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Percorsi di lettura: 8 marzo e dintorni I quaderni di Bibliogadda Marzo 2010

Quaderni di Bibliogadda: 8 marzo e dintorni

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Page 1: Quaderni di Bibliogadda: 8 marzo e dintorni

Percorsi di lettura: 8 marzo e dintorni

I quaderni di Bibliogadda

Marzo 2010

Page 2: Quaderni di Bibliogadda: 8 marzo e dintorni

INDICE

Narrativa

Giorno da cani

Kif kif domani

La figlia prodiga

L'albergo delle donne tristi

L'infinito nel palmo della mano

Matrimonio combinato

Storie di bimbe, di donne, di streghe

Saggistica

Ancora dalla parte delle bambine

Io tu noi. Per una cultura della differenza

Ipazia, vita e sogni di una scienziata del IV secolo d.C.

La scomparsa delle donne. Maschile, femminile e altre cose del genere

L'ordine simbolico della madre

Ma le donne no

Non sottomessa

Una storia tutta mia

Poesia

Io non sono nessuno

Io sono verticale

La terra santa (da)

Prati

Scrivere un curriculum

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Cinema

Dieci

Il cerchio

Lezioni di piano

Marianna Ucria

Martha

Mi piace lavorare

Pomodori verdi fritti

Rosetta

Senza tetto né legge

Thelma e Louise

Vogliamo anche le rose

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Alicia Giménez-Bartlett, Giorno da cani, Sellerio, 2000, pagg 416, € 12,00

Dai polizieschi di Alicia Bartlett, in Spagna, hanno tratto una fortunata serie televisiva. E se ne capisce la ragione: i racconti della popolare autrice sono infatti dei veri polizieschi di strada, inchieste vive, in cui la matassa dell'intrico si dipana sotto gli occhi del lettore contemporaneamente a quelli dei protagonisti, insieme alla miriade di accadimenti, di coincidenze casuali, di avventurette e infatuazione che occorrono nella giornata movimentata di due poliziotti. Petra Delicado, ispettrice della polizia di Barcellona, e il suo vice Garzón non sono il tipo dell'investigatore speculativo, l'errore e l'abbaglio li mettono sulla pista giusta molto di più che non la deduzione. Hanno però molto mestiere e un gusto per la vita che fa fare i giusti incontri. Lei è una dura che sembra venire dalla hard boiled school, solo che è donna, anche se con gli uomini si comporta come si comportano i duri con le donne. Una dura con una certa devozione intenerita e amichevole verso le goffaggini del suo aiutante, più anziano, più animale da commissariato, più sentimentale e molto più esposto alle tempeste e alle brezze della vita. Nel caso di Giorno da cani indagano, senza molta fortuna all'inizio, sull'omicidio di un poveraccio che traffica in cani, e li aiuta il suo ultimo fedele amico, il meticcio Spavento. Ma a quell'omicidio ne segue un altro e un altro ancora, e nella corrente principale degli eventi affluiscono, intersecandosi, sordidi commerci e storie passionali nel mondo dei cani.

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Faiza Guène, Kif kif domani, Mondadori, 2006, pagg 124, € 8,40 (fuori catalogo, acquistabile solo on line su Ibs.it )

Doria ha quindici anni, è di origine marocchina e vive nella 'banlieue' parigina con sua madre, abbandonata dal marito "per sposare un'altra donna sicuramente più giovane e prolifica di lei". E' quel che si chiama 'mektoub', il destino: "Cioè, qualunque cosa fai, finirai sempre fregato". La vita è dura per gli immigrati arabi a Parigi, e Doria lo sa bene, ma non per questo si sente una vittima. Sua madre fa la donna di servizio in un albergo di quarta categoria fra mille difficoltà, e lei dal canto suo cerca di non pensare troppo al domani - tanto è "kif kif", lo stesso - ma è una ragazza sveglia, con un gran senso dell'umorismo e una cultura enciclopedica della tivù - "per me, oggi, la tele è il Corano dei poveri" - e come tutte le sue coetanee riempie le giornate di sogni a occhi aperti. Ma niente sfugge al suo sguardo attento e disincantato. Intorno a lei una girandola di personaggi gustosi: dalla psicologa in reggicalze che puzza di antipulci, alle assistenti sociali che sfilano per casa con aria commiserevole, agli amici del quartiere emarginati come lei, ma con la voglia di cambiare. Perché Doria non rinuncia a sperare in qualcosa di buono per sé e per la madre, che adora incondizionatamente. "Kif kif domani" è innanzitutto una voce, quella di una ragazza di periferia che si racconta e ci spiega cosa significhi oggi essere un'immigrata di seconda generazione, divisa tra due culture. Una voce tenera, ma a volte arrabbiata, che ci fa ridere e commuovere al tempo stesso.

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Alice Ceresa, La figlia prodiga, La Tartaruga 2004 (pp. 320, € 14,60)

Alice Ceresa ha prodotto pochissimo: due romanzi, un racconto, qualche scritto occasionale, ma la sua opera segna un'impronta originalissima nel panorama culturale italiano. I due romanzi, La figlia prodiga del '67, Premio Viareggio opera prima, e Bambine del '90 insieme al racconto La morte del padre del '79, raccolti in questo volume ruotano tutti attorno a un esame preciso e ferocemente ironico, quasi da entomologa più che da scrittrice, di quel fenomeno incomprensibile e necessario che sono i legami familiari.La figlia prodiga, improbabile ribaltamento del figliol prodigo, sperpera un patrimonio di secoli e di effettive ricchezze rimanendo a mani vuote alla ricerca di una posizione esistenziale che rifletta una presa di coscienza della donna moderna. La morte del padre è un impeccabile esercizio di elaborazione e tenuta a distanza del dolore. Bambine è la storia di due sorelle, una sorta di «piccole donne» osservate nel loro passaggio dall'infanzia all'adolescenza tra le pesanti mura domestiche di una famiglia inossidabilmente patriarcale.Bisogna leggere Alice Ceresa, seguirla nelle sue avventure intellettuali e accettare le sue provocanti illuminazioni che col passare del tempo diventano sempre più ineludibili

Alice Ceresa (1923- 2001) scrisse di sé: «sono ticinese, ma la mania svizzera-italiana della migrazione familiare mi ha fatto nascere a Basilea». Pur mantenendo stretti contatti con la sua terra d’origine, e in particolare con il paese di Cama, nei Grigioni, dal 1950 fino alla sua morte Alice Ceresa visse a Roma, dove collaborò a varie riviste, tradusse opere dal tedesco e prese parte agli esperimenti neoavanguardisti del “Gruppo 63”. Si affermò con il romanzo La figlia prodiga (1967), con il quale ottenne il “Premio Viareggio”. Nel 1979 pubblicò il racconto La morte del padre e nel 1990 il romanzo Bambine, tradotto anche in lingua tedesca. Le sue carte, edite e inedite, sono conservate presso l’Archivio svizzero di letteratura con sede a Berna.

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Marcela Serrano, L’albergo delle donne tristi, Feltrinelli, 2001, pagg 280, € 7,5

Un grande romanzo dedicato alle ombre dell'anima femminile. Una storia che si apre alla luce della confidenza, della complicità, della parola condivisa. Su un'isoletta dell'arcipelago di Chloé, nel Sud del Cile, sorge un insolito Albergo per donne in cerca di conforto. È gestito da Elena, che ha lavorato per la Resistenza, è psichiatra e ha finalmente raggiunto una profonda tranquillità interiore. Da lei si rifugia una clientela di sole donne, talora famose, accomunate dalla tristezza, segnate dalle cicatrici del disamore. Possono soggiornare per tre mesi all'Albergo, che si staglia spettrale sullo sfondo di un promontorio affacciato sul mare, ai confini del mondo. Qui le clienti conoscono persone ugualmente vulnerabili, cui confidano i propri sogni irrealizzati, gli affetti ormai estranei, gli amori autolesionistici. Qui si intrecciano le storie comuni di tante donne. Qui sbarca anche Floreana che, complice la bellezza quasi primordiale del paesaggio, tenta di liberarsi del proprio passato, di risvegliarsi alle emozioni e alla vita, di riacquistare fiducia in sé. Ricompone i frammenti della propria esistenza e comincia a capire dove si trovano la sua vera patria e le sue radici.La varietà di casi umani che emerge dalla narrazione contiene ancora una volta il messaggio caro alla scrittrice: l'invito alla spontaneità, alla genuinità delle relazioni, alla sincerità anche a costo della sofferenza, a vivere mettendosi sempre in gioco piuttosto che anestetizzare i propri sentimenti o collezionare intenzioni non realizzate. Non è casuale che, alla fine, Floreana abbatterà con un impulsivo gesto di coraggio le proprie ferree autodifese scoprendosi pronta per un nuovo amore.

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Gioconda Belli, L’infinito nel palmo della mano, Feltrinelli, 2009, pagg 208, € 14,00

Il magico racconto delle nostre origini è probabilmente quello che da sempre ha maggiormente affascinato l’umanità. Ma, al di là dei quaranta versetti che la Bibbia dedica ad Adamo ed Eva, al di là anche della leggenda, com’era la vita di quell’innocente, coraggiosa e commovente prima coppia? Com’era l’universo primigenio? Quali furono le ragioni che spinsero Eva a cogliere la mela proibita? E cosa passava per la testa di entrambi una volta consapevoli del “peccato”?Gioconda Belli apre la strada verso un mondo affascinante e primitivo che ci restituisce alla cultura giudaico-cristiana sulla quale si fonda tutta la storia dell’Occidente. Poesia e mistero si danno la mano in questo romanzo che ci mostra il primo uomo e la prima donna alla scoperta di se stessi. Una scoperta che prima sperimenta lo sconcerto di fronte al castigo, poi il potere di dare la vita, la crudeltà del dover uccidere per sopravvivere e, infine, il dramma dell’amore e della gelosia.

Questo romanzo è nato dallo stupore di scoprire risvolti ignoti in una storia antica che credevo di conoscere da sempre […]è un racconto di fantasia, basato sulle molteplici narrazioni, interpretazioni e reinterpretazioni che, da tempi immemori, l’uomo ha costruito su quella che è la sua origine. Con tutta la sua meraviglia e il suo stupore, questa è la storia di ciascuno di noi. Gioconda Belli

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Chiara Banerjee Divakaruni, Matrimonio combinato, Einaudi, 2005, pagg 300, € 11,50

Storia dopo storia, le protagoniste di questi undici racconti finiscono per sembrare tante variazioni di un unico personaggio centrale: la giovane donna indiana immigrata negli Stati Uniti alle prese con progetti matrimoniali, obblighi coniugali, questioni patrimoniali. Tutte ugualmente «in bilico», le donne della Divakaruni vivono sulla propria pelle il conflitto fra l'antica società patriarcale e le nuove vite dove sperimentare soddisfazioni e angosce inedite. Molte di loro sceglieranno di deludere le aspettative tradizionali, di andare a convivere, di liberarsi di un marito crudele o più semplicemente di indossare abiti occidentali. Ricomporre le loro esistenze secondo nuovi schemi non sarà né facile, né indolore.

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Elizabeth Gaskell, Storie di bimbe, di donne, di streghe, Giunti, 2008, pagg 320, € 5,90

Cinque bellissimi racconti al confine tra l’invenzione letteraria e la narrazione storica, in cui le donne si presentano come figure esemplari di alcuni momenti nella storia inglese dei secoli passati. Donne che per la loro volontà indomabile, per il loro rigore senza compromessi e per le loro passioni eccessive assumono agli occhi della comunità i tratti inquietanti della “strega”. Depositarie silenziose di passioni represse, di enigmi indecifrabili per i testimoni-narratori delle loro vicende, restano personaggi indimenticabili anche per i lettori di oggi.

Storie di bimbe, di donne, di streghe su ANobii

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Loredana Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli, 2007, p. 284;€ 15,00

Le eroine dei fumetti le invitano a essere belle. Le loro riviste propongono test sentimentali e consigli su come truccarsi. Nei loro libri scolastici, le mamme continuano ad accudire la casa per padri e fratelli. La pubblicità le dipinge come piccole cuoche. La moda le vuole in minigonna e tanga. Le loro bambole sono sexy e rispecchiano (o inducono) i loro sogni: diventare ballerine, estetiste, infermiere, madri. Questo è il mondo delle nuove bambine.L’educazione all’inferiorità femminile, che già Elena Gianini Belotti aveva raccontato negli anni settanta, oggi non è cambiata, anche se le apparenze sembrano andare nella direzione contraria. Nessuno, è vero, impone più il grembiulino rosa alle bambine dell’asilo, ma in tutti i toni del rosa è dipinto il mondo di Barbie e delle sue molte sorelle. Libri, film e cartoni propongono, certo, più personaggi femminili di un tempo: ma confinandoli nell’antico stereotipo della fata e della strega. Ancora: l’immaginario recente tende a fotografare una scuola divisa in bulli e brave alunne, ma è proprio nel (presunto) rispetto delle regole che si fonda, da sempre, la creazione di un piccolo branco femminile che, crescendo, tramanderà a sua volta frustrazione, sudditanza, impotenza, rancore alle proprie figlie.Del resto, basta gettare uno sguardo al mondo adulto: al mondo occidentale, per essere esatti, dove è in atto quella che non sembri esagerato chiamare una guerra contro le donne, con relativi morti e feriti. Viceversa, la rappresentazione e la narrazione del femminile dipingono un panorama ancora una volta rosa: dove le donne sarebbero potenti come gli uomini perché in grado di licenziare un subordinato, o di consumare sesso, con lo stesso cinismo.Sembra legittimo chiedersi cosa sia accaduto negli ultimi trent’anni, e come mai coloro che volevano tutto (il sapere, la maternità, l’uguaglianza, la gratificazione) si siano accontentate delle briciole apparentemente più appetitose. E bisogna cominciare con l’interrogarsi sulle bambine: perché è ancora una volta negli anni dell’infanzia che le donne vengono indotte a consegnarsi a una docilità oggi travestita da rampantismo, a una certezza di subordine che persiste, e trova forme nuove persino in territori dove l’identità è fluida, e fluidissimi dovrebbero essere i generi, come il web. E per farlo, occorre tornare negli stessi luoghi dove le bambine compiono ancora oggi il loro apprendistato al secondo sesso: la famiglia, la scuola, il mondo dei media, l’immaginario dei libri e dei cartoni.

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Luce Irigaray, Io tu noi. Per una cultura della differenza, Bollati Boringhieri,1992, p. 120;€ 12,00

Signora Irigaray, il concetto di "differenza" in sé per sé, è qualcosa di molto logico e astratto. Nel pensiero femminista vuole essere qualcosa di molto concreto. Un rovesciamento del pensare e del fare. Ma, esattamente, cosa vuol dire pensare "a partire dalla differenza?"Rispondo a nome mio, non posso parlare a nome delle altre. Per me la differenza presuppone un mutamento radicale di cultura. Per questo è così difficile intendersi. Per secoli abbiamo vissuto in una cultura a soggetto unico, e, non a due soggetti. A questo soggetto unico corrispondono oggetti e costruzioni logiche che privilegiano la logica dell'"identità" e del "medesimo". Passare all'epoca della differenza significa passare a un soggetto doppio. Ed entrare in una cultura coerente con questa duplicità di fondo. Accordata a valori inseparabili dalla dualità di genere.Lei dice: la cultura fin qui è stata solo maschile. Ciò può valere per il costume, le leggi e la mentalità. Ma io e lei comunichiamo, usando meccanismi universali. Dunque, c'è qualcosa di universale che permane. Non le pare?Cerco di comunicare con lei, ma ciò non elimina la differenza di genere. Che affiora sempre. Lavoro da anni sul linguaggio. Con campionature eseguite su lingue e culture diverse. Quel che emerge è che uomini e donne non parlano affatto allo stesso modo. Se chiedo a ragazzi e ragazze di comporre frasi per esprimere relazioni, usando 'io/tu", "condividere", "amare", "lei/lui", viene fuori una reale diversità tra i sessi. I ragazzi privilegiano il rapporto soggetto-oggetto, l'uno-molteplice, la relazione con lo stesso o il medesimo. E poi la verticalità, cioè la genealogia e la gerarchia. Le ragazze privilegiano invece la relazione tra soggetti. La relazione a due, la relazione nella differenza, e orizzontale ... .Lei vuoi dire che le donne privilegiano l'emotività, l'immaginario, l'intuitività concreta?No. Questo è il suo modo - e con le sue categorie - di intendere il mio discorso. Non è quel che io dico. Nella filosofia occidentale, quando si affronta il tema della relazione con altri, al centro c'è quasi sempre il rapporto tra soggetto e oggetto, oppure il predominio logico del legame uno-molteplice. Non è in gioco la maggiore emotività della donna o l'immediatezza del "femminile". A livello logico - da un punto di vista femminile - quel che viene privilegiato è invece l'intersoggettività. La relazione a due, con l'altro. Contro l'idea di un individuo isolato, autosufficiente e astratto. E a favore di una soggettività che si relaziona all'altro orizzontalmente. (Intervista tratta da http://www.cdsdonnecagliari.it/?PID=23&Title=Intervista-a-Luce-Irigaray)

Io tu noi su Anobii

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Antonino Colavito, Adriano Petta, IPAZIA vita e sogni di una scienziata del IV secolo d.c., La Lepre, 2009, pagg 338, € 22,00

“Ipazia è una lezione da non dimenticare, è un libro che tutti dovrebbero leggere.", dice Margherita Hack. Ipazia era astronoma, matematica, musicologa, medico, filosofa, erede della scuola alessandrina e fu fatta massacrare da Cirillo, vescovo di Alessandria. Con questo delitto la cultura occidentale ha definitivamente escluso la donne dalla sfera del sapere. La vita di Ipazia è una delle più antiche parabole su un conflitto secolare ma ancora attuale: fede e ragione, uomo e donna. L'importanza di questo personaggio è ancora sottovalutata: per secoli la scienza sperimentale moderna ha creduto di avere un solo padre, Galileo, quando in realtà possiede anche un madre, nata 1200 anni prima di Galileo: Ipazia. Il ritratto che ci è stato tramandato è quello di una donna di intelligenza e bellezza straordinarie. Fu l’inventrice dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio, oltre che la principale esponente alessandrina della scuola neoplatonica. Aggredita per strada, fu scarnificata con conchiglie affilate, accecata, smembrata e bruciata. Questo assassinio è considerato dal grande storico Edward Gibbon, detto il Voltaire inglese, "una macchia indelebile" nella storia del cristianesimo. Sul personaggio di Ipazia hanno scritto Voltaire, Diderot, Proust, Pèguy, Leopardi, Pascal, Cavino, Luzi e molti altri ancora.

All’inizio del III millennio l’UNESCO, dietro richiesta di 190 stati membri, ha creato un progetto internazionale che intende favorire piani scientifici al femminile nati dall’unione delle donne di tutte le nazionalità, perché attualmente nell’ambito della scienza solo il 5% delle donne ricopre cariche di responsabilità. L'UNESCO ha chiamato questo progetto IPAZIA.

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Marina Terragni, La scomparsa delle donne. Maschile, femminile e altre cose del genere, Mondadori 2007, pag. 235 - € 16,00

"La differenza sessuale rappresenta uno dei problemi o il problema che la nostra epoca ha da pensare" è stato scritto nel 1984 dalla filosofa Luce Irigaray.Una differenza femminile che rischia di estinguersi, scrive oggi Marina Terragni, perché molte, troppe giovani donne si adeguano, imitano comportamenti maschili come se l'unico modo di darsi valore e di esistere socialmente sia la cancellazione dell' essere donna e l' agire come un uomo.Partendo dalla sua esperienza di infelice emancipata, sempre di corsa per le difficoltà di tenere insieme le mille cose della propria vita, l'autrice analizza e riflette su molti testi del femminismo e pone domande sui tanti temi d'attualità, dal rapporto con l'uomo alla sessualità, al lavoro, alla maternità, alla religione, alla politica, alla bellezza…. E racconta il suo cambiamento, il suo imparare a "star ferma", a vivere il vuoto, l'ascolto di se' e delle altre per capire il proprio desiderio e decidere di stare felicemente e liberamente nel mondo come donna, senza passare attraverso la competizione con gli uomini.Un libro prezioso che getta un ponte tra generazioni diverse di donne e anche verso gli uomini perché, per avere un rapporto nuovo tra i sessi, "essere donna è tutto quello che noi possiamo fare per loro" Renata Dionigi

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Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, 2006, p.165; € 14,00

“Sono nata in una cultura in cui non si insegna l’amore della madre alle donne. Eppure è il sapere più importante, senza il quale è difficile imparare il resto ed essere originali in qualcosa… l’inizio cercato è il saper amare la madre”. Luisa Muraro dice di aver incontrata e pienamente riconosciuta la grandezza femminile nella persona di sua madre, nei primi mesi e anni di vita e poi…quasi rinnegata. Vi è infatti nella storia di molte “una piega mentale di avversione verso la madre”. “L’attaccamento femminile alla madre corrisponde a un amore non per la propria madre, ma per la sequela delle madri, ossia per quella struttura che fa di ogni bambina il frutto di un interno di un interno di un interno,e così via fino ai confini dell’universo”. Ho trovato interessante l’idea di questo filo lunghissimo che unisce tutte le donne nella storia, questo legame attraverso il quale scende “a cascata” tutto il loro sapere e mi è piaciuta anche questa rivalutazione e valorizzazione della figura della madre in senso generale (ma ciascuna di noi non può fare a meno di pensare alla propria di madre).La filosofa parla anche del linguaggio affermando che “ il parlare è l’attività che meglio di ogni altra sembra render conto della relazione tipicamente femminile con la madre”. Per esempio Jean Austen ha scritto romanzi che da quasi due secoli sono amati e ammirati dal grande pubblico, nonostante li abbia scritti quasi senza modelli, assistita da una scarsa cultura scolastica e trovandosi a vivere la più ordinaria vita di provincia. Secondo Luisa Muraro “il segreto va ricercato nell’ordine simbolico della madre cui ella aderisce intimamente: questo le ha dato lingua e cultura”. Secondo la Austen c’è in gioco il superamento di ogni avversione verso la figura della madre che vuol dire, soprattutto, non mettere l’uomo al posto della madre per amarlo/odiarlo invece di lei, ma aver riconoscenza per lei e accettare la sua autorità. Mettere l’uomo al posto della madre significherebbe dipendenza…e la dipendenza dalla madre? A questo proposito la Muraro afferma: “io non voglio l’indipendenza adulta del pensiero e di niente, perché più di questa io voglio la rispondenza fra il (mio) pensiero e il (mio) essere. La rispondenza cercata comincia per me dal riconoscere il sentimento di una dipendenza che ho dentro e accettarlo nonostante ciò che si insegna abitualmente. La indipendenza si rafforza dall’accettazione della dipendenza” (in http://laretedisofia.blogspot.com/2008/01/lordine-simbolico-della-madre.html )

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Caterina Soffici, Ma le donne no, Feltrinelli, 2010, p. 208;€ 14,00

Perché le donne italiane hanno smesso di lottare per affermare i propri diritti? Perché l'ultimo tratto di strada - quello che nonostante le innegabili conquiste ancora le separa da una reale parità - si è rivelato il più difficile da percorrere. Per una che ancora ci prova, tre si sono arrese e sono rientrate nei ruoli tradizionali. La politica, l'economia, i mezzi di comunicazione sono sempre saldamente nelle mani degli uomini, ogni tentativo di assalto alla cittadella del potere è stato respinto innestando una reazione contraria. Le donne in Italia sono meno libere che in molti paesi del Terzo Mondo. Inchiodate alla cura della famiglia, relegate in ruoli sempre più marginali, sottopagate e sfruttate, non solo non lottano più ma sembrano nuovamente confinate dentro schemi e stereotipi in voga negli anni cinquanta: madri o maggiorate allora, madri o veline oggi. La cultura di massa del nostro paese propone della donna una visione umiliante e offensiva. Perché le donne italiane non reagiscono? Di cosa hanno paura? Questo libro racconta come e perché hanno alzato bandiera bianca.

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Ayaan Hirsi Ali, Non sottomessa, Einaudi, 2005, pagg 116, € 11,50

Ayaan Hirsi Ali, musulmana, esprime la più radicale e coraggiosa posizione mai apparsa per la libertà della donna nell'Islam. Questo libro, che comprende anche la sceneggiatura di Submission, il film del regista Theo van Gogh, si pubblica contemporaneamente in molti paesi d'Europa. Per le sue idee, gli stessi che hanno ritenuto blasfemo il film di Theo van Gogh hanno condannato Ayaan Hirsi Ali a morte.

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Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli, 2009, pagg 208+16, € 8,5

“Ma non raggiungere la verità giudiziaria è una sconfitta dello Stato. È lo Stato che ha perso appunto perché non ha saputo colpire chi ha sbagliato. Perché in un modo o nell’altro, voglio dire direttamente o indirettamente, Pino è stato ucciso. E poi non è una questione di vincere o di perdere: semplicemente uno Stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che ha perduto, uno Stato che non esiste.” Licia PinelliLicia e Pino si conobbero nel 1952 a un corso di esperanto, a Milano. Lei voleva imparare la “lingua universale” che avrebbe facilitato la comprensione tra i popoli e portato la pace; lui voleva prendere il diploma e insegnarlo. Comincia così la loro storia d’amore. Licia, che ha cominciato a lavorare come dattilografa a tredici anni, fa la segretaria e abita in un palazzo popolare in viale Monza. Quando finisce il lavoro fa a piedi il tragitto fino a casa con Pino. Parlano tanto, hanno ideali comuni e amano leggere. Dopo due anni di fidanzamento si sposano, nonostante le diffidenze dei genitori, e conducono una vita bohémien. Pino fa il ferroviere, è anarchico e, dato che con la nascita delle due figlie Licia lo spinge a uscire, si butta nella politica attiva. Per casa c’è sempre gente, e a Licia piace. Poi arriva la notizia della morte di Pino, che si sarebbe suicidato gettandosi dalla finestra della questura, nell’ufficio del commissario Calabresi. Licia non ci crede. Secondo lei, il marito è stato picchiato, creduto morto e buttato giù. Poi arriva l’omicidio Calabresi. Licia prova orrore alla notizia ma vuole sapere la verità e avere giustizia perché ha fiducia nello Stato di diritto. E, a quarant’anni di distanza, vorrebbe ancora la verità. Il racconto sobrio e mai retorico di questa vicenda molto privata, ma non “soltanto sua”, fondamentale per la storia d’Italia recente, è arricchito da una cronologia degli eventi più importanti dell’epoca, una bibliografia aggiornata, una raccolta di testimonianze di alcune personalità su Pinelli e un inserto di foto.

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Emily Dickinson

Io non sono nessuno! E tu chi sei?Nessuno pure tu?Allora siamo in due, ma non lo dire!Potrebbero bandirci, e tu lo sai! Che grande noia, essere qualcuno!Quanto volgare dire il nome tuoPer tutto giugno-come fa la rana-a un pantano che ti ammira.

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Non accostarti troppo alla dimora di una rosa:se una brezza le predao rugiada le inondacadono con timore le sue mura.E non voler legare la farfalla, o scalare le sbarre dell’estasi: garanzia della gioia è il suo rischio perenne

Emily Elizabeth Dickinson nasce il 10 dicembre 1830 ad Amherst, nel Massachusetts. Piccola come lo scricciolo, i capelli arditi come il riccio della castagna, gli occhi colore dello sherry, Emily Dickinson trascorre la sua vita nella casa paterna senza quasi mai allontanarsi: “Io non mi spingo oltre il giardino di mio padre, non vado a Casa di nessuno, non vado in nessun’altra città”. Di salute precaria, sensibilissima, schiva e timida fino all'eccentricità, trascorre il tempo nella stanza più piccola e più bella della casa, una stanza d’angolo, dove progressivamente si rinchiude in volontaria segregazione, a leggere e a scrivere "la mia lettera al mondo, che non ha mai scritto a me". Muore il 15 maggio del 1886. Scritti tra il 1858 e il 1862, i suoi versi sono stati pubblicati quasi tutti dopo la sua morte. Oltre alle sue millesettecentosettantacinque poesie, contrassegnate tutte con un numero, ricordiamo anche le sue tante Lettere.

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Silvia Plath

IO SONO VERTICALE (da: Attraversando l’acqua, 1971)

Ma preferirei essere orizzontale.Non sono un albero con radicI nel suoloSucchiante minerali e amore maternoCosì da poter brillare di foglie a ogni marzo, Né sono la beltà di un’aiuolaUltradipinta che susciti gridi di meraviglia,Senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.Confronto a me, un albero è immortaleE la cima d’un fiore, non alta, ma più clamorosa:Dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,Alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.Ci passo in mezzo, ma nessuno di loro ne fa caso. A volte io penso che mentre dormoForse assomiglio a loro nel modo più perfetto - Con i miei pensieri andati in nebbia.Stare sdraiata è per me più naturale.Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio,E sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:Finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

Sylvia Plath nasce a Boston nel 1932 e ben presto rivela la sua predisposizione alla poesia. Sempre inquieta e combattuta, nell'estate del 1953 fa il primo serio tentativo di suicidio: dopo aver ingerito un intero flacone di sonniferi, viene salvata in fin di vita dal fratello, nascosta nello scantinato di casa. Ricoverata, subisce l'esperienza terribile ed atroce dell’ospedale psichiatrico. In seguito scriverà della crisi del 1953 nel romanzo semi-autobiografico La campana di vetro. Uscita dall’ospedale, si laurea nel 1955 e una borsa di studio la porta a Cambridge, in Inghilterra, dove conosce e sposa il poeta Ted Hughes, con cui ha due figli. L'11 febbraio 1963, dopo sette anni di matrimonio, la separazione dal marito (che aveva un'amante), si suicida aprendo il rubinetto del gas della casa londinese in cui abitava con i due figli piccoli. Tra le sue opere pubblicate in Italia, ricordiamo i Diari (Adelphi, € 11,00), I capolavori (Mondadori, € 14,80), le Opere complete (Mondadori, € 55,00)

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Alda Merini

Da: La Terra Santa, 1984

Le più belle poesiesi scrivono sopra le pietrecoi ginocchi piagatie le menti aguzzate dal mistero.Le più belle poesie si scrivonodavanti a un altare vuoto,accerchiati da agentidella divina follia.Così, pazzo criminale qual seitu detti versi all'umanità,i versi della riscossae le bibliche profeziee sei fratello di Giona.Ma nella Terra Promessadove germinano i pomi d'oroe l'albero della conoscenzaDio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.Ma tu sì, malediciora per ora il tuo cantoperché sei sceso nel limbo,dove aspiri l'assenziodi una sopravvivenza negata.

Alda Merini nasce nel 1931 a Milano, città dove frequenta le scuole professionali ma non riesce a ottenere l'ammissione al liceo Manzoni perché respinta in Italiano. Nel 1953 sposa Ettore Carniti, ma dal 1965, a causa di prolungati disturbi psichici, viene internata per sette anni al manicomio Paolo Pini di Milano. In questo stesso periodo, durante i temporanei ritorni in famiglia, nascono tre figli. In seguito alla morte del marito, Alda Merini si risposa nel 1983 con il medico-poeta Michele Pierri e lo segue a Taranto, dove sperimenta nuovamente gli orrori dell’ospedale psichiatrico. Tre anni dopo ritorna a Milano, dove muore l’1 novembre 2009. Oltre alla Terra Santa del 1984, ricordiamo: La presenza di Orfeo, 1953; Vuoto d’amore, 1993; Paura di dio, 1995; Nozze romane, 1995; Tu sei Pietro, 1961; L'altra verità. Diario di una diversa, 1986; Testamento, 1988; Delirio amoroso, 1993; Le zolle d'acqua, 1993; La pazza della porta accanto, 1994; Le ballate non pagate, 1995; La vita facile, 1996.

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Antonia Pozzi

Prati

Forse non è nemmeno veroquel che a volte ti senti urlare in cuore:che questa vita è,dentro il tuo essere,un nullae che ciò che chiamavi la luceè un abbaglio,l’abbaglio estremodei tuoi occhi malati –e che ciò che fingevi la metaè un sogno,il sogno infamedella tua debolezza.

Forse la vita è davvero

quale la scopri nei giorni giovani:un soffio eterno che cercadi cielo in cielochissà che altezza.

Ma noi siamo come l’erba dei pratiche sente sopra sé passare il ventoe tutta canta nel ventoe sempre vive nel vento,eppure non sa così crescereda fermare quel volo supremoné balzare su dalla terraper annegarsi in lui.

Milano, 31 dicembre 1931

Nasce a Milano il 13 febbraio 1912, figlia di un avvocato milanese e di una contessa Studia nel liceo classico Manzoni di Milano, dove inizia con il suo professore di latino e greco una relazione che, a causa dei pesanti ostacoli frapposti dalla famiglia Pozzi, verrà interrotta nel 1933 e procurerà ad Antonia una forte depressione. Nel 1930 si iscrive alla facoltà di filologia di Milano e frequenta coetanei quali Vittorio Sereni ed Enzo Paci. Studia, si laurea nel 1935, viaggia e si occupa di fotografia, ma il suo luogo prediletto rimane la villa di famiglia a Pasturo, ai piedi della Grigna, dov’è la sua biblioteca e dov’è attualmente sepolta dopo il suicidio, avvenuto il 3 dicembre del 1938. Tra le sue opere, pubblicate postume, ricordiamo: Parole (Mondadori, 1939), Diari e altri scritti (Viennepierre, 2008), Nelle immagini l'anima: antologia fotografica (Ancora, 2007), Tutte le Opere (Garzanti, 2009).

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Wislawa Szymborska

SCRIVERE UN CURRICULUM (da "Vista con granello di sabbia")

Che cos’è necessario?È necessario scrivere una domanda,e alla domanda allegare il curriculum.A prescindere da quanto si e' vissutoè bene che il curriculum sia breve.È d'obbligo concisione e selezione dei fatti.Cambiare paesaggi in indirizzie malcerti ricordi in date fisse.Di tutti gli amori basta quello coniugale,e dei bambini solo quelli nati.Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.I viaggi solo se all’estero.L'appartenenza a un che, ma senza perchè.

Onorificenze senza motivazione.Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi.Sorvola su cani, gatti e uccelli,cianfrusaglie del passato, amici e sogni.Meglio il prezzo che il valoree il titolo che il contenuto.Meglio il numero di scarpa, che non dove vacolui per cui ti scambiano.Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.È la sua forma che conta, non ciò che sente.Cosa si sente?Il fragore delle macchine che tritano la carta

Wislawa Szymborska, nata a Poznan nel 1923, vive a Cracovia, da cui si allontana solo per brevi, ma periodici viaggi in Olanda. La sua prima raccolta di versi è del 1945, Cerco la parola.Tra le sue altre opere, ricordiamo: Per questo viviamo del 1952, Domande rivolte a se stessa del '54, Sale del '62, Cento giochi del '67, Qualche incidente del '72; Gente sul ponte del ‘73.In Italia le raccolte della Szymborska tradotte e pubblicate sono: Gente sul ponte, (1996, Libri Scheiwiller), Vista con granello di sabbia. Poesie (1998, Adelphi) e Opere (2008, Adelphi)Nel 1996 riceve il Premio Nobel per la Letteratura.

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Dieci Regia: Abbas Kiarostami (Iran – Francia, 2002)

“Sono anni / che come una pagliuzza / fra le stagioni / me ne vado senza meta ” Abbas Kiarostami, “Come il vento” (poesie); Milano, Il Castoro, 2001

Dieci scene, due inquadrature, cinque personaggi, l’interno di un’automobile nelle strade affollate di Teheran e tante parole. Kiarostami realizza il suo film più radicale, dove il processo di dissoluzione della regia si risolve in un’affermazione della propria poetica. Ancora una volta il protagonista attraversa la realtà a bordo di un’automobile, ma il paesaggio, così centrale nei suoi ultimi film, diventa un bagliore sfocato oltre i finestrini, oppure, viene risucchiato dal buio della notte. È il volto umano, per Cassavetes il paesaggio più interessante, che occupa quasi per intero l’inquadratura. Volti di donne, su tutti quello bellissimo di Mania Akbari, artista dalla forte personalità, vero cuore del film.Per la prima volta lo sguardo del regista si sofferma sull’universo femminile, chiuso nell’opprimente abitacolo, come microcosmo concentrazionario. Ne risulta un’immagine della donna iraniana sorprendentemente vicina e familiare, sospesa tra emancipazione e costrizione.Il mondo maschile, chiuso e autoritario, è impersonificato dal figlio della protagonista. Questo bambino, già piccolo uomo, dispotico e petulante, parla a nome di tutti i maschi assenti ed esplicita un’eredità culturale tramandata da padre in figlio.Dieci è un film di una semplicità disarmante e dunque, complesso e profondo come la vita

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Il cerchio Regia: Jafar Panahi (Iran, 2000)

LEONE D'ORO ALLA 57° MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA (2000)

Dopo aver affrontato ne Il palloncino bianco e Lo specchio le tematiche infantili, con Il cerchio, l'iraniano Jafar Panahi, rivolge il proprio sguardo all'universo femminile. Otto ritratti di donne, otto storie di quotidiana sopravvivenza raccontate con la semplicità di un linguaggio che non cerca di emozionare lo spettatore, ma al contrario di accompagnarlo, mantenendo il più possibile un punto di vista distaccato. Il cerchio rimanda, in qualche modo, alla circolarità e alla frammentazione della narrazione, che descrive uno dopo l'altro ciascun personaggio. Le vicende si succedono apparentemente in modo del tutto casuale. Il cerchio si ricompone, chiudendosi, soltanto nel finale. Sorprende la bravura di Panahi, nell'essere riuscito a descrivere, con grande sensibilità ed efficacia - per lo più attraverso i gesti - personaggi così autentici, come quelli di queste donne costrette a vivere ai margini di una società estremamente rigida e codificata

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Lezioni di piano Regia: Jane Campion (Australia- Francia, 1993)

Nel 1825, venuta dalla Scozia, sbarca in Nuova Zelanda Ada, muta fin da bambina, sposa per procura a un coltivatore inglese, con una figlia di nove anni, i bagagli e un pianoforte. Un vicino di casa, maori convertito, l'aiuta a recuperare il piano che il marito rifiuta, e diventa il suo amante tra lo scandalo della piccola comunità locale. 3° film scritto e diretto dalla neozelandese J. Campion, è un dramma che coniuga il romanticismo gotico di Emily Brontë con l'acceso erotismo di D.H. Lawrence, filtrandoli con la sensibilità e la lucidità di una donna di oggi che rifiuta l'ipoteca del pessimismo tragico. Al risultato complessivo di alta maestria stilistica contribuiscono attori eccellenti, i sontuosi paesaggi semitropicali percossi dalla pioggia e immersi nel fango, le musiche di Michael Nyman. Più di 30 riconoscimenti internazionali tra cui Palma d'oro a Cannes, 3 Oscar (attrice protagonista, attrice non protagonista e sceneggiatura) e 5 nomination, 11 American Film Institute Awards. E H. Hunter ha vinto altri 7 premi.

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Marianna Ucria Regia: Roberto Faenza (Ita-Fra-Port, 1997)

Dal romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990) di Dacia Maraini. Nel 1743 a Palermo la tredicenne sordomuta Marianna di nobile famiglia va in sposa al duca Pietro, anziano zio materno, che la rende madre di cinque figli. Scopre molti anni dopo l'infame segreto di famiglia che è all'origine del suo handicap. Intanto, però, aiutata dalla vita, dall'affetto dei nonni e della madre, da un illuminato precettore straniero, è cresciuta con un'assidua ricerca di pensiero, emancipazione e libertà. Film ricco (anche di inquadrature: più di 1000), sontuoso, in bilico sul decorativo, con la fotografia di Tonino Delli Colli e le scene e costumi del grande Danilo Donati che esaltano la bellezza della Sicilia del Settecento. Ha i limiti dei film biografici: una struttura lineare che procede per accumulazione più che per sintesi, sottolineata da un certo gelo narrativo, come se R. Faenza avesse tenuto troppo la distanza dalla materia. Marianna è interpretata dall'ottima dodicenne E. Grieco e poi dalla francese E. Laborit, sordomuta dalla nascita. R. Herlitzka è un eccellente duca.

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Martha Regia: Rainer Werner Fassbinder (Germania, 1973)

Liberamente tratto dal racconto For the Rest of Her Life di Cornell Woolrich. Bibliotecaria trentenne, con madre alcolista e soggiogata dal padre, sposa Helmut Salomon che si rivela un secondo padre-padrone, ma più sadico. Un incidente stradale la lascia su una sedia a rotelle, completamente in sua balia. È uno dei 3 film per la TV che R.W. Fassbinder diresse nel '73, ma per una complicata lite di diritti legali rivide la luce soltanto nel '94 quando, come evento speciale, fu esposto alla 51ª Mostra di Venezia. Un'altra impietosa analisi del sadomasochismo nei rapporti coniugali, uno dei temi cari a Fassbinder. Di estrema compattezza, fin troppo schematico nel suo passo di melodramma raffreddato, spiazzante per la sua anacronistica atmosfera da romanzo gotico del Settecento inglese, calato nella traslucida fotografia di Michael Ballhaus, ha la tesa semplicità della traiettoria di una freccia, ma anche una certa ambiguità nel tacito accordo tra i due personaggi. “Martha non è oppressa, ma plasmata... La maggior parte degli uomini non è capace di opprimere le donne in modo così perfetto come esse vorrebbero” (Fassbinder). Unica menda: M. Carstersen, memorabile in Le lacrime amare di Petra von Kant, non ha il physique du rôle di Martha.

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Mi piace lavorare (Mobbing) Regia: Francesca Comencini (Ita, 2004)

Segretaria in un'azienda romana, donna mite e sola, con padre in casa di riposo e figlia undicenne a carico, poco sindacalizzata, Anna è vittima di una manovra, predisposta dall'alto, di mobbing verticale (dal verbo to mob, accalcarsi intorno, assalire) che la costringe a dimettersi. Raro esempio di film italiano in un ambiente di lavoro, è frutto di una ricerca sul campo e di un documentario per il sindacato CGIL di Roma centro, che ha contribuito anche alla scelta di impiegati, operai, sindacalisti. È uno dei suoi pregi più evidenti, soprattutto nelle sequenze con gli operai del magazzino. Apprezzabile a diversi livelli: i rapporti madre/figlia (un'intensa, schiva N. Braschi, ma pure la piccola Camille, figlia della regista, è di una tenera naturalezza); l'attendibilità sociologica dell'ambientazione; la bravura tecnica della fotografia a spalla e del suono in presa diretta. C'è qualcosa, però, che spiazza lo spettatore, frenandone il coinvolgimento: Anna appare di una sottomissione che sconfina nell'ingenuità, nel masochismo. Anche la sua ribellione risulta tardiva. Ma, forse, è una riserva che nasce dall'ignoranza del contesto, di un fenomeno sociale tipico dell'attuale fase caotica e sregolata del neocapitalismo mondializzato. Scritto dalla regista con il sindacalista Daniele Ranieri e l'avvocato del lavoro Assunta Cestaro. Costo: 300.000 E. Dedicato a Daniel (Toscan du Plantier), marito della regista.

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Pomodori verdi fritti alla fermata del trenoRegia: Jon Avnet (Usa, 1991)

Evelyn (K. Bates), adiposa e depressa donna di mezza età, incontra in una casa di riposo per anziani la vivace ottantenne Ninny (J. Tandy) che le racconta la storia dell'amicizia tra la fiera Idgy (M. Stuart Masterson) e la dolce Ruth (M.-L. Parker) e le drammatiche peripezie che le portarono a gestire insieme il Whistle Stop Café alla fermata di un treno che non c'è più, dove si poteva gustare la specialità locale (i pomodori del titolo). Stimolata dai racconti, Evelyn cambia vita e si porta a casa la vecchia amica. Tratta dal romanzo omonimo di Fannie Flagg (candidato al Pulitzer 1987) è il film di esordio del produttore J. Avnet, costato poco più di 10 milioni di dollari, ne ha incassati più di 65 solo nel mercato USA. Una storia del profondo Sud tutta al femminile – bravissime tutte – che avvince e funziona, nonostante la furbetta rievocazione di maniera e l'insufficiente sottigliezza nell'analisi del rapporto tra le due ragazze

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Rosetta Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne, (Francia, 1999)

Rosetta vive nel carrozzone di un campeggio con la madre alcolista che si prostituisce. Ogni giorno va in città in cerca di un lavoro che trova, perde, ritrova, che le portano via, che si riprende. È ossessionata dalla paura di scomparire e dalla vergogna di essere un'emarginata. Vuole una vita normale: come loro, con loro. Rivisitazione non dichiarata del Dogma di von Trier e C. da parte dei due fratelli belgi L. e J.-P. Dardenne, registi di La promesse (1996), 20 anni di video militanti e di documentari sociali: cinepresa a spalla, incollata al corpo dell'eroina, niente musica, soltanto rumori d'ambiente, dialoghi ridotti al minimo, nessun colpo di scena, montaggio che ricalca il respiro affannoso, l'energia furente e l'agonia del personaggio. Comincia e continua di corsa. Al finale, che potrebbe essere tragico, gli autori “si fermano, per pudore e per pietà” (Luciano Barisone). Dietro Rosetta s'intravede in filigrana la Mouchette di Bernanos e Bresson. Film estremo, radicale, sulla dignità e sull'efferato cinismo legale del mondo di oggi, fuori dalla normalità, dal consueto, dal rassicurante. Palma d'oro a Cannes 1999 e premio per la migliore attrice a E. Dequenne.

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Senza tetto né legge Regia: Agnès Varda (Francia, 1985)

[…]Ed ecco dunque, a ritroso, la cronaca delle ultime settimane della diciottenne Monà, che stufa di fare la segretaria ha preso zaino e tenda e ha creduto di potersi infischiare di tutto e di tutti andando vagabonda, in giubbetto di cuoio, per il Sud della Francia. Non ha avuto fortuna ma nemmeno l'ha cercata. Credendo nel mito della libertà assoluta, Monà si è trascinata da un luogo all'altro, ha mangiato la minestra delle suore, ha venduto un po' del proprio sangue per comprarsi uno spinello. Senza documenti, affidandosi all'autostop, ha retto i morsi della fame e i rigori dell'inverno con l'insolenza e lavoretti provvisori. Ora che Monà è morta ce ne parlano quanti la incontrarono, ripercorriamo le tappe del suo distruggersi. Eccola lavare le macchine in un'officina e darsi senza emozioni al padrone, eccola ospite di un drogato, eccola ubriacare una vecchia per far dispetto ai nipoti, eccola ascoltare la predica d'un filosofo fattosi pastore. Monà si prova a coltivare patate e vendere formaggi, ma preferisce rubacchiare, ascoltare canzoni e stare lontana dall'acqua e sapone. Nemmeno quando una botanica un po' snob, divertita dai suoi modi selvaggi, le dà una mano, Monà mette radici. Scappa nel bosco, dove è aggredita da pari suoi; e finisce in casa d'un operaio tunisino che le insegna a potare i vigneti. Ma per poco, ché gli stagionali marocchini la cacciano. E allora torna con i drogati, fin quando dei contadini mascherati rischiano di bruciarla durante la festa della vendemmia, e Monà scappa impaurita. Si accuccia in un fosso, e lì muore. Lasciamo perdere se si provi più pietà o disgusto per questa eroina dell'irresponsabilità sociale, così priva di passioni da non sentirsi nemmeno umiliata. Ognuno è libero di conferire aureole a chi forse ha dato agli altri più di quanto ne abbia ricevuto e ha scelto con arroganza il proprio desolato destino. Il senso del film non è nell'invocare compassione o ribrezzo (benché la retorica dell'angelo dalla faccia sporca sia sempre fra le quinte). È semmai nel dirci il comportamento di quanti hanno incrociato la strada di Monà, i disagi di una società coperta di lividi che si specchia nel proprio degrado […] (Giovanni Grazzini, Corriere della sera)

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Thelma & Louise Regia: Ridley Scott (Usa, 1991)

Da una cittadina dell'Arkansas due amiche partono in auto per un weekend lasciando volentieri a casa i rispettivi uomini. Quando Thelma (G. Davis), la più giovane, sta per essere violentata, Louise (S. Sarandon) interviene e uccide l'aggressore: la loro gita si trasforma in fuga. Braccate dalla polizia, le due fuggitive scoprono una nuova dimensione della vita e una parte sconosciuta di loro stesse. Settimo film dell'inglese R. Scott e uno dei suoi migliori. Il merito è anche della sceneggiatura – premiata con l'Oscar nell'anno di Il silenzio degli innocenti – di Callie Khouri che gli ha fornito una bella storia, una feconda combinazione di dramma e commedia, due personaggi vivi, un punto di vista nuovo, un discorso insolito che riprende l'anarchismo liberale del cinema di strada degli anni '60. Con due ottime interpreti – ben doppiate da Rossella Izzo e Donatella Nicosia – è uno dei film più euforicamente femministi mai arrivati da Hollywood.

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Vogliamo anche le rose Regia: Alina Marazzi (Italia – Svizzera, 2007)

Vogliamo anche le rose è un documentario che racconta il profondo cambiamento avvenuto nel costume in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta grazie alla liberazione sessuale e al movimento femminista. Vengono riproposte le più importanti tappe di questo percorso filtrandole attraverso lo sguardo femminile di una regista poco più che quarantenne. Dichiara la regista: "Ho voluto ripercorrere la storia delle donne tra la metà degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta per metterla in relazione, a partire dal 'caso italiano', con il nostro presente globale, conflittuale e contraddittorio. Con l'intenzione di offrire uno spunto di riflessione su temi ancora oggi parzialmente irrisolti o oppure addirittura platealmente rimessi in discussione". Ne è uscito un documentario che ha una sorta di doppia valenza: quella negativa è legata alle generazioni di chi quelle vicende le ha vissute e che si trova di fronte a un 'ripasso' ben realizzato ma poco coinvolgente anche sul piano della memoria. Per chi invece è nata dopo e dà per scontate numerose acquisizioni che scontate non lo sono per nulla, il discorso è diverso. Vogliamo anche le rose in quest’ottica diviene un prezioso strumento per mostrare un'Italia che sembra perduta nel tempo e a tratti irreale come una fiaba grottesca ma che è stata drammaticamente reale.

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