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Secondo Giacobbi - Il Paziente Anziano Tra Ricerca di Senso e Ri-narrazione del Sé

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Il paziente anziano tra ricerca di senso e ri-narrazione del Sé

Secondo Giacobbi

Il mio intervento non vuole essere solo una riflessione clinica, ma intende porsi anche in un’ottica di analisi

del costume e della società.

Parto da una constatazione ovvia e vistosa. Negli ultimi 10 15 anni il ciclo di vita si è enormemente

prolungato: si muore sempre più vecchi. Ricorderete che in passato non lontano, di tanto in tanto si dava

rilievo, specie sulla stampa locale, al fatto che qualche fortunato avesse raggiunto il traguardo dei cento anni

di vita. L’inevitabile foto lo ritraeva per lo più visibilmente inebetito, attorniato dai volti sorridenti di parenti

e discendenti.

Non fa più notizia. Raggiungere e superare quel traguardo è sempre più comune. Che sia un bene o una male

non è mio compito qui stabilirlo. Ho scritto un libro sul fenomeno e su quella che ormai possiamo chiamare

neo-vecchiaia, ed è un fenomeno che la psicoanalisi, intesa anche come espressione di un pensiero critico e

alieno da convenzioni, dovrebbe analizzare attentamente anche in una chiave psico-socio-analitica, oltre che

clinica. Ma riprenderò questo spunto più avanti.

Il prolungamento della durata della vita ha riorganizzato, anche qualitativamente e non solo in termini

quantitativi, il ciclo di vita, nelle sue fasi e nei suoi punti critici, e quindi nei contenuti esperienziali e nelle

dinamiche conflittuali che caratterizzano tali fasi.

Si sono così sviluppate nuove domande per la clinica. Intanto persone di sessanta, sessantacinque e anche

settanta anni approdano nei nostri studi molto più frequentemente che in passato; vediamo perché.

Certo, alcune delle loro domande di aiuto riguardano ancora situazioni caratteristiche e tipiche anche del

passato: ad esempio difficoltà legate al pensionamento, e cioè all’abbandono di una ruolo identitario sociale,

connesso con la professione, sempre molto importante per gli equilibri narcisistici del soggetto. Oppure alla

cosiddetta sindrome del “nido vuoto”, che non è tanto problematica per l’allontanarsi dei figli, spesso solo

relativo, quanto perché espone la coppia dei coniugi-genitori ad una situazione inedita o comunque ormai

inconsueta per loro da decenni, di relazione più diretta, più direttamente duale ed espone ad un fronteggiarsi,

a sua volta più diretto, delle due soggettività.

E’ naturalmente ancora molto comune, come fattore determinante della richiesta di aiuto psicologico, la

depressione, che però nel vecchio, cioè nell’anziano più attempato, era in un passato anche recente

considerata un male inevitabile, semmai di competenza dello psichiatra più che dello psicologo. Oggi però

anche persone di oltre settanta anni, di fronte ad una condizione grave o persistente di depressione, cercano

anche l’aiuto psicologico.

Ma torniamo agli anziano meno vecchi, o come oggi si dice “anziani-giovani”. Quelli di loro, sessantenni e

ultrasessantenni, che cercano il nostro aiuto, lo fanno rispetto a difficoltà, conflitti, aspettative e bisogni, che

un tempo non erano specifici di questa loro fascia d’età. Ad esempio è un dato rilevato da molti clinici, ma

che possiamo osservare e constatare anche nella nostra vita sociale e di relazione, che le crisi di coppia in

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questa fascia d’età sono diventate molto più comuni; così come è diventato più comune che uomini e donne

di sessanta anni ci contattino per affrontare faccende di cuore non più gestibili o causa di sofferenze non

contenibili.

E’ certamente un fenomeno al quale come clinici dobbiamo ancora abituarci del tutto. Certe espressioni,

certe parole di sessantenni in amore, suscitano in noi un impressione di parziale incongruenza, come se ci

trovassimo di fronte a soggetti che si sono un po’ bizzarramente attardati in problematiche non più consone

alla loro età. Ma non è così. Quelle parole sono un nuovo linguaggio e quel linguaggio dà voce ad una nuova

condizione di vita e ad una fase del ciclo di vita che ha mutato forma. Perché?

Gli individui non vivono solo più a lungo, ma godono, grazie ad una medicina sempre più potente e

pervasiva e ad una sempre più diffusa cura del Sé corporeo, di una migliore salute e di una sorta di

giovinezza protratta, seppur talora con qualche trucco. La cultura del narcisismo impone corpi belli, lisci,

magri, tonici, anche ad una età relativamente avanzata; ma soprattutto impone e propone modelli di

sessualità e di vita sentimentale, improntati a richieste e bisogni, veri o illusori, che movimentano e spesso

destabilizzano la vita delle coppie e degli individui di una certa età. A tutti viene chiesto di amare, di

realizzarsi in relazioni affettive più piene, sessualmente più soddisfacenti, narcisisticamente più gratificanti.

Di qui insoddisfazioni e conflitti, che investono appunto l’area della sessualità, della vita sentimentale e della

coppia, e che portano talora nello studio dello psicologo.

Sono problemi e situazioni, dunque, sia vecchi che nuovi, a fronte dei quali l’intervento del clinico si

esaurisce spesso in un lavoro di consultazione, talora prolungata. Oppure in una terapia di sostegno che può

anche protrarsi a lungo, ma senza necessariamente attivare un lavoro esplorativo e rielaborativo ampio e

approfondito.

Ma mi interessa qui concentrarmi un po’ sulla PSICOTERAPIA dell’anziano, più propriamente sulla terapia

psicoterapia psicoanalitica dell’anziano, anche attempato.

Quando è richiesta, quando è proponibile, come si caratterizza? Naturalmente a grandi linee, dato il poco

tempo che ho a disposizione.

Certamente è difficile, ma non impossibile, ch’essa nasca da una richiesta diretta e immediata del paziente.

Essa nasce e si sviluppa per lo più nel corso di un intervento di consultazione legato a problemi più o meno

specifici e che indico ancora: pensionamento, crisi di coppia, depressione, difficoltà psicologiche di fronte

all’invecchiamento (ma il tema della morte all’inizio e in questa fase dell’intervento rimane sullo sfondo o

nascosto). In alcuni casi il consultante comincia a introdurre nel suo discorso temi e spunti che vanno al di là

del problema specifico che l’ha portato in consultazione e su di essi si interroga e ci interroga, manifestando

una crescente consapevolezza della interconnessione che lega le varie aree della sua vita; a questo punto

compaiono riferimenti sempre più ricorrenti ed emotivamente intensi alla sua storia, anche lontana. Ed è a

questo punto che l’ipotesi di un lavoro di psicoterapia appare plausibile e correttamente proponibile.

Sono però necessarie alcune condizioni perché sia praticabile. Le indico molto sinteticamente:

Il candidato, chiamiamolo così, deve godere comunque di buone condizioni di salute, ce gli consentano una

presenza continuativa ed una capacità interattiva adeguata. Deve possedere capacità intellettive a loro volta

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adeguate, e rivelare attitudine all’autoriflessione. Deve rivelarsi non totalmente imprigionato dentro un’ottica

di risarcimento irrealistico o di proiettività colpevolizzanti verso gli altri e verso i suoi contesti di vita.

Ma, al di là dei problemi, dei sintomi e dei conflitti attuali, qual è la fisionomia interna, quali gli aspetti

strutturali ed endopsichici del paziente anziano orientato alla psicoterapia?

Credo che possiamo parlare di una situazione di “narcisismo leso”. Autorizza l’uso di questa espressioni un

insieme di condizioni caratteristiche: il declino fisico e sessuale, le trasformazioni del corpo e dell’aspetto

(vissute talora con grande angoscia), la centralità (nei suoi vissuti mentali), del corpo e degli stati fisici. E’

tale situazione che ha indotto alcuni clinici dell’anziano a istituire una comparazione tra alcune

caratteristiche psichiche e dinamiche dell’anziano e dell’adolescente, con la differenza , evidentemente, che

il corpo e i lutti psichici dell’adolescente sono, diversamente dall’anziano, orientati verso l’espansione vitale

del Sé.

Anche il corpo dell’anziano parla, ma ciò di cui parla allude alla morte. C’è in lui un’angoscia di morte che,

per quanto non nominata, deve essere aiutata ad esprimersi. Tale angoscia non è, come pensava

riduzionisticamente Freud, riducibile e riconducibile all’angoscia di castrazione, seppure in lui presente, ma

è una angoscia specifica, che molti analisti hanno rilevato ed evidenziato. Parlare di questo, quando sarà

possibile (e la psicoterapia, con la sua cautela e lentezza, lo rende possibile) avrà un grande valore liberatorio

per il paziente. Un angoscia di morte non rilevata, non verbalizzata né elaborata, verrà inevitabilmente, come

accade in molti vecchi, espressa e scaricata in vissuti persecutori e/o di colpa.

Tocchiamo qui anche il tema, centrale e nevralgico in tali psicoterapie, della separazione e delle perdite, che

richiede a sua volta una lenta e adeguata elaborazione, e che rappresenta un aspetto centrale della vita

dell’anziano, così segnato dai suoi lutti, ma anche così dipendente dal suo contesto famigliare e di vita. Ed

ecco la dipendenza! Un’altra questione di fondo: quella dipendenza che alimenta e acuisce l’ambivalenza, e

quindi l’amarezza, la disillusione, il rancore, e che investe violentemente le stesse figure del contesto

famigliare, che, nel rapporto con l’anziano, oscillano inevitabilmente tra senso di colpa, stanchezza,

risentimento (pensate al peso e alla pena che comporta l’accudimento di un vecchio che abbia perso, anche

solo in parte la sua autonomia! Ma riprenderò questo discorso.

Un livello di lavoro elaborativo decisivo è conseguentemente rappresentato, nella psicoterapia dell’anziano,

dalla dimensione oggettuale, inerente non solo la rappresentazione delle figure del contesto famigliare e di

vita, ma quegli oggetti interni, inconsci, che vengono da lontano, dal ‘passato anche infantile e che colorano

di sé e condizionano le rappresentazioni degli oggetti reali e attuali. Tali oggetti inconsci vengono rianimati

nei loro aspetti arcaici e riattivano angosce persecutorie e di colpa; e mi pare persuasivo il discorso di alcuni

analisti che hanno lavorato con gli anziani in una prospettiva di una psicoterapia psicodinamica, i quali

collegano l’angoscia di morte di alcuni pazienti, che può essere così devastante, proprio alla riattivazione di

oggetti genitoriali interni (cattivi e punitivi. Lavorare su queste fonti della paura della morte è decisivo.

Naturalmente non si tratta di trasformare il paziente in una sorta di filosofo stoico indifferente alla morte.

Non è tale neanche il terapeuta!

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Si tratta però di trasformare al paura della morte da angoscia persecutoria in dolore umano e, per quanto

possibile, sereno e maturativo.

Credo che le mie considerazioni, specie queste ultime, aprano al discorso della tecnica del trattamento nella

psicoterapia dell’anziano e del vecchio. Si tratta di una psicoterapia che reclama un lavoro esplorativo

minuzioso di tipo prevalentemente storico-genetico e quindi che abbisogna di tempi sufficientemente lunghi.

A questo riguardo si dice spesso che il paziente vecchio ha “poco tempo”, ma io credo che questo discorso

sia solo in parte realistico; in realtà rischia di essere un alibi per annacquare pigramente l’approccio

psicoanalitico di tali psicoterapie e orientarle verso un lavoro, solo apparentemente più concreto, di sostegno.

Il paziente anziano è un paziente vivacemente orientato verso l’investimento transferale, un investimento che

ignora il dato anagrafico del terapeuta, tanto è intenso il bisogno di rivivere nella psicoterapia le antiche

relazioni oggettuali. Un paziente, che ha qualche anno più di me, e che ho in analisi da quattro anni, ha

strutturato nel tempo un transfert nei miei confronti, attraverso il quale mi vive come una figura paterna,

benevola e maturativa (il paziente perse il padre a 18 anni, impiegò anni a superare il lutto e fu sempre alla

ricerca, nella sua vita, di figure paterne sostitutive). Naturalmente, in questo caso, occorre ANALIZZARE il

transfert e non farne un uso manipolativo a fine di sostegno e banale conforto. E’ un tipo di lavoro, questo,

che ha determinato nel paziente una grande crescita ed emancipazione personale.

Ma non c’è solo la morte da accettare, c’è anche da accettare la propria vita, con i suoi errori e i suoi

fallimenti. Anche in questo caso non si tratta di aiutare il paziente a minimizzare, a consolarsi, ad assolversi

superficialmente. Si tratta di dare un SENSO alla sua storia e di aiutarlo a riappropriarsene benevolmente e

dolorosamente. Per farlo, però, dovrà, tale storia, riattraversarla e ripercorrerne i passaggi, specie laddove, di

fronte ad un bivio o ad un alternativa di percorso possibile, il suo procedere lo portò a fare scelte che oggi

recrimina di aver compiuto. E’ qui, in questi momenti davvero drammatici del lavoro psicoterapeutico, che

l’analista deve saper essere vicino al suo paziente con grande rispetto ed empatia, ma senza costituirsi come

giudice, neanche, soprattutto neanche!, per assolverlo. Facili assoluzioni non lo convincerebbero davvero e

gli lascerebbero, dopo un breve momento di sollievo, una sensazione di solitudine.

Sul piano della tecnica del trattamento,tutti gli autori che se ne sono occupati, hanno sottolineato la necessità

di conformare il lavoro alle caratteristiche del paziente.

E’ questa un’ovvietà, naturalmente; perché si tratta di far così sempre e comunque, con tutti i pazienti, vecchi

o giovani che siano. E tuttavia il paziente anziano richiede procedure di lavoro specifiche; un ritmo dialogico

più lento, circolare, apparentemente ripetitivo (lui torna continuamente su certe situazioni e discorsi, ma lo

fa perchè il ritmo della sua mente è, appunto, circolare, ripetitivo, e , talora, ossessivamente e difensivamente

ripetitivo; (ma qui ci siamo anche noi, i terapeuti, che possiamo aiutarlo ad uscire da schemi ripetitivi).

Bisogna parlare al paziente vecchio lentamente, bisogna proporgli interventi, specie se interpretativi, brevi,

sminuzzati, pre-masticati.

E l’obbiettivo qual è?E’ ricostruire la propria storia, ri-raccontarla, dar voce al Sé narrativo (direbbe Stern),

darle senso. ma a che pro?

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Io credo che, al di là dei problemi clinici specifici dei singoli pazienti, si tratti di aiutarlo a raggiungere

obiettivi che, se ci pensate, riguardano ciascuno di noi: accettare la morte, dare senso alla propria vita e, a

partire da qui, perché no? Riprogettarla, realisticamente e serenamente.

C’è adesso un ultimissimo spunto nel mio discorso: quello relativo alla clinica NON dell’anziano, ma dei

famigliari dell’anziano.

Negli ultimi anni è diventato sempre più frequente ricevere richiesta di aiuto psicologico da parte di

famigliari di persone molto vecchie, anche ultranovantenni, che impongono alla famiglia problemi gravi di

accudimento.

Trasvolo qui sui serissimi problemi economici che il fenomeno dell’allungamento della vita comporta.

Ma ci sono altri aspetti nella questione, aspetti che ci competono: laddove l’accudimento non può essere

risolto con l’istituzionalizzazione del vecchio o con il ricorso a personale (badanti e infermieri) ne derivano

alterazioni gravi degli equilibri famigliari e interni ai singoli.

Devo qui sintetizzare: ma voi capite come per un simile problema noi umani non siamo attrezzati sul piano

delle strutture psichiche (Fornari parlava di Codici Affettivi e ci ricordava come l’organizzazione della

mente sulla base di tali Codici è funzionale alla sopravvivenza del cucciolo d’uomo, ma NON, dobbiamo

riconoscerlo, ad una sopravvivenza senile protratta e talora interminabile). Dunque, noi non siamo attrezzati

al riguardo. Ne consegue che l’accudimento del vecchio, rifetalizzato, (come io lo definisco) oltre che porci

gravi problemi sociali, attiva nei famigliari profondi conflitti e una riacutizzazione delle dinamiche di

ambivalenza.

Così sempre più frequentemente figli ormai sessantenni di genitori novantenni e oltre chiedono allo

psicologo di essere aiutati ad affrontare i conflitti interni che tale situazione di vita comporta.

Non ho più tempo per analizzare adeguatamente la questione. Mi limito a ribadire ancora che la psicoanalisi

non è solo una pratica clinica, ma è anche una forma del pensiero critico, dunque anticonformista e

antimoralista e, come tale, capace di analizzare e valutare, a partire dal suo particolare vertice osservativo i

fenomeni sociali e culturali oltre che psicologici.

Siamo in un epoca di conformismi e di omologazione. Noi psicoanalisti dobbiamo porci in controtendenza

rispetto a tale clima e misurarci, voglio ripeterlo ancora, anche con i problemi del costume e della società.