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Storia Genova e Venezia: antiche - gruppocarige.it · bauda, nella Storia della antica Liguria e di Genova (1835) manifestava non diverso orgoglio “nazionale”, quando ri-

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Storia

E perfino nell’ultimo bagliore di sovranità, quando Napoleo-ne ne volle personalmente la fine, le due Repubbliche oli-garchiche ancora condividevano, in modo anacronistico maaltamente simbolico, valori fondamentali, difesi fin dai tem-pi delle battaglie per le libertà comunali, dall’autodetermi-nazione al libero scambio, alla stessa istituzione repubblicana.La Superba e la Serenissima conservarono a loro modo l’an-tica grandezza addirittura nel malinconico e tutt’altro che eroi-co momento dell’abdicazione non meno di quanto lo era-no state all’apogeo della gloria mediterranea e la fine di tan-to durevoli entità statali lanciò il chiaro messaggio che nes-sun progetto di nuovo ordine continentale – non quello de-

magogico-cesarista di Bonaparte né quello assolutistico del-le potenze centrali, ma neppure la concezione britannica,liberale e imperiale – poteva guardare con benevolenza achi volesse andare per la propria strada in piena autono-mia. L’impegno risorgimentale delle due città, premessa del-la presenza in una Italia infine unificata, si trovò quasi na-turalmente tracciato dalle ragioni geopolitiche che avevanodeterminato la fine della loro indipendenza.Ma la storia delle due sovrane Repubbliche affondava leproprie radici in epoche che precedevano di gran lunga lastessa fondazione di Genova (VI secolo a.C.) e di Venezia(V secolo d.C.), fino a perdersi nella notte dei tempi, cioènel Paleolitico, in terre di remotissimi insediamenti umani.In una Liguria non toccata dalle glaciazioni si stabilirono giài Neandertaliani, poi gli abitatori delle barme dei Balzi Ros-si (Ventimiglia) – dove l’uomo di Cro-Magnon, che avreb-be dato forte impronta ai Paleoliguri, convisse con il tiponegroide di Grimaldi – e più tardi i pittori rupestri del Mon-

Il contributo di Genova e di Venezia alla crescita

della civiltà umana, nel cruciale passaggio dal Medioevo

alla modernità, è stato enorme. La loro industriosità

mercantile, la potenza marinara, la perizia tecnologica,

la larghezza d’orizzonti presero per mano l’Europa

e la portarono in tempi nuovi.

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Genova e Venezia: anticheprotagoniste della Storia Italiana

di Mauro Bocci

A fronte “Maestro di Giano” 1307 circa. Grifone - simbolo dellaSuperba - in marmo bianco apuano (Genova, Civico MuseoSant’Agostino, n. inv. 3624).Il Leone di San Marco, simbolo della Serenissima, predato dai genovesi a Pola nel 1380. Si trova a Genova, murato sul fianco della Chiesa di San Marco al Molo.

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te Bego. Cacciatori delle foreste padane, la cui orografia siandava rimodellando ai margini delle distese gelate dell’ultimoWürmiano, furono i primi abitatori del Veneto, insediati inrifugi come il Riparo Tagliente di Valpanténa, presso Grez-zana, poco a nord di Verona e a est del Garda. Le notizie sui popoli che diedero nome alle due regioni so-no assai frammentarie e in parte fantasiose. La storiografiaottocentesca ha scavato a volte con passione antichistica neitesti greci e romani per venire a capo delle loro origini e neha tratto anzitutto dati leggendari. Alcune di queste narra-zioni portano a oriente, alla caduta di Troia e alla fondazio-ne di colonie in Italia da parte dei fuggiaschi dalla distruttacittà di Priamo. Polibio attribuiva a Sofocle l’istituzione dellastretta relazione dei Veneti con gli Eneti della Paflagonia, al-leati dei Troiani durante il decennale assedio degli Achei: ilgrande tragico greco faceva riparare prima in Tracia e poi sul-le coste adriatiche il saggio Antenore, fondatore di Padovaalla testa di una colonna di profughi teucri e paflagoni.

Poco avvezzo a secondare miti classicisti, lo storico e ar-cheologo toscano Giuseppe Micali osservava in L’Italia avan-ti il dominio dei Romani (1821): «I Romani superbi d’illu-strare la propria origine con la lor provenienza da Troja, ac-cettarono senz’altro esame, e ampliarono la graziosa novelladello stabilimento di quell’eroe e degli Eneti Paflagoni nelseno Adriatico, ove vollero che vinti gli Euganei pigliasseroin comune il nome di Veneti, secondo la pronunzia d’Ita-lia antica. Catone lasciò scritto che i Veneti erano di troja-na stirpe, e fu copiato da Livio. Plinio però non parve trop-po persuaso di tal concetto: e Strabone ne fu sì poco con-vinto, che amò meglio credere i Veneti derivati dalla Galliaceltica, e dai lidi dell’Oceano». Certo non stupisce che ungrande e rigoroso storico come il padovano Tito Livio, cheostentava il dolce accento della propria terra, accettasse piut-tosto acriticamente di attribuire all’illustre retaggio troianola fondazione della sua città. Al mito troiano vennero anche accostati i Liguri. La corri-spondenza di alcuni toponimi (Sestri/Segesta, Lerici/Erice,Entella) avvalorerebbe quanto meno l’ipotesi di un loro in-tenso scambio, se non di radici comuni, con gli Elimi, in-sediati nella Sicilia occidentale, che i Greci consideravano

La Repubblica di Genova in una stampa del 1692.A fronteVenezia e il suo territorio in un’incisione su rame di Petrus van derAa, 1720 ca. (coll. Galleria San Lorenzo al Ducale, Genova).

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discendenti di esuli dardanici. Il marchese Girolamo Ser-ra, presidente del governo provvisorio della Repubblica diGenova (aprile-dicembre 1814) prima dell’annessione sa-bauda, nella Storia della antica Liguria e di Genova (1835)manifestava non diverso orgoglio “nazionale”, quando ri-teneva di poter annoverare tra le «colonie ligustiche» duepopoli «sommamente gloriosi», come i Siculi e gli Aborigenilatini, «antenati de’ Romani», il cui primevo e leggendariore Giano ha portato un poco di sconclusionato scompiglionell’interpretazione del nome di Genova. Gli Aborigeni si uni-rono a Enea, approdato sulle coste dal Lazio, e con lui do-vettero fronteggiare l’ostilità dei Rutuli e dei loro alleati sa-bini, volsci e campani; a quel punto, Etruschi e Liguri sa-rebbero accorsi in aiuto di quell’entità che si andava for-mando dalla fusione tra autoctoni “ligustici” ed elementotroiano: il Serra, del resto, non fa che riprendere e cerca-re di rendere espliciti gli oscuri versi del Libro X dell’Enei-de che celebrano l’episodio.Il massimo storico della romanitas e il più grande poeta la-tino facevano dunque partecipare Liguri e Veneti al gran-de mito che sottende alla fondazione di Roma, i primi at-traverso il rapporto di parentela con i Latini originari, i se-

condi nella comune sorte di Antenore e di Enea. Si tratta-va di una sorta di ideale cooptazione, in una sfera impe-riale e “italiana”, di due popoli che avevano da tempo ot-tenuto la cittadinanza romana. Le tribù liguri, che per lungo tempo avevano dato gratta-capi ai Romani, si stendevano dal Rodano all’Arno e perquasi tutto il nord-ovest d’Italia: non si trattava di una na-zione unitaria, quanto di confederazioni che si formavanoe scioglievano secondo necessità e interesse. Sul loro no-me collettivo non sono mancate le speculazioni etimologi-che, che lo fanno provenire da parole d’idiomi celtici, daLly-gues, “installati, “sedentari” (Simon Pelloutier, Storia deiCelti, 1750), da Lly-gour, “gente che vive sul mare” (Ni-colas Fréret, il teorico dell’origine nordica degli Etruschi) oancora da Lly-gor, “montanari”, che sembra l’ipotesi piùsaggia ed è dell’erudito italiano Bardetti. Liguri furono forse i Camuni, gli Orobi e gli Euganei; que-sti ultimi, che abitavano tra le Alpi orientali e l’Adriatico eai quali sono attribuite la fondazione di Ateste/Este (IX se-colo a.C.) e una prima colonizzazione delle coste dalmate,con il tempo furono sospinti a ponente proprio dall’arrivodei Veneti, e in parte furono assimilati. Si è ritenuto che quel-

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la migrazione fosse partita dalla regione acquitrinosa del-la Vistola e dell’Oder, dove ancora Tacito, alla fine del I se-colo d.C., attestava la presenza dei Veneti o Vendi, dicen-doli popolazione distinta tanto dai Germani quanto dai Sar-mati. Queste genti si sarebbero portate a ovest – nell’Ar-morica gallicana, dove avrebbero avuto a che fare con Giu-lio Cesare – e a sud-ovest, sull’Adriatico, nella regione cheda loro prese il nome, dove trovarono stagni e paludi nontroppo diversi da quelli che avevano lasciato nella madre-patria. Pierre-Charles Levesque ricordava che «una città ven-ne altra volta fondata dagli Slavi sotto il nome di Vencta,verso l’imboccatura dell’Oder, e che essi costruirono unacittà con lo stesso nome nell’isola di Rügen. Questo nomeha origine da una parola della loro lingua che vuol dire co-rona. Chiamano corona di un paese (venets zemlij) il suoultimo limite, la frontiera, nome che si confaceva al paeseche occuparono i Veneti al bordo del golfo Adriatico».L’incerta frontiera di terre e di acque fu lo scenario di unacontesa con la natura che ha caratterizzato la preistoria ela storia, se non l’unicità, della Venezia marittima, con-giungendo i palafitticoli progenitori, gli immigrati dalla Vi-stola e gli abitanti della Serenissima. Alvise Zorzi, in La Re-pubblica del Leone (1979), ha puntualmente segnalato che«le palificazioni che sostengono la basilica di San Marco,

i milioni di pali conficcati nel fango per costruire il pontedi Rialto o la chiesa della Salute discendono dritti dritti dal-le palafitte del lago di Ledro, o di Fiavè, di migliaia d’annipiù antiche». Non meno intensa battaglia con un habitat ingeneroso si svol-geva quasi in parallelo nella Liguria geografica, vale a direquella attuale, ai cui confini le pressioni dei coloni focesi, de-gli Etruschi e dei Celti andarono lentamente riducendo il fra-gile ”impero” delle tribù. La fatica dei Liguri non fu quella dibonificare acquitrini, sebbene anch’essi cercassero di gua-dagnare alla terra qualche metro di mare; l’uomo appenni-nico concimò la rena, s’inerpicò per rupi scoscese e strito-lò il macigno: in quel suo mondo rude e aspro perfino le don-ne si adattavano a spaccare sassi o riprendevano a lavora-re subito dopo aver partorito. I castellari, gli insediamenti di-fensivi di pietra posti soprattutto in vicinanza delle selle in-tervallive o dei punti di transito e di transumanza, modella-vano il primitivo paesaggio ligure come le terramare segna-

San Giorgio, particolare della tela di G.B.Carlone “L’Immacolatafra i Santi G.Battista, Giorgio, Lorenzo e Bernardo” (Coll. d’Artedi Banca Carige).A fronteSan Marco Evangelista, dipinto di Francisco Bayeu, artistaspagnolo del XVIII secolo. Madrid, Museo del Prado.

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vano quello della Venezia fra “continente” e lagune. Premute tra il mare e l’arido Appennino, le genti della Li-guria “geografica” (ben più limitata di quella “etnica”) svi-lupparono una cultura essenziale e povera, nutrendosi diorzo e di radici, cacciando e pescando. I Veneti guardaro-no a occidente, verso una pianura padana non ancora com-pletamente disboscata, e, sebbene non rinunciassero allamarineria, praticarono l’agricoltura e l’allevamento in un ter-ritorio relativamente fertile (e la potenza veneziana si sa-rebbe alimentata di questo ricco background di terraferma).Le popolazioni ligustiche sfidarono invece il monte, ma nonvoltarono mai le spalle al mare. Già in epoche remote, ru-dimentali gozzi, autentici gusci, solcavano con incerti esi-ti il mare, raggiungendo la Corsica e spingendosi oltre – sifavoleggia fino al Mar Nero – con il loro modesto carico dimele e miele, di legname e pelli di poco pregio.Peraltro, quasi certamente Liguri e Veneti già trafficavano,nella tardissima età del Bronzo, un bene di consumo pre-zioso, che perfino le eleganti donne di Creta e di Miceneassai gradivano. Poco profondi nella loro disciplina, alme-no riguardo a un’Italia settentrionale che poco conosceva-no, i geografi greci ritenevano la Liguria ricca d’ambra, unaresina fossile che per certi suoi effetti magnetici sarebbestata chiamata dai Romani electrum, con la quale si con-

fezionavano amuleti, figurine, collane in certo modo “ma-gici”. Plinio il Vecchio citava alcuni autori di “guide” per viag-giatori (Scimno di Chio, Sozione di Alessandria) che situa-vano le inesistenti isole Elettridi alle foci del Po. Ma i geo-grafi greci fotografano un dato: le coste liguri e venete era-no il primo capolinea mediterraneo dell’ambra.La ricercata resina abbondava sulle coste baltiche e sullesponde della bassa Vistola, dalle quali i Veneti erano par-titi. L’ambra è diffusa inoltre anche sul versante occiden-tale dello Jutland, sul Mare del Nord, e all’estuario dell’El-ba. Nella Vita di Mario, Plutarco (46-127 d.C.) riferisce chenella guerra contro i Cimbri e i Teutoni (109-102 a.C.) i mer-cenari liguri al servizio di Roma venissero a contatto congli Ambroni, una popolazione alleata di quelle nazioni ger-maniche, e udendo in battaglia il loro grido di guerra rico-noscessero una qualche comune appartenenza. La paro-la Ambrones evocava forse il tuono e nulla aveva a che fa-re con l’ambra (nel mondo classico electrum o succinum),poiché amber è voce araba, passata soltanto nel Medioe-vo alle lingue romanze, e anche all’inglese e al russo. Ora, che i Liguri, dei quali Catone osservava che «hannoperso il ricordo di dove sono originari», avvertissero un le-game ancestrale con gli Ambroni, vassalli o contigui dei Cim-bri dello Jutland, può essere il segnale di legami etnici, ma

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anche l’impronta di una remota familiarità ispirata da atti-vità svolte insieme, magari come soci in affari, impegnatinelle spedizioni e nel trasporto dell’ambra dal Mare del Nord.Le due “vie dell’ambra” – una più occidentale, dallo Jut-land alla Liguria, e una più orientale, dal golfo di Danzicaall’Adriatico – indicherebbero antichi percorsi continenta-li che, con qualche aggiustamento (e l’imporsi più a levante,ma soltanto intorno al IX secolo d.C., della “strada dai Gre-ci ai Variaghi”, tra Baltico e Mar Nero), già fissavano quel-le che sarebbero state le linee di sviluppo mercantile di Ge-nova e di Venezia, e dell’Europa, nei secoli della rinascitatardomedioevale.Verso il Nord, i movimenti di merci dei Liguri – il cui gran-de territorio era eroso dagli Etruschi e dai Focesi – si tro-varono chiusi, intorno al IV secolo a.C., dall’irruzione di unanuova popolazione indoeuropea venuta da est, i Celti, cheminacciarono anche i business a lungo raggio dei Vene-ti. La decisa resistenza di questi ultimi, attaccati nel 388a.C., salvò Roma da ulteriori disastri dopo la distruttiva in-cursione dei Galli Senoni (390-387 a.C.). Anche i Liguri op-

posero una formidabile resistenza aiGalli, che non riuscirono ad affacciarsisulla Liguria geografica, anche se as-similarono molte delle tribù oltre le Al-pi Marittime e l’Appennino. Ma i Cel-ti non passarono quella linea, comenon riuscirono a varcare l’Adige. Nonparticolarmente bellicosi, ma deter-minati nel difendersi, nel 302 a.C. i ra-ri abitanti delle lagune affacciate sul-lo specchio di mare tra le attuali Ve-nezia e Grado inflissero una dura le-zione anche a una squadra di corsa-ri spartani, respingendoli e catturan-done le navi. Nel 283 a.C. i Veneti en-trarono pienamente come alleati nel-la sfera d’influenza romana.Durante la prima guerra punica (264-241 a.C.), ben diverso fu l’atteggia-mento dei Liguri, che con le loro pic-cole imbarcazioni frequentavano pa-cificamente, da mercanti, gli scali nord-africani e che in qualche occasione of-frivano i loro attracchi alle navi da guer-ra puniche. Fu per loro scelta quasi ob-

bligata arruolarsi contro Roma; i Liguri orientali, gli Apua-ni del Magra, utilizzarono addirittura il pretesto della guer-ra “mondiale” per sistemare alcuni vecchi conti in sospe-so con gli Etruschi. Dopo la disfatta cartaginese alle Ega-di, i Romani si scagliarono contro quella tribù. Quinto Fa-bio Massimo, che la sconfisse nel 233 a.C., si era trova-to di fronte a genti che adottavano tecniche di logoramentoe di guerriglia delle quali l’abile stratega romano si sareb-be utilmente ricordato nel conflitto contro Annibale. Per te-nere sotto controllo il Tirreno settentrionale, Roma dedus-se inoltre le colonie di Pisa e di Luni.Sorta intorno al VI secolo a.C., forse in coincidenza con ildeclino della originaria Marsiglia ligure, occupata dai Fo-cesi e ormai grecizzata, Genua (Genova) era poco primadello scoppio della seconda guerra punica il più importantescalo marittimo-commerciale della regione e costituiva unulteriore caposaldo romano in un territorio ostile. Il suo no-me è associato a voci paleoliguri o celtiche, geneu, “gi-nocchio” o genu, “mascella”, che compaiono nella for-mazione dei toponimi di Ginevra e del Monginevro; ma po-

Visconte Maggiolo, carta nautica del Mediterraneo, XVI sec. Genova,Civica Biblioteca Berio.A fronte(in alto) particolari della carta nautica.(sotto) La Battaglia di Lepanto, 1571.La flotta navale veneziana con le forzecrisitane alleate vinse lo schieramentoottomano. (Dipinto anonimo del XVIIsec. Londra, National Maritime Museum).

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trebbe derivare da un termine gallico indicante un’entra-ta: di qui ianua, “porta”, etimo latino assai più tardo e purnon del tutto infelice o improprio.La seconda guerra punica coinvolse pesantemente Geno-va e i Liguri, non la regione veneta: Filippo V di Macedo-nia, alleato di Cartagine, tentò invano di allargare il con-flitto all’Adriatico. Nel 218 a.C., con il passaggio delle Al-pi, Annibale sperava anzitutto di favorire nella Penisola l’in-surrezione dei Liguri, dei Galli cisalpini e di altre popola-zioni ostili a una tutela romana. In relazione a quel con-vulso 218 a.C., Genova viene citata per la prima volta daTito Livio: aprì amichevolmente le porte a Publio CornelioScipione, padre del futuro trionfatore di Zama, e accolsein porto le sue sessanta navi.Ausiliari liguri combatterono al contrario a fianco di Anni-bale al Ticino – dove Scipione padre, ferito e accerchiato,venne salvato dal figlio diciassettenne o, secondo Polibio,da un servo ligure – e sulla Trebbia (sempre nel 218 a.C.)e pur nella sconfitta si distinsero nell’esercito di Asdruba-le, sbaragliato sul Metauro (207 a.C.). Magone mosse a quelpunto dalle Baleari su Genova, che i Romani avevano ab-bandonato a se stessa dopo che la guerra si era spinta piùa sud, e la distrusse, facendo grande bottino negli empo-ri dove si scambiava ogni tipo di merce (205 a.C.). Anzi-ché congiungersi con l’esercito di Annibale, Magone indugiòpoi in lunghi parlamentari per rinnovare le alleanze con Gal-li e Liguri. Il generale cartaginese diede infine battaglia sulTanaro, dove fu gravemente ferito, e morì durante il viag-

gio che doveva riportarlo in patria: episodio che FrancescoPetrarca ha trasformato in una struggente pagina dell’A-frica, che contiene anche una lirica descrizione di incon-taminate coste liguri.I Romani inviarono a Genova due legioni, con l’incaricodi ricostruirla ed essa risorse alla vigilia del decisivo scon-tro di Zama (202 a.C.), con tutte le prerogative e i privi-legi di una città confederata a Roma. Dopo la fine del con-flitto “mondiale”, divenne base militare romana nel bel-lum apuanum, ripreso nel 193 a.C. e concluso tredici an-ni dopo con la sconfitta della tribù ligure e una deporta-zione in massa nel Sannio. Ma le guerre liguri ebbero stra-scichi fino al 124 a.C. e Genova restò sempre fedele aRoma. La benevola attenzione con la quale il Senato ro-mano guardava ai Genuati sarebbe stata riconfermata nel-la tavola del Polcevera (117 a.C.), rinvenuta nel 1506, nel-la quale emissari di Roma sentenziano a loro favore in unadisputa con un’altra tribù polceverasca, i Veturii, per pa-scoli e terre comuni. Vinto Annibale, Roma avvertiva fortemente l’esigenza di unapacificazione dell’Italia. Anche in questa prospettiva veni-va fondata Aquileia (181 a.C.), la cui storia in certo modoè la “preistoria” di Venezia. Le guerre puniche non aveva-no investito il Nord-Est italiano: erano cresciute città, la cam-pagna dava buoni frutti e perfino l’inflitrazione gallica erastata pacifica. A sollecitare un intervento romano furono iVeneti, preoccupati fin dal 187 a.C. dalla presenza di uninsediamento agricolo-militare gallico non lontano dal fiu-

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me Aquilis (oggi Natissa) e dall’arrivo dei più aggressiva Car-ni, anch’essi celtici. Gli inviati romani trattarono con i con-tadini galli e i genieri si misero all’opera, insediandosi an-zitutto nella struttura difensiva che quelli avevano creato.Aquileia sarebbe poi divenuta capitale della X Regio Venetiaet Histria e presidio strategico nell’espansione verso i Bal-cani e l’Europa nordorientale. La logistica “di pace” fu un punto di forza dei Romani. Nonsfuggì loro la fondamentale importanza di tracciare stradeche congiungessero il Mar Ligure e il Tirreno all’Adriatico.La via Postumia, costruita nel 148 a.C., quando ancora al-cune tribù liguri erano in rivolta, diede soluzione a quellanecessità: dalla leale Genova, attraverso le recenti ma giàconsolidate colonie di Piacenza e Cremona e poi per Ve-rona e Vicenza, essa si avvicinava ad Aquileia, mettendoin contatto centri commerciali e industriali di considerevo-le importanza nel quadro dell’età repubblicana. La Vene-zia continentale, raggiungibile da una rete di strade, s’im-poneva intanto come la terra di un beau vivre che corona-va la villeggiatura degli homines novi romani; e il più squi-sito poeta d’amore dell’età di Cesare, Catullo, era di quel-le parti. Ma nella regione le attività erano molteplici. A ri-dosso della laguna, immersa nei boschi, Altino funzionavada porto e da stazione balneare, Grado era base navale,Chioggia porto mercantile che serviva le industrie padova-

ne; e a Concordia Sagittaria si fabbricavano armi per con-to dello Stato. Quel sereno microcosmo non avrebbe subi-to gravi scosse fino ai tempi di Marco Aurelio (II secolo d.C.),quando l’ondata dei Quadi e dei Marcomanni, prima avvi-saglia della lunga epoca delle invasioni germaniche, s’in-franse proprio dinanzi ad Aquileia (169 d.C.), ulteriormen-te fortificata dopo un devastante terremoto (nel 150).Di Genova, nei primi secoli imperiali, si sa piuttosto poco;svolse discretamente la funzione di porta, piuttosto che quel-la di frontiera. Se è erronea la tradizione che attribuisce aBarnaba, cugino dell’evangelista Marco, la fondazione in-torno al 50 del primo nucleo della Chiesa genovese e mi-lanese, le coste liguri furono uno dei punti d’ingresso in Eu-ropa del messaggio cristiano, come conferma la vicenda deisanti martiri Nazario e Celso, approdati non lontano dal pic-colo promontorio di Albaro.I sintomi di crisi dell’istituzione imperiale, già evidenti sot-to Marco Aurelio, divennero gravissimi sotto il suo incapa-ce e degenerato figlio Commodo, infine avvelenato e stran-golato da un gladiatore. Venne allora acclamato imperato-re un soldato ligure, Publio Elvio Pertinace, che era statostretto collaboratore di Marco Aurelio ed era valente intel-lettuale. Uomo probo e di semplici costumi, sincero rifor-matore, assunse uno stile di governo che avrebbe forse po-tuto riportare Roma all’antica disciplina repubblicana. Maproprio questo atteggiamento irritò i pretoriani, che viderolimitati privilegi e prebende, e li spinse a ucciderlo, appe-na due mesi dopo la sua acclamazione.Nel passaggio convulso seguìto alla sua tragica fine Setti-mio Severo, governatore della Pannonia, passò in Italia at-traverso Aquileia – dove nuove truppe rafforzarono il suo

Genova, Palazzo Durazzo in Strada Balbi, acquaforte del XVIIIsec. (Coll. d’Arte di Banca Carige).A fronteVenezia, Palazzo Vidimano in San Casciano. Incisione su ramedi Petrus van der Ae, 1720 ca. (coll. Genova, Galleria SanLorenzo al Ducale).

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contingente - e marciò su Roma, presentandosi come ven-dicatore di Pertinace. Aquileia divenne poi per buona par-te del III e IV secolo teatro di scontri per il potere imperia-le: memorabile fu la difesa della città durante l’assedio diMassimino il Trace, tanto che i suoi stessi soldati, impres-sionati dalla fiera resistenza degli Aquileiesi, uccisero l’im-peratore barbaro. Ad Aquileia, dopo la vittoria di Costanti-no, vennero erette le ”aule teodoriane”, primo ufficiale luo-go di culto cristiano. Nel 381 ad Aquileia venne convoca-to da Ambrogio, vescovo di Milano (nuova capitale impe-riale), un sinodo contro l’eresia ariana, della quale ancheil vescovo genovese Siro fu strenuo avversario.Lo spostamento a oriente del baricentro imperiale, con lafondazione di Costantinopoli, aveva creato intanto una si-tuazione relativamente nuova per l’Italia. La pressione deibarbari, addirittura entro i confini imperiali, si era fatta sem-pre più inquietante e intollerabile. La qualità della vita peg-giorava ovunque: Milano – potente, colta e florida di traffi-ci per tutto il IV secolo – s’incamminò per esempio alla fi-ne di quel secolo in una lunghissima decadenza durata set-tecento anni. Aquileia si confermò drammaticamente co-me “sentinella” orientale d’Italia, in eventi che porterannoinfine alla fondazione di Venezia, e Genova, che aveva vis-suto della luce riflessa di Milano, vide crescere la propriaimportanza. «Già a partire dal V secolo – scrive Teofilo Os-sian De Negri nella sua Storia di Genova (1968) – tra il con-fine gallico e l’estrema regione Flaminia sul dorso delle Al-pi-Appennini si è costituito un nuovo limes che, come giàin età precesariana, divide l’Italia peninsulare dalla regio-ne padana, esposta alle quotidiane incursioni barbarichee quasi definitivamente riassorbita nel continente europeoin progressiva eversione. È quasi un diaframma, una cor-tina di controllo, uno “sbarramento di polizia” dell’impero

in suolo italico per garantire, per quanto possibile e in viaeccezionale, la pace e la difesa di Roma». La potenza diGenova e di Venezia si sarebbe forgiata in questo crepu-scolo tardo-antico, che trasformò le frontiere liguri e vene-te in ridotti italiani a protezione di Roma.Ma fu proprio all’inizio del V secolo che gli argini dell’impe-ro crollarono. Il visigoto Alarico s’impadronì di Aquileia nel401 e dilagò nella pianura padana, ma venne fermato e do-vette ritirarsi. L’attacco comportò tuttavia il trasferimento del-la capitale dell’impero d’Occidente da Milano alla più sicu-ra Ravenna e alle sue lagune. Nel 408 il capo visigoto for-zò nuovamente il Veneto ed entrò in Italia, scendendo finoa Roma, che prese per fame e saccheggiò nel 410, rispar-miando soltanto le chiese. È più che probabile che a lorovolta nuclei di abitanti delle coste venete in fuga si inoltrasseroin questi anni tumultuosi nelle isole più riparate della lagu-na, come Torcello, dove già esisteva un piccolo insediamento,o in punti ancor più remoti, ricovero di pescatori e di sali-nai. Secondo una leggenda, un primissimo gruppo di futu-ri Veneziani raggiunse il 25 marzo 421 alcune isolette de-serte presso un profondo canale, rivus altus, Rialto.Un più considerevole flusso di profughi si ebbe con l’inva-sione unna dell’Italia (452), il cui prologo fu una nuova ca-duta di Aquileia. I Veneti affidarono al mare il loro futuro erapidamente le isole si popolarono. Malsane e sterili, essenon avrebbero tentato la cupidigia di Attila, che non li avreb-be inseguiti. Gli Aquileiesi sopravvissuti alla presa della cit-tà s’erano rifugiati con il patriarca Niceta a Grado; i Pado-vani, prevedendo la sorte che li attendeva, lasciarono la lo-ro città installandosi a Rialto. Torcello offrì asilo agli abitantidi Altino, quelli di Concordia occuparono Caorle. Il Medioevoglorificò quell’esodo. L’opera monumentale (oltre 37 milaversi alessandrini) La guerra di Attila, di Niccolò da Caso-

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la (morto nel 1380), infaticabile rimatore modenese in lin-gua franco-italiana, costruiva «un vero ciclo epico nazionale»(scrisse Guido Stendardo, che ne curò l’ineguagliata edi-zione del 1941), desunto dalle narrazioni e dai cantari deisecoli precedenti e basato sulle battaglie di Attila in Vene-to durante la campagna del 452; e in quel contesto emer-geva, come avversario del re unno, il personaggio di Fore-sto, eroe veneto e “italiano”, che sotto altre spoglie si sa-rebbe riproposto nel tempo. E come Genova aveva visto inAnnibale il suo distruttore e nel tempo la causa della suarinascita, Venezia trovò origine dalle terribili scorrerie di At-tila: fin dai loro inizi le due città offrivano questa immagi-ne di argine italiano contro le invasioni, che avrebbero con-servato in un nuovo contesto anche nel Risorgimento.Certo non si trattò soltanto di un artificio. Le imbarcazionigenovesi si distinsero nell’opera di pattugliamento del Tir-reno settentrionale, infestato dalle squadre corsare dei Van-dali di Genserico, annidati a Tunisi e a Cartagine; ma nonpoterono evitare che quei barbari, una delle maggiori po-tenze marittime del V secolo, risalissero il Tevere nel giu-gno 455 e mettessero Roma al sacco: sarebbero passatipoco più di vent’anni e l’impero stesso non sarebbe più esi-stito. L’assalto dei barbari trasformò anche Genova, la cuiposizione era relativamente protetta dall’Appennino, in unsicuro rifugio di profughi di altre regioni.Sul mare, il ruolo difensivo si accostava a quello civile deltrasporto delle merci, non meno vitale per la sopravviven-za. Già l’illustre politico e letterato romano Cassiodoro, giàuomo di fiducia di Teodorico il Grande dopo che il re degliOstrogoti s’impadronì dell’Italia (493), in una delle sue Va-riæ, relativa alla tremenda carestia del 535-537, già de-scriveva barconi dal fondo piatto che con le loro derrate at-traversavano la laguna come avrebbero fatto i burchi an-

cora qualche anno fa. In quella pagina, il microcosmo del-la Venezia marittima e lagunare cominciava a delinearsi nel-la propria unicità.Cassiodoro stendeva la sua nota allo scoppio della guerragreco-gotica, uno degli eventi più devastanti dell’intera sto-ria italiana e un passaggio determinante per la parabola diGenova e di Venezia. La tensione tra Ostrogoti ariani e Bi-zantini era cresciuta, ancor vivo Teodorico († 526) dopo ilravvicinamento tra la Chiesa di Roma e quella di Costanti-nopoli, fortemente voluta da Giustiniano, consigliere dellozio imperatore Giustino e poi, dal 527 basileus. Il suo di-segno era quello di ricompattare, nel nome di una fede mo-nolitica, le due parti dell’impero, che Teodosio centotren-t’anni prima aveva diviso. Pretestuosamente cercata, la guer-ra si trascinò fino al 553 e ridusse allo stremo molte cittàitaliane, ripetutamente depredate dai due eserciti: Roma,Milano, i centri veneti di terraferma, a cominciare da Aqui-leia, quasi divennero città fantasma; non Genova, che Pro-copio di Cesarea ricorda come solido presidio bizantino, enon la nascente Venezia lagunare, alla quale Giustinianochiese addirittura sostegno e imbarcazioni.Nel corso della guerra, i Greci arruolarono un contingentedi mercenari di un rozzo popolo germanico, i Longobardi,ai quali proprio Giustiniano aveva accordato uno stanziamentoin Pannonia. Ad appena tre anni dalla morte del grande im-peratore, nel 568 i Longobardi assestavano un duro colpoalla restaurazione bizantina in Italia. Il loro nuovo re Alboi-

Genova, Loggia dei Banchi e chiesa di San Pietro. Incisione del XIX sec. (Coll. d’Arte di Banca Carige).A fronteVenezia, il Ponte di Rialto in un’incisione inglese delXIX sec. di E.F. Batty e S. Mitan (Coll. Genova, Galleria San Lorenzo al Ducale).

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no, che già aveva combattuto contro i Goti, sfondò a Civi-dale e dilagò nella pianura padana, incontrando una seriaresistenza a Pavia, che cadde soltanto dopo tre anni di as-sedio e venne eletta capitale di un regno che si stendeva ir-regolarmente sulla Penisola, dove i Bizantini conservavanoimportanti piazze, tanto sul Tirreno quanto sull’Adriatico: isuccessori di Alboino non espugnarono mai la Venezia la-gunare, che anzi vide fortemente incrementata l’immigra-zione dalla terraferma fin dal 569, e soltanto nel 643 il relongobardo Rotari riuscì a prendere Genova, e a devastar-la, con altre città di costa (Savona, Albenga, Luni), ma pas-sando come meteora e lasciandone peraltro quasi intatto iltessuto sociale ed economico. Venezia nasceva dunque sot-to gli influssi bizantini e il grande medievista Geo Pistarinopoteva a sua volta scrivere nel 1985 che «la storia vera del-la Liguria, quale noi oggi la intendiamo in senso regionale,anzi se si vuole come “nazione”, ha inizio con il periodo bi-zantino, quando essa restò come estrema provincia occi-

dentale dell’impero romano d’Oriente».L’influsso greco fu importante per le duecittà, che pure restarono sostanzial-mente latine e legate alla romanitas. DiGenova, in particolare, scriveva YvesRenouard: «Già in questo momento co-minciano a definirsi alcune delle ca-ratteristiche che resteranno anche in se-guito fondamentali per la città; essa co-mincia ad avere una flotta rigorosa, undiritto consuetudinario locale ma fon-dato su principi giuridici romano-bi-zantini, una milizia propria che ha perpatrono un santo greco, San Giorgio,un governo aristocratico composto dacomandanti militari».Seguendo il ragionamento di Roberto S.Lopez, si può tuttavia argomentare che

quel che di più prezioso Bisanzio poteva offrire alle nascen-ti Repubbliche italiane in quello scorcio di Medioevo era ilpatrimonio della sua marineria, lo sguardo rivolto verso il ma-re, la metodica continuità con la quale assicurava i collega-menti navali tra i suoi porti, magari a scapito della manu-tenzione delle grandi vie di comunicazione terrestre segna-te dai Romani. Venezia, «in punto più interno della pene-trazione marittima del continente, allo sbocco delle vallate al-pine» e Genova «ai piedi della parete montana, nel punto diaggancio tra continente e penisola», secondo le puntuali de-finizioni di Michel Mollat du Jourdin, poterono raccogliere quel-la eredità bizantina e addirittura costruire i loro imperi com-merciali nel Levante greco che le aveva, per così dire, tenu-te a battesimo. E, a ben guardare, i luoghi della penetrazio-ne genovese e veneziana nel Levante medioevale corri-sponderanno in modo sorprendente alle linee d’espansionedell’Ellade classica nell’Asia Minore, nel Mar Nero, in Crimea.I Venetici, anche per la loro posizione geografica, avrebbe-

ro conservato più a lungo dimestichezzacon i Bizantini e mentre già l’embrionalecittà-isola si dava i primi dozi (duchi, do-gi) e un ordinamento repubblicano-oli-garchico (726), si avvertirono anche inlaguna i contraccolpi della contempo-ranea svolta iconoclasta dell’imperato-re greco Leone III. Ma Venezia difesela bizantina Ravenna dagli attacchi lon-gobardi, anche se dopo la sua caduta

Venezia, la Chiesa della Salute, litografiatedesca di Honegger del 1830 ca. eSan Marco, incisione inglese di S. Proute W. Finden del 1840 ca. (Coll. Genova,Galleria San Lorenzo al Ducale).A fronteGenova, Veduta del Ponte di Carignano.Acquaforte del XVIII (Coll. d’Arte diBanca Carige).

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(751) l’autonomia veneziana andò accentuandosi. Neppurecon l’avvento dei Franchi (774), tuttavia, la fedeltà formalea Bisanzio venne meno e i Greci appoggiarono la resisten-za di fronte alle pressioni franche: nell’812, dopo una lungacrisi politico-militare, Carlo Magno dovette riconoscere la so-vranità bizantina, cioò la protezione imperiale su Venezia eDalmazia. In questo stesso periodo, la sede del governo ve-netico venne definitivamente trasferita a Rialto e cominciòpropriamente lo sviluppo di Venezia, suggellato simbolicamentedalla traslazione dall’Egitto delle reliquie dell’evangelista Mar-co, che divenne santo patrono della città.Genova rientrò invece pienamente, come contea, nel siste-ma carolingio e la rigida struttura feudale ne inibì in parte losviluppo nel IX-X secolo, anche se le istituzioni locali riusci-rono a salvaguardare la propria autonomia. Alla città, inse-rita nella marca degli Obertenghi, venne imposto il control-lo di un vicecomes (visconte), ma il vescovo, la figura che inquella fase più rappresentava le istanze locali, mantenne am-pie prerogative amministrative. Le incursioni dei pirati sara-ceni dalle coste siciliane e sarde, ma anche dal covo pro-venzale di Frassineto, ebbero inoltre un effetto pesantissimosui traffici marinari liguri e spinsero altri profughi a Genova.Nel Tirreno, fra l’VIII e il X secolo, le incursioni e gli attacchiai convogli furono tanto frequenti che il commercio pavesee padano venne dirottato su Venezia e sull’Adriatico, attra-verso il Po.La potenza delle Repubbliche marinare tirreniche si forgiòin quella gravissima emergenza. Nell’848 papa Leone IV for-mò una lega con Gaeta, Napoli e Amalfi per cacciare dalleloro basi alla foce del Tevere i Saraceni, che furono sgomi-

nati nelle acque di Ostia (849). Leone IV fu il precursore deipapi crociati. Promise la divina mercede – la salvezza, il Para-diso – a tutti coloro che avessero combattuto e fossero mor-ti “per la salvezza della patria e la difesa della cristianità”. Acapo di un’armata italiano-bizantina, Giovanni X attaccò i Sa-raceni, insediati da decenni alle foci del Garigliano e addi-rittura nella Sabina, e li sconfisse duramente (giugno 916).Nell’ottobre 934, Genova stessa venne attaccata e saccheggiatadai Saraceni, dopo che un loro precedente tentativo di sbar-co era fallito quattro anni prima. Una nuova razzìa nel 936portò i pirati arabi in città; ma una sopraggiunta squadra ge-novese inseguì e raggiunse i predoni nelle acque dell’Asi-nara, infliggendo loro una severa lezione. L’azione congiun-ta del conte Raimondo di Provenza e dei Pisani eliminò in-fine nel 973 la minaccia di Frassineto.In Adriatico, dove la pirateria era endemica dai tempi de-gli Achei non si presentò peraltro una situazione molto mi-gliore, anche se Venetici e Bizantini reagirono forse con piùdeterminazione. Nell’899 gli Ungari, ultimi invasori dalle gran-di pianure eurasiatiche, tentarono addirittura di forzare lalaguna con primitive imbarcazioni, ma vennero respinti. An-che gli Arabi, del resto, molestavano le rotte veneziane, an-che se con risultati scarsamente efficaci. Inoltre, dalle boc-che di Narenta, agivano da prima dell’anno Mille altri pi-rati, d’origine slava, battistrada di una ostilità slavo-venetadura e morire, che si sarebbe riproposta nelle scorrerie de-gli Uscocchi croati nel XVI-XVII secolo. Duramente toccati dai raid saraceni, a metà del X secolo iGenovesi cominciarono a rinsaldare le proprie istituzioni infunzione anzitutto difensiva. La compagna communis, la li-

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bera associazione dei cittadini, cominciò a evolversi in que-sta fase: la rivitalizzazione della tradizione municipale ro-mana e del sistema delle corporazioni (le unioni per me-stiere, che Traiano e Alessandro Severo avevano istituzio-nalizzato, in un passato remoto) furono motivi di improntarepubblicana di una ricomposizione del potere sul pianolocale. Un atto diplomatico del 958, firmato da Berenga-rio II re d’Italia già riconfermava consuetudini, ragioni e pre-rogative della res publica genovese e ammoniva i feudata-ri a rispettarle. Del 1016 è l’impresa pisano-genovese contro la base sar-da del corsaro Mughaid (Musetto), che l’anno prima ave-va definitivamente distrutto Luni, già presa con l’ingannoe devastata nel IX secolo dal famigerato capo vichingo da-nese Hasting. Un altro papa “guerriero”, Benedetto VIII,dopo quella vittoria concesse a Genova e a Pisa il domi-nio della Sardegna, purché s’impegnassero a combatte-re i Saraceni, che tornavano ad affacciarsi sulla stessa Ro-ma. Ma i frutti di quel successo furono avvelenati e le dueRepubbliche si confrontarono militarmente in Sardegnae in Corsica fino al 1087, quando Vittore III riuscì non sol-tanto a pacificarle, ma a dirigerne le forze contro il portotunisino di Mahdia, dal quale partivano nuove spedizio-ni piratesche. Ancora una volta le armi cristiane preval-sero (agosto 1089).Si era ormai pienamente entrati nello spirito di quella Cro-ciata che Leone IX († 1054) e Gregorio VII († 1085) ave-vano intensamente predicato, mentre i Turchi Selgiuchidi,assai meno tolleranti degli Arabi, si insediavano in Asia Mi-nore, a spese di Bisanzio, e in Terrasanta, impadronendo-si di fatto del Califfato. In questa situazione, l’impero d’O-riente aveva fatto vanamente appello ai Veneziani, nel 1055e poi ancora intorno al 1070. Più sensibile si era mostra-ta la Repubblica di San Marco quando si trattò di contra-stare i Normanni in Adriatico (1082) e nell’occasione l’im-peratore Alessio I Comneno li gratificava con una “bolla d’o-ro” che apriva ai Veneziani le piazze mercantili del Levan-te a condizioni vantaggiosissime.I Genovesi parteciparono alla prima Crociata e il loro ruo-lo fu importante ad Antiochia e a Gerusalemme, ma gli an-nali genovesi parlano di otto spedizioni in tredici anni, a par-tire dal 1098. Da Baldovino I, succeduto al fratello Goffre-do di Buglione come re di Gerusalemme, ebbero città (Gi-bello, oggi Jable, in Siria), quartieri, concessioni e franchi-gie; i Veneziani, infine intervenuti, fecero la loro parte, manon trassero dalle loro imprese altrettanti vantaggi e que-sto elemento complicò forse i rapporti tra le due città.Genova, impegnata in una lunga guerra contro i Pisani(1119-1132) e poi contro i Mori di Spagna alle Baleari ead Almeria, e Venezia, che in quegli stessi anni contrasta-va le mire di Stefano II d’Ungheria sulla Dalmazia e com-batteva i Normanni di Sicilia, firmarono nell’aprile 1136 unventennale accordo di pace, stabilendo anche risarcimen-ti per eventuali danni reciprocamente provocati. Alla sca-

denza di quel patto, il quadro politico internazionale era pro-fondamente mutato.La Serenissima aveva le migliori ragioni di guardare con so-spetto il tentativo di riavvicinamento che dall’ottobre 1155,dopo oltre mezzo secolo di interruzione delle relazioni, Co-stantinopoli stava tentando di concretare con Genova at-traverso una politica di forti concessioni mercantili, proprioin un momento ancora difficile delle relazioni bizantino-veneziane. Tuttavia, Genova e Venezia si trovarono unite nelrivendicare la propria autonomia dinanzi a Federico Bar-barossa, dopo che alla seconda dieta di Roncaglia (novembre1158) i dotti giuristi bolognesi consultati dall’imperatore ger-manico gli riconobbero l’autorità sovrana di disporre di du-cati, marchesati, contee, ma anche di avere il controllo del-le strade, dei porti, dei fiumi e di imporre tributi per la lo-ro manutenzione. I legati di Genova non ratificarono la le-gislazione di Roncaglia, ma Federico non poteva dimenti-care che la città stava tempestivamente costruendo im-portanti mura, che avrebbero reso più complesso e incer-to un assedio; una trattativa nel castello di Gavi si risolsecon la conferma delle libertà genovesi e con il versamen-to da parte dei consoli genovesi di un lauto tributo una tan-tum; soltanto a quel punto il Barbarossa ottenne la lealtàdi Genova. Quanto a Venezia, il suo legame con Bisanziola poneva al riparo dalle pretese dell’imperatore germani-co, ma aderì comunque alla Lega lombarda, anche se po-co più che formalmente; e la mediazione veneziana assunseun certo peso nella riconciliazione tra il Barbarossa e pa-pa Alessandro III, che nel giugno 1177 ebbe per cornicepiazza San Marco. A Costantinopoli erano intanto avvenuti fatti particolarmen-te gravi. Nel 1162 la colonia genovese era stata devastatadai pisani, con il contributo di qualche veneziano e della ma-lavita locale, sempre pronta al saccheggio. I Genovesi ad-dossarono la responsabilità alla scarsa reattività del governobizantino, mentre la colonia pisana veniva espulsa fuori lemura. Lunghi negoziati avrebbero riportato alla situazione pre-cedente, ma a quel punto la ricostituita colonia genovese ven-ne nuovamente distrutta. Tra l’imperatore Manuele Comne-no – che intanto si era accordato con Pisani e Genovesi – ei Veneziani vi fu un intenso scambio di accuse, dopoché lacolonia della Repubblica di San Marco venne cacciata in mas-sa (marzo 1171) e passarono quattro anni prima che potesserientrare. L’ipotesi di una diretta responsabilità imperiale, ein ogni caso greca, in quegli eventi – per i quali i Genovesinon accusarono esplicitamente Venezia, con la quale avreb-bero anzi siglato nel 1177 un trattato trentennale – si avvi-cina probabilmente a verità: per quanto fossero costretti asubirne la presenza, i Greci non amavano i mercanti latini,non tanto per una presunta “perfidia” bizantina, ma perché

A fronteImmagini d’epoca del Canal Grande in occasione della Festadel Redentore.

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ogni “quota di mercato” acquisita dagli Italiani era perdutaai Greci. Le ambiguità della politica bizantina trovavano ori-gine da questo aspetto e contribuivano nel tempo stesso atrasformare in discordia la concorrenza tra le Repubblichemarinare. Fu un moto della marmaglia di Bisanzio, da sem-pre animata da sentimenti ostili verso i Latini, a spazzare vianel 1182, morto ormai da tempo Manuele Comneno, le co-munità genovese e pisana sul Corno d’Oro.Le tre Repubbliche marinare più importanti si trovarono uni-te all’inizio della terza Crociata (1189), indetta dopo la ca-pitolazione di Gerusalemme (ottobre 1187). Giacomo di Vitry,vescovo di San Giovanni d’Acri, poteva descrivere i crociatigenovesi, veneziani e pisani come sobri nel cibo, pruden-ti nel consiglio e fortemente indipendenti da qualsiasi sog-gezione estranea alle loro leggi e alle loro nazioni.Il XIII secolo segnò lo show down tra uomini tanto simili nelcostume e nelle idee. Con la quarta crociata, nel 1204 prin-cipi franchi e mercanti veneziani s’impadronivano di Co-stantinopoli e la saccheggiavano; per mezzo secolo la Se-

renissima si trovò in una posizione privilegiata nei trafficicon l’Oriente. Nel 1205 le tre Repubbliche erano sul pie-de di guerra e nei fatti si profilò un’alleanza pisano-vene-ziana contro Genova, per nulla intenzionata a perdere cam-po nel Levante. Il conflitto tra Genova e Venezia ebbe peroggetto Candia (Creta) e la Serenissima lo concluse vitto-riosamente (1211). Tuttavia i Genovesi riuscirono a pene-trare in Adriatico con una moltitudine di piccoli legni, chesfuggivano ai pattugliamenti delle galee, e a creare seris-simi problemi agli approvvigionamenti della città rivale. Del 1212 fu un accordo veneto-genovese contro la guerradi corsa. In vista di una nuova crociata, papa Onorio III for-nì poi la propria mediazione tra le due Repubbliche, che sti-pularono una pace decennale; i commerci genovesi nel Le-vante vennero garantiti fino al 1251. Nel ventennio del do-gato di Jacopo Tiepolo (1229-1249) la distensione giunseal punto che le due città concordarono addirittura impresenavali comuni, allestendo cinquanta galee per una spedi-zione in Sicilia (1239), conseguenza anche di un trattato dialleanza e mutua assistenza del 1238, che stabiliva tra l’al-tro che le due potenze non si sarebbero accordate con l’im-peratore Federico II senza il consenso del papa. Nel 1251 Genova, impegnata con Fiorentini e Lucchesi con-tro Pisa, rinnovò gli accordi con Venezia per otto anni. Mauna concorrenza economica sempre più accanita spinge-va le due potenze marinare verso lo scontro. La crisi scop-piò nel 1257 a San Giovanni d’Acri, punto nevralgico deitraffici nel Mediterraneo orientale, dove nel 1222 i Vene-ziani avevano composto un violento conflitto tra Pisani e Ge-novesi, a favore di questi ultimi. Alcune navi veneziane ven-nero depredate dai genovesi e la ritorsione della Serenis-sima fu dura. Gli sforzi diplomatici seguìti alla crisi otten-nero troppo lentamente qualche risultato: le flotte si scon-trarono al largo delle coste siriane che già si era trovato l’ac-cordo; la sconfitta genovese fu pesante (giugno 1258). Genova reagì facendo perno sull’impero di Nicea, l’entità gre-ca sopravvissuta alla quarta crociata. Venne concluso conl’ambizioso imperatore bizantino Michele VIII Paleologo queltrattato di Ninfeo (marzo 1261) con il quale i Genovesi siimpegnarono in cambio di ampi privilegi a fornire aiuti a Mi-chele VIII contro Venezia, per recuperare le terre bizantinee soprattutto abbattere l’Impero latino d’Oriente. La debo-lezza di quest’ultimo fece in modo che Costantinopoli ca-desse prima di un intervento d’oltremare e tuttavia il Paleologo

“Venezia, Palazzo Ducale, 1° luglio 1299: il doge PietroGradonico nomina Donato Lombardo procuratore del Comune di Venezia per giurare la ratifica della pace stipulata il 25 maggio 1299 con il Comune di Genova”, pergamena con sigillo plumbeo. (Archivio di Stato di Genova,autorizzazione n.12/08 - Prot. 4692 Cl. 18.18.00/73).A fronteSimon Boccanegra, primo doge genovese. (Part. del monumento funebre del XIV sec. Genova, Civico Museo di Sant’Agostino).(sotto) Il papa veneziano Paolo II.

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mantenne il proprio impegno, anche se cercò poi intese an-che con i Veneziani. Ma la fortuna di Pera, il quartiere ge-novese di Costantinopoli, fu da allora immensa. Gli incidenticon la Serenissima si moltiplicarono, fino alla vittoria di Cur-zola (settembre 1298), che seguiva il trionfo su Pisa Melo-ria (agosto 1284), dove la flotta pisana era comandata dalpodestà veneziano Alberto Morosini.Non furono tuttavia gli episodi bellici che le videro fron-teggiarsi – peraltro ancor vivi nella memoria delle due “na-zioni” – l’aspetto più significativo di un’epoca che sarebbefuorviante leggere nella prospettiva delle contrapposizioni“ideologiche” della contemporaneità. Genova e Venezia ave-vano regimi simili e motivazioni pressoché identiche: l’a-nimosità nella difesa del proprio non presupponeva dure-voli contrapposizioni radicali. Nella Storia d’Italia (1971),Paolo Rossi ben fotografava il significato della presenza del-le due potenze italiane nel quadro della transizione fra ilMedioevo e la Modernità: «Lo sviluppo preso da Venezia eda Genova dopo la metà del XIII secolo separa queste duecittà dalla non felice storia italiana per inserirle nella storiad’Europa, come antesignane e protagoniste della riconquistadi un primato europeo perduto con la fine dell’impero ro-mano. Esse compiono, con due o tre secoli di anticipo, unmiracolo simile a quello degli Inglesi, degli Olandesi, degli

Spagnoli, dei Portoghesi, lanciati alla ricerca dello spazioe della ricchezza. In concorrenza reciproca, talora in guer-ra, più spesso di quanto non si creda anche d’accordo suuna politica comune, le due città creano dovunque testedi ponte e assicurano, per sé, ma anche per gli altri le co-municazioni marittime, con una magnifica polizia navale del-l’alto Tirreno e dell’Adriatico, sino al Mar Nero. Si arricchi-scono e difendono le ricchezze, sono il ponte fra la cultu-ra occidentale e quella d’Oriente, il luogo d’incontro e discambio delle idee e delle notizie».I due popoli s’incontrarono più di quanto si pensi, senza stec-cati. Nel catalogo della mostra documentaria Genova e Ve-nezia tra i secoli XII e XIV (Sala Mostre della Cassa di Ri-sparmio di Genova e Imperia, gennaio-febbraio 1984), il di-rettore dell’Archivio di Stato di Genova, Aldo Agosto, potevascrivere: «In una condizione instabile di continui episodi osti-li, paci e tregue effimere tra le due Repubbliche e risarci-menti reciproci, gli atti notarili genovesi indicano nella secondametà del secolo XIII la presenza pacifica a Genova di unacolonia veneziana, che elegge il proprio console e che attendead affari privati con cittadini genovesi, incurante quasi delgrande conflitto per l’egemonia sul mare. Questi venezianisono qualificati nei documenti batifolius, aurifex e cristale-rius, ossia artigiani in metalli preziosi e nella lavorazione delvetro. (...) Appare documentata la presenza di cittadini ve-neziani anche nelle colonie genovesi, oltre che ad Acri; a Pe-ra, a Caffa e a Famagosta». Certo, esplosioni di violenza, an-che “dal basso”, scoppiarono tra le due comunità nelle co-lonie; ma rappresentarono l’eccezione.

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La guerra di Curzola aveva chiare mo-tivazioni geopolitiche. Il tragico crollo de-gli ultimi presidi crociati di Tiro e di SanGiovanni d’Acri (1291), aveva coinvol-to, rendendole assai più precarie per itraffici, le due antiche vie per l’Orien-te, attraverso la Siria e l’Egitto. La po-sta dello scontro per Costantinopoli erala vita dell’economia veneziana e diquella genovese. Ma gli uomini più ar-dimentosi delle due Repubbliche ven-nero presi allora da una febbre dell’e-splorazione geografica che giusto perdue secoli, fino all’impresa di Colom-bo, concentrò gli spiriti migliori d’Europa.E questa espansione fu possibile anchegrazie agli artefici di portolani e ai car-tografi di Genova, di Venezia e più tar-di di Catalogna. La missione presso iMongoli di Giovanni da Pian del Car-pine (1246-1249), ordinata dal papagenovese Innocenzo IV, e il viaggio diMarco Polo nel Catai (1271-1295) apri-rono nuovi scenari commerciali e cul-turali; in quello stesso 1291 che ave-va visto la caduta degli ultimi baluardicristiani di Terrasanta, i fratelli Ugolinoe Vadino Vivaldi partivano dal porto diGenova con l’intento di raggiungere l’In-dia per un passaggio africano a sud-ovest: le due galee di questi precurso-ri, l’Allegranza e la Sant’Antonio, con tre-cento uomini d’equipaggio, non fece-ro ritorno e la sorte dei due navigatori resta avvolta nel mi-stero. La loro avventura, una delle più alte espressioni del-l’uomo medioevale, ispirò l’Ulisse dantesco. Questo ulissismo fu la radice comune delle Repubblicheitaliane, l’altra faccia di un calcolo, di un ragionare per in-teresse, che può apparire un poco gretto alla sensibilità con-temporanea, ma che fu anch’esso lievito della rinascita eu-ropea. Fu in quest’ottica, riconoscendo ai Genovesi auda-cia e insieme prudenza, che il sovrano portoghese Dioni-gi l’Agricoltore (1279-1325) affidò nel 1307 al genovese Ema-nuele Pessagno il comando della sua appena allestita flot-ta, con l’incarico specifico di fornire altri venti capitani ze-neizi, con l’incarico di esplorare le coste dell’Africa.Alla guerra di Curzola era seguito, scrive De Negri, «mezzosecolo di pace sorniona e insincera». Tuttavia, Simone Boc-canegra, primo doxe (duce, doge) di Genova riuscì ancoraa propiziare un accordo con Venezia per l’embargo controi Qipciaq, una popolazione turca che occupava le fertili pia-nure della Russia meridionale (1343-1344). Ma già nel 1346i veneziani venivano cacciati da Chio. Episodi bellici, sca-ramucce, zuffe si susseguirono – mentre in Europa infuriava

la peste nera – fino alla guerra di Chioggia (1378-1381), chevide i Genovesi alleati dei Padovani – preoccupati per l’e-stensione della Serenissima in terraferma, cominciata conil Trevigiano nel 1329: in precedenza non si spingeva ol-tre Mestre – e degli Ungheresi e i Veneziani schierati congli Aragonesi e con Bernabò Visconti, signore di Milano. L’A-driatico, che ormai era comunemente chiamato il golfo diVenezia, venne forzato dai Genovesi, che s’insediarono aChioggia, ma furono infine costretti a capitolare dopo un lun-go assedio (estate 1380); un anno dopo, era una squadraveneziana ad affacciarsi minacciosamente su Genova.La mediazione di Amedeo VI, conte di Savoia, e la pace diTorino (agosto 1381) posero fine a una lunga fase della po-litica italiana. «La lunga lotta per il primato – scriveva De Ne-gri – non si rinnoverà più; non perché le due contendenti sia-no capaci di una generosa rinuncia, ma perché verrà meno

Il papa veneziano Eugenio IV, miniatura del XVI sec.A fronteI papi liguri: Sisto IV, Giulio II e Innocenzo VIII. (dalla serie iconografica dei sommi pontefici romani. Coll. Fulvio Miglia, Genova, Palazzo Ducale).

23Storia

l’oggetto stesso della contesa, il predominio di Romania, conla caduta di Costantinopoli in mano al Turco (...). Col che nonsaranno peraltro finite le due Repubbliche rimaste sulla brec-cia; perché Venezia avrà allora già incominciato la sua nuo-va missione di potenza “territoriale” italiana, giocando comeuna delle maggiori forze su cui si stabilisce l’equilibrio politi-co, la cosiddetta “libertà” dell’Italia del Quattrocento; mentreGenova, cui per ragioni geo-topografiche è preclusa la pos-sibilità di costituirsi un dominio di terraferma più profondo epiù solido (...) guarderà all’Occidente con le sue tradizionalie solide energie mercantili e marinare». Prostrata dalla guer-ra e non meno dai conflitti civili, Genova avrebbe sperimen-tato nel XV secolo la soggezione milanese, francese, monferrina:in questa fase difficile meritò l’appellativo di Superba. Vene-zia difese la propria sovranità e riuscì a salvaguardarla con-tro potenti coalizioni. Entrambe le città-Stato restarono cen-tri significativi di elaborazione politico-culturale: non stupisceche tra i papi del Rinascimento un paio siano veneziani (Eu-genio IV e Paolo II) e tre genovesi o liguri (Sisto IV, Innocen-zo VIII e Giulio II). Né stupisce che nel 1453 a difendere Co-stantinopoli dall’ultimo violentissimo attacco turco, in nomedi un antico onore, fossero, fianco a fianco con i Russi dellaguardia variaga e con gli imperiali, Genovesi e Veneziani.Le vecchie famiglie genovesi insediate nei possedimenti delLevante – come gli Zaccaria e i Gattilusio – avevano dovu-to farsi tributarie dei Turchi; l’ultimo principe genovese diLesbo, Niccolò Gattilusio fu fatto strangolare da MaomettoII il Conquistatore (1462). Gli empori di Galata e Pera con-tinuarono a funzionare per i mercanti genovesi e fiorentini(e perfino veneziani), ma dopo gravosi accordi ex novo coni nuovi padroni ottomani, che nel 1475 si erano ormai ri-presi le colonie genovesi di Crimea (Sebastopoli, Cemba-

lo, Soldaia, Tana e l’opulentissima Caffa), mentre già ca-devano i capisaldi veneziani in Albania e i Turchi si affac-ciavano ferocemente a Otranto (1480). Soltanto Focea, nelgolfo di Smirne, e Chio sarebbero rimaste sotto il controllogenovese, pur tra crescenti difficoltà, fino al 1566.Collocata da Andrea Doria nel sistema di alleanze di CarloV, Genova volgeva allora il suo sguardo al Nord, alle Fian-dre, e non a torto Giorgio Spini parlò della guerra dei Tren-t’Anni come di «un affare di finanzieri di Genova e di pa-trizi del Brabante».