di laboratorio e di campo per valutare l'efficacia di misure alternative di controllo della LCan. Fra queste hanno ricevuto un grosso impulso quelle basate sull’uso di collari protettivi contro la puntura dei flebotomi. Studi di laboratorio sull’efficacia di collari impregnati di deltametrina1 applicati a cani di proprietà (Fig. 1) hanno dimostrato che queste bande protettive esercitano un effetto tossico ed anti-feeding (mancato pasto di sangue) per oltre sei mesi contro tre vettori di leishmaniosi, P. perniciosus, L. longipalpis e L. migonei, (KILLICK-KERNDRICK et al., 1997; LUCIENTES, 1999; DAVID et al., 2001).

1 E’ una banda in PVC di due misure: 65 cm (25 g) per i cani di grande taglia contenente 1 g di deltametrina e 48 cm (19 g) per i cani di piccola taglia contenente 0,76 g di deltametrina.

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Figura 1. Cane con banda protettiva.

In Italia sono stati condotti i primi studi di campo per valutare se l'applicazione dei collari protettivi ad un significativo numero di cani in un focolaio di LCan molto endemico avrebbe ridotto sufficientemente il contatto vettore-serbatoio canino al punto tale da poter ipotizzare una diminuzione del rischio d’infezione non solo per i cani ma anche per l'uomo. Questi primi interventi di campo sono il risultato della collaborazione di tre gruppi italiani di ricerca che da anni si occupano di questa zoonosi: (i) il Laboratorio di Parassitologia dell'Istituto Superiore di Sanità, Roma, (ii) l'Istituto di Clinica Medica Veterinaria dell'Università di Napoli e (iii) l'Istituto Zooprofilattico Sperimentale per il Mezzogiorno di Portici I risultati di queste due prove di campo (MAROLI et al., 2001; 2002b) su gruppi diversi d’animali, cani di proprietà e cani randagi ospitati in un canile sono sinteticamente riportati di seguito. Cani di proprietà L’intervento è stato condotto in un focolaio della Campania, costituito da un'area del Vesuvio densamente popolata che comprende circa 20 comuni più alcuni quartieri periferici di Napoli. Quest’area è un antico focolaio endemico di leishmaniosi viscerale umana (GRAMICCIA et al., 1992; GRADONI et al., 1993) ed il vettore responsabile è P. perniciosus (MAROLI et al., 1994; ASCIONE et al., 1996). I comuni più attivi sono quelli di San Sebastiano al Vesuvio, San Giorgio a Cremano, Santa Anastasia, Pollena-Trocchia e Massa di Somma, con un’incidenza cumulativa dello 0,4% (GRADONI et al., 1996). In questi comuni è stato avviato dal 1996 un progetto di controllo triennale contro la LCan che comportava fra l'altro una un'attività d’educazione sanitaria verso i proprietari e l'identificazione dei casi di LCan mediante controlli sierologici di massa e trattamento dei cani positivi. Il numero totale di cani esaminati nel periodo 1996-97 è stato di 2.237 cani di cui 521 (23,3%) sieropositivi. L’intervento per lo studio sui collari ha interessato il comune di San Sebastiano al Vesuvio, mentre gli altri comuni limitrofi sono stati presi come focolai per i cani di controllo. Durante due stagioni consecutive di trasmissione (1998-1999), i collari sono stati applicati a circa il 70% dei cani di proprietà padronali di San Sebastiano al Vesuvio stimati essere circa 500. Nei quattro comuni di controllo, le attività di sorveglianza descritte sopra sono proseguite come previsto. Durante il periodo d’indagine (giugno-ottobre) i cani sono stati visitati ogni 15 giorni per controllare l'uso corretto del collare, ed in caso di smarrimento o distruzione era prontamente sostituito. Per la valutazione dell’efficacia del collare, prima e dopo ogni stagione di trasmissione erano valutati i valori di sieroprevalenza e sieroconversione mediante IFAT nei cani con collare e di controllo. L'impatto dell'uso dei collari sulla LCan è stato molto evidente soprattutto durante il secondo anno. Un aumento considerevole dei valori di sieroconversione (da 5,04 a 25,8%, P <0,001) è stato registrato nei cani di controllo durante i due anni d’intervento (Fig. 2, A).

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0

5

10

15

20

25

30 Tassi di sieroconversione (%)

Cani con collare Cani di controllo

Protezione stimata = 86.0% (P < 0.001)

Protezione stimata =50.0% (P = 0.15)

(A) CANI PADRONALI

1998 1999

Figura 2, A. L’uso di collari protettivi. Valori di sieroconversione e protezione. Questo suggerisce un aumento consistente della forza d’infezione di Leishmania nel serbatoio canino durante la stagione di trasmissione 1999. Ad avvalorare quest’ipotesi vi è stato il concomitante aumento di casi LV umana nei comuni di controllo e nell'intera regione Campania, dove si sono verificati rispettivamente 32 e 83 casi negli anni tra il 1998-1999 e il 1999-2000 (Dr. L. GRADONI - com. personale). Al contrario, la sieronversione nei cani che indossavano il collare del comune d’intervento è rimasta costante e relativamente bassa durante i due anni dell’intervento (rispettivamente 2,7 e 3,5%). I dati di cui sopra possono nell’insieme portare alla seguente interpretazione: la forza dell'infezione durante la prima stagione di trasmissione è stata relativamente bassa evidenziando una protezione dei collari soltanto del 50%, e comunque non significativo rispetto ai cani di controllo. Mentre durante la stagione successiva, quando la forza d’infezione è stata decisamente più elevata, i cani con i collari non sono stati interessati dal forte aumento, dando luogo ad una protezione molto significativa del 86% rispetto ai cani di controllo. La protezione esercitata dai collari presumibilmente è da attribuire sia all’effetto del mancato pasto di sangue (anti-feeding), quale indice di protezione individuale, che a quello tossico (protezione di massa) da parte della deltametrina verso P. perniciosus, come già dimostrato in prove controllate di laboratorio (KILLICK-KENDRICK et al., 1997; LUCIENTES, 1999). Quindi in considerazione di questi risultati di campo, si può affermare che l’impatto dell'uso di massa dei collari protettivi sull’incidenza della LCan potrebbe risultare trascurabile durante stagioni a bassa trasmissione o in focolai di LCan instabili caratterizzati da bassa endemia, ma essere molto evidente quando la forza della trasmissione è alta.

Cani randagi ospitati nel canile Per lo studio è stato utilizzato un canile di Torre del Greco che ospitava circa 650 cani randagi. I dati sulla sieroprevalenza erano quelli derivanti dallo screening di routine con IFAT. All’inizio dello studio, 180 cani (27,7%) erano sieropositivi per Leishmania. Per l’intervento è stato selezionato un gruppo di cani (249 cani) risultati sieronegativi prima della stagione di trasmissione. Ai primi di giugno del 2000, a 49 di questi animali (7,5%) sono stati applicati i collari e gli altri 200 sono stati tenuti come cani di controllo. La protezione stimata ad otto mesi dalla stagione di trasmissione è stata molto significativa (P=0,02) rispetto ai cani controllo (Fig. 1, B). Il tasso di protezione (52,3%) è perfino sorprendente se si considera che i cani saggiati erano in presenza di un’elevata forza trasmissione rappresentata dai cani positivi non protetti dal collare (stimati essere circa 180).

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Prima valutazione (Dic 2000) Seconda valutazione (Mag 2001)0

10

20

30

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Tassi di sieroconversione (%)

Cani con collare Cani di controllo

Protezione stimata = 75.3% (P = 0.009)

Protezione stimata = 53.3% (P = 0.02)

(B) CANI RANDAGI

Figura 2, B. L’uso di collari protettivi. Valori di sieroconversione e protezione.

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Il controllo di zecche e pulci in ambiente domestico e urbano

Giuseppe Tasini Medico Veterinario – dip. Sanità Pubblica - Az. Usl Rmini

Pulci e zecche sono ectoparassiti ematofagi degli animali e dell’uomo diffusi in ambiente urbano e costituiscono un serio rischio per la trasmissione di malattie infettive ed infestive anche a carattere zoonosico. Le pulci appartengono alla classe degli Insetti, ordine Afanitteri, sono parassiti di mammiferi (tra cui l’uomo) e uccelli. Le specie che possono infestare gli ambienti urbani e domestici sono generalmente: Pulex irritans, parassita specifico dell’uomo, frequente sul ratto e sul cane, Ctenocephalides canis, parassita specifico del cane, frequente sul gatto, può attaccare l’uomo, Ctenocephalides felis, parassita specifico del gatto, frequente sul cane, può attaccare l’uomo (è la specie più diffusa). Le zecche appartengono alla classe degli Aracnidi, ordine Acari, sono parassiti di mammiferi e uccelli. Si dividono principalmente in due famiglie: Ixodidi (o “zecche dure”), Argasidi (o “zecche molli”). Le specie Ixodidi che possono infestare gli ambienti urbano e domestico sono, generalmente: Ripicephalus sanguineus, parassita soprattutto del cane, Ixodes ricinus, parassita di animali selvatici, cane, uccelli, roditori, altri mammiferi domestici e uomo. Mentre le Argasidi sono: Argas reflexus, parassita dei volatili (piccioni). CENNI DI MORFOLOGIA DELLE PULCI Le pulci adulte misurano da uno a sei millimetri di lunghezza, sono compresse lateralmente, prive di ali, colore dal giallo pallido al marrone scuro. L’apparato buccale è pungitore e succhiatore. Il torace è provvisto di tre paia di zampe ben sviluppate: quelle del terzo paio sono allungate e robuste e adatte al salto. L’intero corpo è coperto di setole, volte all’indietro, per facilitare gli spostamenti delle pulci tra peli e piume degli ospiti. Le uova sono circa 0,3 – 0,5 millimetri di lunghezza, di forma sferica, ellittica od ovale, di colore bianco. Le larve hanno forma cilindrica, misurano da quattro a dieci millimetri, sono apode, cieche, vermiformi, di norma biancastre. Le pupe sono avvolte in bozzoli ovoidali, biancastri, lunghi fino a circa 0,5 cm. CENNI DI MORFOLOGIA DELLE ZECCHE Le zecche adulte presentano un corpo globoso, appiattito a digiuno, dilatato e rotondeggiante dopo il pasto, in particolare nelle femmine. Il corpo si suddivide in parte anteriore, rostro o capitulum e parte posteriore, podosoma. Al centro del rostro è presente l’ipostoma, organo impari che consente alla zecca di ancorarsi sulla superficie dell’ospite. Sono dotate di quattro paia di zampe e apparato buccale pungitore succhiatore. Le larve sono simili agli adulti ma con tre paia di zampe (esapodi). Le ninfe sono pressoché uguali agli adulti (ottopodi). Le zecche ixodidi presentano una piastra chitinosa dorsale, per tale caratteristica vengono comunemente definite “zecche dure”. Le zecche Argasidi sono prive di piastre chitinose e pertanto sono definite “zecche molli”. Dal dorso non si vede il rostro che è in posizione antero ventrale; hanno un corpo appiattito e bordi laterali che separano nettamente la faccia dorsale da quella ventrale.

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CICLO BIOLOGICO DELLE PULCI Le specie che infestano l’ambiente urbano e domestico sono quelle il cui ciclo biologico, generalmente, è legato agli animali da compagnia: Ctenocephalides felis, Ctenocephalides canis e Pulex irritans. Il loro sviluppo prevede quattro stadi: uovo, larva, pupa e adulto. Gli stadi larvali si adattano particolarmente all’ambiente casalingo e si possono annidare in tappeti, moquettes, cuscini, lettini per gli animali, lettiere e altri siti in grado di mantenere un’idonea umidità relativa. Le uova vengono deposte dalle femmine adulte sull’ospite dopo circa 36-48 ore dal pasto di sangue, successivamente cadono a terra contaminando tutti gli spazi a cui l’animale infestato ha accesso. Le larve, fuoriuscite dall’uovo, conducono vita libera, si nutrono di residui organici di diversa natura e degli escrementi delle pulci adulte, che contengono sangue non completamente digerito. Essenziale al loro sviluppo è l’umidità ambientale. Le pupe si sviluppano dalle larve che, diventate mature, rimangono libere nell’ambiente avvolgendosi in bozzoli. Le pulci adulte, completamente maturate, in condizioni climatiche avverse o in assenza di un ospite, possono rimanere quiescenti all’interno del bozzolo pupale fino a circa 140 giorni. Le pulci adulte, in condizioni ottimali di temperatura ed umidità relativa, cominciano a uscire dal bozzolo pupale e vanno alla ricerca di un ospite sul quale compiere il pasto di sangue. La suzione comporta l’aspirazione di quantità eccedenti di sangue che, non digerite, vengono emesse insieme ai residui della digestione e serviranno al nutrimento delle larve. In condizioni ottimali l’intero ciclo può svolgersi in 12-14 giorni o, viceversa, essere prolungato fino a 180 giorni; nelle condizioni ambientali della maggior parte delle abitazioni il ciclo può realizzarsi in 3-4 settimane. CICLO BIOLOGICO DELLE ZECCHE Le zecche si sviluppano attraverso 4 stadi evolutivi: uovo, larva (esapode), ninfa (ottopode), e adulto. Ogni muta da larva ad adulto avviene a terra dopo un pasto di sangue sull’ospite. Le zecche Ixodidi, pertanto, assumono sangue in tre occasioni nel corso di una generazione (vengono distinte in mono – di - e tri – fasiche se, nei diversi stadi di sviluppo si alimentano, rispettivamente, su uno, due o tre ospiti). Le zecche Argasidi, invece, il cui sviluppo può avvenire attraverso diversi stadi di ninfa, oltre a nutrirsi allo stadio larvale e a quello adulto, assumono sangue prima di ciascuna delle fasi di sviluppo parziale della ninfa. Le zecche Ixodidi che, in Italia, hanno invaso gli spazi condivisi dall’uomo sono: Rhipicephalus sanguineus e Ixodes ricinus. Rhipicephalus sanguineus è la comune zecca del cane. Compie l’intero ciclo biologico, in condizioni favorevoli, in circa 60 giorni. Ixodes ricinus compie prevalentemente il proprio ciclo biologico negli ambienti con forte copertura vegetale, quali il sottobosco. Negli stadi larvali si nutre preferibilmente su microroditori selvatici (Apodemus sp.) mentre nello stadio adulto su lagomorfi e, soprattutto, ungulati selvatici e domestici. Le femmine adulte dopo l’accoppiamento, che avviene sull’ospite, cadono al suolo, depongono le uova e muoiono. Le uova, normalmente deposte in numero molto elevato, iniziano lo sviluppo embrionale nell’ambiente. Le larve esapodi, dopo la schiusa, cercano l’ospite sul quale si fissano, compiono il pasto di sangue e cadono a terra per la metamorfosi. Le ninfe, come avviene per le larve, diventano adulti. Le zecche, dopo l’attacco alla cute dell’ospite, iniziano il pasto di sangue. L’alimentazione avviene in due fasi: la prima molto lenta, la seconda molto rapida, di rigurgito nell’ospite della parte liquida. La potenziale trasmissione di agenti patogeni inizia circa 24 ore dopo la puntura, quando inizia la fase di rigurgito. Le forme di sviluppo a vita libera in condizioni sfavorevoli di temperatura, umidità e in seguito a digiuno, possono rallentare l’attività fino ad entrare in fase di “diapausa”, per più settimane o più mesi, aumentando notevolmente i tempi di permanenza nell’ambiente.

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Le zecche Argasidi sono rappresentate in ambiente urbano prevalentemente da Argas reflexus, parassita la cui vita è strettamente legata al colombo di città, col quale condivide gli spazi frequentati. Il ciclo biologico è simile a quello delle zecche Ixodidi ma i pasti di sangue, di solito, sono di breve durata e gli ospiti vengono assaliti solo di notte. RUOLO PATOGENO DI PULCI E ZECCHE Pulci e zecche sono parassiti molto importanti per l’azione patogena nei confronti degli animali e dell’uomo. Esse possono essere responsabili di un’azione patogena diretta, che si manifesta attraverso la puntura e la sottrazione di sangue, e di una indiretta, per lo più passiva, di diffusione di diverse malattie tra gli animali e tra gli animali e l’uomo. La loro presenza in ambiente urbano, pertanto, espone l’uomo al serio rischio di contrarre gravi malattie. Ruolo patogeno diretto delle pulci La puntura delle pulci è il primo motivo di disturbo nell’ospite, per la perforazione della cute e per l’iniezione di saliva. Il liquido salivare provoca, infatti, una caratteristica risposta localizzata di bruciore e prurito che può essere più o meno intenso secondo il grado di infestazione. Cani e gatti, conseguentemente alla reazione di ipersensibilità verso la saliva delle pulci, possono manifestare una caratteristica dermatite allergica (DAPP – dermatite allergica alla puntura di pulce). Nell’uomo le pulci colpiscono prevalentemente le parti inferiori degli arti con vivo prurito e comparsa di una macula scura (purpura pulicosa), che può rendersi visibile per giorni circondata da una macula rosacea pomfoide (roseola pulicosa). In soggetti predisposti le punture di pulci possono far insorgere anche ben più estese reazioni allergiche. L’attività ematofaga, fatti salvi casi estremi, non riveste particolare importanza. Ruolo patogeno indiretto delle pulci La capacità di nutrirsi su ospiti di diverse specie e la loro mobilità, rende le pulci possibili vettori, tra animali della stessa o di diversa specie (compreso l’uomo), di varie malattie sostenute da virus, rickettsie, batteri ed elminti, quali, ad esempio: la peste, la tularemia, la mixomatosi, il tifo murino, la tripanosomiasi, la febbre bottonosa, le teniasi da Dipylidium caninum e Hymenolepis nana e la filariosi da Dipetalonema reconditum. Ruolo patogeno diretto delle zecche La penetrazione meccanica del rostro della zecca nella cute dell’ospite è in grado di determinare una infiammazione locale più o meno intensa. L’azione allergizzante, caratteristica degli argasidi, è il ruolo patogeno diretto più rischioso nei confronti dell’uomo ed è rappresentato da reazioni allergiche anche di estrema gravità. Il ruolo legato all’attività ematofaga è la conseguenza di infestazioni diffuse, nelle quali l’animale ospite subisce un’azione spogliatrice che può sfociare in anemia. Ruolo patogeno indiretto delle zecche Le zecche, analogamente alle pulci, possono alimentarsi su diverse specie animali e questa caratteristica le trasforma in vettori di numerose malattie, che possono interessare anche l’uomo, quali: malattie batteriche (Borreliosi o malattia di Lyme, Spirochetosi), malattie da Rickettsiaceae (Rickettsiosi, Erhlichiosi), malattie virali (Encefalomielite equina, Louping ill, Encefalite da zecche), malattie protozoarie (Babesiosi, Theleriosi), malattie da nematodi (filariosi sottocutanea del cane da Dipetalonema grassi). CONTROLLO DI PULCI E ZECCHE Pulci L’ambiente domestico moderno, nel quale spesso accanto all’uomo convivono animali d’affezione, rappresenta un luogo ideale per il completamento del ciclo biologico delle pulci, nel corso anche di tutto l’anno. La presenza di un animale infestato nelle case è in grado di contaminare tutti gli spazi a cui ha accesso. I metodi per prevenire e controllare le infestazioni delle pulci sugli animali e nell’ambiente domestico sono molteplici. Essi variano dal rispetto di alcune elementari norme igieniche e comportamentali, all’uso di sostanze ad azione insetticida, secondo criteri e programmi ben definiti, anche in base al ciclo biologico dell’insetto.

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Le prime, a prescindere dalle efficaci operazioni di pulizia del mantello effettuate dall’animale stesso (“grooming”), comportano alcune azioni fondamentali senza l’uso di sostanze antiparassitarie: pettinare/spazzolare, quotidianamente o quasi, il mantello degli animali, eliminando i rifiuti generati, inoltre lavarlo con shampoo ogni 20 –30 giorni circa nelle stagioni calde, accorciare la lunghezza del mantello degli animali a pelo lungo o a media lunghezza, pulire gli ambienti domestici frequentati dagli animali con aspirapolvere ed eliminare il contenuto aspirato, passare su tappeti, moquettes, pavimenti fessurati, battiscopa, ecc., elettrodomestici casalinghi che generano vapore, eliminare dagli ambienti domestici, eventualmente, tappeti e moquettes che costituiscono un habitat ideale per la maturazione di uova, larve e pupe, lavare o sostituire stracci, coperte, ecc., utilizzati sui giacigli degli animali, pulire (anche con aspirapolvere) o lavare lettini e cucce, con frequenza almeno bisettimanale, eliminare spessi strati di tessuti, soprattutto se di gommapiuma, dalle cucce o dai lettini degli animali, sbattere efficacemente all’esterno tappeti, coperte, materassi, cuscini di divani o poltrone, ecc., per far cadere le forme libere delle pulci, nonché esporli, per qualche giorno, ad alcuni fattori climatici avversi, lavare il contenitore della lettiera dei gatti e sostituire tutta la ghiaia con frequenza settimanale, impedire l’accesso anche saltuario degli animali a cantine e luoghi poco frequentati dall’uomo, nei quali non vengono effettuati interventi regolari di pulizia, effettuare pure trattamenti derattizzanti e adottare accorgimenti per impedire l’accesso anche a topi e ratti, arieggiare frequentemente gli ambienti casalinghi per abbassare l’umidità. Il controllo delle pulci sugli animali e negli ambienti domestici esclusivamente con metodi “naturali”, potrebbe risultare di scarsa efficacia; in questi casi bisogna ricorrere all’uso di sostanze insetticide secondo corretti programmi di controllo. Un efficace programma di controllo dell’infestazione da pulci dovrebbe comprendere tre fasi: eliminazione della popolazione di pulci adulte sull’ospite (effetto abbattente), protezione dell’ospite da successive reinfestazioni (effetto residuale), controllo degli stadi larvali presenti nell’ambiente, con molecole che ne inibiscono la crescita. Per eliminare le pulci adulte che infestano gli animali e per proteggerli da successive infestazioni vanno scelti insetticidi con buon effetto adulticida, che mantengano possibilmente un discreto effetto residuale e che siano per nulla o poco tossici per l’animale sul quale vengono utilizzati. Sostanzialmente gli insetticidi utilizzabili sugli animali appartengono alle seguenti famiglie: organofosfati (chlorfenvinphos, chlorpyrifos, cythioate, diazinon, dichlorvos, fenthion, malathion, phosmet), carbamati (carbaryl, propoxur), piretrine naturali, piretrine sintetiche o piretroidi (alletrina, bioalletrina, permetrina, resmetrina), organoclorati (lindano) e fenilpirazoli (fipronil). Le forme galeniche offerte dal mercato sono diverse: polveri, spray, shampoo, lozioni, spot-on topici, collari, insetticidi sistemici (fenthion - cythioato), la scelta può dipendere, oltre che dalle loro qualità, dalle abitudini dei proprietari degli animali e dalla praticità d’uso. Per il controllo efficace degli ambienti infestati bisogna adottare programmi e sostanze antiparassitarie che consentono di perseguire le seguenti finalità: 1) eliminare i giovani adulti che escono dal bozzolo, 2) bloccare gli stadi immaturi (uova e larve), 3) uccidere tutte le nuove pulci che arrivano a maturità. Il migliore trattamento ambientale per soddisfare contemporaneamente i primi due punti dovrebbe associare un insetticida e un inibitore della crescita (IGR: Insect Growth Regulators - “analoghi dell’ormone giovanile” -metoprene, fenoxycarb- e “inibitori della sintesi della chitina” –feufenoxuron-). Soprattutto in presenza di tappeti e moquettes, sarebbe necessario ricorrere anche all’impiego di inibitori della crescita, perché gli insetticidi classici spesso non penetrano sufficientemente in profondità per ottenere una buona attività larvicida. Se le pulci adulte ricompaiono (le pupe infatti, protette dal bozzolo, possono non risentire dei trattamenti antiparassitari) non bisogna esitare a ritrattare trattare i punti critici con insetticidi. Le IGR possono anche essere somministrate all’animale, è il caso del “lufenuron”. In questo caso dalle pulci che pungono l’animale nasceranno larve non vitali. Il ciclo biologico della pulce si adatta poco agli ambienti esterni. L’eventuale trattamento di questi ultimi deve essere concentrato in quelle zone dove le forme larvali delle pulci possono rimanere

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protette, quali i luoghi ombreggiati, umidi e frequentati dagli animali infestati. Primariamente bisogna eliminare i residui vegetali e le nicchie ecologiche favorevoli allo sviluppo delle larve con frequenti tagli delle coperture erbose e pulizie dei giardini. In seguito possono essere usate sostanze chimiche quali “clorpyriphos”, “clorpyriphos” “microincapsulato” e “diazinone microincapsulato” che sono insetticidi molto efficaci, persistenti e fotostabili. Gli altri prodotti comunemente utilizzabili sono il “malathion”, il “diazinone”, il “metilcarbamato” e il “fenvalerato”. Zecche Nelle zone urbane la diffusione delle zecche non è molto legata, come nel caso delle pulci, all’ambiente casalingo ed è ubiquitaria; esse infatti prediligono zone erbose ricche di umidità. I cani rappresentano i principali diffusori dell’infestazione e sarà principalmente su questi ultimi che si dovranno concentrare misure individuali di controllo per prevenire infestazioni ambientali e gravi conseguenze all’uomo. Alcune elementari misure di controllo, già indicate a proposito delle pulci (ad esempio: le ispezioni del mantello per l’individuazione dei parassiti, la toelettatura e la rasatura del mantello e la pulizia generale degli ambienti), assumono un ruolo importante anche per il controllo delle zecche. A tali misure va aggiunta l’applicazione di numerosi prodotti insetticidi/acaricidi disponibili sul mercato in forma di spray, collari, polveri, bagni o lozioni. Le principali sostanze ad azione insetticida/acaricida utilizzabili sugli animali sono: piretrine naturali, piretrine sintetiche (alletrina, permetrina), carbamati (carbaryl e propoxur) idrocarburi clorurati (lindano), organofosforati (diazinone, malathion, cumafos, chlorfenvinphos) “fipronil”, “amitraz”. I cani dovrebbero essere trattati, secondo le cadenze necessarie, per tutto il periodo di attività delle zecche (primavera – estate) con prodotti ben tollerati e a lunga persistenza; inoltre quei soggetti che sono soliti frequentare zone a rischio dovrebbero essere sistematicamente e minuziosamente ispezionati per evidenziare la presenza delle zecche sulla cute. La lotta contro le zecche nell’ambiente è, nella pratica, poco proponibile e di scarsa efficacia. Le irrorazioni con sostanze insetticide/acaricide (come quelle già indicate per il trattamento individuale dell’animale ospite) di vaste superfici sono difficilmente realizzabili per problemi ecologici e di resistenza; questo metodo può essere preso in considerazione solo in aree a dimensioni limitate (giardini, parchi, ecc.). Grande attenzione deve essere posta al mantenimento della copertura vegetativa che dovrebbe essere tosata frequentemente e con cura evitando la crescita indiscriminata di infestanti; le siepi, analogamente, dovrebbero essere potate con una certa frequenza e il materiale vegetale dovrebbe essere raccolto e allontanato. Altrettanta cura deve essere posta nel rimuovere manufatti e altri materiali e nel tamponare crepe e scrostature murarie, fessure nei pavimenti e nei punti di intersezione tra pavimenti e pareti, che possono costituire un rifugio per le forme a vita libera delle zecche. La lotta contro altri ospiti che fungono da reservoir non può essere attuata per problemi ecologici e può essere messa in pratica solo su piccole aree e nel caso di forti infestazioni degli animali (roditori). Il trattamento delle zecche negli ambienti periurbani maggiormente infestati da Ixodes ricinus è praticamente impossibile e, come in precedenza, può essere proposto solo per zone limitate. Il controllo delle zecche Argasidi nell’ambiente urbano è legato strettamente al controllo dei colombi. Sul piano pratico andrebbero effettuati interventi di disinfestazione (è consigliabile l’uso di piretroidi, sostanze dotate di minore tossicità e persistenza) ma, parallelamente, bisognerebbe allestire opportuni dispositivi per l’allontanamento dei colombi dagli stabili infestati e ridurre la numerosità delle popolazioni di colombo, anche al fine di ottenere una popolazione in migliore stato di salute e in grado di meglio resistere nei confronti dei vari agenti di malattia, inclusi quelli trasmissibili all’uomo.

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La biologia e il comportamento delle principali specie muscidiche

Annunziata Giangaspero Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Teramo

Introduzione Con il termine mosche ci si riferisce a quei ditteri appartenenti principalmente alla famiglia Muscidae e Fanniidae, mentre con il termine moscone si intendono i componenti delle famiglie Calliphoridae e Sarcophagidae. Le mosche in generale, che vivono con l’uomo e ne condividono l’ambiente, sono dette sinantropiche. Esistono tuttavia vari gradi di sinantropia, in cui si possono distinguere specie che vivono in totale associazione con l’uomo o con gli animali e specie in cui questo tipo di relazione è facoltativo. Le specie sinantropiche tipiche degli ambienti urbani si distinguono in: eusinantropiche e emisinatropiche. Le mosche eusinantropiche sono strettamente legate all'antropobiocenosi, cioè alla colonia umana e ai suoi animali. Queste specie frequentano le case, i depositi di rifiuti, i mattatoi, ecc. All'interno di questo gruppo, si distinguono specie endofile ed esofile; quelle endofile sono legate all'antropobiocenosi sia troficamente sia microclimaticamente e al di fuori di questo ambiente non possono produrre popolazioni di elevata densità. L'esempio più importante per queste specie è la comune mosca domestica (Musca domestica, famiglia Muscidae). Le specie esofile sono associate all'antropobiocenosi, ma la loro sopravvivenza è possibile anche al di fuori di contesti abitativi umani. Appartengono a questo gruppo alcune specie di Calliphoridae. Le specie emisinantropiche sono indipendenti dalla antropobiocenosi: trovano il loro habitat ideale in contesti caratterizzati da occasionali o temporanee interferenze dell'uomo con la natura. Appartengono al gruppo alcune specie della Famiglia Calliphoridae e Sarcophagidae. Le specie di mosche che più comunemente si ritrovano nelle case e negli ambienti cittadini in generale, sono: Musca domestica, Fannia canicularis, Drosophila spp., Ophyra aenescens, Stomoxys calcitrans, Lucilia, Calliphora, Phormia, Sarcophaga. Morfologia e biologia Le mosche sono ditteri di piccole e medie dimensioni, la cui lunghezza e peso, allo stadio adulto, sono in relazione con disponibilità di cibo presente nel substrato di sviluppo larvale. Il corpo delle mosche adulte, come di tutti gli insetti, è diviso in tre parti: testa, torace e addome. La superficie nella maggior parte delle specie, presenta aree di maggiore o minore pollinosità e le variazioni di colore della superficie provoca la formazione di strie, macule, tessellature. Inoltre, la superficie del corpo porta delle appendici cuticolari, quali setole, peli, spine ecc., la disposizione e la forma delle quali consente l’identificazione delle specie. La testa è mobile e presenta due grandi occhi composti formati da numerosissimi elementi esagonali detti ommatidi. Tre strutture lenticolari, dette ocelli, sono poste superiormente, tra gli occhi e inferiormente agli occhi composti sporgono le antenne, importanti strutture sensorie che servono a catturare gli odori e a percepire i movimenti dell’aria. Dalla porzione inferiore della testa fuoriesce la proboscide, apparato buccale molto complesso che è diverso a seconda se le mosche sono lambitrici, cioè si nutrono di secreti ed escreti degli animali o dell’uomo, o pungitrici, cioè si nutrono di sangue. Il torace porta due ali membranose, due ali atrofiche, dette bilancieri e tre paia di zampe, costituite da cinque segmenti; l’ultimo segmento porta un paio di unghie e due cuscinetti plantari, i pulvilli, strutture provviste di numerosi peli ghiandolari, umidi e appiccicosi che permettono alle mosche anche di camminare su superfici verticali o sulle volte. L’addome è costituito da 9 segmenti, di cui cinque visibili; l’ultimo porta l’apparato anogenitale. Il ciclo biologico delle mosche prevede quattro fasi: uova, larva (con tre mute), pupa e adulto.

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Dopo l'accoppiamento le femmine depongono le uova nei luoghi più diversi, ma di norma privilegiano ambienti idonei allo sviluppo, in funzione della reperibilità di cibo di cui le larve dovranno nutrirsi. Le uova vengono deposte singolarmente o in massa, tenute insieme da una sostanza collosa. Dalle uova, di dimensioni non superiori a 1 mm, fuoriesce la larva di I stadio. Questa, di colore biancastro e di forma cilindrica, presenta una parte anteriore appuntita che porta l’apparato buccale, costituito dallo scheletro cefalo-faringeo, e una posteriore tronca o arrotondata, all’apice della quale si aprono gli spiracoli, aperture attraverso le quali le larve respirano. Le larve mutano quindi in II e III stadio e questo processo coincide con un aumento delle dimensioni, che le porta a superare il centimetro di lunghezza, con un cambiamento di colore, da bianco lattescente a rosso-brunastro. Alla fine del III stadio la larva smette di nutrirsi e va alla ricerca di un luogo idoneo all'impupamento: su materiale organico, sotto l'erba o in fessure del suolo. Una volta raggiunta la sede preferenziale, le larve di III stadio si trasformano in pupe; all'interno di una struttura detta pupario, che assume una colorazione gradualmente più scura, la mosca si svilupperà in adulto. Che, raggiunta la maturazione, fuoriesce dal pupario mediante l'azione pressoria esercitata dallo ptilino. Sono numerosi e importanti i fattori che influenzano fortemente il ciclo biologico di tutti gli stadi e che possono accelerare o ritardare la crescita dell'insetto, la sua trasformazione e la sua riproduzione. La temperatura, sia quella atmosferica sia quella del substrato di sviluppo larvale è uno dei fattori più importanti. Su ciascuno stadio di sviluppo influiscono una temperatura massima, al disopra della quale lo sviluppo non può proseguire, una minima al disotto della quale l'attività cessa, ed una temperatura ottimale, generalmente più vicina alla massima, che favorisce la crescita e lo sviluppo. Strettamente correlata alla temperatura è l’umidità relativa, che influenza particolarmente il mantenimento delle condizioni del substrato. L'illuminazione, le correnti, l'altitudine (che determina cambiamenti pressori), il pH dei vari substrati, lo stato fisico del medium, la presenza o l'assenza di microrganismi, batteri e lieviti o di predatori, possono profondamente modificare il quadro di sviluppo. Tutti questi fattori variano da specie a specie e talvolta anche all'interno della stessa specie. Le mosche sono in volo da Aprile ad Ottobre, tuttavia questo periodo può essere anticipato o protratto, in funzione delle zone geografiche. L’intero ciclo biologico, da uovo ad adulto dura in estate,nelle zone temperate con temperature di 30°C, circa 10 giorni. Nei periodi invernali, quando cioè le condizioni ambientali non consentono la normale evoluzione del ciclo biologico, le mosche vanno incontro ad un interessante e complesso fenomeno, diffuso in molte specie di insetti, la diapausa. Questo fenomeno è caratterizzato da un arresto dello sviluppo allo stadio di larva o di pupa o dell’attività allo stadio di adulto. Durante la diapausa le mosche si ritrovano all'interno di abitazioni o vecchi casolari, edifici pubblici, scuole, chiese, granai, in ambienti generalmente con volte alte e talvolta sotto le cortecce degli alberi. In questo periodo, se sono allo stadio adulto cessano di alimentarsi, di riprodursi e vivono grazie ad un accumulo di grasso nel loro corpo. In primavera con l’aumentare della temperatura e del fotoperiodo, le mosche riprenderanno la loro attività. La durata della vita di una mosca è estremamente variabile, in generale va da 15 a 50 giorni; non è legata alle dimensioni dell'adulto ma è fortemente influenzata dalla temperatura e dal tipo di dieta. In genere, allo stadio adulto, le mosche si alimentano sullo stesso substrato su cui si alimentano le larve. La estrema adattabilità larvale di M.domestica e F. canicularis spiega la ubiquitarietà di queste specie. Specie di mosche che allo stadio adulto succhiano i liquidi presenti sugli escrementi, sono specie le cui larve sono coprofaghe. Tuttavia vi sono molte specie che pur sviluppandosi allo stadio larvale sugli escrementi, frequentano questo luogo per breve tempo e soltanto per l’ovodeposizione. La ricerca del cibo è determinata da una serie numerosa di fattori, comportamentali, fisiologici, morfologici, ecologici, genetici. Le mosche sono attratte dal calore, dall’umidità,

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dalla anidride carbonica e dagli odori. Tutti questi fattori sono percepiti a livello dei recettori antennali, tarsali e labellari. Le mosche più selettive nella alimentazione hanno un numero maggiore di recettori antennali. Anche gli ocelli giocano un ruolo importante nella percezione dell’ospite e hanno la funzione di distinguere la luce dall’oscurità. Apparato buccale e meccanismo di alimentazione Nelle specie lambitrici (le specie del genere Musca (Fam Muscidae), Fannia (Fam. Fanniidae) e tutte le specie di Calliphoridae e Sarcophagidae, la proboscide è mobile e retrattile; nelle specie pungitrici (Stomoxys calcitrans, Fam Muscidae) è rigida. In entrambe, alla base della proboscide sporgono due palpi mascellari. Nelle specie lambitrici, l’apice della proboscide termina con due strutture mobili bilobate, dette labella, percorse trasversalmente dalle pseudotrachee, piccoli canali attraverso cui il cibo viene convogliato nell’apertura buccale, il prestomum. I labella, o dischi labellari, vengono pressati sulla superficie e, attraverso le pseudotrachee, la mosca aspira il liquidi o fini particelle. Se il cibo è solido la mosca rovescia completamente all’indietro i labella ed espone i denti prestomali, forti strutture taglienti che grattano la superficie così che le particelle solide vengono aspirate e coinvogliate nell’apertura buccale, grazie all’azione di forti muscoli. Le mosche pungitrici e quindi ematofaghe (ad esempio Stomoxys calcitrans) hanno invece la proboscide lunga e rigida, atta a penetrare nella cute dell’ospite. I dischi labellari, non avendo alcuna funzione, sono molto piccoli e i denti prestomali agiscono come elementi taglienti. Durante l'alimentazione, i recettori sensoriali della proboscide selezionano e saggiano la sede di penetrazione, i labella vengono pressati sulla cute e retroversi. I denti grattano la superficie cutanea e movimenti “a trivella”, in rapida sequenza, consentono alla proboscide di penetrare nella cute. Una volta perforata la cute, la proboscide viene parzialmente ritirata fino a trovare l’angolazione giusta che serve a localizzare bene i vasi sanguigni. A questo punto la saliva scende lungo il dotto dell’ipofaringe e il sangue viene succhiato e introdotto nel canale alimentare. Fattori che favoriscono la presenza di mosche nelle città Le specie e il numero delle mosche presenti negli ambienti urbanizzati variano in funzione di diversi fattori: la presenza e la disponibilità di cibo durante lo stadio larvale e adulto, la temperatura e l’umidità ambientale, la pioggia, il vento, ecc. Feci, urine, raccolte d’acqua e di liquami, accumuli di immondizia, presenza di rifiuti organici in generale, vicinanza di discariche, di allevamenti, ma anche di parchi, giardini, zoo, sono alla base della diffusione delle mosche nei contesti urbani. Ovviamente più i contesti abitativi sono degradati, maggiore sarà la presenza di mosche. In generale tutti i muscidi tendono ad essere più attivi e numerosi in condizioni di temperatura elevata e di bassa umidità. Le mosche, dotate di fototropismo positivo, tendono a congregarsi sui muri assolati quando sono a riposo e in luoghi ben illuminati durante l'alimentazione. Le mosche si mostrano estremamente sensibili al vento, cosicché molto raramente le si ritrova nei giorni ventosi, anche quando la temperatura è favorevole. La pioggia leggera non modifica l'attività delle mosche che risulta invece sensibilmente limitata dalle forti precipitazioni. Gli insetti in generale tolleranno le variazioni di pressione; la loro attività tuttavia può essere influenzata da cambiamenti improvvisi, come ad esempio i temporali. Ricerca del cibo: comportamento Quando la mosca è affamata la sua unica preoccupazione è ricercare il luogo dove alimentarsi. Per le mosche lambitrici, che non richiedono pasti di sangue per sopravvivere e riprodursi, il cibo può essere qualunque materiale organico, mentre per le specie ematofaghe l’unico obiettivo è trovare un organismo vivente, umano o animale, su cui compiere un pasto di sangue. La ricerca del cibo è determinata da una serie numerosa di fattori, comportamentali, fisiologici, morfologici, ecologici, genetici. Ciò che orienta il volo di un insetto verso il cibo sono il calore, l’umidità, la CO2 e gli odori. Tutti questi fattori sono percepiti a livello dei

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recettori antennali. Il numero di ricettori antennali rappresenta un indice di maggiore o minore selettività nella ricerca del cibo. M. domestica ad esempio per la sua estrema ubiquitarietà ha un numero di recettori limitato, S.calcitrans, invece, specie ematofaga, ne possiede un numero elevato. Gli organi con i quali le mosche percepiscono gli stimoli di natura chimica, sono localizzati almeno in parte sull’estremità distale della tibia e sui segmenti tarsali. I chemiorecettori presenti sui labella sarebbero coinvolti nella percezione del gusto di particelle in soluzione o in sospensione. Gli ocelli di molte specie di ectoparassiti giocano un ruolo importante nella percezione della luce e dell’oscurità ma anche nella individuazione del cibo. Durante il volo le mosche estendono in avanti le antenne, probabilmente perché in tal modo espongono meglio le fossette olfattorie, strutture sensoriali presenti sulle antenne. Un abbondante pasto per gli insetti è essenziale per la riproduzione; se invece non c’è un urgente bisogno di cibo il comportamento di ricerca è inibito. Probabilmente il più importante composto che viene eliminato dall’uomo e che attira gli insetti ematofagi è l’L-acido lattico, ma altri componenti quali lisina, metionina, tiroxina, arginina sembrano avere un ruolo in tal senso. Altri componenti cutanei invece, come acidi grassi insaturi liberi, sembrano avere un effetto repellente. Le mosche sono pericolose? "Non ci sono dubbi che le mosche che si alimentino sulle secrezioni dei malati e dei moribondi, poi volano via, entrano nelle case vicine e depositano le loro secrezioni sul cibo e le persone che mangiano questo cibo si infettano". Così scriveva Mercurialis, insigne medico italiano, alla fine del 1500, periodo nel quale il dilagare di epidemie di peste, di colera, di tifo e di malaria, portava inevitabilmente gli studiosi del tempo a fornire spiegazioni sulle cause di quelle epidemie. Queste teorie, che riaffermavano, dopo oltre un millennio, l’importanza delle mosche quali vettori di agenti patogeni, ingenue, se vogliamo, nei loro aspetti specifici, hanno tuttavia gettato le basi per lo sviluppo di ricerche sempre più scientificamente sostenibili. Infatti da quel momento le prove che le mosche potessero trasportare, albergare un microrganismo o che esso potesse compiere una parte del suo ciclo biologico all'interno dell'artropode, sono state progressivamente e scientificamente dimostrate. Le mosche possono esercitare la loro azione patogena allo stadio larvale o allo stadio adulto e posso essere direttamente o indirettamente responsabili di patologie. Nel primo caso le larve, nutrendosi su tessuti viventi, si sviluppano fino a larve di III stadio e sono così responsabili di forme morbose note con il nome di miasi. Le larve dei Muscidae appartengono al gruppo degli agenti di pseudomiasi e di miasi facoltative di diverso tipo: traumatiche, nasofaringee, intestinali e urogenitali. La loro importanza come agenti di miasi è molto modesta e le segnalazioni, nell’uomo e negli animali, sono del tutto occasionali. Le larve di Calliphoridae e Sarcophagidae invece possono essere causa di miasi facoltative e, più raramente, di miasi obbligatorie. Tale evenienza è rarissima in contesti abitativi non particolarmente degradati. L’effetto patogeno provocato dalle mosche allo stadio adulto, può essere diretto, dovuto al disturbo che arrecano con la loro presenza, o indiretto, dovuto alla trasmissione di agenti patogeni. Le mosche, alimentandosi sulle secrezioni oculari, nasali e sulle ferite o pungendo gli uomini, sono causa di irritazione continua, disturbano notevolmente e possono, in questa maniera, trasmettere agenti patogeni. Gli artropodi di interesse veterinario sono responsabili della trasmissione di importanti organismi che causano malattie. Le modalità di trasmissione vanno dalla più semplice trasmissione meccanica, nella quale l’insetto fa da ponte tra due ospiti vertebrati, alla più complessa, quella biologica, che prevede un periodo di sviluppo obbligatorio del parassita nell’insetto vettore. La trasmissione meccanica è il metodo di trasmissione più semplice in cui il vettore diffonde il parassita per contatto con i successivi ospiti, senza alcun sviluppo del parassita nel vettore. La trasmissione è fortuita, per combinazione.

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Numerose ricerche, anche molto recenti e pubblicate su riviste prestigiose, riportano la responsabilità delle mosche quali vettori di virus (enterovirus, rotavirus), batteri (salmonelle, shigelle, streptococchi, stafilococchi, Escherichia coli), protozoi (Giardia, amebe, Cryptosporidium, ecc.), nematodi (tricuridi, anchilostomi, ascaridi). Più di 100 differenti agenti patogeni sono stati isolati dalle mosche e circa 60 vengono da queste trasmessi. La morfologia e la struttura stessa della mosca la rendono particolarmente adatta al trasporto di diversi organismi patogeni. La proboscide è coperta di una abbondante peluria e le zampe e i cuscinetti plantari presentano fini strutture pelose e sostanze appiccicose capaci di trattenere i microrganismi. Il vomito, fenomeno comune nelle mosche, favorisce il trasferimento di microrganismi patogeni succhiati da animali malati, da ferite infette ecc. sulle mucose di soggetti sani. E’ stato stimato che un esemplare di Musca sorbens, il corrispondente “orientale” della nostra mosca domestica, elimina in un giorno tra 80 e 240 macchie fecali e rigurgiti. Dove la concentrazione di questa specie è notevole, particolarmente nei mercati rionali, queste concentrazioni possono avere un certo grado di pericolosità. Nei paesi dove esiste una elevata infestazione da mosche, nelle più povere comunità dei paesi in via di sviluppo o in quartieri degradati di città opulente ma nello stesso tempo poverissime, come Rio de Janeiro, i bambini e gli adulti vengono assaliti da centinaia di mosche che si alimentano sul sudore e sulle secrezioni lacrimali. La particolare localizzazione di specie di Musca e l’attività meccanica dei denti prestomali sulla congiuntiva, sono causa di congiuntiviti molto gravi, tra le quali, il trachoma, una patologia oculare causata da Chlamidia trachomatis, che, nei soggetti non curati, può portare a cecità permanente. Recentemente, numerose ricerche sulla eventuale responsabilità di Musca domestica nella trasmissione di Helicobacter pilori, l’agente delle ulcere gastriche e duodenali dell’uomo, hanno impegnato e diviso i ricercatori. In particolare, in paesi nei quali esiste una elevatissima infestazione da mosche è stato dimostrato che le feci di questi insetti deposte sugli alimenti possono determinare un’infezione in soggetti predisposti, particolarmente nei bambini. Per quanto riguarda le specie pungitrici, oltre alla molestia determinata dall’azione meccanico-irritativa della proboscide, il comportamento alimentare le rende particolarmente adatte alla trasmissione attiva e passiva di microrganismi patogeni. Stomoxys calcitrans, non rappresenta nelle nostre condizioni un problema per l’uomo come vettore di agenti patogeni; il danno è “limitato” al fastidio notevole e al dolore arrecato dalla puntura in particolare alle caviglie. In alcune aree queste specie possono disturbare chi campeggia, chi pesca, chi passeggia in aree frequentate da cavalli o nelle quali siano presenti zoo. In campo animale si è visto che questa specie può avere una certa responsabilità nella trasmissione del virus della leucosi, di Bacillus anthracis, e di Anaplasma. Questa specie assume un importantissimo ruolo soltanto negli animali, in considerazione del fatto che un animale può essere attaccato da anche 500 esemplari contemporaneamente. La trasmissione biologica è un tipo di trasmissione più complessa che prevede un periodo di sviluppo obbligatorio di un virus, batterio o nematode nell’insetto vettore. Tra le specie di mosche che si comportano come vettori biologici, un certo ruolo lo riveste M. domestica, quale vettore di Thelazia californiensis, un nematode che vive nel sacco congiuntivale dell’uomo ed è responsabile della telaziosi. La mosca adulta che si alimenta sulla congiuntiva assume le larve (L1) dei nematodi che mutano in larve di II e III stadio (in circa 1 mese), incistandosi nell’addome della mosca. Successivamente migrano verso la proboscide e, in occasione del pasto successivo, eliminano le larve infestanti che nell’occhio dell’uomo si sviluppano ulteriormente e diventano mature. Questo tipo di infestazione è da considerarsi assai remoto e limitato, come le precedenti, ad aree socio-culturali molto problematiche. In conclusione, è importante sottolineare che l'isolamento di microrganismi dalle mosche non comporta necessariamente una responsabilità nella trasmissione di malattie. Le possibilità

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che, ad esempio, una mosca o un artropode in generale,diventi vettore di organismi patogeni dipende da numerosi fattori, quali l'infettività del donatore, la quantità di agenti patogeni trasmessi, la suscettibilità del recipiente, e soprattutto i livelli di infestazione ambientale. In genere la luce solare e i raggi ultravioletti devitalizzano i batteri entro 24 ore e la quantità di agenti patogeni trasportati da una mosca non è in grado di per sé di provocare un infezione. La presenza delle mosche, quindi, è indice di cattive condizioni igieniche dell’ambiente circostante, ma la loro responsabilità come vettori di agenti patogeni assume qualche significato soltanto in periferie e in nuclei urbanizzati molto degradati e in villaggi e comunità di paesi in via di sviluppo. Bibliografia Emerson P-M., Lindsay S.W., Walraven G.E., Faal G.E., Bogh C., Lowe K., Bailey R.L. Effect of fly control on trachoma and diarrhoea. Lancet, 2000, vol. 353, pp. 1401-1403. Giangaspero A. Le mosche di interesse veterinario. I Muscidae. Edagricole– Calderini, Bologna, 1997. Greenberg B. Flies and diseases. Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1973. Grubel P., Hoffman J.S., Chong F.K., Burstein N.A., Mepani C., Cave D.R. Vector potential of houseflies (Musca domestica) for Helicobacter pylori. J. Clin. Microbiol. 1997, vol.35, pp. 1300-1303. Kobayashi M., Sasaki T., Saito N., Tamura K., Suzuki K., Watanabe H., Agui N. Houseflies: not simple mechanical vectors of enterohemorrhagic Escherichia coli 0157:H7. Am. J. Trop. Med. Hyg. 1999, vol.61, pp. 625-629.

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Le infestazioni nel comparto agro-zootecnico:un esempio di lavoro integrato

Claudio Venturelli Ufficio di Entomologia Urbana e Sanitaria – Dip.to di Sanità Pubblica Ausl Cesena

Premessa Nel territorio cesenate c’è una concentrazione molto elevata di allevamenti zootecnici. Decisamente importante sotto il profilo economico per l’offerta lavorativa diretta e nell’indotto, la presenza di un numero di capi di bestiame che, soprattutto nel settore avicolo, è ai primi posti in Italia, porta con sé alcune problematiche importanti. Il censimento eseguito dal Servizio Veterinario del Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Azienda Usl di Cesena ha fornito dati di rilievo: 10.432.836 nei 212 allevamenti avicoli (pollame) e 831.085 nei 34 allevamenti di altre tipologie (colombi, quaglie, struzzi, ecc.); 50.600 capi nei 179 allevamenti del settore suinicolo; nelle 438 stalle di bovini si contano 12.481 capi mentre sono 12.724 gli ovicaprini presenti nei 333 allevamenti. Il collegamento tra questa massiccia presenza di animali allevati e l’elevato rischio di infestazioni muscidiche è uno degli elementi che maggiormente tiene banco in certi particolari periodi dell’anno. La distribuzione degli allevamenti nel territorio cesenate e la presenza di numerose case sparse ha fatto sì che negli ultimi anni il problema “mosche” sia divenuto spesso causa di disagio per i cittadini. Tale disagio è rilevabile sia in termini di esposti (scritti, telefonici e verbali) sia per l’interessamento da parte dei media. Coloro che risiedono nei pressi degli allevamenti zootecnici o in prossimità di aree in cui gli effluenti zootecnici sono utilizzati per scopi agricoli sono, così, molto spesso sul “piede di guerra”. Per poter accendere il “Calumet della Pace”, strumento che consiglierei anche ai grandi “strateghi della terra”, sono state attivate azioni specifiche con l’intento di aumentare il senso di responsabilità degli operatori del servizio pubblico e di quelli del comparto agro-zootecnico con un obiettivo comune: intervenire con azioni preventive al fine di migliorare le condizioni igieniche, ambientali e sanitarie sul tema specifico. Analisi del problema Con il sopraggiungere dei primi caldi e fino all'autunno inoltrato una delle problematiche cui sono chiamati a far fronte gli operatori della prevenzione (Asl, Arpa), congiuntamente agli organi di controllo dei Comuni, della Provincia e del Corpo Forestale, è rappresentato dalle infestazioni muscidiche. Gli allevamenti, a causa dell’enorme quantità di sostanza organica prodotta, sono tra i principali responsabili “produttori” di mosche. Durante il periodo estivo, il problema si intensifica oltre che per le temperature favorevoli anche per un utilizzo non corretto dei fertilizzanti organici (letame, pollina, ecc.) nei terreni agricoli. L'espansione delle città e l'incunearsi delle abitazioni ad uso civile in aree a vocazione agricola-zootecnica, inoltre, complica le cose. Tale fenomeno genera molto spesso una ipersensibilità nei confronti di tutti gli infestanti, soprattutto in coloro che provengono dai centri cittadini. È anche vero che l'aumentata sensibilità, il miglioramento della qualità della vita sia sul piano economico sia su quello culturale, porta oggi singoli cittadini di intere comunità a intraprendere azioni di protesta. La lotta alle mosche parte dalla prevenzione, ovvero dalla corretta gestione degli allevamenti, degli effluenti zootecnici presenti nei ricoveri dove vivono gli animali, nei punti di raccolta (concimaie) e durante le fasi del loro utilizzo per scopi agricoli in pieno campo (trasporto, stoccaggio, spandimento). Per affrontare il tema del controllo delle popolazioni muscidiche, va considerato anche l’aspetto ambientale che richiede una lotta mirata e con il minor impatto nei confronti degli organismi non bersaglio (uomo compreso).

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Proprio in queste fasi si inserisce l'integrazione tra il lavoratore agro-zootecnico, quello degli operatori della Prevenzione (Asl, Arpa), dell'Amministrazione Comunale e Provinciale e degli addetti alla gestione delle attività di disinfestazione. Per giungere a buoni risultati e per ottimizzare il rapporto costo/beneficio, la problematica va affrontata in maniera integrata, in altre parole utilizzando al meglio le potenzialità presenti all'interno delle strutture pubbliche preposte alla vigilanza e al controllo (meglio alla prevenzione) con quelle professionalità pubbliche e/o private cui è demandata l'esecuzione degli interventi operativi. Per una corretta programmazione, per la scelta dei prodotti, per una puntuale gestione delle operazioni, si deve riconoscere ai Servizi di Prevenzione Sanitaria (Igiene Pubblica, Veterinario) e ad Arpa un ruolo di definizione delle linee guida di indirizzo metodologico e alle aziende di disinfestazione quello tecnico-operativo. L’attivazione di un corretto controllo integrato delle popolazioni muscidiche si basa su tutta una serie di elementi che ci riportano ad un modo di operare di tipo integrato: • valutazione della natura geografica e produttiva del territorio in cui si andrà ad operare; • definizione della superficie e del numero di abitanti che vivono nell'area; • localizzazione delle aree urbane e presenza di abitazioni anche sparse; • conoscenza dei dati sulle condizioni climatiche (compresi i dati storici); • localizzazione di strutture “sensibili” sul piano igienico-sanitario: allevamenti, fognature,

depuratori, mattatoi, discariche, mercati vari, ecc.; • livello medio di conoscenza della problematica (eto-biologia delle mosche) da parte dei

cittadini e degli operatori interessati (allevatori, ecc.); • presenza di strutture non stanziali (circhi, carovane di nomadi, ecc.); • presenza di giardini zoologici, canili, parchi faunistici; • analisi dei dati storici relativi agli interventi negli anni precedenti • ricognizione delle leggi (nazionali e locali), normative e quant'altro regolamenti il settore • Gestione allevamenti: tipologia - abbeveratoi – mangimi – aerazione – temperatura –

umidità • Avicoli in gabbia: numero capi/superficie - raccolta e allontanamento deiezioni • La lettiera: (bovini, suini, avicoli) rif. “Codice di buona pratica agricola” (supplemento

G.U. n° 102 del 4/5/99 – D. M. 19 aprile 1999 ) • Gestione effluenti: umidità – tempi di stoccaggio - spandimenti • Lotta larvicida • Lotta adulticida: meccanica (trappole) – esche alimentari insetticide – insetticidi

tradizionali – uso di tecniche a basso impatto ambientale. Obiettivi specifici

Per attivare un piano di risanamento igienico sanitario di aree interessate da infestazioni muscidiche è necessaria la collaborazione e l’integrazione lavorativa di tutti gli attori coinvolti nell’intero processo. Utilizzando le diverse professionalità si deve eseguire una mappatura delle aree a rischio di infestazione, l’elaborazione a più mani di piani di controllo integrato, la costituzione di banche dati aggiornabili in tempo reale per la raccolta ed archiviazione sistematica dei dati. Si ribadisce a questo punto che in un'ottica di integrazione delle competenze e delle attività operative, la lotta adulticida deve essere considerata valida solo per le emergenze. Per giungere a risultati apprezzabili con altre metodologie di intervento a carattere preventivo, tra gli obiettivi è stato inserito l’aspetto formativo-educativo che richiede un impegno organizzativo da parte degli organismi pubblici con il coinvolgimento delle associazioni degli allevatori, per gli approfondimenti del caso. Il piano di sorveglianza deve: dare risposte alle domande “chi fa che cosa, come e quando”; portare alla pianificazione di un programma di formazione/informazione per i componenti del gruppo di lavoro e per gli allevatori, senza trascurare la cittadinanza. Conclusioni

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Gli errori nella gestione dei materiali organici, residui dell'attività zootecnica, portano ad infestazioni di adulti di mosche sia nell'allevamento (dove si possono avere danni economici collegati alla minor produttività degli animali) sia nell'ambiente circostante dove il disagio procurato alla cittadinanza porta a lamentele e azioni repressive. Non tutti i lavoratori del settore hanno consapevolezza dell'importanza del loro ruolo nella prevenzione di questi fenomeni e di conseguenza non sono pronti a rispondere ai loro doveri soprattutto quando devono modificare comportamenti ormai consolidati nel tempo che impongono investimenti in operazioni di disinfestazione, nuove e non previste nell'ambito dell'attività produttiva del passato. La maggior parte degli allevatori, se adeguatamente motivata, provvede e si adopera per affrontare le infestazioni muscidiche secondo metodologie moderne ed efficaci. Le attività eseguite dagli organismi di controllo competenti, sono di stimolo per l'allevatore moderno al quale sembrerà normale inserire la voce "lotta alle mosche" nel computo dei normali costi di gestione di un allevamento. Il percorso di integrazione tra i vari organismi di controllo e gestione del settore porteranno, almeno si spera, a far comprendere che il trattamento chimico contro gli adulti deve essere annoverato tra "le emergenze" poiché: risulta inefficace in casi di elevata proliferazione se non seguito da opportune azioni per contrastare lo sviluppo larvale; è dannoso per la salute dell'uomo e degli animali; si possono sviluppare fenomeni di resistenza agli insetticidi complicando di fatto le cose. Gli interventi preventivi hanno una maggiore efficacia se c’è una sufficiente conoscenza del ciclo biologico delle mosche da parte di chi deve intervenire e se sono eseguiti nei tempi e con metodologie appropriate. Tra gli indicatori ricercati vanno individuati alcuni parametri cui far riferimento: tipologia strutturale, modalità gestionale degli allevamenti, pulizia negli spazi interni ed esterni, contenuto di umidità della sostanza organica, rispetto dei tempi e modalità di accumulo e spandimento del letame, impiego di abbeveratoi antispreco, ecc.. Oltre alle leggi nazionali, regionali e provinciali, sono di grande valore le ordinanze del Sindaco (massima Autorità Sanitaria Locale). Tali ordinanze devono richiamare le categorie interessate (allevatori, agricoltori, produttori e distributori di alimenti, industrie, mangimifici, ecc.), individuare le categorie più a rischio e imporre loro regole precise per la gestione dei prodotti organici e degli spazi destinati ad ospitarli (deiezioni animali, depositi alimentari, ecc.) indicando tempi di permanenza massima e modalità da adottare per il contenimento muscidico (tipologia del terreno, distanza dalle abitazioni e dai centri abitati, localizzazione di corsi d'acqua e falde acquifere, ecc.). A tale scopo è stato predisposto il testo per una normativa che aiuti gli operatori della prevenzione e del controllo a svolgere il proprio lavoro.

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La corretta gestione degli effluenti zootecnici

Giuseppe Bonazzi CRPA S.p.A. - Reggio Emilia

Tecniche per la riduzione delle emissioni in atmosfera dai ricoveri suinicoli. L’attività di ricerca del CRPA nell’ambito di progetti finanziati dalla Regione Emilia-Romagna e dal CNR (progetto riciclo dei reflui del sistema agro-industriale), ha portato alla determinazione di fattori di emissione dai ricoveri relativi all’ammoniaca, il gas emesso in maggiore quantità dai ricoveri zootecnici e più studiato dai ricercatori operanti a livello comunitario e internazionale. E’ convinzione comune tuttavia che le tecniche utilizzate per l’abbattimento delle emissioni di ammoniaca siano parimenti efficaci anche nei riguardi di altri gas come metano, CO2, COV non metanici, N2O. Nell’ambito del gruppo di lavoro CNR è stata sottolineata l’importanza di applicare misure di contenimento delle emissioni di NH3 lungo tutta la catena di gestione dei liquami, stoccaggi e spandimento agronomico in particolare. Il rischio che si può correre infatti è che misure di riduzione prese per i ricoveri siano vanificate dall’aumento della potenzialità emissiva dei liquami proprio negli stadi a valle di stoccaggio e spandimento.Le prime misure da intraprendere per i ricoveri consistono nel ridurre il più possibile la velocità dell’aria sulla superficie del liquame e nell’impedire che si raggiungano temperature interne troppo alte. Un buon controllo di queste in estate può contribuire al rispetto da parte dei suini dell’area destinata alla defecazione, mantenendo così relativamente pulite le aree di riposo e di alimentazione e contenendo di conseguenza le emissioni ammoniacali.Basse portate di ventilazione, temperature relativamente basse dell’aria in entrata e bassa velocità dell’aria sui pavimenti e sulla superficie del liquame nelle fosse sono tutti fattori che contribuiscono a rallentare l’emissione di gas in atmosfera. La dinamica dei flussi d’aria nei ricoveri può essere favorevolmente influenzata dalla posizione delle aperture dell’aria in entrata e in uscita. Per esempio l’immissione dell’aria di ricambio attraverso dotti forati o controsoffitti filtranti può servire a ridurre la velocità dell’aria nelle aree interessate dalle deiezioni, così come la temperatura dell’aria in ingresso può essere ridotta facendo passare l’aria in condotte sotto i corridoi di passaggio o attraverso tubazioni interrate o scambiatori ad acqua. Sono però tutti fattori che devono essere attentamente controllati perché non devono rischiare di compromettere il comfort dei suini e spesso richiedono consumi di energia non indifferenti. La valutazione e la quantificazione della riduzione delle emissioni attraverso l’applicazione di queste tecniche sono abbastanza complesse e non è stato ancora possibile arrivare a conclusioni chiare e sicure. Nello studio del CNR si è prestata molta attenzione alle caratteristiche del ricovero, vale a dire alla combinazione di tipo di pavimentazione, fosse di raccolta liquami e sistemi di rimozione di questi. Una valida combinazione di fattori può essere la seguente: riduzione della superficie libera (quella emettente) delle deiezioni; rimozione frequente delle deiezioni dalle fosse di raccolta interne ai ricoveri verso gli stoccaggi esterni; applicazione della separazione dei solidi dai liquami quando questi vengono usati per il ricircolo. Meno convincente, per l’alto dispendio energetico, appare l’aerazione dei liquami destinati al ricircolo; abbassamento del pH dei liquami con l’uso di additivi. Su questa tecnica occorrono tuttavia approfondimenti a livello di ricerca; interventi sulle superfici di stabulazione, in modo da renderle, compatibilmente con la sicurezza dei suini, sufficientemente lisce da consentire pulizie efficienti. La trasformazione di un pavimento totalmente fessurato in un pavimento parzialmente fessurato (PPF) con il 50% di superficie piena, riduce la superficie emettente di solo il 20%, in quanto bisogna tener conto anche di una quota di deiezioni che vanno a finire sulla parte piena. Inoltre un PPF con 50% di fessurato lavora bene in inverno e nelle stagioni intermedie, ma non altrettanto bene in estate. L’entità dell’effetto negativo dello sporcamento dipende anche dalla velocità con cui scorrono via le urine. Per questo un pavimento pieno in pendenza o uno di forma convessa favoriscono l’allontanamento delle urine con riduzione delle emissioni, essendo queste la maggiore sorgente emittente di NH3. Occorrerà tuttavia non eccedere nelle pendenze per evitare rischi di scivolamenti e conseguenti danni all’integrità

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fisica degli animali. Inoltre l’efficacia autopulente di un pavimento fessurato è tanto più alta quanto più alto è il rapporto vuoto/pieno. Con le recenti disposizioni sul benessere (Direttiva 98/2001/CE) l’apertura delle fessure per i grassi è stata ridotta a 18 mm e quella delle scrofe gestanti a 20 mm. Ciò creerà inevitabili problemi di maggior sporcamento dei pavimenti e quindi emissioni più elevate.Usando grigliato di metallo o di plastica il rapporto vuoto/pieno può essere notevolmente aumentato con effetti di maggior riduzione delle emissioni rispetto al pavimento fessurato con elementi in cemento. Va tenuto conto però che i grigliati hanno un rapporto costo efficacia peggiore del pavimento fessurato. Quando si fa l’estrazione dell’aria esausta da sotto i fessurati, si è notato un innalzamento delle emissioni quando la distanza tra la superficie libera del liquame e il fondo del pavimento fessurato è inferiore a 50 cm.Tecniche che sembrano molto efficaci, in certi casi danno risultati molto deludenti. Per esempio i raschiatori se non lavorano su superfici perfettamente lisce e livellate determinano la formazione di uno strato di deiezioni spalmate sul fondo che mantiene elevato il livello di emissione.Per quanto riguarda il ricircolo di liquami finalizzato alla rimozione di deiezioni fresche è stato fatto notare come, usando liquami non stabilizzati, si possono ingenerare durante il ricircolo emissioni di odori particolarmente fastidiose nel caso di allevamenti situati presso residenze. D’altra parte, l’aerazione del liquame per accelerare la stabilizzazione di questi, benché altamente efficiente nel ridurre le emissioni, è pratica non annoverabile tra le BAT per gli alti consumi energetici.Per quanto riguarda l’impiego di materiali di lettiera nell’allevamento le previsioni sono per un aumento dell’impiego di questa tecnica, vista la crescente attenzioni verso i problemi di welfare degli animali. La lettiera ha il vantaggio che può essere vantaggiosamente impiegata in abbinamento con la ventilazione naturale consentendo così ingenti risparmi energetici. Si riscontra inoltre un crescente interesse per deiezioni in forma di letame, quali si ottengono nella stabulazione con lettiera, per l’ottima qualità agronomica di tale materiale. Sul versante emissioni però le cose non sono così rosee, dal momento che un impiego scarso di materiale e una gestione non attenta ad evitare la formazione di zone molto bagnate, può portare ad innalzamenti nel livello delle emissioni. La lettiera integrale, estesa cioè a tutta la superficie del box, mal si presta all’impiego nel caso di suini grassi o di scrofe, per il fatto che nei periodi più caldi gli animali non hanno le possibilità di raffreddare il loro corpo che trovano invece su di un pavimento privo di lettiera. Per suinetti in post-svezzamento questo fattore negativo incide molto meno e la tecnica può essere adottata con relativa tranquillità. Tecniche per la riduzione delle emissioni in atmosfera dai ricoveri avicoli In diversi contesti aziendali possono risultare consigliabili tipi di interventi o accorgimenti molto semplici che sono comunque in grado di mitigare, in molte situazioni, l’impatto ambientale dell’allevamento. Fra questi si possono annoverare: piantumazione di alberature che fungano da barriere per il materiale particolato e favoriscano la dispersione degli odori e di altri composti inquinanti; opportuno orientamento dei ventilatori di estrazione, evitando, ove possibile, che il flusso sia orientato verso le abitazioni vicine; applicazione di convogliatori direzionali a cuffia sui ventilatori di estrazione, per dirigere il flusso verso il basso e evitare la dispersione in lontananza delle polveri. I maggiori problemi di emissione di gas in atmosfera dagli allevamenti biologici di ovaiole derivano dalle fosse sottostanti l’area fessurata dove sono collocati nidi, posatoi, mangiatoie e abbeveratoi. Tecniche in fase di sviluppo prevedono l’insufflazione di aria sulla pollina umida in modo da elevarne il tenore di sostanza secca, rallentare l’attività ureasica e quindi le emissioni di ammoniaca. Altri problemi di impatto ambientale derivano dalla polverosità che insorge con l’attività di razzolamento. Le emissioni di polveri possono arrivare facilmente a livelli anche 5 volte più elevati di quelli della stabulazione in gabbie convenzionali. La presenza di parchetti esterni comporta inoltre qualche problema di impatto ambientale per il dilavamento operato dalle acque meteoriche con rischio di inquinamento del suolo e del reticolo idrico superficiale e profondo. Per quanto riguarda i ricoveri di avicoli a terra, broilers in particolare, le tecniche per ridurre le emissioni di gas in atmosfera riconosciute consistono in: installazione di abbeveratoi antispreco per ridurre i consumi eccessivi di acqua, causa di bagnamenti della lettiera in tutta l’area adiacente e di conseguenti fermentazioni putride, causa a loro volta di incremento delle emissioni; additivi per il mangime e/o per la lettiera validati nella loro azione e certificati quanto a costanza di composizione; sistema di controllo ambientale interno (coibentazioni, ventilazione, condizionamento termico, spessore della lettiera) progettato e realizzato in modo da assicurare il mantenimento del corretto livello di umidità della lettiera.

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Buone prospettive di applicazione trovano le tecniche nutrizionali, al fine di ridurre il quantitativo di azoto escreto e, quindi, le emissioni in atmosfera. Tecniche ormai consolidate sono quelle che prevedono programmi di alimentazione con tenore di azoto e fosforo diversamente calibrati a seconda delle diverse fasi di accrescimento degli animali, per seguire in modo più accurato le loro diverse esigenze nutritive. Con tali tecniche si considerano perseguibili riduzioni dell’azoto e del fosforo escreti fino al 9% e al 25%, rispettivamente. Riduzioni del tenore proteico della dieta sono invece tecniche attualmente allo studio. Un progetto della Regione Emilia-Romagna, coordinato dal CRPA e dal titolo “Il bilancio dell’azoto nelle specie di interesse zootecnico”, ha come obiettivo proprio la messa a punto di tecniche per ridurre il quantitativo di azoto proteico delle razioni, costituite prevalentemente da mais e da farina di soia. Il contenuto proteico della dieta deve essere ridotto mantenendo equilibrato l’apporto aminoacidico e il rapporto tra gli amminoacidi, essenziali e non, sufficiente per massimizzare gli incrementi ponderali. Grazie alla migliore utilizzazione delle proteine alimentari, con la dieta a minor contenuto proteico, ci si attende di ottenere una riduzione della quota di azoto escreto fino al 23%. Tecniche di riduzione dagli stoccaggi Lo stoccaggio degli effluenti zootecnici, palabili o non palabili, rientra nella più complessa attività di gestione ad uso agronomico di tali materiali ed è soggetto alle regolamentazioni contenute nelle Leggi regionali sugli insediamenti cosiddetti civili così come definiti dalla Delibera CIM 8 Maggio 1980. Ciò in quanto si è attualmente in una fase di transizione, in attesa che escano le disposizioni del Decreto ministeriale MIPAF che detterà alle Regioni, ai sensi dell’art. 38 del Dlgs. 152/999, le norme tecniche cui attenersi nel varare le nuove regolamentazioni regionali. Le attuali regolamentazioni riguardano principalmente le condizioni di realizzazione degli stoccaggi per garantirne la sicurezza ambientale in termini di impermeabilità, tenuta e durata delle pareti, capacità di stoccaggio in relazione ai periodi di divieto di spandimento, distanze dai confini di zone agricole e di proprietà, dalle residenze, dai corsi d’acqua. Altre disposizioni riguardano gli accumuli temporanei di materiali palabili in campo in attesa dei momenti più idonei per lo spandimento. Per quanto riguarda le emissioni in atmosfera, non ci sono nelle regolamentazioni regionali specifiche disposizioni, se non in qualche caso l’obbligo di copertura degli stoccaggi quando realizzati a distanze dalle abitazioni inferiori a quelle consentite. Una distinzione importante viene fatta tra stoccaggi per i materiali palabili (letami e materiali solidi ad essi assimilati) e stoccaggi per i materiali non palabili (liquami e materiali liquidi ad essi assimilati). Stoccaggio di materiali palabili Rientrano in questa categoria di materiali letami da stabulazione di suini su lettiera, frazioni solide risultanti dalla separazione meccanica da liquami suinicoli, polline di ovaiole sottoposte a processi di disidratazione nei ricoveri o fuori da essi, lettiere di avicoli allevati a terra. Per questi materiali le tecniche che riducono l’impatto ambientale sono così descrivibili:: stoccaggio su piattaforme di cemento, con un sistema di raccolta e un pozzo nero per lo stoccaggio del percolato, quando si tratti di materiali palabili di provenienza suinicola; stoccaggio in ricoveri coperti, con un pavimento impermeabilizzato e adeguata ventilazione, quando si tratti di polline essiccate di avicoli; per gli accumuli temporanei in campo, il posizionamento del cumulo lontano da recettori come corsi d’acqua in cui il percolato potrebbe entrare e dalle abitazioni civili. Si sta discutendo molto se considerare buona tecnica la copertura dei cumuli in campo con materiali diversi. Su questo punto non ci sono idee molto chiare perché, ad eccezione delle coperture con torba di cui viene riconosciuta la validità ma che non è proponibile per il nostro paese, a nessun tipo di materiale viene riconosciuta valenza positiva nel contenimento delle emissioni: non alla paglia o alla segatura che addirittura impedirebbe la formazione di croste superficiali che pure attenuerebbero le emissioni, non a teli di plastica di cui si stanno studiando possibili effetti negativi dovuti all’instaurasi nella massa di fermentazioni anaerobiche, causa di forte rilascio di emissioni di NH3 e di odori al momento di apertura del cumulo. Stoccaggio di materiali non palabili Per quanto riguarda le vasche a pareti verticali sono da considerare buone tecniche: realizzazione di vasche che resistano a sollecitazioni meccaniche e termiche e alle aggressioni chimiche; realizzazione di basamento e pareti impermeabilizzati; svuotamento periodico (preferibilmente una volta all’anno) per ispezioni e interventi di manutenzione; impiego di doppie valvole per ogni bocca di scarico/prelievo del liquame; miscelazione del liquame solo in occasione di prelievi per lo spandimento in campo; copertura delle vasche ricorrendo ad una delle seguenti tecniche: coperture rigide come coperchi o tetti, oppure coperture flessibili tipo tende;

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coperture galleggianti, come paglia triturata, teli galleggianti di tessuto o di plastica, torba, argilla espansa (LECA), polistirene espanso (EPS) o, anche, croste quali quelle che si formano naturalmente sulla superficie del liquame. Tutti questi tipi di copertura hanno limitazioni di tipo tecnico od operativo, il che porta a concludere che la decisione su quale tipo di copertura è meglio adottare può essere presa solo caso per caso. Tecniche di riduzione dagli spandimenti Le tecniche di applicazione degli effluenti al suolo agrario hanno una grande importanza in quanto l’uso di una tecnica ad alta emissività o poco efficace nel ridurre le emissioni potrebbe vanificare gli sforzi fatti per ridurre le medesime a monte. Sotto il profilo del beneficio ambientale le tecniche di spandimento vengono di solito considerate solo per la loro capacità di ridurre le emissioni in atmosfera, in particolare di NH3, anche se viene loro riconosciuto efficacia comparabile nella riduzione delle emissioni di odori. Per valutare tale efficacia viene fatto il confronto con una tecnica di riferimento che è quella più diffusa e che ha elevato livello di emissività. Tale tecnica è stata individuata nello spargimento superficiale con erogatori in pressione (piatto deviatore, ugelli oscillanti, piatti deviatori oscillanti) non seguita da interramento in tempi ravvicinati. Ciascuna tecnica ha le proprie limitazioni e non è applicabile in tutte le circostanze e/o su tutti i tipi di suolo. Le tecniche che iniettano il liquame nel suolo hanno le performance più elevate nel ridurre le emissioni, ciò non toglie tuttavia che uno spargimento superficiale con dispositivo a bassa pressione ed erogatore a gocce molto grandi onde evitare la formazione di aerosol, seguito da incorporazione nel suolo dopo breve tempo, possa ottenere gli stessi risultati. Tecniche per lo spargimento di effluenti non palabili (liquami e materiali assimilati) Nei paragrafi che seguono le tecniche a minor impatto ambientale vengono descritte e brevemente commentate. spandimento superficiale di liquame: la tecnica comporta generalmente l’impiego di un serbatoio trainato da un trattore e l’espulsione del liquame in pressione da ugelli, spesso su di un piatto variamente inclinato per ottenere una maggiore ampiezza di ventaglio (piatto deviatore). Lo spargimento può avvenire anche da un cannone irrigatore per ottenere lunghe gittate, montato sul serbatoio stesso, oppure su bobine con tubazione avvolgibile utilizzabili anche per l’irrigazione. La superficie investita dallo spargimento può essere quindi molto ampia, ma l’inconveniente principale è la formazione di aerosol che possono essere trasportati anche a grande distanza. I dispositivi per l’erogazione possono essere montati direttamente sulla trattrice che si collega tramite una tubazione flessibile e trascinabile attraverso il campo a grandi serbatoi posti a piè di campo o direttamente allo stoccaggio (sistemi ombelicali). Questa tecnica è da considerare accettabile sotto il profilo ambientale solo quando lo spargimento è effettuato con traiettoria ridotta al minimo e con pressione di erogazione molto bassa in modo da favorire la formazione di gocce molto grandi (ed evitare così la formazione dei temuti aerosols). Tale modalità operativa dovrebbe poi essere seguita da incorporazione da effettuare il più presto possibile e comunque non oltre le 6 ore nei terreni arativi oppure essere eseguita su colture arative dopo l’emergenza. spandimento superficiale di liquame con tecnica a raso (spandimento per bande): il liquame viene scaricato a livello del suolo in strisce o bande attraverso una serie di tubi flessibili montati su di una barra. Per ottenere omogeneità di distribuzione ad ogni tubo arriva la stessa quantità di liquame, grazie ad un ripartitore rotante montato sul retro del serbatoio. La fascia di distribuzione può arrivare ad una larghezza anche di 12 m con una distanza di 30 cm tra le singole strisce. La riduzione delle emissioni rispetto allo spandimento superficiale in pressione può arrivare al 30%. spandimento con iniezione poco profonda nel suolo: la profondità di iniezione di questi dispositivi può essere di soli 5 cm o anche intorno a 15 cm e oltre. La caratteristica è che il solco resta aperto. Questi viene aperto verticalmente da dischi o da coltelli dietro i quali è installato il tubo erogatore. Lo spazio tra i solchi è tipicamente di 20-40 cm e la larghezza di lavoro non va oltre i 6 m. La quantità di liquame da erogare non deve superare la capacità di riempimento del solco onde evitare fuoriuscite e spargimenti superficiali. La tecnica è impiegabile anche su colture prative. La riduzione delle emissioni può arrivare al 40%. spandimento con iniezione profonda nel suolo: la profondità di iniezione di questi dispositivi può essere di soli 5-10 cm o anche di 15-20 cm. La caratteristica è che il solco viene chiuso da dischi o rulli costipatori montati dietro l’iniettore. L’efficienza di riduzione delle emissioni, è più elevata di quella ottenibile con l’iniezione a solco aperto, a parità di profondità di iniezione. Gli organi di iniezione sono generalmente costituiti da denti con ali laterali a zampa d’anatra per favorire la dispersione laterale sottosuperficiale. Ciò consente di elevare la quantità di liquame da distribuire. Lo spazio tra i denti è generalmente di 25-50 cm, mentre la larghezza di lavoro può arrivare a 2-3m. Nel nostro paese sono relativamente diffusi i dispositivi rigidi ad ancora che arrivanoanche a profondità di iniezione di 30 cm, eseguendo nel contempo anche

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parziali lavorazioni del terreno. Altri dispositivi sono costituiti da coltivatori a denti elastici o rigidi su più ordini, ognuno dotato di tubo adduttore per l’applicazione sottosuperficiale del liquame. Con questa tecnica si può arrivare a riduzioni fino all’80% delle emissioni di ammoniaca. Tecniche per lo spargimento di effluenti palabili (letami e materiali assimilati) Per lo spargimento dei materiali palabili non è la tecnica il fattore di spargimento che aiuta a ridurre le emissioni, ma l’intervallo di tempo che intercorre tra spargimento e incorporazione. Lo spandimento dei solidi è considerato buona tecnica quando l’incorporazione attraverso l’aratura avviene entro le 12 ore. Tuttavia anche l’incorporazione entro le 24 ore dei materiali solidi è da considerare tecnica valida. Essa ha infatti una potenzialità di riduzione delle emissioni del 50%, del tutto significativa e la ulteriore riduzione che può essere raggiunta con un’incorporazione più precoce non compensa gli extra costi che comporta la logistica organizzativa più complessa che viene richiesta. Un manuale dal titolo “Allevamenti a basso impatto ambientale - Le Migliori Tecniche Disponibili negli Allevamenti suinicoli e avicoli intensivi” è stato recentemente predisposto dal CRPA ed è in corso di pubblicazione a cura della Editrice “L’Informatore Agrario”. Nel volumetto vengono prese in considerazione le tecniche di stabulazione, di stoccaggio e di spandimento diffuse nel nostro Paese e nell’ambito comunitario. Di ognuna di esse vengono illustrate le caratteristiche, l’applicabilità, i benefici ambientali, gli effetti collaterali, i costi e viene riportata inoltre la classificazione come “BAT” o come “non BAT”. BAT è l’acronimo di Best Available Techniques (Migliori Tecniche Disponibili) ed è usato sia per gli allevamenti intensivi, sia per quelli estensivi, compresi i biologici.

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HACCP e sicurezza alimentare: controlli ed educazione quali strumenti della Prevenzione

Marina Fridel Dipartimento di Sanità Pubblica Ausl Cesena

L’obbligo per tutte le attività del settore alimentare di garantire la sicurezza degli alimenti tramite l’applicazione dell’autocontrollo secondo i principi dell’H.A.C.C.P., (acronimo di Hazard Analysis Critical Control Point ) introdotto nel nostro ordinamento dal D.lgs.155/97, ha comportato delle modifiche in materia di organizzazione aziendale e di gestione delle imprese alimentari nonché variazioni nell’approccio operativo dell’ispezione da parte degli organi di vigilanza. Il sistema HACCP, quale approccio razionale alla valutazione dei rischi associati ai processi di produzione degli alimenti e quale strumento efficace ed efficiente per l’eliminazione di tali rischi , è diventato, sinonimo di sicurezza alimentare. Esso si basa su una dettagliata valutazione del prodotto e del processo come punto di partenza per effettuare una corretta e precisa analisi dei pericoli e stabilire procedure di controllo e di monitoraggio in corrispondenza delle fasi del ciclo produttivo più critiche per la sicurezza dell’alimento al fine di prevenire, eliminare o ridurre a un livello accettabile tutti i rischi evidenziati. Il carattere sicuramente più innovativo del Sistema HACCP risiede nel concetto di prevenzione, infatti, esso consente all’operatore di agire prima che gli eventi potenzialmente negativi, messi in luce dall’analisi del pericolo (hazard analysis), abbiano modo di pregiudicare la sicurezza del processo di produzione, agisce lungo tutta la filiera produttiva e realizza un controllo continuo del processo. Il significato del piano di autocontrollo è pertanto strettamente legato al concetto di pericolo; con questo termine s’intende ogni fattore, agente, condizione o caratteristica di un alimento che può potenzialmente provocare un danno alla salute del consumatore o all’integrità del prodotto stesso. Tale pericolo potenziale può essere di natura biologica, chimica o fisica ed è essenzialmente la conseguenza di una contaminazione e sviluppo microbico, di una produzione di tossine oppure della presenza di residui chimici, corpi estranei o di parassiti. Con l’istituto dell’autocontrollo il legislatore attribuisce al produttore la responsabilità sul controllo igienico sanitario delle fasi del processo da lui realizzato e demanda all’autorità sanitaria la verifica della corretta applicazione delle modalità dell’autocontrollo dichiarate e dei risultati dello stesso. Tradizionalmente, il mondo produttivo e le autorità sanitarie esercitavano le rispettive ispezioni interne ed esterne, volte a garantire l’integrità dei prodotti destinati al consumo umano, attraverso controlli delle condizioni operative negli stabilimenti e mediante campionamenti casuali effettuate prevalentemente sul prodotto finito in uscita dalla catena di produzione. E’ evidente che un sistema di indagine di questo tipo risultava essere di tipo reattivo : interveniva a valle di una possibile non conformità dell’alimento quando, cioè, il pericolo che si voleva scongiurare aveva già avuto modo di manifestarsi e di provocare conseguenze negative sull’integrità del prodotto. Fondamentali strumenti per la realizzazione dell’autocontrollo sono la responsabilizzazione e la formazione del personale. La responsabilizzazione avviene ad ogni livello della filiera produttiva attraverso un sistema documentato in cui ogni operatore è in grado di dimostrare di aver agito in modo da minimizzare i rischi. La formalizzazione delle procedure operative incrementa il coinvolgimento e la sensibilizzazione di ciascun operatore e la formazione rappresenta la base per assicurare il raggiungimento della qualità e della sicurezza. Prima della entrata in vigore del D.lg. 155/ 97 anche la gestione del pericolo legato al controllo degli infestanti nelle aziende alimentari risultava essere sporadico e spesso retrospettivo; avveniva cioè quando l’ infestazione si era già manifestata in modo massiccio e aveva già determinato un

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danno. E’ noto che la presenza di insetti negli alimenti può costituire non solo un limite per la commerciabilità del prodotto , venendo a mancare i requisiti igienici, ma essere anche causa di seri danni alla salute umana ed all’immagine dell’impresa produttrice. E’ stato dimostrato che l’ingestione di parassiti (acari ed insetti o parti dei essi o loro prodotti biologici) può: Veicolare e trasmettere patogeni di varia natura: Provocare allergie di varia natura: reazioni cutanee, asma; Essere fonte di sostanze oncogene come i chinoni e nitrogeni che sono metaboliti della cuticola degli insetti; Essere causa di disturbi digestivi e lesioni di diversa entità alla mucosa intestinale.. Le industrie alimentari devono non solo utilizzare strutture ed alimenti privi di infestanti, ma dimostrare di mettere in atto un piano di prevenzione che ne garantisca il controllo. L’esigenza di attuare un piano di prevenzione delle infestazioni riguarda tutte le aziende di qualsiasi dimensioni e con tipologie diverse di produzioni. Nel piano di autocontrollo, la lotta agli infestanti deve essere impostata su 4 elementi fondamentali: Conoscenza dei più comuni infestanti e del loro ciclo biologico, in particolare relativamente: agli insetti presenti nell’ambiente: ditteri, blattoidei, imenotteri… agli insetti presenti nelle derrate alimentari : lepidotteri , coleotteri.. ai roditori: topi, ratti Questa fase presuppone una sensibilizzazione e una specifica formazione degli operatori del settore alimentare in tema di controllo dei pericoli biologici legati agli infestanti . Potenziamento e/ o razionalizzazione delle azioni preventive di base che hanno lo scopo di realizzare efficaci misure volte ad evitare l’ingresso di infestanti all’interno della azienda ed un loro eventuale insediamento. Le misure preventive di base riguardano: Chiusura aperture verso l’esterno: reti antinsetto, porte e chiusure automatiche … Manutenzione locali ed impianti Corretto allontanamento degli scarti e dei rifiuti e delle acque reflue Razionalizzazione delle pulizie attraverso piani di pulizia mirati Manutenzione e pulizia delle aree esterne Controllo ingresso materie prime: rifiuto dei prodotti infestati, adeguato turn-over dei prodotti immagazzinati Controllo delle condizioni di conservazione alimenti Monitoraggio sulla presenza, la tipologia e la quantità di infestanti è lo strumento essenziale per stabilire quali parassiti rappresentino il reale pericolo biologico per l’azienda alimentare in esame e per ottenere informazioni immediate e precise nella valutazione igienico sanitaria dei locali. Esso avviene attraverso : Monitoraggio ispettivo che permette di individuare la presenza degli infestanti o altre tracce che evidenziano la loro presenza o il loro passaggio: tracce su superfici polverose, materiale rosicchiato, ragnatele, escrementi... La visita ispettiva è l’occasione per verificare inoltre gli aspetti igienici che devono essere migliorati per ridurre le potenziali infestazioni e per stabilire che tipo di monitoraggio etologico attuare e dove posizionare i dispositivi. Monitoraggio etologico prevede la collocazione di trappole di cattura specifiche per ciascun insetto ( per insetti striscianti e per insetti atti al volo). I punti di posizionamento delle trappole vengono indicate sulla planimetria e devono essere ispezionate frequentemente per verificare la presenza di catture. I rilevamenti effettuati ( catture, avvistamenti, controllo e ripristino delle trappole…) devono essere registrati su specifiche schede, al fine di stabilire una documentazione che consenta di ottenere una “storia " di ogni infestante all’interno dello stabilimento produttivo. Attraverso queste operazioni è possibile individuare le aree ed i punti dai quali presumibilmente hanno origine le infestazioni.

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I monitoraggi sono fondamentali per verificare se la colonizzazione ha raggiunto dei livelli soglia e quindi agire tempestivamente con le tecniche di lotta o di prevenzione. Interventi e azioni correttive a seguito del monitoraggio. La definizione della soglia d’allarme di cattura dovrà prevedere una attenta analisi del rischio legato all’insetto infestante in relazione ai prodotti alimentari lavorati e al contesto ambientale in cui si opera. Al raggiungimento di tale soglia d’allarme, dovranno seguire degli interventi mirati allo specifico problema che non necessariamente prevedranno interventi di disinfestazione chimica, come: Il potenziamento delle azioni preventive di base (interventi di pulizia straordinari, di manutenzione e ripristino strutturale…) L’incremento del numero di trappole di cattura I trattamenti localizzati Il trattamento chimico deve essere mirato all’infestante individuato, va attuato solo in caso di reale necessità privilegiando l’uso di biocidi meno tossici al fine di evitare una contaminazione chimica dei prodotti alimentari; deve essere effettuato da personale qualificato che dovrà attenersi alle norme di sicurezza relative al prodotto in uso. Per quanto riguarda le metodiche analitiche per il rilevamento degli infestanti negli alimenti, oltre alle comuni tecniche di diagnosi macro e microscopica, la metodica del Filth test rappresenta un utile supporto per una valutazione sulla contaminazione entomatica di alcune categorie di derrate alimentari. In particolare con il Filth test è possibile, attraverso una diagnosi di specie dell’artropode reperito, definire la tipologia di contaminante e la fase d’insorgenza della contaminazione. In assenza di precisi riferimenti legislativi circa i limiti di tolleranza, occorre attribuire a tale test un valore di analisi indicativa della situazione igienica di produzione dell’alimento, in altri termini questa analisi può essere considerata sia da parte dell’autorità sanitaria di vigilanza che dal produttore stesso, un utile mezzo per monitorare sia le materie prime che l’igiene ambientale dell’industria alimentare. Per le autorità responsabili di condurre i controlli ufficiali dei prodotti alimentari, l’adozione di un programma di ispezioni basato sui principi del metodo HACCP, risulta particolarmente vantaggiosa in quanto permette di verificare la conformità dell’azienda ai requisiti di sicurezza , non solo all’atto dell’ispezione, ma per un lungo periodo di tempo a essa precedente, e in prospettiva attraverso la documentazione fornita dall’azienda medesima. Nel corso dello svolgimento del sopralluogo ispettivo, in relazione alla attività svolta dalla industria alimentare si effettua un esame del piano di autocontrollo e della sua applicazione, verificando in particolare: l’adeguata analisi dei pericoli e conseguente stima dei rischi la corretta e completa individuazione dei punti critici (punto o fase critica in corrispondenza del quale sia necessario e possibile realizzare una misura preventiva o un controllo sui pericoli per l’integrità e salubrità del prodotto) la validità dei limiti critici il rispetto delle procedure e dei tempi previsti per le operazioni di sorveglianza la taratura degli strumenti di misurazione i risultati dei controlli interni l’attuazione di programmi di formazione del personale la previsione dei provvedimenti da assumere in caso di perdita del controllo le procedure per il ritiro dal commercio dei prodotti che possono presentare un rischio il sistema di gestione della documentazione la responsabilizzazione del personale in relazione ai controlli da effettuare le modalità di esecuzione delle analisi di laboratorio Per facilitare il lavoro, nella pratica si utilizza una traccia (sotto forma di check-list ) per consentire all’operatore di vigilanza durante i sopralluoghi ispettivi di eseguire con sistematicità e metodo tutte le verifiche di congruità del sistema di autocontrollo aziendale. Tale scheda può essere utilizzata anche dal produttore o responsabile del piano HACCP aziendale come linea giuda alla predisposizione e organizzazione del piano di autocontrollo .

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Ad ogni situazione nella quale vengano rilevate carenze si prescrivono le azioni e i provvedimenti adeguati affinchè tali carenze siano rimosse in maniera efficace e certa dopo un tempo adeguato. L’azione di sorveglianza ufficiale trova quindi la propria ragione d’essere in una efficace capacità propositiva di carattere igienico sanitario che presuppone da parte dell’operatore sanitario una adeguata competenza tecnica e conoscenza dei cicli produttivi delle aziende alimentari. La realizzazione di corsi di educazione sanitaria e formazione professionale per operatori di specifici settori mirati ad una revisione ed approfondimento dei problemi rilevati nell’applicazione dei piani HACCP incrementano il grado di conoscenza degli operatori e favoriscono il confronto formativo tra operatori di vigilanza e addetti alla produzione. Il carattere preventivo di tali interventi formativi si concretizza attraverso incontri con gli operatori, le associazioni di categoria e dei consumatori e la predisposizione e diffusione di materiale informativo in materia di sicurezza alimentare che hanno, tra le altre cose, lo scopo di facilitare l’instaurarsi di un rapporto di fiducia e collaborazione.

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Chek-list : VALUTAZIONE PIANO DI AUTOCONTROLLO E PRESCRIZIONI N.B.* Possono essere utilizzati anche registri o schede generiche per documentare le non conformità * * * Compilare quando l’attività non può adottare procedure semplificate L. 526/99, art.10 comma 5

* * Compilare solo quando è necessario

IDENTIFICAZIONE AZIENDALE PRESCRIZIONI (Redatto in modo scarso o incompleto) �SI

Valutazione indicativa E’ indicato il nome dell’azienda e i dati anagrafici del suo rappresentante legale? �SI �NO

E’ presente una planimetria dettagliata e aggiornata di tutti i locali e la collocazione delle attrezzature e degli impianti? �SI �NO

Le autorizzazioni sono allegate al Piano di Autocontrollo? �SI �NO

E’ individuato il responsabile del Piano di Autocontrollo? �SI �NO

E’ presente un manuale di “ corrette prassi igieniche “ �SI �NO PROCEDURE DI PULIZIA E DISINFEZIONE PRESCRIZIONI

(Redatte in modo scarso o incomplete) �SI

Valutazione indicativa Esiste piano personalizzato di pulizia e disinfezione delle strutture, impianti, attrezzature ed utensili, con frequenze di intervento ed identificazione dei prodotti? �SI �NO

Sono presenti schede tecniche o etichette dei detergenti e dei disinfettanti usati? �SI �NO E’ previsto il controllo ambientale sull’efficacia del piano di sanificazione e sono raccolte o registrate le analisi effettuate ? �SI �NO

* Sono presenti schede di non conformità pulizia e disinfezione? �SI �NO PROCEDURE DI DISINFESTAZIONE PRESCRIZIONI

(Redatte in modo scarso o incomplete) �SI

Valutazione indicativa Esiste piano di controllo degli infestanti? �SI �NO

E’ presente planimetria con disposizione delle esche/trappole? �SI �NO

Esiste indicazione del tipo di prodotto usato e a quale animale infestante è destinato? �SI �NO

* E’ presente scheda di non conformità infestanti? �SI �NO PROCEDURE D’IGIENE DEL PERSONALE PRESCRIZIONI

(Redatte in modo scarso o incomplete) �SI

Valutazione indicativa E’ presente elenco / organigramma del personale dell’azienda? �SI �NO

Esiste regolamento d’igiene rivolto al personale? �SI �NO

* E’ presente scheda di non conformità igiene del personale? �SI �NO PROGRAMMA MANUTENZIONE PRESCRIZIONI

(Redatte in modo scarso o incomplete) �SI

Valutazione indicativa

Esiste programma di manutenzione delle strutture, attrezzature, impianti? �SI �NO

Esiste controllo taratura impianti/attrezzatura? �SI �NO

* Sono presenti schede di non conformità relative alla manutenzione? �SI �NO DESCRIZIONE DEI PRODOTTI E LORO DESTINAZIONE PRESCRIZIONI

(Redatta in modo scarso o incompleta) �SI

Valutazione indicativa Sono descritte le materie prime, i relativi fornitori e le modalità di approvvigionamento ? �SI �NO

Esiste un controllo alla consegna delle materie prime? �SI �NO

Sono presenti eventuali garanzie richieste ai fornitori? �SI �NO

Sono descritti i prodotti commercializzati / somministrati / trasformati / confezionati? �SI �NO

* * Rintracciabilità dei prodotti finiti? �SI �NO

E’ possibile dal prodotto finito risalire alle materie prime utilizzate? �SI �NO

* Esistono schede di non conformità �SI �NO DESCRIZIONE DELLE FASI PRESCRIZIONI

(Redatta in modo scarso o incompleta) �SI

Valutazione indicativa Sono definite tutte le fasi di attività? �SI �NO

Sono individuate le GMP in tutte le fasi? �SI �NO REVISIONE DEL PIANO PRESCRIZIONI E’ definita la frequenza di revisione del piano? �SI �NO °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°* * * DIAGRAMMA DI FLUSSO PRESCRIZIONI

(Redatto in modo scarso o incompleto) �SI

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E’ stato definito il diagramma di flusso? �SI �NO * * * INDIVIDUAZIONE DEI PERICOLI PRESCRIZIONI

(Redatta in modo scarso o incompleta) �SI

Valutazione indicativa Chimico �SI �NO

Fisico �SI �NO

Microbiologico �SI �NO * * * INDIVIDUAZIONE DEI CCP E LIMTI CRITICI PRESCRIZIONI

(Redatta in modo scarso o incompleta) �SI

Valutazione indicativa Sono Definiti CCP? �SI �NO

Sono definiti i limiti critici per governare ogni CCP? �SI �NO * * * SISTEMI DI MONITORAGGIO PRESCRIZIONI �SI (Serie programmata di osservazioni/misure per dimostrare che un CCP è sotto controllo)

(Redatti in modo scarso o incompleti)

Valutazione indicativa Per il monitoraggio sono utilizzate rilevazioni di tipo strumentale o altro? �SI �NO

E’ presente scheda di non conformità? �SI �NO * * * AZIONI CORRETTIVE PRESCRIZIONI �SI (Da seguire quando si verifica una deviazione dai limiti critici) (Redatte in modo scarso o incomplete) Valutazione indicativa

Sono definite le azioni correttive da intraprendere per assicurare che il CCP sia riportato sotto controllo? �SI �NO

E’ definito cosa fare se i prodotti non sono idonei? �SI �NO

BIBLIOGRAFIA. Servizio Veterinario e Igiene degli Alimenti - Assessorato alla Sanità- Regione Emilia Romagna “ Indirizzi procedurali e operativi in materia di controllo ufficiale e di autocontrollo sulla produzione e preparazione degli alimenti secondo il sistema HACCP ”. Maroli M. Khoury C. Gli artropodi infestanti gli sfarinati. Rapporti ISTISAN 96/8 pag.20-27. Scipioni A. Andreazza D. Il sistema HACCP. Sicurezza e qualità nelle aziende agroalimentari. Ulrico Hoepli Editore S.p.a. 1997. Süss L. Monitoraggio delle infestazioni, soglie di tolleranza ed HACCP. Disinfestazione& Igiene ambientale 2000. Marzo –Aprile pag.1-4. Fiorini M. Il piano di prevenzione delle infestazioni nelle aziende alimentari. Disinfestazione& Igiene ambientale 2001. Luglio –Agosto pag.10-12. Voigt T.F. La lotta antiparassitaria : un elemento importante del sistema H.A.C.C.P. . Disinfestazione& Igiene ambientale 1997 Novembre – Dicembre pag.7- 9.

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Il monitoraggio delle popolazioni murine di ambiente urbano come sistema di controllo della qualità

dell'ambiente

Mauro Cristaldi & Giorgia Chiuchiarelli Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo - Università “La Sapienza”

Via Alfonso Borelli n°50 – 00161 ROMA

Riassunto L’ecosistema urbano, frammentato e soggetto a stress periodici, si presenta come un ambiente ideale per le specie euriecie. Queste, generalmente opportuniste ed onnivore, sono in grado di riprodursi anche in ambienti degradati dove trovano condizioni favorevoli al loro sviluppo. Alcune specie sinantrope e commensali di Roditori come il Ratto delle chiaviche (Rattus norvegicus), il Ratto dei tetti (Rattus rattus) e il Topo domestico (Mus domesticus) sono continuativamente presenti negli ambienti urbani delle regioni mediterranee, dove incontrano condizioni tali da favorire un aumento densiometrico delle loro popolazioni fino a renderle infestanti. Esse rivestono, allora, importanza sia dal punto di vista economico (danni a derrate e strutture) sia da quello sanitario, in quanto sono spesso veicoli di un numero elevato di patogeni trasmissibili all’uomo. E’ quindi, evidente la necessità di un controllo delle popolazioni di Roditori infestanti, costituendo esse un serbatoio per potenziali patologie. Per questo scopo si fa, comunemente, ricorso all’utilizzo di rodenticidi a dose multipla, essenzialmente anticoagulanti. Diversi studi, però, hanno messo in evidenza l’insorgenza, nelle popolazioni murine, di fenomeni di resistenza agli anticoagulanti di prima e di seconda generazione con una riduzione dell’efficacia delle strategie di controllo ed il conseguente aumento del rischio murino. Inoltre, pur portando ad una riduzione temporanea del numero di animali, questi composti non sono in grado di evitarne un successivo incremento demografico causato da ricolonizzazione secondaria e da impatto su specie non bersaglio. Il documentato rischio mutagenetico, cancerogenetico e teratogenentico di queste sostanze suggerisce inoltre un uso limitato e controllato di tali pricipi attivi, spesso invece abusati nei trattamenti in ambiente. E’ quindi auspicabile, in alternativa, l’eliminazione di tutte quelle cause ambientali che favoriscono l’instaurarsi delle popolazioni murine. A questo proposito è stato sviluppato un sistema di gestione integrato (IPM) che prevede sia lo studio delle specie infestanti dal punto di vista eco-etologico, sia la determinazione della resistenza agli anticoagulanti, sia il biomonitoraggio delle popolazioni ai fini igienico-sanitari (ricerca di patogeni e di alterazioni biologiche), tutti fattori che possono contribuire ad una corretta valutazione dell’impatto ambientale. Parole chiave: Ecosistema urbano, Roditori, Rodenticidi, Sistema di gestione integrato. Introduzione Le prime città sono state fondate, circa 5.000 anni fa dalle popolazioni delle società fluviali sviluppatesi nel basso Egitto, in Mesopotamia, in India e in Cina, mentre, in Europa, la prima città, Micene, nasce 3.500 anni fa. Probabilmente, la prima città a raggiungere il milione di abitanti fu Roma durante il periodo imperiale, ma, ancora nel '700, se ne contavano solo due, Pechino e Edo (Tokyo), che superavano questa cifra. Oggi, invece, quelle che ospitano alcuni milioni di abitanti sono centinaia (46). Le città sono quindi, col tempo, diventate, ecosistemi parzialmente isolati dove la componente artificiale è preponderante e che, nella loro struttura, non tengono conto della forma dell’ecosistema naturale precedentemente presente (42). In questi ecosistemi una grande quantità di energia scorre essenzialmente in favore di una sola specie, l’uomo, mentre prodotti di rifiuto sono riversati in diverse matrici ambientali quali aria, acqua e suolo (vedi figura 1).

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A livello ecologico, la crescita urbana, ha portato, nelle aree metropolitane, ad una sempre più spinta riduzione e frammentazione della vegetazione naturale. La frammentazione, l’antropizzazione e l’eterogeneità ambientale che si viene a creare in ambiente urbano provocano, di norma, una perdita delle specie stenoecie a favore di quelle più generaliste (5). Infatti, mentre da una parte, l’ecosistema urbano offre, per alcune specie, degli habitat ottimali, per altre strettamente legate a particolari habitat o a bassa mobilità - con la frammentazione e l’isolamento delle aree verdi all’interno della città che crea i presupposti per la formazione di metapopolazioni - esso finisce col rappresentare un’area dove le piccole popolazioni tendono a ridursi e, senza l’apporto di nuovi individui immigranti, ad estinguersi (3). In questi ambienti, incerti e/o soggetti a periodici stress, sono, quindi, avvantaggiate quelle specie euriecie (topi, ratti, cani e gatti randagi, piccioni, cornacchie, passeri, ecc.) più facilmente adattabili agli ambienti degradati con bassi indici di diversità. Queste specie, infatti, generalmente opportuniste ed onnivore, riescono facilmente a colonizzare habitat con nicchie ancora libere, sono flessibili nella scelta del luogo di nidificazione e sono in grado di riprodursi anche in ambienti non ottimali (3, 18, 20). Le loro necessità trofiche da eterotermi onnivori sono favorite dalla presenza di aree marginali ed incolti, in cui la presenza di vegetazione ad elevata produzione di semi piccoli e resistenti instaura una rinnovazione di notevole potenzialità, costituendo per essi un pabulum alimentare costante ed in cui le loro attività facilitano la diffusione delle piante stesse (18, 24). Inoltre, per quello che riguarda più da vicino i Mammiferi, può essere un vantaggio anche la loro peculiare attitudine a condurre vita crepuscolare o notturna (25). In questi ambienti artificiali, gestiti e controllati direttamente dall’uomo, in particolare i Roditori, fra i Mammiferi, e conseguentemente i loro patogeni, trovano condizioni particolarmente favorevoli al loro sviluppo ed all’aumento della densità di popolazione, in quanto sistemi biologici particolarmente adatti alla convivenza con l’uomo ed in parte da esso dipendenti (20). Specie sinantrope commensali appartenenti a quest’Ordine come, ad esempio, il Ratto delle chiaviche (Rattus norvegicus), il Ratto dei tetti (Rattus rattus) e il Topo domestico (Mus domesticus), sono specie sempre presenti negli ecosistemi urbani in quanto traggono vantaggio proprio dalla presenza dell’uomo e dalle sue attività e tendono, quindi, a seguirlo nel suo cosmopolitismo (43). Ne consegue una spinta evolutiva documentata dal complesso e lungo processo di diversificazione cariotipica del genere Rattus in Asia orientale (52) e, con probabili origini risalenti al neolitico-eneolitico, dalla più recente modificazione del cariotipo per fusioni centriche, con riduzione tendenziale del numero cromosomico (14) nelle popolazioni isolate di Topo domestico (Mus domesticus). Bisogna anche considerare che la concentrazione umana e le attività produttive e commerciali caratteristiche dell’ambiente urbano hanno portato, attraverso la progressiva creazione di ambienti chiusi, ad una riduzione di alcuni predatori specializzati (carnivori, uccelli rapaci e serpenti) che, in condizioni di naturalità, rappresentano un efficace metodo per il controllo delle popolazioni di micromammiferi (19). Tutto ciò facilita il prosperare delle popolazioni di specie di roditori sinantrope, al punto che, talora, in situazioni di alterazione degli equilibri biocenotici, si possono verificare a favore di queste specie veri e propri fenomeni di infestazione. Specie infestanti: Fra le specie di Roditori infestanti, quelle più importanti, almeno negli ambienti urbani della regione biogeografica oloartica, sono senz’altro M. domesticus, M. musculus, R. norvegicus e R. rattus, ma si possono anche incontrare specie che, normalmente, prediligono ambienti aperti, come il Topo selvatico (Apodemus sylvaticus) e le arvicole del genere Microtus. Mus domesticus: Il Topo domestico è una delle specie di roditori cosmopolite più piccole e, fa risalire la sua presenza in Europa già dal Pleistocene medio (10). Lo si ritrova nel sud ed ovest dell’Europa e dalla Turchia all’Iran. Grazie alla sua stretta associazione con l’uomo ha colonizzato le Americhe, il nord dell’Africa e dell’Australia e le isole oceaniche (39). Può vivere sia a stretto contatto con l’uomo sia allo stato selvatico; nel primo caso, grazie alla sua elevata capacità di colonizzare ambienti chiusi lo si può trovare negli edifici, in intercapedini, fondamenta e solai. Nei magazzini alimentari può contaminare il cibo - col quale vive in stretto contatto - con escrementi e peli, provocando seri danni economici e rischio di infezioni; causa, inoltre, danni al patrimonio lì

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dove si raccolgono materiali erodibili di tipo cartaceo (musei, archivi, biblioteche) che vengono utilizzati durante la costruzione del nido e per realizzare passaggi e tane. Allo stato selvatico, invece, preferisce le aree termoxerofile mediterranee (4) dove il clima è mite e dove , nei terreni, scava tane ipogee. La specie vive in famiglie con una gerarchia maschile in territori delimitati; ha attività crepuscolare e notturna, ma in situazioni marginali e di stretta sinantropia può essere attivo anche di giorno (17, 20, 30). Mus musculus: Il Topolino delle case, morfologicamente simile al Topo domestico, occupa, rispetto a quest’ultimo, un areale attiguo distribuito dal nord e centro Europa (con confine presuntivo costituito dal Fiume Elba) fino all'Asia nord orientale e da cui si distingue per caratteristiche enzimogenetiche ed una maggiore stabilità cariotipica (8). Originario del subcontinente indiano ha radiato con nuove specie, attraverso la speciazione geografica, fuori dalla sua culla di origine in tutti i luoghi dove la migrazione, collegata all’attività umana, era possibile (48). Rattus rattus: Il Ratto dei tetti o Ratto nero è probabilmente originario del sud est dell’Asia, ma si è in seguito diffuso in tutto il mondo sfruttando il suo commensalismo con l’uomo (39), arrivando in Europa nel Pleistocene (33). Questo animale, nell’Europa atlantica e continentale presenta abitudini prevalentemente commensali, mentre nei paesi mediterranei vive principalmente allo stato selvatico (39). A questa differenza di habitat si associa, èer motivi evoluzionistico-adattativi, la diversa colorazione del mantello che è omogeneamente di colore ardesia nel primo caso, mentre nel secondo è marrone grigio sul dorso e più chiaro sul ventre, con una linea di demarcazione sui fianchi più o meno netta a seconda dei casi, come risposta selettiva alla pressione predatoria (30, 43). Buon arrampicatore, in ambiente urbano si insedia abitualmente fra gli alberi dove costruisce i nidi e dai quali può colonizzare le parti alte delle abitazioni, anche se la progressiva riduzione delle aree verdi e la sostituzione di tetti e solai con terrazzi lo hanno sfavorito negli ambienti più tipicamente metropolitani (23). Rattus norvegicus: Il Ratto delle chiaviche o Surmolotto è originario del nord est dell’Asia e attualmente cosmopolita; si è diffuso in Europa in modo permanente durante la Rivoluzione Industriale (XVII-XVIII secolo) (39), anche se la sua presenza in questo continente è accertata fin dal Medioevo (51). Buon nuotatore e sommozzatore, estremamente attivo, mobile ed aggressivo popola ambienti ripariali spesso malsani, scava tane che occupa prevalentemente in ore di massima luce per accumulare cibo e per riprodursi (43). In ambiente urbano, dove la sua espansione è stata favorita dal cambiamento delle infrastrutture nel corso della storia (16, 19), è legato ai rifiuti solidi e liquidi, alle acque di scarico o inquinate, come fogne, canali di scolo, ma anche a depositi alimentari, stabulari e mattatoi (30). Questa specie vive in popolazioni organizzate in famiglie con una gerarchia a dominanza maschile dove lo status sociale del maschio tende ad essere proporzionalmente legato all’età (7, 50). Apodemus sylvaticus: Il Topo selvatico è una specie murina più prettamente adattata alle aree verdi ed agricole e, solo occasionalmente, preferisce abitare le infrastrutture umane dove viene occasionalmente trovato soprattutto nelle aree di contatto fra città e campagna (4, 20). Queste specie murine, la cui presenza è spesso collegata a situazioni di degrado del territorio (16), rappresentano un’importante componente ecologica (sono prevalentemente consumatori primari) ed economica (danni a derrate e strutture), coinvolgendo anche aspetti sanitari e sociali, poiché possono trasmettere diverse malattie (virali, batteriche, da rickettsie, parassitologiche, ecc.: vedi tabella 1) ad animali e uomo (1, 26, 35, 38, 43); quindi, più è elevato il numero di ratti, più aumenta la possibilità per l’uomo di venire in contatto con organismi patogeni. Non essendo, comunque, complete le conoscenze sulla funzione che assumono i Roditori sinantropi nelle differenti potenziali zoonosi, il ruolo di veicoli diffusori esercitato dai Roditori non può mai essere sottovalutato. Ecco che, in considerazione di quanto esposto fin ora, appare evidente la necessità di esercitare un controllo sulle popolazioni di questi Roditori infestanti. Esistono essenzialmente due metodi per il controllo delle popolazioni murine: il primo basato sull’uso massiccio di rodenticidi (“German model”); il secondo (“Tamper model”), che punta ad un

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risanamento ambientale dell’area trattata seguendo criteri di tutela ambientale, si caratterizza per l’uso moderato di sostanze rodenticide (30). Rodenticidi Tutte le sostanze utilizzate come rodenticidi devono essere caratterizzate principalmente da due parametri: efficacia e sicurezza; devono, cioè, essere efficaci ma anche facilmente degradabili nel corpo dei roditori in modo da non divenire secondariamente tossici per i potenziali predatori di questi (12), o almeno limitare la propria tossicità al cannibalismo dei congeneri. Generalmente, si possono distinguere, in base alla loro modalità di azione, due categorie di rodenticidi: acuti, o a dose singola, e cronici, o a dose multipla (principalmente anticoagulanti). I primi (es. fosfuro di zinco, scilla rossa, Antu, fluoroacetato di sodio) sono, praticamente, dei potenti veleni con effetti abbastanza veloci e meccanismi d’azione differenti, ma, ormai, vengono utilizzati soltanto in quei casi in cui si sia interessati ad ottenere una rapida riduzione del numero di individui. La loro utilizzazione presenta, fra l’altro, alcuni problemi in quanto queste sostanze sono, in genere, poco gradite dai Roditori e molto poco sicure per l’uomo e gli animali domestici che ne vengano accidentalmente a contatto, laddove non utilizzate in modo adeguato (2). I secondi, invece sono sostanze somministrate in dosi sub-letali, che agiscono lentamente, con azione cumulativa e devono essere consumati per più giorni affinché facciano effetto. Questa caratteristica li rende vantaggiosi in quanto non induce nei roditori il comportamento di “evitamento dell’esca” e tende a renderli sicuri anche per l’uomo e gli animali domestici (2, 38). Gli anticoagulanti interferiscono con la normale genesi dei fattori di coagulazione del sangue, la cui produzione è guidata da una serie di reazioni nelle quali la vitamina K viene ridotta e ossidata ciclicamente (6, 37). Una deficienza della vitamina K o una sostanza (gli anticoagulanti) che distrugga il ciclo della vitamina porta ad una minore produzione di fattori di coagulazione del sangue e di conseguenza ad un aumento del rischio di emorragie per l’animale (36), che effettivamente muore a causa di numerose piccole emorragie interne. La storia di queste sostanze inizia nella metà degli anni ’40 con la messa a punto del primo di questi composti: il Warfarin (idrossicumarina) (38). Successivamente, fino agli anni ’70, furono messi in commercio molti altri anticoagulanti conosciuti come composti di prima generazione. Col tempo questi divennero i rodenticidi più usati soppiantando quasi completamente gli altri tipi di prodotti e alla fine, come poteva essere prevedibile, una così forte pressione selettiva applicata sulle popolazioni di roditori infestanti portò alla comparsa di fenomeni di resistenza agli anticoagulanti a vantaggio di questi animali (38) con una riduzione dell’efficacia delle strategie di controllo che si avvalevano dell’uso di queste sostanze. L’esistenza di ratti resistenti al Warfarin è stata scoperta per la prima volta in Scozia nel 1958 (9) e successivamente è stata riscontrata resistenza anche agli altri composti in diversi paesi (34, 40, 41, 45). La scoperta della resistenza al Warfarin è stata la spinta per lo sviluppo di una nuova serie di composti ad azione anticoagulante, chiamati di seconda generazione, fra i quali vengono annoverati il difeanacoum, il brodifacoum, il bromadiolone, per citarne alcuni. L’uso di questi composti, più potenti dei primi, ha permesso, in un primo tempo, di superare il problema della resistenza e per questo essi hanno trovato larga diffusione in quasi tutto il mondo (12). Tuttavia, ultimamente si è messo in evidenza il rischio dell’insorgenza della resistenza anche a questo secondo gruppo di composti; ad esempio sono stati trovati casi di esemplari di R. norvegicus resistenti al difenacoum nel sud dell’Inghilterra (47) e, occasionalmente, anche al brodifacoum in Danimarca (26). Progressi notevoli sono stati compiuti nella conoscenza della distribuzione geografica della resistenza, ma i livelli, i meccanismi (inclusi quelli genetici) e la biochimica (49) di questo fenomeno sono stati analizzati prevalentemente in Gran Bretagna, Germania e Danimarca e poco nel resto del mondo. Bisogna, comunque, considerare che, nonostante gli anticoagulanti siano ritenuti sufficientemente sicuri in quanto composti a bassa tossicità, possono divenire pericolosi, sia per l’uomo che per l’ambiente, a causa di fenomeni di bioaccumulo (13, 20). Infatti è praticamente inevitabile che, occasionalmente, venga documentato un qualche caso di avvelenamento a carico di animali

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domestici, di fattoria o selvatici o avvelenamenti secondari, allorché un roditore, che ha mangiato esche contenenti anticoagulanti, è, a sua volta, mangiato da un predatore (38). Incidenti di questo tipo possono essere rari ma sicuramente accadono. Bisognerebbe, quindi, avere molta cura nell’assicurarsi, dopo il trattamento di un’area con rodenticidi, che tutti gli animali morti siano recuperati (38) , preferibilmente attraverso l'uso preventivo di cassette nido ("bait-box") e conoscere il destino di questi composti, se si degradino o si accumulino nel comparto ambientale in cui vengono introdotti (suolo, acqua, aria, piante, animali), per valutarne gli effetti biologici (11), anche a lungo termine. Si sottolinea, anche, come una corretta distribuzione dei rodenticidi, che andrebbero somministrati all’interno di "bait-box", renda più difficile l’accesso alle esche da parte di specie non bersaglio e dell’uomo stesso, oltre ad ottimizzare il loro effetto sfruttando la preferenza dei roditori a nutrirsi in luoghi chiusi (38). INTEGRATED PEST MANAGEMENT (IPM) La crescita demografica delle popolazioni di Roditori infestanti nelle città è sicuramente favorita da alcune condizioni ecologiche, come ad esempio la presenza di corsi d’acqua inquinati da sostanze organiche, di un sistema fognario vecchio e degradato, di passaggi sotterranei in prossimità di depositi di materiale inerte, dall’inadeguatezza del sistema di raccolta di rifiuti e dal degrado delle aree verdi urbane; inoltre, a questo bisogna aggiungere la presenza di strutture che non seguono le regole di un corretto metodo “rodent proofing”, come l’esistenza di controsoffitti, intercapedini, doppie pareti, nonché l’utilizzo, per gli scarichi, di tubi di misure inadeguate, un non corretto immagazzinamento del cibo, la presenza di mercati all’aperto, di macerie e rovine abbandonate (20). Va valutata inoltre la possibilità che i cambiamenti climatici globali (21) possano condizionare la dinamica di popolazione delle specie infestanti, soprattutto nelle particolari condizioni di termoxerofilia che vengono amplificate nei microclimi urbani (44). Tutto ciò favorisce lo sviluppo di fenomeni infestativi: ecco perché una campagna di derattizzazione che preveda esclusivamente l’uso di rodenticidi e non anche l’eliminazione delle cause ambientali (facile accesso a cibo e rifugi) che favoriscono l’instaurarsi di popolazioni murine in alcune aree piuttosto che in altre, è, in prospettiva generale, destinata a fallire. Infatti, pur riuscendo a portare ad un rapido abbattimento del numero di animali, in genere essa non è in grado di evitare un successivo recupero densitometrico della popolazione (15). In seguito a ciò si è andato evolvendo un sistema di gestione integrata (Integrated Pest Management, IPM) che introduce un nuovo concetto nelle strategie di controllo dei Roditori: poiché molti degli aspetti sopra descritti sono causati e/o controllabili dall’uomo, quest’ultimo viene, naturalmente, a far parte del problema infestativo (32). Brevemente, un sistema integrato dovrebbe essere basato su un controllo ecologico e sanitario centralizzato e richiedere l’apporto di diversi approcci metodologici. E’ quindi necessario lo studio delle caratteristiche ecologiche della specie di interesse, ovvero conoscere le leggi che regolano le dimensioni delle popolazioni (tasso di riproduzione e mortalità; loro movimenti) e i loro cambiamenti, le abitudini degli animali e le preferenze alimentari oltre ai possibili fattori limitanti (ambiente fisico, predazione, parassitismo e competizione) (28). Invece, dal punto di vista più propriamente igenico-sanitario, dovrebbero essere portati avanti studi e ricerche sui fenomeni della resistenza ai rodenticidi anticoagulanti e sulle zoonosi di cui questi animali sono portatori (20). Inoltre, in considerazione del fatto che un eventuale incremento della densità delle popolazioni di specie murine commensali può essere indice di stress ambientale, andrebbe inserito nel sistema di gestione integrata l’uso di questi animali in qualità di indicatori biologici (22, 31) con l’intento di ottenere una conoscenza completa e puntuale, da un punto di vista biologico ed ecologico, del fenomeno infestativo assieme a dati indicativi della qualità dell’ambiente (vedi figura 2). I dati ottenuti sono suscettibili di essere trasferiti ad un sistema informativo territoriale (GIS) che, collegando un parametro considerato alla sua posizione geografica, permetta di visualizzare le aree infestate e/o infestabili e di correlare i differenti stati infestativi con parametri ambientali opportunamente scelti, di verificare le variazioni della densità delle popolazioni murine in seguito agli interventi e di prevedere l’andamento del fenomeno nel tempo (29). La realizzabilità di un tale programma dovrebbe dunque prevedere la creazione di centri di osservazione dislocati sul

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territorio permanenti e centralizzati, nei quali si possano considerare, con un modello interattivo, i bioindicatori di patogenesi e mutagenesi, i dati epidemiologici ed i parametri ambientali specifici e complessivi e dai quali la risposta di "output" possa ritornare in termini operativi. Nonostante tutto, finora pochi esempi di programmi di questo tipo (15, 20) hanno avuto successo nell’integrare gli aspetti più propriamente ecologici con quelli igienico-sanitari, per esempio Budapest, Kuwait, Boston, forse anche perché, sebbene il problema del controllo dei Roditori in ambiente urbano sia importante, l'interesse politico e gli investimenti nella ricerca permangono attualmente bassi, sia in Italia che negli altri paesi europei.

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ZOONOSI AGENTE CARATTERISTICHE

MALATTIE VIRALI Coriomeningite linfocitaria

Arenavirus spp. Infezione silente nei roditori, si manifesta clinicamente nell’uomo. Il serbatoio è Mus domesticus.

Febbre emorragica con sindrome renale

Hantavirus spp. Diverse specie di Roditori (M. domesticus, R. rattus, R. norvegicus) sono portatori asintomatici.

MALATTIE Spirilli, ritrovati in Rattus norvegicus, R. rattus e Mus domesticus, hanno scarsa tendenza a sviluppare la malattia nei Murini.

Leptospirosi Leptospira interrogans

Salmonellosi Salmonella spp. I Roditori rappresentano solo una delle diverse fonti di infezione per l’uomo.

Febbre da morso di ratto

Spirillum minus; Streptobacillus moniliformis

Trasmessa attraverso il morso di ratti portatori asintomatici.

Tularemia Francisella tularensis I vettori sono zecche parassite di lagomorfi e piccoli roditori selvatici nei quali l’infezione può portare alla morte.

Malattia di Lyme Borrelia burgdorferi I vettori sono zecche del genere Ixodes. Roditori selvatici (Apodemus) ma anche sinantropi (Rattus) fungono da serbatoi.

Peste Yersinia pestis Il vettore principale è la pulce Xenopsilla cheopis parassita di ratti.

COLITE BATTERICA Escherichia coli Trasmissione all’uomo conspecifica o da animali domestici infetti. Il ruolo dei Roditori nella trasmissione della malattia non è chiarito.

CAMPILOBACTERIOSI Campilobacter spp. Trasmessa all’uomo da cibi di derivazione animale. Il ruolo dei Roditori nella trasmissione della malattia è poco investigato.

MALATTIE DA Tifo murino Rickettsia mooseri (R.

typhi) R. norvegicus e R. rattus sono i principali serbatoi, la pulce Xenopsilla cheopis il vettore.

Febbre bottonosa Rickettsia conorii Trasmessa dalla zecca Rhipicephalus sanguineus l’infezione è mantenuta attraverso le loro zecche nelle popolazioni di roditori: M. domesticus, A. sylvaticus, R. rattus, R. norvegicus.

MALATTIE DA Leishmaniosi Leishmania infantum Cani e ratti (in Europa solo R. rattus

occasionalmente) sono i principali serbatoi. Toxoplasmosi Toxoplasma gondii Roditori e gatti sono i principali serbatoi. Criptosporidiosi Criptosporidium parvum C. parvum, responsabile della malattia nell’uomo,

infetta un gran numero di mammiferi ma il ruolo dei Roditori non è chiaro. C. muris infetta prevalentemente roditori ma raramente l’uomo.

Malattie da elminti Trichinellosi Trichinella britovi La volpe è il serbatoio principale, ma l’agente è stato

isolato anche in R. norvegicus e R. rattus. Imenolepiosi Hymenolepis nana e H.

diminuta Il cestode H. nana utilizza raramente ratti come ospiti intermedi, mentre H diminuta è parassita comune di ratti e utilizza invertebrati come ospiti intermedi.

Capillariosi epatica Capillaria hepatica Il verme adulto vive nel fegato di diversi animali, specialmente topi e ratti, depositandovi uova trasmissibili per via alimentare e predazione.

MALATTIE DA Dermatomicosi Microsporum spp.;

Trichophyton spp.; Epidermophyton spp.

Miceti dermatofiti vengono facilmente isolati in roditori selvatici.

Tabella 1: Patogeni dei Roditori commensali e loro interesse zoonotico.

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AMBIENTE URBANO

CARATTERISTICHE ECOLOGICHE DI BASE

PRE CECEDNTE QUALIT À DEL TERRIT ORIO

CENOSI VE GETALI

CENOSI ANIM ALI

INTERAZIONI ECOLOGICHE

SALUTE

MICRORGANISMI

UOM O

SOCIETÀ

CICLI PRODUTTIVI

CICLI MERCE OLOGICI

ESPE RIENZE DI LABORAT ORIO

BIOINDICATORI

DIVERSITÀFATTORI DI PERTINENZA ANTROPICA

CONTAMINANTI FISICI E /O CHIMICI

FUNGHILICHENI

GRAMINACEEPIANTE

COLTIVATEPIANTE RARE

LUCERTOLE

M OLLUSCHIPESCI

ANURI

ANE LLIDISCARABEI

SCARAFAGGI

PASSERISTORNI

APIDROSOFILE

M OSCHEZANZARE

PARASSITI

ANIM ALI DOMESTICI

INSETTIVORIPIPIST RE LLI

RATTITOPI

Figura 1 - Principali fattori determinanti le potenzialità informazionali dell'ambiente urbano (l'apice delle frecce indica le potenzialità interne e/o esterne al sistema). Figura 2 -Interazioni tra le necessità informative e l'obbiettivo principale del controllo dei Roditori infestanti in ambiente urbano.

Ecologia

Patogeni

Dinamica di popolazione

Studio della resistenza

Effetti biologici degli inquinanti

ambientali

Strategia dicontrollo

ABBATTIMENTO DEL RISCHIO MURINO E

DETERMINAZIONE DELLA QUALITA’ DELL’AMBIENTE

Rodito

ri

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Il controllo dei roditori in città e negli allevamenti zootecnici

Dario Capizzi Esperto di roditori di interesse urbano e sanitario

Nell’ambito dei Mammiferi, i Roditori costituiscono l’Ordine che annovera il maggior numero di specie. Secondo l’ultima revisione tassonomica (Wilson & Reeder, 1993), i Roditori racchiudono ben 1999 specie, suddivise in due sottordini. I caratteri che permettono di distinguere i Roditori dagli altri Mammiferi sono da ricercare nella morfologia dentaria. Innanzitutto, (i) essi possiedono incisivi a crescita continua, carattere, questo, in comune con i Lagomorfi, ossia lepri e conigli. Inoltre, (ii) gli incisivi sono rivestiti di smalto più resistente all’usura nella parte frontale, e questo conferisce ai denti dei roditori una maggiore durezza nella parte anteriore, fattore che gli permette di assumere una forma a scalpello. Analogamente ai Lagomorfi, (iii) i Roditori non possiedono denti canini. Infine (iv), la mancanza dei canini produce una lacuna, denominata diastema, all’interno della quale essi possono ripiegare le labbra sigillando così la bocca durante l’erosione. Non è solo l’elevatissimo numero di specie che l’ordine racchiude a testimoniare del grande successo evolutivo che l’ordine dei roditori incontra attualmente. Si tratta infatti di specie diffuse in una grande varietà di ambienti, dalle zone umide, all’ambiente forestale, alle praterie agli ecosistemi urbani. Il grande successo evolutivo dei Roditori è testimoniato inoltre dall’ampia gamma di dimensioni corporee che le varie specie esibiscono: senza uscire dal continente europeo, si passa dai 5 grammi del Topolino delle risaie ai 15 ed oltre chilogrammi dell’Istrice: un rapporto di 1 a 3000! Altra testimonianza del loro successo riguarda la grande varietà di ambienti da essi colonizzati, dalle praterie e le zone coltivate alle grandi foreste, dai pascoli di alta montagna, da cui alcune specie si spingono fin quasi alle nevi perenni, alle zone desertiche ove formano articolate comunità, dalle grandi distese d’acqua, come lagune ed aree paludose, fino agli insediamenti urbani, ove sono tra i parassiti più pericolosi. Alcune specie, infine, sono state in grado di ampliare la loro diffusione originaria fino ad estendere la loro presenza a tutti e cinque i continenti, tanto da guadagnarsi l’appellativo di specie cosmopolite. Importanza economica e sanitaria dei Roditori Nel corso della storia, i Roditori sono stati senza dubbio i vertebrati più nocivi alla salute ed alle attività umane. Nei secoli scorsi, le epidemie di malattie da essi veicolate hanno prodotto perdite incalcolabili alle popolazioni delle città. A titolo di esempio, si consideri il caso della peste, forse la zoonosi che ha arrecato il maggior numero di perdite all’umanità. Nonostante l’importanza dei roditori come vettori di malattie sia sensibilmente diminuita rispetto ad un recente passato, esiste ancora oggi la possibilità che essi veicolino importanti malattie. Tra le più importanti vi sono quelle batteriche, le principali delle quali sono Leptospirosi e Salmonellosi, senza dimenticare la Peste, in netta regressione ma ancora presente in alcune zone di Africa ed Asia, e le Rickettsiosi, tra cui spicca la Borreliosi di Lyme. Tra le malattie da Protozoi citiamo la Toxoplasmosi, il cui agente, il Toxoplasma gondii, è un parassita abituale dei ratti, da cui può essere trasmesso al gatto, che costituisce l’ospite di elezione. Importanti malattie virali sono la Febbre Emorragica con Sindrome Renale, l’Encefalite da zecche ed alcune sindromi solo recentemente identificate, dette da Hantanvirus.

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I Roditori sono inoltre vettori di numerosi patogeni responsabili di malattie proprie degli animali domestici, così come possono rendersi responsabili di danni anche gravi alle colture agricole, alle derrate immagazzinate ed alle attività forestali. Assai importanti sono le implicazioni negative connesse con la loro presenza negli insediamenti umani, a cagione dei rischi per la salute e di contaminazione che tale presenza comporta. Nelle industrie alimentari, ad esempio, la presenza di una popolazione di roditori è da considerarsi inaccettabile e come tale costituisce un serio problema, per la cui risoluzione può rendersi necessario l’esborso di somme di denaro rilevanti. Negli ultimi anni, infine, si è presa sempre maggiore coscienza del problema costituito dalla presenza delle specie invasive in ecosistemi assai delicati, come quelli delle isole, ove i roditori, giunti tramite i mezzi di trasporto umani, possono alterare pesantemente l’ecosistema e causare estinzioni nelle popolazioni autoctone (Lever, 1994). Tenendo in considerazione gli ambienti urbani e gli allevamenti zootecnici, le specie maggiormente importanti da un punto di vista economico e sanitario sono essenzialmente le tre definite cosmopolite o, più impropriamente, commensali. Si tratta del Topo domestico (Mus domesticus), del Ratto delle chiaviche (Rattus norvegicus) e del Ratto nero (Rattus rattus), tutte di origine asiatica, ma la cui diffusioni, sebbene con tempi differenti, interessa ormai gran parte delle terre emerse. Le tre specie differiscono notevolmente nei requisiti ambientali, negli aspetti comportamentali e nell’ecologia delle popolazioni. Non è questa la sede per una trattazione di tali aspetti, per cui si rimanda a testi specifici (Santini, 1983; Buckle & Smith, 1994). Giova solo ricordare l’importanza fondamentale di conoscere la specie o le specie contro cui va indirizzato il trattamento, per non incorrere in grossolani errori di valutazione che possono pregiudicare il successo degli interventi. Riduzione della capacità portante dell’ambiente e misure di esclusione Come regola generale, è possibile affermare che la dimensione della popolazione di un parassita è funzione delle caratteristiche dell’ambiente. Anche nel caso dei roditori, non si sfugge a questa regola: maggiori sono le opportunità di rifugio e le fonti alimentari offerte dall’ambiente, potenzialmente maggiore sarà la popolazione infestante. Innanzitutto, occorre individuare le fonti alimentari. E’ un fatto ben noto che le condizioni igieniche carenti possano offrire ai parassiti il nutrimento necessario per sopravvivere. A titolo d’esempio, la distribuzione involontaria di cibo nella zone destinate all’accumulo degli scarti è spesso un fattore importante, così come la mancata pulizia dei macchinari fa sì che al loro interno vi siano abbondanti residui di cibo. Negli allevamenti zootecnici il non perfetto operare delle macchine che distribuiscono il cibo agli animali domestici crea dispersioni di prodotto e quindi importanti punti di foraggiamento per i roditori. La presenza di una grande quantità fessure in comunicazione fra di loro costituisce un’importante possibilità di rifugio per i roditori. Una volta entrati, perciò, essi potranno insediarsi con facilità, ubicando al loro interno il nido e costituendo una rete di percorsi per spostarsi all’interno dello stabilimento. L’individuazione dei percorsi e delle zone di rifugio è una parte fondamentale nella messa in atto di un piano di controllo. Per impedire gli ingressi di nuovi individui, vanno realizzati adeguati provvedimenti di esclusione. La messa in atto di efficienti misure di esclusione ha una parte assai importante nel successo della lotta contro topi e ratti. Pertanto, prima di intraprendere una qualsiasi forma di lotta, è necessario un monitoraggio ed eventualmente una messa a punto delle strutture dell’edificio in cui si opera. Materiali e criteri per la lotta ai roditori Paradossalmente, nonostante i continui affinamenti delle strategie ed un evidente progresso nella qualità dei materiali a disposizione, dal punto di vista concettuale le tecniche di lotta ai Roditori di comune impiego sono rimaste sempre le stesse nel corso dei secoli. Esse si dividono essenzialmente in due tipi, ossia l’uso di trappole e la distribuzione di esche avvelenate. Questo nonostante siano state continuamente tentate altre vie, quali quelle della

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realizzazione di congegni ad ultrasuoni od infrasuoni, che poca efficacia hanno dimostrato sul campo (Meehan, 1984), così come l’introduzione di predatori o patogeni, che in alcuni casi si è rivelata addirittura un boomerang, nonché il tentativo di agire sul tasso riproduttivo degli individui, rendendo sterili gli accoppiamenti mediante sostanze contraccettive, tecnica che forse nel futuro potrà essere impiegata con maggiore successo. I rodenticidi Allo stato attuale, gran parte del merito del successo negli interventi di controllo contro i roditori va certamente attribuito ai potenti e relativamente sicuri rodenticidi a disposizione degli applicatori professionisti. Nella quasi totalità dei casi, si tratta di esche tossiche a base di prodotti anticoagulanti. Se il meccanismo d’azione dei vari anticoagulanti è il medesimo (essi agiscono inibendo la biosintesi della vitamina K, essenziale per il verificarsi della coagulazione del sangue, provocando così emorragie interne), assai differenti tuttavia sono le tossicità (espresse come DL50 acuta orale) dei diversi principi attivi (cfr Buckle, 1994). Introdotti sul mercato negli anni ’50, gli anticoagulanti hanno col passare degli anni visto potenziare notevolmente la loro azione tossica. Si è passati da anticoagulanti la cui tossicità si manifestava compiutamente solo in seguito a più assunzioni dell’esca, ad altri che si rendono efficaci anche in seguito ad una singola assunzione. Tra i primi, denominati anticoagulanti della prima generazione, vi sono prodotti ancora molto diffusi in virtù della relativamente scarsa pericolosità nei riguardi di animali domestici ed esseri umani, quali Warfarin, Clorophacinone e Coumatretralyl, nonostante l’efficacia nettamente minore rispetto ai più moderni anticoagulanti. Gli anticoagulanti della seconda generazione, denominati anche “a dose singola”, sono oggi quelli maggiormente utilizzati. Appartengono a questa famiglia cinque principi attivi sintetizzati e posti sul mercato a partire dagli anni ‘70, quali Bromadiolone, Difenacoum, Brodifacoum, Flocoumafen e Difethialone. Per ottenere che il principio attivo sia ingerito dai roditori, il sistema più immediato è quello di presentarlo mescolato a sostanze che lo rendano appetibile, cioè sotto forma di esca tossica. La formulazione è il modo in cui il principio attivo viene presentato ai roditori. In base a queste considerazioni, è chiaro che uno stesso principio attivo può essere presentato in diverse formulazioni. Ad esempio, il Brodifacoum può essere presentato sotto forma di bustine di pasta, di blocchi paraffinati o di grani sfusi. Naturalmente, ogni formulazione presenta caratteristiche proprie in termini di durevolezza, di appetibilità e di sicurezza, ossia la difficoltà che incontra il roditore nella traslocazione dell’esca in questione. E’ l’esperienza del professionista a giocare un ruolo determinante nella scelta della formulazione, una fase cruciale nella pianificazione degli interventi. Tra le formulazioni più versatili vi sono le esche in blocchi e le bustine di pasta e cereali che, ciascuna con i propri limiti, trovano larga applicazione da parte dei professionisti del settore. Precauzioni nell’uso dei rodenticidi Nonostante l’indiscutibile pregio di essere efficaci anche a dosi assai ridotte, l’utilizzo fin troppo disinvolto degli anticoagulanti della seconda generazione pone seriamente il problema della sicurezza degli interventi di controllo. Per ridurre il più possibile il rischio di intossicazioni accidentali a carico di animali non bersaglio ed esseri umani, soprattutto bambini, è necessario operare con molta responsabilità, adottando le necessarie precauzioni. Si sta sempre più diffondendo l’utilizzo di appositi contenitori per le esche tossiche, denominati “erogatori di esche” o “stazioni di avvelenamento”, aventi la funzione principale di proteggere l’esca dalle specie non bersaglio, rendendola disponibile solo per le specie oggetto del trattamento. L’erogatore deve svolgere inoltre alcune altre funzioni assai importanti, quali quella di fungere da postazione di monitoraggio, ove tornare ad intervalli prefissati e registrare l’andamento dei consumi di esca, nonché di costituire un luogo ove il roditore si trovi più a suo agio possibile, e vi resti un tempo sufficientemente lungo per consumare la dose letale. L’erogatore dovrebbe potere essere ancorato ad un supporto solido, come ad esempio la parete di un edificio, nonché prevedere la possibilità di fissaggio dell’esca al suo interno, onde evitarne la traslocazione da parte dei roditori.

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Altro accorgimento che può essere adottato è quello di utilizzare esche contenenti sostanze deterrenti al gusto per gli esseri umani, come il Denatonio Benzoato, efficace nel proteggere l’esca dall’ingestione accidentale da parte dei bambini, ma -alla concentrazione di 10 ppm- non avvertibile dai roditori. Un problema connesso con l’utilizzo degli anticoagulanti è quello della possibilità dello sviluppo della resistenza da parte dei roditori. La possibilità è particolarmente concreta nel caso si utilizzino anticoagulanti della prima generazione, mentre gli anticoagulanti della seconda generazione, in special modo Brodifacoum, Flocoumafen e Difethialone, risultano maggiormente sicuri (Greaves, 1994). I dispositivi di cattura Negli ultimi anni, si è assistito ad un progressivo ritorno di interesse nei confronti dei dispositivi di cattura come mezzo per controllare le popolazioni di roditori negli ambienti umani. I dispositivi di cattura si dividono in due gruppi principali, ossia trappole meccaniche e trappole collanti. Tra i dispositivi del primo tipo sono assai diffusi quelli che sfruttano essenzialmente la curiosità innata negli animali nel visitare nuovi oggetti posti nel loro territorio. In virtù di questa caratteristica, essi sono maggiormente adatti per il controllo del Topo domestico, mentre risultano di minore efficacia nei confronti dei ratti, per loro natura molto più diffidenti e cauti nell’esplorare le novità. Anche le trappole collanti sono assai efficaci nei riguardi del Topo domestico, mentre più difficile è catturare entrambe le specie di ratti, di cui è più facile catturare i giovani (cfr Corrigan, 2001). Le trappole collanti presentano però il limite di produrre eccessive sofferenze negli animali catturati, fattore che in alcuni paesi europei particolarmente attenti alle problematiche del benessere animale, come ad esempio l’Inghilterra, ne ha fortemente limitato l’utilizzo. In generale, i dispositivi di cattura si prestano ad essere utilizzati soprattutto nelle aree interne di fabbricati, in tutte quelle situazioni in cui l’utilizzo di esche tossiche non garantisca risultati adeguati o costituisca un ingiustificato fattore di rischio in relazione alle caratteristiche dell’ambiente in cui si opera. Tuttavia, è necessario ricordare che l’uso dei dispositivi di cattura comporta la predisposizione di controlli assai frequenti, onde evitare che gli individui catturati muoiano e vadano in decomposizione, costituendo un potenziale fattore di contaminazione per l’ambiente in cui si opera. In molti casi, è possibile pensare ad un integrazione delle due tecniche, che, se utilizzate in sinergia, consentono di ampliare notevolmente lo spettro di azione. Ciò avviene ad esempio nelle industrie alimentari, ove nelle aree esterne la difesa è affidata a postazioni di avvelenamento disposte a distanze più o meno regolari tutt’intorno all’edificio da proteggere, a volte anche a formare due cinture concentriche, la prima lungo la recinzione esterna, la seconda a ridosso delle pareti del fabbricato. Nelle aree interne si ricorre all’utilizzo di dispositivi di cattura, quali trappole meccaniche o collanti, o di entrambi i tipi, disposti a distanze prefissate, con l’accortezza di disporli in numero maggiore nei luoghi ove vi sia maggiore evidenza dell’attività degli animali. In conclusione, la scelta fra l’utilizzo di rodenticidi o dispositivi cattura dipende in gran parte dalle caratteristiche dell’ambiente in cui si opera e dalla natura dei rischi che l’uso di tali tecniche comporta. E’ necessario ricordare, tuttavia, che un decisivo apporto alla risoluzione del problema sarà offerto dalla messa in atto di misure di sanificazione e, ove possibile, dall’adozione di adeguati provvedimenti di esclusione. Bibliografia Buckle, A.P. (1994) Rodent control methods: chemical. In: Buckle, A.P., Smith, R.H. (Eds): Rodent pest and their control. Cab International, University Press, Cambridge, UK: 117-160. Buckle, A.P., Smith, R.H. (1994) Rodent pest and their control. Cab International, University Press, Cambridge, UK.

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Corrigan, R.M. (2001) Rodent control: a practical guide for pest management professionals. GIE Media, Cleveland, Ohio Greaves, J.H. (1994) Resistance to anticoagulants rodenticides. In: Buckle, A.P., Smith, R.H. (Eds): Rodent pest and their control. Cab International, University Press, Cambridge, UK: 197-218. Lever, C. (1994) Naturalized animals. The ecology of successfully introduced species. T&AD Poyser Natural History, London. Meehan, A.P. (1984) Rats and mice. Rentokil Ldt, Felcourt, East Grinstead, UK, pp 383. Santini, L. (1983) I Roditori italiani di interesse agrario e forestale. CNR AQ/1/232, Padova. Wilson, D.E., Reeder, D.M. (1993) Mammal species of the world: a taxonomic and geographic reference. 2nd edition. Smithsonian Institution Press, Washington.

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Infestanti del verde cittadino: interventi in qualità

Nicoletta Vai Servizio Fitosanitario – Regione Emilia Romagna

Qualità del verde per una migliore qualità dell’ambiente urbano. Può sembrare uno slogan, viceversa è un’esigenza reale oggi avvertita da gran parte di coloro che vivono in città. Le condizioni sempre più degradate degli ambienti urbani hanno fatto sì che anche l’albero posto nella strada o nella piazza sotto casa abbia assunto un’importanza sociale e, così come la cura e la custodia del territorio sono ormai a pieno titolo parte integrante della nostra cultura, anche la cura ed il rispetto delle piante sono divenuti patrimonio comune. Negli ultimi anni è aumentata la richiesta di nuovi spazi verdi belli, sani, fruibili a tutti, tanto che il verde pubblico è entrato nelle scuole attraverso programmi e progetti di educazione ambientale. Contemporaneamente, si sono sviluppate tecniche e specializzazioni indirizzate a far sì che gli alberi, divenuti così importanti, possano vivere nelle migliori condizioni e di conseguenza possano rendere i nostri ambienti più a misura d’uomo. Che cosa si intende per verde di qualità? Se si pone questa domanda ai tecnici addetti alla gestione e manutenzione del verde pubblico, risultano di qualità le aree progettate razionalmente, con specie vegetali adeguate agli spazi disponibili e, possibilmente che richiedano pochi interventi manutentivi. Se si fa lo stesso quesito ai cittadini, probabilmente ci si sente rispondere che è di qualità un verde bello da vedere, accessibile, sicuro, privo di “organismi estranei”, per esempio di insetti i quali, nella maggior parte dei casi, determinano un fastidio ed un atteggiamento di rifiuto da parte delle persone. Gli infestanti del verde cittadino rappresentano quindi un problema per i tecnici e gli amministratori, in alcuni casi per la loro pericolosità verso le piante ospiti ma, molto più spesso, a causa della loro invasività e del modo in cui vengono percepiti dai cittadini. Per impostare piani di difesa che perseguano comunque l’obiettivo della qualità, è indispensabile scindere i casi che effettivamente rappresentano un pericolo o un reale disturbo, da quelli che, al contrario, non costituiscono una minaccia né per la vitalità delle specie vegetali né per la sicurezza dei cittadini. Tra gli insetti che possono minare la vitalità delle specie su cui si insediano occorre ricordare gli xilofagi in generale (es. Cerambix cerdo, Scolytus multistriatus, S.sulcifrons, ecc.) ed alcune cocciniglie (es. la cocciniglia bianca dell’evonimo, Unaspis euonymi). Di minore gravità risultano i danni causati da insetti che si sviluppano solitamente a carico dell’apparato aereo e che difficilmente precludono la vitalità delle piante. Tuttavia, in situazioni particolari, possono richiedere la messa a punto di specifici interventi in quanto esercitano un’azione di disturbo nei confronti dei cittadini. A questo proposito ricordiamo le infestazioni determinate da: - Afidi e psille (es. Eucallipterus tiliae, Cinara cedri, Cinara cupressi, Phylloxera quercus, ecc.): i problemi creati dalla melata, costituiscono il vero motivo di disturbo provocato da questi fitomizi. Da non sottovalutare, nella messa a punto degli interventi di difesa, il ruolo di contenimento esercitato dai numerosi nemici naturali (predatori e parassitoidi) di questi insetti. - Metcalfa pruinosa: l’estrema polifagia e diffusione ne rendono spesso difficile un contenimento efficace. I lavaggi della vegetazione rappresentano, a tutt’oggi, uno strumento utile a ridurre i disagi provocati dalla melata. Buone prospettive di controllo biologico del fitomizo sono quelle relative all’effettuazione di lanci inoculativi del parassitoide Neodrinus typhlocibae. - Tingide del platano (Corythucha ciliata): anche in questo caso, più che per il danno prodotto agli alberi, l’insetto risulta fastidioso per chi staziona vicino alle piante infestate (abitazioni, scuole, luoghi pubblici di incontro, ecc). I trattamenti chimici alla chioma non sono di facile

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attuazione in ambiente urbano, soprattutto quando si deve intervenire su piante di notevole sviluppo, poste lungo i viali o i parchi cittadini. Il controllo dell’insetto è particolarmente efficace con le applicazioni al tronco (iniezioni endoxilematiche). Numerose le sperimentazioni in atto, sia per individuare i principi attivi più efficaci, sia per mettere a punto la tecnica di distribuzione che arrechi i minori danni alle piante trattate. - Lepidotteri defogliatori (Hyphantria cunea, Lymantria dispar, ecc.): le larve di questi insetti possono causare vistose defogliazioni a numerose latifoglie. Buono il controllo ottenuto mediante trattamenti con prodotti a base di Bacillus thuringiensis. - Cameraria ohridella dell’ippocastano: le consistenti infestazioni del fillominatore hanno determinato in questi ultimi anni vistosi disseccamenti e precoci defogliazioni della chioma. Attacchi di Cameraria ohridella ripetuti negli anni, riducono lo sviluppo vegetativo delle piante e ne compromettono il ciclo biologico: spesso si può verificare una seconda fioritura degli ippocastani verso la fine dell’estate. In tabella 1 sono schematizzati i danni determinati dai principali gruppi di insetti che infestano il verde cittadino. Tab.1 – Danni prodotti dai principali infestanti del verde urbano DANNO

ESTETICO DISTURBO AI CITTADINI

MORTE DELLA PIANTA

Afidi ♦ ♦ Metcalfa pruinosa

♦ ♦

Corythucha ciliata

♦ ♦

Cocciniglie ♦ ♦ ♦ Lepidotteri defogliatori

♦ ♦

Cameraria ohridella

♦ ♦ ♦

Xilofagi (Lepidotteri, Coleotteri)

♦ ♦

La difesa fitosanitaria A seconda delle modalità e degli strumenti con cui viene realizzata, la protezione del verde dai parassiti influisce sulla qualità dell’aria e sulla sostenibilità dell’ambiente urbano. In particolare, la dispersione di preparati ad azione antiparassitaria, può ulteriormente peggiorare le condizioni di vita di chi abita nelle città. Occorre quindi impostare la difesa fitosanitaria integrandola con tutti gli altri interventi che rientrano nella normale gestione e manutenzione del verde pubblico. Anche in questo settore, quindi, è possibile parlare di protezione integrata, il cui scopo è quello di mettere a punto uno schema che organizzi nel modo più razionale possibile le diverse attività connesse al verde pubblico. Questo metodo si prefigge l’impiego di tecniche tese al contenimento e non all’eradicazione delle specie nocive, rispettando al contempo i principi ecologici, tossicologici ed economici privilegiando, quando possibile, la lotta biologica. Se correttamente applicata, la difesa integrata consente di migliorare l’aspetto estetico delle piante ed ampliare le loro possibilità di sopravvivenza, evitare interventi inutili, salvaguardare la salute e la sicurezza dei cittadini

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Per applicare i principi della protezione integrata al verde urbano è fondamentale considerare la pianta come parte integrante di un sistema più ampio della singola aiuola o del singolo viale e indirizzare le strategie di difesa verso la messa a punto di piani integrati volti, in primo luogo, a prevenire gli attacchi parassitari. Per prevenire e limitare la presenza di parassiti si può intervenire sia sulla manutenzione dei vecchi impianti, sia sulla progettazione dei nuovi. Individuare specie idonee all’ambiente, prevedere spazi adeguati che consentano un sufficiente approvvigionamento idrico, impedire il costipamento del terreno, limitare le potature, evitare danni meccanici e l’asportazione di grosse branche sono tutti accorgimenti che contribuiscono a limitare gli attacchi parassitari. Attuare la protezione integrata contro gli infestanti del verde urbano significa pertanto: Conoscere gli insetti che possono colpire le specie vegetali delle aree urbane Monitorare frequentemente il territorio per individuare tempestivamente la loro presenza e stimarne il rischio di danno Scegliere il criterio e il momento ottimale di intervento Se è necessario ricorrere ad un trattamento con un prodotto chimico, individuare prodotto giusto e modalità di distribuzione più appropriata, che garantisca la minor dispersione possibile nell’ambiente. Mezzi di lotta biologici e biotecnici I metodi di lotta alternativi ai tradizionali trattamenti chimici, assumono sul verde pubblico un ruolo fondamentale. La protezione biologica può essere efficacemente realizzata nei confronti di alcuni insetti ed acari fitofagi. I mezzi biologici e biotecnici attualmente impiegabili comprendono il ricorso ad entomofagi (predatori e parassitoidi), a microrganismi ed a feromoni sessuali. Relativamente agli entomofagi, esistono già alcuni casi applicativi: Il controllo di Metcalfa pruinosa con il parassitoide Neodryinus typhlocybae L’utilizzo del fitoseide Amblyseius cucumeris contro infestazioni di tripidi (Thrips tabaci, Frankliniella occidentalis, Heliothrips haemorroidalis) su piante da fiore in aiuole o in vaso. Lanci di Phytoseiulus persimilis per il controllo del ragnetto Tetranychus urticae (questo impiego è particolarmente indicato per aiuole fiorite) Per quanto riguarda i microrganismi, sono soprattutto i preparati a base di tossine specifiche di batteri a rivestire importanza nella difesa biologica contro i fitofagi delle piante ornamentali. E’ ormai consolidato l’impiego di Bacillus thuringiensis ssp. Kurstaki contro le giovani larve dei Lepidotteri defogliatori (ifantria americana, processionaria del pino e altri). L’uso di feromoni sessuali, infine, trova impiego nel monitoraggio e nella lotta contro alcune specie di Lepidotteri fitofagi. Trappole a feromone sono infatti spesso impiegate sul verde pubblico per il monitoraggio di Lepidotteri defogliatori (Lymantria dispar, Hyphantria cunea) e Lepidotteri minatori (Cameraria ohridella); possono inoltre essere utilizzate per la cattura massale dei maschi di Lepidotteri xilofagi (Cossus cossus e Zeuzera pyrina) e della processionaria del pino Trattamenti chimici Nell’ambito del controllo degli infestanti del verde in città, gli interventi chimici devono essere considerati metodi di contenimento temporaneo, da effettuarsi solo con certi prodotti e secondo criteri che prevedano: Individuazione della soglia di danno Scelta del momento di intervento (strettamente correlata alle caratteristiche biologiche del parassita) Individuazione della sostanza attiva da utilizzare e del formulato Ricorso alla modalità di distribuzione più opportuna. La soglia di intervento viene definita dal tipo di danno causato dall’agente nocivo, in funzione del luogo in cui la pianta è ubicata. Per esempio, una bassa infestazione di tingide del platano in una località turistica deve essere attentamente valutata sia per il danno estetico che questo insetto provoca (e che in una zona turistica può immediatamente tradursi in un danno economico), sia per il fastidio determinato dai diversi stadi dell’insetto, in quanto

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moderatamente urticanti. Al contrario, infestazioni anche massicce su filari di platani isolati o comunque lontani da abitazioni e luoghi a fruizione pubblica non rappresentano un problema e non giustificano in genere l’effettuazione di specifici trattamenti. Analoghe considerazioni riguardano un altro insetto, la processionaria del pino. Poiché le larve sono altamente urticanti per le persone, non è ammessa la presenza di nidi dell’insetto su pini posti in prossimità di scuole, ospedali, giardini pubblici. Nella scelta della sostanza chimica alla quale ricorrere, occorre considerare sia dei parametri tecnici, sia dei riferimenti normativi. Dal punto di vista tecnico, il principio attivo da impiegare verso un determinato agente infestante deve tenere conto dei seguenti aspetti: Campo di impiego L’etichetta del formulato deve riportare l’utilizzo su verde pubblico oppure la registrazione per le colture ornamentali. Rischio tossicologico per l'uomo - Questo aspetto deve essere valutato sia per quanto riguarda gli effetti a breve termine (tossicità acuta) sia per quelli a lungo termine (tossicità cronica). E’ importante escludere dall’impiego in città i prodotti classificati come molto tossici, tossici e nocivi (per il cui acquisto ed impiego occorre il "patentino"), preferendo quelli cosiddetti non classificati (NC oppure MCP). Vanno altresì esclusi i prodotti per i quali sono riportate in etichetta particolari frasi di rischio quali “possibilità di effetti irreversibili”, oppure “pericolo di gravi danni per la salute in caso di esposizione prolungata”, o ancora “possibile rischio di danni ai bambini non ancora nati”. Rischio per l'ambiente - In etichetta, a seconda delle caratteristiche del prodotto, possono essere specificate ulteriori frasi di rischio che forniscono indicazioni circa il maggiore o minore impatto del prodotto sull'ambiente (organismi acquatici, fauna terricola, animali domestici, ecc.). Devono essere esclusi dall'impiego in città quei prodotti pericolosi sulle varie componenti ambientali. Efficacia verso il bersaglio Selettività nei confronti degli organismi utili, specie per quelli dotati di un ruolo attivo nella regolazione delle popolazioni dannose. I principi attivi ad ampio spettro d’azione devono essere utilizzati in via eccezionale, per infestazioni non controllabili con prodotti selettivi. Assenza di fitotossicità o di effetti collaterali per le piante oggetto del trattamento. Per quanto riguarda gli aspetti legislativi, oggi la norma cui fare riferimento anche in questo settore è il decreto legislativo n. 194/95, che ha recepito la direttiva CE 91/414 in materia di “Immissione in commercio di prodotti fitosanitari”. Tale normativa ha, tra l’altro, introdotto il termine di prodotti fitosanitari, il quale ha sostituito i precedenti di presidi sanitari e presidi medico-chirurgici. I preparati autorizzati successivamente all’emanazione del decreto 194/95, riportano in etichetta la dicitura “prodotto fitosanitario” con specifiche autorizzazioni relativamente al campo d’impiego. Nel settore ornamentale, per esempio, sono previsti i seguenti campi d’impiego: aree di svago, parchi pubblici, colture protette, ecc. Gli ex presidi medico-chirurgici sono stati successivamente definiti prodotti fitosanitari per piante ornamentali (P.P.O.) con la Circolare del Ministero della Sanità n. 7 del 15/4/99. Questa circolare ha ribadito che “trattasi di prodotti destinati ad essere impiegati esclusivamente per la protezione delle piante ornamentali e dei fiori da balcone, da appartamento e da giardino domestico ed a svolgere attività acaricida, battericida, fungicida, insetticida, molluschicida, nematocida, repellente, viricida, fitoregolatrice o altra”. Sulla base di quanto sopra, per l’esecuzione di trattamenti chimici su verde pubblico, si deve necessariamente ricorrere a preparati autorizzati come prodotti fitosanitari (se si tratta di recenti registrazioni) oppure come presidi sanitari. In etichetta dovrà inoltre essere specificata la coltura (è sufficiente la dicitura “colture ornamentali”) ed il parassita che si vuole combattere. Nella tabella 2 si riporta uno schema dei riferimenti legislativi da conoscere. Tab.2 – Norme per l’impiego di prodotti fitosanitari in ambiente urbano D.P.R. n.223/88 "Attuazione delle direttive CEE 78/631 e 81/291".

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D.Lgs. 194/95 "Recepimento della direttiva CE 91/414 in materia di immissione in commercio di prodotti fitosanitari". Circolare Ministeriale 10/6/1995 n. 17 “Aspetti applicativi delle nuove norme in materia di autorizzazione di prodotti fitosanitari: il D.Lgs 17/3/1995, n.194, di attuazione della direttiva 91/414/CEE e successive modifiche ed integrazioni”. Circolare Ministeriale 15/4/1999 n. 7 “Immissione in commercio di prodotti fitosanitari destinati al trattamento delle piante ornamentali e dei fiori da balcone, da appartamento e da giardino domestico, già disciplinati come presidi medico-chrurgici”. D.P.R. 23 aprile 2001 n. 290 "Regolamento di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione alla produzione, alla immissione in commercio e alla vendita di prodotti fitosanitari e relativi coadiuvanti" L’ultimo aspetto da considerare nell’effettuazione di trattamenti chimici contro gli infestanti del verde, riguarda la scelta del mezzo di distribuzione. 1. Trattamenti alla chioma I prodotti fitosanitari devono essere applicati attraverso tecniche che consentano di limitare al massimo le quantità somministrata e di ridurre il più possibile la dispersione nell'ambiente, al fine di tutelare il più possibile la salute dei cittadini. Quest’obiettivo può essere perseguito anche attraverso l’ottimizzazione dei mezzi di distribuzione. In genere solo il 25-50% della soluzione distribuita arriva direttamente sul bersaglio e risulta quindi efficace ai fini del contenimento delle avversità. E’ necessario pertanto adottare tutte le soluzioni che consentono di aumentare la percentuale di prodotto utile, riducendo nello stesso tempo la quantità distribuita nell’ambiente. Il più efficace ed immediato modo per diminuire la quantità di fitofarmaco impiegata consiste nel ricorso a macchine irroratrici ed altre attrezzature efficienti e correttamente tarate e regolate, sia per ridurre la dispersioni fuori bersaglio, sia per consentire un’ottimale azione di protezione della pianta. Nel caso in cui si affidi a terzi la realizzazione di trattamenti su specie ornamentali in ambito urbano, è opportuno verificare che le attrezzature siano periodicamente tarate e controllate. Quando si opera in parchi pubblici o viali alberati, è indispensabile informare adeguatamente e con almeno 48 ore di anticipo la cittadinanza in merito all’intervento che verrà eseguito. L’irrorazione va eseguita in assenza di vento, nelle prime ore del mattino o in quelle serali. Dopo il trattamento vietare l’accesso, specialmente ai bambini, nelle zone trattate fino a che non sia intercorso un tempo di rientro di almeno 24 ore. Qualora nella zona da trattare vi siano attrezzature sportive o ludiche, è importante assicurarsi che queste vengano adeguatamente protette e successivamente bonificate. 2. Trattamenti endoterapici Consentono di iniettare direttamente nel tronco degli alberi (tramite tecniche diverse) prodotti fitosanitari caratterizzati da proprietà sistemiche. Se correttamente eseguite, tali applicazioni possono rappresentare una valida soluzione per combattere alcuni parassiti difficilmente controllabili con le tradizionali irrorazioni alla chioma (es. tingide su platano, cameraria su ippocastano). Oggi, a seconda di come l'antiparassitario viene introdotto all'interno della pianta, i trattamenti endoterapici si possono suddividere in due categorie: Iniezioni ad assorbimento naturale, se il prodotto viene assorbito attivamente dalla pianta, tramite infusione o perfusione. Iniezioni a pressione o a micropressione, se viceversa il prodotto viene introdotto forzatamente nell'albero. In ogni caso dovranno essere utilizzati preparati registrati per questo campo di impiego, esclusivamente nei confronti dei parassiti specificati in etichetta. La qualità del trattamento endoterapico, intesa sia in termini di efficacia nei confronti dell’insetto bersaglio, sia come assenza di effetti indesiderati sull’albero sottoposto ad iniezioni, è strettamente dipendente da una serie di fattori. Tra questi vanno attentamente considerati:

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Stato vegetativo e sanitario delle alberature, il quale incide sui tempi di assorbimento, sulla trasclocazione del prodotto e sulla cicatrizzazione esterna dei tessuti. Attrezzature impiegate Preparazione tecnica degli operatori Formulati impiegati. Se si utilizzano insetticidi registrati per questo campo di impiego, non dovrebbero verificarsi problemi di fitotossicità sugli alberi trattati. Senza entrare ulteriormente nel dettaglio, si ricorda che l’endoterapia consente una riduzione delle dosi di applicazione ed una prolungata persistenza d’azione rispetto alle irrorazioni alla chioma. Inoltre evita la dispersione degli antiparassitari nell’ambiente, quindi offre maggiori garanzie relativamente alla tutela di salute e sicurezza delle persone. Per contro, i trattamenti endoterapici risultano più costosi dei trattamenti tradizionali e comportano effetti negativi dovuti all’apertura di ferite. Tali ferite, oltre a favorire la penetrazione di patogeni, possono ledere, specialmente nei soggetti con problemi di piccole carie incipienti, le barriere di difesa della pianta. Il ruolo dell’informazione L’impostazione di piani di protezione del verde dagli agenti infestanti con l’obiettivo della qualità, deve infine prevedere adeguate campagne di informazione e divulgazione nei confronti dei cittadini. Gli interventi realizzati sulle piante in città (nuovi impianti, potature, interventi di difesa, abbattimenti, ecc.) non passano inosservati. Per far sì che le persone siano educate e stimolate alla cura ed al rispetto di un bene che è loro a tutti gli effetti, è indispensabile sollecitare il loro interesse alla gestione della cosa pubblica che in questo caso si identifica con giardini, parchi, viali alberati. Ogni intervento che riguarda il verde cittadino deve prima di tutto essere ben studiato e successivamente fatto conoscere alla cittadinanza. Attraverso forme di consultazione ed assemblee pubbliche razionalmente organizzate e condotte, è opportuno coinvolgere i residenti nelle scelte ambientali che si vogliono operare, attuando di fatto iniziative di progettazione partecipata, in cui i diretti fruitori del verde abbiano la consapevolezza che l’Amministrazione pubblica è attenta alle loro esigenze. Potranno così essere illustrati interventi “poco comprensibili” (es. abbattimento di alberature destabilizzate dalla carie del legno o di un tratto di platani affetti da cancro colorato); si esporranno i trattamenti di difesa che si intendono o non si intendono effettuare, motivando le scelte tecniche operate. L’informazione può inoltre realizzarsi attraverso stampa, radio, televisione. Molto importante è anche l’informazione “sul cantiere”, tramite cartelli chiari, illustrati ed anche attraverso personale paziente, preparato, disponibile. Un ruolo fondamentale nell’ambito delle iniziative di informazione, è svolto dall’educazione ambientale nelle scuole. Insegnando ai bambini a conoscere e a rispettare le piante della città e tutti gli organismi che su di esse vivono, non solo si aumenta la consapevolezza alla tutela dell’ambiente, ma si riescono anche a trasmettere importanti informazioni, messaggi e “comportamenti” alle famiglie.

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Riflessioni sul controllo delle blatte in Italia

Guglielmo Pampiglione Università degli Studi di Bari, Facoltà di Medicina Veterinaria, Laboratorio di Parassitologia

PREMESSA "Blatte addio", questo promettente titolo, apparso su Polizia Sanitaria (2000), non ha avuto purtroppo il seguito che ci si sarebbe potuti aspettare almeno nelle aree cosiddette "sensibili" quali ospedali, cucine, mense, scuole, industrie alimentari, appartamenti, aree ristrette con presenza di persone o di animali . Nel 1987 viene scoperto il fipronil, nuova molecola del gruppo fenilpirazoli. Nel 1998 il principio attivo (p.a.) viene registrato in Italia come formulato insetticida in pasta gel, Goliath GelR . Per gli la particolarità (alta efficacia ed attrattività della pasta alimentare sulle specie di blatte) che questo formulato offre, vediamo per la prima volta l'azzeramento di quelle infestazioni che erano considerate "croniche". Si passa così da un sistema di disinfestazione prevalentemente invasivo (irrorazione delle aree infestate) ad uno micro-invasivo (applicazioni mirate con mini-dosatori). Finalmente riemergono e si presentano altri "blatticidi in pasta gel" che fino a questo momento non avevano trovato né un mercato né una sensibilizzazione pubblica matura. Nel 1997 compare il RovosR (p.a. acido borico) precursore dei formulati in pasta gel e il Max ForceUltraR (p.a. idrametilnon) che però, come il RovosR, non riesce ad imporsi. Nel 2000 il FaslaneR (p.a. idrametilnon) e nel 2001 il Solfac GelR (p.a. imidacloprid) trovano un mercato meno diffidente rispetto al passato. Il primo è un prodotto Colkim, il FaslaneR appartiene all’industria BASF, mentre tutti gli altri, compreso il Goliath GelR, sono oggi marchi Bayer. In altri paesi, ma non in Italia, l’impiego degli insetticidi-gel è recepito in maniera più ampia. Negli Stati Uniti d'America per esempio si trovano decine di formulati diversi. A distanza di quasi cinque anni dal lancio del formulato che fece "corrente" si trovano tuttora mense di ospedali, ristoranti e altre aree sensibili con scarafaggi dove continuano ad essere impiegati i vecchi metodi con tutte le complicanze che ne derivano. Prima tra tutte la contaminazione chimica con prodotti tossici. Come è possibile? La risposta è semplice. Il settore professionale della disinfestazione/derattizzazione italiano soffre di una normativa ambigua, per esempio non è previsto un "patentino" professionale per l'impiego dei Presidi Medico Chirurgici (PMC). La frase che si può trovare su alcune etichette " …prodotto riservato solo a personale qualificato…", non ha pertanto un reale significato. Nulla si dice infatti del tipo di qualifica richiesta, né dove e come si consegue. La categoria più rappresentativa (Associazione Nazionale delle Imprese di Disinfestazione, ANID) dei “professionisti della disinfestazione” sembra al momento incapace di raggruppare tutti gli operatori del settore ("143" inscritti su più di un migliaio di aziende presenti) e di svincolarsi dalle industrie chimiche. I Servizi di Prevenzione e di Controllo Territoriali e i Comuni spesso ignorano la problematica o non sono formati sufficientemente per risolverla. Spesso i contenuti degli appalti delle gare pubbliche in materia di disinfestazione e derattizzazione ne sono un esempio lampante. Prevenzione, monitoraggio, formulati a basso impatto ambientale, ecc. sono per lo più "parole di circostanza" di cui non se ne conosce il reale significato pratico. Ed infine, il Pubblico inteso come cittadinanza, si presenta non sempre sensibile alla protezione dell'ambiente è spesso e vittima degli stereotipi chimici. Tutti questi aspetti sono marcatamente più evidenti nelle regioni meridionali rispetto a quelle centrali e settentrionali. Cosa possono fare o chiedersi gli Operatori della Prevenzione (OdP) in questa situazione? Approfondire le conoscenze sulla biologia delle blatte. Impratichirsi dei sistemi di monitoraggio degli ambienti tramite l'impiego delle trappole collanti. Conoscere gli insetticidi per uso civile in maniera appropriata.

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Capire che nelle "aree sensibili" l'impiego degli insetticidi tradizionali (pompe-spruzzatori) risulta obsoleto comportando troppi svantaggi. Questo è vero anche di fronte a infestazioni molto intense di insetti. Controllare se le pulizie sono eseguite in maniera corretta. Controllare se il monitoraggio ambientale a mezzo di trappole collanti per uso professionale sia presente. Controllare se le tracce (segni fecali e carcasse di insetti) delle precedenti infestazioni sono state rimosse affinché non si compiano errori di valutazione. Controllare se sia stato usato realmente un insetticida in pasta gel. Controllare il tipo di formulato impiegato. Controllare il corretto impiego da parte dell'operatore professionista (posizionamento del Gel, copertura dell'area da trattare, dosaggio, periodicità dei trattamenti, ecc.). Controllare la serietà professionale del tecnico disinfestatore e della sua azienda (Curriculum aziendale). Nei confronti dell’Industria (farmaceutiche e distributori territoriali) l’OdP dovrà valutare la collaborazione professionale che quest’ultimi sono disposti ad offrire in materia di materiale informativo e di prove di campo mirate. Fattori che dimostrano appunto la serietà dell'industria. Vista l’importanza che ricoprono le BLATTE, come agenti infestanti in Sanità Pubblica, ho ritenuto opportuno approfondire questa tematica. Introduzione Il controllo degli scarafaggi rappresenta un settore nel mondo della “parassitologia urbana” di considerevole importanza. Non esiste praticamente, ambiente in cui le blatte non riescono ad insediarsi creando disagi sul piano igienico sanitario (possibili vettori di agenti patogeni), culturale (senso di paura o di ribrezzo) e commerciale ( danni che l’insudiciamento delle blatte crea sugli alimenti che infestano, costi dei monitoraggi e delle disinfestazioni). Da un punto di vista pratico è possibile suddividere gli interventi di controllo in: • disinfestazioni classiche, con l’impiego di disinfestanti ed attrezzature tradizionali. • disinfestazioni moderne, con l’introduzione del monitoraggio ambientale e dei formulati gel. Entrambe non devono comunque mai escludere le operazioni di prevenzione che riguardano la buona gestione dell’ambiente da controllare sotto il profilo igienico e del monitoraggio. La specie più significativa presente in tutta Italia è la Blattella germanica. Le altre specie rappresentano realtà specifiche del nostro paese e sono: Blatta orientale, Periplaneta americana, Supella longipalpa, Polyphaga aegyptiaca.

Blattella germanica

Blatta orientale

Periplaneta americana

Supella longipalpa

Polyphaga aegyptiaca

Habitat

Ambiente caldo umido 30-33°C

Ambiente freschi (20-29°C)

Ambiente caldo umido (30-33°C)

Ambienti domestici (20-25°C)

Ambiente caldo umido (30-33°C)

Dimensioni degli adulti

10-15 mm

20-27 mm

35-40mm

10-14 mm

18-28 mm

Dimensioni delle ooteche

7-9 mm

10-12 mm

8-10 mm

4-5 mm

10-12 mm

Numero di uova per

ooteca

37-44

16-18

16

16

7-13

durata di vita degli adulti

~ 3 mesi

1-2 anni

1-2 anni

~ 3 mesi

2-3 anni

Caratteristiche

generiche

ottima arrampicatrice, vola raramente

Scarsa capacità di arrampicarsi, non vola

ottima arrampicatrice, buona volatrice anche se per brevi tratti

ottima arrampicatrice, vola raramente

Scavatrice, non vola

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Le blatte sono insetti onnivori con abitudini notturne (lucifughi). Le uova delle blatte sono contenute nelle ooteche (capsule che contengono le uova) che rilasceranno le giovani neanidi le quali infesteranno l’ambiente circostante. Gli habitat ideali sono rappresentati dai luoghi caldi-umidi. All’interno delle industrie alimentari per esempio, le zone più infestate sono rappresentate da crepe e da fessure nelle pareti e nei pavimenti, dai condotti e dalle tubature dei servizi, sotto i pavimenti, dietro rivestimenti e isolanti, negli impianti elettrici, dentro le macchine, nei canali di scolo, nelle fognature, ecc. Le infestazioni di blatte rilasciano dei segni molto chiari: insetti vivi/morti, frammenti di blatte, ooteche, escrementi, tracce di rigurgito, odore caratteristico. Monitoraggio ed ispezione L’uso continuativo di cartoncini collanti (trappole/postazioni di monitoraggio) con o senza attrattivi specifici per le blatte rappresenta un ottimo indicatore ed uno strumento valido di sorveglianza ambientale. L’uso mirato delle trappole può rivelarsi un ottimo sistema di controllo in quei casi di infestazione di pochi esemplari. Tab: Chiave di lettura delle trappole collanti di monitoraggio ambientale.

CATTURE DI BLATTE

SIGNIFICATO

PRE TRATTAMENTO

SIGNIFICATO

POST TRATTAMENTO

Nessuna

Assenza di insetti

Successo dell’operazione

Neanidi

- schiusa di ooteche nell’ambiente. - infestazione di blatte giovani di provenienza esterna all’area che si controlla.

- Aspettare che le blatte si nutrono dei formulati gel presenti nell’ambiente ed eventualmente rintervenire. - cessazione dell’azione residua dell’insetticida impiegato. E’ richiesto un ulteriore trattamento.

Adulti e neanidi

presenza o introduzione

accidentale di blatte nell’ambiente

Ins - Insuccesso della disinfestazione.

E’ molto importante comprendere la natura del problema attraverso un’accurata ispezione ambientale al fine di individuare:

• le specie di blatte presenti;

• il livello di infestazione in corso;

• lo stato igienico dell’ambiente;

• i rifugi specifici delle blatte;

• le possibili cause/origini di infestazione;

• le procedure, i tempi e i prodotti insetticidi utilizzati precedentemente;

• le operazioni di pulizia ambientali in corso.

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L’ispezione accurata prevede la visione generale dell’ambiente (ad esempio sopra e/o sotto i forni, i frigoriferi, ecc.) così come l’interno dei macchinari (macchine automatiche per la distribuzione delle bevande, attrezzature varie). 1. disinfestazione classica.

Con questo termine si vuole indicare un concetto di disinfestazione legato soprattutto all’impiego degli insetticidi con applicazioni di copertura totale degli ambienti da trattare. Questo tipo di controllo prevede l’impiego di insetticidi formulati emulsionabili con o senza azione residua e in alcuni casi polverulenti. Per l’imitare gli odori sgradevoli di alcuni prodotti si ricorre ai formulati senza solventi (flowebo) o microincapsulati applicati con normali pompe a pressione manuali o a motore. I principi attivi utilizzati appartengono alle categorie chimiche dei fosforganici, degli organofosforici e dei carbammati ovvero insetticidi a largo spettro d’azione. Tra quelli, invece, a spettro ristretto troviamo i regolatori della crescita degli insetti o Insect Grow Regulator (IGR) che però non sembrano avere un vasto utilizzo. Normalmente è’ sufficiente che avvenga una segnalazione apparente o reale che sia, per iniziare un primo intervento ed eventualmente continuare con ulteriori trattamenti a cadenza prestabilita attuando i cosi detti trattamenti a calendario Il loro impiego comporta l’allontanamento o la copertura di tutto ciò che può subire delle contaminazioni chimiche (cibi e bevande) prima del trattamento, l’utilizzo da parte dell’operatore disinfestatore di dispositivi di protezione individuale (maschere a filtri, guanti, tute speciali, stivali, ecc.), il ripristino della salubrità degli ambienti trattati (pulizie accurate post-trattamenti, areazione dei locali) considerando i tempi di rientro in funzione della tossicità dei formulati impiegati. Le ispezioni ed i trattamenti, in linea di massima, dovrebbero susseguirsi ad intervalli di 2-3 giorni, dopo il primo trattamento, finche sia stato accertato l’eradicazione dell’infestazione. Un successivo controllo dovrebbe essere eseguito due settimane dopo l’ultima ispezione per verificare l’assenza di eventuali rinfestazioni dovute al rilascio di nuove blatte dalle ooteche che non sempre vengono raggiunti dall’azione degli insetticidi. La crescente resitenza delle blatte, in particolare Blattella germanica, nei confronti dei più comuni insetticidi ha determinato una variazione di tendenza per il controllo delle blatte a favore dei trattamenti in formulati gel. L’impiego dei formulati tradizionali, tra cui anche quelli di formulazione recente (piretroidi IVa generazione), ricopre sempre un ruolo importante per gli interventi nelle reti fognarie, negli scantinati, negli esterni e in tutti quegli ambienti considerati “non sensibili” agli odori o alle contaminazioni chimiche. 2. Disinfestazione moderna Con questo termine si vuole indicare un nuovo concetto della disinfestazione che si basa in maniera marcata sulle pratiche di PREVENZIONE, di MONITORAGGI ed infine di CONTROLLO. In definitiva, si parla di LOTTA INTEGRATA o di IPM (Integrated Pest Management) per indicare tutte quelle pratiche e procedure rivolte alla prevenzione, alla sorveglianza ed all’eventuale controllo degli organismi infestanti attraverso metodi chimici e non. Tra i formulati di nuova concezione per il controllo delle blatte, quelli in pasta gel ricoprono sicuramente il posto più importante. Sono degli insetticidi alimentari che vengono ingeriti dagli insetti i quali moriranno dopo un certo periodo di tempo. L’azione tossica è esercitata oltre che direttamente dal formulato chimico che viene mangiato in prima istanza, anche indirettamente dalle feci, contenenti il principio attivo, e dalle carcasse delle blatte morte avvelenate quando vengono ingerite da quelle vive (coprofagie e necrofagia). Queste formulazioni rappresentano un cambiamento radicale nel mondo della disinfestazione. Presenti negli U.S.A. da almeno un decennio e commercializzati con diversi principi attivi, solo 4 principi attivi sono presenti in Italia (acido borico, idrametilnon, imidacloprid, fipronil). L’efficacia sulle blatte dei formulati di ultima generazione, l’uso pratico, il

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bassissimo impatto ambientale e l’eccellente sicurezza per la salute umana fanno dei gel dei temibili concorrenti agli insetticidi tradizionali. Per poter apprezzare pienamente l’utilizzo dei formulati gel è fondamentale comprendere i problemi che normalmente sono imputati alle disinfestazioni tradizionali e cioè: alto impatto ambientale; possibile inquinamento alimentare; possibili rischi di intossicazioni acute umane e/o animali; necessità di utilizzare Dispositivi di Protezione Individuali; attrezzature scomode; esecuzione degli interventi di disinfestazione in orari scomodi e costosi (lavori notturni); impossibilità di trattare direttamente negli impianti elettrici ed elettronici o in altri rifugi delle blatte difficili a raggiungere; possibilità di errori nella preparazione dei formulati (dosaggi, diluizioni, ecc.) e nelle applicazioni; insuccesso della disinfestazione per la resistenza degli insetti agli insetticidi convenzionali; spostamento delle popolazioni di blatte in aree non raggiungibili dai trattamenti per effetto del fenomeno della repellenza e conseguente incremento dell’infestazione; disturbo e disagio degli occupanti degli ambienti in cui si interviene con l’evacuazione pre-trattamento, le chiusure dei locali interessati, le pulizie ambientali post-trattamenti, gli odori residui, ecc. E’ comunque necessario, individuare quali sono i fattori che rappresentano gli aspetti negativi dei formulati gel, ovvero: Non sempre gli operatori della disinfestazione così come i richiedenti di tali servizi comprendono l’innovazione tecnica; è necessaria una buona conoscenza degli habitat e delle abitudini delle diverse specie di blatte; esiste un’attrattività diversa dei vari formulati gel. E’ necessario trovare il gel più attrattivo per le blatte; esiste un’efficacia diversa nei confronti delle blatte che determinano tempi di vita (quindi delle infestazioni) più o meno lungi; non tutti i gel permettono il loro impiego su grandi aree infestate (fattore determinato dalla loro efficacia); la polvere è nemica dei gel. Ricoprendone la pasta tende ad inibirli. Gli insetticidi tradizionali se distribuiti negli stessi ambienti in cui si è messo o si dovrà mettere le esche in pasta gel interferiscono negativamente sulla loro efficacia. La conoscenza del livello di infestazione è fondamentale per un corretto approccio alle procedure di intervento. I trattamenti possono essere considerati di due tipi; applicazioni di emergenza ed applicazioni di routine. Le applicazioni di emergenza sono interventi rivolti al controllo di forte infestazione degli insetti. In queste situazioni è importante rilasciare nell’ambiente un numero adeguato di gocce o di strisce assicurandosi che tutte le blatte presenti abbiano abbastanza gel di cui cibarsi per garantire la perfetta riuscita dell’intervento. In questo modo si sarà certi di non dover ritornare sul posto prima della data stabilita per l’inizio del monitoraggio. Le applicazioni di routine sono invece adatte in situazioni di basse/medie infestazioni di blatte o per gli interventi di prevenzione. In questo caso un normale dosaggio di gel è sufficiente sia per debellare l’infestazione presente sia per contenere le eventuali blatte che tentino di colonizzare l’ambiente. Un limite delle esche insetticide in formulazione gel in generale, è rappresentato dal dosaggio. L’etichetta esprime un riferimento prettamente di laboratorio impossibile da tradurre nelle applicazioni di campo. I trattamenti con esche gel non devono essere effettuati considerando l’area dell’ambiente su cui bisogna intervenire ma calcolando il numero di gocce/strisce dei singoli

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macchinari/oggetti/luoghi di applicazione che, dipenderà a sua volta, dal livello di infestazione presente. Tab. Livello di infestazione delle blatte in relazione alla loro presenza nell’ambiente.

BASSA INFESTAZIONE

Blatte visibili solo durante le ore notturne. Evidenza minima delle loro tracce (feci/rigurgiti)

INFESTAZIONE MEDIA

E’ possibile scorgere delle blatte durante il giorno, individuarne i rifugi e qualche loro traccia.

ALTA INFESTAZIONE

Blatte visibilmente presenti sia durante le ore del giorno che in quelle della notte. E’ evidente la presenza delle loro tracce ed è facile percepire il loro odore caratteristico.

Conclusioni E’ prioritario trovare le soluzioni concrete per potersi adeguare alla nuova filosofia del “controllo integrato” (IPM) delle blatte così come per tutti gli organismi infestanti, salvaguardando il più possibile l'ambiente dalle inutili contaminazioni chimiche. L’utilizzo corretto dei pesticidi, tradizionali e non, ricopre un ruolo essenziale in questo settore sia per il contributo che essi portano al controllo dei “parassiti urbani” sia per il danno che un loro improprio utilizzo può causare. Attualmente sono disponibili nuovi principi attivi, nuove formulazioni insetticide e nuove tecnologie di controllo (insetticidi biologici, nemici naturali, feromoni, trappole elettriche, regolatori della crescita, esche gel, dissuasori per volatili, ecc.) con i quali è possibile eseguire operazioni di disinfestazione efficienti, mirate e di impatto ambientale nullo o minimo. Riguardo al controllo delle blatte in aree sensibili si può concludere che dal punto di vista pratico bisognerebbe sempre considerare i seguenti punti: A meno che l’infestazione non sia evidente bisogna avvalersi del monitoraggio per individuare i luoghi e , se possibile, il livello di infestazione. Cercare sempre di individuare ed eliminare la fonte di infestazione. Se non c’è l’infestazione, non è necessario utilizzare alcun insetticida. L’utilizzo di strategie di controllo alternative a quelle chimiche va sempre preso in considerazione. Come misure di prevenzione in aree particolarmente delicate l’utilizzo di trappole vischiose per il monitoraggio ambientale rappresentano la soluzione ideale. Le migliori “performances” degli insetticidi si hanno in ambienti puliti. L’uso degli insetticidi comporta lo sviluppo del fenomeno della resistenza. La diffusione dei pesticidi, soprattutto quelli applicati a copertura totale, potrebbe causare intossicazioni e contaminazioni chimiche. Utilizzare prevalentemente le formulazioni più sicure (formulati in pasta gel, flowable, microincapsulati, microemulsioni acquose). Il controllo degli infestanti in generale, coinvolge per la maggior parte dei casi, tre figure: il committente, l’esecutore e l’organismo preposto al controllo. Lo sforzo da compiere va nella direzione di uno stretto coordinamento tra le figure di tutta l’attività connessa con l’igiene interna ed esterna delle zone in cui si opera.La relazione con la ditta di disinfestazione dovrebbe essere valutata sulla base, comprovata e documentata, della sua professionalità ma, ancora prima, della idoneità a svolgere tale attività lavorativa.

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Bibliografia utile Brithish Crop Protection Council. (2002-2003). The Pesticide Manual. 12th Ed. UK. Davanzo F., Faraoni L., Pampiglione G. (2001) Disinfestatori disinfestati. Esperienza del Centro Antiveleni di Milano. Disinfestazione & Igiene Ambientale. Domenichini G, Provetti A. Entomologia urbana e Sanità Ambientale, UTET, Torino, 1989. Mazzotti M., Pampiglione G. Blatte e patologie umane ad esse correlate. Disinfestazione & Igiene Ambientale, 1999, anno XV, vol. IV, pp.1-3. Pampiglione G., Macciantelli M., Romano S.. Blatte addio! Il ruolo di un nuovo principio attivo, il fipronil, nella lotta integrata alle blatte. Polizia Sanitaria, 2000, anno VIII, vol. 38, pp.38-44. Pampiglione G., Trentini M.. Controllo delle blatte. Riflessioni sul livello di conoscenze tecnico-biologiche dei disinfestatori. Disinfestazione & Igiene Ambientale,1999. anno XV , vol. II, pp. 23-26. Russo A., Tropea G. Polyphaga aegyptiaca. Un’infestante delle industrie alimentari. Disinfestazione & Igiene Ambientale, 1996, anno XII , vol. VI, pp. 9-12. Scirocchi A. Presidi medico chirurgici, Disinfestanti, vol. II. CESI, Roma, 1993. Suss L. Monitoraggio delle infestazioni soglie di tolleranza ed H.A.C.C.P. Disinfestazione & Igiene Ambientale, 2000, anno XVI, vol II, pp.2-4.

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Zecche e Borreliosi di Lyme: epidemiologia e prevenzione

Walter Oscar Pavan.

Regione Emilia Romagna – Centro di Riferimento per lo Studio e la Sorveglianza Epidemiologica della Borreliosi di Lyme. Dipartimento di Sanità Pubblica, Faenza.

GISML (Gruppo Italiano per lo Studio della Malattia di Lyme) tel.: 0546 602519; e-mail: [email protected]

Sono passati più di vent’anni da quando è stata identificata la Borreliosi di Lyme (BL) in tre piccole cittadine del Connecticut (Lyme, Old Lyme, West Haddam). Negli USA questa patologia è andata sempre più aumentando causando un forte impatto nell'opinione pubblica. Ciò ha favorito la nascita di associazioni, gruppi, comitati e sono frequenti le manifestazioni per sensibilizzare la classe politica, con il risultato che il governo americano stanzia cifre considerevoli per far fronte al problema. In molti Paesi europei la conoscenza del problema e la sensibilizzazione, sia dei cittadini sia del personale sanitario, è una realtà abbastanza diffusa. In Italia ciò è praticamente inesistente e, nonostante le molte pubblicazioni, i congressi e gli incontri, vi è ancora una gran confusione su questa malattia. Una parte è dovuta alla scarsa circolazione d’informazioni corrette e, nel vuoto creatosi di conseguenza, sono fiorite la disinformazione e l’interpretazione erronea dei fatti. Ciò ha favorito il fenomeno, già vissuto negli USA, della comparsa di numerosi “esperti”, spesso auto-nominatisi tali, che hanno creato disorientamento nella popolazione e nei medici che spesso non sanno più a chi dare affidamento. L’intento di questa relazione è duplice. Innanzi tutto fornire dati epidemiologici, note di prevenzione e indicazioni utili per una corretta gestione dell’eventuale caso clinico. Cercare poi, dall’altro lato, di sfatare alcuni tra i più diffusi miti che in Italia circondano sia la zecca “questa sconosciuta” e sia la BL. Ricordiamoci che, in Europa e negli USA, la BL è divenuta la più diffusa malattia infettiva trasmessa da vettori; che gran parte della popolazione risulta esposta; che spesso non è diagnosticata o lo è in eccesso; che, infine, una corretta informazione consente di affrontarla con successo evitandone la progressione alle fasi tardive, con i disturbi cronici ed invalidanti che possono comparire. In Europa la diffusione delle zecche e la presenza d’infezione sono fenomeni diffusi, con due aree a più elevata endemia rappresentate dalla penisola Scandinava e dal gruppo degli ex Paesi socialisti con l’aggiunta dell’Austria. In ltalia il primo caso fu segnalato in Liguria nel 1983 e il primo isolamento dell’agente eziologico avvenne a Trieste nel 1987. Le regioni più colpite sono Friuli Venezia Giulia, Liguria, Veneto, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige. In Emilia Romagna i casi notificati, dal 1989 al 2001, sono 495. Di questi, 180 sono nella provincia di Ravenna dove ha sede il nostro Centro (Faenza). Non potendo eliminare il vettore o gli animali serbatoio e/o carrier, dobbiamo imparare a convivere con le zecche, a prevenirne la puntura e, se contratta l'infezione, impedire che la malattia progredisca. Vettore. Sono le zecche lxodidae e la più implicata in Europa è l’Ixodes ricinus. Maggiormente coinvolte sono le ninfe, perché la loro massima attività coincide con la massima attività dell'uomo all'aperto. Si può quindi capire la difficoltà a rilevare la presenza di un parassita delle dimensioni di una capocchia di spillo. La zecca, che è un acaro e non un insetto, non vola e non salta ma si limita a camminare. Attende sull'erba e si trasferisce sull’ospite quando questo gli passa accanto. Zone a rischio. L'ambiente ideale per l’Ixodes ricinus è dove sono presenti erba incolta, cespugli, letti di foglie secche, cataste di legna, ambienti ad elevata umidità relativa, margini

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tra prato e bosco. In alcune località stanno diventando a rischio anche i parchi cittadini ed i giardini privati. Animali serbatoio e carrier. Serbatoi d’infezione sono soprattutto i piccoli roditori come ad esempio i comuni topolini di campagna mentre, in pratica, tutti gli animali possono fungere da carrier. Molto importanti sono gli uccelli che fungono da veicoli di trasporto, a lunga – media distanza, con creazione di nuovi focolai d’infezione in aree prima indenni. L’Ixodes ricinus ha un “bacino d’utenza”, che gli fornisce nutrimento, molto ampio. Prevenire la puntura. Ci si deve coprire il più possibile, con indumenti chiusi a polsi e caviglie e con pantaloni infilati dentro a scarponcini alti dotati di stringhe. I vestiti devono tendere al chiaro per riuscire a vedere le zecche per contrasto. Si devono cioè mettere in atto dei sistemi per far sì che la zecca trovi difficile raggiungere la cute scoperta. Periodicamente si deve controllare se ci sono zecche sui vestiti ed eliminarle. Una volta rientrati si deve effettuare, prima del bagno, un accurato controllo: completamente spogliati s’ispeziona tutto il corpo, con l’aiuto di un'altra persona, alla ricerca di eventuali zecche infisse. Se lo fate dopo, lavandovi potete inavvertitamente urtare un’eventuale zecca infissa con la possibilità che si spezzi. Il corpo uscirà dallo scarico, il rostro rimarrà nella cute e non saprete mai che lì avevate una zecca. Questo è importante per le misure preventive che dovreste invece adottare. Corretta estrazione della zecca. La zecca va estratta quanto prima: l'infezione è più probabile che avvenga se si superano le 36-48 ore di permanenza della zecca infissa sull'ospite. Sulla zecca non si deve applicare nulla, l’estrazione deve essere fatta con l’unico e semplice utilizzo di una pinzetta a punte sottili. Va afferrata al suo apice, il più aderente possibile al piano cutaneo, evitando di prenderla per il corpo altrimenti rischiate di schiacciarla e, con un “effetto siringa”, di iniettarvi il suo contenuto germi compresi. Se applicate su di essa stimoli o sostanze varie, provocherete un fenomeno di rigurgito aumentando il rischio d’infezione. Tolta la zecca si disinfetta la cute, senza usare disinfettanti coloranti, e si applica una pomata antibiotica per due-tre giorni. Dopo l’estrazione. Il paziente va istruito ad effettuare quotidianamente, per 30-40 giorni, un controllo della zona cutanea dove è avvenuta la puntura, per cogliere l'eventuale comparsa del segno clinico patognomonico della malattia: l'Eritema Migrante (EM). Solo a questo punto va iniziata una terapia antibiotica. Deve anche verificare l’eventuale comparsa di sintomi per lui nuovi: una cefalea non abituale, un'artrite acuta, una sintomatologia neurologica od un malessere simil influenzale non altrimenti spiegati. Profilassi antibiotica. Non è indicata. Non vanno assunti antibiotici, va effettuato il solo e semplice controllo. Se durante il periodo d’osservazione fosse necessario instaurare una terapia antibiotica, per intercorrenti patologie non correlate alla BL, si dovrà utilizzare lo schema previsto per quest’ultima. Questo per evitare di decapitare le manifestazioni cliniche dell’eventuale BL presente. Il non rispettare questa regola impedisce il manifestarsi dell’EM, senza però la certezza di eliminare l’infezione ma facilitandone il possibile passaggio alle fasi successive più difficili da diagnosticare. Sierologia. Non va eseguito alcun test a seguito di una semplice puntura di zecca. Il test è un aiuto alla clinica, da solo non è diagnostico. E’ gravato da scarsa sensibilità e specificità, non è standardizzato e sono frequenti sia i falsi positivi sia i falsi negativi. Le metodiche utilizzate nei vari laboratori si differenziano l’una dall'altra e non sono spesso confrontabili. Nelle aree endemiche circa il 15% delle persone sane risulterà positivo, in quelle non endemiche la percentuale è attorno al 5-10%. Il test inteso come esame di screening va quindi assolutamente evitato: non dovete curare il test di laboratorio, dovete curare la malattia. Terapia. I principi attivi utili nella Fase Precoce della BL sono Tetraciclina, Doxiciclina, Amoxicillina e, in caso di allergia, Cefuroxima acetile. Vanno assunti per os e per un periodo di tre settimane. I Macrolidi sono attivi in vitro ma poco o nulla in vivo, soprattutto se le Borrelie hanno già avuto modo di raggiungere “siti protetti”. A questo proposito, ho purtroppo più volte rilevato l’utilizzo di azitromicina o di claritromicina. Nelle Fasi successive è indicata una terapia parenterale con Ceftriaxone per almeno due settimane.

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Vaccino. Al di fuori degli USA, dove però è stato recentemente ritirato dal commercio, non esiste un vaccino per la BL. Non va confuso il vaccino per la TBE (encefalite da zecche), che esiste anche se in Italia non è stato ancora registrato, con quello per la BL. Notifica. In Italia la BL è soggetta a notifica obbligatoria, purtroppo ampiamente disattesa. Ciò ha una notevole importanza, sia per la sorveglianza epidemiologica e sia perché il conoscere l’esatta situazione consente di poter predisporre interventi sanitari adeguati in tempi ristretti. La sua mancata notifica è verosimilmente aggravata dal fatto di essere ancora oggi compresa in Classe V.

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Avifauna selvatica in citta’

Stefano Pirazzini Servizio Veterinario Dip.to Sanità Pubblica – Az. U.S.L. Cesena

La comunità scientifica internazionale riconosce la città come “ecosistema urbano”: un sistema complesso decisamente influenzato dalla presenza della specie umana e dalle sue costruzioni, ma nel quale si svolgono ugualmente i processi ecologici fondamentali che ne presiedono il funzionamento, quali i cicli biogeochimici . In realtà le città sono come mosaici di microambienti strettamente compenetrati: blocchi di edifici (ambienti di natura “rupestre”), aree verdi gestite rigidamente dall’uomo, parchi dall’aspetto più naturale, relitti di ambienti sopravvissuti all’urbanizzazione (coltivi con siepi, campi aperti, boschetti, vegetazione ripariale, zone umide quali ex cave e laghetti). Schematizzando, si può riconoscere: centro storico densamente edificato con pochi spazi aperti fascia di recente urbanizzazione con presenza maggiore di aree verdi corona periferica in cui si compenetrano le caratteristiche urbane con quelle degli ambienti circostanti La biodiversità (anche quella presente nelle aree urbane), intesa quale “varietà della vita” dei popolamenti animali e vegetali, e quindi componente basilare degli ambienti naturali o modificati dall’uomo, assume un ruolo di importanza fondamentale. Esiste un consenso generale sul fatto che la sostenibilità ambientale implica la conservazione della biodiversità e delle qualità dell’aria, acqua e dei suoli a livelli sufficienti a sostenere nel tempo la vita ed il benessere degli esseri umani nonché degli animali e dei vegetali. La presenza di natura in città è dunque fondamentale, anche se la nostra cultura è abituata a considerare città e natura come opposti; sarà proprio dal modo con cui l’uomo saprà favorire la biodiversità nei centri abitati ma anche inserire con armonia le proprie strutture nella natura che si potrà decidere la futura qualità della vita. Negli ultimi anni, di pari passo con l’espansione delle aree urbane e l’aumento degli abitanti, assistiamo ad un processo di inurbamento, da parte di varie specie di animali e piante selvatiche. Tra la fauna vertebrata, gli uccelli sono i più abili a sfruttare le città, grazie soprattutto alla facoltà di volare che permette di superare le barriere fisiche costituite dai palazzi, le strade, ecc. Esistono due modalità di inurbamento negli animali: primario, quando le specie colonizzano attivamente l’ecosistema urbano (storni), secondario quando è la città che “raggiunge” gli animali, attraverso l’espansione urbanistica che circonda letteralmente territori prima extraurbani: in questo caso, fin tanto che rimangono alcune caratteristiche dell’ambiente originario, le specie presenti continuano a svolgere la loro vita Esiste poi un gruppo di specie adattato da secoli alla convivenza con l’uomo ed i suoi insediamenti. Sono questi organismi adattabili, in genere di abitudini gregarie, alimentazione vegetariana o onnivora, i cui ambienti originari erano di natura “rupestre”: passeri, colombi, rondini e rondoni hanno trovato nei palazzi (in modo particolare quelli antichi) un surrogato delle falesie e delle pareti rocciose su cui nidificavano anticamente. Pertanto nei centri storici la biodiversità è minima e gli squilibri accentuati (scarsa equiripartizione tra le specie soprattutto ornitiche) mentre in ambienti più diversificati, quali parchi ed aree periurbane, la ricchezza è più elevata e le densità più equilibrate. Gli ecologi chiamano tali zone di transizione “ecotoni”. Così, alla periferia di una città di pianura possiamo incontrare un Fagiano e un’Allodola, mentre in quella di una città confinante con il mare Cormorani e Beccapesci. Le ricerche compiute sempre più spesso nelle città da parte degli ornitologi di tutto il mondo mostrano risultati sorprendenti: ad esempio, nelle aree urbane italiane sono state osservate ben 176 specie, che rappresentano il 47,6% dell’intera avifauna nazionale, ed il loro numero è in continuo aumento.

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Gli uccelli sono infine ottimi “indicatori ambientali”: con la loro presenza/assenza ci permettono di comprendere lo stato di salute e di qualità dell’ecosistema urbano. La gestione dell’avifauna urbana “problematica” costituisce argomento di sicura attualità. Alcuni animali hanno seguito l’uomo in ambienti non naturali, anzi sono stati attirati da esso in seguito allo squilibrio provocato dall’immissione (volontaria o meno) nell’ambiente di enormi quantità di cibo che inizia all’incirca dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Allo stesso modo è stata la società umana a determinare, spesso senza criteri consistenti, quando una specie diventa “problematica” , cioè quando diviene particolarmente abbondante oppure si trova “fuori posto” (pest species , dal latino pestis = piaga o malattia contagiosa, definisce organismi che causano un disagio economico, ambientale o epidemiologico. I problemi di convivenza tra alcune specie ornitiche (colombo, storno, gabbiano, cormorani, corvidi) ed alcune attività umane (tutela della salute pubblica, tutela del patrimonio architettonico, agricoltura, allevamento ittico) richiedono soluzioni che per essere efficaci si devono inquadrare in una “strategia gestionale”. Le attività antropiche maggiormente colpite sono l’agricoltura, la pesca, oltre a strutture e infrastrutture (aeroporti, tetti di edifici,monumenti, ecc.). Si verificano inoltre interferenze con le discariche, e rischi sanitari. Infatti, le specie che diventano problematiche sono adattabili, onnivore e intelligenti. Ad ogni modo, occorre considerare che la natura socio-economica del rapporto tra società umana e fauna selvatica resta sempre controversa, poiché se è vero che alcuni conflitti sono incrementati negli ultimi anni, è altrettanto vero che la natura viene considerata un patrimonio comune e un’opportunità da moltissime persone. A questo scopo, un utile concetto teorico è il “grado di tolleranza per la fauna” (WAC –wildlife acceptance capacity), che può essere definito quale livello massimo di popolazione di una data specie tollerata da una determinata categoria sociale. I fattori che favoriscono l’inurbamento e causano situazioni da sovraffollamento nelle città sono abbondanza di siti di nidificazione protetti ed scarsamente accessibili dall’uomo stabili ed abbondanti fonti di cibo (disponibile in tutti i periodi dell'anno e anche distribuito dai cittadini) fotoperiodo allungato temperature più elevate che nelle zone rurali (risparmio energetico) maggiore sicurezza da pericoli quali ad es. la mancanza di predatori di uova o piccoli (taccole, cornacchie etc.) e di adulti (falco pellegrino, sparviero, allocco e barbagianni): anche la reintroduzione di alcuni di questi predatori nell’ambiente urbano non sortisce gli effetti sperati a causa della prolificità elevatissima delle prede notevole capacità di apprendimento da parte di alcune specie (orari e abitudini di cittadini zoofili) COLOMBI URBANI 1. BIOLOGIA DEL COLOMBO URBANO, ETOLOGIA ED INQUADRAMENTO GIURIDICO I colombi di città sono l’ultima tappa di una complicata storia vecchia di 5000 anni quando iniziò la domesticazione del colombo selvatico, la cui culla è rappresentata dal bacino del Mediterraneo. Il fondamento della tecnica dell'allevamento dei colombi sfruttava l'etologia dell'animale, che anche in natura nidifica all'interno di anfratti rocciosi. Sin dall'antichità si è cercato quindi di riprodurre artificialmente questa attitudine, al fine di migliorare la resa. All’uopo venivano apprestate apposite grotte artificiali, lungo le cui pareti venivano scavate numerosissime nicchie in serie. Tali colombaie sono, talvolta, coeve ai villaggi rupestri (la cui attività si pone fra Alto e Basso Medioevo), altre volte, invece, e forse soprattutto, la grotta-colombaia va considerata come una delle forme di riutilizzo delle case-grotte abbandonate nel corso della crisi tardomedioevale. In Età Moderna la colombicoltura subì una evoluzione decisiva, destinando ad essa autentici monumenti, come le torri colombaie. E' concorde il giudizio di Zoologi e Magistrati sulla natura non selvatica del Colombo di città: ormai diversificate da secoli di allevamento ed incroci della ormai rara Columbia livia selvatica

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(vedi sentenza 1988 del Pretore di Cremona, legge 157/92, parere INFS), queste popolazioni si originano da tante razze di colombi domestici, sfuggiti ad allevamenti da carne, gare di volo di orientamento, tiri a volo. Il colombo di città non corrisponde alla definizione di fauna selvatica “animali viventi in natura allo stato libero, non assoggettati all’uomo e con il quale non hanno alcun contatto obbligato o etologicamente motivato”. Si tratta di “specie animale domestica randagia” I veri "torraioli" erano i colombi selvatici presenti nelle nostre città quando queste cominciarono ad offrire rifugio e protezione a stormi di uccelli. Questo nome gli derivava dal fatto che essi abitavano nelle torri e nei campanili potendo sfuggire, in questo modo, ai predatori e sfruttando i ripari e il cibo che essi riuscivano a reperire più facilmente in città che non nelle campagne circostanti. Successivamente essi sono stati scacciati dalle popolazioni di colombi inurbati ed hanno perso ogni contatto con l’ambiente cittadino. A differenza del vero colombo selvatico, che è invariabilmente bigio barrato (grigio lavagna con due barre alari nere e banda nera sulla coda, nel piccione di città il fenotipo è assolutamente aspecifico, con ogni possibile combinazione sia di colori che di livrea, la taglia più robusta, il becco più potente, le cere più sviluppate. Inoltre presenta il c.d. animus revertendi geografico ed è onnivoro. Essendo in origine animali di allevamento, questi volatili presentano una attività riproduttiva intensa e continuativa: il colombo raggiunge la maturità sessuale a 4 - 5 mesi; nelle condizioni di illuminazione dell'Europa continentale e mediterranea le covate possono essere fino a 10 all'anno (contro le 2-3 delle popolazioni selvatiche naturali), costituite da 1 - 2 uova. Le uova sono deposte in semplici nidi di rametti e fili d'erba sovrapposti e vengono covate per 15 giorni; i piccoli sono alimentati con cibo pre-digerito (latte di piccione) per circa 4 giorni e quindi mangime normale, fino a quando non sono atti al volo (20-25 giorni). Durante questo allevamento della prole continua la deposizione di uova e così più generazioni si susseguono senza interruzione. La percentuale di sopravvivenza è del 40 - 45%, quindi da una coppia si può stimare un incremento di popolazione di 6-8 individui ogni anno, quanto basta per compensare nel giro di un anno l’eliminazione di una metà della popolazione. Alcuni fattori condizionano questa grande capacità di incremento demografico (malattie, scarsità di cibo, inverni rigidi, etc.); resta però il fatto che la popolazione tende sempre ad aumentare almeno fino a raggiungere la capacità portante di quel dato ambiente e quando ciò avviene si crea uno squilibrio da sovrappopolamento che induce disagi e deprime lo stato di salute. La scomparsa di fattori limitanti come cibo, predatori, nidi elimina infatti l’effetto della selezione naturale e determina la sopravvivenza anche degli esemplari deboli, malati, e più recettivi alle infezioni e alle parassitosi. Questa è una premessa fondamentale per la propagazione delle malattie all’interno della popolazione I comportamenti fondamentali per la riproduzione (corteggiamento, allevamento dei piccoli, difesa) sono immutati e comuni e permettono incroci tra tutte le razze domestiche. Altri comportamenti sono adattati all'ambiente urbano; sono gregari notturni (in soffitte, campanili etc.) e diurni (in tetti, piazze, cornicioni etc.) e presentano comportamenti di gruppo anche rispetto a eventuali luoghi e tempi di nutrimento offerto loro dai cittadini. Al mattino predomina l'attività di ricerca di cibo, che nei piccoli centri si traduce anche in voli nelle campagne circostanti, mentre nei grandi centri vivono completamente all’interno del tessuto urbano; nelle ore meridiane sostano su posatoi diurni stabili, dove alcuni individui non accoppiati possono anche passare la notte. La "distanza di fuga" dall'uomo è molto ridotta e pure è minore la velocità e rapidità di volo rispetto al colombo selvatico. Il piccione mangia circa 30 gr. di cibo al giorno e vive in media in città 5 anni. 2. ASPETTI SANITARI DEL SOVRAFFOLLAMENTO Il numero di malattie infettive potenzialmente veicolate dai colombi sia in modo diretto che indiretto (fecalizzazione ambientale e proliferazione di microrganismi) è sorprendentemente alto: circa una sessantina, ed inoltre essi ospitano pericolosi ectoparassiti. Tuttavia l’impressione è che gli aspetti sanitari nella maggior parte delle situazioni rappresentino la “foglia di fico” per giustificare interventi drastici, Non si osservano più nelle popolazioni attuali le pesantissime parassitosi e le patologie più eclatanti per cui alla fine l’ obiettivo è di sfoltire un po’ le popolazioni

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(gestione pragmatica) in quanto il contenimento numerico entro limiti fisiologici elimina già da solo quasi tutto il rischio sanitario. Ornitosi-Psittacosi: è causata da Chlamidia psittaci presente in escrementi e pulviscolo atmosferico con elevata carica microbica, soprattutto in situazioni di grave trascuratezza. La percentuale di isolamento nel piccione di città oscilla dal 14 al 40 % mentre la sieroprevalenza è molto più elevata. E’ il problema più importamte da correlare con l’uomo dove il quadro più tipico è quello della polmonite c.d. atipica (SARS????), ma può avere forma simil-influenzale, simil-mononucleosica, simil-tifoidea Salmonellosi: i batteri vivono negli escrementi degli uccelli, che una volta secchi vengono trasportati nell'aria come polvere a contaminare gli alimenti; infatti la malattia si verifica come intossicazione alimentare. Recenti indagini indicano che circa il 50% dei colombi abitanti nelle città del centro-nord ospitano S. typhimurium nel tratto intestinale mentre altri sierotipi pericolosi come S. enteritidis sono molto più rari Criptococcosi: patogeno che vive nell’ingluvie e nel tratto intestinale dei colombi, infetta il sistema respiratorio ma può causare meningiti e meningoencefaliti nelle persone immunodepresse. L’AIDS ha determinato una diffusione notevolissima dei casi di criptococcosi Histoplasmosi: malattia fungina dell'apparato respiratorio; il fungo prolifera negli escrementi secchi degli uccelli. Coxiella burnetii, diffusione aerogena, estrema infettività Arqas reflexus: appartiene alle c.d. “zecche molli” (Argasidi), è un parassita di 0,5-1 cm. la cui vita è strettamente legata al colombo di città, col quale condivide gli spazi frequentati. Il ciclo biologico è simile a quello delle zecche Ixodidi ma rimane fissata all’ospite solo per il tempo del pasto di sangue (notturno) che di solito è di breve durata anche se nella fase di passaggio da ninfa ad adulti la zecca può compierne 6-7 al giorno. Può attaccare l'uomo e gli animali domestici e rappresentare un vero rischio ambientale quando si fanno sfoltimenti consistenti dei piccioni oppure in periodi di grande proliferazione, in questi casi il parassita manifesta fototropismo negativo e chemiotropismo per la CO2 e invade le abitazioni (Bolzano, Milano, Firenze). La saliva che la zecca secerne durante il pasto è tossica e estremamente allergizzante (5 casi in letteratura di shock anafilattico mortale). Per quanto riguarda la possibilità di trasmissione di B. burgdorferi (malattia di Lyme) , il ruolo della zecca è controverso; le positività sierologiche riscontrate nei piccioni potrebbero essere reazioni crociate con B. anserina, tuttavia a Bolzano nel 1987 B. burgdorferi è stato isolato da alcune esemplari di A. reflexus e la borreliosi è stata diagnosticata in persone ripetutamente punte da zecche di piccione Tubercolosi aviare , può rappresentare un problema per immunodepressi e per gli allevamenti zootecnici dove gli animalipresenti possono essere sensibilizzati nei confronti del Micobatterio Toxoplasmosi: protozoi che causano questa patologia sono emessi con le feci ed altri escreti e risultano pericolosi quando danno infezioni congenite ai feti per via transplacentare. 3. ASPETTI URBANI E DANNI AMBIENTALI Un piccione produce circa 2,5 kg di feci all’anno, il cui accumulo determina il degrado urbano che tutti conoscono: stabili, viali, monumenti e opere pubbliche o private, davanzali, marciapiedi vengono imbrattati di escrementi. Un tempo si riteneva che le feci di per sé avessero azione corrosiva sui monumenti, in seguito si è visto che le feci appena emesse hanno azione pressoché nulla. Per determinare la corrosione occorre l’intervento dei microrganismi che si sviluppano sul substrato fecale dopo l’emissione (batteri, lieviti, muffe), responsabili del rapido abbassamento del ph mediante la produzione di acidi organici e inorganici (acido solforico). Inoltre le ife fungine penetrano nelle microfessurazioni determinando anche una disgregazione meccanica. A questo si deve aggiungere l’azione meccanica delle unghie e del becco degli animali (che ingeriscono materiale lapideo) e l’effetto degli agenti atmosferici. Infine la presenza sul suolo pubblico degli animali morti che devono essere smaltiti. Quindi l'obiettivo da raggiungere è una popolazione limitata di colombi. compatibile con l'ambiente che le deve accogliere, e che quindi gode di un buon livello di salute e igiene.

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4. POSSIBILITA’ DI INTERVENTO Ad oggi non esiste una norma che tratti in forma organica le problematiche gestionali ascrivibili a forme domestiche di specie selvatiche e, in particolare, al Colombo di città. La dottrina vigente appare scarsamente organica (troppi Organismi coinvolti, ciascuno su aspetti particolari), disomogenea (riferimenti normativi diversi e spesso discordanti), incompleta e, a volte, contraddittoria. L’orientamento attuale attribuisce al sindaco il ruolo di referente primario per la gestione delle problematiche igienico-sanitarie nel contesto urbano mentre, per quanto riguarda la limitazione dei danni all’agricoltura e all’allevamento, alcune norme regionali danno competenza all’Ente delegato in tema di gestione faunistico-venatoria (Provincia). Nel caso dell’ Emilia-Romagna, la legge regionale 6/2000 prevede il risarcimento dei danni alle coltivazioni e comprende anche il colombo, responsabile di circa il 9,5% dei danni totali provocati da fauna alle attività economiche dell’uomo. La problematica ecologica non viene affrontata da nessuna norma. Inoltre le norme attualmente in vigore non fanno il minimo cenno agli indirizzi operativi (chi è chiamato ad intervenire, con quali metodi, con quali finalità, chi esercita i necessari controlli). Su questi aspetti molto resta da fare. E’ chiaro che i problemi derivanti dalla mancanza di una norma di riferimento, che tratti in forma compiuta i temi della collocazione giuridica del Colombo di città, delle misure gestionali attuabili e dei relativi controlli, non aiutano ad adottare tempestivi interventi. Tendenzialmente si possono riconoscere 4 fasi. Censimenti e sensibilizzazione dell’opinione pubblica Studio di un piano operativo dettagliato (zone in cui intervenire, interventi di tipo legislativo-autorizzativo, tipi di azioni) Esecuzione degli interventi protratti nel tempo, con possibilità di modulazioni Sorveglianza e mantenimento dei livelli accettabili di popolazione I censimenti servono per avere la dimensione del problema e sono imprescindibili. Oltre a precisare con la massima approssimazione possibile il numero dei piccioni, dovrebbero fornire informazioni sui luoghi di massima aggregazione diurna e notturna, sui siti di nidificazione, sui punti in cui è più frequente la distribuzione di cibo da parte dei cittadini, e sui danni provocati, soprattutto quelli di tipo “urbanistico”. Inoltre essi servono per informare l’opinione pubblica del livello di esplosione demografica e per controllare l’efficacia degli interventi attuati. La letteratura disponibile indica in 300-400 colombi/kmq le densità limite oltre le quali si verifica in genere uno stress ambientale tale da richiedere interventi limitativi. Si è già detto che in queste condizioni la quasi totalità dei rischi e dei danni provocati dai volatili viene annullata. La metodologia da adottare è influenzata dalle dimensioni del territorio o del centro abitato da studiare. Per zone grandi o medie (ma con distribuzione uniforme degli animali) si dovrebbe optare per un conteggio a campione seguendo il metodo dei quadrati o delle strade e successivamente estrapolando i dati. Per zone piccole o medie (ma con forti concentrazioni dei volatili) si dovrebbe procedere per conta diretta. In ogni caso le conte devono essere fatte in orario mattutino (massima presenza) mentre il periodo dell’anno influenza in modo determinante la quantità di uccelli avvistati; le variazioni riflettono il ciclo riproduttivo del colombo di città per cui il picco minimo di avvistamenti si verifica tra maggio e giugno (animali impegnati nella cova) ed il massimo verso ottobre quando l’attività di cova è bassa e si conteggiano i nati dell’anno non ancora accoppiati. I principali indirizzi di intervento per il controllo dei colombi urbani sono: Educazione culturale e sanitaria; è importante informare il cittadino degli interventi messi in atto dall’Amministrazione per ottenere maggiore sensibilizzazione e collaborazione (ad esempio, per evitare l’alimentazione incontrollata degli animali nelle strade). Diventa molto importante la maturazione culturale del cittadino che deve essere informato che, ad esempio, pane e pasta non sono alimenti idonei alla copertura dei fabbisogni alimentari del colombo, questo può andare incontro a disvitaminosi, problemi digestivi e metabolici. Inoltre si dovrebbero coinvolgere i media,

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le associazioni animaliste, le scuole, per una migliore consapevolezza dei problemi e delle loro soluzioni. Catture che dovrebbero garantire uno sfoltimento iniziale mediante soppressione o liberazione in zone lontane. L’effetto di una semplice eliminazione degli animali è di brevissima durata se non è accompagnato da altre misure, visto l’elevatissimo ritmo riproduttivo, senza contare la scarsa accettazione che questi metodi hanno presso l’opinione pubblica. Anche la liberazione in zone lontane ha evidenti limiti data la forte capacità di homing dei piccioni Controllo dei posatoi e dei siti di nidificazione: esiste una correlazione positiva dimostrata tra il numero di colombi presenti in una città ed il numero di edifici costruiti prima degli anni 30. Infatti sottotetti, nicchie, anfrattuosità presenti soprattutto negli edifici vecchi rappresentano luoghi ideali per la nidificazione. Gli interventi consistono nella bonifica degli immobili pubblici e privati (soprattutto quelli storici) mediante reti , punte, fili, reti elettriche, repellenti chimici, ultrasuoni. Gli stessi sistemi possono anche venire utilizzati come antiposatoi , per impedire al piccione di appollaiarsi in punti dove non c’è nidificazione ma solo riposo temporaneo e conseguente fecalizzazione. Questi interventi richiedono personale specializzato per rispettare l’integrità anche estetica di edifici e monumenti, hanno costi comunque elevati a spostano il problema ad aree adiacenti Una curiosità è rappresentata da un sistema che utilizza i raggi solari per diffondere fasci di luce riflessa mediante una serie di specchi rotanti. L' effetto della luce riflessa dagli specchi, unita al suo moto rotatorio eccentrico dovrebbe provocare nei volatili una senso di malessere e confusione tale da limitarne l' avvicinamento e l' atterraggio. I campi di applicazione sono innumerevoli: agricoltura, allevamenti ittici, molini, magazzini di stoccaggio cereali, aeroporti, parcheggi, aree urbane Controllo dell’alimentazione anche dal punto di vista della repressione di comportamenti inaccettabili (ordinanze), pur con la consapevolezza che l’intervento fondamentale deve essere di tipo culturale e non impositivo. Sterilizzazione farmacologica: bisulfan, progestinici, azacolesterolo, nicarbazina. In particolare gli studi e le sperimentazioni più recenti indicano la nicarbazina come la molecola più indicata nell’inibizione dell’ovodeposizione, grazie anche a caratteristiche farmaco-tossicologiche di tolleranza ed efficacia ben note grazie all’uso primario come coccidiostatico A dosi di 400 ppm nell’alimento in condizioni sperimentali e 800 ppm in campo per una settimana sospende completamente sia nel pollo che nel piccione la produzione di uova, che però riprende da una a tre settimane dopo la sospensione del farmaco Predisposizione di un piano per la distribuzione del mangime sterilizzante in punti prescelti dove alla stessa ora tutti i giorni verrà dato il cibo. Dovranno essere stabilite le quantità precise di cibo da fornire in ogni punto di distribuzione e le rimanenze dovranno essere sempre raccolte dagli operatori. Il fatto che già esistano persone che portano granaglie ai colombi, potrebbe suggerire di operare in modo da incontrarle e, attraverso una educazione accurata, sensibilizzarle per farle collaborare nella distribuzione, rendendole così partecipi all'iniziativa. L'impiego di questi cittadini dovrebbe comunque prevedersi in collaborazione con l'operatore della ditta incaricata dal Comune. Sterilizzazione chirurgica (vasectomia). Comporta cattura e sessaggio degli animali, non semplice dato il dimorfismo sessuale praticamente nullo, seguita da vasectomia bilaterale nei maschi. Deve essere eseguita quindi in struttura ambulatoriale da veterinari, con degenza in voliere di 24-48 ore prima della liberazione Lotta biologica. Lasciando da parte predatori quali Falconiformi e Strigiformi che rappresentano più che altro una curiosità, l’animale che forse più si presta a svolgere una funzione di predazione nei confronti del piccione è senz’altro la Taccola (Corvus monedula), un piccolo Corvide estremamente evoluto ed al vertice delle capacità “intellettive” tra gli Uccelli. Ormai essa ha colonizzato numerose città e paesi dove nidifica negli stessi anfratti e cavità ottimali per i piccioni, è onnivora ma il suo successo all’interno dell’ambiente urbano è legato ad una fonte di cibo sicura ed abbondante quali le uova ed i piccoli del piccione. Esistono luoghi un tempo invasi dai piccioni che dopo la comparsa delle taccole sono stati praticamente abbandonati in quanto troppo pericolosi

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pur se comodi e protett. Sarebbe comunque auspicabile misurare con dati oggettivi l’incidenza della predazione dei piccioni da parte di questo Corvide, senza contare il fatto che la Taccola è un competitore sui siti di nidificazione dai quali il piccione viene invariabilmente scacciato. Nella città di Cesena il censimento della popolazione è stato condotto da personale del Dipartimento di Sanità Pubblica con il metodo della conta diretta all’inizio di giugno del 1996 con le seguenti modalità. Il centro storico (500.000 mq, entro la cerchia muraria) è stato suddiviso in quattro zone, ciascuna delle quali è stata assegnata ad un operatore il quale percorrendola interamente (in contemporanea con gli altri tre) ha proceduto ad una conta dei volatili; per cercare di limitare l'errore di stima, sono state effettuate 3 conte nell'arco di dieci giorni, nella fascia mattutina o antimeridiana (massima visibilità degli animali), ma ad orari diversi (rispettivamente alle 8, alle 12 ed alle 10), e con la rotazione degli operatori tra le zone. L'ultima seduta è stata inoltre integrata da un sopralluogo in alcuni punti critici situati al di fuori del centro storico. Per quanto riguarda il centro storico, si è assistito ad un fenomeno di "migrazione" di gruppi di animali tra le varie zone nell'arco della mattinata, probabilmente seguendo un percorso alimentare, ma il numero totale dei capi osservati rimane relativamente costante. Ciò rappresenta un indizio della sostanziale correttezza del metodo utilizzato che presenta maggiore attendibilità in centri storici di dimensioni ridotte come quello di Cesena. Il numero di piccioni osservati nel centro storico è stato di circa 1800-2000, dato ottenuto conteggiando anche i colombi in volo e quindi a rischio di sovrastima; poiché in giugno si osserva il picco minimo di avvistamenti (elevata % di animali in cova) questo dato deve essere almeno raddoppiato per ottenere la stima della popolazione, che quindi risulta essere di circa 3800-4000 unità. A questi vanno aggiunti circa 1000 capi stimati all'ippodromo e 500 nella zona stadio e dintorni per una stima totale sulle 5500 unità. La densità riferita all'area urbana cesenate (circa 15 Kmq.) è di circa 350-400 piccioni / Kmq., dato che rientra nei limiti fisiologici; se però consideriamo il solo centro storico abbiamo una densità di circa 7.000 capi/kmq, pari a oltre 15 volte i valori oltre i quali si determina uno stress ambientale. Il piano di controllo elaborato insieme all’Amministrazione comunale prevedeva un lavoro triennale caratterizzato da catture e abbattimenti intensivi degli esemplari di sesso femminile e di quelli in scadenti condizioni sanitarie e dalla vasectomia degli esemplari maschi. Un censimento effettuato al terzo anno avrebbe fornito una stima dell’efficacia del lavoro svolto, permettendo di rimodulare l’attività ad esempio nella direzione di una minore intensità di abbattimenti Contemporaneamente è stato compiuto un notevole sforzo verso la bonifica degli immobili pubblici ed anche di quelli privati (mediante ordinanze ad hoc nei confronti dei proprietari) che maggiormente offrivano riparo e possibilità di nidificazione ai colombi. Le catture sono cominciate effettivamente nel 1997 ed in tre anni hanno portato al prelievo di circa 3000 capi, con l’esecuzione di circa 600 interventi di vasectomia. Il censimento di verifica è stato condotto nel 1999, nello stesso periodo dell'anno e con le medesime modalità già seguite nel 1996. Il numero di capi conteggiati nelle tre sedute è stato rispettivamente di 1080, 930 e 1040. Se consideriamo le temperature particolarmente elevate rispetto alla media stagionale che quindi possono aver determinato una minore visibilità degli animali, possiamo applicare al numero di capi osservati un fattore di conversione pari a 2,5 (mentre nel censimento precedente fu applicato un fattore 2) ottenendo una stima dei piccioni gravitanti sul centro storico di circa 2500 capi, ai quali possiamo aggiungere circa 1000 capi censiti all'ippodromo ed i 500 in zona stadio (invariati). L' attività repressiva nei confronti dell'alimentazione abusiva e incontrollata dei piccioni è rimasta per così dire un "buco nero" in quanto l’ordinanza vigente è rimasta di fatto inapplicata. Gli indicatori che consentono di valutare positivamente il lavoro svolto sono rappresentati essenzialmente dalla riduzione della popolazione di piccioni gravitante sul centro storico, come ha evidenziato il censimento di verifica, e dalla riduzione del numero di esposti e lamentele che sono pervenuti al Dipartimento nell'ultimo anno di lavoro. Anche soggettivamente, parlando con molte persone che vivono o lavorano in strutture fortemente compromesse nel recente passato, la sensazione è che il "problema piccioni" in questi tre anni si fosse sostanzialmente ridotto.

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5. CONCLUSIONI Gli interventi "caso per caso" non hanno il minimo impatto sul "problema piccioni": le pulizie sistematiche delle strutture compromesse danno un risultato limitato al brevissimo periodo ed comportano spese consistenti. La strategia di approccio deve essere globale e comprende tutta una serie di misure che vanno discusse ed affrontate con gli Uffici tecnici Comunali, l’ufficio diritti degli animali, i servizi sanitari, le ditte specializzate in disinfestazione, le aziende delegate all’igiene urbana, ecc.; accanto a ciò si conferma l'esigenza di operare direttamente sulla popolazione dei piccioni mediante interventi programmati e sistematici di riduzione del numero degli animali (sterilizzazione chirurgica o chimica, eutanasia di alcune categorie di volatili) ed inoltre un'attività repressiva più efficace da parte di tutti gli organi di vigilanza sull'alimentazione abusiva ed incontrollata, peraltro già vietata con ordinanza sindacale in moltissime città italiane. Il mantenimento ed il potenziamento di tutte le misure rappresenta l' unico sistema di controllo (perché di controllo e gestione si tratta, non certo di eliminazione o eradicazione) della popolazione dei colombi e dei danni da essi provocati realmente efficace nel medio-lungo periodo. Con il presupposto che nessun intervento singolo, anche il più drastico, ha un effetto sicuro e duraturo, il controllo numerico e sanitario dei colombi urbani va in ogni caso progettato e calibrato sulla realtà su cui si va ad intervenire. Per ottenere un buon risultato occorre una strategia integrata di più tecniche e metodiche (IPM – Integrated Pest Management, Fall e Jackson, 1998), che si concentri in primo luogo sulla riduzione delle risorse (abbassamento della capacità portante) ed in secondo luogo sulla riduzione della popolazione di animali. La strategia si deve completare con una campagna informativa, da condurre con metodi diversi (depliant, incontri con la cittadinanza, interventi sui media, ecc.), al fine di veicolare alla cittadinanza informazioni corrette e indicazioni pratiche di comportamento. Le azioni da intraprendere dovrebbero andare nella direzione della: Riduzione delle fonti di cibo Riduzione dei siti di nidificazione Riduzione dello spazio vitale Riduzione della popolazione Protezione degli immobili di particolare pregio In conclusione ogni “strategia gestionale”, pur diversa caso per caso deve sempre essere provvista di alcuni requisiti di base: Ecologica Integrata Selettiva Economicamente sostenibile Durevole Fattibile dal p.d.v. tecnico-scientifico Sicura per l’ambiente e le catene alimentari Tesa al riequilibrio ambientale ed alla riduzione delle risorse sovrabbondanti Etica e condivisa (compresa la valutazione dei fattori sociali)

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Appendice

Termiti: nemici in casa … fin troppo discreti !

Valeria Zaffagnini Le infestazioni da termiti rappresentano un problema sempre più diffuso ed il loro controllo comporta specifici interventi diagnostici affiancati da un’attenta attività di prevenzione. La capacità distruttiva delle termiti impatta fortemente sul nostro ambiente e richiede continui interventi di lotta volti ad arginare una presenza spesso sottovalutata e poco conosciuta. Requisito fondamentale di un adeguato programma di controllo è l’approfondito studio della specie bersaglio e delle sue caratteristiche bio-etologiche. La strategia di lotta deve basarsi sull’uso mirato del prodotto chimico solo laddove possa esplicare appieno la sua efficiacia e secondo modalità di distribuzione volte a raggiungere il cuore stesso della colonia. Generalmente, parlando degli Insetti che eleggono a propria dimora le nostre abitazioni e vi causano danni più o meno ingenti, il nostro pensiero corre alle blatte, alle mosche, alle tarme o ai tarli. Raramente menzioniamo le termiti, che molti considerano ancora appannaggio dei paesi tropicali. Ma certo non può dimenticarle chi le ha scoperte all’interno della propria casa e ha fatto esperienza del loro potenziale distruttivo! Questi piccoli insetti sociali divoratori di legno vivono nascosti nei nostri boschi, nei nostri giardini, nei nostri edifici e si nutrono di tutti i materiali cellulosici che incontrano nel loro discreto ma implacabile peregrinare alla ricerca di cibo. Insetti xilofagi per eccellenza dunque, le termiti costituiscono l’ordine degli Isotteri e formano società organizzate in diverse caste - operai, soldati e reali - con individui fertili, destinati alla funzione riproduttiva, ed individui sterili, deputati a tutte le altre mansioni necessarie alla vita comunitaria, come la ricerca del cibo, la nutrizione dei conspecifici, la difesa della colonia e la costruzione del nido. Proprio a causa dell’organizzazione sociale e della loro colorazione pallida, capita che vengano impropriamente definite come «formiche bianche». Attualmente, nel mondo, si conoscono circa 2000 specie di termiti, diffuse soprattutto nei paesi tropicali, dove trovano condizioni ambientali ottimali grazie agli elevati valori di umidità e temperatura. In Italia vi è una presenza silente più diffusa di quanto ufficialmente segnalato: le infestazioni termitiche sovente vengono male interpretate o confuse con quelle di altri insetti mentre i materiali danneggiati sono spesso sostituiti senza prima indagare le cause responsabili del loro stato. Nel nostro paese sono presenti e ben radicate due specie, entrambe di notevole interesse economico per i danni che possono arrecare alle strutture: Kalotermes flavicollis F., la termite dal collo giallo, e Reticulitermes lucifugus Rossi, la termite nera. Dal 1999 si segnala inoltre la presenza di una specie alloctona, Cryptotermes brevis, in via di diffusione nelle zone temperate. Le termiti sono segnalate su tutto il territorio nazionale: la grande adattabilità permette loro di colonizzare ambienti in vicinanza del mare o all’interno di costruzioni riscaldate, dove superare agevolmente la stagione fredda. Basti pensare che l’esempio più noto finora documentato di presenza termitica estesa ad un intero centro storico è quello di Bagnacavallo, comune ravennate dell’Emilia Romagna. Le due specie “nostrane” hanno aspetto simili ma si differenziano notevolmente per la dimensione delle colonie e per il tipo di ambiente prescelto: K. flavicollis dà origine a società poco numerose (1000-2000 individui) mediate la coppia reale derivata da forme sciamanti. Gli alati volano poco e spesso fondano nuove colonie nelle necrosature degli alberi. Le infestazioni si rinvengono abitualmente nelle piante legnose in pieno campo ma possono estendersi anche al legno in opera, in strutture asciutte. R. lucifugus, tipica termite sotterranea che si sposta nel terreno con sorprendente mobilità, costituisce invece colonie di milioni di individui comprendenti operai, soldati e riproduttori. Sebbene possa colonizzare anche piante vegete aggredisce di preferenza il legno morto e le ceppaie e, per questa sua peculiarità, appare maggiormente diffuso nei centri abitati. E’ sicuramente la specie più pericolosa, responsabile di gravi attacchi alle

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costruzioni urbane e grave minaccia per strutture lignee e patrimonio cartaceo di edifici antichi e moderni. Rappresenta infatti un potenziale distruttore di legno in opera come travi portanti, mobili, infissi, battiscopa, cornici di porte e finestre, perlinati, pannelli ma anche di libri ed archivi, arrivando a provocare persino il crollo di tetti e pavimenti. Manifestazione inequivocabile e ben evidente della sua presenza è la sciamatura primaverile che si verifica annualmente, da marzo a giugno, a seconda delle condizioni climatiche. In quest’occasione una miriade di individui dei due sessi, caratterizzati dalla pigmentazione scura e dalla presenza di grandi ali, lascia in massa il nido involandosi da specifici orifizi costruiti e sorvegliati dagli operai. Il volo è breve e stentato e una volta giunti a terra gli sciamanti si recidono le ali e si riuniscono in coppie, formando un appariscente tappeto scuro ed iridescente di corpi ed ali che difficilmente passa inosservato, soprattutto se l’evento si svolge all’interno di un’abitazione. L’avvento della bella stagione porta quindi sotto gli occhi di tutti il segno di un’infestazione di solito confinata nel suolo e all’interno delle strutture lignee, dove l’insospettabile ed indisturbata presenza delle termiti resta celata troppo a lungo! R. lucifugus rifugge la luce e l’aria libera: per questo è così difficile individuarne la presenza. Prolifera in ambienti caratterizzati da grande umidità, alte temperature e scarsa areazione, mentre una illuminazione ridotta o assente ne agevola l’insediamento. La colonia resta confinata nell’ambiente stabile del nido o dei camminamenti protetti, costruiti per procedere su superfici dure od esposte: simili a cordoncini terrosi addossati alle pareti di muri umidi o pendenti come stalattiti da soffitti e travi, rappresentano una chiaro indizio di infestazione. Una volta individuati i danni, andando ad indagare nei punti di attacco ci si imbatte in una miriade di piccoli individui bianchi che muovendosi velocemente cercano subito di rintanarsi nelle stesse strutture che fino a quel momento li avevano celati alla nostra vista: sono gli operai, alla costante ricerca di fonti alimentari per coprire le necessità nutrizionali della colonia. Tra di loro è possibile trovare altri individui biancastri, di taglia corporea simile ma caratterizzati dalla testa di dimensioni eccezionali (ipertrofica), robusta e pigmentata. Sono i soldati: meno numerosi degli operai, si occupano della difesa del nido, soprattutto diffondendo i segnali di allarme in situazioni di pericolo. Hanno il capo sclerificato dotato di due possenti mandibole, valido strumento di offesa e di difesa che li rende però incapaci di procurarsi il cibo in maniera autonoma. Quando l’infestazione è matura è possibile rinvenire i “riproduttori di sostituzione”, dal corpo allungato (5-6 mm) provvisto di abbozzi alari. Deputati alla crescita e alla diffusione della popolazione per “propaggine ipogea”, si allontanano dalla colonia madre per vie sotterranee scavate durante la ricerca del cibo, acquisiscono la capacità di procreare e stabiliscono nuovi focolai di riproduzione. Sempre ben riconoscibile è il legno attaccato: di aspetto sfogliato, è caratterizzato da strati sovrapposti più o meno sottili, intercalati da ampie lacune tappezzate con il tipico cemento - legno di sostituzione - , ricavato mescolando terra, detriti cellulosici, escrementi e saliva. Le strutture lignee infestate non mostrano mai sintomi visibili dall’esterno: R. lucifugus le svuota dall’interno e ne rispetta gli strati superficiali, senza produrvi fori di nessun tipo e senza emettere rosura alcuna. L’incessante lavoro di scavo resta quindi celato ai nostri occhi e, in assenza di un’adeguata prevenzione, finisce col manifestarsi solo quando gran parte della sezione utile del legno è ormai distrutta o, addirittura, in seguito a cedimenti e crolli della struttura. Inoltre R. lucifugus è in grado di spostarsi nelle costruzioni sfruttando tutti gli spazi già disponibili, come fessure nel cemento, giunture tra pietre o mattoni, anfratti nelle fondamenta, pareti dei vuoti sanitari, canalizzazioni elettriche, linee telefoniche, interstizi presenti nelle murature o nelle pavimentazioni. Quindi contrastarne gli attacchi non è impresa facile. Nei luoghi a rischio grande importanza rivestono gli interventi volti ad eliminare i fattori ambientali favorevoli all’insediamento delle termiti. Fondamentali a questo proposito risultano la bonifica e il risanamento degli ambienti umidi, l’aerazione continua dei locali per ridurre gli effetti dell’escursione termica, le opere di coimbentazione e gli interventi strutturali per liberare travi portanti dalle murature mediante la creazione di nicchie più larghe della sezione del trave. Per quanto riguarda i mezzi curativi, le metodiche di lotta tradizionali si rivelano spesso inadeguate e non risolutive. Le fumigazioni con prodotti di sintesi eliminano sì tutti gli stadi vitali presenti a lmomento nella struttura, ma non raggiungono la popolazione confinata nel terreno. Inoltre non hanno nessun potere residuale e richiedono complesse metodiche di applicazione comportanti l’evacuazione totale dei locali. Anche i trattamenti superficiali con insetticidi liquidi distribuiti o

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iniettati sui manufatti lignei attaccati finiscono con l’agire solo su una porzione della colonia. Nemmeno l’impiego massiccio di insetticidi liquidi iniettati nel terreno o alla base dei muri con lo scopo di bloccare tutti i punti di accesso all’edificio è in grado di assicurare la formazione di barriere continue che risultino impenetrabili alle termiti. Quest’ultimo tipo di trattamento comporta inoltre il rilascio nel suolo di grandi quantità di prodotti chimici, persistenti e talora molto tossici, ed un intervento pesante sulla struttura, vista la necessità di produrre ampi fori nelle murature o nelle fondamenta. Un approccio completamente diverso è quello offerto dalle nuove metodologie basate sull’impiego di IGR (Insect Growth Regulator), come i chintino-inibitori, che sono attivi a concentrazioni bassissime e vantano un profilo tossicologico estremamente favorevole. L’accrescimento corporeo delle termiti è discontinuo, avviene per tappe successive durante le quali la cuticola esterna, divenuta troppo stretta, si fessura e si lacera, mentre un nuovo esoscheletro, di dimensioni maggiori, va a sostituire quello vecchio. Durante questo processo, la muta, fondamentale è il ruolo giocato da una proteina, la chitina, massimo costituente dell’esoscheletro. Gli antichitinizzanti intervengono bloccandone la sintesi e la corretta organizzazione e causano la morte dell’insetto per disidratazione. Questa strategia di lotta prevede l’impiego di esche alimentari sigillate che consentono di colpire in modo mirato la popolazione di termiti, evitando di disperdere nell’ambiente dosi massicce di prodotti chimici: l’impiego del pricipio attivo è confinato in aree piccole e del tutto circoscritte, visitate spontaneamente dalle termiti. L’intervento non è invasivo: l’applicazione delle esche non interferisce né sull’architettura né sul normale utilizzo degli spazi in cui si sta realizzando il trattamento. Non occorre infatti produrre aperture o fori nei muri, nelle pareti o nelle fondazioni e tanto meno evacuare gli ambienti durante la somministrazione del prodotto. In più il principio attivo agisce non solo sulle termiti che raggiungono l’esca ma su tutti gli individui della colonia: proprio perché l’antichitinizzante esplica la sua efficacia al momento della muta, gli operai non muoiono nelle esche ma tornano al nido rilasciando feromoni traccia che identificano il percorso seguito. Poi, con il cibo ingerito, essi nutrono gli appartenenti alle altre caste, contaminando la restante parte della popolazione, irraggiungibile dai metodi tradizionali di lotta. La diffusione del principio attivo è quindi mirata ed estremamente efficace in quanto affidata alle termiti stesse che, loro malgrado, si fanno carico di veicolarlo all’interno della popolazione, collaborando di fatto alla propria distruzione. L’impiego delle esche attivate con chitino-inibitori rappresenta quindi una valida soluzione al problema delle infestazioni da termiti sotterranee proprio perchè offre un efficace programma di lotta basato sull’approfondito studio della specie infestante e delle sue caratteristiche bio-etologiche. L’intero processo si articola in diverse fasi consequenziali che vanno dal monitoraggio iniziale al trattamento vero e proprio, protratto fino alla verifica dell’avvenuto controllo. Bibliografia Ferrari R., Leca J.L., Marini M., Re M., Tigliè I., 1996 - Monitoraggio e controllo di Reticulitermes lucifugus Rossi (Isoptera: Rhinotermitidae) in area urbana. Disinfestazione e Igiene Ambientale, Milano, 13 (2) : pp 13-18. Ferrari R., Marini M., Tigliè I., Zaffagnini V., 1998 - Indagine sulle popolazioni di termiti Reticulitermes lucifugus Rossi (Isoptera: Rhinotermitidae) con metodiche di Tripla Marcatura e Ricattura. Disinfestazione e Igiene Ambientale, Milano, 15 (1) : pp. 14-20. Girgenti P., 1995 - Problematiche e prospettive della difesa dalle termiti. Disinfestazione e Igiene Ambientale, Milano, 12 (5) : pp 31-34. Jermannaud A., 1996 - Infestazioni da termiti: problematiche e considerazioni. Disinfestazione e Igiene Ambientale, Milano, 13 (2) : pp 43-47. Liotta G., 1991 - Gli insetti e i danni del legno. Problemi di restauro. Nardini Editore, Firenze : pp 36-56. Marini M. e Ferrari R., 1993 - Presenza di termiti (Reticulitermes lucifugus R.) nel centro storico di Bagnacavallo (Ravenna). Disinfestazione e Igiene Ambientale, Milano, 10 (4) : pp 73-76. Süss L., 1990 - Gli intrusi. Guida di entomologia urbana. Edizioni Agricole, Bologna : pp 40-45. Tremblay E., 1988 - Entomologia applicata. Edizioni Liguori, Napoli. Vol. II, parte I: pp 22-28.

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Zaffagnini V. e Ferrari R., 1998 - Le termit, conoscerle per contrastarle. GSA, Il Giornale dei Servizi Ambientali. Edicom, Milano (II) (2) : pp XIV-XVII.

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La sicurezza degli operatori addetti alla disinfestazione

A. Monteverdi, F. Escati Dipartimento della Prevenzione USL n. 5 di Pisa Zona Caldera

Premessa Il controllo degli infestanti urbani è diventato un problema di sanità pubblica sempre più importante. La protezione igienico-sanitaria di ambienti civili ed industriali passa sempre più anche attraverso l’eliminazione di roditori e di insetti potenziali responsabili di malattie. Esistono ormai aziende specializzate in questa opera di disinfestazione e derattizzazione che spesso associano anche lavori di sanificazione ambientale (nelle scuole, nelle mense, ecc…) e di vera e propria lotta antiparassitaria del verde cittadino (parchi pubblici, strade alberate, ecc…). Di solito vengono utilizzati presidi medico-chirurgici a bassa tossicità, ma a nostro giudizio la conoscenza del rischio di esposizione a sostanze chimiche pericolose è sottostimata da parte degli utilizzatori. Una recente nostra indagine nelle aziende che effettuano disinfestazione ci ha permesso di mettere in evidenza alcune situazioni problematiche; da questa esperienza derivano queste prime valutazioni sulle misure di sicurezza per gli operatori addetti a questa particolare attività. Metodologie d’intervento Derattizzazione: questa attività è mirata al controllo dei roditori nocivi, quali ratti e topi, che possono infestare gli ambienti frequentati dall’uomo; normalmente la lotta contro questi animali viene effettuata mediante il posizionamento mirato di esche rodenticide solide a base di cereali, in forma sfarinata o in blocchi di paraffina. Le esche rodenticide contengono principi attivi ad azione anticoagulante che causano, dopo alcuni giorni, la morte dei roditori per emorragia interna. Di solito le esche vengono collocate in luoghi inaccessibili alle persone o agli animali non bersaglio e comunque all’interno di particolari mangiatoie. Disinfestazione: questa attività è mirata al controllo di una serie di insetti sia volanti che striscianti che possono essere presenti negli ambienti frequentati dall’uomo. Per insetti striscianti si intendono blatte, formiche, zecche, pulci ecc.. mentre gli insetti volanti sono mosche, zanzare, tarme, ecc.. Per l’esecuzione della disinfestazione si ricorre di solito all’impiego di prodotti insetticidi distribuiti da apposite attrezzature (pompe irroratrici, atomizzatori, nebulizzatori elettrici). Per alcuni insetti (zanzare, mosche, vespe) le metodologie d’intervento prevedono l’impiego di specifici prodotti ad azione antilarvale in formulazione granulare o in pasticche che vengono distribuite manualmente nei luoghi di sviluppo (acque stagnanti, cumuli di rifiuti, ecc..). C’è da ricordare che per combattere alcuni striscianti (blatta orientalis) la distribuzione dei prodotti avviene all’interno di tombini fognari, scantinati, luoghi umidi in genere; per altri (blattella germanica, pulci e zecche) è previsto la distribuzione degli insetticidi in tutti i possibili rifugi degli insetti quali pavimenti, fessure, battiscopa, cornici di porte e finestre. Nei trattamenti contro gli insetti parassiti del verde quali la processionaria del pino, tignole del platano, cocciniglie, afidi vengono utilizzati atomizzatori o irroratori automatici montati su piccoli furgoni con pianali. Principi attivi utilizzati Per gli insetti siano essi striscianti o volanti vengono di solito utilizzati insetticidi a base di piretro o piretroidi (deltametrina, cipermetrina, permetrina), raramente derivati dell’urea (diflubenzuron), carbammati (bendiocarb, propoxur) fosforganici (temephos), fosfonati (trichlorphon) tionofosfonati( chlorpyrifos). Per il controllo dei roditori nocivi i prodotti più utilizzati sono a base di principi attivi ad azione anticoagulante (brodifacoum, bromadiolone, difenacoum). La stragrande maggioranza dei prodotti, classificati come presidi medico-chirurgici, hanno una bassa tossicità e solo alcuni sono classificati nocivi (Xn). Non vogliamo qui prendere in considerazione, in maniera analitica, la tossicità dei principi attivi utilizzati;

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occorre tuttavia fare alcune considerazioni: le piretrine considerate sicure per l’uomo possono determinare irritazione cutanea e sensibilizzazione; sono inoltre ritenute responsabili di effetti a carico del sistema nervoso dando alterazioni della sensibilità cutanea. Alcuni prodotti inoltre contengpnp xilene e/o solventi paraffinici a concentrazione non indifferente. A molte piretrine infine viene aggiuntoil piperonil butossido che negli insetti blocca i sistemi enzimatici ed il metabolismo dei piretroidi potenziandone così l’attività. Gli studi attuali non escludono che tale effetto si manifesti anche nei mammiferi. Ci pare utile d’altra parte sottolineare il fatto che alcuni principi attivi del gruppo dei carbammati e degli organofosforici , anche se utilizzati raramente, sono classificati come tossici (T). I principi attivi con azione rodenticida pur essendo presenti, nei prodotti commerciali, a concentrazione estremamente bassa e pur esplicando la loro pericolosità solo attraverso l’ingestione, sono tutti classificati molto tossici (T+) o tossici (T). Le fasi di lavoro pericolose Per quanto sopra esposto, considerando la pericolosità dei prodotti utilizzati e le metodologie d’intervento, possiamo dire che le fasi lavorative a rischio per gli utilizzatori sono: la preparazione della miscela in caso di prodotti che devono esser diluiti prima di essere distribuiti ; in questo caso vi è la possibilità di un assorbimento cutaneo e respiratorio. la distribuzione del prodotto sia esso sotto forma di nebulizzazione (assorbimento attraverso la cute e l’apparato respiratorio) o di esche (possibilità di assorbire le sostanze attraverso la cute o indirettamente attraverso l’apparato digerente) . Ci pare opportuno segnalare che alcune disinfestazioni avvengono in luoghi chiusi, angusti in cui il rischio di inalare sostanze pericolose è indubbiamente elevato; importante segnalare, nella distribuzione di antiparassitari sul verde pubblico, la possibilità di inalare gli insetticidi utilizzati dal momento che esiste in alcuni operatori la falsa sicurezza che l’abitacolo dei mezzi utilizzati sia sufficiente dal proteggerli anche senza l’uso dei dispositivi di protezione individuale; dalle nostre indagini risulta che nessun mezzo è dotato di filtri adeguati (così come si trovano ad es. sui mezzi agricoli); il ritorno in ditta con automezzi imbrattati di sostanze chimiche può essere, a nostro giudizio, un altro momento pericoloso (rischio di assorbimento cutaneo), soprattutto perché non abbiamo mai trovato nessuna procedura adeguata che stabilisca un lavaggio degli stessi. Da prendere in considerazione infine, in relazione alla frequentazione di determinati luoghi (tombini, fogne, luoghi con acque stagnati, ecc..), la possibilità che esista per questi lavoratori anche un rischio biologico. Indicazioni sulle misure di sicurezza Sinteticamente riportiamo le misure di sicurezza che a nostro avviso devono essere adottate nelle aziende che effettuano lavori di derattizzazione e disinfestazione. Deposito Il deposito dei preparati utilizzati deve avere pavimenti e pareti perfettamente lavabili, quindi meglio se rivestiti di mattonelle; vi deve essere un pozzetto di raccolta in basso in maniera tale da poter smaltire le sostanze eventualmente sversate; il locale deve essere fresco, asciutto e ben aerato con finestre dotate di reticelle; l’impianto elettrico deve essere conforme (da ricordare che alcuni prodotti possono essere infiammabili). Il locale deve essere chiuso a chiave e l’accesso deve avere in bell’evidenza cartelli avvisatori di pericolo. L’accatastamento dei prodotti deve seguire alcune regole fondamentali: i prodotti più pericolosi (ad es. tossici e nocivi) similmente a quanto avviene per i prodotti fitosanitari dovrebbero essere separati dagli altri, così come i comburenti devono essere separati dagli infiammabili. Tutti le confezioni devono essere sollevate dal pavimento, accatastate al di sopra di pallets in legno con i prodotti liquidi sotto quelli in polvere, abbastanza distanziati in maniera da permettere una regolare ispezione degli stessi per controllare eventuali alterazioni nelle confezioni. Possono essere tenuti altri prodotti con azione non specificatamente pericolosa (disifettanti, detergenti, ecc..) ma comunque separati. Il deposito non deve contenere altre cose come ad es.pezzi di ricambio di attrezzature per l’erogazione dei prodotti e tanto meno D.P.I. o ricambi di essi (nella nostra esperienza abbiamo trovato anche filtri di maschera pur se

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inscatolati). Occorre anche una buona gestione del magazzino per evitare di tenere a lungo prodotti che possono scadere. Dispositivi di protezione individuale (D.P.I.) Rappresentano sicuramente un sistema estremamente efficace a proteggere la via cutanea, respiratoria ed anche digerente riducendo l’assorbimento dei prodotti e quindi i danni da loro determinati. In base alla legislazione attuale tutti i D.P.I. immessi sul mercato devono riportare la marcatura CE ed essere corredati di nota informativa preparata e rilasciata obbligatoriamente dal fabbricante; tale nota deve essere redatta in italiano e deve contenere: nome ed indirizzo del fabbricante o del suo mandatario nella Comunità; le istruzioni di deposito, di impiego, di pulizia e di manutenzione; gli accessori utilizzabili con i D.P.I.; le classi di protezione in riferimento ai diversi livelli di rischio ed i corrispondenti limiti di utilizzazione; la data o il termine di scadenza del D.P.I. o di alcuni componenti; il significato delle indicazioni o dei pittogrammi riportati. Secondo questa legislazione i D.P.I . sono classificati in 3 categorie: - categoria 1° : rischi di lieve entità - categoria 2°: altri rischi - categoria 3°: destinati a salvaguardare da rischi di morte o di lesioni gravi e di carattere permanente. A nostro giudizio i D.P.I. per gli operatori addetti alla disinfestazione devono appartenere a quest’ultima categoria. Per la protezione delle vie respiratorie e digerente utilizzare i seguenti D.P.I.: Casco o cappuccio ventilato: proteggono l’intera testa e sono di solito da preferire i modelli che utilizzano batterie ricaricabili proprie anziché quelle alimentate direttamente dai mezzi. Maschera o semimaschera; la prima protegge l’intero volto la seconda solo naso e bocca e pertanto deve esser utilizzata insieme ad occhiali; sono da preferire quelle con due filtri e con due valvole di espirazione e con almeno un doppio laccio di trattenuta. Ricordarsi che la tenuta non è garantita in soggetti con barba o basette lunghe. In entrambi è importante la scelta dei filtri; la protezione dell’apparato respiratorio dai prodotti utilizzati si ottiene con la presenza di due filtri, il primo montato all’esterno è il filtro che protegge da polveri e nebbie, identificato con lettera P e da una banda di colore marrone, il secondo montato tra il filtro antipolvere e la maschera è contrassegnato dalla lettera A e da una banda di colore bianco e protegge dai gas e dai vapori. Il filtro è inoltre contrassegnato da un numero (1,2,3) che rappresenta la capacità filtrante. E’ preferibile utilizzare filtri con capacità bassa o intermedia per evitare, vista la necessità di utilizzare due filtri appaiati, che il lavoro respiratorio sia troppo elevato. Tutti i filtri hanno un tempo di scadenza che deve essere chiaramente indicato e devono essere conservati protetti dall’umidità e da temperature eccessive. Per la protezione della cute: tuta intera stando attenti alle cuciture meglio se saldata; i pantaloni devono essere indossati all’esterno degli stivali. Per la decontaminazione, la corretta manutenzione e la durata seguire quanto riportato sulla nota informativa del fabbricante. Se non sono monouso ma riutilizzabili non devono essere lavati contemporaneamente ad altri indumenti per non contaminarli. Devono esser indosati occhiali a tenuta se non si utilizza il casco. I guanti devono essere a cinque dita, inpermeabili e di lunghezza sufficiente a proteggere l’avambraccio. Al termine del lavoro lavarli ancora calzati con acqua e sapone. Bisogna indossare stivali in gomma che al termine del lavoro devono essere decontaminati. In caso di guasto meccanico del mezzo utilizzato per il trattamento effettuare la riparazione con i D.P.I. indossati utilizzando strumenti idonei; è buona norma comunque prima di iniziare il lavoro effettuare un valutazione sull’efficacia della macchina utilizzata e comunque fare manutenzioni programmate degli apparecchi utilizzati. E’ importante anche avere a disposizione un serbatoio di acqua pulita durante il lavoro per pulire piccole ed improvvise contaminazioni. Esiste anche una procedura corretta nella sequenza con cui vengono tolti i D.P.I. utilizzati durante il trattamento: lavare i guanti ancora indossati;

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togliere e lavare il D.P.I. per le vie respiratorie facendo attenzione a non bagnare con l’acqua il filtro; lavare gli stivali; rilavare i guanti ancora indossati; togliere gli stivali; togliere la tuta e, se in materiale riutilizzabile, riporla nel contenitore dopo averla lavata; rilavare i guanti e riporli nel loro contenitore; lavare le mani e fare una doccia prima di indossare gli indumenti. Le aziende devono essere dotate di spogliatoi con docce e armadietti a doppio scompartimento per impedire qualsiasi contaminazione. Conclusioni La disinfestazione e la derattizzazione rappresentano un’attività sempre più presente nel nostro territorio; durante tale attività vengono utilizzate molte sostanze pericolose. Nella gestione del magazzino di una ditta abbiamo ad es. riscontrato la presenza di più di 100 prodotti commerciali e di circa 30 principi attivi. Per questi prodotti la legislazione italiana prevede la denominazione di presidi medico-chirugici e tuttora sono tenuti distinti dai prodotti fitosanitari utilizzati in agricoltura anche se spesso i principi attivi sono gli stessi: questo comporta a nostro giudizio una confusione di base che deve essere eliminata. Ad es. per i prodotti fitosanitari è previsto, almeno per quelli più pericolosi, il possesso di una autorizzazione che viene rilasciata dopo un corso di formazione che nell’esperienza della Regione Toscana è di 25 ore e rappresenta una valida formazione professionale. La mancanza di questi obblighi per i presidi medico-chirurgici ha , a nostro giudizio, creato un approccio al problema piuttosto “facile”; la sensazione in molti operatori è quella di trovarsi di fronte a sostanze che non sono poi così pericolose e questo determina una riduzione nella protezione personale. Dalla nostra esperienza possiamo dire che ci troviamo invece di fronte ad un problema importante che deve essere affrontato adeguatamente per preservare la salute degli addetti. Bibliografia M. Bozza Marrubini, R. Ghezzi Laurenzi, P. Uccelli INTOSSICAZIONI ACUTE. Meccanismi, diagnosi e terapia. Organizzazione Editoriale Medico Farmaceutica. Milano M. Muccinelli Prontuario dei FITOFARMACI Edagricole. Bologna Autori Vari I MANUALI Prodotti Fitosanitari. Rischi e corretto impiego. Edizioni Regione Toscana Autori Vari Attti del Convegno Nazionale LAVORO E SALUTE IN AGRICOLTURA Grosseto ottobre 1993

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