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Cosa può una vita? 1) Una storia Nel romanzo di Charles Dickens “Il nostro comune amico” c’è un personaggio particolarmente malvagio, meschino, infido, Rouge Riderhood, che potremmo definire un ricattatore psicotico. Riconosciuto e disprezzato come tale, un giorno cade nel Tamigi e sembra annegare. Viene soccorso e recuperato e così scrive Dickens: “…il medico esamina l’umida carcassa e dichiara che, sebbene ci sia poca speranza, vale la pena cercare di rianimarla. Immediatamente entrano in azione tutti i mezzi migliori; i presenti danno una mano, con tutto il cuore. Nessuno ha il minimo riguardo per l’individuo, che è sempre stato per tutti oggetto di repulsione, sospetto e antipatia, ma ora riescono stranamente a separare la scintilla vitale che è in lui dalla sua persona e hanno per essa un profondo interesse, senza dubbio perché è la vita, e loro vivono e dovranno morire…Guardate! Un segno di vita! Un indiscutibile segno di vita! La scintilla può covare e poi spegnersi; oppure brillare e poi espandersi, ma guardate! A quei quattro zotici, vedendolo sono venute le lacrime agli occhi. Né Riderhood in questo mondo, né Riderhood nell’altro riuscirebbe a far loro inumidire gli occhi; ma un’anima in lotta fra i due ci riesce facilmente…Dal fondo del fiume, o da chissà quali altre profondità, risale alla superficie il volto vile, malvagio, insensibile di prima. Man mano che egli riacquista calore, il dottore e i quattro uomini diventano più freddi; man mano che riprendendo vita, le sue fattezze si ammorbidiscono, i volti e i cuori degli altri si induriscono nei suoi confronti.” Mentre sta morendo, i soccorritori scorgono in Riderhood una scintilla vitale che riescono a separare dalla sua persona: una vita impersonale E’ la vita, un segno di vita, un indiscutibile segno di vita che genera commozione, sentimento che svanisce nel momento in cui si rianima la persona Riderhood. Nel momento di massima fragilità della persona Riderhood, nel momento in cui sta morendo, si presenta una scintilla di vita impersonale che muove a commozione i quattro “zotici” che lo hanno soccorso. E’ stato il filosofo Gilles Deleuze a soffermarsi su questa circostanza nel suo ultimo brevissimo testo : “Cos'è l'immanenza? Una vita...” Scrive Deleuze: “Nessuno meglio di Dickens ha raccontato cos'è "una" vita, dove l'articolo indeterminativo è indice del trascendentale. Una canaglia, un cattivo

Intervento su diritto e fragilità per il laboratorio Cendon

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Cosa può una vita?

1) Una storia

Nel romanzo di Charles Dickens “Il nostro comune amico” c’è un personaggio

particolarmente malvagio, meschino, infido, Rouge Riderhood, che potremmo

definire un ricattatore psicotico.

Riconosciuto e disprezzato come tale, un giorno cade nel Tamigi e sembra

annegare. Viene soccorso e recuperato e così scrive Dickens:

“…il medico esamina l’umida carcassa e dichiara che, sebbene ci sia poca speranza, vale la pena cercare di rianimarla. Immediatamente entrano in azione tutti i mezzi migliori; i presenti danno una mano, con tutto il cuore. Nessuno ha il minimo riguardo per l’individuo, che è sempre stato per tutti oggetto di repulsione, sospetto e antipatia, ma ora riescono stranamente a separare la scintilla vitale che è in lui dalla sua persona e hanno per essa un profondo interesse, senza dubbio perché è la vita, e loro vivono e dovranno morire…Guardate! Un segno di vita! Un indiscutibile segno di vita! La scintilla può covare e poi spegnersi; oppure brillare e poi espandersi, ma guardate! A quei quattro zotici, vedendolo sono venute le lacrime agli occhi. Né Riderhood in questo mondo, né Riderhood nell’altro riuscirebbe a far loro inumidire gli occhi; ma un’anima in lotta fra i due ci riesce facilmente…Dal fondo del fiume, o da chissà quali altre profondità, risale alla superficie il volto vile, malvagio, insensibile di prima. Man mano che egli riacquista calore, il dottore e i quattro uomini diventano più freddi; man mano che riprendendo vita, le sue fattezze si ammorbidiscono, i volti e i cuori degli altri si induriscono nei suoi confronti.”

Mentre sta morendo, i soccorritori scorgono in Riderhood una scintilla vitale che

riescono a separare dalla sua persona: una vita impersonale

E’ la vita, un segno di vita, un indiscutibile segno di vita che genera commozione,

sentimento che svanisce nel momento in cui si rianima la persona Riderhood.

Nel momento di massima fragilità della persona Riderhood, nel momento in cui sta

morendo, si presenta una scintilla di vita impersonale che muove a commozione i

quattro “zotici” che lo hanno soccorso.

E’ stato il filosofo Gilles Deleuze a soffermarsi su questa circostanza nel suo ultimo

brevissimo testo : “Cos'è l'immanenza? Una vita...”

Scrive Deleuze: “Nessuno meglio di Dickens ha raccontato cos'è "una" vita, dove

l'articolo indeterminativo è indice del trascendentale. Una canaglia, un cattivo

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soggetto disprezzato da tutti, è ridotto in fin di vita; ed ecco che quelli che se ne

prendono cura mostrano una sorta di sollecitudine, di rispetto, di amore per il

minimo segno di vita del moribondo. Tutti si danno da fare per salvarlo, al punto che

nel più profondo del suo coma il malvagio sente qualcosa di dolce penetrare in lui.

Ma, via via che si riprende i suoi salvatori diventano sempre più freddi, e lui

riacquista tutta la sua volgarità, la sua cattiveria. Tra la sua vita e la sua morte c'è

un momento in cui "una" vita gioca con la morte e nient'altro. La vita dell'individuo

ha lasciato il posto a una vita impersonale, e tuttavia singolare, che esprime un puro

evento affrancato dagli accidenti della vita esteriore e interiore, ossia dalla

soggettività e dall'oggettività di ciò che accade. "Homo tantum" di cui tutti hanno

compassione e che conquista una sorta di beatitudine. È un'ecceità, che non deriva

più da una individuazione, ma da una singolarizzazione: vita di pura immanenza,

neutra, al di là del bene e del male, poiché solo il soggetto che la incarnava in mezzo

alle cose la rendeva buona o cattiva. La vita di questa individualità scompare a

vantaggio della vita singolare immanente a un uomo che non ha più nome, sebbene

non si confonda con nessun altro. Essenza singolare, una vita...”

Di che vita ci stanno parlando Dickens e Deleuze?

Di una vita impersonale che si accende in ogni singola vita, perché tocca ognuno di

noi, senza essere riconducibile a quella di un singolo individuo, perché ci attraversa a

prescindere dalla caratterizzazione personale, quale tratto comune di ogni singola

esistenza.

Una vita che si manifesta nel momento di sua massima fragilità, un momento in cui

"una" vita gioca con la morte e nient'altro.

2) Cosa non va?

In un’epoca che da almeno due secoli definiamo di biopolitica, che vede cioè la

politica, il potere, la forza stessa del diritto, la normatività più diffusa, prendere in

esame e regolamentare la vita di ognuno di noi, questa vita impersonale, che si

rivela innanzitutto nella fragilità, trova un riconoscimento giuridico?

Rispetto alla fragilità, ciò che non va è che troppe volte il diritto è unicamente

l’espressione della forza di una pretesa personale.

Può trovare una vita immanente a ciascuno di noi un riconoscimento giuridico che

non sia l’espressione della rivendicazione trascendentale di un soggetto, di un io, e

che non sia pertanto riducibile al manifestarsi di un rapporto di forza che spesso è

violenza?

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E’ sicuramente fondata la provocazione di Simone Weil quando scrive che il diritto,

essendo legato allo scambio, alla spartizione, all’ambito del commerciale, “si regge

soltanto su un tono di rivendicazione; e una volta adottato questo tono, non lontana,

dietro di lui, c’è la forza per sostenerlo altrimenti cade nel ridicolo”, ma non è questa

l’unica dimensione del diritto.

Ed è proprio dall’esperienza di ciò che è impersonale, che può derivare una

differenza costitutiva di un altro diritto.

Può questa vita impersonale, che ci rende singolari al di là della nostra persona, che

non rientra nella capacità percettiva trascendentale della nostra coscienza, rendere

più vitale il diritto, in una sorta di ribaltamento che veda non solo il diritto quale

dispositivo sulla vita ma lo veda anche quale flusso dinamico, reso più aderente alle

nostre esistenze dal concatenamento con una vita della quale non possiamo

appropriarci?

Non è forse la mancanza di questo riconoscimento della impersonalità di una vita

che ci accomuna il vero ostacolo alla possibilità di vedere nella fragilità, anche la più

estrema, una condizione di dignità delle nostre persone?

Cosa può allora questa vita, questa scintilla di vita (spark of life), che residua sempre

e comunque fino a quando un individuo vive, a prescindere dalla caratterizzazione di

ogni individuo, dalla sua malvagità o bontà, e, aggiungiamo, arrivando al punto, dalla

sua capacità di intendere e volere?

Se ci si riferisce a questa vita impersonale, come diventa possibile interdire

qualcuno?

Una vita ha una potenza che Spinoza ha tratteggiato molto bene che non si esprime

in potere ma in possibilità di affezione, di relazione, di percezione.

Prima ancora di essere capaci di agire, siamo potenza di vita, anche quando siamo al

limite della morte.

Riconoscere ciò, portare questa vita a caratterizzare il diritto, significa che nessuno

può mai essere privato di una base minima di potenza giuridica, di un’essenza che

viene prima di qualsiasi capacità d’agire, almeno così come la configuriamo oggi.

3) Concretamente

Come può incidere questa vita sul diritto e sulla giurisprudenza?

Sicuramente in senso rafforzativo per quanto riguarda alcuni istituti:

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a) L’amministrazione di sostegno non va forse nella direzione di riconoscere

sempre e comunque quella scintilla vitale, un ché di impersonale che ci

caratterizza nelle nostre possibilità esistenziali?

b) L’interdizione non dovrebbe essere abrogata anche in virtù di quel poco o

tanto di impersonale della vita che non è appropriabile, che è da riconoscere

in modo indisponibile?

c) Il diritto di famiglia, con la recente formulazione del 337-ter c.c., non cerca di

raccogliere la molteplicità di una esistenza che riguarda, in modo immanente,

sempre e comunque terze persone?

Più in generale, si può ripensare l’ambito della capacità giuridica e della capacità

d’agire in termini di potenza di una vita che deve essere riconosciuta nella sua

dinamica personale-impersonale, nel suo divenire molteplice?

La fragilità susseguente al depotenziamento di una vita, che ci accomuna e che

dobbiamo riconoscere sempre e comunque, non diventerebbe così un evento da

riconoscere nella sua dignità giuridica?

Se la vita impersonale, quella terza persona di cui parla Roberto Esposito,

caratterizza inevitabilmente anche la nostra quotidianità e le nostre relazioni, è

difficile non vederne una traccia su quel piano dinamico in cui il diritto è più

riconoscimento a favore di un terzo che non pretesa soggettiva.

In tal senso in giurisprudenza si può rafforzare l’ambito del risarcimento del danno

non patrimoniale, il riconoscimento di nuovi diritti sia al di là della concezione

antropologica del codice civile sia andando, laddove possibile, oltre la categoria dei

diritti personali.

Sono tante le sentenze interessanti nel campo del danno esistenziale, che ci rivelano

possibilità ulteriori.

La giurisprudenza è fondamentale perché prende in esame la singolarità dei casi,

delle singole vite, delle particolari forme di depotenziamento, di fragilità che si

rendono evidenti nella quotidianità di una specifica esistenza.

In tal senso il piano del risarcimento del danno diventa un piano privilegiato per far

valere una nuova vitalità del diritto, quale riconoscimento ancor prima che come

pretesa.

Il riconoscimento del danno esistenziale va nella direzione della vita vissuta, di

quello che può una vita in termini di affezioni e relazioni.

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In questa nostra vita vissuta può un giudice riconoscere qualcosa di impersonale che

ci accomuna, che sfugge alla nostra presa, ma che è una potenza vitale che ci rende

comunque degni di un riconoscimento?

La sentenza della Cass. Civ. Sez. III del 7 giugno 2011, n.12273, a proposito del

risarcimento del danno esistenziale per morte di un congiunto, nel fare riferimento

alle abitudini di vita e a come il danno esistenziale debba essere valutato sulla base

delle loro compromissioni, ci dice una cosa sorprendente: “Correttamente il

ricorrente pone l’accento sulla assoluta assenza di motivazione…circa la

inconfigurabilità del danno (definito esistenziale in guisa di categoria descrittiva, si

come insegnato dalle sezioni unite) nel suo aspetto relazionale, nel suo aspetto, cioè,

della modificazione e dello sconvolgimento delle abitudini di vita dei congiunti della

vittima. Sconvolgimento, modificazioni, frustrazioni relazionali rispetto a tutto ciò

che, della vita, è altro da sé, ciò che, sempre sul solco dell’insegnamento delle

sentenze del 2008, deve peraltro formare oggetto di prova…”

Cosa ha visto la Corte quando scrive “sconvolgimento, modificazioni, frustrazioni

relazionali rispetto a tutto ciò che, della vita, è altro da sé”?

Cosa della vita di ogni persona è altro da sé?

Cosa riconoscere in un danno esistenziale che sia altro dalla propria vita, tanto da

farne oggetto di prova?

Forse proprio quella vita impersonale che ci accomuna e rendi singolari, ciò che di

impersonale caratterizza la nostra vita, che si rivela nella sua essenza in ogni forma

di fragilità, anche in punto di morte e che è una prerogativa di ognuno di noi.

Quella vita che dà un senso all’insieme delle relazioni, delle affezioni, delle

percezioni, che ci rendono così singolari nell’essere da subito gettati nelle molteplici

possibilità della vita nostra e degli altri.

E’ stata la stessa Weil a scrivere che “Chi è penetrato nell’ambito dell’impersonale vi

trova una responsabilità nei confronti di tutti gli esseri umani. Quella di proteggere

in loro non già la persona, bensì ogni fragile possibilità di passaggio nell’impersonale

che la persona ricopre.”

Cosa significhi tutto ciò per il diritto è una sfida per il pensiero, per i giuristi, una

questione da affrontare per individuare la molteplicità di ciò che è giusto

riconoscere alla vita.

Giovanni Catellani

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