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Prima ancora che come tecnologia, la fotografia si manifesta agli esordi come desiderio di fissare le immagini prodotte nella camera obscura. Un desiderio già attestato in Dürer e ben radicato nel mito originario dell’arte, ma avvertito con forza crescente tra il tardo Settecento e l’inizio dell’Ottocento quando, nell’ambito della ridefinizione romantica di spazio, tempo e soggettività, emergono le condizioni che renderanno possibili le prime realizzazioni concrete del procedimento fotografico e la nascita “ufficiale” del medium.
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Saggi d’arte
12
© 2014 Johan & Levi Editore
www.johanandlevi.com
Progetto grafico
Paola Lenarduzzi
Impaginazione
Smalltoo
Stampa
Arti Grafiche Meroni
Lissone (mb)
Finito di stampare nel mese di ottobre 2014
isbn 978-88-6010-089-4
© 1997 Massachusetts Institute of Technology
Titolo originale: Burning with Desire. The Conception of Photography
Il presente volume è coperto da diritto d’autore
e nessuna parte di esso può essere riprodotta
o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo
elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione
scritta dei proprietari dei diritti d’autore.
Volume realizzato nelrispetto delle norme di gestione forestaleresponsabile, su cartacertificata Arcoprint Edizioni.
Geoffrey Batchen
Un desiderio ardenteAlle origini della fotografia
Traduzione diElio e Marta Grazioli
Sommario
Prefazione all’edizione italiana 9
Prefazione 15
1. Identità 19
2. Concepimento 37
3. Desiderio 67
4. Immagini 111
5. Metodo 169
Epitaffio 197
Note 207
Indice dei nomi 251
9
Prefazione all’edizione italiana
Prima di ogni altra cosa Un desiderio ardente è una riflessione sulla questione
delle origini. Affronta quindi un problema che interessa ogni forma di sape-
re. Dopotutto, come ha evidenziato Jacques Derrida, la ricerca delle origini
non è «solo un gesto metafisico tra gli altri, è l’esigenza, la richiesta meta-
fisica più continua, quella che è stata la più costante, più profonda e più po-
tente».1 In tal senso l’indagine sulle origini della fotografia potrebbe essere
considerata un ulteriore esempio della perenne ricerca di origini di ogni tipo
nella cultura occidentale. È parte di uno sforzo ininterrotto per cogliere l’es-
senza delle cose, per esperire l’essenza in se stessa. Equivale, in altre parole,
alla ricerca di Dio.
L’opera di Derrida ribadisce continuamente il rischio che si corre: stabili-
re un’origine significa, secondo lui, porre le basi di una gerarchia che tende
sempre a privilegiare il primo elemento su tutti quelli che seguono. La ricerca
delle origini è un gesto non solo metafisico, pertanto, ma anche politico. Egli
riconosce, però, che la questione non si può semplicemente evitare o rifuggi-
re: è una necessità storica. Per dirla senza mezzi termini, si deve pur comin-
ciare da qualche parte. E se fallisce il tentativo di eludere il problema delle ori-
gini, il compito diventa particolarmente impegnativo, in quanto dobbiamo
chiederci non solo da dove, ma anche come iniziare.
Nel 1997, in Un desiderio ardente, ho fatto coincidere i racconti sulle origini
divulgati dagli studiosi formalisti e da quelli postmoderni con i loro rispetti-
vi programmi ideologici, constatando che entrambi presupponevano di cono-
scere l’identità fondamentale della fotografia di cui discutevano pur evitan-
do la complessità di una simile pretesa. Nel tentativo di analizzare a fondo
le ramificazioni dell’opera di Derrida e di Michel Foucault, ho suggerito un
altro approccio. Il contesto romantico in cui nacque l’idea della fotografia nel
tardo Settecento ha dato al mio saggio un pretesto per spostare l’attenzione
da un momento originario ben definito allo sviluppo di una genesi discorsiva
più diffusa e difficile da datare che ho chiamato un “desiderio di fotografare”.
10
· Geoffrey Batchen ·
Ho cercato di spostare la discussione dalla nascita della fotografia, solitamen-
te associata all’annuncio della sua invenzione a Parigi e a Londra nel gennaio
del 1839, al processo prolungato e nebuloso del suo concepimento, sviluppatosi
nel corso dei trenta o più anni precedenti. In sintesi, ho trasferito la questio-
ne delle origini da un punto nel tempo, un particolare pioniere o una prima
fotografia – secondo il modo in cui si è affrontato questo problema nelle storie
della fotografia – a quello che ho chiamato “un ambito problematico di diffe-
renze storiche variabili”.
Questo lavoro, per buona parte risultato del dibattito intellettuale degli
anni ottanta del Novecento (periodo in cui il libro fu concepito come tesi di
dottorato), aveva una serie di interessanti conseguenze. Sottintendeva, per
esempio, che la fotografia fosse considerata più uno strumento di conoscen-
za che una particolare tecnologia, una conoscenza che verosimilmente si ri-
scontra nei dipinti di cieli di John Constable o nella poesia di Samuel Taylor
Coleridge così come nell’opera dei più noti inventori del medium. Il “desiderio
di fotografare” divenne così un imperativo culturale non esclusivamente fi-
nalizzato alla produzione di vere e proprie fotografie. Per lo più, l’obiettivo del
mio testo era mostrare come questo significativo momento storico fosse dav-
vero un punto di svolta accompagnato da cambiamenti epocali nel modo di
sentire il tempo, lo spazio e la soggettività in Europa.
Consideravo tali cambiamenti di importanza cruciale per l’emergere di
quelle che potrebbero essere chiamate le condizioni di possibilità della foto-
grafia. Secondo la mia tesi, le esigenze rappresentative che accompagnavano
questi mutamenti spinsero gli sperimentatori a mettere insieme le compo-
nenti basilari, alcune delle quali disponibili già prima del 1839, che alla fine
costituirono un’accettabile attrezzatura fotografica. Sostenni, inoltre, che ta-
le attrezzatura andasse intesa come prodotto di una congiunzione specifica e
del tutto moderna di potere-sapere-soggetto. L’ideazione della fotografia, in
altre parole, andrebbe considerata come un fenomeno tanto politico quanto
figurativo.
Conformemente al pensiero di Derrida, Un desiderio ardente dava per sconta-
to che la ricerca delle origini della fotografia equivalesse allo sforzo di definire
l’essenza del medium. Ma dovrebbe essere chiaro che il libro non fu un tenta-
tivo di rifiutare tali sforzi: il suo obiettivo era invece di prenderli in esame e
così complicarli. Come ho detto altrove, siamo tutti essenzialisti, che ci piac-
cia o no (e mai più di quando scioccamente dichiariamo di essere anti-essen-
zialisti) .2 Usare il termine “fotografia” è fare un’affermazione del tutto essen-
zialista; significa separare questa entità da tutte le altre. Significa supporre
che la fotografia possieda una caratteristica in grado di conferirle un’identità
tutta sua, anche se questa si incrocia al tempo stesso con quella di altre disci-
11
· Prefazione all’edizione italiana ·
pline. I buoni storici della fotografia non dovrebbero cercare di eludere questo
assunto (altrimenti che razza di storici della fotografia pretendono di essere?).
Dovrebbero piuttosto affrontarlo esplicitamente. Riconoscendo che la storia è
per forza un’impresa tanto filosofica quanto cronologica, dovrebbero dirci che
cos’è la fotografia secondo loro, senza giri di parole. E mentre lo fanno dovreb-
bero dichiarare i loro interessi nelle scelte che hanno fatto.
I miei interessi sono sempre stati politici. Ciononostante non tutti sono sta-
ti persuasi dall’efficacia del tipo di politica avanzata in Un desiderio ardente. Steve
Edwards, per esempio, sembra avere in mente questo libro quando si lamenta
della “pirotecnica post-strutturalista” che ha contaminato gli studi recenti sul-
la fotografia. Dal punto di vista di Edwards, questo tipo di studio è colpevole di
«separare la rappresentazione dall’interesse sociale», di abbandonare «il terre-
no delle persone storiche in favore di nozioni trascendentali del Soggetto», e di
preferire le «grandi idee» alle «piccole storie sociali di cattivo gusto».3 È una cri-
tica abbastanza ragionevole, anche se vorremmo mettere in guardia dalla sag-
gezza del semplice spostarsi da un polo (le grandi idee) all’altro (le piccole storie
sociali), come se il secondo non fosse altrettanto limitante del primo. Quello di
cui abbiamo bisogno non sarebbe una sorta di riverbero tra di loro?
Un desiderio ardente è stato un prodotto del suo tempo, un tempo in cui le
critiche postmoderne delle origini e dell’originalità erano di primaria impor-
tanza e nel quale le preoccupazioni per la possibile morte della fotografia per
mano della tecnologia digitale, da poco introdotta alla fine degli anni ottanta
del Novecento, erano ampiamente dibattute. Quella fase è passata. La foto-
grafia digitale è ora la prassi, incorporata nei mezzi di comunicazione mul-
timediali che sono l’incarnazione stessa del capitalismo globale. Come si po-
trebbe rendere significativa una storia delle origini della fotografia in questa
specifica congiuntura? Che genere di storia dovrebbe essere? Ecco una propo-
sta: cosa ne dite se continuiamo a prendere sul serio un’affermazione di Fou-
cault che è centrale in Un desiderio ardente? «Ciò che si trova al principio storico
delle cose non è l’identità inviolabile della loro origine: è il contrasto delle al-
tre cose. È la disparità».
Tenendo presente questo ammonimento, potremmo cominciare a trac-
ciare una storia il cui fulcro narrativo sia l’attività di riproduzione e diffu-
sione. Le origini della fotografia d’ora in poi potrebbero essere collocate non
solo nella ridefinizione romantica di spazio, tempo e soggettività, ma anche
nell’avvento della modernità industriale e del suo investimento nella logica
e nell’apparato della produzione di massa. Sebbene sia racconto del passato,
potrebbe anche essere una storia del presente, una storia della moltiplicazio-
ne e della dispersione delle immagini fotografiche piuttosto che della creazio-
ne della fotografia o di una particolare fotografia.
12
· Geoffrey Batchen ·
Potremmo notare, per esempio, che gli esperimenti di Claude e Nicéphore
Niépce erano iniziati grazie a una sovvenzione del governo francese finaliz-
zata al miglioramento delle capacità riproduttive della litografia. In linea
con questo incentivo, le prime fotografie ancora esistenti realizzate dai fra-
telli Niépce sono copie di incisioni impresse dalla luce (non la più nota lastra
eliografica eseguita con la camera obscura attualmente conservata ad Austin
presso l’Università del Texas). In modo simile, dobbiamo riconoscere che non
appena fu annunciata l’invenzione del dagherrotipo, numerosi pionieri cer-
carono di trasformare queste fotografie in lastre incise che permettessero di
stampare direttamente copie multiple delle loro immagini con inchiostro su
carta (questi pionieri includevano Josef von Berres a Vienna, Alfred Donné e
Hippolyte Fizeau a Parigi e William Grove a Londra). Il desiderio di una simi-
le possibilità era in linea con un mercato artistico che già stimava i “dirit-
ti delle incisioni” di un’immagine oltre la sua sostanza (negli anni quaranta
dell’Ottocento il copyright di un dipinto valeva spesso il doppio del costo del
dipinto stesso, tanto redditizio era il mercato delle riproduzioni incise).4 Di
conseguenza i primi studi commerciali giunsero rapidamente a considerare
la riproduzione dei loro dagherrotipi sotto forma di incisioni su legno o acciaio
come una parte essenziale del business fotografico.5
“Facsimili” incisi su legno di disegni fotogenici erano stati pubblicati sulle
riviste inglesi già nell’aprile del 1839. In quel mese The Mirror of Literature, Amuse-
ment, and Instruction pubblicò in copertina la versione incisa della stampa a con-
tatto di un disegno fotogenico di tre rametti di felci, realizzata in color ruggi-
ne per imitare il look della fotografia originale. Queste immagini fungevano
da illustrazioni per un articolo del Dr. Golding Bird intitolato A Treatise on Photo-
genic Drawing (Trattato sul disegno fotogenico). Il 27 aprile anche The Magazine of
Science dedicò una delle sue copertine a “facsimili di disegni fotogenici” incisi
su legno: due di campioni botanici e uno della stampa a contatto di un pezzo
di merletto.6 Quest’ultima immagine, nelle sue ripetizioni fatte a macchina
di motivi geometrici, era l’incarnazione stessa delle tecniche di produzione di
massa, e perciò del capitalismo industriale.7 Questo è dunque il modo in cui
la maggior parte delle persone ha incontrato per la prima volta un’immagine
fotografica. Per loro la fotografia originale era prima di ogni altra cosa una ri-
produzione (riguardava la riproduzione).
Sembra in effetti che ci imbattiamo nella riproduzione ogni volta che
cerchiamo di individuare con precisione le origini della fotografia. Del resto
spesso è proprio così. Un desiderio ardente include un capitolo dedicato alle nume-
rose prime fotografie che sono state ipotizzate nel corso degli anni e sottolinea
il fatto che per diversi decenni molti libri sulla storia del medium hanno pre-
sentato come tale la lastra di Niépce, senza però riprodurre l’originale bensì
13
· Prefazione all’edizione italiana ·
una versione colorata ad acquerello da Helmut Gernsheim, dipinta a memoria
sulla base di una copia insoddisfacente stampata nel 1955. Molte altre pubbli-
cazioni indicano come punto d’origine un dagherrotipo con natura morta di
Louis Daguerre datato, sulla base di scarse prove, 1837. In realtà l’ immagine è
stata praticamente illeggibile per molti anni (e così, il punto di partenza fini-
sce per non essere altro che un rettangolo vuoto).8 Quello che vediamo nei libri
è invariabilmente la riproduzione di una copia stampata su gelatina d’argento
eseguita o nel 1925 dallo storico Georges Pottonniée o nel 1936 da A. Dumas-Sa-
tigny per Beaumont Newhall (un’immagine di cui il Museum of Modern Art
di New York detiene tuttora il copyright).
Cosa può dirci una sottolineatura della riproducibilità, qui appena segna-
lata, riguardo alle origini e alla persistente identità della fotografia? Parec-
chio, penso. Nel 1859 il critico culturale americano Oliver Wendell Holmes fu
indotto a descrivere la fotografia come «il divorzio di forma e sostanza». Come
conseguenza della fotografia, Holmes affermava:
La forma d’ora in poi ha divorziato dalla materia. Di fatto la materia in quan-
to oggetto visibile non è più granché utile, tranne come stampo sul quale la
forma è modellata. Dateci alcuni negativi di una cosa che vale la pena vede-
re, presa da diversi punti di vista, e questo è tutto ciò che ne vogliamo. Tira-
tela giù o bruciatela, per favore […]. La materia in grandi masse deve essere
sempre fissa e costosa; la forma è economica e trasportabile […]. Ogni ogget-
to concepibile della Natura e dell’Arte presto si libererà della sua superficie
per noi […]. La conseguenza di questa volontà sarà a breve una collezione tal-
mente immensa di forme che bisognerà classificarle e ordinarle in grandi
biblioteche, come accade attualmente per i libri.9
Holmes constata che la fotografia comporta la separazione dell’immagine dal
suo referente, rendendo la “forma”, tra le altre cose, più economica della “ma-
teria” e pertanto più facilmente trasformabile in una merce. Le leggi in ma-
teria di diritto d’autore tengono conto proprio di questo aspetto e dichiarano
che l’immagine fotografica e la fotografia fisica sono due entità separate che
possono essere vendute a soggetti diversi. Possiamo ora compiere un ulterio-
re passo in avanti, mostrando come la fotografia sia un processo continuo di
separazioni di questo tipo, prima della forma dalla materia e poi della forma
dalla forma, con quest’ultima scissione – quella dell’immagine fotografica
dalla fotografia – dettata soprattutto dalle esigenze consumistiche del mer-
cato. Sebbene venga spesso associata all’avvento delle tecnologie digitali, sug-
gerisco che questa duplice dislocazione sia sempre stata centrale nella nostra
esperienza della fotografia, fin dalle sue origini.
14
· Geoffrey Batchen ·
Ecco un modo per associare l’identità della fotografia a un tipo di storia
delle origini che insiste nell’essere politicamente percorribile. In questo rac-
conto le origini della fotografia sono ben inserite nell’economia politica in
cui si trova. Questa storia della fotografia vorrebbe affrontare il tema della
sua subordinazione o deviazione dalle logiche e dai sistemi di valore tipi-
ci del capitalismo. Questa ricostruzione ci dice che per un posto remune-
rativo all’interno di quei sistemi lo scotto da pagare per la fotografia era la
sua dislocazione in favore dei processi della sua riproduzione, facendo così in
modo che essa perseguitasse la modernità come entità simultaneamente as-
sente e presente. In altri termini, una volta che è stata sfruttata per la mac-
china della riproducibilità, la fotografia non ha potuto fare a meno di essere
costantemente confrontata con la spettrale presenza del suo altro: è diventa-
ta un’entità per sempre alienata da se stessa. E si può dire lo stesso per quei
soggetti che si sono sottomessi alla fotografia, vale a dire tutti. Tra tutte le
sue conseguenze la fotografia ha mercificato il rapporto dell’individuo con
se stesso, istituendo una modalità di rappresentazione che allo stesso tempo
rassicura e aliena, salvaguarda e divide tutti coloro che vi sono assoggettati
a essa. In breve, l’esperienza fotografica incarna i processi e gli effetti del ca-
pitalismo nella loro interezza.
La storia della riproducibilità della fotografia avvalora dunque non solo
il complesso commento di Walter Benjamin sulla riproduzione e il feticismo
delle merci, ma anche l’identificazione da parte di Derrida della diffusione
con una dinamica che circoscrive e dissolve in ugual misura; essa mette in
scena «una cancellatura che lascia leggere ciò che sopprime», «rende possibi-
le proprio ciò che rende impossibile».10 Per quanto riguarda la questione delle
origini della fotografia, ciascun punto di partenza è indissolubilmente col-
legato a molti altri e così non è per niente unico. Per parafrasare Roland Bar-
thes, la storia della fotografia diventa un discorso che «traccia un campo sen-
za origine – o che, per lo meno, non ha altra origine che il linguaggio stesso,
ovvero proprio ciò che rimette costantemente in discussione qualsiasi origi-
ne».11 Questa versione delle origini della fotografia ne destabilizza l’identità
anziché garantirla, facendo vacillare ogni certezza e dichiarando, ancora una
volta, che “fotografia” è il nome di un problema piuttosto che di una cosa.
Scrivere una storia delle origini degna di questo problema – una storia per la
fotografia piuttosto che una storia delle fotografie: questa è la sfida che abbiamo
di fronte.
Geoffrey Batchen
settembre 2014
15
Prefazione
Questo libro esamina le recenti cronache della fotografia mediante un’atten-
ta analisi del concepimento del medium. Il titolo, Un desiderio ardente, si ispira a
una lettera di Louis Daguerre del 1828, nella quale l’inventore del dagherrotipo
scrive al suo collega Nicéphore Niépce: «Ardo dal desiderio di vedere i suoi espe-
rimenti dal vero». Ma questo saggio contiene anche un buon numero di desideri
propri, in quanto presenta una lettura accondiscendente ma rigorosa dei reso-
conti postmoderni della fotografia e, allo stesso tempo, si propone di riscrivere
la storia tradizionale delle origini del mezzo. A tal fine il volume riunisce un
gran numero di informazioni sui primi sperimentatori e sul loro ambiente, e
le inserisce nel contesto di una critica storica improntata alla genealogia di Mi-
chel Foucault e alla decostruzione di Jacques Derrida. Ma Un desiderio ardente in-
tende soprattutto mostrare che la storia abita realmente il presente, che l’eser-
cizio della storiografia è sempre un esercizio di potere e che essa conta (in tutti i
sensi). Sarà il lettore a decidere se tali desideri siano stati esauditi oppure no (e
se altri, inclusi quelli non riconosciuti dall’autore, siano stati sollecitati).
La struttura del libro è piuttosto semplice, anche se le sue conclusioni non
lo sono. Il primo capitolo prende in esame quelle che sembrano due contrap-
poste visioni dell’identità storica e ontologica della fotografia. Diversi cri-
tici postmoderni (fra cui John Tagg, Allan Sekula, Victor Burgin e Abigail
Solomon-Godeau) sostengono che, poiché il significato è interamente deter-
minato dal contesto, la “fotografia in sé” non abbia identità e la storia della
fotografia sia priva di unità. Questo punto di vista è in contrasto con quello
dei critici formalisti (primo fra tutti John Szarkowski), che identificano e va-
lutano la fotografia secondo le sue presunte caratteristiche fondamentali di
medium. La fotografia è così trascinata in una lotta tra coloro che la identifi-
cano con la cultura e chi invece che le attribuisce una natura intrinseca. Ma
questi due approcci sono davvero così diversi come sembrano?
Il secondo capitolo cerca una possibile soluzione al problema dell’identità
della fotografia nella storia fondativa delle origini del medium, la cui attenta
16
· Geoffrey Batchen ·
analisi rivela che almeno venti persone da sette diversi paesi europei presero
in considerazione l’idea della fotografia negli anni compresi tra il 1790 circa e
il 1839. Ispirandosi all’opera di Michel Foucault, questo libro sposta l’attenzio-
ne dalla vera e propria invenzione della fotografia al primo emergere del desi-
derio di fotografare. Particolare attenzione è data alle condizioni generali che
permisero a qualcuno di concepire l’idea stessa della fotografia. Questo fa ri-
salire le sue origini ai primi anni del xix secolo e spinge a interrogarsi sull’im-
portanza della sua datazione.
Il terzo capitolo esamina la questione nel dettaglio, considerando ciascu-
na delle aspirazioni (natura, paesaggio, immagini speculari, spontaneità)
espresse da venti protofotografi e rivelando che ogni aspetto del desiderio di
fotografare era in profonda crisi all’inizio del xix secolo. Crisi che si manife-
sta nella struttura fondamentalmente paradossale dei testi dei protofotogra-
fi. Con un brillante colpo di genio linguistico la denominazione di fotografia
ricalca l’affascinante dilemma della sua identità “impossibile”.
Il quarto capitolo estende tale analisi fino a includere le varie “prime foto-
grafie” che sono state ipotizzate come le origini del medium e che comprendo-
no improbabili candidati quali un’incisione di Albrecht Dürer, un dipinto di
Joseph Wright of Derby e alcuni schizzi di Henry Fox Talbot, così come i primi
tentativi fotografici di Nicéphore Niépce, Louis Daguerre e Hippolyte Bayard.
Ovunque si guardi, le origini della fotografia sono sostituite da un proble-
matico gioco di differenze, da quella che Derrida ha chiamato l’economia del-
la différance. Mentre i critici contemporanei della fotografia la vogliono identi-
ficare o con la natura o con la cultura, i primi sostenitori del medium propon-
gono un’articolazione di gran lunga più ambigua che tiene conto di entrambi
i poli, senza limitarsi a nessuno dei due.
Il quinto capitolo prende in esame le conseguenze di questo diverso approc-
cio, concludendo con una breve discussione sui limiti della teoria fotografica
postmoderna. Per quanto le sue intuizioni siano indubbiamente notevoli, il
Postmodernismo riproduce a ogni livello della sua operazione la stessa eco-
nomia logocentrica che sostiene non solo il formalismo, ma anche più ampi
sistemi di oppressione come il fallocentrismo e l’etnocentrismo.
Il libro si chiude con un epitaffio incentrato sui recenti timori circa la mor-
te della fotografia indotta dal digitale, sostenendo che anche questo dibattito
pone ancora una volta importanti domande sull’identità della fotografia.
La genesi di questo libro risale grossomodo al 1984, quando ero un Rubinstein
Fellow nell’ambito dell’Independent Study Program del Whitney Museum
of American Art di New York. Ispirato da studiosi e artisti del calibro di Ron
Clark, Yvonne Rainer, Martha Rosler, Benjamin Buchloh e soprattutto Craig
17
Owens, mi sono interessato alla relazione tra il Postmodernismo e le politiche
fotografiche. Fedele alla logica della critica postmodernista, ho voluto ideare
un modo per parlare di fotografia che si occupasse non solo della rappresen-
tazione delle politiche, ma anche delle politiche della rappresentazione. L’o-
pera di critici come John Tagg, Allan Sekula e Victor Burgin ha costituito un
importante precedente e ha fornito un’autorevole piattaforma teoretica per le
prime riflessioni su questo tema. Ancora più importanti sono state le lezioni
di semiotica e quelle su Foucault e Jacques Lacan tenute da Elizabeth Grosz
all’Università di Sydney: il suo eccezionale insegnamento ha confermato che
la filosofia contemporanea può essere davvero utile alla critica della cultura.
Più ho considerato le varie questioni che il Postmodernismo pone alla fotogra-
fia contemporanea, più mi sono sentito obbligato a tornare indietro agli inizi
sia del fotografico sia del moderno e a esaminare nel dettaglio la storia del loro
simultaneo emergere come entità culturali.
Questo progetto rivisto si è presto tramutato in una tesi di dottorato inti-
tolata Photogrammatology: a Study in the History and Theory of Photography (Fotogram-
matologia: uno studio sulla storia e la teoria della fotografia). Dopo varie false
partenze e momenti di riscrittura, la tesi è stata infine presentata all’Univer-
sità di Sydney nel 1990. Devo ringraziare il mio supervisore di tesi Terry Smith
per il suo paziente supporto e i suoi consigli. La mia gratitudine va anche ad
Anne-Marie Willis per il suo aiuto costruttivo e a Mick Carter per i suggeri-
menti editoriali: entrambi hanno svolto il ruolo provvisorio di supervisori in
diversi momenti della redazione della tesi. Fuori dall’ambito universitario, il
lavoro di Ian Burn sulla storia dell’arte australiana è stato un modello d’ispi-
razione su come leggere le immagini con l’intelligenza e la profonda attenzio-
ne che meritano. I miei genitori David e Gillian Batchen non hanno fatto mai
venire meno il loro incoraggiamento e supporto per tutta la durata del lavoro.
Molte persone hanno agevolato il completamento della tesi e del mano-
scritto con critiche, assistenza nelle traduzioni, materiale di ricerca e rife-
rimenti utili. Tra queste Vicki Kirby, Sue Best, Noel Gray, Mary Mackay, To-
ny Fry, Helen Grace, Julian Perfanis, Cathy Vasseleu, Marina Vloss, Hilda e
Gail Tighe, Catriona Moore, Malcom Andrews, Nancy Keeler, Graham Howe,
Helen Ennis, Kate Davidson, Ewa Kurilyk, Mike Weaver, Olav Westphalen,
Alison Gingeras, Susan Schuppli, Joan Hostetler, Valerie Hazel, Douglas
Nickel, Sheldon Nodelman, Evonne Levy, Katherine Ware, Becky Smith,
Mary Warner Marien, Ed Dimendberg, Whitney Davis, Leigh Anne Langwell
e Holland Gallup. Il professor Richard Terdiman mi ha aiutato nominando-
mi suo assistente alla ricerca per due trimestri nel 1988, dandomi così ac-
cesso alle strutture bibliotecarie della University of California di Santa Cruz.
Le mie ricerche iniziali sono state supportate anche da un Commonwealth
· Prefazione ·
18
· Geoffrey Batchen ·
Postgraduate Research Award, assegnatomi nel 1985 tramite l’Università di
Sydney. Le revisioni finali del manoscritto sono state facilitate da un Aca-
demic Senate Research Grant della University of California di San Diego.
Questa borsa di studio mi ha permesso di avvalermi dell’assistenza di Diana
Reynolds: le immagini che compaiono in questo libro non ci sarebbero sen-
za la sua risoluta competenza. Voglio anche ringraziare Tim Nohe per il suo
prezioso aiuto nella preparazione di alcune di queste immagini per la pubbli-
cazione. Larry Schaaf è stato particolarmente generoso nel fornirmi il mate-
riale visivo dalla sua collezione.
Durante la stesura di questo libro alcuni suoi estratti sono usciti in forma
embrionale e frammentaria su varie riviste. Ringrazio i redattori e gli editori
coinvolti per i suggerimenti e il sostegno. Tra questi voglio ricordare Lorraine
Kenny e Nadine McGann di Afterimage, Helen Grace di West, Heinz Henisch,
Mike Weaver e Anne Hammond di History of Photography.
La trasformazione finale della tesi in libro è stata agevolata dagli utili
suggerimenti dei miei esaminatori di dottorato Hayden White e Victor Bur-
gin della University of California di Santa Cruz e Ross Gibson della University
of Technology di Sydney. I commenti critici degli anonimi revisori del mano-
scritto coordinati dalla mit Press hanno contribuito anch’essi a questo proces-
so. Ringrazio il mio editor presso la mit Press Roger Conover e la sua assistente
Daniele Levine per il loro incoraggiamento e i preziosi consigli e Sandra Mink-
kinen per la sua competenza editoriale.
Infine, questo libro non avrebbe avuto né un inizio né una fine senza l’i-
spirazione e il supporto intellettuale ed emotivo di Vicki Kirby. A lei lo dedico
con riconoscenza.
19
1
Identità
Da questo momento, allora, bisogna chiedersi non soltanto quale sia
l’“essenza” della storia, la storicità della storia, ma quale sia la “storia”
dell’“essenza” in generale. E per chi voglia marcare una rottura fra
un “nuovo concetto di storia” e il problema dell’essenza della storia (così come del
concetto ch’essa regola), il problema della storia dell’essenza e della storia del concetto,
infine della storia del senso dell’essere – ognun vede quanto lavoro gli resti da fare.
Jacques Derrida, Posizioni1
Gli storici della fotografia hanno faticato molto a definire l’“essenza” del sog-
getto dei loro studi. L’identità della fotografia – sia come sistema di rappresen-
tazione sia come fenomeno sociale – è stata infatti oggetto di discussione fin
dagli esordi. Ma questo dibattito non è mai stato così acceso come nel corso
degli anni settanta e ottanta.
Gli anni settanta hanno visto la fotografia assumere un’importanza nuova
nel mondo artistico anglo-americano. Di fronte all’instabilità della domanda
di pittura e scultura, il mercato dell’arte ha cercato di rianimarsi promuoven-
do la vendita e il collezionismo di fotografie sia storiche sia contemporanee.2
Questa iniziativa ha generato i soliti discorsi legati all’industria culturale, in-
clusa una riscrittura della storia della fotografia con lo scopo di enfatizzare
certi prodotti divenuti da poco materiale da collezione e una serie di pubblica-
zioni e mostre fotografiche volte a promuovere determinati artisti.
Sulla fotografia, in questo arco temporale, si sono espresse anche voci cri-
tiche taglienti. All’inizio e alla metà degli anni settanta sono state pubblicate
alcune testimonianze autorevoli e provocatorie come Questione di sguardi (1972)
di John Berger, Sulla fotografia (1977, con i primi saggi apparsi sulla New York Re-
view of Books nel 1973) di Susan Sontag e Image-Music-Text (apparso in inglese nel
1977 e contenente testi sulla fotografia pubblicati in Francia fin dal 1961) di
Roland Barthes.3 Improntato alle tradizioni intellettuali del Marxismo e della
semiologia così come agli interessi di un pubblico non specialista, ciascuno di
20
· Geoffrey Batchen ·
questi autori ha contribuito allo sviluppo di quella che si potrebbe chiamare
un’antropologia culturale della fotografia. Istantanee e immagini pubblici-
tarie sono trattate con lo stesso rigore critico delle fotografie artistiche, rite-
nendo che abbiano tutte qualcosa di interessante da dire sulla natura della
vita moderna.
Questo rinvigorito dibattito sulla fotografia è stato presto inglobato in
una più vasta analisi dei moderni sistemi culturali e sociali conosciuta come
Postmodernismo.4 Nel 1978, per esempio, la rivista newyorkese October (comu-
nemente considerata la voce della critica culturale postmoderna americana)
pubblicò un editoriale sulla rivalutazione della fotografia all’interno del mer-
cato dell’arte. Contribuendo alla «embrionale impresa di una teoria fotogra-
fica», le due direttrici sostenevano di aver «urgente bisogno di una radicale
sociologia della fotografia per imporre a noi stessi, per svelare alla vista, il ca-
rattere e le implicazioni strutturali e storiche del nostro attuale revisionismo
fotografico».5 Negli anni settanta e ottanta una serie di importanti studio-
si anglo-americani ha cercato di procurare alla fotografia una simile analisi
“strutturale e storica”. Nel farlo, ha dato luogo a un revisionismo e a un modo
di pensare che costituiscono i soggetti principali di questo libro.
Fotografie
Sebbene io qui usi per comodità il termine “Postmodernismo”, la critica post-
moderna non è per nulla caratterizzata da un punto di vista omogeneo, poiché
è stata spesso influenzata da una varietà di modelli teoretici a volte in conflitto
fra loro (Marxismo, femminismo, psicoanalisi, semiotica). Tuttavia, una visio-
ne piuttosto coerente della fotografia si è imposta sulla scena del dibattito criti-
co. In un certo contesto culturale, infatti, questa visione è diventata il modello
dominante di pensare il mezzo fotografico, tanto nelle lezioni universitarie e
accademiche sulla storia e la critica della fotografia quanto in articoli e libri sul
medium. Un paragrafo tratto dal saggio del critico inglese John Tagg riassume
perfettamente questo punto di vista:
La fotografia in quanto tale non ha identità. Il suo status di tecnologia varia
a seconda delle relazioni di potere che la investono. La sua natura di pratica
dipende dalle istituzioni e dagli agenti che la definiscono e la mettono all’o-
pera. La sua funzione di modalità di produzione culturale è legata a condi-
zioni di esistenza precise e i suoi prodotti sono significativi e leggibili solo
nei propri particolari ambiti di diffusione. La sua storia non possiede unità.
Essa fluttua in un terreno di spazi istituzionali. È questo terreno che dobbia-
mo studiare, non la fotografia in sé.6
21
· Identità ·
Che cosa si afferma qui esattamente? Innanzitutto Tagg suggerisce che la foto-
grafia non possa essere intesa come detentrice di un’identità fissa o di un unico
statuto culturale. È meglio, dice, considerarla come un campo disseminato e
dinamico di tecnologie, pratiche e immagini. La versatilità del mezzo fotogra-
fico è tale da renderlo indistinguibile dalle istituzioni o dai discorsi che scelgo-
no di farne uso. La storia della fotografia è dunque la storia collettiva e moltepli-
ce di quelle stesse istituzioni e quegli stessi discorsi. Una storia della fotografia
giudiziaria, per esempio, non può essere separata da una storia delle pratiche e
delle istituzioni di criminologia e del sistema giudiziario. Ne consegue che non
esiste una storia coerente e unitaria della fotografia, ma piuttosto una selettiva
documentazione dei suoi vari usi ed effetti.
I significati di ogni singola fotografia sono ugualmente contingenti, poi-
ché dipendono totalmente dal contesto in cui quella foto si trova in un dato
momento. Essa può significare qualcosa in un contesto e qualcosa di comple-
tamente diverso in un altro. L’identità di una fotografia non dipende quindi
da una sua qualità specificamente fotografica, ma da come la fotografia agi-
sce di fatto nel mondo. Il punto cruciale è che le fotografie non possono mai
esistere al di fuori di discorsi o funzioni di qualche tipo. Non esiste un terre-
no neutrale in cui la fotografia sia in grado di parlare “di e per se stessa”, in
cui possa emettere un essenziale, “vero” significato basilare. L’intero ragiona-
mento di Tagg si basa sul presupposto che le fotografie non abbiano un unico
vero significato.
Determinante per la concezione della fotografia di Tagg è il Marxismo
strutturalista del filosofo francese Louis Althusser, che pone l’accento sul ruo-
lo degli apparati ideologici nel mantenimento e nella diffusione del sistema
capitalistico. È chiaro in una delle prime spiegazioni che Tagg dà del proprio
approccio allo studio della fotografia:
Quello che cerco di sottolineare qui è l’assoluta continuità dell’esistenza
ideologica delle fotografie rispetto alla loro esistenza come oggetti materiali,
la “diffusione” e il “valore” dei quali nascono in certe precise pratiche sociali
storicamente specifiche e sono in definitiva una funzione dello Stato. […]
Mentre è usata anche come strumento nei maggiori apparati educativi, cul-
turali e comunicativi, la fotografia è essa stessa un dispositivo di controllo
ideologico sotto l’“armonizzante” autorità centrale dell’ideologia della classe
che, apertamente o attraverso un’alleanza, detiene il potere politico e gover-
na l’apparato statale.7
Sebbene in articoli successivi Tagg arrivi a criticare la totalizzante rigidità di
questo modello althusseriano di controllo politico, il suo concetto di fotografia
22
· Geoffrey Batchen ·
conserva molto delle sue linee guida. Per Tagg il significato e il valore di ogni
fotografia continuano a essere interamente determinati dalla sua relazione
con altre, più potenti pratiche sociali. E, come apparato di rappresentazione
visiva, la fotografia rimane prima di tutto uno strumento per spostare l’ideo-
logia da un terreno a un altro. Egli spiega così questo processo nel suo saggio
più famoso, “Power and Photography” (Potere e fotografia) del 1980: «Al pari
dello Stato, la macchina fotografica non è mai neutrale. Le rappresentazioni
che essa produce sono altamente codificate e il potere che essa esercita non è
mai suo. In quanto mezzo di documentazione, arriva sulla scena investita di
una particolare autorità a fissare, ritrarre e trasformare la vita quotidiana;
un potere di vedere e documentare; un potere di sorveglianza. […] Questo non
è il potere della macchina fotografica, ma il potere degli apparati dello Stato
locale che la impiegano e garantiscono l’autorità delle immagini che essa co-
struisce».8
Malgrado la residua base althusseriana, il saggio di Tagg dà, in effetti,
una più complessa descrizione di come questo dispositivo si attui. Il risul-
tato è un lavoro pionieristico volto a mettere in relazione l’opera del filosofo
francese Michel Foucault con la storia della fotografia. Come spiega Tagg,
Foucault ha fornito ai critici della cultura il concetto di “microfisica” dina-
mica del potere, di un “potere disciplinare” che circola dentro e attraverso le
vene del corpo sociale in modo tale che troviamo «una moltiplicazione degli
effetti del potere tramite la formazione e l’accumulo di nuove forme di sa-
pere».9 Seguendo Foucault, in questo e nei saggi successivi Tagg si concen-
tra sulle fotografie usate da quell’“arcipelago disciplinare” di enti e apparati
locali dello Stato implicati nella circolazione del potere e del sapere. Come
strumento di questi enti la fotografia non esercita un proprio potere. Di con-
seguenza, il resoconto che Tagg fa dei suoi effetti politici si focalizza non sul
medium in se stesso, ma sui meccanismi determinanti dei suoi contesti sto-
rici, sui «modi in cui la fotografia è stata storicamente coinvolta nella tecno-
logia del potere-sapere».10
Costruiti sull’idea foucaultiana secondo cui «il discorso crea il proprio og-
getto», i saggi di Tagg insistono nel considerare la fotografia come uno stru-
mento che facilita l’imposizione del potere da parte dei suoi detentori (soli-
tamente i rappresentanti dello Stato) su coloro che ne sono esclusi (di solito
gruppi già marginalizzati come la classe operaia, criminali, i malati di men-
te, le popolazioni indigene, minoranze etniche e così via). Nello schema di
Tagg la fotografia non è che un canale conveniente che permette a soggetti
più o meno deboli di essere rappresentati dalle forze di moderna oppressione
come oggetti di conoscenza, analisi e controllo. La sua analisi dedica ben po-
ca attenzione alla fotografia in quanto tale, proprio perché l’autore rifiuta in-
23
· Identità ·
tenzionalmente la categoria di “in sé”. L’ipotesi qui espressa è infatti che, in
quanto entità priva di identità stabile o unità storica, la fotografia appartiene
potenzialmente a ogni istituzione e disciplina tranne che alla propria.
I princìpi basilari della visione di Tagg sono ripresi nell’opera di altri scrit-
tori contemporanei che si occupano di fotografia. Li possiamo ritrovare, per
esempio, anche nei saggi del fotografo e critico americano Allan Sekula. Ma
mentre la fotocritica di Tagg deriva da una combinazione di Althusser e Fou-
cault, Sekula riproduce una teoria dialettica della fotografia basata princi-
palmente sul Marxismo di György Lukács. Così Sekula ha descritto la propria
opera:
Vedo ora il mio progetto critico come un tentativo di comprendere il carattere
sociale del “traffico di fotografie”. Preso alla lettera, questo traffico implica la
produzione, la circolazione e la ricezione sociali delle fotografie all’interno di
una società basata sulla produzione e lo scambio di merci. Presa in senso me-
taforico, la nozione di traffico suggerisce il modo peculiare in cui il significato
fotografico – e il discorso fotografico stesso – è caratterizzato da un’incessante
oscillazione tra quelle che Lukács chiama le “antinomie del pensiero borghe-
se”. Si tratta sempre di un movimento tra oggettivismo e soggettivismo.11
Sekula considera la fotografia come un’entità mobile, contingente e intrin-
secamente sociale, sempre contesa tra le due esigenze ideologiche parallele
dell’estetismo (o soggettivismo) e dello scientismo (od oggettivismo). Queste
esigenze contrastanti sono indotte, a suo parere, dalla «prolungata crisi nel
cuore stesso della cultura borghese». Crisi provocata dalla «minaccia e pro-
messa della macchina», una dialettica che la cultura borghese «continua a
respingere e abbracciare allo stesso tempo». Secondo Sekula, «l’immagine fo-
tografica frammentaria e meccanicamente derivata è centrale in questo con-
testo di crisi e ambivalenza; la questione generale è la natura del lavoro e della
creatività sotto il regime capitalista».12
Per Sekula la fotografia sembra confermare la soggettività individuale di
quanti sono ritratti anche se riduce quei soggetti e le loro relazioni sociali a
una cosa visiva, a un oggetto-immagine commercializzato come tutti gli altri.
In quanto dispositivo di rappresentazione meccanico e in apparenza neutrale,
improntato ai valori di verità empirica propri del Positivismo, la fotografia fa
sembrare questa oggettivazione naturale e indubbia. Tuttavia, proprio l’ogget-
tività della fotografia può rivelare come diverse, storiche e innaturali differen-
ze di classe, e dunque potenzialmente passibili di un cambiamento. Questa
capacità di minacciare e confermare allo stesso tempo l’ordine stabilito del ca-
pitalismo è per Sekula la fonte del fascino e del potere sociale della fotografia.
24
· Geoffrey Batchen ·
Per questa ragione secondo lui la fotografia è una pratica essenzialmente
finalizzata a evidenziare «la fiducia e le paure di una borghesia industriale in
ascesa».13 Si noti, per esempio, la sua descrizione della mostra del 1955 “The
Family of Man” (La famiglia dell’uomo): «Qui, ancora una volta, compaiono i
fantasmi gemelli che perseguitano la pratica fotografica: la voce di un ogget-
tivismo tecnocratico reificante e quella redentrice di un soggettivismo libera-
le».14 E la sua cronaca dell’incerta ricezione della fotografia nel 1839: «La foto-
grafia promette un più accentuato dominio della natura, ma minaccia anche
conflagrazioni e anarchia, un livellamento incendiario dell’ordine culturale
esistente».15 Sekula scopre un simile dualismo nelle fotografie fatte dal cana-
dese Leslie Shedden tra il 1948 e il 1968, nelle quali sono connessi «il realismo
strumentale della fotografia industriale e il realismo sentimentale della fotografia
di famiglia».16 Sekula analizza soprattutto il modo di rappresentare il corpo
umano in diverse fotografie del xix secolo e identifica «una fondamentale ten-
sione [che si] sviluppa tra usi della fotografia che appagano una concezione
borghese del sé e usi che cercano di stabilire e delimitare il terreno dell’altro».17
In breve, egli non smette di sottolineare che, quando guardiamo una fotogra-
fia, «ci troviamo di fronte a un sistema duplice: un sistema di rappresentazio-
ne capace di funzionare simultaneamente in modo onorifico e repressivo».18
A consentire questo duplice meccanismo è il fatto che il significato di una
particolare fotografia sia in ultimo una manifestazione delle tensioni interne
allo stesso capitalismo. Come per Tagg, anche per Sekula la fotografia è veico-
lo di forze esterne più vaste e l’identità fotografica qualcosa di fondamental-
mente dipendente da queste forze. Mai neutrale, la fotografia si trova sempre
legata a un discorso (o, più precisamente, a una cacofonia di discorsi contrap-
posti) che assegna a ogni singola immagine i suoi significati e i suoi valori
sociali.
Sekula basa questo aspetto della sua teoria fotografica sulla semiotica di
Charles Sander Peirce, filosofo pragmatista americano del xix secolo. Soste-
nendo che le fotografie sono innanzitutto “segni indicali”, Sekula intende la
fotografia come un tipo di rappresentazione legato ai suoi oggetti da una re-
lazione di causalità o connessione fisica. A suo parere, «per via di questa pro-
prietà indicale, le fotografie sono fondamentalmente radicate nella contin-
genza».19 In altre parole, in quanto indice la fotografia non è mai se stessa,
ma, per sua stessa natura, sempre la traccia di qualcos’altro.
Come Tagg e Sekula, il fotografo e critico inglese Victor Burgin non ha tem-
po da dedicare a coloro che cercano una “essenza” fotografica o si concentrano
su un limitato resoconto storico-artistico della fotografia e del suo sviluppo.
Egli è più interessato ad affrontare la fotografia attraverso la sua relazione con
«la sfera generale della produzione culturale».20 In questo contesto, egli ritiene
25
· Identità ·
che la caratteristica principale della fotografia sia la sua capacità di produrre
e diffondere significato. Ma i significati delle fotografie non sono determinati
dalle immagini stesse o circoscritti a esse, perché il significato viene conti-
nuamente ricreato nei contesti in cui queste immagini compaiono. Ritrovia-
mo qui una concezione diffusa della fotografia, quella secondo cui «il signifi-
cato è costantemente spostato dall’immagine alle formazioni discorsive che la
attraversano e la contengono».21 Per Burgin l’oggetto della teoria fotografica
non è la fotografia di per sé, ma piuttosto le pratiche di significazione che pre-
cedono, circondano, permeano e producono ogni fotografia in quanto densa
di significato. La teoria fotografica non è altro che un’«enfasi in una storia e
teoria generale delle rappresentazioni», così come una singola fotografia non
è altro che un’intersezione all’interno di un complesso e spesso invisibile pro-
cesso di produzione di significato:22
Il “testo fotografico”, come ogni altro testo, è il luogo di una complessa “in-
tertestualità”, una serie sovrapposta di testi precedenti “dati per scontato” in
una particolare congiuntura culturale e storica. Questi testi antecedenti,
che sono presupposti dalla fotografia, sono autonomi: svolgono un ruolo nel
testo attuale ma non vi compaiono, sono nascosti al testo evidente e si posso-
no leggere solo “sintomaticamente” attraverso esso. […] La questione del si-
gnificato va dunque costantemente riferita alle formazioni sociali e psichi-
che dell’autore/lettore.23
Semiotica e psicoanalisi sono due delle vie attraverso cui tali formazioni si
possono articolare e il lavoro di Burgin è stato di grande importanza per aver
introdotto questi modelli di analisi sociale in fotografia. Egli si è interessato
in particolare al contributo dato dalla fotografia al legame – proprio della cul-
tura occidentale – tra potere, desiderio e rappresentazione, soprattutto per-
ché essa partecipa all’“infinito processo del divenire” messo in atto dal sogget-
to che guarda.24 Le fotografie sono sempre catalizzatori e punti focali di quel
desiderio implicito nello sguardo. In quanto tale, l’esperienza del fotografare
può essere facilmente incorporata nella teoria lacaniana del soggetto. Facen-
do riferimento all’enfasi data allo sguardo nel discorso lacaniano sull’imma-
ginario, Burgin definisce in modo analogo l’effetto soggettivo della macchina
fotografica come una (ingannevole) «coerenza basata sullo sguardo unifican-
te di un soggetto puntuale unificato».25 Ne consegue che «le leggi di proiezio-
ne» della macchina fotografica «mettono il soggetto in quanto punto di ori-
gine geometrico della scena in un’immaginaria relazione con lo spazio rea-
le».26 Ciò significa che tutte le fotografie obbediscono a queste “leggi” e hanno
questo “effetto”: «È dunque importante che la teoria fotografica tenga conto
26
· Geoffrey Batchen ·
della produzione di questo soggetto in quanto la complessa totalità delle sue
determinazioni sono modulate e forzate nel loro passaggio attraverso e dentro
le fotografie».27
Da notare comunque che questa versione della teoria fotografica distoglie
ancora l’attenzione dalla fotografia in sé (una categoria che Burgin ha in ogni
caso già abbandonato come antitetica alla semiotica della produzione di si-
gnificato). Come il soggetto in preda al desiderio da lui descritto, lo sguardo
di Burgin attraversa la fotografia in cerca di qualcosa che ha origine necessa-
riamente altrove. Per lui la fotografia è ancora una delle allettanti “false pi-
ste” del desiderio: «Fondamentalmente è il soggetto inconscio che desidera.
[…] Ma l’oggetto cosciente del desiderio è sempre una falsa pista. L’oggetto è
solo il rappresentante, nel reale, di un rappresentante psichico nell’inconscio
(il freudiano “rappresentante ideazionale” dell’istinto). In realtà, il desiderio è
l’istinto, come sostengono i lacaniani, “alienato in un significante” – la traccia
di un’originaria, perduta, soddisfazione. L’oggetto reale […] è irrecuperabilmente
assente».28
Ho solo brevemente abbozzato le teorie fotografiche presentate da questi
tre autori. La mia relazione è necessariamente riduttiva, avendo tralasciato
molte delle varie argomentazioni, revisioni e approfondite analisi visive che
animano i loro saggi e, nel caso di Sekula e Burgin, le loro opere fotografiche.
Ho comunque delineato lo sviluppo di una particolare concezione della foto-
grafia che è ora centrale per il pensiero postmoderno anglo-americano in ge-
nere.29 Per riprendere la formula d’apertura di Tagg: «La fotografia in quanto
tale non ha identità» e «la sua storia non possiede unità».
Questa visione non è specifica di Tagg, Sekula e Burgin, ma si ritrova nell’o-
pera di una serie di altri critici fotografici contemporanei. Anche la studiosa
femminista Abigail Solomon-Godeau, per esempio, si schiera decisamente
contro una nozione di “autonomia fotografica” nella sua raccolta di saggi del
1991 intitolata Photography at the Dock (La fotografia sul banco degli imputati),
ed evidenzia la sua perplessità con l’aggiunta delle virgolette nell’espressione
«oggetto disciplinare “fotografia” ogni volta che vi si riferisce. Sottolinean-
do la «mutabilità del significato fotografico», Solomon-Godeau afferma che
«la fotografia è, prima di tutto e dopotutto, un mattone in una struttura più
vasta». Ancora una volta, un autore rifiuta la categoria della “cosa in sé” in
riferimento alla fotografia, a meno che non sia «qualcosa di dinamicamen-
te prodotto nell’atto di rappresentazione e ricezione e già soggetto alle griglie
di significato a essa imposte dalla cultura, dalla storia, dal linguaggio e così
via». Di conseguenza, secondo lei «la storia della fotografia non è la storia di
uomini straordinari, e ancor meno un susseguirsi di immagini straordina-
rie, ma la storia degli usi del mezzo fotografico». I suoi saggi esaminano abil-
27
· Identità ·
mente una serie di questi usi, tenendo sempre in considerazione sia le spe-
cifiche “determinazioni contestuali” del significato fotografico sia la grande
avanzata di questi significati attraverso «l’esperienza vissuta di classe, razza,
genere e nazionalità». In breve, per Solomon-Godeau si comprende meglio la
fotografia se la si intende come un “canale” per forze sociali e psichiche più
ampie. A suo parere: «In ultima analisi, la fotografia […] è sempre un merce-
nario, sempre il sicario».30
Nelle analisi di questi critici vediamo un generale spostamento del punto
focale dall’immagine al contesto, dalle questioni di forma e stile (la retori-
ca dell’arte) alle questioni di funzione e uso (l’esercizio della politica). Poiché
ritengono che il significato fotografico sia del tutto mutevole e contingente,
questi studiosi postmoderni logicamente concludono anche che il medium
non può avere una storia autonoma o un’identità stabile. Sostengono che non
possa affatto esistere una cosa come una fotografia singola, ma solo una mi-
riade discontinua di fotografie.
La fotografia in sé
Questa visione della fotografia risponde direttamente al programma storico-
artistico dominante degli anni sessanta e settanta, in particolare alla corren-
te critica nota come formalismo modernista. Il Postmodernismo si è oppo-
sto fermamente al programma formalista, considerandolo intellettualmente
sterile e politicamente conservatore.31 Per quanto riguarda la fotografia, que-
sto indirizzo fu diffuso nei tardi anni sessanta e nei primi anni settanta prin-
cipalmente attraverso l’opera di autori quali André Bazin e curatori some John
Szarkowski. Negli Stati Uniti invece il formalismo si era già ben affermato co-
me approccio alla critica d’arte in generale attraverso il formidabile patrocinio
del critico Clement Greenberg.
L’argomentazione fondamentale di Greenberg è ora ben nota: nell’era mo-
derna le funzioni tradizionali dell’arte sono state usurpate (tra le altre cose,
dalla fotografia); per sopravvivere l’arte deve stabilire il suo valore come irri-
nunciabile veicolo di grande esperienza in una cultura altrimenti alienante;
per fare ciò ogni mezzo artistico deve, attraverso una rigorosa autoanalisi del-
le proprie azioni e dei propri effetti, stabilire le qualità specifiche che lo rendo-
no unico. Sebbene prefigurata in scritti precedenti, questa tesi è sottolineata
molto chiaramente nel saggio del 1961 intitolato “Pittura modernista”:
A mio avviso l’essenza del modernismo consiste nell’uso dei metodi caratte-
ristici di una disciplina per criticare la disciplina stessa, non per sovvertirla
ma per circoscriverla con maggior rigore nella sua area di competenza. […] Le
28
· Geoffrey Batchen ·
arti potevano salvarsi da questo appiattimento [al livello dell’intrattenimen-
to] solo dimostrando che il tipo di esperienza che fornivano aveva un valore
proprio, non riscontrabile in nessun altro tipo di attività. Si comprese che
ogni arte doveva svolgere questa dimostrazione in modo autonomo. Bisogna-
va mostrare non solo ciò che era unico e irriducibile nell’arte in generale, ma
anche ciò che era unico e irriducibile in ogni singola arte. Ogni arte doveva
determinare, attraverso i propri procedimenti e le proprie opere, gli effetti
che le erano propri. […] Ben presto si vide che l’area di competenza unica ed
esclusiva di ogni arte coincideva con tutto ciò che era unico quanto alla natu-
ra del suo medium.32
Utilizzando Kant come pietra di paragone filosofica («Fu il primo a criticare
i mezzi stessi della critica […] Kant usava la logica per stabilire i limiti della
logica») 33, Greenberg cerca di presentare la storia del Modernismo come una
ricerca continua dell’essenza fondamentale e irriducibile di ogni forma d’arte.
L’essenza della fotografia è difficile da definire in questi termini, data quella
che Greenberg chiama «la trasparenza del medium […] [al] significato extra-
artistico, reale delle cose».34 Ciononostante egli era disposto, in un saggio del
1964 intitolato “Four Photographers” (Quattro fotografi), a indicare fotografie
di Jean-Eugène-August Atget e di Walker Evans quali “capolavori fotografici”,
sostenendo che «sono diventate capolavori trascendendo il documentario e
trasmettendo qualcosa che incide più di un mero potere conoscitivo».35
Altre valutazioni formaliste della fotografia si sono basate su argomenti
simili. In “Ontologia dell’immagine fotografica” (scritto nel 1945 ma pubbli-
cato per la prima volta in inglese nel 1967) il critico cinematografico francese
André Bazin promuoveva la necessità di un «autentico realismo che ha biso-
gno di esprimere il significato a un tempo concreto e essenziale del mondo».36
Per Bazin, l’“oggettività essenziale” della fotografia, la peculiare qualità che
la distingue dalla pittura, le permette di raggiungere questo “autentico reali-
smo” più di qualsiasi altro medium: l’immagine fotografica è «l’oggetto stes-
so, ma liberato dalle contingenze temporali. L’immagine può essere sfocata,
deformata, scolorita, senza valore documentario, ma essa proviene attraverso
la sua genesi dall’ontologia del modello; essa è il modello».37
L’approccio di John Szarkowski alla fotografia è più vicino a quello di Green-
berg che a quello di Bazin, sebbene tutti e tre condividano un’ambizione in-
tellettuale simile. A differenza dei critici postmoderni, Szarkowski sostiene
la posizione secondo cui «esiste davvero una cosa come la fotografia».38 Il pro-
blema è come definire esattamente che cosa sia. In un’intervista registrata nel
1978, egli descrive come nella sua esperienza di curatore del Museum of Mo-
dern Art si sia dedicato al «generico problema generale di cosa sia questo biz-
29
· Identità ·
zarro medium e di cosa si possa fare con esso e quali siano le sue potenzialità
[…] come queste energie siano usate per esplorare più a fondo le potenzialità di
quella linea, quella linea evolutiva dell’essere […] il vero […] il grande serbatoio
genetico delle possibilità [fotografiche]».39 In altre parole, Szarkowski si ritrova,
come i suoi artisti preferiti, in una continua ricerca dell’essenza del medium
fotografico. Come egli stesso dice: «Penso che in fotografia l’approccio formali-
sta […] riguardi il tentativo di esplorare le capacità intrinseche o pregiudizievo-
li del medium nel modo in cui esso viene inteso in quel momento».40
Il tentativo più noto messo in atto da Szarkowski per articolare questo ap-
proccio sul piano della pratica curatoriale è la sua mostra del 1966 “The Pho-
tographer’s Eye” (L’occhio del fotografo), che, secondo le sue stesse parole, «era
un modo per provare a definire certi problemi, certe questioni fondamentali,
che potrebbero iniziare a fornire l’armatura per un vocabolario credibile che
abbia davvero attinenza con la fotografia».41 A tal fine, nel suo saggio in catalo-
go Szarkowski afferma che la fotografia non solo è «nata tutta intera», ma rap-
presenta un «modo radicalmente nuovo di creare immagini».42 Questo nuovo
e caratteristico processo è incarnato in ciascun esempio fotografico, qualun-
que sia l’abilità o la sensibilità (o la sua mancanza) apportata al medium dai
vari autori. Le immagini che riflettono, «con successo», sulla stranezza del
processo che le ha generate andrebbero considerate come «significative al di
là del loro intento limitato». Questo spiega perché egli abbia costantemente
incluso fotografie di autori anonimi in tutte le sue grandi mostre d’indagi-
ne, compresa la sua panoramica storica del 1989 intitolata “Photography Un-
til Now” (La fotografia fino a oggi).43 Perché quello che interessa a Szarkowski
non è solo che cosa gli artisti abbiano fatto con il medium, ma anche che cosa
si possa imparare in generale dalla «fotografia – [dal] suo insieme, omogeneo
e indifferenziato». Con questo fine in mente egli scova quelle fotografie che,
consciamente o meno, esibiscono «i doni anonimi della fotografia stessa, dei
quali è impossibile rintracciare la fonte».44
In L’occhio del fotografo Szarkowski identifica cinque “concetti” che pensa sia-
no «propri della fotografia»; nello specifico: «la cosa in sé, il dettaglio, l’inqua-
dratura, il tempo e il punto di vista». Le fotografie sono divise in gruppi secon-
do il loro presunto legame con questi “concetti” e il risultato è una sorta di sto-
ria modernista della realizzazione dell’immagine fotografica, notevolmente
simile a quella proposta da Greenberg per la pittura. Szarkowski descrive così
le immagini scelte: «La visione che hanno in comune non appartiene a una
scuola o teoria estetica, ma alla fotografia stessa. I fotografi hanno scoperto il
carattere di questa visione nel corso del loro lavoro, acquisendo una crescente
consapevolezza del potenziale di cui la fotografia era dotata. Se è così, dovreb-
be essere possibile considerare la storia di questo mezzo espressivo dal punto
30
· Geoffrey Batchen ·
di vista della graduale presa di coscienza da parte dei fotografi dei caratteri e
dei problemi che apparivano connaturati al mezzo stesso».45
In diverse mostre e pubblicazioni Szarkowski presenta la storia della foto-
grafia come un’inevitabile progressione verso l’autocoscienza e in questa impre-
sa via via si sono aggiunti a lui altri studiosi. Molte storie della fotografia sono
di fatto storie dell’arte, che seguono fedelmente il solco tracciato dall’autorevole
Storia della fotografia di Beaumont Newhall (pubblicata per la prima volta come ca-
talogo di una mostra tenutasi al Museum of Modern Art nel 1937).46 Elevando la
fotografia artistica al di sopra di tutti gli altri generi e le altre pratiche, queste
storie tendono a privilegiare le fotografie molto autoconsapevoli, quelle che in
qualche modo sembrano commentare i loro stessi processi di produzione. In tal
senso questi saggi – e mi riferisco qui grosso modo a ogni recente pubblicazione
che abbia cercato di affrontare la storia del medium – contribuiscono tutti, più
o meno consapevolmente, al progetto formalista generale.47
Nelle osservazioni d’apertura del catalogo della mostra del 1989 “Photo-
graphy Until Now”, Szarkowski esplicita la connessione affermando che la fo-
tografia artistica incarna l’essenza di tutta la fotografia: «La mia speranza
è che questo approccio permetta all’arte della fotografia di essere vista non
come un caso speciale, periferico rispetto alla più ampia storia dei vasti in-
teressi e delle funzioni strumentali del medium, ma piuttosto, e semplice-
mente, come il lavoro che incarna la più chiara ed eloquente espressione della
prolungata ricerca di una rinnovata e vitale identità da parte della fotogra-
fia».48 Questo stesso discorso è stato affrontato anche in merito a determinati
aspetti della storia della fotografia. Molti hanno collegato i punti di vista di
Szarkowski, per esempio, alla mostra e al catalogo di Peter Galassi, Prima della
fotografia. La pittura e l’invenzione della fotografia, realizzati sotto gli auspici di Szar-
kowski al Museum of Modern Art nel 1981.49
Galassi esprime la premessa revisionista della sua mostra nel seguente,
ora famigerato, aforisma: «La fotografia non è stata una creatura bastarda
abbandonata dalla scienza sulla soglia dell’arte, ma una legittima erede del-
la tradizione pittorica occidentale».50 Oltre a ciò Galassi si preoccupa di collo-
care la fotografia all’interno di una tradizione pittorica specifica che rende i
suoi spettatori «partecipi dell’esperienza contingente della vita di ogni gior-
no».51 Egli identifica l’espressione di esperienza contingente con una certa
attitudine a produrre immagini ben rappresentata dal genere degli schizzi
paesaggistici che fa la sua comparsa attorno agli inizi del xix secolo. Secon-
do Galassi questo genere attesta «l’emergere di una nuova norma di coerenza
pittorica che ha reso possibile l’ideazione della fotografia»; «il nuovo indiriz-
zo (e con lui le sue espressioni pittoriche) aveva iniziato a svilupparsi prima
che fosse inventata la fotografia»; «la fotografia […] nacque da questa fonda-
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· Identità ·
mentale trasformazione nella strategia pittorica».52 E continua: «Ho scelto
di mettere al centro dell’attenzione quell’aspetto della pittura paesaggistica
che è il sintomo più chiaro (anche se nell’invenzione più modesto) della vasta
trasformazione artistica che agì da catalizzatore nell’invenzione della foto-
grafia. Gli schizzi di paesaggio […] si caratterizzano per una nuova sintas-
si pittorica, fondamentalmente moderna, di percezioni immediate, sinot-
tiche, e di forme discontinue. È la sintassi di un’arte votata al singolare e al
contingente piuttosto che all’universale e all’immutabile. Una sintassi che
appartiene anche alla fotografia».53
Un effetto immediato di tale argomentazione, per quanto provocatoria
ad altri livelli, è che identifica sia la “sintassi” fotografica sia le sue origini
concettuali con una “trasformazione” artistica piuttosto che sociale, intel-
lettuale o politica. In conformità con Szarkowski, che privilegia il dettaglio
come una delle caratteristiche tipiche della fotografia, Galassi pone l’accento
sull’inquadratura “intuitiva” e “arbitraria” del mondo, che porta a immagini
piene di quelle che egli chiama “forme discontinue, inaspettate”. Inoltre egli
suggerisce che la produzione di questo particolare tipo di immagine moderni-
sta sia una conseguenza «del fatto che la macchina fotografica fosse incapace
di comporre», vale a dire una proprietà specifica del medium.54
Numerosi critici hanno evidenziato l’astuta convenienza di Galassi nel se-
lezionare i dipinti e le fotografie che assecondano la particolare enfasi data dal-
la sua argomentazione al crescente desiderio artistico di produrre “immagini
di frammenti”. Generi importanti di composizione fotografica, come i ritrat-
ti dagherrotipici, sono quasi del tutto assenti dalla mostra. Allo stesso modo
Galassi ignora la scuola di pittura paesaggistica dominante agli inizi del xix
secolo e le fotografie paesaggistiche monumentali e altrettanto convenzionali
realizzate dai primi professionisti. Come afferma Solomon-Godeau:
Galassi può essere accusato a ragione di commettere una tautologia e di sele-
zionare solo le prove che avvalorano la sua ipotesi […] per fornire una giusti-
ficazione accademica ed erudita alle preferenze curatoriali e all’apparato
critico del Dipartimento di Fotografia del moma.55
“Prima della fotografia” è stata così costruita per fornire esattamente la tesi
che serviva al museo: vale a dire che la storia della fotografia, essenzialmen-
te e ontologicamente, non solo è generata dall’arte, ma è di fatto inseparabi-
le da essa.56
Tutto ciò è indubbiamente vero. Infatti, la critica postmoderna del formali-
smo convince praticamente a tutti i livelli (e il nostro libro perciò la prende co-
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· Geoffrey Batchen ·
me un dato evidente). Ma nonostante tutto rimane ancora irrisolta un’impor-
tante domanda: da cosa esattamente è “generata” la fotografia, se non dall’ar-
te (o, quantomeno, dalla tradizione pittorica occidentale)? Che cos’è questa co-
sa che chiamiamo fotografia?
Dovrebbe essere chiaro da quanto detto finora che gli approcci alla fotogra-
fia appena descritti si imperniano tutti sull’identità storica e ontologica della
fotografia, una questione che sia i postmodernisti sia i formalisti pensano di
aver in qualche modo risolto. In un certo senso, l’intera elaborata discussione
tra loro si riduce a una sola e sorprendentemente semplice domanda: si può
identificare la fotografia con la (sua propria) natura o con la cultura che la cir-
conda? I postmodernisti e i formalisti credono entrambi di sapere cosa sia (e
che cosa non sia) la fotografia. La loro disputa è sull’ubicazione dell’identità fo-
tografica, sui suoi limiti e confini, piuttosto che sull’identità di per sé.
Racconti sulle origini
In questo contesto è interessante il fatto che Galassi abbia deciso di dotare la
sua “fotografia” del necessario per rispondere a tutte le questioni identitarie:
una collocazione nel tempo e nello spazio, un punto di origine prima del quale
essa non possedeva un’identità, un prima della fotografia. Questa mossa stori-
ca, questo rimando a un momento originario di nascita è, come ci dice Jacques
Derrida, non solo un gesto metafisico tra gli altri, ma la richiesta metafisica
per eccellenza, da sempre la più costante, la più profonda e potente.57
È sicuramente il caso di quegli studiosi che si sono interessati alla storia
e ai significati della fotografia. Qualunque sia l’approccio teoretico, i critici
della fotografia si ritrovano inevitabilmente a dire la loro sull’invenzione del
medium e la sua o le sue cause. Infatti l’essenza dell’identità politica e cul-
turale della fotografia è spesso esplicitamente equiparata a quella delle sue
origini. Questo è dopotutto il valore d’uso delle storie sull’origine in quanto
genere. Esse offrono la possibilità, come dice Derrida, di «risalire “strate-
gicamente”, idealmente, a un’origine o a una “priorità” semplice, intatta,
normale, pura, standard, identica a se stessa, al fine di pensare in seguito in
termini di derivazione, complicazione, deterioramento, accidente ecc.».58 In
altre parole, come manifestazione della «richiesta metafisica», ogni discor-
so sulle origini del medium lascia trapelare l’approccio dell’autore nei con-
fronti della pratica narrativa (la pratica di pensiero, di storia, di rappresen-
tazione) in generale.
Come abbiamo visto, Galassi colloca le origini della fotografia all’interno
di uno specifico cambiamento delle aspirazioni artistiche che ha avuto luogo
nella cultura europea tra il tardo Settecento e il primo Ottocento. In Photography
33
· Identità ·
Until Now Szarkowski è un po’ più cauto, sostenendo inizialmente nient’altro
se non che “nuove possibilità” come la fotografia derivano da «una comples-
sa ecologia di idee e circostanze che includono la condizione dell’humus in-
tellettuale, il clima politico, lo stato delle capacità tecniche e la raffinatezza
del seme». Egli continua poi suggerendo più concretamente che «l’invenzione
della fotografia è dipesa dal convergere di tre correnti di pensiero». Le prime
due sono ottica e chimica, «la terza era l’idea poetica che fosse possibile rubare
proprio all’aria un’immagine creata dalle forze della natura».
Con questa architettura concettuale alle spalle Szarkowski prosegue ol-
tre abbozzando per la fotografia la stessa preistoria che è stata ripetuta pra-
ticamente in ogni libro pubblicato sul medium. Egli traccia velocemente lo
sviluppo della camera obscura dal v secolo a.C. in avanti («la camera è essen-
ziale all’idea di fotografia»), menziona alcuni esperimenti settecenteschi su
sostanze fotosensibili e poi richiama l’attenzione sul Quattrocento in Italia
e l’idea, resa possibile dalla prospettiva, che l’immagine possa essere «deter-
minata dai margini». Così Szarkowski riesce a far sì che un ampio sviluppo
della storia si concentri sulla «tradizione pittorica occidentale» e su quella che
per lui come per Galassi è la più importante caratteristica della fotografia: la
capacità della macchina fotografica di ritrarre il mondo come una serie di ve-
dute incorniciate (che Szarkowski chiama «l’idea della contingenza»). Nessu-
no di questi studiosi si è comunque preoccupato del perché all’improvviso sia
stata privilegiata questa particolare abilità o del motivo per cui l’idea “poeti-
ca” della fotografia sia emersa agli inizi dell’Ottocento e non prima. Certo,
Szarkowski afferma provocatoriamente che, in base alle prove disponibili, «la
fotografia non è stata inventata per soddisfare un bisogno chiaramente per-
cepito». Sembra invece il prodotto inevitabile di una sensibilità artistica le cui
origini si collocano nel xv secolo. In altri termini, l’identità della fotografia si
fonda sulla storia (o, almeno, sulla storia dell’arte).59
Questa equazione tra identità e storia avvicina Szarkowski e Galassi ai
punti di vista proprio di quei postmodernisti che così energicamente si op-
pongono alle loro teorie. Il Postmodernismo vuole infatti situare anch’esso le
origini della fotografia nella storia; solo che non è la stessa storia sostenuta
dal formalismo. Victor Burgin, per esempio, propone una storia delle origini
che assomiglia molto a quella di Szarkowski, e afferma che «nei suoi dettagli
essenziali il sistema rappresentativo della fotografia è identico a quello dei di-
pinti classici: entrambi dipendono (il primo direttamente, il secondo indiret-
tamente) dalla camera obscura».60
Molti altri storici, tra cui John Tagg, hanno cercato di far coincidere l’e-
mergere della fotografia e lo sviluppo concomitante di specifiche formazioni
sociali e politiche: «L’incentivo a sviluppare il bagaglio acquisito di conoscen-
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· Geoffrey Batchen ·
ze scientifiche e tecniche in un mezzo per fissare l’immagine della camera
obscura arrivò […] da una richiesta di immagini senza precedenti tra le classi
medie da poco dominanti, in una fase della crescita economica in Gran Breta-
gna e in Francia nella quale l’industria stava soppiantando i tradizionali mo-
delli di produzione e gettando le basi per un nuovo ordinamento sociale».61 L’i-
potesi secondo cui l’invenzione della fotografia risponde alle domande di un’i-
deologia borghese da poco dominante permette a Tagg di incorporare perfet-
tamente la storia del medium in un’analisi della società europea contempora-
nea incentrata su un discorso di classe. E, cosa ancora più importante, rende
anche l’invenzione della fotografia un ineluttabile fenomeno sociale e politi-
co. È un’idea che ben si addice anche all’approccio teoretico di Allan Sekula.
Sebbene eviti l’esigenza di definire uno specifico punto di origine (cosa che si
sarebbe pericolosamente avvicinata all’essenzialismo che la sua opera dichia-
ra di contestare), Sekula mette costantemente sullo stesso piano la comparsa
storica della fotografia con il moderno sviluppo della logica del capitale: «La
fotografia nel suo modo normativo di rappresentare il mondo è fondamental-
mente legata a un’epistemologia e a un’estetica intrinseche a un sistema di
scambio di merci».62
È già possibile notare il verificarsi di una strana congruenza tra queste di-
verse cronache delle origini della fotografia. I formalisti, apparentemente in-
teressati soprattutto all’essenza del fotografico, si ritrovano a gettarne le fon-
damenta sulla storia (su ciò che resta al di fuori dell’inquadratura fotografi-
ca). Nel frattempo, i postmodernisti, apparentemente contrari a qualsivoglia
ricerca dell’essenza, cercano di identificare l’epistemologia e l’estetica fotogra-
fiche che sono “fondamentali”, “essenziali” e “intrinseche” (e quindi presu-
mibilmente interne a ogni fotografia).
Finora il mio racconto risulta molto chiaro. Sebbene sia senza dubbio sche-
matico, rivela comunque la messa in atto di quelle che a prima vista sembrano
concezioni diametralmente opposte. Da un lato, c’è chi crede che la fotografia
non abbia un’identità specifica perché tutte le identità dipendono dal conte-
sto. Dall’altro, chi identifica la fotografia definendo e isolando le sue carat-
teristiche fondamentali, qualunque esse siano. Un gruppo vede la fotografia
come un fenomeno interamente culturale. L’altro parla in termini di natura
intrinseca della fotografia come medium. Un approccio guarda alla fotografia
considerandola priva di una sua storia; l’altro fornisce allegramente un con-
torno storico nel quale si crede che tutte le fotografie occupino già in anticipo
un determinato posto. Il primo sottolinea la mutabilità e la contingenza; il
secondo punta sui valori eterni. Uno si preoccupa in primis della pratica so-
ciale e della politica, l’altro dell’arte e dell’estetica. Possiamo andare oltre. Le
differenze sembrano abbastanza nette.
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· Identità ·
Ma lo sono? La differenza tra teorie fotografiche essenzialiste e antiessen-
zialiste è così marcata come appare? La critica postmoderna dell’essenza, per
esempio, è la critica dell’identità “in quanto tale”; in questo caso, una cri-
tica della nozione formalista di fotografia come qualcosa di compatto e in-
differenziato. Il Postmodernismo vuole dire che la fotografia non è altro che
differenza e intende sostituire la sua particolare identità con fotografie mul-
tiple. Ma c’è dell’ironia nell’orchestrare questa opposizione logica. Nella cri-
tica postmoderna la fotografia ha ancora un’essenza, ma ora si fonda sulla
mutabilità della cultura invece che sul suo presunto opposto – una natura
immutabile. In altre parole, l’identificazione postmoderna delle fotografie
con una sfera di operazioni che è interamente culturale – l’ipotesi che la mu-
tabilità “in quanto tale” possa essere delimitata anche se l’identità “in sé”
non può esserlo – è essa stessa un gesto essenzializzante. Perché, in mezzo al-
la generale critica postmoderna delle strutture binarie, questa divisione tra
somiglianza e differenza, natura e cultura, sostanza e apparenza continua a
essere essenzializzata? In breve, perché supporre che la natura sia congelata
sul posto come l’origine indifferenziata contro cui la cultura può ottenere la
sua identità?
Si cominciano a vedere già i limiti di questi comuni modi di parlare di fo-
tografia. Nonostante le apparenze, essi condividono la presunzione che, in
ultima analisi, l’identità della fotografia possa essere determinata come con-
seguenza o della natura o della cultura. La distinzione tra queste due entità,
più specificamente la politica di mantenimento di tutte queste distinzioni,
è lasciata in sospeso. Così l’opposizione tra Postmodernismo e formalismo è
binaria (ciascuno dipende dalla definizione di se stesso come non-l’altro, non
permettendo a nessuno dei due di intraprendere davvero la logica dell’alteri-
tà in sé). Questa struttura oppositiva è poi ripresa nella metodologia che cia-
scuno applica alla fotografia, un problema sul quale tornerò. Il punto è che il
Postmodernismo e il formalismo, almeno nelle loro principali manifestazio-
ni che riguardano la fotografia, rifiutano entrambi di affrontare la complessi-
tà storica e ontologica proprio della cosa che dichiarano di analizzare.
Questo libro intende riarticolare in qualche modo questa complessità. Se-
guendo le orme degli studiosi citati in precedenza cercherò l’identità della fo-
tografia nella storia delle sue origini. Se non altro la ripetizione di questo ge-
sto tradizionale mi permette di compiere un’attenta e anche rigorosa analisi
delle più fondative tra queste storie della fotografia. Oltre a ciò, un’analisi si-
mile può aiutare a definire le determinazioni proprie della fotografia stessa.
L’identità della fotografia dovrebbe essere confinata entro il regno della natu-
ra o quello della cultura? O, qualunque cosa considereremo – la teoria fotogra-
fica o la storia del medium –, scopriremo che ogni determinata fondazione è
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· Geoffrey Batchen ·
continuamente dislocata da un dinamico e problematico gioco delle differen-
ze? In tal senso, i capitoli che seguono non affrontano solo l’arcana questione
dell’identità storica della fotografia, ma anche i problemi della storia e dell’i-
dentità in generale e forse anche il problema della questione in sé.