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Quaderni di Rivista bimestrale di politica socio-sanitaria Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria Pianeta Salute Percorso formativo sulla cultura della salute nel terzo millennio seconda edizione

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rio Quaderni diRivista bimestraledi politica socio-sanitaria

Laboratorio Regionaleper la Formazione Sanitaria

Pianeta Salute

Il cambiamento del concetto di salute alla luce delle trasfor-mazioni economiche, sociali, culturali e ambientali degli ultimi trent’anni.

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ETS

Percorso formativo sulla culturadella salute nel terzo millennio

seconda edizione

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Collana editoriale del FormasLaboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria

A cura diSalute e territorio

Rivista bimestrale di politica sociosanitaria

Direttore responsabileMariella Crocellà

Comitato editorialeGian Franco Gensini

Preside Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Firenze

Mario Del VecchioProfessore associato Università di Firenze, Docente SDA Bocconi, Milano

Antonio PantiPresidente Ordine Medici Chirurghi e Odontoiatri Provincia di Firenze

Luigi SettiDirettore Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria, FORMAS

RedazioneAntonio AlfanoGianni Amunni

Alessandro BussottiBruno CravediLaura D’Addio

Gian Paolo DonzelliClaudio Galanti

Carlo HanauGavino MacioccoBenedetta Novelli

Mariella OrsiDaniela Papini

Paolo SartiLuigi Tonelli

Segreteria di redazioneSimonetta Piazzesi

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Quaderni di Salute e territorio

Pianeta saluteseconda edizione

Percorso formativo sulla culturadella salute nel terzo millennio

Edizioni ETS

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© Copyright 2011EDIZIONI ETS

Piazza Carrara, 16-19, I-56126 [email protected]

DistribuzionePDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]

ISBN 978-884673208-8

I testi riportati in questa pubblicazione sono tratti dalla trascrizionedelle “Lezioni intorno al Pianeta salute – seconda edizione” che sisono tenute il 19, 24 novembre, l’1 e il 15 dicembre 2010 a Villa LaQuiete alle Montalve di Firenze. Il corso, promosso dal Formas, èstato organizzato da Gavino Maciocco. La trascrizione e l’editingdei testi è stata curata da Marco Ramacciotti.

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Indice

PresentazioneMariella Crocellà 7

L’evoluzione dei sistemi sanitariGavino Maciocco 9

Information tecnology e farmaciPiero Salvadori 25

La sfida di Kaiser PermanenteElisa Scopetani 31

Il federalismo in sanitàNerina Dirindin 41

Sistemi sanitari regionali a confrontoSabina Nuti 55

Le priorità della Sanità toscanaAndrea Leto 65

I determinanti della saluteGavino Maciocco 73

Le diseguaglianze di salute nei Paesi sviluppatiAlessandro Barchielli 79

Le malattie cronicheAlessandro Bussotti 89

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L’utilizzo del sistema informativoPaolo Francesconi 97

Gli screeningMarco Zappa 107

Le norme fondamentali del Codice deontologicoAntonio Panti 113

La libertà e i diritti dei pazientiAlfredo Zuppiroli 119

La sperimentazione clinicaClaudio Galanti 127

L’accesso ai farmaci nei Paesi in via di sviluppoDaniele Dionisio 135

Le diseguaglianze di accesso ai servizi sanitariSara Barsanti 143

Percorsi di integrazione socialeGiulia Capitani 155

La salute dei migrantiFrancesca Santomauro 165

L’impegno per il rispetto dei diritti umaniAndrea Bassetti 177

La situazione degli immigrati in ToscanaFrancesco Cipriani 185

La cooperazione sanitaria internazionalePepa Caldès 199

Resoconto e valutazione di un progetto africanoBarbara Tomasin 213

PIANETA SALUTE

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Presentazione

La scelta di pubblicare la seconda edizione del corso dedicato a“Pianeta salute”, nasce da una considerazione fondamentale: pro-grammare la sanità, destinare le risorse economiche e umane a ri-cerche e progetti che hanno l’obiettivo di tutelare la salute, com-porta una visione critica e approfondita di quelli che sono gli at-tuali scenari nel mondo.

Il percorso scelto dal coordinatore del corso, Gavino Maciocco,offre agli operatori ed in particolare ai responsabili degli Enti loca-li, una mole di dati che possono rimettere in discussione le scelteoperate e quelle ancora in discussione, oppure confermarle e arric-chirle di nuovi spunti.

Le diseguaglianze nella salute si determinano non solo nei Paesipiù svantaggiati, ma anche all’interno della stessa regione o cittàche si è conquistata, meritatamente, la fama di praticare una buo-na sanità.

Lo spazio riservato in questo corso alla Toscana, pur rassicuran-doci sulla qualità dei servizi offerti, mette in evidenza i problemiposti da una popolazione multietnica con particolari bisogni di so-stegno non solo nel settore sanitario.

La cooperazione sanitaria, con le esperienze riportate, vuole di-mostrare l’impegno assunto in particolare dalla nostra Regione perintervenire su realtà che la coscienza civile recepisce come inaccetta-bili: nascere al sud del mondo continua a rappresentare una dispe-rata lotta per la sopravvivenza, in gran parte perdente. L’impegnodi grandi organizzazioni internazionali possono migliorare, anche se

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non risolvere il problema. Ma il fatto che una Regione e dei piccoliComuni siano presenti con le loro minime risorse in questa imparilotta contro le diseguaglianze nel diritto alla vita, ha un profondosignificato etico che qualifica la loro politica, le persone che la rap-presentano, i professionisti che la realizzano.

Mariella CrocellàDirettore di Salute e territorio

bimestrale di politica socio-sanitaria

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L’evoluzione dei sistemi sanitariGavino Maciocco

Dipartimento Sanità pubblica, Università di Firenze

In questa lezione verrà presentato il percorso dei sistemi sanitarinegli ultimi due secoli con particolare riguardo alle tendenze attuali.In questo arco temporale abbiamo avuto due fasi, ora ci troviamonella seconda, molto turbolenta e complessa, perché basta leggeregli articoli sull’economia per rendersi conto che il nostro destino èlegato a quello che accade in India, in Cina, nella borsa di NewYork, anche in campo sanitario.

Un sistema sanitario, secondo la definizione dell’OMS nel 2000,ha fondamentalmente degli input, ossia, delle risorse che vengonoclassificate in questi quattro capitoli: 1. Lo stewardship, ovvero le norme, le regole generali.2. Le risorse, fisiche, della conoscenza, la formazione e così via.3. L’erogazione dei servizi, quindi la prima linea di azione.4. Il finanziamento.

Sulla base di questi quattro pilastri, un sistema sanitario deveraggiungere tre obiettivi fondamentali, di cui uno è sempre stato da-to per scontato: secondo l’OMS, infatti, il compito di un sistema sa-nitario è quello di migliorare la salute della popolazione, specifican-do però che la salute della popolazione deve migliorare in termini dimedie di livello generale, quindi, di speranza di vita alla nascita. Daquesto punto di vista registriamo un andamento molto positivo: daquarant’anni, per ogni decennio, guadagniamo due anni e mezzo dilongevità. In Italia siamo arrivati a quasi ottantacinque anni per ledonne e circa ottanta anni per gli uomini, però c’è un altro elemen-to, l’equità. Equità significa che si deve cercare di capire come que-ste medie, ottanta e ottantacinque anni, sono distribuite all’internodei vari gruppi della popolazione. In certi casi ci sono anche diecianni di differenza tra il gruppo più istruito e quello che lo è di me-no, tra i più ricchi e i più poveri. Come diceva don Milani: le medie

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sono vigliacche. Ci sono poi questi due elementi che invece sono sta-ti aggiunti nel rapporto del 2000: la responsiveness e la protezionefinanziaria.

Protezione finanziaria significa che un sistema sanitario devepreoccuparsi anche del fatto che nessuna persona vada in rovina acausa di una malattia e quindi deve tenere conto del finanziamento.Mentre lo stato di salute e il finanziamento sono abbastanza intuiti-vi, la responsiveness lo è un po’ meno, anche perché non esiste unatraduzione immediata del termine in italiano. Noi consideriamo co-me responsiveness il modo con cui trattiamo i nostri pazienti, conparticolare riguardo al rispetto dell’autonomia, della riservatezza edella dignità, la libertà di scelta del provider, di chi ci deve curare, lacomunicazione, la tempestività della risposta, il comfort ambientalee l’accessibilità alla famiglia e al supporto della comunità all’internodella struttura.

È molto importante definire questo aspetto perché, sulla base deitre elementi citati l’OMS nel 2000 ha stilato la famosa classifica chepose l’Italia al secondo posto. Due anni dopo, l’OMS, analizzandoil metodo con cui erano state raccolte le informazioni per stilarequesta classifica, scoprì che in Italia era stato commesso un erroreperché la domanda: a che livello di responsiveness è il sistema? an-drebbe posta ai pazienti, ai cittadini, invece fu rivolta ai Direttorigenerali. Rifacendo correttamente il percorso, intervistando pazientie cittadini, infatti siamo retrocessi dove ci spetta, in fondo alla clas-sifica, un po’ prima di Grecia e Portogallo. Noi continuiamo a par-lare di secondo posto, ma solo perché alla revisione non fu data suf-ficiente pubblicità; da allora l’OMS ha smesso di fare classifiche,mentre c’è un’istituzione europea che sta continuando a farle, l’ulti-ma è del 2009 e anche lì siamo posizionati circa a metà, consideran-do tutti i Paesi europei, compresi quelli dell’Est.

Cosa sta succedendo ai sistemi sanitari

Negli anni novanta iniziavano le grandi fibrillazioni dei sistemisanitari dovute alla crisi petrolifera che si era sviluppata negli anniSettanta, e che aveva prodotto effetti economici negli anni Ottanta

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cominciando a rendere difficile e complesso il finanziamento di si-stemi di welfare. In Italia questa crisi, dal punto di vista normativo,produsse le riforme 502/92 e 517/93, che si ponevano proprio l’o-biettivo di affrontare i temi dell’uso delle risorse, dell’efficienza equindi l’aziendalizzazione, un fenomeno che avveniva su scala inter-nazionale, non solo in Italia. Tutti i Paesi misero all’ordine del gior-no delle riforme che facessero aumentare il livello di efficienza, contrasformazioni di carattere istituzionale, organizzativo, eccetera, alpunto che due importanti analisti di politica sanitaria affermarono:il primo, le riforme sanitarie sono state una delle epidemie mondialidegli anni Novanta, il secondo, ancora più acuto, affermava: con mo-notona regolarità i politici reagiscono ai problemi mal definiti dei lorosistemi sanitari ridisorganizzandoli.

Se questi due analisti esprimevano questi giudizi nel 1995, quin-dici anni dopo l’epidemia non è scomparsa, ma continua a morderee tutt’ora i sistemi sanitari affrontano continuamente questioni chehanno a che fare con l’instabilità. Attualmente al mondo non c’è si-stema sanitario che sia in una condizione di stabilità e pressochétutti vanno continuamente incontro a modifiche, aggiustamenti ecosì via.

Le molle che producono i cambiamenti nei sistemi sanitari pos-sono essere diverse. Se si fa un brainstorming e ci si chiede: cos’è chedetermina i cambiamenti nei sistemi sanitari? ci si rende conto chesono tanti i fattori in grado di modificarli: l’invecchiamento dellapopolazione, i cambiamenti epidemiologici-demografici, le nuovetecnologie, le ultime acquisizioni della scienza, anche se ormai tuttisono concordi nell’affermare che il più importante è quello politico.

Secondo l’americano Victor Fuchs, il più importante economistasanitario: i grandi cambiamenti della sanità sono atti politici intrapre-si per fini politici. Si tratta di argomenti che hanno a che fare con gliassetti della società, con le grandi questioni economiche, morali, divalori, eccetera. Fuchs poi aggiunge: la natura politica di tali cambia-menti fu chiara quando Otto von Bismarck introdusse nel diciannove-simo secolo l’assicurazione sanitaria nazionale nel nuovo Stato tedescoe lo fu altrettanto quando l’Inghilterra istituì il Servizio sanitario na-zionale dopo la seconda guerra mondiale. Dal punto di vista storico ametà dell’Ottocento rileviamo i primi elementi che producono le

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scintille che daranno vita ai sistemi sanitari moderni. Il 1848 comeanno simbolico, nella storia dell’Ottocento è una specie di crinaleprima del quale c’è la Rivoluzione francese e anche l’inizio della ri-voluzione industriale. Si affermano alcuni diritti e principi fonda-mentali: a causa della rivoluzione industriale, si capisce il valore del-la salute in termini di produttività, Gli amministratori inglesi tra-sformano le proprie città rendendole più vivibili, attrezzando fogna-ture, acquedotti, aree verdi e nuove aree residenziali, per allungarela vita in buona salute degli operai, che a Liverpool avevano unasperanza di vita di quindici anni e la rivoluzione industriale rischia-va di non andare avanti. Nel 1848 c’è una fase in cui il valore dellasalute, per la prima volta nella storia, viene visto in funzione diun’utilità generale, mentre prima di allora i problemi di salute, lamalattia e la morte, erano questioni individuali che avevano a chefare non con la produttività ma con la religione, la magia, il maloc-chio, eccetera. Il 1848 rappresenta un crinale perché quella forza –lavoro, che fino ad allora era considerata un patrimonio economicoe anche trattata in termini di schiavitù – quattordici ore di lavoro,turni di notte e così via – prende coscienza dei propri diritti.

Inizia un nuovo periodo: le prime rivoluzioni a Parigi e Berlino eil Manifesto di Marx ed Engels segnano una fase di riscatto dellaclasse operaia che era stata sfruttata fino ad allora. Nella secondametà dell’Ottocento i medici prendono coscienza dell’importanzadelle condizioni di vita sulle malattie. Se si dovesse individuare l’ini-zio della Medicina sociale, che prende in considerazione il contestosociale in cui vivono le persone in funzione della patologia, dopoBernardino Ramazzini, che nel Settecento si occupava soprattutto dipatologie del lavoro, sicuramente Rudolf Virchow è la persona chemeglio ha interpretato la funzione del concetto dell’origine multifat-toriale delle malattie ed ha sottolineato come le condizioni materialidella vita quotidiana delle persone fossero le principali cause di ma-lattia e di morte. Nel 1848 il Governo prussiano inviò Virchow inuna determinata regione dove c’era un’epidemia di tifo. Virchowmandò una lettera al Governo dicendo: guardate, qui loro pensavanoche fosse il clima a determinare la malattia, perché le teorie prevalentinella diffusione delle malattie infettive erano i miasmi e gli umori, male cause sono le pessime condizioni igieniche e la presenza di uno Stato

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autoritario e repressivo. Quando Virchow propose la sua terapia pre-vide tre ingredienti principali: l’istruzione, la libertà e la prosperità.Oltre a svolgere il ruolo di scienziato, Virchow era anche deputato ediventò Consigliere di Bismarck per gli aspetti sanitari. Bismarck èimportante perché è uno statista che affronta la questione della sicu-rezza sociale e in particolare dell’assistenza sanitaria, che era unadelle rivendicazioni dei partiti socialisti dei sindacati operai. Secon-do Bismarck: la fede nell’armonia degli interessi ha fatto bancarottanella storia, nessun dubbio che l’individuo possa fare del bene, ma laquestione sociale non può essere risolta che dallo Stato.

Bismarck nella prima parte della frase, la fede nell’armonia degliinteressi ha fatto bancarotta nella storia, si riferiva a Adam Smith, ilquale pensava che l’armonia degli interessi fosse l’elemento cheavrebbe regolato il mercato. Siamo nella seconda metà del 700,Smith propone la teoria della regolazione spontanea del mercato,c’è una mano invisibile che regola il sistema, mettendo sempre inequilibrio la domanda e l’offerta. La regolazione di domanda e of-ferta non richiede l’intervento dello Stato, che anzi deve stare fuoridalle dinamiche del mercato. L’idea di Adam Smith è che il mercatogenera ricchezza e su questo ha avuto ragione perché dagli inizi del-l’Ottocento si è avuto, grazie alla rivoluzione industriale e al merca-to, un fenomeno esplosivo, in termini di aumento di redditi, longe-vità e popolazione. Bismarck però ricorda a Smith che la mano invi-sibile non ha funzionato dal punto di vista della distribuzione dellaricchezza.

A questo punto inizia una fase storica di circa cento anni, l’ideadi Bismarck è che gli effetti negativi del mercato vanno mitigati dal-lo Stato, quindi, un capitalismo che deve trovare, all’interno deimeccanismi dello Stato, gli elementi che evitano eccessive disegua-glianze, la caduta in povertà delle persone a causa della malattia, laperdita del lavoro e così via. Bismarck non era certamente socialistané progressista, tanto è vero che, prima di fare le riforme, instauròun regime molto repressivo nei confronti dei sindacati, dei partitipolitici di sinistra, eccetera, alla fine però egli è soprattutto ricorda-to per aver instaurato, alla fine dell’Ottocento, la prima struttura diwelfare state che conosciamo, soprattutto per la sua modernità. Si-curamente il welfare state, pensato e realizzato in Germania alla fine

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dell’Ottocento, è un modello su cui ancora larga parte dei Paesi in-dustrializzati svolgono e attivano i loro processi, mentre la maggiorparte dell’umanità ancora non ha conquistato il diritto alla salute.

Nell’83 viene istituita l’assicurazione obbligatoria contro le ma-lattie, nell’85, l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro enell’89, la legge sull’invalidità e vecchiaia. Il principale elementoche regola questo tipo di modello, che prenderà giustamente il no-me di Bismarck, è quello che lo Stato dà le regole, definisce la cor-nice politico-istituzionale, ma dal punto di vista della gestione, tuttoavviene all’interno di una relazione tra imprese e lavoratori. Attra-verso i loro contributi i lavoratori e le imprese danno vita a delleCasse che poi servono a erogare i benefici agli operai che, assentiper malattia, hanno un’indennità per mancato stipendio e l’assisten-za medica e ospedaliera. Lo Stato indica l’aliquota che devono ver-sare i lavoratori e le imprese e stabilisce quali sono i benefici che de-vono corrispondere a questo tipo di partecipazione. Questo è il mo-dello Bismarck, lo Stato non interviene direttamente ma stabilisce leregole; nel 1880-’90 non tutta la popolazione tedesca era automati-camente assicurata, ma solo alcune categorie di lavoro. Iniziarono ilavoratori dell’industria, poi i trasporti, gli Enti pubblici, la copertu-ra era poco più del 10% negli anni Ottanta, del 30% agli inizi delsecolo e soltanto dopo la guerra, negli anni Cinquanta, è a livelloquasi universale. Buona parte dell’Europa, ancora oggi, adotta que-sto tipo di assicurazione, che in molti casi diventa universalisticaperché coloro che non appartengono a una determinata categoria,vengono assicurati dallo Stato. Il modello tedesco diventa un caso-scuola e, alla fine, tutti i Paesi industrializzati lo adotteranno in for-me più o meno simili. In Italia si comincia nel 1925 con la primaCassa mutua obbligatoria, INADEL, dei dipendenti degli Enti loca-li e l’ultima sarà l’INAM nel 1943. Anche negli Stati Uniti si cercòdi dare vita a una forma di assicurazione contro le malattie; per tut-to l’Ottocento e la prima parte del Novecento però, lo Stato nondoveva intervenire, ma doveva stare fuori dall’economia e da tutti iprocessi sociali. Negli anni Trenta con la grande depressione avvie-ne un sensibile cambiamento, viene infatti infranto l’elemento fon-dante della Costituzione statunitense: lo Stato non deve intervenire.Roosevelt invece, con il suo new deal, fa intervenire lo Stato per

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affrontare i problemi della grande depressione, la disoccupazione, ilcollasso dell’economia, eccetera e lo fa attraverso investimenti pub-blici per la costruzione di imponenti infrastrutture, meccanismi ereti di protezione sociale, ovvero, indennità di disoccupazione, pen-sione di vecchiaia, supporto alle donne in gravidanza e agli invalidi.Nella legge di Social Security Act, che regolava tutti questi elementi,Roosevelt aveva inserito anche l’assicurazione sanitaria nazionale,ma ci fu un’opposizione così violenta, in particolare da parte deimedici, che questa proposta non entrò nel provvedimento. Bisognadire che tutta questa operazione fu sostenuta, anche dal punto di vi-sta economico, dai consigli di John Keynes, un economista inglesesostenitore delle Stato interventista, concetto che ben si coniugavacon l’idea di Bismarck. Lo Stato doveva intervenire per mitigare glieffetti del mercato, del capitalismo; Roosevelt attuò il new deal au-mentando le tasse, prima del 1929 l’aliquota massima fiscale era del19%, lui la portò al 65% e arrivò al 92% quando ci fu la secondaguerra mondiale. L’elemento dell’uso della fiscalità, non soltantoper finanziare tutto quello che andava sovvenzionato, ma anche perridistribuire il reddito darà vita a quello che sarà considerato il prin-cipale merito attribuito a Roosevelt, l’aver creato la classe media.Questo elemento ha determinato negli Stati Uniti una tradizione dialta fiscalità, per garantire la distribuzione del reddito, che dureràfino a Ronald Reagan. Anche i successivi presidenti repubblicanicontinuarono a tenere molto alto il livello di tassazione, a un certopunto però cambia lo scenario e ritorna un’idea di capitalismo mol-to più primitivo, come era stato pensato alla fine del Settecento.

Victor Fuchs diceva: ci sono state ragioni politiche per attivare leassicurazioni sociali al tempo di Bismarck. Il motivo politico diBismarck era certamente quello di fare un’operazione di tutela deilavoratori, però tutti gli storici sono concordi sul fatto che lo feceanche per cercare di tamponare la fortissima pressione sociale. Percerti versi, quello che avviene in Inghilterra negli anni Quaranta haun valore abbastanza simile: le riforme in funzione politica, certa-mente per garantire degli obiettivi sociali e civili assolutamente im-portanti, ma tutto ciò aveva anche un suo secondo fine strettamentepolitico. Winston Churchill era a capo di un governo di unità nazio-nale che affrontava la guerra e nel pieno del conflitto, mentre le

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bombe cadevano su Londra, il Governo inglese decise di rafforzareil livello di Stato sociale. La domanda è: perché un governo, che inquel momento doveva affrontare delle emergenze terribili, aveva biso-gno di lanciare questo messaggio di rafforzamento dello Stato sociale?Aveva necessità di aumentare la coesione sociale perché la prova del-la guerra, dall’esito imprevedibile, aveva bisogno di un popolo moltounito e il messaggio di vicinanza da parte dello Stato ai bisogni dellepersone, facilitava questa coesione. Churchill incarica un economistadi ristrutturare lo Stato sociale che era molto simile a quello tedescoche si basava sulle Casse mutue. Nel 1942 William Beveridge presen-ta un rapporto che contiene tre aspetti fondamentali della riformadel welfare inglese: l’assistenza sanitaria, l’istruzione e la previdenza.Questi tre elementi di riforma, assolutamente innovativi rispetto alleassicurazioni sociali di Bismarck finalizzate a garantire dei diritti acategorie di lavoratori, hanno in comune la grande novità dell’intro-duzione del principio dell’universalismo: i titolari del diritto non so-no i produttori appartenenti a una determinata categoria, ma i citta-dini in quanto tali. Dentro questa nuova cornice si inserisce il con-cetto di Servizio sanitario nazionale che, a differenza del modello Bi-smarck in cui lo Stato sta fuori e la gestione dei servizi riguarda leCasse mutue, gli Ospedali e i medici, il sistema è gestito e finanziatodirettamente dall’amministrazione statale.

I tre elementi fondamentali che caratterizzano i sistemi sanitariuniversalistici sono: l’universalità, il finanziamento ottenuto attra-verso la fiscalità generale e non dai contributi dei lavoratori e, infi-ne, la gratuità dell’ erogazione.

Un volantino trovato su Internet spiega molto bene cos’è un si-stema sanitario nazionale con la scritta: il tuo nuovo sistema sanita-rio nazionale comincia il 5 luglio 1948. Il volantino spiega che “il si-stema garantirà l’assistenza medica, odontoiatrica e infermieristica achiunque, ricco, povero, uomo, donna, bambino, non c’è nulla dapagare salvo alcune prestazioni speciali, non si tratta di un’assicura-zione a cui doversi iscrivere e neppure di una forma di carità, per-ché lo si sta già pagando, soprattutto come contribuenti e ciò solle-verà dalle preoccupazioni finanziarie nel momento della malattia”.

Questo modello instaurato in Inghilterra a metà degli anni Qua-ranta fa veramente scuola, entra di forza il concetto che lo Stato

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deve garantire un diritto e questo si propaga a macchia d’olio e ver-rà introdotto anche nella Costituzione italiana. Quest’anno si cele-bra il centenario dell’istituzione dell’Ordine dei medici, c’è un in-tervento dell’ex Ministro della Giustizia Flick che fa un’esegesi e unapprofondimento veramente straordinari sul concetto di diritto allasalute. Flick afferma che, nella nostra Costituzione, l’unica volta chesi parla di diritto fondamentale è riguardo alla salute e mette in evi-denza una cosa ben nota: i nostri costituenti usarono il termine indi-viduo e non cittadino come titolare di questo diritto, aprendo oriz-zonti enormi, in quanto il diritto alla salute può essere esteso ancheai “non cittadini”, anche agli stranieri, anche ai “non regolari”. Ilconcetto di diritto alla salute viene incluso nella Dichiarazione uni-versale dei diritti dell’uomo del 1948. Dagli anni Cinquanta in poi,c’è quindi una fase in cui la salute viene considerata un diritto, cheviene attuato attraverso sistemi sanitari nazionali sul modello Beve-ridge o assicurazioni sociali obbligatorie tipo Bismarck e si diffondenei Paesi industrializzati. Il modello Bismarck si è radicato soprat-tutto nell’Europa centrale, Germania, Francia, Olanda, Belgio, Sviz-zera, Austria, oltre al Giappone, mentre il modello Beveridge ha in-vece avuto sviluppo in Gran Bretagna, Irlanda, Paesi scandinavi, nelsud europeo, Italia, Spagna, Portogallo, Canada, Australia e NuovaZelanda. Il modello americano, basato essenzialmente sul settoreprivato, è abbastanza lontano dagli altri due. C’è da dire però che,alla fine, nonostante la ritrosia a adottare sistemi pubblici di assi-stenza sanitaria, questo clima di salute come diritto coinvolge anchegli Stati Uniti, anche se non in maniera globale e complessiva. Nel1965 vengono introdotte negli USA. due assicurazioni pubbliche,Medicare, per tutti gli anziani ultra sessantacinquenni, indipenden-temente dal reddito e Medicaid, che invece è pubblica, per alcunecategorie di poveri, come requisiti sono necessari: reddito, donne ingravidanza, famiglie con bambini piccoli, con invalidi o con personemolto anziane.

Il 1978 è stato un anno molto importante per l’Italia con la rifor-ma 833 e a livello internazionale perché si tiene una grande confe-renza dell’OMS che, per la prima volta, mette insieme Paesi ricchi epoveri per identificare degli obiettivi a lungo termine di salute equindi strategie mondiali, con il fine molto ambizioso della salute

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per tutti entro il 2000. Non che entro il 2000 tutte le persone doves-sero diventare sane, ma l’obiettivo era quello di far sì che nessunapersona si trovasse di fronte a barriere insormontabili di carattereeconomico, geografico e culturale, per avere accesso a prestazioniessenziali. Su questo punto tutti furono d’accordo, per nessunoquesto obiettivo era impossibile, irrealizzabile e fu detto: i Paesi po-veri devono adottare strategie che privilegino soprattutto l’organizza-zione di cure primarie, i Paesi più ricchi devono aiutarli a raggiungerequesti obiettivi.

Il 1978 è importante perché è un anno che segna un cambiamen-to radicale di tendenza politica. C’è stata una tendenza politica par-tita dalla fine dell’Ottocento e giunta fino a un certo punto, che ave-va come obiettivo il concetto di salute come diritto per tutti. Sostan-zialmente, dal punto di vista ideologico, era l’idea che in un regimecapitalista lo Stato doveva svolgere un ruolo di supporto alla popo-lazione per garantire alcuni diritti fondamentali e quindi mitigare glieffetti negativi del mercato e poi c’era il mondo comunista che ap-plicava certe politiche universalistiche a cui guardavano le classioperaie e i sindacati dei Paesi industrializzati. Si creava quindi unasorta di competizione tra vari Paesi nell’essere attenti a queste que-stioni.

Dal 1978 in poi c’è un cambiamento radicale rappresentato sim-bolicamente dalle figure di Ronald Reagan e Margaret Thatcher,principali esponenti di un movimento neoliberista molto agguerritoche metteva in seria discussione il ruolo dello Stato all’interno deisistemi di welfare. Si predicava nuovamente uno Stato non interven-tista nell’economia, nella società, perché erano i privati che doveva-no costruirsi i sistemi di welfare attraverso le assicurazioni e l’ammi-nistrazione statale non doveva gravare sulle tasse dei cittadini.

In campo sanitario accade che, se fino al 1978 il timone delle po-litiche sanitarie era in mano all’OMS, dopo, nella fase dove tuttoraci troviamo, questo passa nelle mani della Banca mondiale, che atutti gli effetti è diventata un’istituzione che si occupa di finanza, diprestiti e di economia. La Banca mondiale, concede prestiti soltantose le Nazioni richiedenti attuano specifiche politiche, indicate dallabanca stessa, molto restrittive riguardo alla spesa sanitaria.

L’altro elemento, che caratterizza questa nuova tendenza che si

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sviluppa dagli anni Ottanta, è che la salute e il sistema sanitario ven-gono considerati come business e non semplicemente come stru-mento per garantire un sistema di welfare, un meccanismo che puòprodurre profitti e reddito, attraverso varie forme: il mercato deifarmaci, delle biotecnologie e così via. Questo è il nuovo scenarioche si apre a partire dagli anni Ottanta e nel quale ci troviamo tut-t’ora, la crisi economica attuale probabilmente aggraverà questa si-tuazione. Riguardo alla sanità internazionale, si può constatare cheventi, trent’anni di privatizzazione selvaggia hanno prodotto effettidisastrosi e devastanti e si riscontrano dei segnali che indicano chequalcuno vuole ricostruire qualche elemento di maggiore sicurezza.

La situazione negli Stati Uniti

Theodore Roosevelt, agli inizi del Novecento, propose di imitarela Germania, fu sommerso da una valanga di improperi e non provònemmeno a preparare un piccolo progetto. Qualcosa in più ha fattoFranklin Delano Roosevelt, ma anche lui dovette rinunciare. Sem-brava che Harry Truman (1945) potesse avere qualche probabilitàin più, l’America usciva da una guerra, c’era la ricchezza che stavaesplodendo e molte altre condizioni favorevoli ma anche la sua pro-posta fu rapidamente archiviata. Nel 1993 Bill Clinton ne aveva fat-to uno dei suoi cavalli di battaglia politici, ma ha dovuto rinunciare,nelle elezioni di medio termine poiché a causa di questa propostaebbe una debacle incredibile, perse la maggioranza alla Camera e alSenato, quindi, dopo le elezioni, nessuno provò a riproporre la que-stione. Barack Obama invece ha posto l’applicazione al 2014, quin-di l’esito della riforma è molto legato alla sua rielezione, se non vie-ne riconfermato il rischio è che i repubblicani al potere possanocancellarla.

Negli Stati Uniti non c’è mai stata una legge di riforma sanitaria.Generalmente, quando si parla di un sistema sanitario di un Paese siguarda alle leggi, ad esempio in Italia dal 1978 c’è la legge che isti-tuisce il Servizio sanitario nazionale con queste regole e poi la 502.

Negli USA il sistema si basa su riforme incrementali che si sonostratificate nel tempo. La prima grande riforma avviene alla fine del-

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la seconda guerra mondiale con l’enorme diffusione delle assicura-zioni private pagate dai datori di lavoro che, grazie a questo, aveva-no facilitazioni fiscali. Era anche un momento di grande espansioneproduttiva, i datori di lavoro cercavano manodopera e la incentiva-vano con dei benefit come quello assicurativo e quindi tutto ciò eb-be una grande diffusione. La seconda grande riforma è degli anniSessanta, con l’istituzione delle due assicurazioni pubbliche, Medi-care e Medicaid. La terza grande riforma, negli anni Ottanta, è nuo-vamente, come negli anni Quaranta, essenzialmente legata al merca-to, cioè, negli anni Settanta si è arrivati ad una situazione in cui, peruna serie di motivi, la spesa sanitaria americana ha un’enorme cre-scita. Questo aumento della spesa sanitaria alla fine si riflette su chipaga le assicurazioni, per il 90% si tratta delle imprese, le quali di-cono: se il prezzo delle assicurazioni non cala, noi smettiamo di assi-curare i nostri dipendenti. Allora, le assicurazioni americane si met-tono in moto per trovare un correttivo e ciò che è stato trovato haprodotto un cambiamento radicale nella struttura assicurativa.

Wal-Mart, una catena di supermercati, è il più grande datore dilavoro con un milione e mezzo di dipendenti: l’impresa contrattacon un’assicurazione la loro copertura. Quando si ammalano, i di-pendenti vanno da un medico o si ricoverano in Ospedale, la notulaviene inviata all’assicurazione, che poi rimborsa, come avviene danoi per un incidente stradale.

È questo un sistema gradito a molti: ai pazienti che possono sce-gliere liberamente il medico e l’Ospedale a cui rivolgersi; ai profes-sionisti che possono decidere in piena autonomia il prezzo, il tipo eil volume delle prestazioni da erogare, senza incorrere in particolaricontestazioni, purché ciò avvenga all’interno di criteri consideratiabituali in una comunità. Il sistema va bene anche agli assicuratoriche aggiornano, al rialzo, il prezzo delle polizze in relazione all’inar-restabile crescita dei consumi e delle spese. Il sistema non va, inve-ce, affatto bene alle imprese che si trovano a dover sopportare onerisempre più pesanti derivanti dai benefit assicurativi da erogare aipropri dipendenti. Urge cambiare, urge abbattere questo tipo di co-sti. Il mercato assicurativo è pronto a raccogliere l’allarme e a ripo-sizionarsi.

Le compagnie assicurative abbandonano il sistema a rimborso e

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adottano il meccanismo della quota annuale prepagata, a fronte del-la quale l’assicurato riceverà le cure esclusivamente da medici eospedali convenzionati (o direttamente dipendenti) dall’assicurazio-ne, sulla base di un piano assistenziale predefinito. È una svolta sto-rica perché trasforma le tradizionali assicurazioni in managed careorganizations (MCOs); organizzazioni che non si limitano a com-mercializzare le polizze, ma estendono il loro business alla contratta-zione con i provider e alla gestione dei piani assistenziali, con l’o-biettivo di ridurre i costi. Le imprese gradiscono e si rivolgono inmassa alle nuove HMOs, che diventano per la gran parte organizza-zioni for-profit quotate in borsa, con ingenti capitali e rilevanti pro-fitti; in molti casi le HMOs arrivano a possedere proprie strutturespecialistiche e propri Ospedali per costituire un micro-sistema sa-nitario integrato ed ottenere, attraverso rigidi controlli sul compor-tamento prescrittivo dei medici e sinergie tra i vari livelli d’interven-to, cospicui risparmi di gestione.

Per i sostenitori della managed care (questo è il termine che de-no- mina la nuova filosofia sanitaria) il risparmio si associa alla qua-lità, per i detrattori questo è unicamente finalizzato al profitto. In-torno a questo tema inizia un dibattito che diventerà sempre più in-candescente nel corso degli anni; e, per la prima volta nella storiadella sanità americana, si affaccia l’ipotesi che un medico possa ri-durre le cure a un proprio paziente in vista di un interesse economi-co personale e dell’organizzazione da cui dipende.

Dagli anni Ottanta in poi, questo elemento ha prodotto una nettariduzione della spesa o almeno dell’incremento annuale che gene-ralmente prima si aveva, intorno al 15-20% l’anno.

Dal 1995 è ricominciato l’incremento e le assicurazioni non sonostate più in grado di trovare altre forme innovative per superare ilproblema della crescita dei costi. Il meccanismo introdotto dalle im-prese di fronte a questa crescita è stato quello di trasferire i costi suidipendenti e in particolare, dall’anno duemila, per pagare di meno,per i propri dipendenti comprano assicurazioni meno costose.Un’assicurazione costa meno, per esempio, quando contiene unafranchigia molto alta, fino a diecimila dollari paga il paziente e se ha

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bisogno, l’assicurazione copre il surplus di spesa. L’altro meccani-smo è la compartecipazione, l’assistito paga una percentuale del co-sto della prestazione. Questo è avvenuto nelle grandi Imprese, men-tre nelle piccole invece è aumentato molto il numero di persone nonassicurate dalla propria compagnia assicurativa.

Per quanto riguarda i non assicurati nel 2008 sono arrivati a qua-rantasei milioni, dal 1999 l’incremento è stato di un milione l’anno,con una percentuale intorno al 15%.

Circa il 67% degli assicurati lo sono con assicurazioni private,che sono però pagate in larga parte dal datore di lavoro e in partedirettamente, da professionisti, lavoratori autonomi, eccetera. Perquanto riguarda la parte pubblica, Medicare, Medicaid e quella mili-tare assistono circa il 30% dei cittadini.

Il costo annuale di un’assicurazione media negli Stati Uniti è piùdi tredicimila dollari per una famiglia di quattro persone, cifre vera-mente notevoli, di cui tremilacinquecento dollari sono a carico deidipendenti.

Nell’ultimo anno la crisi ha prodotto la perdita dell’assicurazionepagata dal datore di lavoro per quasi dieci milioni di persone, alcu-ne di queste sono state assistite da Medicaid, a causa della povertà equesto ha generato un aumento di circa quattro milioni di nuovinon assicurati.

Barack Obama affronta le elezioni affermando che non cambieràradicalmente il sistema, ma garantirà la copertura per tutti: se sei giàassicurato l’unica cosa che cambierà sarà il prezzo del tuo premio assi-curativo, forse diminuirà. Se sei uno dei quarantacinque milioni diamericani privi di assicurazione, tu l’avrai, una volta che il mio pro-gramma sarà diventato legge e nessuno sarà rifiutato a causa di unamalattia preesistente. L’obiettivo politico di Obama era quello dicostruire una nuova assicurazione pubblica, accanto a Medicare eMedicaid, perché questo avrebbe comportato una struttura assicura-tiva che avrebbe tenuto bassi i prezzi e costretto tutte le altre assicu-razioni a fare altrettanto. Al limite, nelle idee dei progressisti, con iltempo questa sarebbe dovuta diventare l’assicurazione unica ameri-cana, nessuno avrebbe retto la concorrenza con prezzi così bassi.Tutto questo non è riuscito perché, all’interno dello stesso partito diObama, c’è stata una fortissima opposizione a questa soluzione e

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quindi non si è realizzato uno dei principali obiettivi.Barack Obama ha ottenuto non una legge radicale, ma importan-

te perché, nella prospettiva che nel 2014 sia riconfermato, avràgarantito circa il 95% di copertura assicurativa alla popolazioneamericana, rimane comunque fuori un 5%. Il meccanismo che ga-rantisce il massimo della copertura è quello di dare Medicaid a tuttii poveri. Tutte le famiglie che si trovano al di sotto dei ventottomiladollari di reddito entrano direttamente in Medicaid e questo è sicu-ramente un elemento che garantirà l’ assicurazione a oltre venti mi-lioni di americani. Ci sono poi incentivi per le imprese che assicura-no e per i cittadini che non sono dipendenti di imprese, liberi pro-fessionisti, eccetera.

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Information tecnology e farmaciPiero Salvadori

Direttore Unità operativa complessaOrganizzazione Servizi sanitari territoriali AUSL 11 Empoli

Negli Stati Uniti i medici completamente “informatizzati” nonsono molti. Infatti quelli che hanno un Electronic Health Record,(EHR) cioè un “record” che registra i dati di salute degli assistiticon una certa completezza sono solo il 4%. Quelli che hanno unainformatizzazione di base sono solo il 13%. Ma c’è un 80% che nel2008 non aveva dati informatizzati.

Kaiser Permanente (KP) è un tipo di assicurazione privata ameri-cana, non profit. Essa ha sviluppato un software complesso e multi-funzione dal nome Health Connect. Esso “connette” il personale, gliOspedali, i Poliambulatori, ma anche tutti gli assistiti, i cittadini, gliassicurati, quindi, clienti di Kaiser, con la struttura e tra loro stessi.

Non riuscendo a sviluppare un proprio sistema informativo, KPha deciso di rivolgersi a Epic, che è una importante software-houseamericana che sviluppa applicativi per Ospedali. Questo software, ècostato, almeno nei primi anni, circa sei miliardi di dollari. È partitonel 2003 e oggi copre 431 Centri medici, anche se c’è anche unagrossa sproporzione numerica e strutturale tra i Centri (simili ai no-stri Poliambulatori o Case della salute) e 35 Ospedali in 8 Stati ame-ricani. Attualmente molti Ospedali e Centri sono paperless, “senzacarta”, praticamente non c’è più la cartella clinica cartacea e la ri-cetta medica cartacea.

Nel grafico seguente si può notare come il numero di visite perassistito, che già negli anni dal 1999 al 2004 stava diminuendo, ab-bia subito una ancor più netta flessione con l’adozione dell’EHR.Ed in particolare è diminuito il numero di visite dal medico curante(medico di Medicina generale) perché la condivisione dei dati rendenecessario un minor ricorso ai MMG.

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Nel grafico successivo si può notare come, partendo dal 2004, levisite ambulatoriali sono diminuite passando da una media di cinquee mezzo all’anno a circa tre/anno, mentre sono notevolmente aumen-tati i consulti telefonici. Nell’arco di sei mesi,nel giugno 2008, circa il60% degli assistiti, degli assicurati, ha fatto almeno due accessi a unsistema informativo e informatico (vedere grafico a barre).

Possiamo adesso dividere in due grandi gruppi le funzioni diquesto software, Health Connect:• il primo, comprende le funzioni che questo software svolge per i

cittadini, per gli assicurati; • il secondo, quelli che usufruiscono dei vantaggi del sistema.

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Le funzioni

Vantaggi per i cittadini/assicuratiOgni volta che un assicurato di Kaiser Permanente (FP) ha un

contatto con la struttura, si genera l’informazione che va ad inserirsinell’EHR, Electronic Health Record ad esempio, quando si effettua-no le analisi del sangue. Alcune di queste informazioni comincianoa funzionare anche in alcure realtà italiane. Purtroppo la cosa è epi-sodica e senz’altro non c’è una grande condivisione tra il settoredelle cure primarie (cioè il territorio) e l’Ospedale.

In KP invece questo accade tutte le volte che ad un paziente vie-ne prescritto un farmaco o lo ritira o ha una ripetizione di ricetta,oppure tutte le volte che fa un’indagine radiologica anche mediantele immagini diagnostiche.

L’EHR viene alimentato anche dai referti delle visite specialisti-che e dalle vaccinazioni effettuate.

Un assistito può comunicare con qualsiasi tipo di sanitario attra-verso una parte particolare di Health Connect, che è chiamato MyHealth Manager. È possibile in qualsiasi momento, sette giorni susette, da qualsiasi parte del mondo, accedere ai propri dati di labo-ratorio e ai referti specialistici, o prenotare visite ed esami, grazie al-la funzione di CUP, o richiedere la ripetizione di ricetta. Qualsiasioperazione può essere fatta da casa, magari anche a mezzanotte e

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ovviamente questo ha comportato la diminuzione delle visite. Sipuò avere informazioni amministrative, sia sulle polizze di KaiserPermanente, sia sulle quote che si devono pagare. Oppure control-lare o programmare le vaccinazioni, interloquire via e-mail, attraver-so il metodo della secure mail, ma anche tramite videoconferenzacon il proprio medico curante, con tutti i componenti del team assi-stenziale, sempre alla luce dell’integrazione, ma anche con le partiamministrative per problemi sulle polizze, con i farmacisti. Tuttoquesto è chiamato e-visit, visita elettronica, da qualunque parte delmondo uno si trovi.

Nel caso di figli minori o di familiari interdetti, è possibile avereuna password particolare per queste persone in carico. Gli assistitiinoltre possono anche consultare l’Enciclopedia della Salute, checontiene una serie di programmi di empowerment per smettere difumare, controllare il peso, la nutrizione e tutti gli aspetti riguardan-ti i farmaci. C’è anche tutta una sezione a parte per la Medicina na-turale, per le cure alternative, una parte,che non è assolutamentenegletta

È possibile effettuare anche il follow up delle malattie croniche: ipazienti cronici curati a casa attraverso connessioni via blue tooth,collegate al computer, possono iviare dati relativi a parametri biolo-gici e clinici vitali. Anche in Toscana mediante la Medicina di inizia-tiva si cerca di effettuare monitoraggi simili.

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Il grafico mostra il trend delle nuove registrazioni al sito di KP ne-gli anni. All’inizio le persone si registravano semplicemente per pre-notare gli appuntamenti. Poi, hanno cominciato a consultare i dationline, perché nel frattempo, nel marzo del 2006, attraverso la securemail hanno cominciato a dialogare con il loro team assistenziale e poia consultare il vero e proprio fascicolo sanitario che nel frattempo siera formato e popolato di informazioni sanitarie.

Vantaggi per il sistemaLe funzioni del sistema KP permettono la video-tele-medicina: ad

esempio le tele-riunioni, senza la necessità di doversi spostare. Unprogramma di alert e di warning per i medici e per tutti i funzionaridella struttura, genera funzioni generiche di supporto alle decisioni,funzione di controllo del sistema e di reportistica interna per tutti imedici e gli infermieri. In questi ultimi casi essi sono in grado di sa-pere e giudicare se il loro lavoro è compiuto nella giusta maniera.

Il Prof. George Halvarson, è stato amministratore delegato diKP; egli ha scritto alcuni libri sulla questione sanitaria americana edha coniato in rapporto alla informatizzazione ed al sistema informa-tivo di KP il seguente aforisma: all, all and all, per dire che tutte leinformazioni a proposito di tutti i pazienti devono essere disponibiliin ogni momento. Il concetto si può riassumere con questa afferma-zione: se tu non riesci a misurare in Medicina, ovviamente non puoineanche amministrare o fare “management”.

La gestione dei farmaci

Negli USA la spesa per i farmaci è circa il 10% dell’intera spesasanitaria. Forse un po’ bassa rispetto ad altri Paesi e sicuramentesottostimata dal fatto che molti cittadini pagano off pocket (cioè ditasca propria) i farmaci.

Nel 2007, la spesa sanitaria è stata di 754 dollari procapite, unadelle più alte del mondo, in Italia “solo” 2-300 euro. La spesa out ofpocket, è diminuita, ma perché ci sono stati fondi pubblici che nelfrattempo sono stati utilizzati e le assicurazioni private aumentate.Attualmente si sta cercando di calmierare la situazione. Se non

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saranno adottati correttivi tra il 2015 ed il 2020 la spesa negli USAarriverà a toccare quota 20% del Pil.

La politica del farmaco in Kaiser Permanente si basa su tre grandifiloni: prontuario farmaceutico unico, supporto alle decisioni, per-corso del farmaco.1. Il prontuario farmaceutico unico è chiamato Drug Formulary, è

elaborato da un Comitato composto da farmacisti e infermieri, èformato da farmaci poco costosi e c’è una spinta abbastanza no-tevole sul consumo, ovviamente quando possibile, di farmaci ge-nerici che naturalmente costano meno a parità di molecola. Lapercentuale media di generici negli Stati Uniti è del 69%, in Kai-ser Permanente siamo all’84%.

2. Riguardo al supporto alle decisioni, c’è il cosiddetto DUAT, che èun insieme di persone, medici, farmacisti, infermieri, eccetera,che cercano di dirottare l’uso, ovviamente dal punto di vistascientifico, del costo-beneficio e dell’efficacia dei farmaci e poi,produzione di newsletter, eccetera. Ad esempio: il rofecoxib unfarmaco che si usava per l’artrite o altre condizioni dolorose, èentrato in commercio dal 1999-2000, ma già intorno al 2000-2001, il DUAT (Drug Utilization Action Team), questo “grandefratello” farmacologico di Kaiser, aveva già segnalato tra i primi,che potevano verificarsi effetti cardiovascolari per il rofecoxibinibitore selettivo della COX 2, indicato per il trattamento del-l’artrite e di altre condizioni dolorose, con questa raccomanda-zione: diamolo solo a chi ne ha veramente bisogno, solo che poi cisono voluti cinque anni per ritirarlo dal commercio. Con questasegnalazione del DUAT sono state risparmiate diverse vite.

3. Il percorso del farmaco, infine, inizia con la prescrizione effettuatasu computer dal medico in ambulatorio, in Ospedale o alla di-missione. Tutto il percorso si svolge paperless, cioè senza carta,poi, tramite web, arriva alla farmacia centralizzata. Questa fun-ziona come una vera e propria catena di montaggio: un sistemameccanico inserisce l’esatto numero di pasticche dentro il conte-nitore che viene etichettato, personalizzato e recapitato secondole scelte del paziente alla farmacia più vicina ovvero per posta adomicilio.

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La sfida di Kaiser Permanente

Elisa ScopetaniDirezione generale Diritti di cittadinanza ecoesione sociale - Area di coordinamento

sistema sociosanitario regionale

Parlerò di un’esperienza che abbiamo fatto nell’aprile 2008quando, a conclusione del master Management e Sanità, con alcunicolleghi dell’Azienda sanitaria 11 di Empoli, del Ministero della Sa-lute e del Laboratorio MeS, siamo andati a visitare la realtà moltoparticolare rappresentata da Kaiser Permanente.

Occorre premettere che negli Stati Uniti il 66,7% delle assicura-zioni è privato, acquistato prevalentemente dai datori di lavoro odai singoli individui, il 29% delle assicurazioni è governativo (Medi-care, Medicaid e l’assistemza sanitaria militare), mentre purtropposempre più cittadini americani non sono coperti dal’assicurazionesanitaria. Tra le assicurazioni private, per via del fenomeno che hainvestito il mercato assicurativo connesso alla necessità di contenerei costi dell’assistenza sanitaria, oggi spiccano fondamentalmente leMCO, Manager Care Organizations. Le MCO sono assicurazioni chepraticano la forma del prepagamento per un piano assistenziale pre-definito, che viene messo a disposizione dell’assicurato, con il vin-colo di doversi rivolgere a delle strutture specifiche, convenzionateo che appartengono proprio all’organizzazione. In realtà, il termineMCO indica una categoria che al proprio interno comprende diver-se tipologie di soggetti. Nonostante il passaggio a questa forma diassicurazione, nata per cercare di contenere i costi e contempora-neamente per non alimentare il meccanismo perverso dello sposta-mento del costo dell’assistenza sui lavoratori, sta accadendo propriociò che si voleva evitare. I datori di lavoro iniziano sempre di più anon garantire l’assicurazione ai propri dipendenti, c’è la percezionedi non tenuta del sistema che poi si traduce in modo evidente nel-l’aumento della percentuale di soggetti non coperti dall’assicurazio-ne sanitaria. Quando i colleghi di Kaiser Permanente durante la visi-ta ci hanno presentato questo scenario, hanno aggiunto un ulteriore

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obiettivo: la speranza e la consapevolezza, da parte loro, che il mo-dello Kaiser Permanente possa rappresentare un’alternativa.

La storia di Kaiser Permanente rappresenta sicuramente un casounico nello scenario internazionale e nasce dall’incontro di due per-sonalità certamente molto particolari. La prima è quella di SidneyGarfield, un medico che nasce, studia e si laurea nel periodo dellagrande depressione e inizia a operare proprio in quel periodo. Gar-field aprì un piccolo Ospedale in una zona desertica, il ContractorGeneral Hospital, che doveva servire per garantire l’assistenza sani-taria ai lavoratori di opere pubbliche, che in quel periodo erano fi-nanziate dal Governo per aiutare la ripresa. Durante l’avanzamentodei lavori dell’acquedotto Colorado River Aqueduct, Garfield si ren-de conto che i casi più gravi, infortuni oppure malattie nelle fasiacute, non vengono mandati nel suo piccolo Ospedale, ma imme-diatamente dirottati nelle strutture più importanti. A Garfield que-sto crea un problema, perché non introita il pagamento delle presta-zioni che gli vengono sottratte, mentre si trova a poter curare sol-tanto i casi più normali. Davanti a tale problema, il socio iniziale diGarfield decide di sganciarsi da questa esperienza pensando che sitradurrà in un fallimento; Garfield allora ha l’idea di fare un pattocon l’impresa costruttrice, basato sull’offerta di un pacchetto di pre-stazioni dietro il prepagamento di una cifra predeterminata. In que-sto modo, l’impresa si garantisce la presenza e la permanenza di unastruttura sanitaria nelle vicinanze, utile per avere sempre un puntodi riferimento per i lavoratori, e Garfield si assicura un afflusso dipazienti che altrimenti sarebbero stati dirottati in altri Ospedali. Inquesto modo Garfield lancia la forma del piano assistenziale prepa-gato: l’impresa accetta la sfida e, a quel punto, lui aggiunge anche lapossibilità di far pagare ai lavoratori un’altra piccola quota per ave-re una serie di servizi aggiuntivi. In questo modo Garfield consolidaquesta forma del prepagamento nella sua operatività e anche nellalogica delle imprese, perché ovviamente tutto ciò torna a vantaggioanche degli imprenditori. Accade che questa nuova modalità, anzi-ché incentivare il ricorso alle prestazioni e al trattamento di soggettimalati, che faceva guadagnare i medici nella forma del pagamento aprestazione, spinge invece verso un sistema di prevenzione. Questoperché, chiaramente, i medici hanno tutto l’interesse a far sì che la

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popolazione mantenga uno stato di salute più elevato possibile: es-sendo il pagamento anticipato e fisso, hanno quindi tutto l’interessea contenere il numero di prestazioni. Questa idea imprenditoriale,pertanto, finisce per avere una conseguenza immediata molto im-portante proprio sul piano dell’assistenza e dei suoi principi fon-danti.

Contemporaneamente si svolge la vicenda di vita di un altro im-prenditore, Henry Kaiser, che nel 1938 prende in carico la costru-zione di una diga molto grande ed è convinto che possa essere digrande utilità ai suoi dipendenti e alla sua impresa una forma di as-sistenza come quella attuata da Garfield,. Una forma di assistenzaerogata dietro un prepagamento, incentrata su un piano assistenzia-le e che ha il forte risultato primario dell’enfasi sulla prevenzione equindi del mantenimento di un buono stato di salute. Kaiser chiedeappunto a Garfield di farsi carico della gestione dell’Ospedale, ilMason City Hospital, che deve fornire l’assistenza ai quindicimila la-voratori della diga e delle loro famiglie. Garfield accetta ed iniziacosì un sodalizio, che proseguirà anche dopo la fine dei lavori delladiga., quando l’impresa di Kaiser viene coinvolta nella costruzionedi navi da guerra nel corso della seconda guerra mondiale. Il siste-ma del prepagamento inizia ad attirare anche le attenzioni della co-munità medica americana che vede in questa forma di Medicina(definita negativamente “socialized”) una minaccia ai principi dellaprofessione ed inizia una forma di boicottaggio, che colpirà lo stes-so Garfield, che viene addirittura sospeso dall’Ordine dei Medici.Nonostante questo, Kaiser e Garfield vanno avanti, convinti dellabontà del loro progetto e, in quel momento, si pongono le premesseper la costruzione dell’attuale forma organizzativa di Kaiser Perma-nente. Infatti, proprio in questo periodo Kaiser fa costruire unOspedale a Oakland per erogare l’assistenza ai dipendenti di unaditta della Kaiser Company che si occupa di lavorazione dell’acciaio,il Permanente Foundation Hospital, da cui prende inizio la presenzadel nome Permanente nella storia di questa organizzazione. Finita laguerra, con il calo dell’attività dell’impresa, il numero degli iscrittiall’Health Plan di Permanente inizia a diminuire. Questa esperienzaperò aveva veramente cominciato a far parlare di sé e a quel puntosono altre aziende, i sindacati, gli stessi lavoratori, che spingono

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Garfield e Kaiser a continuare questo sodalizio e a trovare una nuo-va forma di collaborazione. Proprio in questo periodo però inizianoa verificarsi delle tensioni all’interno della struttura per l’aumentodella complessità dell’organizzazione, il successo e il business checominciava ad esserci intorno all’esperienza dei due pionieri. Dauna parte, si va rafforzando la componente manageriale, quella assi-curativa e della gestione delle strutture che fa riferimento a Kaiser eche lo stesso imprenditore vuole tenere sotto di sé; dall’altra parte,invece, c’è la componente medica, professionale, che Garfield vole-va tenere ben ancorata a sé e di cui voleva mantenere l’indipenden-za. In tal senso, Kaiser cerca di imporre il proprio marchio propo-nendo di trasformare il nome dell’organizzazione da PermanenteFoundation Hospital e Permanente Health Plan in Kaiser, facendosparire quella parte in cui Garfield invece si era più immedesimato.Il discorso del nome è un pretesto, per dire che c’era il problema didare un’identità a questa organizzazione che stava diventando diuna certa complessità. Viene trovato un accordo, il famoso TahoeAgreement, che definisce la struttura che oggi troviamo in KaiserPermanente, basata su tre componenti: gli Ospedali – quindi lestrutture –, che rimangono sotto Kaiser; la componente assicurativa,anch’essa sotto il controllo di Kaiser; ed infine i Medical Groups, cheprendono il nome di Permanente proprio per rimarcare la reciprocaautonomia tra la componente manageriale e quella professionale.Da quel momento il successo di Kaiser Permanente è continuo:apartire dal 1955, anno dell’Agreement, fino agli anni Duemila, il nu-mero degli iscritti aumenta sempre di più fino a portare anche a del-le ulteriori innovazioni organizzative, per arrivare ai giorni nostricon una copertura di quasi otto milioni e settecentomila assistiti invari Stati e Distretti degli Stati Uniti.

Esaminiamo il motivo per cui Kaiser Permanente, che nasce conquesta storia così particolare, negli anni Duemila arriva ad essere uncaso internazionale oltre che una delle maggiori organizzazioni sani-tarie americane.

Otto Regioni in nove Stati, ottomilioni e settecentomila assistiti etutta una serie di altre cifre descrivono l’imponenza di questo feno-meno. Abbiamo chiesto ad alcuni manager ed operatori di KP ilmotivo di questa storia folgorante e loro hanno risposto che il segre-

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to di Kaiser Permanente è quello di non identificarsi tanto in unaqualche forma giuridica o economica, ma prima di tutto nella rela-tionship tra le varie parti che lo compongono. Questo lascia inten-dere il grande senso di identità e appartenenza a un qualcosa di uni-tario che lega le tre distinte componenti: il Kaiser FoundationHealth Plan, il braccio assicurativo; il Kaiser Foundation Hospital, lacomponente di gestione delle strutture, degli Ospedali, che ha an-che una parte di dipendenti dedicati all’assistenza sanitaria (tecnici,amministrativi, ecc…); i Permanente Medical Groups, la componen-te medica, professionale, che ha anche un suo status for profit alcontrario delle altre due.

La componente assicurativa, che ha natura pubblica non profit, sioccupa della gestione degli iscritti e contratta poi con le altre duecomponenti, gli Ospedali e i medici, per definire le modalità di ero-gazione dell’assistenza sanitaria.

La Kaiser Foundation Hospitals, anche questa un’organizzazionepubblica non profit, gestisce gli Ospedali, che dipendono a loro vol-ta dall’Health Plan per il finanziamento e hanno un rapporto con iMedical Groups per quanto riguarda la messa a disposizione dei ser-vizi e delle strutture. Non hanno medici propri, ma utilizzano sola-mente medici e specialisti dei Medical Groups, c’è quindi un rappor-to esclusivo tra queste componenti. L’organizzazione coopera stret-tamente con la componente assicurativa attraverso un meccanismodi governance molto semplice: la condivisione del Consiglio di am-ministrazione, tramite sia accordi di servizio, sia di coordinamentoorganizzativo, interventi molto concreti che garantiscono la tenutadi questa relationship.

Vi sono infine, i Medical Groups, che sono invece organizzazionifor profit, ovvero associazioni professionali di medici, sia di famiglia,sia specialisti, che alla fine degli anni Novanta si sono riunite in unafederazione di livello nazionale. Ogni Gruppo ha un suo Consigliodi amministrazione, che sceglie indipendentemente i medici da as-sorbire all’interno del Gruppo stesso, cosa che avviene con processidi selezione molto rigorosi, attivando poi una componente formati-va pre tirocinio di tre anni e un successivo tirocinio di due anni.Dopo questo training, i medici entrano nell’organizzazione e vi ri-mangono percependo uno stipendio costituito per l’85-90% da un

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salario di base e per il 10-15% da un incentivo legato ai risultati delGruppo e non a quelli individuali. Lo stipendio non è molto elevatorispetto alle possibilità di guadagno di altri professionisti medici nelpanorama sanitario americano, però gli operatori di KP riferisconodi accettare ben volentieri di guadagnare un po’ meno in cambiodelle condizioni di lavoro, della scarsa competitività, dell’autonomiae della grande soddisfazione che ottengono attraverso la ricercacontinua del miglioramento della qualità, che è una componentefondamentale dell’organizzazione di KP. I medici infatti sono co-stantemente coinvolti nel miglioramento dei percorsi, dal punto divista clinico e organizzativo, condividono sessioni di lavoro con rap-presentanti dei lavoratori e sono ben coordinati con le altre compo-nenti dell’organizzazione.

Nello scenario attuale, in cui i datori di lavoro assicurano sempremeno e si sta diffondendo un senso di pericolo per il sistema, KaiserPermanente può forse indicare una possibilità, un’opzione. Ciò èriconosciuto anche da osservatori esterni: nel 2004, ad esempio,l’Economist ha affermato che “non c’è un sistema sanitario perfettonel mondo, però ci pare che Kaiser si avvicini a un sistema ideale”.Anche dall’esterno dunque viene riconosciuta la virtù di questa or-ganizzazione, che viene messa in stretta connessione con il profon-do livello di integrazione che riescono a garantire, tra prevenzione ecura, tra Ospedale e territorio e tra medici delle cure primarie eospedalieri.

KP individua come propria mission “garantire un’assistenza ac-cessibile, di alta qualità per migliorare la salute dei membri e dellacomunità”, con un approccio di sanità pubblica che va sicuramentein senso contrario rispetto a una logica di business come ci si po-trebbe aspettare da un’assicurazione sanitaria privata. Oltre all’im-pegno di arrivare a migliorarsi sempre di più, l’aspirazione massimadi Kaiser Permanente è quella di diventare leader mondiale nelletecniche di prevenzione, di gestione della popolazione, delle patolo-gie croniche e così via.

La caratteristica principale dell’assistenza sanitaria si basa sull’es-sere una prepaid medical care: questa è l’idea forte di Garfield, ante-signano di un fenomeno che poi si è sviluppato su scala nazionale.Nel 1973 questa idea è stata istituzionalizzata dal Congresso quan-

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do ha stabilito che la forma di assistenza da Garfield ideata già qua-rant’anni prima poteva essere la leva per il controllo della spesa sa-nitaria. L’altro elemento è quello del gruppo multi-professionale,quindi dell’erogazione dell’assistenza in una logica non di separa-zione fra Medicina di famiglia, specialistica, cure primarie, Ospeda-le, (ovviamente queste divisioni ci sono, però senza che mai possanoessere percepite come tali e possano diventare un ostacolo alla qua-lità dell’assistenza). Quindi, non esiste la sensazione che la diversitàfra due livelli o la diversità di specialità o di tipologia di approccio auna certa patologia, possano diventare elementi di non comunica-zione o di non circolazione degli stessi principi all’interno dell’orga-nizzazione, cosa che invece può succedere. I nostri problemi quoti-diani di integrazione, di coordinamento, richiamano proprio a que-sti elementi. Questo si riflette nell’enfasi posta sulla prevenzione esulla gestione del paziente fin dalle prime fasi della malattia e, ancorprima, nella stessa fase dell’esposizione al rischio di una certa popo-lazione, per evitare che le malattie, specialmente se croniche, possa-no insorgere o aggravarsi. C’è quindi un concetto predominantenella Permanente Medicine che è quella della total health, cioè, dellagestione del paziente sempre nella sua interezza, nella sua globalitàe del senso forte di doverne curare la salute in tutte le sue compo-nenti, in tutti i suoi organi, in tutti i suoi possibili aspetti di debolez-za, in tutti i momenti del suo percorso. La tecnica a tal fine utilizza-ta è definita “population care management”.

È evidente come in Kaiser Permanente vi siano richiami al Chro-nic Care Model, anche se la tecnica di gestione che lo caratterizzaera in uso presso KP già molto prima che Wagner sistematizzasse ediffondesse questo modello, descrivendone i sei elementi costitutivi.

Nell’attuazione di questo tipo di gestione integrata e fortementeincentrata sulla prevenzione, Kaiser Permanente ha uno strumentomolto importante che è Health Connect, un sistema informativo chedà sicuramente delle grandi possibilità di scambio di informazioni,di integrazione fra livelli, di comunicazione con il paziente; va sotto-lineato però che non è solamente la presenza di un sistema informa-tivo così performante che garantisce il successo. A questo si aggiun-ge l’approccio specifico ai pazienti secondo il livello di rischio, coninterventi specifici affidati a personale qualificato. Le tecniche uti-

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lizzate si distinguono in due grandi categorie: da un lato, le tecnichedi inreach e dall’altro, le tecniche di outreach. Inreach significa rag-giungere il paziente quando è “in”, cioè, quando è dentro le struttu-re di Kaiser Permanente, sotto gli occhi del medico di famiglia, dellospecialista o dell’infermiere; gli operatori, quando intercettano il pa-ziente, devono assicurarsi che, in quel momento, sia consapevole ditutto quello che deve fare, in base a ciò che l’evidenza scientifica in-dica come corretto per il suo benessere. Le tecniche di outreach im-plicano andare a cercare il paziente quando non è nelle struttureper ricordargli che deve fare determinati atti, come aggiornare unaterapia, eseguire un esame o altro. L’utilizzo dell’una o dell’altra ca-tegoria di strumenti dipende dal livello di rischio del paziente, cosìcome l’individuazione del profilo professionale a cui affidarne la ge-stione. Ad esempio, per pazienti con profilo di rischio più elevato,si vede il coinvolgimento di infermieri particolari con un livello piùalto di specializzazione (registered nurse). Vi sono poi degli stru-menti di supporto alla gestione del paziente, come la encountercheck list, cioè, un documento che, al momento in cui il paziente sipresenta all’ambulatorio, guida il professionista nello svolgimentodella visita e nella valutazione delle decisioni giuste da prendere;oppure l’after visit summary, cioè una sintesi delle cose da fare dopola visita e degli obiettivi per il periodo successivo. Infatti, tra pazien-te e organizzazione si instaura un vero e proprio patto sugli obiettivi(“treat to target”), con il quale il paziente viene responsabilizzatocome attore del proprio percorso di cura. Del resto, il paziente vie-ne sempre supportato attraverso strumenti di comunicazione (v. ilsistema di posta elettronica My Health manager disponibile sul sitodi KP) e informazione sulla propria condizione, che lo accompagna-no anche nella fase successiva alla visita.

Un elemento concreto che permette di coordinare così efficace-mente gli interventi a favore del paziente è la vicinanza fisica dellestrutture: ci sono infatti Poliambulatori in cui la Medicina di fami-glia, la specialistica e altri i servizi di primo livello sono tutti concen-trati in modo tale da essere facilmente reperibili per il paziente inqualsiasi momento, e che sono anche fortemente integrati con gliOspedali, molto spesso sono nella stessa area.

Infine, insieme a tutti gli strumenti sopra descritti, l’elemento in-

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dispensabile dell’esperienza di KP è sicuramente la disponibilità alcambiamento e la coerenza con i propri obiettivi. Come riportatodagli stessi manager di KP, infatti, ciò che serve veramente per pas-sare a modalità innovative di assistenza è la presenza di strong peo-ple che possano guidare il cambiamento con convinzione, tenacia efedeltà ai valori dell’organizzazione.

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Il federalismo in SanitàNerina Dirindin

Università di Torino

La realizzazione di un decentramento delle responsabilità fa par-te di una corrente di pensiero che, almeno negli ultimi quindici -venti anni, si è diffusa in maniera più o meno significativa in granparte dei Paesi, non solo di quelli più sviluppati e non solo nella sa-nità. C’è quindi un’onda lunga, che ha toccato anche l’Italia, che inquesta fase storica ritiene che il decentramento sia meglio dell’ac-centramento. In Italia veniamo da uno Stato che sostanzialmente sibasava su un modello centralizzato; dopo l’istituzione delle Regioni,agli inizi degli anni Settanta, pian, piano, abbiamo attuato quelloche già la Costituzione del 1948 aveva stabilito, cioè, prevedere perloro risorse proprie. Il trasferimento delle competenze alle Regioniin sanità nasce nel 1992-93 e poi, nella seconda metà dello stessodecennio, si va verso quello che, in un provvedimento del 1999, sichiama federalismo sanitario. Si arriva alla modifica della Costitu-zione nel 2001 e poi nel 2009 alla legge delega sul federalismo fisca-le di attuazione della Costituzione.

Siamo di fronte ad una tendenza, non solo italiana, di cui la sani-tà è stata da sempre il banco di prova, che ha anticipato le modifi-che che in qualche modo, prima la Costituzione del 2001 e poi lalegge delega, stanno introducendo anche per altre funzioni, in parti-colare per quelle più importanti: l’assistenza e l’istruzione.

Ci sono dei periodi storici in cui si preferisce accentrare e altri incui i Paesi tendono a decentrare, questa è la fase in cui sembrerem-mo andare verso il decentramento. In realtà, perlomeno in alcuniPaesi europei, soprattutto del nord, Paesi scandinavi, ma anche l’In-ghilterra, ciò che in questi ultimi anni sta emergendo e che in qual-che modo ci aiuta ad essere un po’ meno sorpresi rispetto a quantosta avvenendo in Italia, è ben sintetizzato in un articolo di Klein cheafferma: stiamo vivendo un’epoca in cui c’è la retorica del decentra-

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mento e la pratica dell’accentramento. Questo ci conforta perchéconferma che da un lato, si vuole il decentramento, dall’altro, si ten-de ad accentrare. Uno studio fatto sulla sanità inglese dice la stessacosa: nel nord Europa, dove hanno cercato di andare verso forme didecentramento, i Governi centrali tendono a riaccentrare, c’è quin-di questa tendenza, ma sulla quale c’è molta incertezza, molta rifles-sione su cosa sia meglio fare. Certamente, la grande crisi mondialeche stiamo vivendo, non aiuta ad andare verso un decentramentodelle responsabilità, perché ovviamente quando la barca è in diffi-coltà è necessario che ci sia qualcuno che governi il sistema in modocomplessivo. È un momento particolarmente difficile per affrontareun tema, quello del federalismo fiscale e del decentramento, di persé molto delicato e difficile.

Abbiamo detto che dal 2001, anno della modifica della Costitu-zione, al 2009, anno della legge delega di attuazione del federalismofiscale, sono passati ben otto anni. Otto anni che mostrano quanto iltema sia difficile da affrontare; la legge delega del maggio del 2009prevede un numero piuttosto consistente di decreti delegati, da pro-durre entro due anni, nel rispetto di un gran numero di principi ecriteri direttivi, forse più di quaranta, ognuno dei quali è, qualchevolta, suddiviso in ulteriori due o tre elementi, per stabilire comequel principio va declinato. La legge è stata approvata in Parlamen-to con un largo consenso, dimostrando che questa è una legge dicompromesso, dentro cui c’è, più o meno, tutto, dipende da quelloa cui si darà attuazione . Molti dei provvedimenti che stanno uscen-do, suonano come declinazione lessicale di cose che conoscevamogià, seppur con nominativi diversi. Il vero quesito che ci poniamotutti e al quale non riusciamo a dare risposta è se stiamo vivendo unperiodo storico in cui si chiede più federalismo fiscale o ci si accon-tenterà di cambiare il nome alle cose. Fino ad ora di operazioni con-crete ne abbiamo fatte pochissime; il problema è: che cosa succede-rà quando chi ritiene di aver portato a casa dei risultati o addirittu-ra, nei prossimi anni, di aver dato attuazione al federalismo, si ac-corgerà che è stato fatto pochissimo? il Paese reggerà oppure ci tro-veremo con maggiori difficoltà? Questo è il vero quesito politico daaffrontare.

Può essere abbastanza utile capire da dove siamo partiti quando

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abbiamo affrontato il problema del federalismo fiscale, che vuol di-re responsabilizzazione dal lato del finanziamento degli Enti decen-trati; noi ci occupiamo solo della sanità, la principale voce di spesadelle Regioni. In Italia, stranamente, il decentramento è stato volutodal Governo centrale, per costringere le Regioni a una maggiore re-sponsabilizzazione dal lato della spesa. Abbiamo un problema di fi-nanza pubblica grande come una montagna, un debito pubblicoche nuovamente è al 118% del prodotto interno lordo, una spesaenorme per gli interessi, un’evasione fiscale che si stima valga cento-venti miliardi di euro. Quindi, abbiamo un problema di finanzapubblica enorme, come agli inizi degli anni Novanta, quando si an-dava, in coerenza con il trattato di Maastricht, a definire interventiper rimettere in piedi l’Italia. In quegli anni, per entrare subito inEuropa e adottare l’euro, abbiamo fatto un grosso risanamento del-la finanza pubblica che ha prima azzerato il tasso di crescita del de-bito pubblico, e poi lo ha ridotto, anche se di poco, perché lo si puòfare soltanto molto lentamente ma comunque ha un po’ invertito latendenza. Negli ultimi dieci anni purtroppo quello che era stato fat-to è andato tutto perduto, siamo di nuovo nella stessa situazione de-gli inizi degli anni Novanta. A quel tempo avevamo la grossa neces-sità di avviare un processo di razionalizzazione dentro la PubblicaAmministrazione, per questo il Governo centrale si impegnava a te-nere sotto controllo il disavanzo, ad azzerare la crescita del debitopubblico, poi a farlo scendere e così via. Ma il Governo centrale si ètrovato di fronte a un problema che si può riassumere come segue:io posso darmi delle regole molto rigide nel cercare di non far piùspesa pubblica (qualcuno ricorderà il Governo Amato, nel 1992-’93, le manovre pesanti, l’aumento delle tasse, eccetera), posso an-che darmi degli obiettivi molto virtuosi, il problema è che gli Entilocali, e in particolare le Regioni, non li riesco a governare e se nonli posso costringere a non fare disavanzi in sanità, tutto il processoche metto in atto viene vanificato perché si somma ai problemipreesistenti.

Questo spiega, a giudizio di alcuni di noi, perché è stato il Go-verno centrale a dire: bene, gli Enti locali hanno responsabilità dispesa, diamogli anche responsabilità dal lato del finanziamento, dopo-diché, una volta che gli abbiamo dato tutte e due queste responsabili-

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tà, diciamogli: adesso arrangiatevi da soli.Questo è proprio scritto nel Dpef del 1998 in cui si dice: il Go-

verno centrale trova a volte difficoltà a costringere gli Enti locali de-centrati a collaborare al processo di risanamento. Allora, il problemaè: come finanziamo la sanità in modo diverso da quello che è statofatto finora? Mettiamo le Regioni in condizioni di avere delle entra-te proprie, con le quali finanziare la sanità, dopodiché chi fa dis-avanzi li paga? Lo Stato centrale si libera della competenza, cosic-ché il percorso di risanamento della finanza pubblica non incontre-rà ulteriori ostacoli. Questa è un po’ l’anomalia: un decentramentoche non è frutto della richiesta dei figli di andarsene via di casa, maè il genitore che invita i figli ad andarsene fuori casa, il che è un po’anomalo rispetto al panorama storico di tutti i Paesi, ma il problemaè proprio quello di far in modo che i figli non vanifichino gli sforzidel centro di risanamento della finanza pubblica. Con la modifica,non a caso è la prima volta che compaiono federalismo e federalismosanitario, non a caso la sanità per prima definisce i livelli essenzialidi assistenza, che poi sono ripresi dalla Costituzione. C’è semprequesto grande confronto tra, da un lato, la sanità che cerca di difen-dere l’impianto del sistema universalistico, del Servizio sanitario na-zionale, di finanziamento pubblico, e ,dall’altro, i Governi che sisuccedono e che hanno bisogno di mettere sotto controllo la spesasanitaria. Tutti i tentativi che sono stati fatti, hanno contribuito a fa-re in modo che la sanità in questi anni ha avuto un tasso di crescitadella spesa inferiore a quello della spesa pubblica in generale e araggiungere comunque dei risultati che fanno sì che il nostro siaconsiderato un Paese con una delle sanità migliori al mondo.

In questi ultimi anni i Governi hanno fatto proposte di ripartodel Fondo sanitario assumendosi la responsabilità di cambiare unsistema di ponderazione su cui in precedenza c’era stata una certaconvergenza.

Con riguardo alla composizione delle entrate delle Regioni a sta-tuto ordinario, i dati ci dicono che c’è stata un’inversione di tenden-za nel 1998, con l’introduzione dell’Irap. Un vero federalista nonvorrebbe mai i trasferimenti dal bilancio dello Stato alle singoleRegioni perché suonano un po’, se non proprio come elargizione,come un’entrata totalmente dipendente dalla discrezionalità del

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Governo centrale, che dà di più o di meno a seconda di cosa scrivenel bilancio. Il processo di decentramento ha ridotto enormementei trasferimenti; nel 1998, quando è stata introdotta l’Irap, c’è stato ilcrollo: i trasferimenti sono divenuti una quota minoritaria rispettoalle entrate proprie degli Enti locali . In questi ultimi anni, al con-trario, la forbice si sta riaprendo in senso opposto, potremmo direla stessa cosa per i Comuni e per le Province. C’è quindi una ten-denza a ridurre le autonomie che in precedenza le Regioni e i Co-muni avevano raggiunto.

Chi ha voluto la regionalizzazione e il decentramento

La spesa pubblica ha avuto il suo picco nel 1992, a partire dalquale c’è stata la svolta. In questi anni avevamo più di dieci punti didifferenza di Pil tra quello che si spendeva e quello che si prelevava.Questa differenza si è ridotta enormemente fino al 2000, che è statol’anno in cui abbiamo avuto il saldo più favorevole in assoluto e poiil saldo ha ripreso a crescere e anche in questi ultimi anni è peggio-rato, a maggior ragione dopo che il Pil. non è cresciuto nel 2009.Una situazione di finanza pubblica, quindi, che ha avuto una positi-va inversione di tendenza nel 1992, ma poi dal 2000 ha ripreso apeggiorare anziché a mantenere, consolidare o addirittura migliora-re la situazione precedente. Ogni anno paghiamo, adesso che i tassidi interesse sono bassi, un po’ meno di cinque punti di Pil, un po’più di settanta miliardi, e ciò pesa enormemente perché una buonaparte delle imposte pagate dai contribuenti non servono per pro-durre servizi, ma per pagare gli interessi sul debito pubblico. Tuttivogliono più autonomia, ma nessuno vuole più responsabilità, inrealtà quello che sta succedendo è che stiamo partecipando a ungioco in cui ci si immagina che tutti possano vincere, ma c’è semprechi vince e chi perde, il gioco è inevitabilmente a somma zero, so-prattutto perché stiamo parlando di risorse finanziarie. In un Paeseche non cresce, le risorse a disposizione tenderanno probabilmentead essere minori, quindi, ci sarà qualcuno che perderà sicuramentee molto, e in questo momento non ce lo possiamo permettere.

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Come affrontare i problemi dei grandi divaritra nord e sud

I tre attori in gioco nell’attuazione del federalismo sono: il Go-verno centrale, che vuole decentrare per problemi di finanza pub-blica, ma non rinuncia a disegnare dal centro gli interventi in sanità;proprio la Regione Toscana ha contribuito a risparmiare molte cen-tinaia di euro sui farmaci, dando indicazioni a livello nazionale sugliequivalenti e il Governo centrale ha detto: il risparmio lo tengo io edecido io cosa farne. Il Governo centrale non rinuncia quindi ad ave-re un ruolo importante e fatica a dare più autonomia alle Regioni senon a condizione che queste riducano la spesa, perché il suo obietti-vo è fare in modo che le Regioni non creino disavanzo e riducanola spesa; se non riducono la spesa non hanno l’autonomia, la levafiscale.

Le Regioni del nord sono il secondo attore, queste vogliono piùautonomia, la rivendicano, hanno anche maggiori capacità tecnicheper presentare le loro richieste, argomentarle, per stare ai Tavolitecnici molto complicati che a livello nazionale prendono le decisio-ni in proposito. Queste maggiori capacità tecniche molto spessonon sopportano, se non a fatica, le regole che il centro vorrebbe im-porre loro. Perché le Regioni del nord vogliono più autonomia pertrattenere più gettito o per risparmiare sulla perequazione, cioè, leRegioni ricche del nord dicono: vogliamo trattenere una quota mag-giore delle imposte che paghiamo perché, adesso che c’è un sistemacentralizzato, siamo penalizzate dato che il residuo fiscale, cioè la dif-ferenza tra quello che paghiamo e ciò che riceviamo, è estremamenteconsistente. Vogliamo invece che più soldi restino qui da noi e voglia-mo che la perequazione, che è il grosso problema sul quale si sta discu-tendo, sia più piccola e che quindi ci vengano chieste meno risorse perperequare. Anche le Regioni del nord di volta in volta, hanno biso-gno di dare la responsabilità a chi ha definito le regole, i livelli, ilfabbisogno complessivo nazionale e via di seguito. Soprattutto, leRegioni del nord si avvantaggiano delle debolezze del sud, comemercati di sbocco del proprio eccesso di capacità produttiva; se tut-ti fossimo veramente convinti che il sud deve superare l’enorme di-vario qualiquantitativo nell’offerta di servizi, bisognerebbe che

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qualche Regione del nord cominciasse a domandarsi: quando non cisarà più così tanta mobilità, cosa dovrò fare io? Sicuramente il nordavrà meno possibilità di “esportare”. Ma questo è un tema su cuinessuno sta lavorando.

Il terzo attore sono le Regioni del sud, per le quali più autonomiae più responsabilità possono essere un rischio: capiscono di non far-cela e quindi si limitano a monitorare e contrastare, dove necessa-rio, le richieste del nord. Le Regioni del sud mancano di esperienza,qualche volta, anche delle capacità tecniche, mancano soprattuttodelle condizioni ambientali per poter fare meglio di quello che fa ilcentro quando governa la Sanità. Il vero problema è che in questeRegioni è difficile vedere concrete possibilità di miglioramento nelbreve periodo; qualche volta hanno bisogno di un centro forte per-ché i cambiamenti necessari richiedono una classe politica prepara-ta, coraggiosa e mossa dall’interesse generale. Ma un decisore localeche dipende dal consenso elettorale che ha sul posto fa fatica a farescelte coraggiose, bisogna che possa dire che qualcuno gli ha impo-sto determinate scelte. In qualche caso l’imposizione dal centro ser-ve anche, per le Regioni del sud, come scarica barile: non ci hannodato abbastanza risorse, non ci hanno messo a disposizione investi-menti, eccetera.

Di fronte a questa situazione, i tre soggetti coinvolti nel gioco deldecentramento affermano che l’applicazione del federalismo con-sentirà: al Governo centrale di risanare, di migliorare la situazionedella propria finanza pubblica; alle Regioni del nord di trattenerepiù risorse e alle Regioni del sud di non avere meno risorse. Ma èun gioco a cui non crede nessuno. I tre obiettivi non sono compati-bili e c’è il rischio che l’applicazione del federalismo faccia saltare iconti: non possiamo permetterci di correre questo rischio in un mo-mento di grande difficoltà. È un rischio che comunque sarebbe rea-le anche se non ci fosse una crisi economica così pesante, perché lapartita è estremamente difficile da governare sul piano tecnico, pri-ma ancora che sul piano politico. Quanti contenziosi sono, già ora,aperti tra Regioni e Stato perché non sappiamo se si deve attuare laCostituzione del 2001, che però non ha i decreti attuativi, o quelladel 1948, cioè, la normativa in vigore?

In questo momento ci sono responsabilità frammentate, non ben

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definite, che consentono a tutti di scaricare gli insuccessi e di ap-propriarsi dei successi. Allora il problema è: avere un Paese con re-sponsabilità così frammentate a chi giova? Alla cattiva politica, cheforse non è stata capace di costruire questo sistema ed ha bisogno diresponsabilità attribuite in modo non chiaro per poter mantenere ilproprio potere, ha bisogno di fare accordi collusivi, di mettere ingioco non l’interesse comune, ma quello di parte. Se davvero voles-simo andare verso il decentramento e il federalismo fiscale, la primacosa che il Governo centrale dovrebbe fare è dare attuazione a quel-la parte della Costituzione che dice che ci deve essere più coordina-mento centrale. Il compito delle Stato cambia rispetto a quello diun Paese che non ha il federalismo fiscale. In un sistema più decen-trato, il Governo centrale deve imparare a svolgere un mestierenuovo e per svolgerlo deve dotarsi di regole, di infrastrutture, dipersonale formato e questa è un’altra partita sulla quale nessuno stalavorando. Il risultato è che il Governo centrale continua a fare ilsuo vecchio mestiere: mettere le regole e dire alle Regioni che cosadevono fare, anche con livelli di dettaglio molto spinto, le Regionifanno ricorso e tutto si impantana.

Ci si domanda: ma perché questo sud è rimasto così indietro per lasanità ? Questa domanda non è banale perché persino chi ritenevanegli anni passati che il Servizio sanitario nazionale fosse il risultatostorico di idee che negli anni Settanta erano diffuse, ma che doveva-no essere superate perché l’universalismo non aveva più senso, buo-na parte di queste persone ha nel frattempo cambiato idea. Tanto èvero che proprio in questi giorni è stato presentato un rapporto dauna Fondazione che si chiama “Italia decide”, il quale esordisce af-fermando che la Sanità è stata l’istituto che più ha contribuito a unifi-care questo Paese negli ultimi quarant’anni, perché comunque è un si-stema sanitario nazionale di cui dobbiamo essere orgogliosi, che haretto nonostante le grandi difficoltà. Si è dato regole, mentre non lohanno fatto la Scuola, l’Università, molti altri settori della PubblicaAmministrazione; e allora perché se è stato capace di darsi regole, leRegioni del sud non le hanno applicate, perché il sud è rimasto cosìindietro? Anzi, il divario tra sud e nord sembra essere aumentato inquesti venti-trent’anni, rispetto a quello che c’era alla fine degli anniSettanta.

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Le Regioni del sud hanno avuto oltre quindici anni in cui non sisono occupate del sistema sanitario, non si sono date delle regole,degli obiettivi, non hanno fatto dei piani di razionalizzazione dellarete ospedaliera. La normativa diceva di fare prima il Piano sanita-rio nazionale e poi le Regioni avrebbero fatto il Piano sanitario re-gionale. Le Regioni sensibili alle politiche sanitarie e desiderose digovernare questo sistema hanno cominciato a fare i Piani regionalifin da subito, nonostante l’assenza del Piano nazionale. Le Regionidel sud non l’hanno fatto e la Sanità è un settore che se non lo go-verni va dove vogliono i poteri economici e politici. Quindi, mentrele Regioni del nord, bene o male, hanno fatto qualcosa per dare unassetto al sistema sanitario, le Regioni del sud sono arretrate ulte-riormente in termini comparativi. Faccio notare che ci sono alcuneRegioni che non hanno mai pianificato; la Lombardia, che ha ap-provato in Giunta, ma non in Consiglio Regionale e il Lazio; sonodue Regioni che hanno due sistemi sanitari completamente diversi.Il Lazio non ha mai deciso perché ci sono troppi poteri forti al suointerno, non è mai stato capace di governare, quindi, il risultato èche adesso si trova in una situazione disastrosa. Per la Lombardia èstato diverso, perché ha rifiutato la logica della programmazione co-me logica che non intendeva abbracciare, visto che voleva inserirein sanità principi che sono più tipicamente aziendalistici e di merca-to. La Regione Lombardia però ha governato il sistema sanitario, inaltri modi: con delibere di Giunta, con regolamenti, quindi il pro-blema non è una cosa che si chiama Piano sanitario regionale, ma èdarsi delle regole, degli obiettivi, dei vincoli e poi monitorare se sifanno le cose che si dovrebbero fare.

Il decreto sui costi standard

In realtà, questo è un decreto, che così come è uscito, è moltopiù ampio perché riguarda anche il finanziamento delle Regioni astatuto ordinario e delle Province, però dentro ha un capitolo cheriguarda soltanto i costi standard in sanità, il che è importante per-ché, essendo stata la sanità l’apripista del federalismo, introdurre lanozione dei costi standard è in qualche modo utile per capire come

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poi questi potranno essere trasferiti nell’assistenza e nell’istruzione.È un decreto rispetto al quale il giudizio è, da un lato positivo e,

dall’altro, negativo. È positivo perché adotta opportunamente l’ap-proccio macroeconomico. L’idea dei costi standard è tipica delleAziende che producono beni manifatturieri e che hanno una conta-bilità molto in dettaglio: in un’Industria si può calcolare il costostandard di una giacca o una automobile, anche se non sempre leAziende sono in grado di produrre informazioni sui costi di produ-zione in maniera così dettagliata. Qualcuno ha pensato di trasferirequesto approccio nella sanità, ma l’idea che si possa, per ogni pre-stazione prodotta all’interno del settore sanitario, calcolare il costodi produzione in condizioni di efficienza, è un’idea che non soltantonoi, che non abbiamo una contabilità molto di dettaglio, ma nean-che il Regno Unito è riuscito ad attuare, pur avendo una contabilitàmolto migliore e provando inutilmente negli ultimi cinque, sei anni,a cercare di calcolare i costi unitari di produzione della sanità. L’Università di York è uscita con un rapporto che dice: è difficile,troviamo altre strade per misurare l’efficienza dentro la sanità. Voiche ci lavorate, sapete benissimo quanto numerose sono le presta-zioni prodotte e quante interrelazioni ci sono nei processi produtti-vi, quanto ampi sono i costi generali che vanno ribaltati, e a secondadi come li ribalti risulta che una prestazione costa di più o di meno.Si può fare qualcosa per le grandissime prestazioni, un po’ come letariffe, ma poi alla fine, se davvero in base a quello vogliamo giudi-care chi è efficiente e chi non lo è, rischiamo anche di sbagliare. Inrealtà, il decreto ha adottato la nozione macro non micro, cioè,guardiamo quanto costa erogare un livello di assistenza, dividendo ilivelli in tre: Prevenzione, Distretto e Ospedale e quindi lavorando alivello macro. È molto utile che sia stata riconosciuta l’impossibilitàdi seguire l’altro approccio, quello micro, che ci avrebbe portato alavorare per molti anni per cercare di tirar fuori dei numeri senzaalcun risultato.

Ma il decreto cambia semplicemente il nome alle cose. La quotacapitaria ponderata si chiama costo standard e questa è (sembra es-sere) la grande novità perché l’aver introdotto questa denominazio-ne sembra poter far finalmente superare la spesa storica. Il Fondosanitario nazionale, che si chiamava “Disponibilità complessiva per

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il servizio sanitario”, adesso si chiama “Fabbisogno standard nazio-nale”. Il Fondo sanitario regionale adesso è il “Fabbisogno standardregionale”. Stiamo cambiando le parole per far credere che cambiala sostanza; ma siccome la sostanza rischiava di cambiare in peggio,forse è meglio se cambiano solo le parole.

Qui stiamo parlando di come ripartire le risorse a livello naziona-le tra le Regioni. Il Governo dice: abbiamo abbandonato il costo sto-rico, in realtà, tutti quelli che operano in sanità sanno che il costostorico è stato abbandonato nel 1996 con la legge 662 e la sua primaapplicazione nel 1998. È ovvio che il costo storico non è stato ab-bandonato al 100%, perché ci sono ancora piccoli margini di dis-crezionalità, però l’introduzione della quota capitaria è vecchia insanità, è stata introdotta prima di tanti altri settori della PubblicaAmministrazione. Il costo storico è, per il decreto, la spesa mediaprocapite per i tre livelli di assistenza. Si prendono le cinque Regio-ni più virtuose, di queste, la Conferenza Stato-Regioni ne sceglietre, si fa la media della spesa di queste tre e questo è ciò che vienechiamato costo standard per livelli di assistenza. In realtà, il ruolocruciale è svolto dalla ponderazione per classe d’età, che è quellache determina se una Regione avrà un po’ più o un po’ meno risor-se. Il problema è che sulla ponderazione per classe d’età probabil-mente si poteva fare qualche piccolo passo in avanti per dire suquali livelli di assistenza vogliamo applicarla, che classi d’età pren-diamo, ecc. Insomma, ci sono margini di miglioramento che proba-bilmente potevano essere introdotti e che forse, scritti in un decre-to, avrebbero eliminato un po’ di discrezionalità.

Vediamo due anni abbastanza nella norma, il 2006 e il 2010; inquesta tabella sono riportate le quote di accesso di ogni Regione almomento del riparto della torta in base alla quota capitaria ponde-rata. Allora, nel 2006, grosso modo la metà della spesa veniva pon-derata per classe d’età, nel 2010, un terzo; in questi anni, di fatto,stiamo riducendo il peso della ponderazione per classe d’età, anchese il decreto dice che dovrebbe essere applicata al 100%. Confron-tiamo due Regioni, una che perde e un’altra che guadagna; la Tosca-na ha perso 0,10 punti percentuali su cento miliardi di spesa, men-tre, ad esempio, il Lazio ha avuto un grosso incremento e grazie allamodifica del sistema di ponderazione, ha avuto trecentoottanta mi-

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lioni in più. È comprensibile che il problema sia come ripartiamo ecome ponderiamo, però nel decreto non è dato alcun elemento dichiarezza per eliminare la discrezionalità. Il vero problema è che, inrealtà, al comma 2 di uno dei primi articoli che riguardano i costistandard si dice: i costi dei fabbisogni standard, determinati secondole modalità del decreto, costituiscono il riferimento cui rapportare pro-gressivamente, nella fase transitoria e poi a regime, il finanziamentointegrale della spesa sanitaria. Questo è il comma pericoloso e cherivela dove vuole arrivare davvero il decreto, perché abbiamo vistoche quel decreto non fa altro che dare dei nomi diversi a cose vec-chie. Poi, dice che si devono calcolare i cinque migliori e di questiprenderne tre, ma le modalità applicative sono tali per cui si elidonoi numeri che si inseriscono e quindi non hanno alcun ruolo nellaquota di accesso e allora, a che cosa serve quel decreto? È ovvio chesul piano politico serve a dire, in un momento difficile, che stiamodando attuazione al federalismo; però c’è un problema: per la primavolta, in un documento che adesso è in Conferenza delle Regioni, sidice che il finanziamento complessivo della spesa sanitaria, a regimee progressivamente nella fase transitoria, dipenderà dai costi stan-dard e non si cita quello che la legge del 1999 affermava: l’ammon-tare complessivo di risorse destinate al Servizio sanitario nazionale so-no definite, tenuto conto dei vincoli di finanza pubblica, ma conte-stualmente con la definizione dei livelli di assistenza. Qui si dice chele risorse che saranno messe a disposizione del SSN dipenderannoda chi spende di meno, a prescindere che eroghi tutti i livelli di assi-stenza o solo in parte, bene o male: ovvero, torna un problema so-stanziale per la sanità del nostro Paese. Gli anni Novanta, sono statianni in cui , a vario titolo, i Governi hanno cercato di fatto, soprat-tutto quelli che si sono impegnati nel risanamento della finanzapubblica, di superare il finanziamento pubblico della sanità. Perfortuna, quella proposta è stata rigettata più volte e gli stessi che al-lora fecero quella proposta adesso si rendono conto che forse nonaveva proprio tanto senso. In questi ultimi anni, quello che vienemesso in discussione in modo subdolo è il carattere nazionale delServizio sanitario e il federalismo potrebbe servire a sperimentaremodalità di erogazione di finanziamento dei servizi sanitari diverseda quelle definite a livello nazionale.

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Idem per il sistema nazionale che deve vigilare perché, nelle Re-gioni del nord, la spesa privata è abbastanza elevata, e l’avvio di for-me integrative di finanziamento sarebbe possibile. Se il sistema deveessere uguale in tutta Italia non si può fare, ma se si può sperimen-tare in qualche Regione, magari anche in modo trasversale, allora al-cune Regioni hanno interesse a tentare forme integrative di assisten-za su livelli importanti e il federalismo consentirebbe di farlo. So-prattutto ci sono gli interessi economici dell’intermediazione finan-ziaria, non tanto quella assicurativa che, a mio giudizio, come sem-pre ha timore che la sanità sia un settore difficile. È l’intermediazio-ne finanziaria che adesso sta cercando settori sempre più da aggre-dire e se anche solo un piccolo pezzo dei livelli di assistenza, in unarealtà regionale, passasse attraverso un fondo integrativo e all’inter-mediazione di qualche Istituzione finanziaria, parliamo come nientedi miliardi dall’oggi al domani. Sarebbe un grande mercato che au-menterebbe le possibilità di ampliare la propria attività al mondodella finanza, non a caso le grandi Banche e le grandi Istituzioni fi-nanziarie sono interessate alla sanità. Ha interesse anche il mondodei produttori di prestazioni sanitarie, perché il risanamento dellafinanza pubblica in Italia ha portato a contenere il tasso di crescitadella spesa sanitaria. Questo rallentamento della spesa però è statauna sofferenza per chi produce prestazioni sanitarie perché non havisto crescere il proprio mercato e quindi, un sistema alternativo difinanziamento che abbia meno a cuore l’appropriatezza, ma che siapiù disponibile ad assecondare le scelte dei consumatori a prescin-dere dall’efficacia vera e propria delle prestazioni, aiuterebbe alcunisettori produttivi a veder crescere il loro mercato. Ecco perché il fe-deralismo può essere lo strumento, che non c’era negli anni Novan-ta, per tentare di aggredire il problema con questa modalità. Ma fin-tanto che i decreti rinviano il problema, forse possiamo dire che ab-biamo rinviato anche il problema del cambiamento della sanità.

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Sistemi sanitari regionali a confrontoSabina Nuti

Direttore Centro di S. Anna,Management Sanità

Vorrei esaminare quali sono le evidenze sulla valutazione dei ri-sultati dei sistemi regionali di cui oggi disponiamo a livello naziona-le per chiederci se queste possono essere utilizzate per il costo stan-dard in vista dell’introduzione del federalismo fiscale.

Partiamo dall’analisi di quello che è stato pubblicato fino ad oggisul federalismo fiscale e sul costo standard, facendo un commentocritico su quanto è stato conseguentemente proposto. Ci sono varieimpostazioni, c’è chi prende i costi di ciascun sistema e di ciascunaAzienda e li divide per i volumi erogati, però, con questo sistema, laRegione Campania risulta essere la più efficiente perché produce,per esempio, molti ricoveri ospedalieri, anche se con un’alta percen-tuale di inappropriatezza. Questa strada, che sembra molto facile eovvia, in realtà è pericolosissima per il nostro sistema sanitario na-zionale, perché se ci dobbiamo “parametrizzare” alla Regione Cam-pania rischiamo di fare un danno a tutto il SSN. C’è chi si muovecercando di lavorare solo sull’assistenza farmaceutica o su quellaospedaliera, ma sappiamo che sulla spesa dei sistemi sanitari regio-nali incide per oltre il 50% l’assistenza territoriale. Molti lavoranocon una serie di criteri che si avvicinano di più alla logica del fabbi-sogno procapite, che la legge prevede siano due cose ben distintedato che una cosa sono i bisogni e un’altra è l’uso che facciamo del-le risorse per rispondere ai bisogni in relazione ai costi rispetto al ri-sultato prodotto.

Certamente dobbiamo usare un metodo prudenziale perché co-munque le informazioni che abbiamo a disposizione a livello nazio-nale non sono molte e quindi dobbiamo cercare di fare un progettorealizzabile ma che, al tempo stesso, sia fin da subito corretto dalpunto di vista delle finalità perché anche la logica del costo stan-dard sia uno stimolo al miglioramento. Da questo punto di vista,

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negli ultimi anni la Regione Toscana ha lavorato molto per diffon-dere questo messaggio fondamentale, ovvero che, più di quanto sispende, è importante come si utilizzano queste risorse per creare va-lore aggiunto per il cittadino. Qui sta la sfida rispetto al concetto dispesa sanitaria: non interessa quanto si spende, ma quante risorsestiamo utilizzando,rispetto alla logica della contabilità economica ea quella finanziaria quant’è il valore prodotto.

Parlare di sistemi sanitari significa parlare di livelli di salute dellapopolazione e di equità. È pertanto fondamentale non tanto partiredalla capacità di equilibrio dei sistemi sanitari, cioè, di non spende-re di più di quanto viene allocato dal Fondo nazionale, quanto co-minciare veramente ad avere la volontà di confrontarsi su quantoviene erogato e con quali livelli di appropriatezza e di qualità. Èinutile parlare di livelli essenziali di assistenza se poi ogni sistemaregionale viene in realtà lasciato libero di erogare quanto e comevuole, per cui alla fine si ha, come vedremo dai risultati che presen-terò, un grosso problema di equità sostanziale. Intendendo conequità la necessità di garantire adeguato accesso ai servizi a tutta lapopolazione marginale, agli immigrati, mentre se guardiamo i risul-tati, abbiamo dei problemi di equità tra i cittadini italiani, anche nelcontesto della stessa Regione.

Con questo tipo di prospettiva, abbiamo lavorato a livello nazio-nale cercando di definire e di condividere con il Ministero e con ilTavolo delle Regioni, che cosa era importante misurare quando sidevono confrontare dei sistemi sanitari regionali, cercando di deli-neare il campo: la qualità dei servizi è il punto di partenza e di arri-vo fondamentale. L’appropriatezza delle prestazioni e delle struttureè irrinunciabile, niente di più, ma niente di meno, per rispondere albisogno del cittadino nel setting assistenziale più adeguato, anche intermini di efficienza, perché se possiamo trovare una modalità chedà lo stesso risultato e costa meno, è un impegno, un dovere eticodell’operatore sanitario pubblico, scegliere questa soluzione.

L’ultimo aspetto da prendere considerazione è l’efficienza nell’u-so delle risorse, per evitare sprechi e per garantire il massimo valoreaggiunto al cittadino.

Il metodo, che abbiamo ormai testato da anni in Toscana con ot-timi risultati e che abbiamo proposto anche a livello nazionale, è di

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confrontare sistematicamente i dati tra le diverse realtà e tra i diver-si contesti. Su questo, l’approccio è in qualche modo differenzialerispetto, per esempio, a quello utilizzato dagli epidemiologi. Questioperatori sono molto attenti a fare i confronti perché, giustamente,si pongono il problema di introdurre una serie di accorgimenti e dianalisi specifiche che possano tener conto, attraverso il risk adjust-ment, delle differenze che, per esempio, i territori hanno rispetto allivello di anzianità dei cittadini, rispetto alle caratteristiche specifi-che. La nostra percezione è che molte volte, con il desiderio di pro-porre dei dati estremamente precisi passano tre o quattro anni equesti risultati finiscono per essere utili solo in termini di ricercapiù che come uno strumento a supporto delle decisioni degli opera-tori. non si possono utilizzare. Quando le differenze non sono mar-ginali ma sostanziali, è meglio avere il dato con una grande tempe-stività, sapendo che non tutto è stato considerato ma probabilmentein parte va corretto se si tiene conto che l’età media è leggermentediversa tra un territorio e un altro, ma l’informazione arriva in tem-po per essere utilizzata dai decisori. Quindi, benchmarking, con-fronto sistematico; abbinare il dato del confronto, insieme al trend,ci permette di individuare, territorio per territorio, Azienda perAzienda, Regione per Regione, quali sono gli ambiti di priorità sucui dobbiamo assolutamente intervenire. Sono stati calcolati ad oggii primi trentaquattro indicatori a confronto, elaborati anche a livellodi Asl e di struttura ospedaliera. Di questi, ventidue sono di valuta-zione, e ciò significa che è stato condiviso un metro per definire ciòche è accettabile e ciò che non lo è, ciò che è una buona performan-ce e ciò che non lo è.

Il risultato è poi stato suddiviso in fasce di valutazione. Tuttoquesto materiale, che, per la prima volta in Italia, è stato reso dispo-nibile ai cittadini, si trova sul sito del Ministero sotto salute.gov, nel-la sezione dedicata al SIVEAS,con tutti i dati Regione per Regione.Questi indicatori sono stati elaborati e presentati alle Regioni nelsettembre del 2009. Dopo le elezioni, avendo raccolto quali erano leperplessità in base alle segnalazioni delle Regioni, gli indicatori sonostati pubblicati nell’aprile del 2010. Questa è la nostra esperienzasul sistema di valutazione nazionale, ma stiamo lavorando con la Re-gione Toscana capofila di un network che quest’anno è arrivato a

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comprendere nove Regioni. Il lavoro che stiamo facendo sul net-work non è tanto di valutazione, che dà una sorta di ranking e di si-tuazione di check up delle Aziende e dei sistemi, ma ci impegnamoper supportare i processi decisionali e legare sempre di più il siste-ma. Tra i primi indicatori proposti e accettati, una parte è relativaall’assistenza ospedaliera: governo della domanda, efficienza, indicedi performance (un indicatore, calcolato in modo specifico, che per-mette di calcolare, per Drg, quant’è la degenza media di ogni strut-tura rispetto alla media nazionale), appropriatezza chirurgica (intermini di setting assistenziale e anche in termini di tecnica utilizza-ta), appropriatezza medica e di analizzare alcuni indicatori di quali-tà clinica. Abbiamo poi alcuni indicatori sull’assistenza distrettuale,sull’assistenza farmaceutica, sull’assistenza sanitaria collettiva e diprevenzione.

La Regione Toscana ha centotrenta indicatori raccolti in tanti an-ni con un sistema informativo,e condivisi con i vari soggetti. Pensia-mo, ad esempio, agli indicatori sulla sanità di iniziativa, che sarannol’obiettivo del 2011. L’aver già usato questi primi dati ha permessocomunque di fare un salto in avanti per cercare di capire come i di-versi soggetti si collocano nel sistema nazionale. Questi sono indica-tori di valutazione, significa che il risultato ha un suo posizionamen-to, ma al Tavolo Ministero – Regioni, anche sugli indicatori del pat-to per la salute, non è stato ancora definito uno standard di riferi-mento. Per esempio, al Tavolo dei LEA non ci si è posti la domandafondamentale: ma il sistema sanitario italiano dove vuole arrivare?Qual è il livello che considera accettabile e qual è il livello che consi-dera non accettabile? Quello che è sempre mancato alla componentepolitica è di definire esattamente quali sono gli ambiti specifici incui le Regioni sono chiamate a muoversi. Abbiamo quindi dovutoadattare con la logica dei quintili, e questa è una bella differenza ri-spetto al sistema di valutazione della Regione Toscana, dove invecela stragrande maggioranza degli obiettivi sono presenti nel Piano sa-nitario regionale.

I risultati sono presentati con la proposta del bersaglio, che damolti è criticata ma che in realtà è estremamente efficace per avereun quadro di sintesi a livello aziendale e a livello regionale. Il bersa-glio è una rappresentazione, che permette di evidenziare gli indica-

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tori per i quali si riscontrano maggiori difficoltà e gli indicatori chehanno un’ottima performance. A livello regionale, ogni Regione ha ilsuo bersaglio, ha il dettaglio degli indicatori e poi ha una serie di al-tri indicatori che permettono di capire le determinanti del risultatocomplessivo.

Vediamo qualche esempio: riguardo alla qualità dei servizi, per lefratture di femore, , è molto importante essere operati tempestiva-mente in modo da avere un rapido recupero. Le evidenze scientifi-che dicono che si dovrebbe arrivare almeno all’80% di interventientro ventiquattro ore dall’incidente. Noi si parla di quarantotto oree oltre l’80% c’è solo Bolzano; la Basilicata e il Lazio sono al 16%,gli ultimi dati disponibili sono del 2008, la Toscana nel 2010 è arri-vata al 56%. Nella parte critica purtroppo abbiamo tutte le Regionidel sud, ma le variabilità si riscontra anche dentro le Regioni; peresempio, nel Veneto, che ci si aspetta che sia una delle migliori, inrealtà abbiamo il 78% a Padova, mentre Treviso è ferma al 14%.Tutte le volte che ci viene in mente la problematica dell’equità, giu-stamente pensiamo alle fasce marginali, ma il problema riguarda an-che i cittadini normali, perché le chance di recupero sono diverse.La Regione Toscana è l’unica, insieme al Piemonte, che ha inseritogià dal 2008 il titolo di studio nella Scheda di dimissione ospedalie-ra, vediamo che chi ha il titolo di studio più alto riesce a ottenereservizi più tempestivi e più adeguati. I laureati si fanno operarepresso le Aziende ospedaliero – universitarie, qualsiasi sia la loroarea di residenza, in percentuale molto più alta rispetto a quelli conbasso titolo di studio, che si fanno purtroppo troppo spesso operarein strutture che fanno, per esempio, tre interventi alla mammellal’anno, di conseguenza non riusciamo a garantire le stesse opportu-nità a tutti i cittadini.

Esaminiamo i re-ricoveri entro trenta giorni per la stessa MDC.A parità di tasso di ospedalizzazione sappiamo che in Campania èmolto più alta a causa dei ricoveri inappropriati: il Piemonte regi-stra il 3%, in qualsiasi posto sia stato il re-ricovero, in Sardegna ab-biamo il 7,64%. Riguardo all’appropriatezza medica, la percentualedi ricoveri in DH medico con finalità diagnostiche si registra unadifferenza dal 17% al 71%. Durante il ricovero si fa un insieme dianalisi che dovrebbero essere realizzate in regime ambulatoriale e

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qui abbiamo un grosso problema anche in termini economici per-ché chiaramente il costo è assai diverso. Oppure vediamo, peresempio, l’indice di performance della degenza media per acuti, ilLazio per ogni ricovero in media utilizza 1,1 in più di giornate didegenza rispetto alla media nazionale, sono milioni di giornate didegenza in più. L’Emilia Romagna riesce ad arrivare a un valore diquasi un giorno, 0,7 in meno per ogni ricovero rispetto alla medianazionale, la Toscana è a 0,64. Vediamo invece la degenza mediapreoperatoria per interventi chirurgici programmati, si va da 0,72 a2,33 di media per il Molise, anche queste sono moltissime giornatedi degenza sprecate. Per i DRG dimessi dai Reparti chirurgici, si vadal 13% delle Marche al 44,5% in Campania, ciò significa che è ca-suale dove vieni ricoverato.Questo è un indicatore molto utilizzatoanche a livello internazionale, se si è ricoverati in un reparto chirur-gico ci si aspetta che, almeno nell’80% dei casi, il paziente debbaessere sottoposto all’intervento chirurgico. Se il paziente viene poidimesso con un DRG medico vuol dire che abbiamo utilizzato i Re-parti chirurgici e bloccato dei letti, per fare qualcosa che poteva es-sere erogato in Reparti a minor costo. In Campania il 44% dei pa-zienti ricoverati nei Reparti chirurgici escono dall’Ospedale con unDRG medico.

Vediamo poi i DRG LEA medici, a livello nazionale. La Com-missione nazionale per i livelli essenziali di assistenza ha identificatotutto un gruppo di casistica che potrebbe essere più appropriata-mente seguito sul territorio, dal medico di famiglia o dagli speciali-sti, mediante le visite ambulatoriali; il Piemonte arriva a 90 su dieci-mila residenti rispetto alla Campania che ne fa 334 sempre su dieci-mila residenti; i ricoveri di un paio di giorni sono molto spesso inu-tili e andrebbero ridotti, mentre in Campania sono ancora il 40%,ossia una percentuale elevatissima.

Abbiamo provato ad esaminare qual è il tipo di relazione esi-stente tra gli indicatori di efficienza, di qualità, di appropriatezza, digoverno della domanda, non solo tra le Regioni, ma anche conside-rando, per esempio, tutte le trecento e passa Asl a livello nazionale,quindi sui due livelli. Quello che emerge è che esiste un’altissimacorrelazione tra le dimensioni e tra gli indicatori, questo è significa-tivo perché prova ancora una volta che in sanità chi è efficiente ha

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anche un’ elevata qualità. In Regione Toscana abbiamo fatto un la-voro con il Consiglio sanitario sugli indicatori per i diversi percorsie patologie. I chirurghi, quando abbiamo iniziato il lavoro, ci dice-vano: se si spinge sulla riduzione della degenza media ci troveremocon un maggior numero di complicanze e con un aumento dei ricove-rati.. In realtà, i dati delle nostre ottanta Chirurgie dimostrano, co-me lo dimostra il livello nazionale, che laddove c’è la capacità di te-nere sotto controllo le degenze medie, ci sono meno ricoveri e mi-gliori livelli di appropriatezza. Se andiamo a vedere, per esempio, laproduzione ospedaliera sulle realtà che vanno meglio da un puntodi vista di qualità e di efficienza, si scopre che hanno una minore va-riabilità nella degenza. Questo vuol dire che sono probabilmenterealtà dove si è più avanti nella condivisione dei protocolli clinici enell’organizzazione del percorso, per cui l’utente entra quando hagià fatto la preospedalizzazione, fa il suo intervento, trova la rispo-sta adeguata per tornare a casa al momento giusto. Quindi, la de-genza è più breve, è più organizzato il percorso e normalmente il li-vello di qualità è più elevato perché esiste maggior coordinamentotra i professionisti.

È chiaro che a livello nazionale è difficile avere un quadro esau-riente del territorio perché i flussi che abbiamo a disposizione sonoveramente pochi e per adesso sono di tipo indiretto, però sull’assi-stenza ospedaliera questa analisi è possibile. +++ Nella tab. vedia-mo la relazione tra costo procapite standardizzato, solo per la parteospedaliera e la performance per l’anno 2007 relativa a tutti gli indi-catori sull’assistenza ospedaliera, e si vede che esiste la correlazionestatistica tra costo e performance. Questo vale anche per la nostraRegione, con un numero di indicatori molto più elevato: nella tabel-la +++ è evidente la relazione tra costo procapite standardizzatocon i criteri del Piano e la percentuale di indicatori calcolati, esclu-dendo quelli di efficienza, sul totale dei risultati. La stessa situazio-ne del 2007, si ripresenta nel 2008 e 2009, anche se con posizionidiverse delle Aziende.

Nella Regione Toscana gli ultimi due anni sono stati dedicati amettere a punto degli indicatori di outcome, per esempio, come lamortalità, dopo tutta una serie di interventi di risk adjustment. Inun certo senso, questo ci conferma che un buon lavoro sulla perfor-

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mance di processo, un buon lavoro di organizzazione e di integra-zione interna tra i professionisti, permettono anche di utilizzare almeglio le risorse disponibili e di ottenere quindi un buon risultatoper la collettività.

Perché gli indicatori di performance possano funzionare è moltoimportante che siano legati anche agli strumenti di management.Nel network delle Regioni nel 2008 e 2009 abbiamo lavorato conPiemonte, Liguria e Umbria: dal 2006, nel sistema di valutazionedelle Aziende e nel sistema di incentivazione dei Direttori generali,abbiamo introdotto l’obiettivo, per esempio, del miglioramento nel-la percentuale di fratture di femore operate entro due giorni, il datodella Toscana sistematicamente è migliorato ogni anno, in Piemon-te, Liguria e Umbria , Regioni molto simili in termini di sistema sa-nitario e di performance, questa percentuale è rimasta invariata. Il2010 è il primo anno in cui l’Umbria e il Piemonte hanno finalmen-te inserito questo indicatore nei loro obiettivi e vedremo se i risulta-ti sono migliorati.

Dichiarare gli obiettivi, condividerli con il management, parlarnecon le Aziende, è un modo per far arrivare il messaggio che questascelta è importante perché allora i sistemi si muovono. In sintesi,credo che sia molto importante l’identificazione di questi parametri,che devono essere continuamente messi a punto e anche modificatinel tempo, in base al grado di raggiungimento e in base alle nuovepriorità che si presentano alle Aziende e ai sistemi sanitari, però èmolto importante legarli ai sistemi di gestione e agli obiettivi. È l’u-nico meccanismo che abbiamo a disposizione per far sì che in futu-ro questo costo standard, che sarà il parametro attraverso cui ogniRegione si potrà finanziare, sia effettivamente legato ai risultati otte-nuti. I nuovi criteri di riparto probabilmente terranno conto anchedelle problematiche di tipo socioeconomico relative alla presenza omeno di patologie croniche, tutto giustissimo, però una volta che leRegioni hanno ottenuto i finanziamenti dal Fondo o hanno attintoal Fondo di perequazione quando ci sarà il federalismo fiscale, èfondamentale che poi li utilizzino adeguatamente.

Dobbiamo introdurre dei meccanismi che in qualche modo aiuti-no le Regioni a correggere il tiro, in particolare a non aprire Ospe-dali inutili, o erogare servizi inadeguati e inappropriati

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Adesso abbiamo il meccanismo dei piani di rientro, che sonoperlopiù autorizzazioni alla spesa, ma questo è assolutamente insuf-ficiente se non si controlla come si spende. È indispensabile anchedare una forza politica a queste amministrazioni, di destra o di sini-stra, per correggere il tiro, chiudere gli Ospedali che non servono eattivare i servizi che veramente servono al cittadino di oggi e di do-mani.

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Le priorità della sanità toscanaAndrea Leto

Coordinatore Area sociosanitaria, Regione Toscana

La politica regionale sta tentando di predisporre un percorso chedurerà qualche anno; alla fine di questo percorso, anziché avere unsistema sanitario toscano deprivato di servizi, per cui chi paga la cri-si non è il benestante, ma chi meno ha, si spera di uscire dall’attualeciclo di risorse limitate recuperando in efficacia ed efficienza.

In Toscana, infatti, non vogliamo ridurre i servizi, anzi, li voglia-mo migliorare evitando di sprecare preziose risorse. Il bilancio dellaRegione è di circa 8,7 miliardi di euro, la parte più consistente arri-va dal sistema sanitario, circa 6,5 miliardi, gli altri 2,2 miliardi dallacaccia, agricoltura, trasporti, che però verranno deprivati di circa320 milioni nel 2011 e di 360 milioni nel 2012. La parte sanitaria sa-rà indirettamente colpita da questa manovra, anche se il tentativo èquello di preservare il nocciolo delle nostre attività, pur prendendoatto che rispetto al 2010 avremo probabilmente un incremento dicirca 50 milioni in più. Il sistema sanitario toscano, che viene consi-derato virtuoso, cresce intorno al 3%, creando un serio problemaper la tenuta del bilancio. Questo investe in pieno il problema delpercorso normativo che il nostro Paese sta affrontando in rapportoal federalismo fiscale che metterà in atto la standardizzazione deicosti e dei servizi, così che nei prossimi anni si tenderà ad omoge-neizzare, per assorbimento di risorse, il valore delle prestazioni nelnostro sistema. Posto che i LEA non verranno modificati, almenonel prossimo anno, abbiamo un problema sul versante sociale rap-presentato dai LEA, che attualmente non sono stati introdotti e co-stituiscono un elemento di incertezza ulteriore per il sistema.

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Il programma della Regione Toscana

La legge finanziaria introdurrà alcuni elementi, che non vannoletti soltanto come deprivazione, ma anche come implementazionedi servizi: intanto, la questione del rapporto con il privato accredita-to: cliniche, trasporti, RSA. In un percorso che deve essere necessa-riamente condiviso tra i privati accreditati e i professionisti, verràdefinito un tetto di risorse stabilito sulla base di quelle disponibilinel 2010. Questo significa che si prova a bloccare la dinamica tradi-zionale della spesa, introducendo degli elementi correttivi che peròvanno nella direzione della qualità e del miglioramento dei servizi.Non è una contraddizione perché, pur essendo la Toscana una Re-gione che dedica molta attenzione alle risorse, i margini di migliora-mento sono evidenti e significativi. Per esempio, la legge sui tra-sporti introdurrà lo strumento della gestione budgetaria delle risor-se che permetterà, condividendola con tutto il mondo del volonta-riato che ruota intorno al trasporto, di ottimizzare le risorse. Provia-mo a costruire un percorso che sia di interesse comune e la budget-tizzazione in qualche maniera ci può aiutare in tal senso.

Lo stesso vale per la residenzialità. Su questo vorremmo fare unariflessione, che sicuramente avrà uno sbocco sul Piano sanitario fu-turo, sulla legge 402, che regola il sistema di valutazione della nonautosufficienza e del bisogno dei cittadini nell’accesso ai servizi. Dauna serie di analisi effettuate possiamo sostenere che nel settore del-la residenzialità ci sono margini di miglioramento enormi. Sicura-mente nell’area fiorentina c’è la possibilità di costruire dei percorsiche non tolgano risorse al privato o a chi gestisce le RSA, agendo at-traverso la qualità, l’appropriatezza, aumentando propriamente iservizi. Un esempio: se rilevo che in una zona ci sono troppi moduliAlzheimer, correggiamo il percorso, perché il modulo Alzheimer nonè un cronicario dove mettere il cittadino finché vive, ma un inter-vento per stabilizzare il cittadino e poi restituirlo alla famiglia È unaquestione che riguarda poi il personale delle Aziende sanitarie. Suquesto verrà posto un tetto, riferito al 2006, con la riduzione di1,4% del personale, quindi, significa la riduzione di alcune unitànelle Aziende nel computo complessivo, però questo verrà basatosu un principio comune a tutte le iniziative di piano, attuale e futu-

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ro:: non si fa un taglio dell’1,4% per tutti, sarebbe un errore d’im-postazione, ma verrà fatto, in maniera condivisa con le Aziende, unconfronto per vedere chi ha assunto del personale e chi invece è sta-to più parco nel corso di questi anni. Anche in questo ci sono ele-menti di forte discontinuità e disuguaglianza tra le Aziende perchéva valutato, legandolo agli obiettivi, il rapporto tra le professioni. Inquesti anni si sono assunti tanti medici, di infermieri invece non nesono stati assunti. Il fatto che mancano gli infermieri rappresentauna vera criticità perché, se la strategia della Regione è quella diconsegnare il cittadino sul territorio e farlo gestire attraverso l’orga-nizzazione territoriale, gli infermieri sono indispensabil.. Non è laRegione che decide i tagli, però rimanda alle Aziende, assumendoneresponsabilità, la capacità di valutare il loro fabbisogno rispetto agliobiettivi.

Il taglio delle spese di rappresentanza o quelle per i costi, esige lasobrietà e in un momento di crisi, da parte nostra, questo rappre-senta un esempio verso i cittadini.

La farmaceutica e i presidi

L’appropriatezza della prescrizione farmaceutica può determina-re risparmi da recuperare nel sistema dei servizi. Una segnalazioneche ci viene dal nostro farmacista, rispetto a una molecola usata dal90% dei professionisti che costa un quinto, mentre il 10% dei me-dici ne usa un’altra che costa un decimo di più. Senza rinunciare al-la libertà di prescrizione è necessario operare all’interno di una cor-nice di appropriatezza. Da questo punto di vista, la nostra Commis-sione terapeutica sta facendo un lavoro importante, fortemente con-diviso.

La politica dell’accesso ai servizi è un altro tema su cui probabil-mente il 2011 sarà particolarmente significativo. L’accesso ai serviziattraverso l’ISEE, cioè, gli strumenti di valutazione del reddito, chesono completamente soddisfacenti nel determinare il profilo di ric-chezza di ognuno di noi e, in un momento di crisi, è bene che chi hadi più contribuisca di più.

Veniamo all’ultima questione questione da affrontare: gli investi-

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menti: la Regione Toscana metterà in bilancio circa cento milionil’anno per coprire la politica degli investimenti e una parte consi-stente di questi investimenti verrà assorbita dai quattro nuovi Ospe-dali che si stanno costruendo.. La parte restante di queste risorseverranno utilizzate per le politiche essenzialmente rivolte al territo-rio e, in particolare, per le cure primarie e la telemedicina, comestrumenti che dovrebbero costruire e rinsaldare il rapporto tra ilterritorio, sia nella versione sociale che sanitaria, e l’Ospedale. Im-magino: anziché dimettere il cittadino con il fax o come avviene,con una telefonata, se tutti i giorni, negli Ospedali si organizzasseuna teleconferenza con il Distretto, dove magari abbiamo organiz-zato la Casa della Salute, sarebbe possibile prevedere un percorsoche parte dall’Ospedale, dove un infermiere o una figura ricono-sciuta comunica che fra tre giorni viene dimesso un suo cittadino echi deve poi organizzare l’assistenza sociale o sanitaria lo può pren-dere in carico con una procedura semplice e organizzata.

La teleassistenza è un tema che nel Piano sanitario avrà una va-lenza diversa rispetto a quella, irrilevante, avuta finora. Il dibattitoal livello nazionale è così maturo ormai che con investimenti nazio-nali, se ci saranno, per necessità tecnologiche e anche per interessiindustriali, , la teleassistenza entrerà a pieno titolo dentro al sistemacome un fattore necessario e di sviluppo. Pensiamo al vantaggio chepuò dare agli anziani, laddove è necessario, per il monitoraggio dialcune patologie oppure, con le esperienze che stiamo facendo inToscana, per il recupero dopo un ictus, attraverso gli esercizi ripetu-ti, non a casa, ma in un posto dove il paziente può essere in comuni-cazione con l’Ospedale che controlla quello che fa.

La riorganizzazione dei servizi significa, dentro questa logica, ca-pire se quello che abbiamo scritto nelle delibere, ma non siamo ri-usciti a fare fino in fondo, ad esempio, la riorganizzazione della retedei laboratori, al cittadino non importa dove viene fatta l’analisi, magli interessa che sia fatta in maniera appropriata e nei tempi dovuti.Andare a razionalizzare questo significa permette di smobilitare al-cuni servizi, che magari vengono fatti in maniera molto disarticola-ta, ragionando su una dimensione che su alcune cose non è piùquella soltanto su area aziendale. La nostra dimensione regionale sa-rebbe probabilmente la dimensione ottimale, chiaramente non vuo-

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le dire nulla perché poi i servizi devono essere articolati, dal puntodi vista dell’organizzazione però i tre milioni sono il riferimento or-ganizzativo che si può ottenere. Tant’è che sui trasporti, sulle con-sorziate dell’acqua, dei rifiuti, si sta ragionando di riassemblare tut-to con questa logica almeno per Area vasta. L’idea che abbiamo, chesarà oggetto di riflessione nel prossimo anno, ma che andrà nel pia-no, è che alcuni servizi di tipo organizzativo saranno per Area vasta,ma si chiede anche e per questo c’è tutto un lavoro che sta impe-gnando molto le Aziende sanitarie, di andare a vedere, laddove sierogano i servizi al cittadino, se dentro la stessa Azienda ci sono du-plicazioni e vi assicuro che ce ne sono tante o alcune prestazioni dialta intensità, vengano erogate dove si eroga l’alta intensità. Questaè una scelta essenziale per articolare bene i nostri servizi, se Pisa stariorganizzando un mega Ospedale, perché ciò sta diventando, lì c’èl’alta intensità. Questo si porta dietro l’altro elemento che sarà de-terminante, l’HTA, cioè, la capacità, nell’organizzare ed erogare iservizi, di andare a valutare qual è l’impatto di tipo organizzativo,economico e assistenziale, di una macchina rispetto alla sua alloca-zione. La dinamica che è andata avanti in questi anni, che era supressioni di tutti i tipi, ha messo una nuova macchina altamente co-stosa, si parla di milioni, in un posto e poi si va a scoprire che nonproduce per quello che dovrebbe essere l’ammortamento di quellamacchina. Questa politica sfida tutti, ognuno per il suo ruolo, noicome organizzatori, le Aziende come organizzatrici dei servizi, mariguarda poi il cittadino consapevole e anche i professionisti, questonon ce lo possiamo permettere più.

La riflessione sul territorio. Purtroppo, con il quadro economico,sul territorio non ci saranno grandissimi investimenti, questo lo pos-siamo dire, però alcuni elementi di qualità possono essere introdottiper poter facilitare che le cose che abbiamo impostato con il nostroPiano sanitario vigente, soprattutto la sanità di iniziativa, possanoavere compimento. In particolare, dal punto di vista dell’organizza-zione dei percorsi, probabilmente nel prossimo anno, per portarlopoi dentro il Piano, dovremo riflettere sulle azioni fatte durantequesto anno e mezzo di attività sulla sanità di iniziativa per ragiona-re non più per singola patologia, che è quello da cui siamo partiti.C’è da provare, ora forse si può fare, a ragionare sulle poli patologie

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per sviluppare la sanità di iniziativa, che noi speriamo vada a regimesu tutto il territorio regionale nei prossimi anni.

Il Piano sanitario avrà un prolungamento di un anno, intantoun’informazione è questa. Essendo il Piano regionale di sviluppo,che andrà in Consiglio, poi sarà approvato nei primi mesi del 2011 edal resto poi dipendono i Piani di settore. Mi sembra che questo siauno degli elementi su cui si sta riflettendo, su cui il nostro Assessoreci sta stimolando a riflettere, cercare di capire, per cluster di popola-zione, qual è l’assorbimento di risorse necessarie. Provare, cioè, daun lato, a incanalare i percorsi dentro la qualità e dentro la poli pa-tologia, dall’altro lato, riflettere e vedere come si vanno a incastrareil bisogno assistenziale dei cittadini che è diverso secondo anche ilcluster di appartenenza economica, sociale e quant’altro. È banale,però anche gli studi che stiamo leggendo ci dicono tutti che lì vaposta particolare attenzione, significa che forse laddove c’è povertà,marginalità, che sia di cittadini italiani o stranieri, dobbiamo fare losforzo di ragionare come l’assistenza non può essere uguale al citta-dino italiano, magari attrezzando strumenti, che non sono gli stessidi quelli che pensiamo, per erogare ai cittadini che hanno un facileaccesso ai servizi.

Il Piano sanitario sarà un piano sociosanitario, non dobbiamoscrivere un testo biblico di duemila pagine, su questo c’è preoccu-pazione perché ogni volta si dice: il Piano deve essere una cosa snel-la, facciamolo a schede. Questo è il terzo o quarto che scrivo, poi allafine il Piano è di quattrocento pagine, il sociale, altre quattrocentopagine, stavolta rischiamo davvero di fare qualcosa di veramentepesante. Il percorso di riorganizzazione non è semplice perché noi,parte sanitaria, abbiamo sempre avuto contatti e lavoro comune coni colleghi del sociale. Nel momento in cui si sposa la filosofia delconnubio forte, che non deriva dalle scelte di oggi, ma è già scrittonei Piani sanitari, ci stiamo accorgendo che questo processo è parti-colarmente complesso, però si farà anche questo. Nella stesura delPiano il tentativo è di provare a ragionare non per singoli segmenti,ma per percorsi, dove il ruolo di tutti i soggetti, che siano professio-nisti, volontari o altro, si va a incardinare nel percorso del cittadinoche ha un bisogno. Spesse volte invece si scrive il Piano in base pre-valentemente alla forza degli stakeholders, che siano i cardiologi o

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altri. Lo sforzo non sarà semplice, alla fine probabilmente il prodot-to non sarà soddisfacente per tutti, però il tentativo è questo, l’orga-nizzazione che ci stiamo dando con fatica dovrebbe andare in que-sta direzione.

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1 Institute for the future (IFTF), Health and Healthcare 2010. The forecast, Thechallenge. Jossey-Bass, Princeton, 2003.

I determinanti della salute

Gavino MacioccoDipartimento Sanità pubblica, Università di Firenze

I determinanti della salute sono i fattori che influenzano lo statodi salute di un individuo e – più estesamente – di una comunità o diuna popolazione.

I determinanti della salute possono essere raggruppati in variecategorie:• Comportamenti personali e stili di vita.• Fattori sociali.• Condizioni di vita e di lavoro.• Accesso ai servizi sanitari.• Condizioni generali socio-economiche, culturali e ambientali.• Fattori genetici.

La semplice enumerazione di questi fattori non genera alcun pro-blema concettuale; la lista può essere incrementata o ristretta, resapiù analitica o sintetica senza che ciò provochi particolari discussio-ni o controversie.

Le discussioni iniziano quando si propongono modelli concet-tuali che pongono in evidenza un fattore piuttosto che un altro,quando stabiliscono una gerarchia di valore tra i vari elementi. Ana-lizziamo due diversi modelli concettuali che propongono antitetichestrategie di sanità pubblica.

Nel primo modello1 (Figura 1) lo stato di salute delle persone sa-rebbe condizionato per il 50% dai loro comportamenti e dal lorostile di vita; molto meno importanti gli altri fattori: fattori ambienta-li (20%), fattori genetici (20%), assistenza sanitaria (10%). Si tratta

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2 Dahlgren G., Whitehead M., Policies and strategies to promote social equity inhealth. Stockholm: Institute of Futures Studies, 1991.

di un modello che mette in primo piano il ruolo degli stili di vitadelle persone e rispecchia l’enfasi che negli USA viene posta nellaresponsabilità individuale nei confronti della salute e delle malattie.

Il secondo modello2 (Figura 2) è espresso in una serie di straticoncentrici, corrispondenti ciascuno a differenti livelli di influenza:• Al centro c’è l’individuo, con le sue caratteristiche biologiche: il

sesso, l’età, il patrimonio genetico.• Lo strato successivo riguarda il comportamento, lo stile di vita,

degli individui, che include fattori come l’abitudine al fumo e al-l’alcol, i comportamenti alimentari e sessuali, l’attività fisica, chepossono promuovere o danneggiare la salute.

• Ma l’individuo non esiste da solo: egli interagisce con i familiari,gli amici, l’ambiente di lavoro, la comunità circostante. Così laqualità degli affetti e delle relazioni sociali influenza la qualità

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Figura 1

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della vita delle singole persone e può determinare un diverso sta-to di salute sia attraverso meccanismi psicologici (la depressionee l’ansia), che attraverso condizioni materiali favorevoli o avverse(es: la presenza o l’assenza di una rete di supporto familiare o so-ciale).

• Il quarto livello concerne un insieme complesso di fattori che ri-guardano l’ambiente di vita e di lavoro delle persone: il reddito,l’occupazione, l’istruzione, l’alimentazione, l’abitazione, le condi-zioni igieniche, i trasporti e il traffico, i servizi sanitari e sociali.

• Lo strato più esterno si riferisce alle condizioni generali – politi-che, sociali, culturali, economiche, ambientali – in cui gli indivi-dui e le comunità vivono.Di questa serie di determinanti, alcuni – le caratteristiche biolo-

giche dell’individuo – sono immodificabili, mentre tutti gli altri so-no suscettibili di essere trasformati o corretti.

Il destino di salute di una persona, di una comunità o di una po-polazione dipende quindi da una molteplicità di situazioni e di livel-li di responsabilità:• La responsabilità individuale circa i comportamenti e gli stili di

vita.

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Figura 2

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3 WHO/UNICEF. Declaration of Alma Ata. WHO, Geneva 1978.

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• La responsabilità familiare o di gruppo circa le relazioni affettivee sociali.

• La responsabilità di una comunità o un governo locale o nazionalecirca le politiche sociali, del lavoro e dell’assetto del territorio (dacui dipende la disponibilità e accessibilità dei servizi sanitari, socia-li ed educativi, l’occupazione, la fruibilità delle infrastrutture).

• La responsabilità infine dei soggetti sovranazionali – come adesempio Nazioni Unite, Banca Mondiale, Fondo Monetario Inter-nazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio – che hannoil potere di regolare i rapporti tra gli Stati, tra gli Stati e le impreseeconomiche e finanziarie multinazionali, e di influenzare i mecca-nismi macroeconomici che sono alla base della ricchezza e dellosviluppo di alcuni, e della povertà e del sottosviluppo di altri.Quella che abbiamo descritto è una piramide di responsabilità

molto schematica e semplificata; nella realtà i vari livelli di influenzasullo stato di salute sono strettamente correlati e interagiscono traloro, ad esempio gli stili di vita sono fortemente legati al contestofamiliare e sociale, che è condizionato dalle condizioni di vita e dilavoro, che sono a loro volta influenzate dal contesto socioeconomi-co, culturale e ambientale. Per questo motivo è difficile individuareun unico fattore in grado di condizionare lo stato di salute di unapersona o di una comunità: il diverso destino riguardo alla morbosi-tà e alla mortalità degli individui e delle comunità, è generalmente ilprodotto di un insieme di fattori strettamente correlati tra loro,quali istruzione, assistenza sanitaria, reddito, occupazione, tipologiadell’abitazione, situazione familiare, stili di vita.

Il secondo modello concettuale, opera di G. Dahlgren e M. Whi-tehead, è molto più complesso e articolato di quello made in USA;la grafica del modello a semicerchi concentrici rivela una gerarchiadi valori tra i diversi determinanti della salute (sono i semicerchi piùesterni, quelli che rappresentano il “contesto”, a influire maggior-mente sullo stato di salute). È un modello concettuale che da unaparte riflette la cultura europea di welfare state fondata sul “dirittoalla salute” e dall’altra fa propria la visione “multisettoriale” dellatutela della salute contenuta nella Dichiarazione di Alma Ata3 (“l’as-

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sistenza sanitaria di base coinvolge, oltre al settore sanitario, tutti glialtri settori e aspetti dello sviluppo nazionale e comunitario, in parti-colare i settori dell’agricoltura, allevamenti animali, alimenti, indu-stria, istruzione, edilizia, lavori pubblici, comunicazioni e altri settori,richiede che gli sforzi di tutti questi settori siano coordinati”).

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Le diseguaglianze di salute nei Paesi sviluppati

Alessandro BarchielliDirettore SOS di Epidemiologia, ASL 10, Firenze

La letteratura internazionale mostra che le diseguaglianze nellostato di salute rappresentano anche nei Paesi sviluppati un proble-ma rilevante. Nel 2006 Mackenbach ha stimato che nei Paesi dellaUE (UE-25) circa 700mila morti l’anno sono da attribuire alle diffe-renze del livello di istruzione. I dati disponibili evidenziano dueaspetti rilevanti:1. Negli ultimi 50 anni, le diseguaglianze socio-economiche di salu-

te permangono nonostante i benefici acquisiti nel tenore di vita eil miglioramento dello stato di salute in generale. In molti Paesi siè anzi osservato nell’ultimo decennio del secolo scorso una ten-denza all’aumento dei differenziali tra gruppi socialmente piùavvantaggiati e quelli più svantaggiati. Esemplificativo di questoè l’andamento della speranza di vita alla nascita osservato nel Re-gno Unito dal 1985 al 2005. Tale parametro è migliorato in tuttele Regioni, ma il differenziale tra la Regione con la speranza divita più alta e quella più bassa è aumentato.

2. I differenziali socio economici di salute sono influenzati sia dauna diversa distribuzione dei principali determinanti di malattia(es. reddito, livello culturale, stili di vita, tipologia di attività lavo-rativa ecc.) che dalla possibilità di usufruire in maniera appro-priata degli importanti miglioramenti intervenuti nella qualitàdelle cure mediche e più in generale di accedere ad una adeguataassistenza sanitaria e sociale. In quasi tutti i Paesi europei i gruppi sociali più svantaggiati pre-

sentano un peggior stato di salute, ma l’entità dei differenziali è di-versa (Mackenbach, 2008). In particolare le diseguaglianze di mor-talità sono minori nei Paesi del sud Europa e più ampie nella mag-giora parte dei Paesi baltici e dell’est Europa In questi ultimi ilrischio di morte dei gruppi con livello socio-economico più basso è

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4-5 volte più elevato di quello dei gruppi con livello più elevato. Anche in Toscana esistono differenziali dello stato di salute tra le

varie aree della Regione. Ad esempio, se valutiamo un indice sinteti-co quale la speranza di vita alla nascita osserviamo che questo para-metro è progressivamente migliorato ovunque, sia nelle aree piùsvantaggiate (Asl di Massa Carrara e di Viareggio) che in quelle incondizioni migliori (Asl di Firenze e di Empoli), ma il differenzialeiniziale in termini di speranza di vita è rimasto invariato.

Lo Studio longitudinale toscano

Lo Studio longitudinale toscano (SLTo) è iniziato negli anni no-vanta, promosso dalla Regione Toscana con il coinvolgimento dellaFacoltà di Statistica dell’Università di Firenze, del Centro per lostudio e la prevenzione oncologica, di alcune Asl e Comuni toscani.Lo SLTo rappresenta una delle poche esperienze realizzate in Italiacon lo scopo di valutare i differenziali di salute legati alle condizio-ni socioeconomiche. Sono state studiate le coorti censuarie dei resi-denti nei Comuni di Firenze (arruolate con i censimenti del 1991 edel 2001), di Livorno (arruolate con i censimenti del 1981, 1991 e2001) e di Prato (arruolate con il censimento del 2001). Lo studio èbasato sul follow-up dei soggetti di età 18-74 anni residenti nei Co-muni in studio al momento del censimento che sono stati seguitinel tempo valutata l’eventuale emigrazione dal Comune o il deces-so, registrando la causa di morte. Per la coorte censuaria di Firenzedel 1991 sono stati valutati anche i ricoveri ospedalieri. Lo studio èstato condotto mediante record linkage tra le varie fonti informati-ve, effettuate mediante procedure informatiche in grado di assicu-rare il completo anonimato dei dati prodotti. Dagli archivi censuarisono state raccolte le variabili socioeconomiche individuali, dalleanagrafi comunali lo stato in vita, e la variazione di residenza conemigrazione in altro Comune, dal registro di mortalità regionale lecause di morte, dall’archivio dei ricoveri ospedalieri le cause delricovero (fig. 1).

I risultati sono stati espressi sotto forma di rischi relativi (RR) ag-giustati per età e relativi limiti di confidenza al 95%. Il RR esprime il

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rischio di morire (o di essere ricoverato) del gruppo sociale di appar-tenenza rispetto a quello di riferimento. Ad esempio, per quanto ri-guarda il titolo di studio, sono stati scelti con riferimento i soggetticon titolo più elevato (scuola media superiore o laurea) e valutato ilRR dei soggetti con la sola licenza elementare, o di quelli con la solascuola media inferiore. È stato analizzato l’effetto di diverse variabilisocioeconomiche considerate singolarmente (es. titolo di studio, con-dizione professionale, tipologia familiare e abitativa) e di un indice dideprivazione composito che accorpava diverse variabili espressionedi diverse componenti del livello di deprivazione materiale e sociale.

Per quanto riguarda la mortalità sono state analizzate tutte lecause di morte ed alcune cause specifiche (tumori totali, del polmo-ne e della mammella, cardiopatia ischemica, cirrosi epatica, causeviolente e “morti evitabili”). Per quanto riguarda i ricoveri ospeda-lieri è stata fatta una selezione più ampia di cause di ricovero, sud-dividendo anche per regime di ricovero (ordinario e day hospital).Sono inoltre stati esaminati i DRG ad alto rischio di inappropriatez-za quando trattati in regime di ricovero ordinario, l’uso della ma-stectomia radicale nel tumore della mammella (indice di una dia-gnosi tardiva del tumore) e la rivascolarizzazione coronarica neltrattamento della cardiopatia ischemica (indice dell’uso di procedu-re di elevata specializzazione).

Le diseguaglianze di mortalità

I dati più recenti riguardano le coorti del censimento 2001 segui-te negli anni 2001-2005. In complesso Firenze (Accetta 2007), Prato(Accetta 2010) e Livorno (Accetta 2008) ci offrono una ampia coor-te di circa seicentomila persone (il 17% della popolazione toscana)residenti in aree urbane.

I risultati delle analisi delle persone di età 18-74 anni (figura 1)mostrano che:– rispetto a diplomati/laureati, i soggetti con il solo diploma di

scuola elementare mostrano un eccesso di mortalità per tutte lecause (aggiustato per età) del 65% (Firenze e Livorno) e 32%(Prato) nel sesso maschile, e del 17%-41% nel sesso femminile;

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– i soggetti con indice di deprivazione più elevato (presenza con-temporanea di più condizioni di svantaggio: bassa istruzione, dis-occupazione, elevato affollamento ed abitazione in affitto) mo-stra eccessi del 70% a Firenze, 50% a Prato e 13% a Livorno ne-gli uomini, del 55%, 18% e 58% nelle donne, rispetto quelli conindice di deprivazione più basso (assenza di tali condizioni).Disaggregando per classe di età (18-59 e 60-74 anni) e genere si

osserva che le diseguaglianze socioeconomiche si riflettono princi-palmente in una sovra-mortalità precoce che si esplica nell’età adul-ta (18-59 anni), a carico in particolare del sesso maschile e per pato-logie legate a stili di vita e ad attività lavorative (ad esempio: tumoredel polmone nei maschi e cardiopatia ischemica nelle femmine).

Il confronto tra le coorti censuarie del 2001, del 1991 e del 1981(Biggeri 1998, Biggeri 2001) consente di valutare il trend temporaledei differenziali socioeconomici di mortalità.

I dati di Firenze (coorte 2001, mortalità 2001-05 vs. coorte 1991,mortalità 1991-97) mostrano un aumento dei differenziali di morta-lità per quasi tutti gli indicatori socioeconomici analizzati. Ad esem-pio per gli uomini con sola licenza elementare si passa da un ecces-so nel rischio di morte per tutte le cause del 36% nel primo periodoesaminato ad un eccesso del 65% nel secondo (figura 2). Risultatisimili si osservano per le coorti censuarie di Livorno, che permetto-no di ampliare il confronto al 1981.

Le differenze di mortalità osservate rimandano ad una maggioreesposizione a fattori nocivi e ad un difetto delle misure di preven-zione selettivi per le persone in condizioni di svantaggio sociale,nonché ad una loro difficoltà di sfruttare le potenzialità di benesse-re personale che le moderne società sviluppate offrono. Pertanto gliinterventi di prevenzione dovrebbero essere effettuati tenendo con-to che i gruppi socialmente più svantaggiati sono maggiormente arischio. Tali gruppi dovrebbero essere quindi il target privilegiatodelle azioni di prevenzione. Inoltre anche la capacità di usufruiredelle risorse sanitarie in maniera appropriata e tempestiva da partedei gruppi più deboli e bisognosi è generalmente più limitata. Agiresui fattori di rischio è di fondamentale importanza, ma porta a van-taggi in tempi abbastanza lunghi. Viceversa politiche che favorisca-no l’accesso ai servizi sanitari potrebbero ottenere dei risultati in

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tempi più brevi. Agli inizi degli anni duemila si è posta una grandeattenzione ad una maggiore appropriatezza nell’uso del sistemaospedaliero, che ha comportato una progressiva riduzione dei tassidi ospedalizzazione. E’ però necessario che tali interventi di razio-nalizzazione siano affiancati da politiche “proattive” che facilitinol’accesso ai servizi assistenziali da parte di gruppi più svantaggiati.Va infatti evitato che una riduzione della inappropriatezza dell’usodell’Ospedale, fatta in maniera “orizzontale” e senza tener contoche alcuni gruppi sociali hanno maggiori bisogni di salute e minoricapacità di risposte a tali problemi, comporti una ulteriore penaliz-zazione di questi gruppi sociali.

Le differenze di ospedalizzazione

La problematica delle differenze socioeconomiche nel ricorso aiservizi sanitari richiede una breve inquadramento di carattere gene-rale. Il termine “diseguaglianza di salute” indica un ampio spettrodi differenze nella frequenza di malattia tra Paesi o gruppi di popo-lazione, nel nostro caso tra gruppi di diverso livello socioeconomi-co. Spesso queste diseguaglianze sono considerate ingiuste e sonostate invocate politiche attive di protezione ed interventi di sanitàpubblica, come indicato nel precedente paragrafo. Quando le diffe-renze tra gruppi socio-economici sono riferite a problemi di accessoa cure, interventi preventivi efficaci o servizi sanitari si deve tenereconto dei concetti di equità e di disequità. Pertanto, alti tassi di uti-lizzo dei servizi sanitari (ad esempio di ricovero ospedaliero) ingruppi sociali svantaggiati possono essere considerati sostanzial-mente equi quando riflettono differenze nel bisogno di cure, ri-spondendo al principio di dare di più a chi ha più bisogno. Viceversa,un gradiente sociale a parità di bisogno indicherebbe una differen-za iniqua. In altre parole, la valutazione di eventuali equità/disequi-tà nell’utilizzo dei servizi sanitari e l’interpretazione corretta delledocumentate differenze sociali nella frequenza di ricorso ai servizisanitari può essere effettuate solamente in rapporto a misure del bi-sogno di cure (fig. 3).

I dati pubblicati (Biggeri 2003), riferiti ai ricoveri del periodo

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1997-2000 della coorte di Firenze del 1991, riguardano un periodoprecedente alle importanti modifiche nell’uso dell’Ospedale avve-nute nell’ultimo decennio, e quindi non sono in grado di rendereconto di quanto queste abbiano influenzato gli aspetti di equità nel-l’accesso alle cure ospedaliere.

I dati disponibili mostrano, in maniera coerente fra i due generi,che i gruppi sociali più svantaggiati tendevano a ricoverarsi di più ead avere ricoveri di maggior durata. Quest’ultimo aspetto può di-pendere da fattori di diversa natura, quali una diversa gravità dellamalattia al momento del ricovero, una maggiore difficoltà ad orien-tarsi nell’offerta sanitaria, una ridotta capacità di spesa per rispon-dere alle necessità economiche che la assistenza a domicilio può ri-chiedere.

La mortalità può essere considerata una proxy del cattivo stato disalute, e quindi del “bisogno sanitario”. Pertanto il confronto tra itassi di mortalità e quelli di ospedalizzazione di diversi gruppi so-cioeconomici può fornire una indicazione sul livello di equità/dis-equità nella riposta di un sistema sanitario ai bisogni di salute dellapopolazione. I dati disponibili mostravano una sostanziale sovrap-posizione tra i differenziali di mortalità e quelli di ospedalizzazioneosservati tra i gruppi sociali meno e più deprivati. In altri termini, leclassi sociali svantaggiate, avendo un peggior stato di salute, presen-tavano un maggior “bisogno sanitario” che si traduceva in più ele-vati tassi di ospedalizzazione. Leggendo questo dato in termini diequità/disequità di accesso alle cure, possiamo concludere che in li-nea generale il sistema sanitario toscano dava una risposta equa aibisogni sanitari dei diversi gruppi sociali. Analizzando però il pro-blema più in profondità emergeva la presenza di elementi di dis-equità nell’accesso a servizi di alta specializzazione o a setting assi-stenziali specifici. Ad esempio, se un paziente con cardiopatia ische-mica apparteneva ad un gruppo sociale più svantaggiato, questoaveva una più bassa probabilità di essere trattato con bypass aorto-coronarico o angioplastica.

Informazioni più aggiornate sulle modifiche derivanti dagli inter-venti di miglioramento dell’uso dell’Ospedale saranno fornite dainuovi studi in corso di svolgimento.

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L’effetto degli interventi di iniziativa del Servizio sanitario

L’importanza che gli interventi “proattivi” del sistema sanitariopossono rivestire nella riduzione delle diseguaglianze socioeconomi-che nello stato di salute sono fornite da alcune valutazione dei risul-tati dello screening per il tumore della mammella in atto dalla metàdegli anni ’80 a Firenze (Puliti, 2011). Come noto uno screening dipopolazione si basa sull’invito di persone “apparentemente” sanead effettuare alcuni specifici accertamenti in grado di diagnosticarequelle affette da forme asintomatiche della malattia. La attivazionedi un programma di screening presuppone anche la definizione dipercorsi diagnostico-terapeutici standardizzati, per i soggetti “posi-tivi” all’esame di screening.

Lo studio ha valutato la sopravvivenza a 10 anni dei casi di tumo-re della mammella in due diversi gruppi di popolazione (più depri-vati vs. meno deprivati) a Firenze, in un periodo prima dello scree-ning (1985-1986) e successivo allo screening (dopo il 1991) ed indue fasce di età, una interessata dallo screening (50-74 anni) e unanon interessata (0-49 anni). I risultati hanno mostrato che la pro-gnosi è migliorata in tutti i gruppi esaminati, ma:– il differenziale socioeconomico è rimasto uguale nella fascia di

età più giovane e non invitata allo screening;– nel gruppo invitato allo screening, si è registrata un miglioramen-

to della prognosi più marcato nel gruppo più deprivato, per cuila differenza di sopravvivenza per livello socioeconomico si an-nulla nel periodo successivo all’introduzione dello screening.In sintesi questi dati mostrano come gli interventi efficaci del si-

stema sanitario su tutta la popolazione tendono a controbilanciareil diverso di rischio di malattia e di morte dei diversi gruppi socioe-conomici. Questo messaggio è di rilevanza fondamentale in una fa-se come la attuale, nella quale i differenziali socioeconomici nellapopolazione tendono ad aumentare considerevolmente con presu-mibili influenze negative sullo stato di salute. Pertanto lo sviluppodella “sanità di iniziativa”, attualmente in corso in Toscana, puòcontribuire a contrastare i differenziali socioeconomici nello statodi salute.

LE DISEGUAGLIANZE DI SALUTE NEI PAESI SVILUPPATI

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Figura 1. Studio longitudinale toscano: coorti censimento 2001, Firenze,Prato e Livorno, mortalità per tutte le cause negli anni 2001-2005, età 18-74 anni. Rischi relativi (aggiustati per età) per titolo di studio e genere.

Figura 2. Studio longitudinale toscano: mortalità per tutte le cause, con-fronto tra la coorte di Firenze 2001 (mortalità 2001-05) e quella 1991(mortalità 1991-97). Rischi relativi (aggiustati per età) per titolo di studio,maschi.

ALESSANDRO BARCHIELLI

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Figura 3. Studio longitudinale toscano: Coorte censuaria Firenze 1991, dis-eguaglianze socioeconomiche di mortalità e ricovero ospedaliero per tutte lecause (riferimento: laurea+diploma superiore o deprivazione assente): rischirelativi (aggiustati per età) per indicatore e genere.

LE DISEGUAGLIANZE DI SALUTE NEI PAESI SVILUPPATI

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Le malattie cronicheAlessandro Bussotti

Medico di famiglia, Agenzia di continuità assistenziale, AOU Careggi

Anche se da qualche tempo ho lasciato la Medicina generale enon ho potuto quindi avere una diretta esperienza dell’attività dellaMedicina di famiglia all’interno del progetto del Chronic Care Mo-del e della sanità di iniziativa, ho però partecipato a tutta la fase diformazione e di discussione iniziale e cercherò quindi di tracciareuna linea di come i medici di famiglia hanno vissuto questa avventu-ra dall’inizio a oggi.

Alcuni aspetti della Medicina generale sono stati in qualche mo-do messi in crisi dall’inizio della sanità di iniziativa. Prima di tutto ilmedico di famiglia continua in gran parte a lavorare da solo, non-ostante le esperienze della Medicina di gruppo abbiano parzialmen-te modificato l’organizzazione del lavoro e quella dell’ambulatorio.L’ambulatorio del medico di Medicina generale (MMG) è focalizza-to e organizzato sul rapporto uno a uno col paziente e sulla Medici-na d’attesa fino dall’approvazione della legge di riforma sanitaria ecambiare è sempre difficile. Molti dei MMG vedono questo rappor-to uno a uno con il paziente ancora come la caratteristica fonda-mentale del proprio lavoro, da difendere quindi ad oltranza. Inoltremolti medici hanno scelto di fare il medico di famiglia perché que-sto consente di non dipendere gerarchicamente da nessuno.

Il rapporto uno ad uno rappresenta contemporaneamente ungrosso vantaggio e una grossa gabbia: infatti, indubbiamente ilMMG, insieme al pediatra di libera scelta, è l’unico professionistadel Servizio sanitario ad essere scelto dal proprio assistito e quindisi forma un rapporto di fiducia quasi istituzionale, si crea e si conso-lida una relazione frequentemente molto duratura nel tempo e conun significato profondo nello svolgimento della Medicina di tutti igiorni.

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Però da un po’ di tempo emergono delle difficoltà in questo tipodi rapporto: per esempio ormai il MMG fa spesso il tutor nei con-fronti dei colleghi che frequentano il triennio di specializzazione inMedicina generale e nei confronti dei medici che si sono appenalaureati e che devono fare il periodo di tirocinio per l’esame di abili-tazione. Fa il tutor per gli studenti nelle Università che hanno attiva-to dei corsi sperimentali che prevedono un periodo sperimentale difrequenza presso la Medicina generale.

Inoltre la Medicina ormai è un’attività che si esercita in gruppimultiprofessionali e multidisciplinari: nessun paziente con un pro-blema serio può essere più seguito da un singolo professionista enon si può più fare a meno dell’intervento di tutta una serie di altrisettori del Servizio sanitario, come quelli specialistici e ospedalieri,anche se spesso questo intervento si configura in un rapporto con-flittuale con la Medicina generale.

Un’altra caratteristica importante è costituita della relazione conil Servizio sanitario regionale: il MMG continua a essere un liberoprofessionista legato al Servizio da un rapporto di convenzione e lasua retribuzione è tutt’ora legata in gran parte al numero di assistiti.Questo ha creato seri problemi e discussioni all’inizio del percorsodella sanità di iniziativa: l’intervento degli infermieri è stato visto,con qualche ragione, come una possibile causa di turbamento dellarelazione speciale col paziente e di ricusazione da parte sua. Sappia-mo benissimo che il tasso di abbandono dei medici di famiglia daparte dei pazienti è molto basso e questo non sempre è un bene perla categoria

C’è poi il problema fondamentale che, forse per questa sua situa-zione di libero professionista e non dipendente, il MMG si è sem-pre sentito un elemento estraneo rispetto all’Azienda sanitaria e atutto il sistema, che da parte sua non gli ha fatto mai mancare dimo-strazioni di sfiducia profonda. Un esempio fra i tanti: la necessitàdel piano terapeutico redatto da uno specialista, senza il quale unMMG non può prescrivere molti farmaci. Anche se non mancanocolpe da parte delle organizzazioni della Medicina generale, sembrastrano che il Servizio sanitario pubblico paghi dei medici che poinon considera in grado di prescrivere farmaci in autonomia. D’altraparte per fortuna nel tempo si è sviluppato e continua a progredire

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un orgoglio di appartenenza ad una vera specializzazione con carat-teristiche specifiche, quale per esempio quella di aver a che fare conla persona e non con la malattia. Un altro elemento di orgoglio èl’informatizzazione, ormai diffusa, anche se non in modo omoge-neo, a tutti i MMG italiani.

Un elemento di crisi della sanità moderna che coinvolge in pienola Medicina generale è il problema dell’eccesso di cura: il medico difamiglia è forse l’unico professionista dell’area medica che pensache la Medicina moderna sia eccessivamente invadente, come ha an-che affermato Gavino Maciocco nel suo intervento sul Disease Mon-gering. Il MMG spesso si trova isolato a combattere questa batta-glia: per esempio nei riguardi del PSA, sono state solo alcune orga-nizzazioni della Medicina generale a riuscire a non far effettuareuno screening per il carcinoma prostatico proposto dalla RegioneLombardia qualche anno fa. Analogamente c’è stata una grossa cri-tica, anche questa volta da parte solo della Medicina generale, neiconfronti della recente campagna del Ministero delle Pari Opportu-nità, sempre sullo screening del carcinoma prostatico.

E infine altri tre punti: 1. Il carico di lavoro è in aumento: dal 1996 al 2002 i contatti per

mille assistiti sono passati da quattromilanovecento a settemila-quattrocento (fig. 1). Sappiamo bene che negli ultimi anni, ac-canto all’aumento dell’attività dei MMG e dei Distretti, si è veri-ficata una notevole diminuzione dei posti letto ospedalieri. L’O-spedale sempre di più si occupa di stabilizzare l’acuzie, ma il ca-rico di lavoro sul territorio aumenta sempre di più.

2. Critiche all’efficienza della Medicina generale. Dati provenientida Health Search, database di MMG, dimostrano che solo il 27%dei pazienti ipertesi è trattato appropriatamente, il 55% dei pa-zienti diabetici non è in buon compenso, solo il 14% dei pazienticon malattie coronariche ha un livello di colesterolo LDL a targetrispetto alle linee guida internazionali, solo la metà dei fumatoririceve dal proprio medico di famiglia consigli di smettere di fu-mare. Inoltre, pazienti con storia di infarto miocardico e di angi-na nel 16,8% dei casi non riportano alcuna prescrizione di far-maci, come il 19,1% di pazienti che hanno una storia di ictus odi TIA (fig. 2). Evidentemente qualche falla il sistema ce l’ha, ma

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un miglioramento di questi dati potrà essere ottenuto solo conuna organizzazione diversa delle cure primarie. Non è pensabileche un MMG che lavora da solo possa far cambiare l’aderenzadei propri assistiti alla terapia.

3. Invecchiamento della classe medica. I medici di famiglia presen-tano una distribuzione per età con un picco rappresentato da co-loro che hanno 30-35 anni di anzianità (fig. 3). Nell’Azienda sani-taria di Firenze solo poco più del 10% di MMG ha attualmentemeno di 50 anni: quando andranno in pensione gli attuali sessan-tenni si verificherà un improvviso e drammatico ricambio gene-razionale, al quale non ci stiamo per niente preparando.Nel panorama appena delineato si è presentata la sanità di inizia-

tiva, con tutta una serie di novità che influiscono sul sistema: bastipensare all’infermiere dipendente della Azienda USL che viene adoperare nell’ambulatorio del MMG, alla figura del MMG coordina-tore del modulo, che rappresenta forse il primo timido esempio di

Figura 1. Contatti MMG assistiti (dati Health Search, 2004)

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una gerarchia all’interno della Medicina generale, alla valutazione diperformance effettuata sul modulo e non sul singolo medico. Da nontrascurare poi il fatto che si prevedono per la prima volta delle se-dute di audit obbligatorie.

L’infermiere poi si presenta indubbiamente come il protagonistadella sanità di iniziativa: accanto a qualche polemica, questo fatto èstato in genere accettato dai MMG, che si sono resi conto che solocosì si sarebbe potuto evitare un ulteriore aumento del carico di la-voro. Certo non si può non tener conto del possibile problema del-l’attenuazione del rapporto privilegiato con il paziente, condividen-do questo rapporto con l’infermiere.

La progettazione e la realizzazione del Chronic Care Model in To-scana ha segnato un momento estremamente importante, forse ilpiù importante degli ultimi anni, per lo sviluppo del sistema delle

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IMA e/o angina

n.11512Ictus ischemico e/o TIA

n.6790

Antipertensivi 74,3% 68,9%

di cui betabloccanti 36,8% 17,8%

Antiaggreganti piastrinici 61,6% 59,6%

Ipolipemizzanti 43,2% 27,4%

Nessuna prescrizione(Per le categorie terapeuticheconsiderate)

16,8% 19,1%

Figura 2. Prescrizioni per pazienti con diagnosi di IMA e/o angina e ictusischemico e/o TIA (Dati Health Search, citati in Bollettino d’informazionesui farmaci, Anno XIII – N.3 2006, pp. 120-125).

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cure primarie. Bisogna però non tacere un problema che potrebbemettere a rischio, se non corretto, tutta l’impalcatura del progetto:contrariamente ai principi della Medicina generale, l’attenzione èstata posta sulla malattia e non sul paziente. Purtroppo il ChronicCare Model è partito con quattro patologie: quindi un paziente dia-betico, che ha avuto un ictus, che ha uno scompenso e che ha unaBPCO perché ha fumato (caso affatto raro) dovrebbe essere consi-derato in quattro parti separate, piuttosto che come una personaunica.

Non bisogna però tacere i grandi meriti del progetto: intanto ungrande miglioramento della registrazione dei dati, per merito del-l’accordo fra medici e infermieri. Poi l’attenzione ai pazienti emargi-nati, che non vanno dal medico e che hanno una scarsissima com-pliance per il trattamento con gravissime conseguenze per la loro sa-lute. Per la prima volta questi pazienti vengono richiamati e seguitiattivamente.

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Figura 3

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Altra grande novità è la creazione del team che affianca il MMGin questa specie di guerra contro l’invadenza della Medicina moder-na. Per la prima volta si parla di Medicina preventiva e di interventosui rischi e sugli stili di vita più che di intervento farmacologico. Sicerca quindi di non incentivare il consumo perché si parte dal prin-cipio di identificazione dei pazienti in fase precoce e di interventosugli stili di vita, non focalizzandosi sui farmaci o sulla tecnologia.La gestione del paziente è diversa, perché si tende a rendere espertoil paziente e informato il cittadino, in modo da renderli alleati delteam curante.

Recentemente una giovane collega ha conseguito la laurea in Me-dicina con una tesi svolta su alcuni aspetti che ci sembravano parti-colarmente critici della sanità di iniziativa: un questionario è statoinviato ai centoventicinque medici dei moduli dell’Azienda sanitariadi Firenze. Tutti hanno letto il questionario anche se soltanto il50% ha risposto. Tutti hanno richiesto uno strumento per aumenta-re i contatti e il dialogo fra loro e molti hanno denunciato difficoltàa reperire documenti relativi al Chronic Care Model. Molto positivoil rapporto con l’infermiere, che è stato considerato adeguatamenteformato da tutti. Il medico di famiglia dice che il ruolo dell’infer-miere è stato accettato da tutti i pazienti e non ci sono stati quasimai problemi di relazione con il medico. Il paziente risulta soddi-sfatto e il carico di lavoro è stato considerato congruo dalla maggio-ranza dei MMG. Tutti confermano che è bene lavorare sul pazientee non sulla malattia, e quasi tutti dicono di essere d’accordo con ilmodello che prevede l’intervento del medico soltanto nel caso diuna necessità di tipo diagnostico – terapeutico e non nella fase edu-cativa e di rapporto che ha creato qualche problema iniziale e chenel modello è delegata all’infermiere. I percorsi sono stati ritenutiadeguati e quasi tutti dicono di non aggiungerne altri.

I risultati sono quindi altamente positivi, a riprova che, non-ostante le difficoltà iniziali, il progetto è partito bene ed ha buonepossibilità di continuare altrettanto positivamente.

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L’utilizzo del sistema informativoPaolo Francesconi

Agenzia Regionale Sanità

Per affrontare il problema dell’importanza, dell’utilizzo e delruolo del sistema informativo a supporto della sanità di iniziativa,mi baserò su tre aspetti: l’utilizzo del sistema informativo per la de-finizione dei bisogni, l’utilizzo del sistema informativo a supportodelle attività di cura e l’utilizzo del sistema informativo a supportodelle attività di self audit e di governo clinico.

Il sistema informativo per la definizione dei bisogni

Il sistema informativo sanitario regionale è fatto dai flussi di daticorrenti che si creano ogniqualvolta viene erogata una prestazione,che sia un ricovero ospedaliero, il rimborso di un farmaco in unaFarmacia, una visita specialistica, un esame di laboratorio. Tutte levolte che c’è un contatto di cura con un paziente questo contattoproduce un dato che poi viene sistematicamente raccolto e trasmes-so dalle Aziende alla Regione; questa enorme mole di dati costitui-sce il sistema informativo sanitario regionale.

Per quanto riguarda il sistema informativo composto dai dati am-ministrativi, questi dati possono essere utilizzati a scopi epidemiolo-gici, per stimare il bisogno di cura nella popolazione, detto in altritermini, per stimare delle prevalenze delle patologie che ci interes-sano nella popolazione. Questi dati, queste informazioni, sono dis-ponibili sul sito dell’Agenzia Regionale Sanità, sotto il portale Ban-che dati e che da ora in poi si chiamerà Marsupio. Per quanto riguar-da le malattie croniche, questi dati sono disponibili sotto il portalechiamato Macro, malattie croniche, con tante informazioni che sonostate prodotte utilizzando i dati del sistema informativo regionale,incluse informazioni sulla prevalenza delle principali malattie croni-

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che sul nostro territorio. Importanti i dati di sintesi che possiamoleggere sul diabete e sull’insufficienza cardiaca, lo scompenso dicuore, nella nostra Regione in termini di trend degli ultimi tre annidisponibili, in termini di numeri assoluti e di prevalenze come casisu mille pazienti assistibili, con una certa approssimazione, dai me-dici di Medicina generale. Una certa approssimazione, nel senso cheil limite di età non è così netto, c’è una fascia di età che poi sarà as-sistita sia dal pediatra sia dal medico di Medicina generale, comun-que noi per definizione consideriamo la popolazione ultra-sedicen-ne. Questi dati vanno interpretati con una certa cautela perché l’au-mento del numero assoluto di casi prevalenti residenti in Regione edelle prevalenze standardizzate per mille, può essere in parte dovu-to a un effetto di cumulo, che durerà finché il periodo di osservazio-ne non andrà ad avvicinarsi alla speranza di vita media che questepersone hanno al momento della diagnosi.

In ogni caso, che ci sia un aumento importante del numero deicasi di scompenso cardiaco di persone residenti in Toscana, è un da-to certo; anche rimanendo costanti le prevalenze età specifiche diquesta condizione, il numero di persone con scompenso cardiaconella nostra Regione è destinato ad aumentare grandemente neglianni a venire perché aumenterà molto la popolazione dei grandi an-ziani.

Saranno infatti i grandi anziani ad avere un impatto importantesulla domanda di servizi nei prossimi anni, nel senso che l’impattonon sarà dato tanto dai baby boomer, nati dopo la fine della secondaguerra mondiale, ma da quelli nati prima del conflitto e che orastanno diventando grandi anziani. Nei prossimi anni sperimentere-mo un aumento importante di ultra ottantacinquenni, sarà questoaumento che avrà l’impatto più importante sulla domanda di servi-zi: per esempio,la maggior parte degli scompensati, catturati sullabase del sistema informativo sanitario, sono grandi anziani e quindi,questo aumento è reale e destinato a continuare nel tempo. Un altrodato preoccupante è un aumento nella prevalenza del diabete, que-sto aumento è sicuramente amplificato dall’effetto cumulo in quan-to noi riusciamo a identificare pazienti con il diabete sulla base delsistema informativo a partire dal 2003, cioè, nel momento in cui èstato attivato il flusso delle prestazioni farmaceutiche. I pazienti con

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diabete li identifichiamo perché essenzialmente sono trattati confarmaci antidiabetici, c’è dunque una certa parte di amplificazionedi questo aumento, ma il fatto che la prevalenza del diabete stan-dardizzata, quindi, indipendente dal cambiamento della strutturadella popolazione per età, sia in aumento è un dato che avevamo ri-levato anche analizzando i dati dell’indagine ISTAT multiscopo edera abbastanza preoccupante. Il trend in aumento del diabete è unasentinella molto importante perché potrebbe far pensare che siamo,ormai anche in Italia, in quella fase della transizione epidemiologicache si definisce l’era dell’inattività e dell’obesità. Il cambiamentodelle malattie più importanti nella popolazione è avvenuto dal seco-lo scorso ad oggi; in Toscana attualmente siamo nella quarta fase,quella delle malattie cronico-degenerative posticipate. Posticipateperché si muore sempre meno per eventi acuti e, quindi, si rimanenella popolazione con la malattia cronica e l’aumento dello scom-penso cardiaco è estremamente tipico di questa fase.

L’aumento del diabete invece potrebbe far pensare che siamo giànella quinta fase, nella quale si trovano ora gli Stati Uniti, la fase del-l’alta inattività, della vita sedentaria, dell’aumento dell’obesità equindi del diabete, sarebbe molto preoccupante se nel corso deglianni andassimo a confermare questo trend. Insomma, sulla base delsistema informativo, sulla base di tutti questi dati amministrativiprodotti, noi possiamo identificare chi è affetto da determinate con-dizioni croniche e quindi utilizzare il sistema informativo a scopoepidemiologico, anche nel contesto del progetto sanità di iniziativa,per una stima dei bisogni. Queste stime dei bisogni sono state utiliz-zate, per esempio, per dare dei target di prevalenza ai moduli delChronic Care Model; questi moduli hanno degli obiettivi da raggiun-gere, sia in termini di numero di pazienti arruolati, sia in termini diprocessi. Il target sul numero di pazienti da arruolare è stato datodalle informazioni prodotte sulla base del sistema informativo sani-tario. I tassi di prevalenza che hanno raggiunto i moduli per quantoriguarda il diabete sono cinquanta attualmente attivi in Toscana. So-stanzialmente i moduli si sono ampiamente avvicinati o in certi casiaddirittura hanno superato questo livello di prevalenza, attenzioneperò, il target era stato posto a 4,5 perché non è detto che tutti i pa-zienti debbano essere trovati. Stesso discorso per lo scompenso car-

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diaco, lo scostamento tra, diciamo così, l’atteso e l’osservato nei mo-duli era atteso perché gran parte dei soggetti con insufficienza car-diaca sono grandi anziani, alcuni di questi sono non autosufficienti,magari sono istituzionalizzati per cui non necessariamente tutti isoggetti con insufficienza cardiaca sono eleggibili per essere arruola-ti nei programmi del Chronic Care Model perché probabilmente giàseguiti con altre modalità di cure programmate. Quindi, questo sco-stamento era atteso tanto è vero che poi il target per lo scompensocardiaco nel progetto è stato posto a 1,5 e praticamente, se conside-riamo 1,5, tutti i moduli hanno più o meno raggiunto l’obiettivo diprevalenza. Vedete quindi l’importanza del dato amministrativoquando trasformato in informazione epidemiologia per dare degliobiettivi di identificazione del bisogno e di presa in carico del biso-gno. I medici che fanno parte dei moduli hanno identificato il biso-gno in maniera assolutamente soddisfacente e un numero di pazientioltre l’atteso è stato arruolato nei percorsi.

Il sistema informativo a supporto delle attività di cura

Il sistema informativo è ovviamente essenziale anche per il sup-porto alle attività di cura del modulo, quindi, del medico e dell’in-fermiere. Qui invece parliamo essenzialmente non del sistema infor-mativo composto dai dati amministrativi, ma del sistema informati-vo del medico di Medicina generale, cioè, quella banca dati che ilmedico costruisce registrando sistematicamente dei dati clinici suipropri pazienti, sul proprio gestionale ambulatoriale. Oggi la stra-grande maggioranza dei medici sono informatizzati, molti stannoraccogliendo questi dati, la novità essenziale del Chronic Care Modelè che abbiamo cercato di dare delle indicazioni affinché questi datifossero utilizzati in maniera utile per le attività clinico-assistenziali.Una prima osservazione, il sistema informativo clinico nel modellodel Chronic Care Model è un elemento essenziale agli altri tre ele-menti che attengono laddove si eroga il Servizio sanitario. Il sistemainformativo è fondamentale per il supporto alle decisioni, è fonda-mentale per la riorganizzazione della modalità di erogazione delleprestazioni, è importante come supporto all’autocura. Questa è una

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citazione di Wagner, che ha messo insieme tutte le raccomandazionidella letteratura in questo modello: la creazione di un registro è unelemento cruciale per il management della condizione cronica, quindi,elemento fondamentale a supporto degli altri tre elementi del Chro-nic Care Model. Per sistema informativo clinico intendiamo un siste-ma per la raccolta di dati clinici, ovvero, tutti i dati che il medico diMedicina generale o l’infermiere possono raccogliere e registraredurante la propria attività, quando prescrivono un farmaco, quandoricevono un referto, quando propongono un ricovero, quando mi-surano la pressione. Il sistema informativo clinico serve a trasforma-re questi dati clinici in informazioni utili per assicurare un’assisten-za appropriata e questo succede essenzialmente tramite un confron-to sistematico tra l’osservato e l’atteso. L’osservato sono le presta-zioni erogate, quello che è stato fatto fino a quel momento, e l’atte-so è il percorso diagnostico-terapeutico condiviso, quello che si do-vrebbe fare. Dal confronto sistematico di queste due cose emergonodelle informazioni che sono estremamente utili, se non indispensa-bili, a mettere in pratica le indicazioni e le raccomandazioni delChronic Care Model.

Un esempio concreto: negli Stati Uniti, Stato di Washington,hanno sviluppato un sistema informativo elettronico, pensato appo-sitamente come elemento del Chronic Care Model e questo sistema,per il management delle condizioni croniche, trasforma i dati cliniciregistrati dai medici in informazioni utili per le attività cliniche. Leinformazioni utili sono: una sintesi della situazione del singolo pa-ziente rispetto ai percorsi diagnostico-terapeutici condivisi per lemalattie delle quali il paziente soffre, quindi una sintesi delle dia-gnosi che sono state fatte al paziente. Quindi un sistema integratobasato sulla persona e non sulla patologia specifica, una sintesi dellecondizioni presenti; integrando poi i percorsi diagnostico – terapeu-tici per le malattie elencate si evidenziano quali prestazioni dovreb-bero essere prescritte in quel momento, magari accendendo una lu-cina rossa se c’è un ritardo o una lucina verde se quella prestazioneche deve essere erogata è già stata erogata. Questo è un aiuto pre-zioso per il medico che poi decide con la propria professionalità,ma è anche un’indicazione preziosa perché in un unico foglio è evi-denziata la situazione del paziente su tutti i percorsi. Un output di

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un sistema informativo di questo tipo, se adeguatamente appropria-to, potrebbe essere uno strumento importante anche per il supportoall’autocura, nel senso che uno stampato specifico potrebbe aiutarea trasmettere delle informazioni al paziente. Ad esempio, – potreb-be essere consegnata ad un paziente con il diabete il tracciato dellasua emoglobina glicata dove si può vedere se sale, se aumenta o sediminuisce.

Un sistema informativo di questo tipo è assolutamente indispen-sabile per il cuore della Sanità di iniziativa che è la proattività, cioè,per identificare tutti quei pazienti che sono in ritardo sui percorsidiagnostico-terapeutici e che quindi vanno seguiti e richiamati. Unsistema di questo tipo può poi produrre degli indicatori di proces-so, ovvero, delle misure di adesione medie della popolazione di assi-stiti alle raccomandazioni recepite nei percorsi diagnostico-terapeu-tici. Questi report sono ovviamente fondamentali per le attività diself audit che i medici che appartengono al modulo devono fare perdiscutere su come stanno lavorando. Devo dire che già oggi la mag-gior parte dei gestionali, commerciali, a disposizione dei medici,eseguono la maggior parte di queste cose.

C’è una recente delibera della Regione Toscana peraltro che de-stina un’importante quantità di risorse alle Aziende USL per lo svi-luppo dei sistemi informativi della Medicina convenzionata. L’ade-guamento dei sistemi informativi dei medici convenzionati, secondoquesta delibera, deve prevedere tra l’altro la presenza di componen-ti specifici software a supporto anche del progetto sanità di iniziati-va. In particolare è previsto che questi componenti software, che de-vono essere inclusi nei gestionali dei medici di Medicina generale,assicurino la gestione degli elenchi di patologia, la gestione dei pianidi cura e l’invio di dati alle Aziende e alla Regione per il governo eper il monitoraggio del progetto. Perché questo sistema vada davve-ro a supporto del Chronic Care Model bisogna che i gestionali deimedici di Medicina generale siano in grado di fare quello che abbia-mo già raccomandato: la produzione delle liste dei pazienti in ritar-do, il quadro sintetico del singolo paziente, dei report utili per ilsupporto all’autocura, gli indicatori di processo per valutare comestiamo lavorando e poi inviare questi dati alla Regione.

Una volta che questi sistemi lavorano in maniera standardizzata

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su tutti i medici del modulo, gli indicatori di processo prodotti daquesti gestionali potrebbero essere utilizzati per il monitoraggio alposto di quelli prodotti dal sistema informativo, e questo elimine-rebbe la necessità del consenso informato. Attenzione, una voltache c’è un gestionale in grado di trasformare dati in queste informa-zioni utili, bisogna stare attenti agli aspetti organizzativi, nel sensoche bisogna poi pensare come avviene il flusso delle informazioni,chi registra i dati, chi stampa questi moduli, come vengono utilizza-ti, quindi non basta che ci sia il gestionale, bisogna poi organizzarel’utilizzo dell’informazione.

Le attività di self audit e di governo clinico

Se per qualità intendiamo il grado in cui i servizi assicurano l’a-desione alla raccomandazione dei percorsi e raggiungono gli esitidesiderati, allora gli indicatori di qualità sono sia degli indicatori diprocesso che misurano il livello di adesione alle singole raccoman-dazioni cliniche, sia degli indicatori di esito che misurano il livellodi raggiungimento degli esiti di salute sperati. Sono soprattutto im-portanti e utili, per le attività di self audit e di governo clinico, gliindicatori di processo che trasformano i dati disponibili in informa-zioni utili a quantificare i livelli di adesione alle raccomandazionidelle linee guida recepite nei percorsi che fungono da criteri di va-lutazione. Questo per dire che prima bisogna condividere un per-corso e poi si costruiscono gli indicatori di processo; qualche voltaavviene il contrario.

Gli indicatori di processo hanno dei grossi vantaggi rispetto agliindicatori di esito, il vantaggio principale è che sono facilmente in-terpretabili. Gli indicatori di processo hanno anche dei problemipoiché quando uso un set limitato di indicatori di processo, magaria supporto di un sistema incentivante, ci può essere una concentra-zione degli sforzi degli operatori per raggiungere quegli indicatori.D’altra parte gli indicatori di esito hanno una serie di problematici-tà che ne rendono difficile l’utilizzo, per esempio, per una valutazio-ne della performance dei moduli; intanto c’è un basissimo rapportotra segnale e rumore, nel senso che ci sono molti altri determinanti,

L’UTILIZZO DEL SISTEMA INFORMATIVO

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per esempio, del tasso di ospedalizzazione rispetto alla qualità deiservizi offerti. Poi gli indicatori di esito necessitano di metodiche diaggiustamento del case mix che non sono perfettamente ottenibilisulla base dei dati disponibili. Ci sono dei grossi problemi a utilizza-re gli indicatori di esito, molti meno problemi invece ci sono utiliz-zando gli indicatori di processo.

Gli indicatori di processo

Tutti i gestionali utilizzati dai medici di Medicina generale sonoin grado di produrre una serie buona di indicatori di processo, l’im-portante è che questi indicatori siano poi utilizzati in occasione deiself audit. È anche vero che più o meno gli stessi indicatori possonoessere prodotti anche sulla base del sistema informativo, sulla basedei dati correnti e noi li produciamo per il momento aggregati perzona e per ASL e sono disponibili sul sito. Questi sono degli esem-pi, sappiamo la percentuale di pazienti con diabete che fanno l’e-moglobina glicata, la percentuale di soggetti con scompenso che so-no in terapia con aceinibitori e così via. Questi indicatori di proces-so ottenibili sulla base dei dati correnti possono essere utilizzati perla valutazione e la programmazione, ma anche per il self audit e ilgoverno clinico. Gli indicatori di processo sono gli indicatori del-l’Agenzia recepiti nel sistema di valutazione. C’è un progetto regio-nale finalizzato a produrre una serie di misure da rendere obbliga-torie sui profili di salute propedeutici ai piani integrati di salute; nelprofilo di salute, ci devono essere anche questi indicatori di proces-so per informare la programmazione delle attività territoriali sulpiano integrato di salute. Possono essere utilizzati questi indicatoridi processo, calcolati sulla base del sistema informativo, insieme aquelli calcolati dai medici di Medicina generale, per le attività di selfaudit e di governo clinico.

Cosa aggiungono rispetto agli indicatori di processo che i medicidi Medicina generale possono calcolare sulla base dei propri gestio-nali? Innanzi tutto alcune considerazioni anche proprio logistiche:questi indicatori sono calcolabili in maniera economica a tappeto sututto il territorio nazionale a partire da ora, possono essere utilizzati

PAOLO FRANCESCONI

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per una convalida, per un confronto, per un punto di riferimento,del dato dell’indicatore prodotto dal medico di Medicina generale.Quindi, i medici dei moduli escono dall’autoreferenzialità, si posso-no confrontare con uno standard esterno, l’uniformità di calcolopermette il confronto tra medici, tra medici con medie distrettuali,aziendali e regionali, tra Distretto e Distretto e così via. Sono co-munque informazioni complementari rispetto a quelle del medicoperché questi indicatori misurano l’erogato e l’indicatore di proces-so costruito sulla base del dato del gestionale invece misura preva-lentemente il prescritto, quindi sono complementari come informa-zioni.

Questi indicatori di processo potrebbero essere utilmente ag-giunti alla reportistica attualmente utilizzata dai medici di comunitàper le loro attività di governo clinico e con i medici di Medicina ge-nerale. Nel contesto del governo clinico in questo caso si passereb-be da una semplice responsabilizzazione dei medici di Medicina ge-nerale sulle implicazioni economiche dei propri comportamenti intermini di spesa-legittima, però forse non sufficiente, a un sistemadi relazioni tra chi ha responsabilità clinica e chi ha responsabilitàorganizzative basate sulla fiducia, finalizzata al miglioramento dellaqualità dei servizi tramite il raggiungimento di obiettivi condivisi.Questo può essere fatto se non ci si responsabilizza soltanto sui co-sti e sui volumi di attività, ma anche sull’applicazione dei percorsidiagnostico-terapeutici verificata con gli indicatori di processo.

L’UTILIZZO DEL SISTEMA INFORMATIVO

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Gli screening

Marco ZappaIstituto per lo studio e la prevenzione oncologica - ISPO

Gli screening raccomandati rappresentano quelli che la legge at-tuale definisce come LEA, prestazioni sanitarie che devono esseregarantite a tutti i cittadini italiani ovunque risiedano. I LEA sono larisposta alla tendenza alla federalizzazione della sanità, perché oggiin Italia non abbiamo un solo sistema sanitario ma probabilmente21. Vi è una forte autonomia regionale però alcune prestazioni deb-bono essere offerte a tutta la popolazione. Tra queste ci sono gliscreening, che attualmente sono 3:1. Lo screening mammografico in genere effettuato, con cadenza

biennale, fino ai 69 anni, con la tendenza ad un ampliamento del-le fasce di età. L’Emilia Romagna li ha già portati dai 45 ai 74 an-ni di età e molte Regioni, anche la Toscana, nei prossimi anni se-guiranno questa tendenza.

2. Lo screening cervicale mediante paptest, triennale, dai 25 ai 64anni, ma entro i prossimi 5 anni passeremo come test primariodal paptest a quello dell’HPV.

3. Lo screening colonrettale, biennale, fra i 50 - 69 o 74 anni.Lo screening non è un test ma un programma sanitario che si

propone di diagnosticare una malattia in una fase precoce, asinto-matica, o di diagnosticare il suo precursore biologico in modo daottenere o che la malattia non compaia , tipico lo screening cervica-le, oppure una diagnosi precoce che determini un cambiamentodella prognosi., ne modifichi la sua evoluzione.

Perchè si possa pensare di fare un programma di screening ci so-no molte precondizioni. Ad es. non si può fare un programma discreening su tutte le malattie oncologiche, una volta si diceva che lamalattia doveva essere socialmente rilevante, ma anche se interessas-se poche persone può essere oggetto di screening a patto che ci sia-no una serie di condizioni. Una di queste è biologica, se non c’è una

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lunga fase preclinica diagnosticabile, se questa manca, è inutile farelo screening di quella malattia.

Fino a ieri ogni oncologo, ogni medico riteneva che diagnosticarein anticipo fosse un intervento fondamentale, e questo non solo neitumori ma anche in ogni altra patologia, anche se in oncologia que-sta certezza non esiste.

Il test deve essere sufficientemente valido, per specificità,. valore,relativamente poco costoso,anche se questo è discutibile, e relativa-mente accettabile anche da parte della popolazione asintomatica sa-na. Fare lo screening non è fare il test di diagnosi precoce ma unpercorso che prima identifica la popolazione bersaglio, poi organiz-za il suo coinvolgimento e infine si conclude con l’esito positivo onegativo del test. Ci sono molti requisiti essenziali perché il pro-gramma sia organizzato, non è facile individuare i singoli soggetti diuna popolazione bersaglio, quindi liste di nomi a cui attingere, edisporre dei mezzi per assicurare una buona copertura.

Lo screening oncologico è relativamente semplice, deve avere untest di base che è il più diffuso sul territorio, il disturbo che provocaa chi lo fa deve essere minimo; se ci deve essere una grande diffusio-ne di questo test di base, la lettura e gli esami di approfondimentodevono essere il più concentrati possibile. Solo in questo modo siottengono delle efficienze di scala ma anche che la qualità del se-condo livello sia sufficientemente buona.

È necessario affrontare e superare interessi particolaristici cheportano alla divisione delle ASL e dei Distretti; noi dovremmo ac-centrare quanto più possibile i sistemi di lettura dei test, e i sistemiinformatici rappresentano un valido aiuto in questo senso.

Lo screening ottimale sarebbe quello che può essere inviato perposta, come l’hemoccult, in modo che il disturbo per il paziente siaminimo, poi l’accentramento in un solo laboratorio e successiva-mente due, tre Centri regionali per gli accertamenti successivi.

In oncologia, c’è una soglia clinica in cui il tumore si manifesta,selo colgo prima ho buone probabilità di guarirlo .

Per lo screening mammografico, su mille donne che vi si sotto-pongono possiamo trovare 10 tumori; i casi vengono divisi in positi-vi e negativi; tra quelli positivi la probabilità di diagnosticare un tu-more è più alta, tra quelli negativi qualcuno poi si dimostra positi-

MARCO ZAPPA

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vo, in ogni caso si rimanda di due, tre anni la ripetizione del test; su-gli altri eseguo degli esami di accertamento Non esiste un test cheabbia una sensibilità del 100x100, per cui tutti i positivi sono tumo-ri mentre i negativi non lo sono.

A questo punto volevo accennare a tre aspetti controintuitivi sucui è bene riflettere.

Uno: non è del tutto vantaggioso diagnosticare con anticipo untumore. Infatti, non è del tutto vero che il prolungamento della so-pravvivenza corrisponde ad una riduzione di mortalità perché ci so-no 3 bias su cui riflettere:c’è un inizio della malattia, e non solo on-cologica, dopo 5 anni dalla comparsa dei sintomi e magari dopo 5anni si verifica il decesso. Se faccio lo screening due anni prima dellacomparsa dei sintomi, la donna muore alla stessa data, cioè soprav-vive 7 anni perché l’ha scoperto prima, ma la sopravvivenza noncambia. e magari ha vissuto quei due anni in più con l’ansia di avereun tumore. L’anticipo diagnostico incrementa artificialmente la so-pravvivenza.

Di tumori della mammella ne esistono varie famiglie, alcuni a ra-pida crescita, altri a lenta. Un passaggio di screening tende a coglie-re più facilmente i tumori a rapida crescita che quelli a lenta perchéquesti ultimi diventano sintomatici con più tempo e lo screeningpuò non rilevarli.

Il terzo aspetto, che diventa sempre più il nuovo paradigma dellamedicina oncologica e non solo, è che noi medici pensiamo che lacrescita di un tumore è ineluttabile, anche se più o meno rapida, eche se non trattato porta alla morte. Ma tutto questo non è poi tan-to vero, perché abbiamo tumori che crescono molto velocemente,altri più lentamente e altri ancora che non crescono o addirittura re-grediscono. Allora uno screening a questo punto non servirà per iltumore che è così veloce nella crescita da aver superato la speranzadi fermarlo, colgo quello che è in fase intermedia e magari ne cam-bio la sorte, colgo però anche il tumore che nella vita di quella per-sona non sarebbe mai comparso perché non sarebbe mai diventatomanifesto.

Allora, nelle diagnosi precoci, e non solo dei tumori, , tendo aiperdiagnosticare anche forme che in realtà non avrebbero datoproblemi nella vita nel paziente.

GLI SCREENING

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Il problema della sovradiagnosi, che è scoppiato per il tumoredella prostata, ora si sta proponendo anche per ogni altro tipo di tu-more, poiché si è accertato che a volte abbiamo di fronte forme chenon sarebbero mai arrivate alla osservazione clinica. Questo ha ri-svolti negativi significativi: quando diagnostico in anticipo una ma-lattia, tendo a trattarla e magari non era necessario. Questo pensie-ro, emerso da una decina di anni, tende a cambiare l’impostazionedi un trattamento; la sovradiagnosi è tanto maggiore quanto più èavanzata l’età della persona perché la sua speranza di vita è più cor-ta e le cause di morte sono maggiori.

Gli svantaggi degli screening

Riprendiamo l’esempio dello screening per il tumore della mam-mella: 500 donne risultano positive, 9500 negative,; tra le positive siaccertano solo 500 cancri, così come se ne colgono 20 fra le 9500negative. Nei falsi positivi si determina ansia e paura in attesa delladiagnosi definitiva,esami invasivi, l’idea nella paziente di essere amaggior rischio,costi economici e trattamenti inutili che appesanti-scono il lavoro dei servizi diagnostici. Altrettanto per i falsi negativi:una falsa rassicurazione, dei ritardi diagnostici magari con problemimedico legali.

Il falso positivo rasserena il paziente, i veri positivi però permet-tono un trattamento in tempo reale che può salvare la paziente.

Vorrei anche approfondire il problema di una medicina fatta suimalati ed una sui sani. Nel primo caso è la persona che sospetta diessere malata, si rivolge al medico che è tenuto a fare tutto il possi-bile per confermare o escludere una diagnosi. I servizi sanitari invi-tano una popolazione sana a sottoporsi a test per individuare unamalattia nella sua fase preclinica, ma questo comporta effetti colla-terali negativi notevoli. Dobbiamo scegliere di fare pochi esami apoche persone per poter dire che la maggioranza in quelli positividi avere un tumore è relativamente alta, così come è bassa quella diessere un falso negativo.

I più importanti ricercatori europei concordano sul fatto che iprogrammi attualmente proposti in tutti gli Stati europei portano

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GLI SCREENING

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ad avere un bilancio più a favore dei benefici che dei danni. Primadi proporre uno screening si valutano vantaggi e svantaggi, e se i pri-mi sono superiori, lo si programma. Chi fa lo screening con regolari-tà diminuisce il suo rischio di morte almeno del 50 per cento. E’possibile che si crei un problema di sovradiagnosi del 5,10% e a li-vello di popolazione questo viene generalmente giudicato positiva-mente.

L’informazione

L’informazione va affrontata diversamente rispetto al passato da-to che è difficilissimo dare un’informazione corretta; per esempio,la sovradiagnosi, che è difficile da spiegare non solo al paziente maanche alla comunità medica che lo ritiene più un problema statisti-co. La Regione Toscana sta distribuendo attraverso i medici di baseun foglio sui sintomi che consigliano di fare un PSA ed oggi il 50per cento della popolazione ultrasettantenne in Toscana fa questotest.

La diagnosi precoce dei tumori attualmente è diffusisissima; cisono mezzi di informazione, di pressione più o meno nobili checondizionano la popolazione,ma dato che questa diagnosi precoce èdisponibile ed è in genere benefica, qual è il miglior modo di farla?

Direi l’approccio spontaneo, il paziente che si rivolge al propriomedico per decidere quali esami fare e con quale periodicità. Nelloscreening organizzato si centrano gli obiettivi di diagnosticare in an-ticipo e trattare con successo forme di tumore che si sarebbero ri-solte con la morte del paziente.

Poi c’è la sostenibilità dell’intervento, affidata in gran parte alrapporto con il medico di base, e l’equità di accesso.

Un intervento sostenibile potrà essere equo, altrimenti sarà avantaggio solo di poche fasce privilegiate della popolazione. Nelloscreening opportunistico è il singolo professionista che raccomandal’esame, magari con cadenza più breve rispetto a quelli organizzati,si fanno esami aggiuntivi, vi è una ricerca di massima sensibilità, lepersone che gli si rivolgono hanno sintomi o sono asintomatiche.

In quello organizzato i protocolli sono prestabiliti e si deve man-

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MARCO ZAPPA

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tenere un equilibrio fra sensibilità e specificità. Quello che accadenello screening opportunistico non rientra nel materiale di studio,inquello organizzato il monitoraggio viene fatto in tutte le fasi.

Vi è uno studio, pubblicato su JAMA, sulla comparazione fra unprogramma di screening opportunistici negli USA e un programmaorganizzato inglese. Le differenze sono grandissime, in quello op-portunistico negli USA il tempo di intervallo era di 18 mesi, in quel-lo inglese, di 36.

Il tasso di specificità è più alto negli USA rispetto a quello ingle-se, ma alla fine i casi rivelatisi positivi dopo una biopsia sono moltosimili nei due Paesi

Al contrario, se si è fatto una biopsia chirurgica ed è risultata ne-gativa, quindi si è sbagliato a richiederla, i tassi sono doppi negliUsa rispetto a quelli inglesi. Avere un atteggiamento meno specificoha determinato in questo caso, a parità di sensibilità, costi maggio-ri,perché molte più donne sono state mandate a fare una biopsia,con un trauma che poteva essere evitato..Negli Usa ogni mille don-ne ne sono state richiamate 400 per un approfondimento, contro le133 dell’Inghilterra, ma il numero dei cancri confermati alla fine èsimile.

A proposito dell’equità ci sono moltissimi studi che dimostranoche i programmi organizzati riescono a ottenere un recupero delladiseguaglianza in termini di salute che esiste nella popolazione e chespontaneamente non otterremmo.

Lo screening organizzato rispetto all’approccio spontaneo è al-meno altrettanto efficace, più efficiente nel senso che è più specifi-co, ma assicurando un percorso di qualità minore, soprattutto a li-vello di accoglienza è percepito come peggiore dalla popolazione, enon di qualità,nonostante che i dati oggettivi risultino a favore delprogramma organizzato.

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Le norme fondamentalidel Codice deontologico

Antonio PantiOrdine dei medici di Firenze

Il tema della libertà, dignità, autonomia dei pazienti, va affronta-to con una prima precisazione: coloro che si rivolgono a noi sonocittadini, come il nostro Codice deontologico li definisce proprioper ricordare a noi professionisti che comunque e sempre hannodavanti dei cittadini. Quali sono i valori guida dell’agire del medi-co? Il primo sembra ovvio: l’efficacia delle cure, la scelta di utilizza-re quello che può risultare più utile per il paziente, il secondo è il ri-spetto della sua autodeterminazione. Il terzo è l’equità, il buon usodelle risorse.

Stiamo attraversando un periodo di grande polemica con Far-mindustria perché noi abbiamo sostenuto, ed il nostro parere è di-ventato delibera regionale, che a parità di indicazioni il medico deveindicare il farmaco che costa meno. Sembra ovvio, ma non lo è dalpunto di vista della Farmindustria; nel prontuario un farmaco costa100 e uno, con le stesse indicazioni terapeutiche, costa 800. Il 20per cento di questa cifra è da attribuirsi con molta probabilità allespese di marketing, su cui incide anche l’informazione-pressioneche si esercita sui medici per convincerli a prescrivere quel farmaco.

Il Codice ha scelto una logica perché nel rispetto della collettivitàdei cittadini queste risorse spese in più vengono sottratte ad altreiniziative sanitarie. Sottolineo che i valori riportati nel nostro Codi-ce derivano da quelli riportati nella Costituzione.

È stato fatto notare che il processo legislativo si pone in contra-sto con alcune norme che sono nel Codice, un esempio è rappresen-tato dalla legge Calabrò sul fine vita.

La nostra impressione come medici, e l’abbiamo dichiarato nellaCarta di Terni di circa due anni fa,è che ci si muova contro i valoridel Codice che, almeno alcuni, sono ancora quelli ippocratici, ante-riori alla Costituzione di duemilacinquecento anni. Ma abbiamo

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sempre sostenuto che il maggior bene per il paziente è l’efficaciadelle cure e, per dirla modernamente, questo ci porta a difenderlodal risk management, aggiungendoci il concetto di giustizia., e que-sti sono valori di equità sociale contenuti nella Costituzione, che èlaica perché stabilisce determinati diritti per tutti

Tra i valori da tutelare a favore del paziente, ad autonomia sareb-be più giusto sostituire autodeterminazione perché nel primo casosi può fare riferimento ad aspetti della malattia; questi concetti han-no un valore deontologico ma nel realizzarli, ci rendiamo conto chehanno anche un valore politico perché non si riconosce al cittadinolibertà senza autodeterminazione e senza il rispetto della dignità.

Riprendendo la storia esemplare di Eluana Englaro, a seguito diuna trasmissione TV ci sono state molte richieste da parte di spetta-tori cattolici di rimandare in onda alcune dichiarazioni del padresulla questione dell’accanimento terapeutico, del diritto a decideresulle cure che ci vengono effettuate. In questo contesto si diceva an-che: “dobbiamo dar voce alle mille Eluane che invece vogliono so-pravvivere. Nessuno contesta l’obbligo di chi chiede assistenza, ilCodice dice che se vediamo nel paziente un cittadino il medico deverispettare la sua autodeterminazione,. che è la condizione di basedella sua dignità, il suo diritto a non subire prevaricazioni. Nessunmedico si comporterebbe diversamente perché non curare chi lo ri-chiede significherebbe esercitare l’eutanasia attiva; alle mille perso-ne nelle condizioni di Eluana diamo voce per assisterli meglio”.

Se si scorre il nostro Codice sorvolando sugli aspetti di “galateo”,di buona creanza con i cittadini, dove si danno regole di comporta-mento, vediamo che in primo piano vi è il principio che il doveredel medico è la tutela della vita. Per fortuna è stato approvato re-centemente all’unanimità il controllo del dolore in qualsiasi conte-sto il medico si trovi ad operare. Il medico, nell’esercizio della pro-fessione deve attenersi alle conoscenze scientifiche, per garantirel’efficacia delle cure, che comprende anche i livelli di assistenza, nelrispetto della dignità e della libertà della persona.

Per la prima volta abbiamo esplicitato i valori dell’agire medicocome filosofia,o meglio etica della medicina. Se questa è la logicavaloriale che ispira il Codice, è evidente che la libertà della dignitàdella persona ricorre in tutti gli articoli che affrontano questo tema.

ANTONIO PANTI

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Ad esempio, quando leggo che il medico è tenuto a eliminare ogniforma di discriminazione per garantire a tutti i cittadini la stessapossibilità di accesso, disponibilità, utilizzazione delle cure. In que-sto modo diamo al medico non un compito di politica generale, ma,qualsiasi sia la scelta del legislatore, il compito preciso di collabora-re a eliminare ogni discriminazione.

Quali sono i determinanti di salute e qual è la risposta che l’orga-nizzazione offre per ottenere migliori risultati? Ricordando che nontutti hanno le stesse opportunità di salute, ma che hanno lo stessodiritto di essere curati: accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità.Questo significa in qualche modo che noi medici, grazie a questoCodice, aderiamo anche a 2 principi fondamentali dell’art. 32 dellaCostituzione: che in un Paese civile si esercita rispettando l’univer-salità del diritto e l’uguaglianza dell’accesso. Dobbiamo garantireche il diritto è universale, non per nulla nell’art. 32 non si parla dicittadino ma addirittura di individuo, non di persone o di cittadini,e questo deriva dall’eguaglianza dell’accesso.

Le leggi le fa il Parlamento eletto dai cittadini e noi medici nonpossiamo che adeguarci.

Il segreto professionale, legato alla riservatezza dei dati personali,anticipa il concetto della privacy che è un diritto riservato esclusiva-mente al cittadino.

Prescrizione e trattamento terapeutico: il medico ha autonomianella scelta di ogni presidio terapeutico, ma il Codice la riconoscefatta salva la libertà del paziente di rifiutarla. io sono libero nel mo-mento che sono oggetto del rispetto degli altri. Le prescrizioni deitrattamenti devono essere ispirate ad aggiornate acquisizioni scienti-fiche tenuto conto dell’uso appropriato delle risorse sempre perse-guendo il beneficio del paziente secondo l’idea di equità. Libertàdel paziente ed equità delle cure sono alla base dell’agire quotidianodel medico nel momento in cui decide un trattamento terapeutico.

Il Codice sembra parlare dell’etica applicata alla deontologia insituazioni di confine, in cui si cimenta il rapporto più moderno framedicina e società: fine vita, nascita pretermine, interruzione volon-taria di gravidanza, la sperimentazione sull’uomo.

Ma qui si sta parlando del banale agire del medico nel suo am-bulatorio, è l’etica della quotidianità che non dobbiamo mai dimen-

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ticare; così come devono ricordarlo i servizi infermieristici e di fisio-terapia. Il Codice quando parla di prescrizioni non si riferisce solo aquelle di alta chirurgia, ma anche a quella degli antipertensivi.

Riferendomi all’art.14, quando dico che il medico opera per ga-rantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e contri-buire all’adeguamento dell’organizzazione sanitaria anche attraversola segnalazione degli errori, si opera sempre difendendo la libertà ela dignità del paziente,tanto è vero che tali strumenti rispettano laprivacy, costituiscono una esclusiva dimensione tecnico-professiona-le, l’identificazione dei rischi, alla correzione delle procedure e allamodifica dei comportamenti; l’articolo potrebbe avere anche un fi-ne utilitaristico, attenzione alle malpractice, potrebbe essere la tra-duzione moderna del principio ippocratico “primum non nocere”.Ma bisogna tenere conto della rischiosità della Medicina moderna,consapevolezza che non può tenere conto solo delle cose scritte suilibri, ma dei desideri, delle performances, del giovanilismo, delleprestazioni estreme.

Il medico deve orientare la propria attività professionale al ri-spetto dei diritti fondamentali della persona, una proclamazione sucui il Codice ribatte continuamente. Noi medici abbiamo chiestouna sorta di riserva, perché il rischio è di diventare come gli ameri-cani che hanno lo stewardship per cui il medico alla fine diventa unesecutore dei desideri del paziente, mentre la medicina include unaquantità di aspettative che a volte possono comportare rischi di cuiil medico ha il dovere di informare il paziente. e se non è d’accordosu una prescrizione per i suoi convincimenti clinici e la sua coscien-za, ha il diritto di spiegarne le ragioni.

C’è il diritto del medico di rifiutare una prestazione, ma anchequello del cittadino di ottenerla se la legge gliela consente.

Il medico da’ informazioni al cittadino, le più esaurienti e chiarepossibile, sulla base di queste, il cittadino consente o non consente,si raggiunge un accordo per cui le cure possono anche essere inter-rotte in qualsiasi momento per volontà del paziente.

La dignità della persona deve essere rispettata anche quando, neidovuti limiti, il paziente è in trattamento sanitario obbligatorio, o èdetenuto in carcere, oppure fa lo sciopero della fame, che è una suascelta su cui il medico non può intervenire con azioni costrittive.

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LE NORME FONDAMENTALI DEL CODICE DEONTOLOGICO

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Il Codice deontologico moderno viene spesso utilizzato dalla ma-gistratura, perché il legislatore non può decidere come si cura unapersona e questo concetto è ribadito in moltissime sentenze.

Ecco perché la Federazione ha assunto una posizione precisa checome ipoteca su qualsiasi legge si debba fare sostiene che in questomomento abbiamo bisogno di una legislazione estremamente miteche dia limiti di garanzia al cittadino, ma è la deontologia che deveessere forte, è il nostro agire quotidiano con il cittadino che devegarantire una zona di libertà: libertà come indipendenza del medi-co, del cittadino e in questa interazione mantenere come guida que-sti valori fondamentali: l’efficacia, l’autodeterminazione, l’equità.

Quando parliamo dei problemi fondamentali della sanità, i de-terminanti di salute, l’organizzazione sanitaria, i livelli a cui voglia-mo dare assistenza, l’uguaglianza di fronte all’accesso alle cure, il di-ritto alla tutela della salute, dobbiamo tener conto che abbiamo unCodice deontologico alle spalle in cui sono state fatte delle scelteche siamo tenuti comunque a rispettare.

Codice di deontologia medica del 2006

Articolo 3Doveri del medico

Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica del-l’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignitàdella persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, dinazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo diguerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.

La salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizio-ne cioè di benessere fisico e psichico della persona.

Articolo 6 Qualità professionale e gestionale

Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispettodell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle ri-sorse.

Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di dis-criminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesseopportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure.

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ANTONIO PANTI

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Articolo 13Prescrizione e trattamento terapeutico

La prescrizione di un accertamento diagnostico e/o di una terapia impe-gna la diretta responsabilità professionale ed etica del medico e non puòche far seguito a una diagnosi circostanziata o, quantomeno, a un fondatosospetto diagnostico.

Su tale presupposto al medico è riconosciuta autonomia nella program-mazione, nella scelta e nella applicazione di ogni presidio diagnostico e te-rapeutico, anche in regime di ricovero, fatta salva la libertà del paziente dirifiutarle e di assumersi la responsabilità del rifiuto stesso.

Le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate esperimentate acquisizioni scientifiche tenuto conto dell’uso appropriatodelle risorse, sempre perseguendo il beneficio del paziente secondo criteridi equità.

Il medico è tenuto a una adeguata conoscenza della natura e degli effettidei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e dellereazioni individuali prevedibili, nonché delle caratteristiche di impiego deimezzi diagnostici e terapeutici e deve adeguare, nell’interesse del paziente,le sue decisioni ai dati scientifici accreditati o alle evidenze metodologica-mente fondate.

Sono vietate l’adozione e la diffusione di terapie e di presidi diagnosticinon provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazio-ne e documentazione clinico-scientifica, nonché di terapie segrete.

In nessun caso il medico dovrà accedere a richieste del paziente in con-trasto con i principi di scienza e coscienza allo scopo di compiacerlo, sot-traendolo alle sperimentate ed efficaci cure disponibili.

La prescrizione di farmaci, sia per indicazioni non previste dalla schedatecnica, sia non ancora autorizzati al commercio, è consentita purché la lo-ro efficacia e tollerabilità sia scientificamente documentata.

In tali casi, acquisito il consenso scritto del paziente debitamente infor-mato, il medico si assume la responsabilità della cura ed è tenuto a monito-rarne gli effetti.

È obbligo del medico segnalare tempestivamente alle autorità compe-tenti, le reazioni avverse eventualmente comparse durante un trattamentoterapeutico.

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La libertà e i diritti dei pazientiAlfredo Zuppiroli

Commissione regionale di Bioetica

Nel contesto occidentale in cui operiamo i diritti si possono stu-diare, esercitare, riconoscere, promuovere basandosi sull’evoluzionedei Codici che si sono susseguiti a partire dalla fine del Settecento,quando quasi contemporaneamente alla Rivoluzione francese abbia-mo visto la Dichiarazione d’Indipendenza e la successiva costituzio-ne degli USA. E progressivamente il tema dei diritti è entrato in tut-ta la regolamentazione della società civile, compresa la sanità.

In Italia non possiamo che partire dalla nostra Costituzione, sotto-lineando un aspetto fondamentale: la salute è un diritto se l’interpre-tiamo dal punto di vista del singolo, ma è anche un interesse dellacollettività. Vorrei sottolineare che l’art. 32 è l’unico della Costituzio-ne in cui si parla di individuo e non di cittadino, per evidenziare chela salute è un bene talmente importante che prescinde dal diritto dicittadinanza. Ricordo a questo proposito la meschina proposta fattain Parlamento dalla Lega di obbligare i sanitari a denunciare quellepersone che si fossero presentate in Pronto Soccorso, prive di unpermesso di soggiorno… Il secondo comma dell’art. 32 della Costi-tuzione stabilisce inoltre che c’è un alt insuperabile alle prestazionimediche sulla nostra salute, che si basa su due snodi essenziali. Dauna parte, nessuno può essere obbligato a un determinato trattamen-to sanitario se non vi acconsente, e dall’altra, che i trattamenti medicinon possono violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Riferendoci agli art. 2 e 3, prendiamo atto che la Repubblica ri-conosce dei diritti, quali l’autonomia, la libertà e la dignità dei pa-zienti, che ormai appartengono alla nostra cultura grazie a due seco-li di Illuminismo. L’art. 3, ripreso quasi testualmente dal Codicedeontologico dei medici, ribadisce che i cittadini sono eguali davan-ti alla legge e sono portatori di eguali diritti senza distinzione di ses-so, razza, lingua, di condizioni personali e sociali, che invece ancora

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influiscono pesantemente nel determinare gli esiti di salute. Sarebbecompito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economi-co e sociale che consentono di esplicitare questi diritti., ma tra lateoria della Costituzione e la realtà c’è ancora molta distanza. Un’al-tra dichiarazione basilare, a cui fare riferimento, è quella di AlmaAta sulle cure primarie che sottolinea come la concezione della salu-te non è esaurita da quella di assenza malattia ma investe il benesse-re di tutta la persona.

Purtroppo non bastano gli enunciati, Giulio Alfredo Maccacarodette avvio negli anni 70 ad una collana, “Medicina e potere”, editada Feltrinelli, e possiamo purtroppo verificare che in tanti aspettisiamo ancora fermi a quel tempo. Maccacaro sottolineava che la clas-se sociale era un potente determinante di salute, e si moriva di classe,come era accaduto nell’affondamento del Titanic .Eppure il nostroCodice deontologico ha colto in pieno l’aspetto del riconoscimentodei diritti stabilendo che il medico è tenuto a collaborare per elimi-nare ogni forma di discriminazione, non tanto per realizzare quelprincipio utopistico “salute per tutti uguale per tutti”, ma l’accesso,la disponibilità, l’utilizzazione e la qualità delle cure. Ma quando noiparliamo di riconoscere la dignità e l’autonomia delle persone, ri-schiamo di limitarci a degli enunciati teorici se poi nella nostra orga-nizzazione non facciamo sì che queste si possano esplicare.

Vorrei toccare ora un altro aspetto che fa parte della nostra cul-tura degli ultimi due secoli, grazie all’evoluzionismo. Soltanto lebiodiversità facilitano l’evoluzione delle specie, quelle che non con-templano al loro interno questa biodiversità sono destinate a soc-combere. Dunque, anche le organizzazioni devono saper valorizzarequeste differenze per arrivare ad evolversi. Ma differenza non devesignificare disparità. Ed è importante studiare le disparità di salutenon solo tra diverse aree geografiche, ma anche all’interno di conte-sti apparentemente omogenei, quale ad esempio la nostra Regione,o una città. Il sito Worldmapper.com ci offre un’interessante ed im-mediata visualizzazione grafica delle differenze tra i vari continentied i vari Stati, con le superfici sovvertite rispetto alla reale estensio-ne geografica (vedi l’esempio del reddito procapite). Anche un dia-gramma cartesiano ci rende immediatamente conto, mettendo sulleordinate il livello di salute e sulle ascisse la ricchezza, della relazione

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direttamente proporzionale fra aspettativa di vita e disponibilitàeconomiche. Una salute equa, che quindi rispetti l’autonomia e ladignità di ogni cittadino, deve derivare da cure uguali per tutti, matenendo ben presente la verità di Don Milani che “non c’è niente dipiù iniquo di una scuola uguale per tutti quando tutti non sonouguali”. Educazione e sanità in questo campo vanno a braccetto.Non cure estese in modo uguale a tutti, ma dare a tutti uguali pro-babilità di buona salute.

Vorrei ora sottolineare l’importanza di un articolo del nostro Co-dice (il 5) che pochi di noi conoscono oppure che non tengono benpresente nel lavoro quotidiano, che non è solo di tipo clinico, madovrebbe chiamarci a riflettere sul senso che ha il nostro essere me-dici oggi. Noi siamo infatti chiamati a promuovere una cultura civi-le tesa all’utilizzo appropriato delle risorse naturali per garantire al-le future generazioni un ambiente vivibile. Dovremmo favorire epartecipare alla prevenzione e alla tutela della salute, promuovendonon solo la salute individuale ma anche quella collettiva; e poi ma-gari nei nostri Ospedali o nelle scuole vediamo ancora macchinetteche erogano junk food al posto di cibi più sani.

Ancora una altro articolo del Codice deontologico, il 6, che c’im-pegna a quella che oggi è la mission dell’essere medico Al mediconon basta infatti più fare il bene del paziente, ciò che in qualchemodo si può sintetizzare nell’efficacia delle cure, ma deve farlo nelrispetto della sua libertà, dei suoi valori, della sua dignità. E poi,“last but not least”, l’aspetto dei vincoli che abbiamo nell’eserciziodella nostra professione, con l’uso appropriato delle risorse. I vinco-li non sono da interpretare solo dal punto di vista contabile-finan-ziario, ma uso appropriato delle risorse significa anche saper darequella prestazione solo alla persona che ne ha veramente bisognosecondo il fondamentale principio di costo-opportunità, per cui, secomunque erogo una cura in un determinato tempo a quel determi-nato paziente, è vero che in quel momento l’ho sottratto ad un altroe quindi devo essere molto attento nel valutare la giustezza dellamia scelta senza farmi troppo condizionare dal vincolo economico.Come medico impegnato nella responsabilità gestionale – coordinoil Dipartimento cardiologico dell’ASL in cui lavoro – mi rendo con-to che stiamo confondendo lo strumento con il fine, veniamo richia-

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mati a modificare la nostra organizzazione sulla base di un obiettivoche è il pareggio di bilancio, così che l’aspetto economico non è piùstrumento di oculata gestione ma, per qualcuno, il fine a cui unifor-mare le nostre politiche. In un’ottica diacronica, nessuno di questiprincipi – efficacia, autonomia, efficienza, appropriatezza e giustiziasociale – va visto gerarchicamente.

Le decisioni di fine vita

Cominciamo ad addentrarci nel contesto di tipo normativo cheriguarda le decisioni che insieme ai nostri pazienti siamo chiamati aprendere alla fine della vita. Di nuovo, riferiamoci al nostro Codicedeontologico che, prima di entrare nel tema del rapporto medico-paziente e del consenso informato, tratta dell’accanimento diagno-stico anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove le haespresse, ovvero delle sue “dichiarazioni anticipate di volontà”.

Il consenso informato oggi è entrato pienamente nella routinequotidiana professionale. Nasce dopo la seconda guerra mondiale,dopo la tragedia della Medicina nazista, con il processo di Norim-berga, dove però si parla solo di consenso volontario e non informa-to e la definizione riguardava solo la sperimentazione. Eravamo an-cora nella necessità di affermare che il consenso era necessario, sedovevamo usare dei soggetti umani per la ricerca. Se cominciamo ascorrere le varie versioni del nostro Codice deontologico, si vedeche nel 1978, a trent’anni dalla promulgazione della Costituzione,non si parlava assolutamente di consenso informato. Nell’ambitodella comunicazione di una diagnosi infausta il nostro Codice ci ob-bligava a non nascondere la diagnosi alla famiglia mentre ci consen-tiva di non rivelarla al paziente. Undici anni dopo, nella versione del1989, la dinamica della relazione medico-paziente resta sempreorientata ad un atteggiamento di tipo paternalistico, perché siamosempre obbligati a comunicare la diagnosi ai congiunti ma non almalato. Poi nel 1992 esce un pronunciamento del Comitato nazio-nale per la Bioetica, che fu considerato da una parte del mondo me-dico come un’invasione indebita. Vi si affermava che il consenso in-formato significava “una più ampia partecipazione di tutti i cittadini

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alle decisioni che li riguardano” nella sfera della propria salute. Sidichiarava di ritenere tramontata la stagione del paternalismo medi-co, mentre noi medici ancora ci sentivamo di ignorare le scelte e leinclinazioni del paziente, addirittura a trasgredirle quando fosseroin contrasto con le indicazioni cliniche in senso stretto.

I medici seppero leggere tempestivamente questo warning chearrivava dal Comitato nazionale di Bioetica ed infatti venne aggior-nato il Codice deontologico con l’introduzione di un articolo dedi-cato al consenso informato. Eravamo nel 1995 e si colmava così lamancata saldatura a quel secondo comma dell’articolo 32 della Co-stituzione che stabilisce che nessuno può intervenire sulla nostrapersona se non lo vogliamo. Un ulteriore aggiornamento è arrivatonel 1998, a testimoniare la rapidità di come la cultura della societàcivile cambia su questi temi, laddove si precisa che il consenso in-formato è valido quando il paziente è in grado di intendere e di vo-lere e di esprimersi liberamente, ma quando ha perso la capacità re-lazionale, chi decide? Il nostro Codice dunque afferma che nonpossiamo non tenere conto di quanto precedentemente manifestatodal paziente, e nell’ultima versione, tuttora vigente, del 2006 quel“non può non tener conto” viene sostituito con “deve”: Quindi l’at-tuale Codice ci obbliga a tener conto di quanto la persona incapacedi comunicare aveva deciso rispetto alla parte terminale della pro-pria vita. Tutto questo riprende una legge della Repubblica del2001, che a sua volta sottoscrive una decisione comunitaria, la“Convenzione di Oviedo” del 1997, che obbliga gli Stati membri aratificarla. C’è molta disinformazione a proposito di leggi sul finevita perché si ritiene che ci sia un vuoto legislativo mentre come ab-biamo visto c’è un esauriente percorso legislativo che norma la que-stione. Ma la tendenza è quella di interpretare strumentalmente lalegge del 2001, soprattutto quando si legge la traduzione letteraledella convenzione di Oviedo che dice testualmente: “Si terranno inconsiderazione i desideri della persona”.

E veniamo al caso di Eluana Englaro: la ragazza muore nel feb-braio 2009, l’incidente risaliva al gennaio 1992. Per diciassette lun-ghissimi anni il Parlamento non ha voluto, saputo o potuto legifera-re sul tema. In un mese e mezzo dal suo decesso il Senato approva ildisegno di legge Calabrò, un obbrobrio giuridico, medico ma so-

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prattutto umano. Un esempio emblematico: nel titolo la legge parladi “alleanza terapeutica, consenso informato, dichiarazioni anticipa-te di trattamento”, salvo disconoscere tutto questo e risultare di fat-to una legge “contro” le buone intenzioni dichiarate nel titolo. Bastil’articolo 7, dove testualmente si legge: “Il medico tiene in conside-razione gli orientamenti espressi dal paziente sul proprio fine vita eannota sulla cartella le ragioni per cui ritiene di seguirle o meno”.

Il Comitato nazionale per la Bioetica nel 1992 stigmatizzava ilnostro paternalismo medico perché “ci sentivamo legittimati, in vir-tù del mandato che la nostra professione ci dava, anche a trasgredi-re le indicazioni del paziente”…E dopo 20 anni si propone una leg-ge del genere! La magra consolazione è data dalla certezza che, se equando questa legge sarà definitivamente approvata, la Corte Costi-tuzionale la boccerà in gran parte dei suoi articoli.

Non siamo solo noi medici che abbiamo valorizzato nel nostroCodice la dignità e l’autonomia dei nostri pazienti; nell’ultimo Co-dice degli infermieri, del 2009, si stabilisce che è necessario porredei limiti ad interventi che non siano proporzionati alla condizioneclinica del paziente, ma anche coerenti con la sua concezione sullaqualità della vita. Per ogni paziente c’è una illness e una sicknesscompletamente diverse dalla disease e quando l’assistito manifestala sua volontà anche l’infermiere è obbligato a tenerne conto.

Nel 2009 in un Town Meeting sul cosiddetto testamento biologi-co svoltosi in Regione Toscana, e che vedeva sul 51 per cento deicittadini di dichiarata fede cattolica, soltanto il 4 per cento era d’ac-cordo con la legge Calabrò, quando va a disciplinare il caso di con-trasto tra le volontà del cittadino e gli orientamenti del medico. Il75 per cento dei partecipanti era invece apertamente a favore del ri-spetto della volontà del paziente.

In sintesi, il mio fermo pensiero è che in un contesto civile, dun-que pluralistico, la fede religiosa può, per qualcuno deve, avere va-lore per le scelte del singolo, ma non può in alcun modo farsi leggeper la totalità dei cittadini, compresi quelli che in quella fede non siriconoscono. E poi, a guardare bene, lo squallido dibattito che staalimentando l’iter della legge in Parlamento non ha niente di “reli-gioso”: la fede è tutta un’altra questione, qui siamo di fronte ad unindecoroso spettacolo di scambio di interessi tra Poteri.

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Considerazioni conclusive

Siamo di fronte a una sfida culturale importante, i problemi cheabbiamo oggi non li possiamo risolvere all’interno della stessa cultu-ra che li ha generati. e che non sa o non vuole riconoscere la com-plessità degli aspetti, alcuni dei quali abbiamo affrontato in questarelazione. Dall’aziendalizzazione della sanità, iniziata nel 1992, si staassistendo ad una progressiva contrazione dei tempi di relazione edi cura, laddove invece c’è sempre più bisogno di ascolto e di co-municazione. Il consenso informato è ridotto ad una mera praticaburocratica, il totem della visione aziendalistica ci ha imposto ilprincipio che se anche la salute non ha prezzo ha comunque molticosti. A furia di misurare il prezzo delle prestazioni stiamo perden-do di vista il valore della Cura. E mentre siamo costretti a contaretutto, ci dimentichiamo che non sempre ciò che “conta” può essere“contato”, e si rischia di smarrire progressivamente il valore dell’au-tonomia, della libertà e della dignità delle persone.

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La sperimentazione clinicaClaudio Galanti

Commissione regionale di Bioetica

Sul tema del consenso, da parte dei pazienti inseriti in una speri-mentazione clinica, si è fatto spesso riferimento al processo di No-rimberga; in realtà esistono dei precedenti, perché il problema sipone da qualche centinaio di anni e non possiamo ancora definirlodel tutto risolto.

Nel 1767 troviamo una prima denuncia di un paziente per manca-ta informazione; nel 1871 si parla di “vizio di consenso e di informa-zione”. Nel 1900 il Ministero prussiano per gli affari religiosi, educa-tivi e medici emana una direttiva con cui stabilisce che gli esperi-menti medici possono essere condotti solo su adulti competenti, cheabbiano dato il consenso dopo un’adeguata spiegazione delle conse-guenze avverse. Questa direttiva era in vigore anche durante il nazi-smo e la sperimentazione condotta nei campi di concentramento.

Ci sono precedenti che riguardano anche altri Paesi. Il nostro daquesto punto di vista arriva in ritardo, e fino a qualche tempo fa ilreclutamento, per uno studio clinico, di pazienti ospedalizzati che,magari, non rispondevano ai tradizionali trattamenti, veniva fattosemplificando l’informazione ed il consenso col proporre agli stessi“nuovi importanti farmaci americani”.

È del 1914 una sentenza USA in cui si dichiara che ogni uomo inetà adulta, capace di intendere e di volere, ha diritto di decidere co-sa può essere fatto sul proprio corpo e un chirurgo che opera senzail consenso del paziente commette oltraggio per cui sarà perseguibi-le per danni.

C’è da sottolineare che i farmaci del tempo, al contrario di quelliattuali, non richiedevano le precauzioni d’uso, né l’attenzione alleinterazioni e al rischio di effetti indesiderati come quelli attuali, di-ciamo che erano considerati meno “pericolosi” e i danni avvenivanosoprattutto con gli interventi chirurgici.

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Il Ministero del Reich emana linee guida che distinguono ricercaa scopi terapeutici o non terapeutici, così veniva classificata la speri-mentazione umana, per la quale si precisava che occorreva il con-senso del soggetto, preceduto da adeguata informazione. Già allorasi parlava, sostanzialmente, di consenso informato; nel ’38 viene in-trodotto un emendamento a seguito di un evento drammatico: era-no deceduti 105 bambini che avevano assunto uno sciroppo a basedi sulfanilamide contenente un solvente tossico per l’uomo.

Negli Usa troviamo diverse segnalazioni in questo senso, era pre-sente una maggiore sensibilità verso un problema che, ancora, sfug-giva all’attenzione del nostro Paese.

A Norimberga alcuni medici nazisti vengono condannati per avereffettuato sperimentazioni particolarmente crudeli sull’uomo, tant’èche fra i capi di imputazione vengono indicati crimini contro l’uma-nità; atti atroci commessi nei confronti di avversari politici e interigruppi etnici.

Nasce, così, il Codice di Norimberga che definisce come assolu-tamente essenziale il consenso della persona in possesso della capa-cità legale di darlo: essere in grado di esercitare il libero arbitrio,senza alcun intervento coercitivo, e con una sufficiente comprensio-ne di tutti gli elementi della situazione, natura, durata, scopo percui l’esperimento sarà condotto e di tutte le complicanze che si pos-sono determinare sulla propria salute.

Le mie esperienze in questo campo sono successive al ’46, peròanche negli anni ’60 non si prendevano in considerazione questiaspetti.

Il Codice di Norimberga stabiliva anche che un esperimento sigiustifica se fornirà risultati utili alla società, non ricavabili con altrimetodi di studio.

L’esperimento doveva essere condotto prima sugli animali, sullaconoscenza della storia naturale del morbo, in qualche modo dove-va esistere un razionale che giustificasse l’esecuzione di questo espe-rimento, con l’avvertimento di evitare lesioni e sofferenze fisiche omentali che non fossero necessarie.

Si stabiliva anche che in qualunque momento della sperimenta-zione il paziente poteva chiederne l’interruzione. senza che questoarrecasse danno all’assistenza a cui lo stesso aveva diritto.

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Cosa succede dopo Norimberga?

1963: iniezione di cellule tumorali in pazienti anziani, senza il lo-ro consenso. Siamo negli USA.

Dal ’32 al ’72 in Alabama viene sviluppato uno studio sul conta-gio da sifilide, su popolazione di colore, analfabeta, ovviamente sen-za consenso, con l’obiettivo di studiare l’evoluzione naturale dellamalattia, quindi osservarla senza effettuare alcuna cura.

Nel 1965, sempre negli USA, si avvia una serie di protocolli spe-rimentali, che verranno denunciati, contrari all’etica medica. Sem-pre tra il ’65 ed il ’71 vengono praticati degli studi sull’epatite viralecon l’inoculazione del virus su alcuni bambini ricoverati, psichica-mente handicappati, forzando il consenso dei genitori.

Siamo di fronte a centinaia di episodi di questo genere per cui sirende indispensabile disporre procedure e regole precise in gradodi dare assoluta trasparenza alle sperimentazioni che vengono rea-lizzate.

Nasce, intanto, la Dichiarazione di Helsinki, promossa dall’Asso-ciazione medica mondiale, che dal ’64 al 2000 viene periodicamenteaggiornata in base all’evoluzione delle conoscenze mediche.

Siamo di fronte alla scelta fra portare avanti lo sviluppo dellascienza e difendere l’essere umano, ma la sua tutela deve venire pri-ma di tutto.

Consenso informato: diritto del paziente all’autodeterminazionese decide di uscire dalla sperimentazione, esclusione dei soggettiche non sono in grado di esprimere il consenso, come i minori,chiarimento riguardo al beneficio, considerato che dalle sperimen-tazioni spesso non deriva un beneficio diretto, ma un aiuto al pro-gresso della scienza ed un miglioramento delle cure ai pazienti cheverranno. La ricerca non deve comportare rischi che siano spropor-zionati rispetto ai potenziali benefici; oggi si tende ad includere tra ipazienti su cui sperimentare coloro che hanno patologie incurabili,specie nell’oncologia e nell’ematologia. Sono pazienti che hanno ri-dotta pressoché a zero la loro speranza di vita, e bisogna vigilare af-finché la loro decisione di accettare i trials clinici non sia influenzatadalla volontà di altre persone.

Negli Usa, nel ’78, anche a seguito delle denunce che abbiamo

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ricordato, è uscito il “Belmond report” che stabilisce i confini fra lasperimentazione e la pratica medica di routine, la valutazione ri-schio-beneficio,le linee guida per selezionare i pazienti, la natura delconsenso informato nei vari contesti, i principi sul rispetto dellepersone. Si va, cioè, sempre più definendo questo tema fino a dargliveste e contenuti attuali.

Ancora: nella Convenzione di Oviedo del ’97 si insiste che il be-ne e l’interesse dell’essere umano debbono prevalere sull’interessedella società e del progresso della. scienza..

La Convenzione stabilisce anche una serie di altre regole: il con-senso deve essere messo per iscritto, perché può essere liberamenteritirato, precisando l’informazione sui diritti e le garanzie, i rischiche la persona può correre e che devono essere proporzionati aglieventuali benefici.

La situazione nel nostro Paese

In Italia abbiamo prodotto atti di diversa valenza: si passa dalleleggi ai decreti legislativi, ai decreti ministeriali fino alle determina-zioni dell’Agenzia che si occupa dei farmaci.

Il decreto ministeriale del ’98 introduce le linee guida che regola-mentano i Comitati etici. Si individua una struttura che dovrebbeinterloquire con gli sperimentatori e nello stesso tempo tutelare ilcittadino. Deve, cioè, confermare agli sperimentatori che le ricercheche intendono sviluppare, o a cui vogliono partecipare, specie se so-stenute da uno sponsor commerciale, hanno un fondamento etico.

Come già detto, il Comitato nazionale di Bioetica richiama gli ar-ticoli 13 e 39 della Costituzione per quanto riguarda i diritti del pa-ziente e i doveri del medico, definisce illegittimi i trattamenti sanita-ri extraconsensuali. Il rapporto medico-paziente è ancora su basepaternalistica; la tappa successiva è quella dell’alleanza terapeutica,che si realizza quando c’è un accordo fra le parti nel decidere gli in-terventi; oggi matura un’ulteriore fase che presuppone l’informazio-ne da parte del medico e la decisione come competenza esclusivadel paziente.

Occorre sottolineare che “informazione” significa mettere al cor-

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rente il paziente di tutte quelle conoscenze necessarie ad una consa-pevole autodeterminazione, anche con il rischio di errore.

Nonostante il consenso, l’intervento risulta illecito se supera i li-miti della salvaguardia della vita, della dignità fisica e della dignitàumana. Quindi il consenso può essere richiesto solo entro determi-nati limiti.

La sperimentazione, afferma il Codice deontologico all’art.49,può essere inserita nei trattamenti diagnostici e terapeutici solo inquanto sia razionalmente e scientificamente di utilità diagnostica eterapeutica.

Come membro di un Comitato etico che si occupa di sperimen-tazione clinica, mi chiedo sempre il razionale che c’è dietro una ri-chiesta e quale obiettivo si intende raggiungere. Niente è scontato,soprattutto in quel tipo di studi no-profit che non hanno alle spallel’apparato di una grossa Azienda in grado di disegnare correttamen-te il protocollo di ricerca. Spesso dietro l’iniziativa apprezzabile disingoli medici manca la competenza per la progettazione correttadello studio.

Dato che il malato non può essere privato dei trattamenti clinici,un altro importante problema che si pone è quello dell’uso del pla-cebo a confronto con il farmaco sperimentale. Laddove esiste unaterapia già in uso, il placebo non può essere utilizzato. Il confrontodeve essere fatto con la terapia già standardizzata. Il quesito da por-si nei confronti di un nuovo farmaco è: può essere più efficace diquello esistente? può agire meglio, in termini di compliance, di mi-nori costi a fronte di eguale efficacia? Lo studio deve essere almeno“di non inferiorità”, e non avere esclusivamente un obiettivo com-merciale.

I predetti principi sono applicabili anche ai volontari sani; la ri-cerca è un fattore di sviluppo industriale e sociale del Paese, e que-sto va tenuto presente perché la difesa ad oltranza del cittadino puòdiventare un impedimento allo sviluppo delle conoscenze medicheCi sono linee guida di buona pratica clinica alla base di tutte le spe-rimentazioni che devono essere seguite puntualmente ogni volta chesi esamina una proposta, tant’è che i Comitati etici, che hanno ilcompito di autorizzare l’avvio delle sperimentazioni, hanno il dove-re di verificare il rispetto di tutti i requisiti, anche procedurali,

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richiesti per l’avvio dello studio. È necessario anche un monitorag-gio successivo per garantire che tutte le regole siano state rispettate.Da una verifica effettuata recentemente nella nostra Regione èemerso, infatti, che una percentuale consistente, in particolare deglistudi no-profit non rispetta del tutto le regole.

Uno fra i temi che impegnano quotidianamente i Comitati etici esul quale si riscontra minore rispetto da parte degli sperimentatori,riguarda proprio il consenso informato; si continua a considerarlouna dichiarazione da far sottoscrivere dal paziente , a volte dal fami-liare, ignorando che questo non è più possibile, e che può essereraccolta dall’infermiere di turno. Non c’è ancora la consapevolezzache questo non è un problema burocratico, di sicurezza rispetto afuture contestazioni, ma un problema culturale, di rapporto con ilcittadino che deve essere reso consapevole di quello che gli viene ri-chiesto.

È molto importante l’informazione che viene data direttamenteal paziente, perché i moduli spesso non sono chiari. Il linguaggiodeve essere il più possibile pratico, non tecnico, comprensibile peril soggetto o per il suo rappresentante legalmente riconosciuto. Lepersone ospedalizzate sono in genere anziane, il loro livello cultura-le può essere insufficiente a comprendere riferimenti e spiegazioniche a volte creerebbero difficoltà anche agli addetti ai lavori.

Il Comitato etico è una struttura indipendente, lo sperimentatorenon deve considerarlo come una sorta di nemico che gli impedisce diportare avanti la sua ricerca, ma come un alleato che per le sensibilitàche rappresenta nella sua composizione è in grado di aiutarlo nellacorrettezza della sua ricerca. Gli elementi di valutazione sono in nu-mero proporzionale alla rilevanza della sperimentazione; valutare,certo, i benefici e i rischi, ma anche l’idoneità dello sperimentatore edegli stessi locali in cui si intende condurre la sperimentazione.

Un aiuto ci viene anche dalle riviste scientifiche che non pubbli-cano ricerche se non sono accompagnate dal parere autorizzativo diun Comitato etico; chi intende pubblicare i risultati del suo lavorosa che le regole debbono essere rispettate fin dall’avvio della speri-mentazione. Concludo guardando con ottimismo al quadro attuale,anche se il lavoro non è concluso e gli aspetti da perfezionare nonsono semplici.

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L’accesso ai farmaci nei Paesi in via di sviluppoDaniele Dionisio

European Parliament Working Group on Innovation, Access to Medicines and Poverty-Related Diseases Coordinatore, “Medicine per I Paesi in via

di Sviluppo”, SIMIT (Società Italiana di Malattie infettive e tropicali)

Le problematiche per la salute non possono essere disgiunte dal-l’azione politica.

Circa cinque miliardi di persone vivono oggi nei Paesi in via disviluppo e metà di loro può fare assegnamento su meno di 2 dollarial giorno per la propria sussistenza. In questo contesto le malattietrasmissibili colpiscono in maniera estremamente sbilanciata. D’al-tro canto i farmaci per queste malattie possono essere molto costosie persino tossici, con seri effetti collaterali. Essi constano spesso diformulazioni non adeguate, o difficili da somministrare, o inefficaciladdove i microbi diventino resistenti come nel caso, ad esempio,della Tbc.

Allora l’accesso alle terapie deve rispondere a precisi requisiti:fondarsi su formulazioni farmaceutiche sicure, di qualità certa, dibasso costo e altamente efficaci. Questo è uno dei problemi centralida affrontare.

Con riferimento all’accesso alle cure, Malaria, Aids, e Tbc sonola punta dell’iceberg in quanto di particolare impatto e diffusionenei Paesi in via di sviluppo.

La Malaria colpisce duramente in età infantile, 300-500 milionidi persone ogni anno ne risultano affette, e un milione di questesoccombe. Il 75 per cento delle morti in Africa sono causate dallaMalaria e le vittime spesso hanno meno di 5 anni di età.

L’Aids colpisce tutti gli strati sociali e soprattutto le fasce giova-nili, quindi incide sulle capacità lavorative sguarnendo i servizi pub-blici operativi. Fortunatamente, progressi sono in corso: nel 2010, 5milioni di persone sono state messe in terapia antiaids. Cionono-stante, dato che le attuali linee guida OMS raccomandano di inizia-

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re il trattamento precocemente (quando i livelli di difesa immunita-ria sono sufficientemente elevati), almeno 15 milioni di persone ne-cessitano di essere trattate, e tre quarti di esse vivono nell’Africa subsahariana.

Ma se volessimo utilizzare i costosi prodotti immessi sui mercatidalle multinazionali del farmaco, i Governi dei Paesi poveri non po-trebbero farvi fronte.

La Tbc è diventato un gravissimo problema per i Paesi in via disviluppo dove si embrica tristemente con l’epidemia di Aids: circa10 milioni di nuovi casi si sono registrati nel 2009 e i decessi sonoarrivati a quasi 2 milioni.

Il problema da un punto di vista politico

Qual è la partita non solo per le Industrie che producono questifarmaci, ma per tutte quelle che lavorano nel settore di farmaci? Es-se non fanno attività umanitaria se non in casi particolari e contin-genti. Lo scopo prioritario è il profitto, il business, non la salute.Qual’è la situazione da cui le Industrie farmaceutiche occidentalitraggono i maggiori profitti? Quella esemplificata da un pazientedella società del benessere in cui i sintomi di una patologia cronicanon letale possono essere curati pur senza eliminare il problema.Un ventenne che inizia a manifestare calvizie è una miniera d’oroperché avrà bisogno di farmaci per tutta la vita, ma non lo è unbimbo di 4 anni che si ammala di Tbc o Malaria nei Paesi poveriperché, nell’impossibilità della famiglia di procurarsi farmaci percurarlo, è destinato in alta percentuale al decesso. Dove sta il margi-ne di profitto nell’ottica delle multinazionali occidentali?

Se il sistema dei brevetti incentiva lo sviluppo di nuovi farmacisolamente nei Paesi ricchi, i cui Governi possono erogare sommeconsiderevoli per la tutela della salute dei propri cittadini (altresìspesso in grado di pagare i farmaci di tasca propria), il problema ri-mane gravemente insoluto nei Paesi poveri.

Fortunatamente, sono in corso pressioni per promuovere innova-

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zione farmaceutica ed equo accesso alle cure nell‘interesse dei piùpoveri nella società. Queste pressioni, che si incrementano giornoper giorno, stanno contribuendo a migliorare le condizioni di salutedelle popolazioni povere e l’accesso alle cure.

In tutto ciò è determinante lo sforzo dell’OMS (che pure non è ladepositaria di ogni buona intenzione) per influire positivamente sul-la salute delle fasce emarginate. Nel merito vorrei richiamare la61ma e la 63ma Assemblea generale dell’OMS (rispettivamente te-nutesi nel 2008 e nel 2010) perché da esse sono stati costituiti grup-pi di esperti incaricati di esaminare fonti innovative di finanziamen-to per stimolare ricerca e sviluppo di farmaci per le malattie inci-denti nei Paesi in via di sviluppo. L’obiettivo, una volta individuatimodelli idonei, è di assicurare accesso equo alle cure su base stabile.

Allo scopo è prioritario che i modelli proposti disconnettano ilcosto che grava per la ricerca e sviluppo dal costo finale caricatosull’utente. Il farmaco non deve, cioè, nel suo costo finale includereil prezzo pagato dall’Industria farmaceutica per realizzarlo.

Il primo gruppo di esperti a tal fine designato dall’OMS è finitonella tempesta per aver consegnato proposte subito incorse in criti-che per il sospetto di connivenze con l’Industria internazionale delfarmaco. Comunque, modelli che permetterebbero di affrontare po-sitivamente il nodo dell’accesso esistono e quelli che sono già opera-tivi hanno prodotto buoni risultati.

Di seguito i modelli e le proposte su cui si sta lavorando per con-seguire equità e accesso allargato ai farmaci.

Primo modello: parternariati che nel settore pubblico e in quelloprivato cooperino per lo sviluppo di prodotti. Sono già nate orga-nizzazioni internazionali molto attive in questo senso.

Si potrebbe fare di più se i Governi decidessero di supportareeconomicamente questi parternariati soprattutto nella fase di svi-luppo di nuovi farmaci relativa ai trials clinici. Questa è una faseche assorbe il 40 per cento della spesa, e in essa l’intervento econo-mico dei Governi sarebbe particolarmente auspicabile.

Secondo modello: i premi, ossia un riconoscimento economicouna volta che un farmaco ha ottenuto la commercializzazione, so-prattutto per malattie gravi e diffuse nei Paesi poveri. Questi premi

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devono rispettare alcune condizioni: l’Industria che ha prodotto unfarmaco salvavita per i Paesi poveri deve renderlo accessibile al piùbasso prezzo possibile.

Terzo modello: impegni anticipati di mercato. Ad esempio, ove unGoverno stabilisca la urgente necessità di un vaccino o di un nuovofarmaco per la propria popolazione, quale Industria farmaceutica siimpegna alla ricerca e produzione a concordate e accessibili condi-zioni di vendita? Nel merito, è iniziativa in parte già realizzata quel-la per un vaccino anti-pneumococcico, nella quale si è inserita frut-tuosamente la Glaxo Smith Kline che ha realizzato un prodotto alprezzo concordato di 21 euro per tre dosi. Sebbene il prezzo risultiancora elevato per i Paesi in via di sviluppo, l’iniziativa è, comun-que, un vantaggio conseguito dato che produrre vaccini è impresaonerosa e di lungo termine.

Altro modello: acquisto di brevetti. Esempio: sullo sviluppo diun futuro farmaco un Governo o una organizzazione si impegna adacquistare un brevetto per poi utilizzarlo ad eque condizioni neiPaesi poveri. Questa idea non ha avuto sinora applicazioni.

Ancora: vouchers per avere priorità di revisione. Il modello, già at-tivato dalla statunitense Food and Drug Administration, consiste nelcompensare il produttore di un farmaco per una patologia tropicaleoffrendogli la revisione rapidissima di un altro suo prodotto noncorrelato. Dati gli usuali tempi lunghi per la normale approvazionedi un farmaco, il produttore è solleticato dall’ottenere una revisione“lampo”. Questa modalità è in realtà criticabile perché non è fattoalcun obbligo al produttore di diffondere a prezzi accessibili il far-maco nei Paesi poveri, né di aprirsi alla competizione da parte delleIndustrie generiche. Senza dimenticare che una revisione acceleratapuò comportare inaccuratezze di valutazione con il rischio di immis-sione sui mercati di prodotti pericolosi per la salute o inefficaci.

Altro modello: Fondo di impatto sulla salute. L’industria che pro-duce un farmaco accetta di registrarlo nel Fondo. Poi, in base a cal-coli inerenti gli anni di migliorata qualità di vita per effetto di dettofarmaco, l’Industria riceverà annualmente e per 10 anni una quotapercentuale di compensazione da parte del Fondo. Scaduti 10 anni,dovrà però rendere il farmaco riproducibile da parte delle Industrie

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generiche.In realtà, il nodo del finanziamento utile al modello in questione

è ancora irrisolto. Sarebbero, infatti, necessari almeno 6 miliardi didollari per garantire che questo meccanismo possa almeno decolla-re. Occorrono poi partner stabili e credibili per garantire costanzadi finanziamento nel tempo.

Infine, il modello del pool di brevetti che attualmente riguarda,“in primis”, i farmaci antiaids. È un’idea sostenuta dalla organizza-zione Medicines Patent Pool, supportata dall’OMS e da una coali-zione di Governi (tra cui, Francia, Germania, Brasile) confluiti nellasigla UNITAID.

La richiesta alle multinazionali produttrici di farmaci antiaids èdi cedere al Patent Pool i diritti dei loro brevetti per permettere laproduzione e commercializzazione nei Paesi poveri di copie realiz-zate da Industrie generiche. Questo modello confida sull’abbassa-mento dei prezzi innescato dalla competizione fra le Industrie gene-riche. Confida, inoltre, nell’immissione in commercio di combina-zioni fisse di farmaci al fine di conseguire semplificazione posologi-ca (più principi curativi in una sola pillola) e migliore aderenza allecure nell’interesse dei pazienti.

È chiaro che tutti questi modelli sono suscettibili di varia combi-nazione fra loro per conseguire, in schemi aperti, ottimizzazione dirisultati e migliore performance.

La scena politica internazionale

È sostenuto dall’OMS che l’innovazione farmaceutica e lo svilup-po di nuovi modelli debbano rispondere a prioritarie necessità disalute e non ad esigenze di mercato. Ma è fattibile? Ci sono almeno3 elementi di rischio al buon esito di quanto auspicato.

Il primo è connesso all’obbligo dell’India, di ottemperare dal2005, quale Paese membro, alle regole sulla proprietà intellettuale(brevetti) imposte dalla Organizzazione Mondiale del Commercio(OMC). L’impatto è intuibile solo considerando che l’India è oggi ilmaggior produttore mondiale di farmaci generici di basso costo peri Paesi poveri.

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Il secondo elemento di rischio risiede nelle politiche protezioni-stiche perseguite su scala mondiale da Unione Europea e Stati Unitid’America.

Il terzo elemento di rischio, ancora poco percepito, ma non perquesto meno temibile, si riferisce allo sfondamento massiccio, orga-nizzato, coerente delle multinazionali del farmaco in India. Le mul-tinazionali stanno infatti ampliando, a suon di miliardi di dollari, laloro cointeressenza in impianti sanitari e Industrie farmaceutiche in-diane. Esse hanno infatti realizzato che nel mondo occidentale c’èuna battuta d’arresto allo sviluppo farmaceutico anche per la crisi incorso, mentre negli Stati Uniti la riforma sanitaria insistita dal Presi-dente rischia di abbassare i profitti sul costo dei farmaci. Nel con-tempo, i mercati del sud-est asiatico sono in ripresa dalla recessionedel 2008, mentre una consistente parte della popolazione è ricca epuò pagare di tasca propria farmaci costosi. Ottocento milioni di ci-nesi sono in questa vantaggiosa situazione. Per ottenere leadershipin quei mercati le multinazionali hanno capito che era necessario“comprare” le Industrie locali, specie quelle indiane che hanno con-seguito elevata tecnologia.

Le multinazionali in India stanno vendendo i loro prodotti dimarca a bassissimo prezzo, cercando oltretutto di sfondare in ambi-ti rurali; stanno reclutando migliaia di informatori locali che, agen-do sui medici, li convincono a prescrivere prodotti “brand” dalprezzo ribassato ma di rinomata qualità. Le multinazionali hannoanche preso in licenza Industrie che producono farmaci generici,ma garantendone la qualità con il loro prestigio.

Ancora, le multinazionali traggono vantaggio dal discredito versoi farmaci generici indiani alimentato dal fatto che i mercati pullula-no (e non solo in India) di prodotti sotto-qualificati o falsificati.Questa campagna è talora condotta con l’interesse di stornare gliacquisti verso gli originali “brand”.

Nel complesso, le circostanze elencate configurano una politicavincente tanto che le Organizzazioni non governative e i network in-diani sono entrati in fibrillazione e hanno chiesto al Governo del-l’India di non permettere che più del 40 per cento delle quote azio-narie delle Compagnie indiane vengano acquistate dalle multinazio-nali.

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Riferimenti online

– Dionisio D. Big Pharma Stranglehold: Thwarting India As IndependentMaker Of Blockbuster HIV Drugs? Intellectual Property Watch October28, 2010. http://www.ip-watch.org/weblog/?p=13070&utm_source=post&utm_medium=email&utm_campaign=alerts

– Sixty-first World Health Assembly (2008). Global strategy and plan ofaction on public health, innovation and intellectual property. Available:http://www.who.int/gb/ebwha/pdf_files/A61/A61_R21-en.pdf

– WHO report: Towards universal access: scaling up priority HIV/AIDSinterventions in the health sector (September 2010). http://www.who.int/hiv/pub/2010progressreport/summary_en.pdf

– Overview: the TRIPS Agreement (2010). World Trade Organization.Available: http://www.wto.org/English/tratop_e/trips_e/intel2_e.htm

– WHO report (2010). Sixty-third World Health Assembly closes afterpassing multiple resolutions. Available: http://www.who.int/mediacen-tre/news/releases/2010/wha_closes_20100521/en/index.html

– Dionisio D. Needs-driven rather than market-driven rules to spread ac-cess to medicines in poor countries Translational Biomedicine, 2010,July issue http://www.scribd.com/doc/34721306/Needs-driven-rather-than-market-driven-rules-to-spread-access-to-medicines-in-poor-coun-tries

– Dionisio D. Access to medicines: possible boost from a new balance ofpower in the Asia-Pacific region. IQ-sensato, 2011, February 3 issue.http://www.iqsensato.org/blog/2011/02/03/access-to-medicines-in-the-asia-pacific-region/

– Dionisio D. A Balanced Trade Context for HIV Patent Pool. Translatio-nal Biomedicine Journal 2011 Vol. 1 No. 4:3. http://transbiomed.blog-spot.com/2011/02/balanced-trade-context-for-hiv-patent.html

– Dionisio D. India: intellectual property and HIV therapy for the develo-ping world.. Future Virology, 2011, 6 (1), 1-3 http://www.futuremedici-ne.com/toc/fvl/6/1.

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Le diseguaglianze di accesso ai servizi sanitariSara Barsanti

Istituto di Management, Laboratorio Management e SanitàScuola Superiore Sant’Anna di Pisa

L’equità nell’assistenza sanitaria si realizza attraverso (M. White-head):• Uguale accesso all’assistenza disponibile per uguale bisogno.• Uguale utilizzazione per uguale bisogno.• Uguale qualità di assistenza per tutti.

Le diseguaglianze di salute possono essere misurate avendo comeriferimento l’oggetto e il soggetto delle diseguaglianze stesse. L’og-getto di tale misura può rilevare o le diseguaglianze in salute, analiz-zando quindi indicatori quali mortalità, speranza di vita, o l’equitànell’assistenza sanitaria, analizzando quindi indicatori relativi alladisponibilità dei servizi e del personale, all’accesso, all’utilizzo e allaqualità dei servizi stessi. Relativamente al soggetto, invece, si fa rife-rimento a diseguaglianze tra nazioni, valutando diseguaglianze di

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Figura 1. Mortalità al di sotto dei 5 anni per livello di ricchezza della fami-glia (ogni 1000 nati vivi)

Fonte: Rapporto OMS Commissione sui determinanti sociali

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tipo geografico (confrontando quindi il divario ad esempio NordSud) o all’interno di una nazione, considerando in particolar mododiseguaglianze dovute a fattori socioeconomici della popolazione diriferimento.

La figura 1 mostra la mortalità al di sotto dei 5 anni per livello diricchezza della famiglia ogni mille nati vivi in 5 differenti Paesi ex-traeuropei. La mortalità varia da Paese a Paese, in Uganda è moltopiù alta rispetto al Marocco. Ma anche all’interno di uno stesso Pae-se i gruppi più disagiati hanno una mortalità maggiore rispetto aquelli più ricchi. Questa differenza non vale solo per gli estremi,molto poveri-molto ricchi, ma anche tra le fasce con differenze direddito minore.

Tale effetto viene chiamato “gradiente sociale di salute”: esso puòessere un fenomeno più o meno marcato, ma è un fenomeno univer-sale che non coinvolge solo i Paesi più poveri, ma anche quelli piùricchi. Come sottolinea la Commissione, c’è un legame diretto frareddito e salute. La relazione tra ricchezza e salute è proporzionale. Ibambini del secondo quintile hanno una più alta probabilità di mori-re rispetto a quelli del terzo; quelli del terzo quintile a loro volta han-no una probabilità di morire più alta di quelli del quarto e così via.

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Figura 2. Tassi di mortalità standardizzati per età tra Inghilterra e Gallesper reddito

Fonte: Rapporto OMS Commissione sui determinanti sociali

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La figura 2 confronta i tassi di mortalità standardizzati per età traInghilterra e Galles, tra maschi e femmine ed il livello di deprivazio-ne diviso in 20 classi; la diseguaglianza in salute collegata al redditogià osservata si riconferma.

L’accessibilità ai servizi viene definita come la capacità del siste-ma sanitario di fornire assistenza al momento e nel luogo giusto achiunque ne abbia bisogno, indipendentemente dal reddito, dall’a-rea geografica di appartenenza, dal livello culturale e da ogni altravariabile che caratterizza il singolo individuo. Tale scenario può es-sere misurato sia in maniera individuale, sia in maniera aggregata,distinguendo tra gruppi di popolazione differenti ad esempio perreddito, livello di istruzione e altre caratteristiche. A livello interna-zionale aspetti come l’ equità e l’accesso nei servizi sanitari fannoparte di quelle performance che devono essere misurate e monitora-te al fine di valutare l’efficacia di un sistema sanitario. In particolarel’OECD (2001) ha elaborato un sistema di valutazione delle perfor-mance dei sistemi sanitari, prevedendo le seguenti dimensioni:• Lo stato di salute della popolazione.• L’offerta dei servizi di salute e l’accesso agli stessi.• La spesa sanitaria ed il sistema di finanziamento.

Ciascuna dimensione prevede, a suo volta, alcuni indicatori di ri-ferimento, calcolati sia come media nazionale, sia come distribuzio-ne. La misura della distribuzione tra la popolazione delle tre dimen-sioni elencate, rappresenta secondo l’OECD, il livello di equità diaccesso del sistema sanitario. Un accesso reale richiede, quindi,sforzi per eliminare le barriere e gli ostacoli, finanziari, geografici,fisici o logistici, ma anche linguistici, culturali o di istruzione. Misu-rare il reale accesso ai servizi costituisce l’unica via possibile per co-noscere gli effetti di possibili fattori che possono agire da barriereall’ingresso.

L’accessibilità ai servizi viene valutata attraverso la misurazionedelle performance dei sistemi sanitari dell’OECD, ovvero su come ilsistema risponde ai cittadini. Nella figura successiva, si misura l’usodei servizi in termini di copertura percentuale della popolazione al-l’interno del percorso materno-infantile per quintili di reddito in 50

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Paesi; senza eccezione, qualsiasi servizio viene maggiormente utiliz-zato dai gruppi più ricchi.

Accesso alle cure vuol dire anche avere il diritto di ricevere pre-stazioni e assistenza, con riferimento al sistema americano, tenendoquindi conto della percentuale di persone, al di sotto dei 65 anni,che sono coperte da assicurazione sanitaria e splittarlo dalle percen-tuali per caratteristiche socio-demografiche della popolazione. Lacopertura dell’assicurazione varia in base anche a caratteristiche et-niche della popolazione, i bianchi hanno una copertura più ampia,che si aggira sull’87 per cento. Se dividiamo il dato per reddito ve-diamo che i ricchi arrivano a una copertura del 97 per cento, i pove-ri sono al di sotto del 70 per cento. Anche il titolo di studio dellevarie etnie è un fattore che determina diseguaglianze:mano a manoche diminuisce il titolo di studio, diminuisce la percentuale di co-pertura assicurativa sanitaria.

Figura 3. Utilizzo dei servizi nel percorso materno infantile (copertura po-polazione di riferimento) per reddito

Fonte: Rapporto OMS Commissione sui determinanti sociali

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La situazione nel nostro Paese

In Italia, pur avendo un sistema universalistico pubblico, esisto-no diseguaglianze in salute e nell’accesso ai servizi. In particolarmodo, esistono ancora problemi di accesso reale ai servizi, soprat-tutto nei casi in cui la complicazione burocratica del sistema, impe-disce di godere, in assenza di una raccomandazione o di un accom-pagnatore, di una prestazione tempestiva e di buona qualità (Costa,1994). Una persona provvista di istruzione superiore tende aricorrere più frequentemente a quei servizi specialistici ambulato-riali dove certamente l’azione di cura e prevenzione sono più mirati,più forti e per definizione anche più efficaci .Viceversa colui chedispone di minore ricchezza culturale viene più facilmente a contat-to col servizio sanitario attraverso il medico di base e avrà pertantomeno occasioni di fruire di interventi specialistici. (Ronco et al.,1991; Donato et al., 1991). Cislaghi (1994), revisionando i dati ita-liani di morbosità e uso dei servizi secondo il reddito, ricavabili dal-l’indagine ISTAT sullo stato di salute 1986/87, fornisce indizi a so-stegno di una condizione di sovra-equità per alcune prestazioni sa-nitarie, come l’assistenza di base e quella ospedaliera, mentre le cu-re specialistiche, anche quelle pubbliche, sarebbero meno consuma-te da soggetti con basso reddito. Ancora V. Mapelli (1992), in un’in-dagine campionaria di USL di diverse Regioni, evidenzia svantaggisociali nella capacità di superare barriere organizzative all’accesso aiservizi, come pure nella libertà di scelta dei luoghi e degli erogatoridelle cure. Si riportano di seguito i principali risultati in termini didiseguaglianze nell’assistenza osservate in Italia negli ultimi anni davari studi epidemiologici.

Istruzione e mortalità: coloro che hanno una bassa scolarizzazio-ne hanno una probabilità di morte per cancro pari a 1.33, mentrecon un’istruzione alta il dato è più favorevole e scende all’1 per cen-to. Se una persona con alta istruzione ha una probabilità pari a 1 diricevere una rivascolarizzazione dopo coronarografia, una personameno scolarizzata a Torino ha il 20 per cento in meno di probabilitàdi ricevere lo stesso trattamento.

Ricoveri. Per la cronicità l’assistenza dovrebbe essere organizzataa domicilio, mentre viene data in Ospedale a chi è meno acculturato

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nel 20 per cento dei casi in più rispetto alle classi più istruite. Lepersone meno istruite sono quindi più vulnerabili rispetto all’inap-propriatezza e possono andare incontro a procedure meno efficaci;gli esiti delle cure sono di conseguenza meno favorevoli.

Prevenzione e assistenza territoriale. I dati, anche se risalgono adiversi anni fa, sono sostanzialmente immodificati. La risposta alloscreening della mammografia in donne asintomatiche che hannopiù di 40 anni: la percentuale di adesione al test è superiore al 70per cento al nord e si attesta sul 50 al sud. Dal 94 al 2000 l’adesio-ne alla mammografia è aumentata dal 37 al 46 per cento, ma illivello di istruzione, il gradiente sociale, conferma i dati già segna-lati. Anche le ricerche sulle vaccinazioni di bambini a seconda dellivello di istruzione del padre confermano che qualsiasi tipo di vac-cinazione viene praticata di più sui figli di padri con titolo di stu-dio più alto.

La situazione in Toscana

In Toscana dal 2008 è stata introdotta nella Scheda di dimissioneospedaliera il titolo di studio del paziente tra i campi fondamentalida completare per l’inserimento a sistema del ricovero del paziente;questo consente di analizzare i ricoveri per livello di istruzione, an-che se la raccolta dei dati è ancora incompleta.

Considerando 2 gruppi di popolazione in base al titolo di studio– bassa o nessuna istruzione e alta istruzione, che va dalla maturitàalla laurea – si possono confrontare alcuni tassi di ospedalizzazione.• Tasso di ospedalizzazione generale– tasso di ospedalizzazione day-hospital vs ricoveri ordinari– tasso di ospedalizzazione urgente vs programmato• Tasso di ricovero per patologie sensibili alle cure ambulatoriali– complessivo– per patologia (diabete, polmonite, BPCO, scompenso).

Il tasso di ospedalizzazione per day hospital, che può essere il se-gno cure più tempestive e appropriate, è superiore per chi ha un’al-ta istruzione superiore rispetto a coloro che hanno una bassa istru-zione, mentre al contrario i ricoveri ordinari aumentano col dimi-

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nuire del titolo di studio (anno 2009). Anche per i ricoveri in urgen-za il tasso di ospedalizzazione di coloro che hanno bassi titoli di stu-dio è maggiore rispetto a più istruiti.

Patologie sensibili alle cure ambulatoriali: tra tali patologie vengo-no considerate per l’analisi diabete, scompenso, bpco e polmonite.Considerando la variabile titolo di studio, il tasso di ospedalizzazio-ne generale è più alto nei meno istruiti (sono considerati i ricoveridai 20 ai 74 anni compresi).

Anche all’interno delle Aziende la proporzione si mantiene inal-terata qualsiasi sia la patologia considerata. Comunque si riscontra-no variabilità sensibili se si considera l’area geografica: la zona chericovera di meno è la Valle del Serchio, 89 ricoveri per 100mila resi-denti a confronto con l’alta Val di Cecina che arriva a 339.

L’accesso comprende anche l’informazione sui servizi: da una ri-cerca basata su interviste campionarie sulla soddisfazione dei pa-zienti, è risultato che la percentuale dei pazienti che non si ritengo-no informati aumenta con il diminuire del titolo di studio.

Alla domanda “Conosce l’Ufficio relazioni con il pubblico della

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Figura 4. Tasso di ospedalizzazione standardizzato per DH vs ricoveri ordi-nari per titolo di studio, 100.000 abitanti anno 2009

Fonte: nostra elaborazione

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sua Azienda?”. Il 52 per cento dei più istruiti ha risposto affermati-vamente, mentre solo il 10 per cento dei meno istruiti conosce que-sto servizio; quanto alla sua utilizzazione si va da un 10 per centodei più istruiti a poco più dell’uno nei meno istruiti. Ancora, sullacortesia degli operatori,i meno soddisfatti sono i laureati.

Nel percorso materno-infantile si confermano diseguaglianze si-mili. La partecipazione al corso di preparazione alla nascita è senzadubbio influenzata dal titolo di studio delle madri: il 100 per centodelle madri prive di titolo di studio non ha frequentato il corso,mentre il 70 delle madri laureate lo ha frequentato (anno 2007).

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Figura 5. Tasso di ospedalizzazione standardizzato per diabete, scompenso,BPCO, polmonite per titolo di studio, 100.000 abitanti anno 2009

Fonte: nostra elaborazione

Tabella 1. Percentuali di soddisfazione sulle informazioni in merito ai servi-zi offerti dalla Asl di riferimento anno 2010

Fonte: nostra elaborazione

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Dove si posiziona il Governo italiano

Secondo l’Action Spectrum delle diseguaglianze in salute e nel-l’accesso ai servizi vari sono i passaggi che un Governo deve affron-tare al fine di posizionare le diseguaglianze in salute come una dellepriorità da affrontare all’interno della programmazione sanitaria na-zionale e regionale. La prima esigenza è avere degli indicatori a sup-porto per esplorare se queste diseguaglianze esistono. Una volta ac-certate, posso ignorarle o affrontarle; in quest’ultimo caso ci si puòbloccare, pensare che come servizio sanitario non posso fare niente,spetta al welfare, all’istruzione aumentare l’accesso alla scuola perrisolvere tutto. Oppure posso prendere delle iniziative isolate, perpoi strutturarle, alla fine arrivare ad azioni di policy coordinate ecomplete. In uno studio sulle iniziative dei Governi nei Paesi euro-pei, per l’Italia erano stati selezionati questi documenti: Programmadi ricerca nazionale in collaborazione con la Regione Piemonte sulmonitoraggio delle diseguaglianze socioeconomiche, 1991, il librodi Costa-Faggiano “L’equità delle salute in Italia”, Il Piano sanitarionazionale 98-2000, il Programma di ricerca nazionale 2000-2002sulle diseguaglianze, un documento della Commissione nazionale diBioetica “Orientamenti bioetici per l’equità nella salute a Roma”.L’Italia, insieme alla Francia, in questo documento si posizionavatra i Paesi “preoccupati”; gli altri, esclusa la Lituania e la Grecia chedovevano ancora porsi il problema, erano già impegnati a studiare ecercare di risolvere il problema

Il problema nei Piani sanitari

Mentre l’interesse è in aumento, di fatto si è creato un bloccoperchè i Piani sanitari non danno spazio alle diseguaglianze. Conqualche eccezione: in Toscana con la sanità di in iniziativa si è fattoun grande passo in avanti nel considerare le diseguaglianze stessecome termini di pianificazione dei servizi territoriali sanitari. L’In-ghilterra, invece, è il Paese che ha sviluppato una politica completae coordinata, nel 98 è stato pubblicato il primo “Studio sulle dis-eguaglianze”e a distanza di tre anni sono stati stabiliti due macro

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obiettivi di equità in salute da raggiungere entro il 2010.Il Governo inglese, presieduto dall’allora Primo Ministro Tony

Blair, stabilì nel febbraio del 2001 a livello nazionale due obiettiviper la riduzione delle diseguaglianze in salute[1]. In particolare idue obiettivi riguardano:1. Ridurre entro il 2010 di almeno il 10% il divario tra il tasso di

mortalità infantile tra i gruppi di popolazione più poveri, identifi-cati con i lavoratori manuali, e la popolazione nel suo complesso.

2. Ridurre entro il 2010 di almeno il 10% il divario nella speranzadi vita tra il quintile con la speranza di vita alla nascita più bassae la speranza di vita alla nascita della popolazione nel suo com-plesso.Tali macro target, come suggeriscono le evidenze scientifiche,

possono essere raggiunti da una serie di interventi specifici che pos-sono avere un impatto specialmente sulle popolazioni più svantag-giate. I principali interventi che possono contribuire a colmare il di-vario nell’aspettativa di vita sono: • Ridurre il fumo specialmente tra i lavoratori manuali. • La prevenzione e la gestione dei rischi per le malattia coronari-

che e il cancro, come la cattiva alimentazione e l’obesità, l’inatti-vità fisica e l’ipertensione attraverso efficaci interventi di cureprimarie e di salute pubblica – in particolare il targeting per etàsuperiore ai 50 anni.

• Migliorare la qualità degli alloggi per affrontare freddo e umidi-tà, e la riduzione degli infortuni in casa e sulla strada.

Gli stessi target nel 2003 entrano a far parte di tutta la program-mazione del Governo nazionale e locale, sono inclusi nel 2004 nel“Libro bianco” sulla salute inglese, nel 2006 sono tra le prime 6priorità del sistema sanitario nazionale come target di equità e nel2008 è stato stilato un rapporto sui progressi fatti per il raggiungi-mento di questi obiettivi.

SARA BARSANTI

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Bibliografia di riferimento

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Percorsi di integrazione socialeGiulia Capitani

Scuola Superiore Sant’Anna, MeS

Il progetto “Immigrati e salute: percorsi di integrazione sociale”è diviso in due parti: una parte di rilevazione e analisi di dati quanti-tativi e una seconda parte che ha l’obiettivo di rilevare, secondo unametodologia qualitativa, altri tipi di dati che poi vorremmo integra-re con quelli di tipo quantitativo. La metodologia scelta è quella delfocus group, che di fatto è un metodo di tipo qualitativo di raccoltadei dati finalizzati a una determinata indagine e in particolare è unasorta di intervista collettiva che si fa a un gruppo omogeneo di per-sone sulla base di una traccia, più o meno approfondita, per fornirestimoli ai partecipanti; normalmente è una traccia di domande o diargomenti. Nell’ambito di questo progetto noi realizzeremo ventot-to focus group, dodici con persone straniere residenti o comunquepresenti nei dodici territori delle Aziende sanitarie e sedici con ope-ratori sanitari o amministrativi individuati dalle Aziende sanitarie eospedaliere

Abbiamo scelto la metodologia del focus group perché rispetto al-le interviste individuali, garantisce che durante la discussione sicreino delle catene associative tramite l’interazione dei partecipanti.In altri termini, riesce a riprodurre in qualche modo il processo diformazione delle opinioni visto che anche quelle personali indivi-duali, sono comunque influenzate dall’esterno e si formano soprat-tutto nell’ambito di un sistema di relazioni. Il focus group, tramite ladiscussione tra persone, consente che si riproduca lo stesso mecca-nismo e questo determina il fatto che si ottengano normalmentemolte più informazioni rispetto a quelle di un’intervista individuale:di conseguenza la ricerca può andare molto più veloce e si ottengo-no più spunti di riflessione. Ovviamente ci sono anche dei punti didebolezza, in particolare mi premeva sottolineare la difficoltà nelconfronto tra i dati emersi. Abbiamo predisposto delle griglie di do-

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mande e di argomenti per condurre i focus group, quello che peròregolarmente succede, l’abbiamo già sperimentato nei primi focusgroup, è che la griglia in qualche modo viene cambiata, salta l’ordi-ne degli argomenti, o gli argomenti stessi. Già questo è un risultatodel focus group perché, pur rimanendo chiaramente nell’ambito del-l’indagine, è importante vedere qual è l’ordine di priorità che ilgruppo dà ai temi scelti, che non necessariamente corrisponde allanostra ipotesi di ricerca. Quindi, direi che ogni focus group di fatto,in qualche modo, reinventa e rifabbrica la propria griglia. Questopone ovviamente dei problemi a livello di analisi, dato che si trattadi confrontare i risultati di discussioni che, pur vertendo sullo stes-so argomento, sono piuttosto libere. L’obbiettivo di questi focusgroup era quello di registrare l’opinione, da una parte, degli opera-tori delle Aziende sanitarie, che sono più a contatto con l’utenzastraniera e, dall’altra, quella di un campione, ovviamente non rap-presentativo a livello statistico, di persone straniere che usano o po-tenzialmente possono usare i servizi di una determinata Azienda, suuna serie di questioni che noi come gruppo di ricerca, basandoci suprecedenti esperienze, sul confronto e sulla letteratura, abbiamoidentificato come cruciali.

Per quanto riguarda il focus group con gli operatori sanitari ab-biamo individuato tre aree di interesse.

La prima area è cosa sanno gli operatori sanitari in generale del te-ma immigrazione, cioè, quanta consapevolezza hanno delle condi-zioni di vita e di salute, anche a livello molto generale, di questiutenti che sempre più frequentemente accedono ai loro servizi.

La seconda area, che chiaramente è quella che ci interessava dipiù, riguarda la comunicazione e relazione con gli utenti immigrati,cioè cerchiamo di capire che esperienze hanno avuto gli operatoridelle Aziende rispetto alla questione della comprensione con i pa-zienti immigrati, principalmente dal punto di vista delle difficoltàlinguistiche – quali sono i problemi, quali le eventuali soluzioni chehanno escogitato –, ma anche sul piano più profondo, diciamo dellarelazione, vale a dire tutta quella sfera che va a toccare il tema “at-teggiamento” e, di conseguenza, “pregiudizio” e “preconcetto”, daambo le parti.

La terza area doveva indicarci come gli operatori si muovono su

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questo tema all’interno del sistema Azienda, cioè, a prescindere dalloro vissuto personale, che cosa la loro Azienda ha messo in camposu questo tema, che strumenti gli ha fornito, se li ha forniti, e so-prattutto ci siamo focalizzati sul tema della comunicazione interna,ovvero quanto i singoli operatori sanno di quello che l’Azienda farispetto a questo tema.

Per quanto riguarda i focus group con gli immigrati, il primo te-ma, molto macro, riguarda l’accesso ai servizi sanitari, e soprattuttoquali fonti di aiuto o di informazione sono disponibili rispetto alledifficoltà incontrate.

Abbiamo chiesto a queste persone una valutazione, il più possi-bile oggettiva, rispetto alle cure ricevute o alle prestazioni che sonostate loro erogate, quindi una valutazione in termini di qualità delservizio ricevuto, distinto dalla comunicazione e dalla relazione congli operatori sanitari, che è il terzo punto nella nostra scaletta imma-ginaria: qual è il vissuto di queste persone nell’ambito della relazio-ne con il personale sanitario e amministrativo, che esperienze hannoavuto, che opinione si sono formati.

Per quanto riguarda la costituzione di questi focus group, perquanto riguarda gli operatori sanitari abbiamo proposto un elencodi ruoli e di funzioni alle Aziende, che abbiamo scelto sulla base deidati che avevamo a disposizione da parte delle ASL, cioè quali sonoi Reparti, i servizi, le aree, più interessate dalla presenza straniera.Per quanto riguarda invece i focus group con le persone immigrate,abbiamo chiesto la collaborazione dell’“Albero della Salute”, che èla struttura di riferimento per la promozione della salute dei mi-granti dell’Assessorato Diritto alla Salute; noi volevamo per ognunodei dodici territori un gruppo di migranti il più possibile vario per-ché in questo modo ci sembrava di poter coprire tutte le possibilicause di accesso ai servizi sanitari. Abbiamo quindi chiesto che ognigruppo fosse rappresentativo il più possibile per nazionalità (infattiabbiamo chiesto di coprire le prime quattro nazionalità, proprioperché è vero che le prime tre sono praticamente identiche in tutti iterritori, mentre è la quarta normalmente che caratterizza i diversiterritori) e poi che fosse il più possibile vario, per sesso, per età, perlivello di integrazione socio-lavorativa e, se possibile, anche per con-dizione giuridica. Ovviamente sappiamo che è molto difficile avere

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come partecipanti ai focus group delle persone non in regola con ilpermesso di soggiorno, questo è assolutamente scontato perché evi-dentemente si tratta di persone innanzi tutto che hanno altre priori-tà e che difficilmente riescono a stabilire un rapporto di fiducia taleda poter partecipare a un’attività che è in qualche modo comunqueun’attività di indagine, ci è già capitato però di avere ex irregolari,poi sanati. Comunque faremo una valutazione , da una parte, di ti-po verticale, cioè, per ognuna delle Aziende metteremo a confrontoi risultati dei due focus group, operatori e immigrati, per vedere ap-punto se ci sono aree di sovrapposizione, convergenze, divergenze,quindi, secondo una logica che possiamo definire territoriale. Fare-mo anche un confronto trasversale, orizzontale, cioè, metteremo aconfronto tutti i focus group tra operatori sanitari e tutti i focusgroup tra immigrati, secondo una logica più funzionale.

Ecco qualche prima impressione sui primi due focus group cheho condotto, “migranti” e “operatori”della stessa Azienda. Perquanto riguarda il focus group con gli immigrati, innanzi tutto sonoemersi alcuni elementi che confermano una serie di informazioniche già avevamo rispetto al profilo dei partecipanti. In alcuni casi, sievidenzia un forte isolamento e la perdita delle reti familiari e socia-li, che peraltro è un’evidente determinante dello stato di salute. Unasignora senegalese ha dato un grande contributo a questo focusgroup nel raccontare la sua esperienza di ricovero e poi altre espe-rienze di accesso ai servizi, ribadendo continuamente la fatica deltrovarsi qui senza legami, senza rete, e concludendo con la frase“nessuno vuole essere in un posto dovenon ha nessuno della sua fami-glia” a conferma di quanto raccontato. Devo dire che però rispettoa questa esperienza, che comunque era condivisa anche da altri par-tecipanti, se non altro nella prima fase del loro percorso migratorio,c’è stata anche evidentemente una risposta organizzata, direi creati-va, cioè, la costituzione di associazioni a base etnica. Almeno tredelle persone che hanno partecipato al focus group infatti avevanofondato o comunque facevano parte di associazioni a forte caratte-rizzazione etnica, che sicuramente hanno una funzione orientativa einformativa rispetto ai migranti neo arrivati, ma soprattutto rispon-dono a un bisogno di relazione: in qualche modo compensano lospaesamento e l’isolamento che colpiscono molto spesso le persone

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straniere che arrivano qui, a meno che non arrivino seguendo cate-ne migratorie codificate o tramite il ricongiungimento familiare.

Un’altra cosa resa evidente da questo focus group è che a frontedi alcune persone piuttosto isolate, che comunque raccontavano unforte vissuto di solitudine, ce ne erano altre che chiaramente aveva-no seguito precise catene migratorie: in un territorio, per esempio inuna Provincia toscana, arrivano sempre persone che in qualche mo-do si richiamano. Con i migranti cinesi si vede moltissimo: in unastessa zona in Italia si trovano persone che provengono dallo stessoterritorio, addirittura a volte dallo stesso quartiere della stessa cittànel Paese di origine. Questo è un fenomeno che abbiamo riscontra-to in questo primo focus group, rafforzato poi dal ricongiungimentofamiliare, per cui c’erano soprattutto donne marocchine e albanesiche dimostravano, dopo alcuni anni dall’arrivo in Italia, di aver ri-costruito un contesto relazionale importante: sposate, con figli, fra-telli, cognati, erano riuscite a far arrivare i genitori, dimostrando lavolontà di insediarsi qui, di considerare “casa” il posto in cui sonoarrivate. Altra cosa, la perdita dello status sociale che purtroppo se-gue nella quasi totalità dei casi il percorso migratorio, soprattutto acausa della difficoltà del sistema italiano, ma direi europeo, del rico-noscimento dei titoli di studio, per cui anche le persone più qualifi-cate non riescono a trovare un’occupazione che corrisponda al lorolivello di istruzione. Una signora senegalese ha raccontato: io a Da-kar lavoravo all’Anagrafe e qui mi tocca lavorare alla conceria a batte-re le pelli. Non aveva nessun atteggiamento di disprezzo verso l’atti-vità che faceva, però in Senegal lavorava all’Anagrafe come impiega-ta, forse come quadro, e qui si trova a lavorare in conceria. E questoè un dato di fatto.

Un’altra testimonianza significativa è stata data da un ragazzogeorgiano che durante tutto il focus group, durato tre ore, ha ripetu-to più volte, con un atteggiamento estremamente polemico nei con-fronti degli altri partecipanti, che raccontavano episodi di intolle-ranza o di razzismo di cui si sentivano in qualche modo vittime, orao in passato, che sono gli stranieri che si devono adattare, che devonoimparare l’italiano, non sono gli italiani che devono sforzarsi. Ora, èevidente che gli stranieri debbano imparare l’italiano, è senz’altro ilprimo step dell’integrazione (poi spesso e volentieri sul territorio

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non ci sono corsi di italiano organizzati in modo tale da risponderealle loro esigenze), ma quello che mi ha colpito era il fatto che que-sta persona si facesse completamente carico delle difficoltà del suopercorso d’integrazione. È la strategia che si definisce di iperadatta-mento: quando una persona straniera arriva, soprattutto se arrivasola e non ha quindi una rete che ne aiuta l’inserimento, normal-mente vive due passaggi:la prima fase è quella che si definisce del-l’arroccamento, che probabilmente molti operatori sanitari conosco-no, cioè il ripiegamento sulla propria identità culturale fino a esa-sperarla: il rifiuto di imparare la lingua italiana, una sorta di rigidità,di chiusura sulla propria appartenenza perché evidentemente è l’u-nico elemento di stabilità di fronte a un contesto completamentenuovo e spiazzante. Nel giro di pochi mesi spesso queste personerovesciano questo atteggiamento con un altro se vogliamo moltopiù pratico, ma che comunque non è un atteggiamento di equili-brio, che è appunto la fase dell’iperadattamento: se mi voglio adatta-re devo diventare come loro, devo negare la mia diversità e assu-mermi tutte le difficoltà di questo mio percorso. Chiaramente en-trambi sono atteggiamenti estremi e fanno parte di questa categoriache in letteratura si chiama “stress da transculturazione”, che sem-plicemente è il vissuto di forte tensione, di frustrazione, che a voltesi controlla, a volte sfocia in somatizzazioni, a volte purtroppo an-che in un disagio di tipo psichico che colpisce la persona stranierache arriva in un contesto nuovo e deve rinegoziare la propria identi-tà, da una parte non volendo rinunciare a quello che ha lasciato,ma, dall’altra, evidentemente anche dovendo modificare delle partidi sé, e questa è una cosa estremamente faticosa. Altre persone so-stengono: non capivo niente e sono stata trattata malissimo. Una si-gnora della Costa D’Avorio raccontava di un episodio accaduto allasorella: presentatasi dal medico con delle bolle su una mano, si èsentita rispondere io quella pelle non la tocco; ovviamente la signoraha associato questo episodio al fatto di essere di colore. L’ultimo ca-so è di una ragazza rumena, che poi è diventata mediatrice cultura-le, che ha raccontato: io volevo andare da un medico del Servizio sa-nitario nazionale, ci tenevo perché dovevo fare un controllo di routi-ne, mi ricordo un’esperienza bruttissima per cui da quel giorno in poiil Servizio pubblico l’ho evitato per anni.

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Il tema del rapporto con gli operatori sanitari è in assoluto alcentro della discussione, cioè, essere curati bene, essere trattati be-ne, sono due dimensioni inscindibili, anche quando abbiamo chie-sto sforzatevi di separarle, inevitabilmente si intrecciano, anche que-sto non è tanto culturale, e vale anche per noi.

Le barriere nell’accesso dei servizi

Quello che ci ha colpito è la mancanza sostanziale di consapevo-lezza dei propri diritti da parte di queste persone, soprattutto perquello che riguarda l’accesso degli immigrati irregolari. Un uomoche è stato irregolare, dice: io ho fatto una tappa da immigrato illega-le, quando sei clandestino lo Stato non ti cura, mentre sappiamo chenon è così. In un gruppo di rumene nessuna sapeva dell’STP, nessu-na aveva mai acceduto a nessun servizio della zona pensando di nonaverne diritto.Una signora albanese che lavora come mediatrice, ciha chiesto durante il focus group: ma perché, gli irregolari hanno di-ritto a cure?, facendoci capire che c’è anche un problema di forma-zione.

Le barriere organizzative Ci sono persone che dovendo pagare ilticket hanno rinunciato alle cure. Oppure , questa è la frase emble-matica: io non posso andare dal medico di base perché lavoro, quindi ilproblema degli orari, di organizzare i servizi soprattutto territorialiin modo che possano corrispondere alle esigenze di queste persone.

Le barriere comunicative. Ho chiesto quanto è importante capirebene la lingua per essere curati bene:chiaramente ti dicono che tuttii problemi sono di comunicazione, tutto si risolve se ci si capisce.

La valutazione comunque, a prescindere da questi problemi, ècomplessivamente positiva, tutti rispondono positivamente alla do-manda: vi fidate dei medici italiani? Mi ha un po’ intristito la fortedifficoltà nell’ottenimento delle informazioni, alla domanda: chi viha in qualche modo orientato, dove avete ottenuto le informazioni?Tutti rispondono: nessuno, il passaparola, e questo è un punto di cri-ticità da tenere ben presente.

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Gli operatori

Il tema più discusso è l’atteggiamento delle persone straniere, aldi là dei problemi di comunicazione. Un medico di base dice: con icinesi non si riesce ad avere un rapporto, non si riesce mai a capire be-ne la situazione, sono chiusi, glielo dico, non ci prendiamo in giro, siscambiano i libretti, per cui è presente un vissuto non solo di diffi-coltà, ma anche di frustrazione rispetto a una situazione che non siriesce bene a capire. Un medico di Pronto Soccorso osserva che: so-no tutti arrabbiati quando arrivano da noi, la sensazione è che si sen-tano già discriminati Tante volte però, nei racconti degli operatori,l’atteggiamento degli utenti è di chi pretende. Lo stesso medico diceuna cosa molto significativa: nella relazione con gli extracomunitari,ho un problema di ordine pubblico. Se c’è caos è quasi sempre l’ex-tracomunitario che comincia, fa notare lo stesso medico, sono spes-so uomini, albanesi o rumeni: invece un senegalese può anche avereun piede spappolato sta ad aspettare (ma noi due giorni prima aveva-mo fatto un focus group in cui c’era un senegalese infuriato che inve-ce aveva creato molti problemi, questo a dimostrare quanto le cate-gorizzazioni si rivelino quasi sempre inesatte). Infine c’è un’infer-miera dell’Ostetricia, che un po’ sovvertendo tutto quello che dice-vano i colleghi sulla difficoltà di rapporto con la comunità cinese,ha detto: i cinesi sono organizzatissimi e sono efficienti, a me piaccio-no molto.

In generale si può dire che il tema della fiducia nel rapporto me-dico-paziente emerge in modo cruciale:questi utenti, soprattuttoquelli più difficilmente intercettabili, possono essere disponibili so-lo se si instaura un rapporto di fiducia personale con il medico. Loracconta un medico di base che dice: entri nella comunità se hai unapersona di riferimento, lo racconta il medico del Consultorio che èandato a fare visite domiciliari facendosi conoscere e che comunqueha stabilito un contatto con una signora cinese che vive lì da tempo,lo racconta l’infermiera del Consultorio che dice: se ci siamo io e ladottoressa, ci conoscono e non c’è problema, ma se c’è qualcun altronon si fanno vedere. Perché il rapporto con gli utenti immigrati siadavvero efficace è necessario individuare interlocutori presso le co-siddette comunità, cosa che di fatto già avviene per libera iniziativa

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degli operatori, in modo spontaneo e informale. Si riscontra peròuna sostanziale difficoltà di comunicazione interna all’Azienda, so-prattutto per quanto riguarda il passaggio di informazioni sull’esi-stenza e l’attivazione di servizi di mediazione. In un’Azienda che haun servizio di mediazione da molti anni, anche se in questo momen-to lo ha ridimensionato per mancanza di fondi, alla domanda: quan-do arriva un paziente straniero che cosa fate?, sinceramente mi aspet-tavo che gli operatori dicessero “chiamiamo il mediatore”, invecehanno risposto: ci arrangiamo. Comunque prevale una forma di me-diazione impropria, fatta dai cosiddetti accompagnatori, dai familia-ri – i cinesi che arrivano con il telefono e hanno qualcuno che parlaitaliano –, rispetto all’utilizzo dei servizi di mediazione aziendale.Questo è quello che dice il medico di Pronto Soccorso: se non c’èl’accompagnatore usiamo un manuale, gli facciamo vedere le parole,se no sono sempre al telefono con qualcuno che parla italiano, altri-menti gli facciamo vedere le cose sul computer. Si nota un grandesforzo organizzativo da parte degli operatori, ma evidentementemanca o non è sufficiente una risposta organizzata da parte dell’A-zienda.

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La salute dei migrantiFrancesca Santomauro

Scuola Superiore Sant’Anna, MeS

La priorità di un SSN di tipo universalistico e solidaristico, qualequello italiano, dovrebbe essere quello di contrastare le crescentidiseguaglianze nella salute svolgendo un ruolo di advocacy per igruppi più vulnerabili e realizzando modelli assistenziali in grado didare una risposta efficace ai bisogni di salute di tutti.

Tra i gruppi più vulnerabili ci sono gli immigrati e una questionesicuramente cruciale per il loro stato di salute riguarda l’accessibili-tà e la fruibilità dei servizi sanitari. L’accessibilità dipende soprattut-to dalla normativa, la fruibilità invece dipende dalla capacità cultu-rale dei servizi di adeguare le proprie risposte a quelle che sono lerichieste da parte di utenti “differenti”. Gli immigrati, infatti, hannouna difficoltà in più ad accedere ai servizi sociosanitari, soprattuttoa causa di barriere burocratiche e culturali che non gli permettonodi districarsi all’interno dei servizi che possono essere loro offerti.Molto spesso succede anche che non c’è, da parte degli stranieri, laconoscenza dei propri diritti e la capacità di farli valere. Per rendereefficaci i servizi, intraprendere nuove politiche di salute per gli im-migrati e contrastare le diseguaglianze nell’accesso alle cure, chehanno ricadute negative sulla salute degli immigrati e dell’interacollettività, è importante conoscere e capire il fenomeno migratorio,i bisogni di salute degli stranieri e come sono organizzate le Aziendesanitarie per rispondere ai bisogni di questa fascia di popolazione.

Al primo gennaio 2010, secondo i dati ISTAT, la popolazione ita-liana era di 60.340.328 (3.730.130 in Toscana). Sempre al primo gen-naio 2010 gli stranieri residenti in Italia erano 4.235.059, in Toscana338.746, quindi, oltre l’8% degli stranieri presenti in Italia risiedonoin Toscana, una delle Regioni in cui c’è il maggior afflusso di personestraniere. In linea con quello che succede a livello nazionale, in To-scana il numero degli stranieri è in costante aumento e al 1° gennaio

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2010 rappresenta il 9,1% della popolazione, valore che si confermacostantemente superiore rispetto a quello italiano (figura 1).

Muovendo dal livello regionale a quello delle singole Province(figura 2) notiamo come il maggior numero di presenze, secondo unvalore assoluto, si registri nella Provincia di Firenze, dove risiedonopiù del 30% degli immigrati di tutta la Regione e che dimostra cosìla sua importante e consolidata capacità attrattiva.

Tra i territori prescelti dai migranti per stabilire la propria resi-denza si distingue al secondo posto, ma con una netta distanza daFirenze, la Provincia di Arezzo, il cui territorio accoglie il 10,5%dei cittadini stranieri residenti nella Regione, attestandosi su valoripoco superiori alle Province di Pisa e Prato; la Provincia di MassaCarrara invece con il 3,8% fa registrare il più basso numero di pre-senze straniere.

I valori assoluti, pur importanti per delineare una cornice di rife-rimento rispetto al contributo che le singole Province esercitano sulnumero complessivo dei residenti in Toscana, non rappresentanoun indicatore efficace per comprendere il peso della presenza stra-niera sulla popolazione delle aree provinciali. Indagando quest’ulti-mo aspetto s’incontrano valori che ci mostrano quanti cittadini, su

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Figura 1. Popolazione di stranieri residenti sul totale dei residenti al 1°gennaio 2010 - Italia e Toscana.

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cento residenti, siano di origine straniera e ne risulta un quadro as-sai diverso rispetto alla situazione precedentemente raffigurata.

Guardando all’incidenza la Provincia di Prato sorpassa e distaccaquella di Firenze di oltre due punti percentuali, riconfermando lostorico primato regionale, conseguito nel 2000, per numerosità diresidenti stranieri nel proprio territorio rispetto alla popolazione re-sidente (figura 3).

La normativa a livello nazionale, ma anche quella regionale, dàtutte le indicazioni e il supporto che occorre ma molto spesso que-sto non basta per poter dare risposte su quali sono i bisogni di salu-te degli immigrati, qual è la domanda di salute, espressa e inespres-sa, in termini di accesso e utilizzo del sistema sanitario da parte de-gli stranieri, e ancora risposte a domande quali: il sistema sanitariorisponde effettivamente in maniera integrata ed univoca a tali popo-lazioni? Esistono margini di miglioramento?

Per poter dare parte delle risposte a queste domande è stato mes-so a punto uno studio esplorativo, “Immigrazione e salute, percorsidi integrazione sociale”.

Uno degli obiettivi di questo studio è proprio quello di conosce-re, attraverso un percorso esplorativo, come i servizi rispondono aibisogni espressi ed eventuali bisogni inespressi di tali popolazione:tale analisi è strutturata in due principali fasi. La prima riguarda

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Figura 2. Distribuzione stranieri residenti nelle province toscane al 1° gen-naio 2009.

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un’analisi sul campo dei servizi dedicati e non agli immigrati, attra-verso una mappatura dei servizi fino ad oggi offerti all’interno delsistema sociosanitario toscano. La seconda fase invece prevede la ri-cerca e lo studio di eventuali best practices a livello sia nazionale cheinternazionale al fine di poter cogliere dalle esperienze di maggiorsuccesso possibili margini di miglioramento e riorganizzazione al-l’interno del sistema sanitario toscano.

Per ricavare queste informazioni siamo dovuti intervenire a tre li-velli: a livello aziendale, per capire il coinvolgimento dei verticiaziendali rispetto a questo fenomeno, a livello amministrativo pervedere quali erano i servizi per gli immigrati, sia quelli territorialidell’ASL, sia quelli ospedalieri, sia come ASL che come Aziendaospedaliera universitaria.

A livello amministrativo abbiamo chiesto, alle 12 ASL e alleAziende ospedaliere universitarie (Careggi, Meyer, Pisana e Senese),di indicarci il numero totale di stranieri iscritti al Servizio sanitarioregionale e di fornirci una serie storica a partire dal 2000, il numerodegli stranieri stratificato per nazionalità e per età (0-5, 6-14 e mag-giore di 14 anni, per avere informazioni sulle fasce dei bambini inetà prescolare e scolare) e suddiviso per zona-Distretto, il numerodi tessere STP (Straniero Temporaneamente Presente) rilasciate

Figura 3. Percentuale stranieri residenti sul totale dei residenti nelle Pro-vince toscane al 1° gennaio 2009.

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presso le strutture aziendali, siano esse ASL o AOU con la serie sto-rica a partire dal 2000.

La percentuale degli stranieri non iscritti al Servizio sanitario re-gionale sul totale degli stranieri residenti è pari a 17,3%.

Dividendo gli iscritti per fasce di età, in Toscana vediamo comequasi l’80% ha un’età maggiore di 14 anni e circa il 9,5% e quasil’11% fra 0-5 anni e 6-14 anni (figura 4).

Analizzando i dati delle singole ASL, la situazione sembra essereabbastanza uniforme, però c’è la percentuale di popolazione deglioltre 14 anni che appiattisce un po’ gli istogrammi (figura 5).

Riportando su un istogramma solo le prime due fasce d’età, quel-la prescolare e quella scolare, quel circa 9,5% e 10%, che abbiamovisto per la popolazione toscana in generale, non si ritrova unifor-memente in tutte le ASL. Basta vedere, ad esempio, il dato dell’ASL4 di Prato in cui i bambini al di sotto dei sei anni superano addirit-tura il 14%, lo stesso a Empoli dove si riscontrano percentuali mol-to più elevate rispetto alla media regionale (figura 6).

Dai dati ISTAT risulta che il 38% della popolazione dei residentiin Toscana ha un’età compresa tra 6 e 14 anni, il 27% tra 0 e 5 annie il 35% ha più di 14 anni e che la percentuale degli ultraquattordi-cenni stranieri sale a oltre l’80%. Dai dati che ci hanno fornito leASL risulta che gli ultraquattordicenni iscritti al sistema sanitarioregionale sono l’80%, l’11% ha un’età fra 6 e 14 anni e il 9% fra 0 e5 anni (figura 7).

LA SALUTE DEI MIGRANTI

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Figura 4. Stranieri iscritti al SSR nel 2009 per fasce di età in Toscana.

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Il dato totale di tutta la Toscana mostra come nelle tre fasce d’etàconsiderate la percentuale di stranieri non iscritti è notevolmentediversa da fascia a fascia, con una percentuale che arriva quasi al20% di non iscritti negli ultraquattordicenni, si riduce moltissimofra i 6 e i 14 anni, ed è circa del 10% fra 0 e 5 anni (figura 8).

FRANCESCA SANTOMAURO

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Figura 6. Stranieri iscritti al SSR nel 2009 per fasce di età e per ASL.

Figura 5. Stranieri iscritti al SSR nel 2009 per fasce di età e per ASL.

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LA SALUTE DEI MIGRANTI

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Figura 7. Residenti, stranieri residenti e iscritti al SSR nel 2009 per fasce di età.

Figura 8. Stranieri residenti iscritti e non iscritti al SSR nel 2009 per fascedi età.

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Osservando il numero di stranieri iscritti per ASL si osserva chel’ASL 10 di Firenze è quella che ha il maggior numero di iscritti, se-guita da Arezzo e Prato (figura 9). Negli anni l’andamento tempora-le degli stranieri iscritti al Servizio sanitario è in continuo aumento,con un incremento maggiore a partire dal 2008 in alcune ASL, so-prattutto in quelle di Livorno, Firenze e Prato (figura 10).

FRANCESCA SANTOMAURO

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Figura 9. Stranieri residenti iscritti al SSR nel 2009 per ASL.

Figura 10. Andamento temporale degli stranieri residenti iscritti al SSR nel2009 per alcune ASL.

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Le tessere STP possono essere rilasciate dalle AOU, dagli Ospe-dali delle ASL e dai servizi territoriali. Il numero di tessere STP rila-sciate nel 2009 è risultato molto elevato nell’ASL 4 di Prato, seguitada Firenze, Empoli e Pisa (figura 11). Per quanto riguarda l’anda-mento temporale delle tessere STP rilasciate in alcune ASL, si nota-no dei picchi dovuti probabilmente al fatto che sono entrate in vi-gore delle normative che hanno regolarizzato gli stranieri come èsuccesso ad esempio nel 2003 che ha causato un crollo temporaneodel numero di tessere STP (figura 12).

Per ciascun servizio territoriale per gli immigrati (quelli dedicatio comunque prevalentemente fruiti da essi) ci è stata fornita una de-scrizione dettagliata con riferimento a quale personale lavora all’in-terno di queste strutture, per quante ore, la tipologia di rilevazionedei dati, se questi sono informatizzati o cartacei, eccetera; è statoinoltre chiesto il numero di accessi, la nazionalità dei fruitori e altreinformazioni che stiamo ancora elaborando. In nove ASL sono pre-senti servizi ambulatoriali generalisti per STP attivati a partire dal2000 con modalità diverse (personale ad hoc, medici dipendenti,medici di famiglia, convenzione con volontariato e/o terzo settoreed altro. Le ASL nelle quali non sono presenti servizi ambulatorialigeneralisti per STP sono quelle di Massa, Lucca e Arezzo.

LA SALUTE DEI MIGRANTI

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Figura 11. Tessere STP rilasciate nel 2009 per ASL.

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Come si può osservare nella figura 13, la ASL 10 di Firenze èquella che offre un maggior numero di servizi territoriali (ambula-tori STP, ostetrico-ginecologici, malattie infettive, consultori pe-diatrici), mentre nelle altre non c’è una grossissima presenza diservizi territoriali. Naturalmente a un elevato numero di serviziterritoriali non sempre corrisponde un altrettanto elevato accessoalle strutture: a Prato, ad esempio, c’erano solo quattro servizi ter-ritoriali per stranieri ma il numero di accessi è molto elevato e su-pera anche quello di Firenze. Inoltre, c’è una situazione molto va-ria tra le ASL.

È stato chiesto inoltre alle ASL di fornirci i dati dei consultoriostetrico-ginecologici per l’utenza generale, consultori ai quali si ri-volge anche la popolazione straniera. La percentuale di stranieri cheaccede a questi consultori è risultata pari al 21%. Naturalmente talepercentuale aumenta laddove non ci sono servizi territoriali dedicati.

Molti altri dati richiesti sono in fase di elaborazione.Per poter garantire alla popolazione immigrata il diritto alla salu-

te occorre ottimizzare l’efficacia dei servizi migliorando l’informa-zione sul loro funzionamento, attuare una strategia di offerta attiva,

FRANCESCA SANTOMAURO

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Figura 12. Andamento temporale delle tessere STP rilasciate in alcune ASLnel 2009.

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e infine occorrono pratiche con sicure ricadute positive per gli stra-nieri, specie per coloro che sono più vulnerabili.

Saper rispondere ai bisogni delle fasce più deboli dal punto di vi-sta socio-economico è un buon indicatore dell’efficacia di un siste-ma sanitario. Rendere il sistema più flessibile nelle risposte permettedi migliorare efficienza ed efficacia nei confronti di tutti cittadini.

Molto è stato fatto, qualcos’altro stiamo facendo, ma a mio pare-re molto deve essere ancora fatto e non mi resta che ribadire l’im-portanza di un lavoro multidisciplinare che da tempo si invoca nel-l’ambito sanitario dove sono previste diverse professionalità chespesso non si incontrano. Il tema dell’immigrazione può e deve es-sere un’occasione per un lavoro comune.

LA SALUTE DEI MIGRANTI

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Figura 13. Accessi ai consultori ostetrico-ginecologici per l’utenza generalein totale e per ASL.

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L’impegno per il rispetto dei diritti umaniAndrea Bassetti

Medici per i diritti umani - MEDU

“Medici per i diritti umani” (MEDU) è un’associazione di solida-rietà internazionale, di volontari, che opera sia in Italia che all’este-ro e l’obiettivo fondamentale è quello di far rispettare il diritto allasalute e quindi permettere l’accesso alle cure per le persone che vi-vono nell’emarginazione sociale collaborando sempre con il serviziosanitario pubblico. Questo è uno dei principi fondamentali perchènon cerchiamo di fare una sanità parallela, ma di far capire alle per-sone come si usufruisce del sistema sanitario pubblico già presentesul territorio.

All’estero abbiamo dei progetti in Ecuador, Colombia e Cisgior-dania, dove il nostro principio è di valorizzare i partner locali, il ser-vizio sanitario che già esiste in quel Paese; MEDU è il tramite siaper i finanziamenti, sia per il monitoraggio e coordinamento delprogetto per sviluppare nuove pratiche di salute pubblica che ren-dano indipendenti le comunità beneficiarie che vivono su quei terri-tori e che possono usufruire del proprio servizio sanitario.

In Italia, il progetto si chiama “Un camper per i diritti”, è attivodal 2006 e negli anni abbiamo costruito delle reti qui in Toscana. AFirenze in particolare con la ASL, l’Agenzia regionale di Sanità,l’Ordine dei medici, ed è nostro obiettivo lavorare insieme al servi-zio pubblico per migliorare l’accesso alle cure di chi vive in contestidi emarginazione.

Come metodologia di intervento decidiamo le zone dove interve-nire facendo un monitoraggio epidemiologico, cercando di capirequali comunità ci vivono e cerchiamo di creare un rapporto di fidu-cia, cercando di capire il Paese di provenienza, le credenze, la reli-gione, il tipo di rapporto con il sistema sanitario del Paese di origi-ne, che è fondamentale. Al nostro interno, infatti, non siamo solomedici, ci sono tra noi operatori sanitari di varie discipline, infer-

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mieri, ostetriche, psicologi, abbiamo anche un team di antropologi edi laureati in legge, avvocati o giuristi, che ci aiutano soprattuttosulla parte normativa. Per ogni paziente compiliamo una scheda siaclinica che anagrafica, quindi raccogliamo tutte le notizie riguardan-ti la loro salute, se hanno la tessera sanitaria o il permesso di sog-giorno, che tipo di accesso alle cure hanno avuto, se si rivolgonosempre al Pronto Soccorso oppure se conoscono gli ambulatoriSTP (Straniero Temporaneamente Presente) sul territorio. Cerchia-mo quindi di avere una prima idea sul loro modo di utilizzare il no-stro servizio e in casi selezionati decidiamo di accompagnare noistessi le persone quando ci sono dei problemi, di solito burocratico-amministrativi, e le persone non conoscono ancora bene l’italianoma di solito cerchiamo di rendere indipendenti le persone sull’uti-lizzo del servizio. Il nostro progetto è attivo, è chiaramente a tuttotondo, ci occupiamo dei senza fissa dimora e una comunità che ab-biamo incontrato è quella rom rumena.

Una delle problematiche principali che noi incontriamo quandosi parla di diritto alla salute e di accesso alle cure per le comunitàrom che vivono negli insediamenti spontanei è quella degli sgombe-ri. L’area della ex Osmatex, dove viveva da molti anni la comunitàrom rumena che abbiamo seguito con il progetto è stata sgomberatal’anno scorso (gennaio 2010) e si è verificata una situazione d’emer-genza perché comunque si è creato un problema per settanta perso-ne che si sono ritrovate per la strada dall’oggi al domani. Questo èun problema anche per noi che operiamo nelle loro abitazioni, per-ché anche se è una discarica a cielo aperto la considerano la propriacasa. È veramente difficile in questi casi anche mantenere il rappor-to di fiducia che si era instaurato perchè quando ci si ripresenta avolte ci hanno detto: è colpa vostra, allora è meglio rimanere invisibi-li perché altrimenti vengono fuori problemi e ci mandano via.

Mi dispiace come fiorentino, ma se fosse stata un’altra comunitàin un’altra città l’indignazione sarebbe stata forse maggiore; tra l’al-tro a livello nazionale i rom sono stati considerati un’emergenza perdecreto ministeriale, come un uragano o un terremoto.

In un altro degli insediamenti dove era attivo il progetto è andatoa fuoco un capannone rivestito di amianto sotto al quale erano co-struite le baracche di circa quaranta persone, che sono rimaste a Fi-

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renze e sono andate a vivere tutte in un insediamento, ora sono cen-to. I problemi che noi rileviamo sul territorio sono presenti soprat-tutto per questa comunità. Ci sono scarse condizioni igienico-sani-tarie che noi denunciamo continuamente anche andando nelle Am-ministrazioni pubbliche. Di solito questi insediamenti sorgono sem-pre in zone di confine dove è difficile individuare di quale Ammini-strazione comunale sia la responsabilità, MEDU continua a denun-ciare queste situazioni di degrado e abbandono sociale ma la rispo-sta da parte delle Amministrazioni è solo quella dello sgombero. In-contriamo molte difficoltà per riusciare in qualche modo a far rego-larizzare le persone da un punto di vista sanitario o con la tesseraSTP; quando si interviene con gli sgomberi rimane tutto sepoltosotto le baracche e le persone perdono quello che avevano, compre-si i referti medici. Ciò è ancora più grave se si pensa che la rispostache noi abbiamo ottenuto al nostro intervento con queste persone èmolto buona.

I nostri dati (vedi grafici 1 e 2) confermano che l’utenza che ab-biamo incontrato in questi anni è molto ricettiva e dopo la prima vi-sita, in cui spieghiamo alle persone come ottenere la tessera STP e acosa serve, alle visite successive, quando rincontriamo le stesse per-sone, queste hanno fatto la tessera. Da quel momento diventa piùfacile poter indirizzare chi ha bisogno agli ambulatori evitando ac-cessi impropri al Pronto Soccorso. Questi dati ci confortano perchési vede che comunque è un lavoro che funziona.

Dopo gli sgomberi si perde tutto, la fiducia delle persone, il ma-teriale sanitario, la propria abitazione.

L’IMPEGNO PER IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI

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Grafico 1. Tessera sanitaria alla prima visita

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Quando sono stato da queste persone, nel loro insediamento misono sempre sentito accolto come andando a casa dai miei amici,eppure c’erano topi, buchi nel muro, amianto, perché ora vivono incontainer ricoperti amianto. Questo per farvi capire come l’ospitali-tà sia molto importante per loro. A volte ci dimentichiamo che sonodelle persone.

Ci sono tanti pregiudizi sui rom, per avere un’idea in Italia, ri-spetto agli altri Paesi europei, i numeri non sono eccezionali, nonpossono essere considerati un’emergenza. La comunità rom piùgrande a livello europeo è quella della Romania che, in seguito an-che all’entrata di questo paese nell’Unione Europea, sono arrivatiqui da noi in Italia. Le persone della comunità rom rumena che ab-biamo conosciuto in questi insediamenti spontanei a Firenze pro-vengono quasi tutte dalla stessa città, dallo stesso quartiere. Sononuclei familiari che si spostano, spesso sono marito e moglie e dopoun breve soggiorno tornano in Romania e portano gli anziani o i lo-ro figli. Sono dei nuclei familiari che cercano comunque di insediar-si qua in Italia, dove hanno intenzione di cercare di ricostruirsi unavita dato che in Romania hanno diversi problemi, quindi non si puòpensare che sia un problema che si risolve con lo sgombero. Lamaggioranza di loro sono analfabeti perché in Romania sono discri-minati e hanno serie difficoltà nell’accesso alle cure, alla scolarizza-zione, al lavoro. Il problema è là, tant’è che nei Paesi dell’est Euro-pa hanno implementato dei programmi di inserimento lavorativo,scolastico, ecc dei rom, perché la comunità è veramente numerosa.Ci sono dei finanziamenti previsti per l’inserimento nelle scuole, per

Grafico 2. Tessera sanitaria acquisita all’ultima visita

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L’IMPEGNO PER IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI

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facilitare l’accesso ai servizi sanitari, però questi programmi sonoancora molto indietro a quanto è riportato in letteratura.

Per loro l’Italia è un Paese dove si può fare fortuna, si può starebene, si può ricrearsi un nuova vita e invece anche qui trovano mol-ti pregiudizi, molti ostacoli. Nessuna delle persone che abbiamo in-contrato durante le nostre uscite, alla prima visita, era regolarizzatada un punto di vista amministrativo, ovvero, nessuno di loro avevala tessera STP. Nel nostro lavoro ci concentriamo più al diritto allasalute e a individuare quali sono i problemi che le persone incontra-no quando vogliono rivolgersi al servizio sanitario, poi chiaramentesi aprono delle finestre su tanti aspetti, lavoro, scuola e altro. Volevosoffermarmi su alcuni aspetti della Romania per farvi capire che co-munque rispetto all’Italia ci sono delle grosse problematiche di sa-lute come un forte ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza,si rilevano dei picchi dovuti al fatto che sono cambiate le leggi chepermettevano o meno l’interruzione volontaria di gravidanza in Ro-mania; comunque sono numeri sempre molto più elevati rispetto aquelli italiani, quindi, lo considerano un metodo a cui ricorrerespesso. La mortalità materna è una delle più alte in Europa. Anchela mortalità infantile ha un valore molto elevato, rispetto all’Italia ealla media dei Paesi europei, la speranza di vita è di dieci anni piùbassa, questo è un dato del 2006, era confrontabile quindi ho messoquesto gli Ospedali hanno meno attrezzature. Questa che vi ho illu-strato rappresenta la situazione dei rumeni in generale, in Romania irom hanno dei problemi ancora maggiori di accesso alle cure, didiscriminazione. Per esempio interi villaggi a volte vengono, o sonostati, presi d’assedio dalle comunità non rom. C’è una forte corru-zione del personale medico. Ci hanno raccontato che per una visitaambulatoriale, semplice, di base, il medico chiede un prezzo, unatassa e le persone se non pagano, non hanno la visita, però parados-salmente questa richiesta di denaro, l’abbiamo analizzato con l’an-tropologo, viene vista come una bravura del medico. Quando an-diamo lì e li visitiamo, ci dicono: ma voi non siete bravi, non ci chie-dete nemmeno i soldi e poi dammi la pasticca, cioè, è associato dare isoldi, prendere la pasticca e andare via. Noi invece andiamo lì, li vi-sitiamo, e se hanno mal di testa, spieghiamo loro che c’è da misura-re la pressione. C’è un iter da seguire in Italia che funziona così e

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quindi anche quando andrete all’ambulatorio troverete questo tipo dipersone e di medici che faranno in questo modo. Questo è uno deimotivi, una delle tante spiegazioni, che posso dare a chi poi si ritro-va magari al Pronto Soccorso. Tutti gli altri indicatori, della mortali-tà, materna, infantile e generale, sono tutti più alti rispetto a quellimedi della Nazione e la cosa che colpisce è il dato relativo alla co-pertura sanitaria: nessuno di loro è iscritto in Romania al Serviziosanitario nazionale, quindi, nessuno ha la tessera europea è per que-sto che in Toscana sono stati equiparati agli stranieri non comunita-ri (STP).

Altre notizie sempre discusse e rilevate con l’antropologo: questacomunità specifica dei rom rumeni non ha una medicina tradiziona-le, e quindi fruisce del servizio che c’è nel Paese dove sono arrivati ecomunque fanno continui viaggi tra Firenze e la Romania, stannotre, quattro mesi, poi tornano, magari vanno a trovare i figli, la fa-miglia, poi tornano in giù magari con il figlio che sta male perchésanno che qui c’è il Meyer che è un Ospedale per bambini moltoimportante per loro.

La delibera della Regione Toscana tutti gli anni è stata rinnovata,la difficoltà che noi abbiamo riscontrato quando siamo andati nellacomunità a dire: andate a fare l’STP, sono stati i primi due mesi del-l’anno perché la delibera non era ancora stata rinnovata, questo èstato un buco normativo che si è ripresentato regolarmente tutti glianni. Dall’anno scorso abbiamo subito iniziato preventivamente adire alla Regione di ricordarsi di rinnovarla prima che scadesse,quest’anno ci hanno promesso che ci stanno già lavorando e chenon ci saranno problemi, ci terremo aggiornati perché poi c’è sem-pre qualcuno che ci viene a chiedere: ma allora mi dai la delibera al-meno siamo tranquilli che i rumeni possono accedere all’STP? Speria-mo che quest’anno non ci siano questi buchi normativi.

Questi sono alcuni dati che mostrano ciò che abbiamo rilevato,sono nuclei familiari, quindi, pari proporzioni tra uomini e donne,età giovane (vedi grafico 3), anche proprio per il discorso dell’etàmedia che vi dicevo, non vivono molto a lungo e questo è il dato,per noi più importante, della buona risposta anche delle persone, co-munque se vengono informate, se gli si spiega, si fidano, vanno a farela tessera, che è il primo passo per essere curate bene, nel modo ap-

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propriato, senza che vadano a finire appunto ad aspettare ore alPronto Soccorso per una tosse, questo è il nostro obiettivo principale.

La mancata informazione sul diritto alla salute è il problemaprincipale che ci sottolineano anche loro, poi c’è il problema dellalingua, del tempo, sono tutti problemi ricorrenti, comuni e sicura-mente di questi punti non ce n’è nessuno nuovo rispetto a quelli giàcitati da altri operatori.

Abbiamo fatto delle interviste anche agli operatori dei nostri ser-vizi sanitari, perché per MEDU è importante lavorare con gli opera-tori, anche perché noi stessi siamo operatori che lavorano nei servizipubblici.

Quando siamo nei servizi abbiamo poca possibilità di andare noia conoscere queste comunità, e abbiamo comunque bisogno di co-noscenze più appropriate sulla normativa, a volte anche noi stessinon siamo al corrente di procedure burocratiche o amministrative;è importante anche conoscere il servizio di mediazione linguistico –culturale a cosa serve e come si attiva; questi aspetti sono sicura-mente da potenziare.

I dati che abbiamo elaborato mostrano che le patologie più fre-quentemente riscontrate negli insediamenti sono quelle dell’appara-to digerente e respiratorio, correlate strettamente alle scarse condi-zioni igienico-sanitarie, infatti quando viene freddo e loro abitanoin quelle baracche, effettivamente hanno tutti tosse, bronchite. Lemalattie infettive costituiscono una bassa percentuale, però bisognadire che quando ci sono, sono di difficile gestione, come la tuberco-losi o la scabbia. Riuscire ad attuare una prevenzione, dei contatti,

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Grafico 3. Analisi per fasce di età

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uno screening dei contatti o la ricerca dei contatti, diventa difficileper gli operatori a cui arriva la notifica dell’igiene pubblica perchénon conoscono dove abitano, quindi, diventa proprio difficile la ge-stione di queste malattie e questo lascia aperta poi la discussione ela riflessione. Riguardo alla salute sessuale e riproduttiva, c’è sem-pre il problema delle gravidanze, nessuno screening effettuato dalledonne, come metodi contraccettivi sono utilizzati la spirale e la le-gatura delle tube.

Nel 2009 abbiamo partecipato ad un progetto nazionale, sempredi orientamento e informazione, in cui abbiamo elaborato un opu-scolo. L’idea è nata insieme ad una antropologa e ad una mediatriceculturale: l’opuscolo racconta la storia di un matrimonio, quindi,tramite messaggi positivi sul mondo rom, sulla loro cultura, abbia-mo fatto passare il messaggio di non fumare, non bere, però tuttocon un approccio narrativo. È piaciuto, abbiamo condiviso con loroi disegni, ce li hanno consigliati loro, per esempio, c’è il nonnino almatrimonio che doveva avere il cappello, noi lo avevamo disegnatosenza ed era un grave errore. I punti di forza sono stati il coinvolgi-mento della comunità, il mediatore e partecipare insieme al gruppoper far sì che i messaggi passassero. I prossimi passi saranno il mag-gior coinvolgimento delle Istituzioni, i contatti con la Regione e conl’ARS. Questi contatti con il mondo pubblico siamo riusciti ad otte-nerli negli ultimi anni, siamo riusciti con il tempo a farci conosceree a far capire che comunque affrontiamo problematiche importanti.Devo dire, con sensibilità veramente buone perché la Regione To-scana si è offerta di ascoltare anche delle proposte che possono es-sere fatte, l’ARS ha collaborato nell’elaborazione dei dati fornendo-ci un database, l’Ordine dei medici ci conosce, stiamo lavorandosempre di più insieme e questo è veramente un risultato positivo.

ANDREA BASSETTI

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La situazione degli immigrati in ToscanaFrancesco Cipriani

Coordinatore dell’Osservatorio di EpidemiologiaAgenzia regionale di sanità della Toscana

Lavorando per sette anni al servizio di Epidemiologia a Prato,dove c’è un’alta presenza di immigrati, ho dovuto interessarmi ne-cessariamente dell’immigrazione. E così è per i medici, soprattuttodel Pronto Soccorso, che avevano un problema pressoché quotidia-no con gli stranieri. Nella Tab. 1 sono riportate le fonti sullo stato disalute degli immigrati in generale Ci sono le fonti delle informazionidemografiche: l’ISTAT, l’Anagrafe comunale e l’Anagrafe sanitariadegli assistibili, l’Ufficio scolastico provinciale per i bambini, e leQuesture con i permessi di soggiorno. Salterò tutta la querelle diche cosa ci sta sul permesso di soggiorno, con il problema della re-gistrazione dei minori e dei ricongiungimenti familiari e la duratadel permesso di soggiorno, normalmente di sei mesi e con tutti isuoi problemi di discrezionalità. Immaginate poi a Prato, con i cine-si che sono difficilmente distinguibili l’uno dall’altro, con la questio-ne delle fotografie, dei riconoscimenti, di chi è il dichiarante e cosìvia. Quindi, grande difficoltà ad avere certezza anche di questi nu-meri elementari: quanti sono?. Poi ci sono le fonti soprattutto di da-ti sanitari: l’Agenzia regionale di sanità (ARS), l’Osservatorio socialeregionale, poi c’è l’INAIL con gli infortuni, la Caritas che dà deglielementi di tipo più sociale, poi alcuni gruppi di medici che si occu-pano di situazioni più marginali (MEDU - medici per i diritti uma-ni), e ambulatori sanitari particolari per immigrati irregolari (ambu-latorio Stenone), e l’IRPET con le informazioni sulle attività econo-miche degli immigrati. Anzi IRPET ha un vero e proprio Osservato-rio anche sul sito, e la stessa cosa ce l’ha il Comune di Prato, che haun Osservatorio sugli immigrati con dati anche regionali. E poi c’èanche l”Albero della Salute”, che è un’istituzione però più orientataagli aspetti culturali, antropologici. Molte quindi sono le istituzioniche in Toscana hanno dati sugli immigrati, non sempre correlate pe-

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rò l’una con le altre. Ognuno fa un pezzo di strada e poi si scopreche l’ha fatto anche quell’altro. C’è ancora poco coordinamentonella diffusione di dati simili. I dati ci sono, non mancano, sono pu-re troppi, anche su questo specifico argomento. Poi vediamo invecela loro qualità, ed è un po’ come con i dati della Società della Salu-te. Ormai abbiamo più di cento indicatori di tipo sanitario sul no-stro sito web per le Società della Salute, ed altrettanti indicatori so-ciali li ha messi l’Osservatorio sociale regionale. Quindi, ci sono in-dicatori per fare Profili di salute di tutti gli ambiti territoriali per inostri miseri tre milioni e settecentomila abitanti in Toscana, chepoi è poco più di una mezza metropoli. C’è quindi una grandequantità di dati, pure troppi. Il problema adesso non è più di trova-re i dati, che era una difficoltà tipica di anni fa, ma di interpretarli edar loro un senso. A Prato abbiamo prodotto quattro Profili di salu-te e la polemica intorno a questi documenti, pur belli e ben fatti,non era più sulla la mancanza di dati, che rendeva difficile decideree programmare, ma piuttosto sulla carenza degli interventi. Abbia-mo prodotto questi profili, immagini, disegni, grafici, tendenze, evi-denziando problematicità e criticità, e abbiamo fotografato e filma-to il fotografabile e il filmabile. Poi però dopo non è più compitodell’epidemiologo. Dopo occorre il passaggio all’azione.

Le tipologie di stranieri presenti

Intanto ci sono gli stranieri che risiedono regolarmente iscrittiall’Anagrafe comunale, e loro si iscrivono con gli stessi criteri concui si iscrivono gli italiani. Poi ci sono i permessi di soggiorno, chesono temporanei, di durata variabile e ce l’hanno le Questure, marecentemente anche le Province in copia, anche se non in tutte leProvince. In alcuni posti hanno fatto dei gruppi di lavoro congiuntitra Provincia, Comuni e Questure, ed hanno aperto degli uffici cheaiutano la Questura al rilascio e alla registrazione dei permessi disoggiorno ed a ciò che c’è scritto nel permesso di soggiorno. A Pra-to, per esempio si comincia ad avere l’idea anche di quanti sono ifamiliari di quelli con i permessi di soggiorno. Poi ci sono gli stra-nieri irregolari, definiti STP nelle Asl (Stranieri Temporaneamente

FRANCESCO CIPRIANI

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Presenti), che è una situazione che viene registrata a livello sanita-rio. L’STP va allo sportello dell’Asl dove può essere che non c’èun’unica procedura di registrazione con un metodo univoco pertutti i servizi. A Prato, a dire il vero qualche anno fa, feci una revi-sione delle procedure usate in tutti gli sportelli della stessa ASL, everificammo che sportelli in punti diversi facevano cose un po’ di-verse. Col tempo però le cose si sono fatte più omogenee. In ognicaso, alla persona che lo richiede, se non regolarmente residente,viene dato un codice e un cartellino STP e tutte le volte che fa unatto sanitario dovrebbe portarlo con sè, ma se non lo porta nonsuccede nulla di particolare perché gli viene dato un altro codiceSTP. Quindi è possibile che con i codici STP noi contiamo le stessepersone tante volte. Inoltre, c’è anche una differenza tra gruppi et-nici nella propensione ad iscriversi al SSN con o senza il codiceSTP. Cioè, regolari o irregolari. Per esempio, sempre a Prato, c’eraun gruppo di marocchini che si registravano più volentieri all’ASL,anche come STP, in qualche forma, dando qualche documento,perché conoscendo la natura degli italiani, avevano imparato che incaso di sanatoria, sarebbe servito un documento che attestasse lapresenza sul territorio da almeno “x” anni o tempo, ed il documen-to sanitario poteva costituire l’unica prova di questo. Invece altrigruppi etnici sono diffidenti rispetto all’iscrizione e registrazionenei servizi sanitari, e solo in caso di gravi malattie si rivolgono alservizio sanitario. Quindi, questo codice STP chissà cosa rappre-senta veramente. Poi ci sono i dati sui minori a scuola, e l’Ufficioscolastico provinciale ha invece dati più sicuri e completi su tutti ibambini registrati. E poi c’è da ricordare la distinzione importantetra uno straniero che viene da un Paese a forte pressione migrato-ria (PFPM), cioè i Paesi più poveri, ma ci può essere anche unostraniero da Paesi a sviluppo avanzato (PSA), come un tedesco,francese, giapponese, che magari è qui per motivi di lavoro, e poimagari si sposa e rimane qui, e questo è un altro tipo di stranieroovviamente.

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Gli aspetti demografici

Gli stranieri sono in forte aumento e ci sono salti nella curva dicrescita nel corso degli anni, perché c’è un problema di regolarizza-zione, per cui improvvisamente si vedono aumentare solo in quantovengono registrati perché non sono più irregolari. Come nel casodei rumeni, che sono diventati comunitari e quindi gli irregolaripresenti nel territorio sono diventati regolari. Gli stranieri regolar-mente residenti, cioè iscritti alle Anagrafi comunali, sono distintiper ogni Provincia (Tabella 1). A Prato c’è il 13% di stranieri e a

Firenze l’11%, quindi il grosso sta nell’area metropolitana, mentrele variazioni percentuali maggiori negli ultimi anni hanno riguarda-to quelle aree che tradizionalmente avevano meno stranieri, mentredove erano già tanti è ovviamente minore il tasso di incremento. Main numeri assoluti sono di meno. Le nazioni più rappresentate sonola Romania, da quando è diventata comunitaria, poi l’Albania, la

Tabella 1. Stranieri regolarmente residenti in Toscana per Provincia al 1gennaio 2010 – Fonte: Istat, 2010.

Provincia N % Var %2007-2009

Prato 31.450 12,7 + 12,4

Firenze 103.979 10,5 + 22,7

Siena 27.977 10,3 + 26,4

Arezzo 35.513 10,2 + 21,3

TOSCANA 338.746 9,1 + 23,1

Pistoia 26.132 8,9 + 21,5

Grosseto 19.093 8,4 + 30,5

Pisa 33.652 8,1 + 25,5

Lucca 26.502 6,8 + 26,6

Livorno 21.676 6,3 + 27,0

Massa-Carrara 12.772 6,3 + 27,6

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Cina ed il Marocco. Queste quattro rappresentano il grosso deglistranieri presenti in Toscana, ma la loro distribuzione è un po’ di-versa per Provincia. Romania, Albania e Marocco sono un po’ovunque più o meno le prime tre etnie, con qualche eccezione, co-me a Prato dove la Cina è il primo gruppo. Dal quarto posto in poici sono maggiori differenziazioni territoriali. A Grosseto c’è ungruppo macedone percentualmente importante, ma sono pochi inassoluto gli stranieri, così come gli ucraini a Livorno e a Grosseto, inati in Bangladesh e India ad Arezzo. A Pistoia gli albanesi sono im-piegati nei vivai, mentre i cinesi hanno fatto un loro gruppo a Pratoe anche a Firenze sono abbastanza rappresentati, soprattutto a SanDonnino. Ci sono dei cluster ben conosciuti a livello territoriale. C’èpoi la presenza dei minori, identificati in vario modo. Questa diapo-sitiva riporta la percentuale di stranieri minori sul totale degli stra-nieri. Sono di più a Prato e a Firenze, in genere perché è da piùtempo che i gruppi etnici si sono insediati qui, e ci sono quindi deifenomeni demografici dinamici differenti.

Chi si occupa di dati sanitari sugli stranieri sono gli stessi che lofanno per gli italiani, per tutti i cittadini. Nei nostri archivi, che poisono gli archivi sanitari di tutti i cittadini che ci sono in Regione, cisono i soggetti che le Aziende sanitarie registrano con il codice fisca-le trasformato in un codice anonimo che si chiama “iduni”, che è uncodice nuovo inventato che però è sempre uguale per la stessa per-sona. Quindi, per esempio, Francesco Cipriani nell’Asl è registratosempre con il codice fiscale, ma questo, quando va in Regione con leinformazioni sanitarie attaccate, è trasformato in un nuovo numeroidentificativo – iduni appunto – che per Francesco Cipriani saràsempre quello. I dati individuali con questo numero “iduni” rendedel tutto anonima la persona, perché non abbiamo il codice fiscale.Siccome però il codice “iduni” è sempre lo stesso per la stessa per-sona, possiamo tracciare tutti gli eventi sanitari che la riguardano: ri-covero, prescrizione di farmaci, prestazioni ambulatoriali e speciali-stiche, esenzioni per patologia, esiti di gravidanza, decesso, ecc. Nel codice fiscale ci sta una parte dell’informazioni, negli ultimi trenumeri, che permette di capire se è straniero. E quando uno stranie-ro si ricovera, c’è un campo “cittadinanza” che il medico dovrebbe

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riempire nel modulo di dimissione al ricovero. Ma il medico già haproblemi a codificare la causa del ricovero, figurarsi la cittadinanza .Gli ultimi tre numeri del codice fiscale per gli stranieri corrispondeal Paese di nascita, quindi da quello si può ricostruire la cittadinan-za. E all’anagrafe sanitaria degli assistiti c’è pure il campo sul Paesedi nascita che il cittadino straniero ha dichiarato, ed anche la duratadel tempo di immigrazione. Questo per gli stranieri regolari, ma an-che per gli irregolari, anche se l’informazione non sta nella parte delcodice fiscale, perché l’irregolare ha come prime tre cifre “STP”(Straniero temporaneamente presente). Con un po’ di lavoro ed in-croci, cose che dentro gli archivi dell’Asl è possibile fare, si può ri-uscire ad identificare quanti e chi sono gli stranieri. Bene per i rego-lari, meno bene per gli irregolari. Basta farseli scaricare dalle tecno-logie informatiche dell’Asl, e poi lavorarci su. È possibile farlo, mal’hanno fatto in pochi, come a Prato, perché lì il problema è serio.

Invece a livello regionale, noi ARS, abbiamo serie difficoltà aidentificare lo straniero e la sua cittadinanza proprio perché questocodice che ci mandano, non è più un codice fiscale ma un codicenumerico qualsiasi. Dunque devo basarmi solo sulla codifica di cit-tadinanza fatta dal medico in occasione del ricovero e non posso fa-re incroci più di tanto con altri archivi, come invece si può fare nel-l’Asl. E sugli stranieri ci sono anche errori di codifica, sbagli del me-dico o dell’amministrativo o dimenticanze. I loro nomi sono difficilida scrivere e da capire. Spesso non si sa quale è il nome e quale ilcognome, ecc. Quindi, i dati che abbiamo sui ricoveri e su tutte lealtre prestazioni sanitarie degli immigrati, come le farmaceutiche, leambulatoriali, le esenzioni, gli infortuni, si basano su questa codificada parte degli sportelli sanitari e non delle anagrafi comunali. E adifferenza di prima, questa legge sulla privacy che ci impone il nu-mero individuale che non è il codice fiscale, ha fatto sì che a livelloregionale i dati per tracciare certe tipologie di popolazione, comegli stranieri, sono peggiori di quelli che hanno le Aziende sanitarie,che possono contare anche sul codice fiscale. Perciò i servizi di Epi-demiologia delle Asl e gli staff delle Direzioni aziendali possono ela-borare foto demografiche e sanitarie di migliore qualità, messe afuoco meglio di quello che non facciamo noi a livello regionale. Si èdetto che c’è una differenza nell’attitudine degli stranieri a registrar-

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si al servizio sanitario; un’indagine che facemmo a Prato nel 2008,mostra come tra i cinesi regolarmente residenti, soltanto il 50% si èregistrato in uno sportello del SSN. L’abbiamo verificato incrocian-do gli stranieri presenti nelle Anagrafi comunali con quelli presentinell’Anagrafe degli assistiti dell’Asl. Non tutti i Comuni però forni-scono i dati anagrafici con la stessa facilità, anche se il Sindaco è ti-tolare della salute dei residenti nell’Asl. Quindi, anche se Asl e Co-mune per la salute dei cittadini sono un po’ la stessa cosa, non sem-pre il pur volenteroso Sindaco del Comune “X” riesce a superare lepreoccupazioni di privacy del funzionario responsabile della suaAnagrafe. Facendo questi incroci nel rispetto delle regole della pri-vacy, si vede bene che ci sono delle cittadinanze che non si iscrivonoproprio al SSN, pur regolari e residenti. I cinesi infatti se possonofanno tutto da sé, anche se adesso cominciano a venire sempre piùin alcune specialità mediche, ma non in altre. Per esempio si fidanopoco dell’Ortopedia perché loro usano tecniche di immobilizzazio-ne con le canne di bambù, perché più flessibili, usano poco il gesso.Invece per altre specialità si fidano molto dei nostri medici. Anziora c’è una forte richiesta di sanità di tipo occidentale. Sono stato inCina per lavoro, e tra i loro grandi miti c’è la sanità occidentale equella italiana e francese in particolare.

Gli stili di vita

Sugli stili di vita di questi cittadini stranieri sappiamo invece po-chissimo. E’ già difficile con gli italiani, quindi, si va a finire con lepoche indagini, tipo quelle che facemmo a Firenze sugli albanesi.Erano centoquarantuno albanesi che si prestarono a rispondere, edera difficilissimo identificarli, contattarli e intervistarli. Tra le varie co-se, chiedemmo il ricorso ai servizi sanitari e come si erano trovati ecosì via. Sulle abitudini di vita veniva fuori che erano più fumatori deifiorentini, soprattutto le donne albanesi rispetto alle donne fiorenti-ne, e il numero di sigarette fumate era molto alto. Ed i grandi bevitorierano i maschi albanesi, tra i 18 e 30 anni, con valori di consumo dialcolici intorno a 48 grammi dichiarati, che sono cifre molto elevate.Ed infatti sappiamo che ci sono problemi su questi aspetti di fumo e

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alcool nel loro gruppo. Sono due problemi seri, magari non nell’im-mediato per il fumo, ma per l’alcool sì, e prima o poi si paga il conto.Anche sui cinesi abbiamo fatto delle indagini, una cosa davvero mol-to complessa intervistare i cinesi, perché erano diffidenti, nonostantele interviste fossero fatte da mediatori culturali cinesi. Appartengonoa culture diverse dalle nostre ed anche tra le loro ci sono differenze, ecerte cose non puoi chiedergliele in modo diretto come facciamo noi.Per un cinese non è proprio il questionario come lo concepiamo noiquello più adatto . Anche domande semplici che riguardano la vitapersonale o familiare sono delicate da proporre direttamente. Io lo fa-cevo all’inizio in Cina e vedevo il traduttore che parlava a lungo peruna domanda spesso breve, per esempio “che lavoro fa tua moglie?”e gli chiedevo, “ma cosa gli stai traducendo?”, e lui mi rispondeva“non ti preoccupare, qui bisogna fare così”.

L’Ospedale

A Prato, abbiamo preso tutti gli stranieri ricoverati che avevanouna residenza regolare, cioè iscritti all’Anagrafe comunale. Di questiconosco la struttura per età e sesso e posso confrontare allora il lorotasso di ospedalizzazione con quello degli italiani. Si vede che neglistranieri regolari nel corso degli anni l’ospedalizzazione era in incre-mento, poi si è appiattita. Comunque in tutti gli anni gli stranieri siricoverano meno degli italiani. Su questo non c’è dubbio. Intantoper diffidenza, cioè ancora oggi anche quelli regolari se possono loevitano, con differenze anche qui tra le varie cittadinanze, conesclusione della gravidanza e del parto. Quasi metà degli episodi diricovero tra gli stranieri sono dovuti a parti, cioè, non sono ricoveriper malattia. Quindi, se vogliamo capire le malattie per cui si rico-verano gli stranieri, dobbiamo togliere questi ricoveri per parto e ri-calcolare i tassi di ospedalizzazione e allora si vede che la maggio-ranza degli accessi degli stranieri all’Ospedale è in regime di urgen-za. Cioè, gli stranieri si ricoverano per il 73% in urgenza, contro il60% degli italiani, quindi, in linea di massima, lo straniero va inOspedale se proprio non ne può fare a meno. Ma i tassi di ricoverosono in diminuzione anche negli stranieri, così come negli italiani,

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per una tendenza delle nostre strutture a cercare di diminuire i rico-veri, e meno ricoveri ci sono, fino a un certo punto, e meglio funzio-nano le strutture e più salute si produce. Ad ogni età, comunque, cisono più ricoveri degli italiani, mentre nelle donne è il contrario, maquesto perché tra i 15 e i 34 le femmine straniere partoriscono dipiù delle italiane. Gli stranieri non sono mai più degli italiani, senon per problemi perinatali, e si tratta con ogni probabilità di pro-blemi di bambini nati in Ospedale, per gravidanza e per le malattieinfettive. La distribuzione è in percentuale perché non posso faretassi di ospedalizzazione perché non ho la popolazione completa aldenominatore, mi mancano gli stranieri non regolari, che invece hoal numeratore (“STP”). Se poi faccio la standardizzazione solo pergli stranieri regolari, eliminando gli irregolari dal numeratore, si ve-de, rispetto agli italiani, un tasso più elevato sempre per le malattieinfettive e per il parto. È rimosso l’effetto della probabilità di rico-vero indotta dalla differente composizione per età degli italiani edegli stranieri regolari. Se io levo anche la causa di ricovero correla-ta alla gravidanza, in percentuale vedo che tra gli stranieri ciò che èpiù elevato rispetto agli italiani è il ricovero per malattie respiratoriee gastrointestinali. E questo è un fatto consolidato. Cioè, lo stranie-ro, essendo giovane, intanto è sano ed ha meno probabilità di rico-verarsi di un coetaneo italiano. Epidemiologicamente si parla di ef-fetto migratore sano, perché lasciano il Paese di origine quelli più in-traprendenti e motivati, che hanno più forza. e rimangono a casa ipiù fragili. Questo si vede benissimo anche in Italia quando i sicilia-ni migrarono verso il Piemonte a Torino. Ci fu una minore mortalitàdella popolazione torinese legata all’arrivo di un imponente flussomigratorio di giovani sani. Non tanto perché sono più giovani, maperché sono meno fragili. D’altra parte però soffrono di altri distur-bi, magari non così gravi da indurre l’ospedalizzazione o tanto me-no il decesso, per cui non li trovo negli archivi sanitari, ma ci sonoproblemi psichici, di stress e disadattamento. Ecco il mal di stoma-co, la dispepsia, i disturbi gastrointestinali, ed i problemi psico-so-matici, si sarebbe detto qualche anno fa, ma anche per i cambia-menti di stile di vita, alimentazione per prima. E disturbi respirato-ri, perché vivono in condizioni ed abitazioni più disagiate, con piùfrequenti polmoniti. E molti di questi disturbi non risultano dalle

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nostre statistiche, perché noi vediamo solo le cause più importantiche comportano ricoveri e decessi. Questo è ciò che sappiamo dellasalute di questi stranieri. Non sappiamo granchè altro dalle altre in-formazioni, come quelle farmaceutiche, dove il campo “cittadinan-za” è recuperabile solo con tutte quelle operazioni di incrocio di ar-chivi che abbiamo detto all’inizio e che posso essere fatte bene solonelle ASL.

La prevenzione

Cosa fanno gli stranieri ? Si vaccinano meno. Ma i cinesi, che fan-no tutto meno dal punto di vista sanitario, invece rispetto agli altrigruppi stranieri si vaccinano di più, la DTP, per la difterite-tetano-pertosse, per l’epatite B, che adesso è obbligatoria in Italia, e perl’MPR morbillo-parotite-rosolia. Delle vaccinazioni indicate, gli ita-liani le fanno sempre di più degli stranieri, ma i cinesi più degli altristranieri, perché si portano dietro la loro cultura igienistica e di pre-venzione di sanità pubblica che nel loro Paese è molto diffusa. In Ci-na hanno tassi di vaccinazione più alti dei nostri, perché la vaccina-zione è una cosa che assolutamente devono fare, quindi poi si vacci-nano anche da noi. Poi si passa agli screening oncologici negli stra-nieri, altra cosa che non si può valutare sui dati a livello regionale.L’abbiamo fatto nell’Asl di Prato, con grande difficoltà, e si vede cheper il Pap-test, ossia lo screening del tumore della cervice uterina cheinteressa le più giovani (25-64 anni), tra quelle chiamate il 63% delleitaliane aderisce all’invito, rispetto al 30% delle straniere. Meno del-la metà. Naturalmente tra le cause di non partecipazione per gli stra-nieri ci sono anche problemi di correttezza dell’indirizzo e numerocivico, perché l’invito arriva a casa, ed arriva scritto in italiano. Poi sisono fatti anche inviti scritti nelle cinque principali lingue, tra cui an-che pakistano e cinese. Il tasso di adesione delle straniere è più bassodelle italiane. E nelle cinesi la percentuale di adesione è la più bassa,quindi le cinesi partecipano poco a questo tipo di prevenzione onco-logica. La vaccinazione sì, lo screening oncologico no. Le albanesi so-no quelle che partecipano di più alla prevenzione oncologica del tu-more dell’utero tra i vari gruppi etnici. Questi sono dati importanti,

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perché non è facile disporre di queste informazioni in altre zone e sidimostra la differenza culturale tra etnie nel rispondere a uno stessoinvito. Lo screening per il tumore della mammella riguarda donne unpo’ più grandi (50-69 anni). Naturalmente si fa riferimento solo allestraniere regolari, perché si scrive loro a casa, quindi, c’è un indiriz-zo ufficiale, magari vivono in Toscana o in Italia anche da più tempo.Le italiane partecipano all’invito per circa l’80%, mentre le straniereper il 36%. Quanto a risposte alla mammografia, di nuovo, le più al-te per cittadinanza sono le albanesi, poi le polacche, le ucraine, in-somma un po’ l’Est europeo, e di nuovo le più basse sono le cinesi,ma anche le marocchine. Queste sono donne già da più tempo inItalia perché sono un po’ più anziane, perché lo screening per il tu-more della mammella è svolto tra i cinquanta e i settanta anni, men-tre quello per l’utero sta tra i 25 ed i 65 anni. Lo screening del tumo-re del colon retto, interessa maschi e femmine. Di nuovo, partecipa-zione all’invito degli italiani al 52%, poco anche per loro a dire il ve-ro, e neanche del 20% per gli stranieri. Con punte minime per la Ci-na. Interessante però è vedere la risposta all’invito allo screening inbase all’iscrizione al medico di Medicina generale; il 60% delle italia-ne che hanno scelto il proprio medico curante partecipano allo scree-ning dell’utero, rispetto al 38% delle italiane che non hanno scelto ilmedico. Come forse sapete ci sono anche degli italiani che non scel-gono il medico, è una percentuale bassa, tra il 3 ed il 5% della popo-lazione. Evidentemente sono persone che fanno tutto da sé. O per-ché non stanno mai male, come accade soprattutto tra i giovani, op-pure perché risolvono altrimenti i loro problemi sanitari. Già l’effet-to di avere il medico comporta una tendenza diversa a rispondere al-l’invito, anche per gli stranieri. Partecipano allo screening oncologicoil 38% delle donne straniere che hanno scelto il medico e il 10% diquelle che non lo hanno fatto, pur avendone diritto. Lo stesso si ve-de sulla base della durata di residenza. Per lo screening citologicodell’utero si vede che le italiane passano da un’adesione del 55% sepresenti da meno di cinque anni ad un’adesione del 58% se da piùanni sono residenti nel territorio; per le straniere si va rispettivamen-te dal 35% al 39%. Quindi, sia per italiane che per straniere c’è unaumento di adesione intorno a 4 punti percentuali con il passare de-gli anni di residenza. Un po’ meno per lo screening mammografico.

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Cioè, l’essere sul territorio da più tempo facilita i contatti, ti adatti evivi sempre più la vita degli altri e con gli altri.

Il parto

Altro dato sanitario, che interessa l’area materno infantile, e sucui abbiamo più informazioni è il parto. C’è il certificato di assisten-za al parto, da cui sappiamo che con questa tendenza delle donneitaliane rispetto alla riproduzione, il tasso di fecondità è molto bassoe ormai a limiti che non permettono il ricambio generazionale. Biso-gna arrivare a due figli per donna per poter fare un ricambio gene-razionale, ed in questo ci aiutano gli stranieri. L’età materna al partoper le straniere è più giovane rispetto alle italiane, ma è anche moltovariabile per cittadinanza. In Toscana si va dai ventisei anni delle al-banesi ai trentuno anni delle filippine, valore questo che si avvicinaa quello di 33 delle italiane. Mediamente nei PFPM siamo sui ven-totto anni, mentre nei PSA sui trentatre. La gravidanza è seguita inConsultorio, in Ospedale e nello studio privato. Per il 5% non è se-guita in nessuna struttura. Quelli che vengono dai PFPM tendono ausare molto di più i Consultori, un po’ come sull’autobus dove sivedono immigrati e anziani, mentre qui vedete che le italiane che sifanno seguire la gravidanza ai Consultori sono il 12% rispetto al65% delle straniere. Le italiane utilizzano lo studio privato (75%).Passando al numero di visite in gravidanza, qui si vede anche che ilnumero di visite che fanno le straniere è abbastanza vicino alle indi-cazioni raccomandate, quindi, vanno ai Consultori e poi seguonoanche le indicazioni che ricevono. Chi effettua meno di tre ecogra-fie, che è lo standard di riferimento, sono più rappresentate neiPFPM. Le cinesi soprattutto sono tra quelle che fanno meno di treecografie per gravidanza, e qui si conferma il fatto che non hannotanto piacere di usare i nostri servizi, anche se le cose però stannocambiando, ma a Prato c’era un trend di forte incremento al ricorsoai nostri servizi da parte degli stranieri, talmente forte da comincia-re a mettere in crisi a volte la capacità di risposta, perché tutti i no-stri servizi erano basati sugli italiani.

I bambini nati pretermine sono più frequenti nelle donne dei

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PFPM e questo è un problema di gestione di questi bambini con bas-so peso, di nuovo con forti differenze tra le varie cittadinanze, con lefilippine e le rumene che hanno una percentuale di pretermine sultotale dei nati vivi doppio rispetto alle cinesi (10% rispetto al 5%).Considerando l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), che haanche a che fare con le diverse attitudini nelle modalità di contracce-zione dei gruppi etnici l’80% delle italiane non ha mai fatto ricorsoad IVG, rispetto al 60% delle straniere. Quelle che vi hanno fatto ri-corso 3 o più volte sono il 6% delle straniere e l’1,5% delle italiane.Evidentemente è ancora un problema anche per le italiane, ma ci so-no alcuni gruppi di cittadinanza per i quali questo avviene più fre-quentemente, con valori più elevati infatti nelle peruviane, russe e ru-mene, seguite dalle nigeriane e filippine. Dunque tutte le volte che siparla di stranieri bisogna dire a quali stranieri ci si riferisce, perchésono diversi tra loro ed i nostri clinici l’hanno imparato per i contattidiretti e le esperienze sul campo. A Prato, per esempio, c’è un pro-blema noto con i maschi pakistani per i quali la fertilità è un proble-ma serio, quasi una fissazione secondo i nostri parametri. Cioè, quan-do cominciano a vedere che non nascono figli, entrano in grave diffi-coltà, tanto che possono arrivare anche nelle strutture psichiatriche aprendere gli antidepressivi. Perché per il maschio pakistano non farefigli per causa sua sembra la peggiore sventura che gli possa capitarenella vita, cosa invece assai meno rilevante in altri gruppi etnici.

Conclusioni

Per definire la salute degli stranieri bisogna lavorare su tutti que-sti archivi, con questi problemi dei codici identificativi e di incrociodei dati a livello di Asl. Penso comunque che con più collaborazio-ne con i gruppi locali che hanno i dati buoni, e le competenze localiche spesso ci sono, ci si può lavorare bene. A volte c’è a livello loca-le carenza di una sorveglianza epidemiologica vicina e non si sa be-ne che bisogna andare a prendere quello specifico codice. In ognicaso le procedure e le possibilità di una buona analisi statistica cisono, ed anche i dati ci sono, anzi, anche troppi. Si tratta di organiz-zarli e saperli interpretare. Non abbiamo presentato dati di mortali-

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tà degli stranieri, ma è possibile averli dal Registro regionale di mor-talità dell’ISPO, che ha il dato della cittadinanza, mentre noi diARS siamo in difficoltà con questo nuovo codice anonimo, e quindinon siamo in grado di fare valutazioni di mortalità sicure sugli stra-nieri. Però l’ho fatta a Prato, prendendo i dati locali, anche per veri-ficare la famosa storia che i “cinesi non muoiono mai”, con leggen-de metropolitane correlate su dove potrebbero finire i defunti cine-si. Abbiamo fatto i conti, partendo dalla struttura per età dei cinesiregolarmente residenti, abbiamo poi calcolato quanti morti ci sa-remmo aspettati se i cinesi avessero avuto la stessa probabilità dimorire per ciascuna classe di età degli italiani. Abbiamo cioè calco-lato ‘decessi osservati e decessi attesi’, e il numero dei morti regi-strato era più o meno lo stesso di quello atteso. Semmai i cinesi, sepossono, tornano a casa quando hanno una malattia grave e comin-ciano ad avere seri problemi di salute. Quindi, se non è coinvolto inun evento acuto traumatico, violento, improvviso, è possibile chenon ci sia tra i deceduti perché quando ha una grave malattia tornanel proprio Paese. Così come per i bambini, che spesso nasconoqua, ma poi li rimandano là in Cina a fare i primissimi anni con inonni e poi, come arrivano all’età dell’asilo, li riportano in Italia. Al-l’educazione i cinesi ci tengono molto. Oltre alle vaccinazioni hannouna forte attenzione all’istruzione. Degli altri nostri servizi sanitari icinesi si fidano poco, mentre gli stranieri di altri Paesi si fidano ab-bastanza dei sanitari italiani, con qualche differenza a seconda dellabranca specialistica, abbiamo dunque un quadro un po’ a macchiadi leopardo a livello regionale. Ho mostrato molti dati pratesi per-ché sono spesso gli unici e non sono state fatte rilevazioni simili inaltre ASL e dentro le ASL, invece, si può arrivare a vedere un livellodi dettaglio sul ricorso ai servizi degli stranieri che non è possibileavere dagli archivi regionali: adesione a screening, tassi di vaccina-zione, mortalità, tassi di ospedalizzazione, infortuni sul lavoro, e co-sì via. Molte delle informazioni e dei dati stanno all’Asl e aspettanosolo di essere elaborate e interpretate dai servizi di Epidemiologiaaziendali, con il supporto dei sistemi informativi e delle tecnologieinformatiche. Insomma dati sugli immigrati ce ne sono in abbon-danza, adesso occorre saperli leggere.

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La cooperazione sanitaria internazionalePepa Caldés

Responsabile Cooperazione sanitaria internazionale, Regione Toscana

Vorrei descrivervi quello che una Regione come la nostra fa nel-l’ambito della cooperazione anche perché penso che sia un modelloche funziona e che vorremmo continuare a sostenere nonostante itagli delle risorse previsti.

Sono già stati presentati i dati delle disuguaglianze su quanto ri-guarda la speranza di vita nel nord e nel sud del mondo. Quandoparliamo di aiuto pubblico dei Paesi poveri pensiamo subito all’A-frica perché è sicuramente il continente che ha più difficoltà, ma di-mentichiamo che in Europa, in Russia, ci sono veramente delle si-tuazioni attualmente di miseria, di povertà e di mancanza di dirittienormi, di fatto, la speranza di vita in quel Paese è addirittura ècrollata. Per avere una panoramica sulle disuguaglianze nel mondosoffermiamoci, ad esempio, sulle differenze tra il nord e il sud: lamortalità infantile che è concentrata in tutta la parte del sud delmondo. Riguardo alla distribuzione della Hiv, la parte più colpita èsempre ovviamente l’Africa, ma fondamentalmente l’Africa sub sa-hariana. Per quanto concerne la spesa sanitaria pubblica, l’Africanon esiste praticamente, mentre l’Europa, per esempio, la Spagna,l’Italia e anche tutta la parte dell’America del nord sono veramenteavvantaggiate. Se andiamo a vedere quanto si spende in sanità pri-vata, in questo caso gli Stati Uniti ancora primeggiano, come tuttal’America del nord, l’Africa è sempre sacrificata, anche se il SudAfrica ha un poco più di investimento sulla sanità privata, l’Italia siè un po’ ridimensionata come anche la Spagna e il resto dei Paesieuropei. Il dato di quanti medici lavorano nel mondo evidenzia cheabbiamo un’Italia molto “affollata”, come la Spagna e un’Africapraticamente inesistente. Se andiamo a vedere le patologie, peresempio, la Tbc, vediamo che in’India, Asia, e Africa sono improv-visamente aumentate, mentre in America del nord, America del

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sud,e un poco meno in Italia e Spagna, si sono molto ridotte. Perquanto riguarda la prevalenza Hiv, vediamo che è tutto concentratoin alcuni Stati africani, compreso il colera.

Per la malaria sembra che esista come diffusione solo l’Africa nelmondo, e un poco l’Asia. Il diabete sta cominciando a diventare unproblema anche da noi, ma lo è soprattutto nei Paesi più poveri epiù emergenti.

Questa è una delle sfide che dovremo affrontare nel futuro a li-vello globale per quanto riguarda malattie croniche, fondamental-mente diabete e malattie cardiovascolari in quei Paesi del sud delmondo che stanno acquistando stili di vita molto simili ai nostri, an-che nelle fasce più povere dove mangiano cibi non salutari con que-ste conseguenze.

In futuro la ricchezza sarà nelle mani di alcuni soggetti che pur-troppo possono essere anche le multinazionali, una classe media chesi sta impoverendo progressivamente e un grande numero di poveridi cui non si parla e che troviamo nelle aree rurali più disagiate del-l’Africa sub sahariana, in Asia e, un po’ meno, in America latina.

La spesa per l’aiuto pubblico

Tutti i Governi dei Paesi ricchi negli anni Settanta si erano impe-gnati allo 0,7% del prodotto interno lordo in aiuto pubblico allosviluppo dei Paesi poveri, questa è stata una promessa che pochihanno mantenuta, come i Paesi del nord Europa che sono dei gran-di donatori, tipo Danimarca, Svezia, Norvegia, mentre, per esem-pio, nell’ultima finanziaria il nostro Governo ha tagliato il 50% deifondi per aiuto pubblico allo sviluppo. Noi siamo nemmeno allo0,1, la Farnesina chiuderà la cooperazione allo sviluppo perché nonhanno fondi. Molte UTL, Unità tecniche locali, che la cooperazioneallo sviluppo ministeriale ha in giro per il mondo, stanno chiudendoperché non hanno i soldi per mantenere il personale, l’Italia non hamai mantenuto le promesse e con il Governo attuale le cose non mi-gliorano.

In questi anni, sono accadute sicuramente le cose peggiori per lediseguaglianze, ci sono state le riforme globali, quelle fatte dalla

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Banca mondiale, i famosi piani di stabilizzazione economica deglianni Ottanta-Novanta dove il Fondo monetario internazionale e laBanca mondiale, praticamente hanno detto ai Paesi più poveri: nonpossiamo mantenere un sistema di welfare in Paesi come i vostri per-ché ci costa moltissimo, se volete degli aiuti dovete andare a privatiz-zare e si sono introdotte le famose prestazioni a pagamento che so-no state una delle armi che più hanno impoverito Paesi già poveri,perché nelle realtà dove il reddito procapite per una famiglia è sottoi due dollari dover pagare gli User fees crea il famoso circolo dellapovertà che riguarda attualmente cento milioni di persone che han-no malattie neglette, di cui nessuno parla.. Sotto questa spinta si so-no veramente distrutti i sistemi sanitari pubblici dei Paesi che ave-vano avuto negli anni precedenti, dopo Alma Ata e Salute per tuttinel 2000, le spinte grosse dell’OMS, alcuni Paesi stavano andandoveramente bene. Dagli anni Ottanta, Novanta, arrivano le politichedella World Bank, i sistemi sanitari e anche educativi vengono eli-minati, si privatizza tutto e cominciano a entrare i programmi verti-cali, i grandi donatori, tipo la Bill Gates, la Rockefeller, la Clinton.Ci sono grandi Fondazioni che, con questa idea che hanno gli ame-ricani di dover donare, immagino anche un po’ per interessi dalpunto di vista fiscale, cominciano a fare delle donazioni molto gran-di. Attualmente, quando diciamo che l’OMS è in mano a Melinda eBill Gates è vero perché il budget che loro hanno per la cooperazio-ne sanitaria è quasi più grande di tutto quello che ha l’OMS. LaFondazione Gates partecipa anche alle assemblee generali del-l’OMS, hanno voce in capitolo, sono loro che decidono, nel bene onel male.. Sono nati veramente questi grandi fondi, non ultimo ilGlobal Found che ha lanciato Berlusconi a Genova, quello della lot-ta alla Tbc, Aids, Malaria, che è un altro grande programma vertica-le. Il grande problema di questi programmi verticali, nati dopo le ri-forme della Banca e del Fondo Monetario, è che lavorando in ma-niera molto selettiva sulle malattie e non in maniera comprensiva sututto il sistema, hanno creato delle grandissime difficoltà di gestioneall’interno dei propri Paesi.

Tornando all’out of pocket, cioè, agli User fees, quelli che sonostati un po’ imposti, la cosa che più colpisce è che i Paesi più occi-dentali spendono molto meno, tipo UK. Nei Paesi poveri quasi il

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90%, tipo la Cambogia, della sanità è fatta dagli User fees, cioè, del-l’out of pocket, di quello che la persona riesce a dare. Allora, questinostri poveri cittadini quando si ammalano, alcuni vanno al pubbli-co, alcuni al privato, alcuni non vanno da nessuna parte o cercanodi curarsi dove possono. Questo ha creato veramente delle grandidifficoltà, addirittura tre anni fa, erano stati detenuti dentro l’Ospe-dale dei pazienti che non potevano pagare, come in un carcere, re-clusi, gli è stato detto: quando pagherete andrete via. I grandi dona-tori attuali del mondo si sono dedicati, ciascuno, a una sola patolo-gia: quello per la Polio, quello per la Malaria, quello per l’Hiv, poi ilprogramma della vaccinazione dei bambini. Tutto questo, che ma-gari arriva in un Paese in maniera scoordinata, non integrata, condegli interessi personali, si confronta con un sistema sanitario impo-verito, lavora in maniera assolutamente autonoma e i risultati di sa-lute sono del tutto inesistenti, ognuno vede il suo settore e non ri-esce mai a coordinarsi con gli altri donatori. I programmi verticalisono anche imprevedibili, nel senso che magari quest’anno la BillGates per la Malaria impegna cento milioni di euro e con quella ci-fra programmi l’attività in diversi Paesi, ma l’anno dopo le donazio-ni che arrivano sono soltanto cinquanta milioni di euro. È stata fattauna pianificazione sulla base di un budget di cento milioni di euro el’anno successivo ne disponi della metà e allora il programma nonpuò andare avanti. In Tanzania, nel 2005 c’erano più di settecentoprogetti portati avanti da sessanta organizzazioni parallele, che nonerano per niente coordinate tra loro. Nello stesso anno, in Tanzania,operavano 541 missioni e soltanto il 17% di queste avevano ungruppo coordinato, le altre erano tutte composte da soggetti indi-pendenti. e questo non succede solo in Tanzania.

Io ho lavorato nei territori occupati della Palestina, dove politica-mente la Regione Toscana ha offerto il massimo impegno. Una voltaun palestinese ha detto: se tutti i soldi che voi mettete in cooperazio-ne li date a noi, che siamo circa in tremilioni, saremmo tutti ricchi.Questo succede in molte altre realtà, il problema grosso – e questa èanche un’autocritica che faccio al lavoro che provo a organizzare – èche in cooperazione, per diversi motivi, – volontaristici, perché unovuol fare del bene, per interesse della ricerca o altro – ognuno ha ilproprio interesse ed è difficilissimo metterli insieme e coordinarli.

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Questo mondo complesso è fatto di tantissimi organismi che stannonello stesso territorio, lavorano per la stessa popolazione, ma tra diloro non si coordinano e spendono moltissimi soldi per gestire lostesso programma, costi organizzativi, costo del personale, con unaricaduta veramente piccola su quello che è il bisogno reale della po-polazione. Ecco come funziona il sistema, in questo ha una granderesponsabilità prima di tutto il Paese che riceve l’aiuto, ma che allafin fine, se qualcuno offre delle risorse, non le rifiuta davvero.

I grandi organismi internazionali dovrebbero coordinare tuttequeste missioni, e questo dovrebbe essere il ruolo dell’OMS, l’UNI-CEF e le Nazioni Unite, dopodiché ci sarebbe la cooperazione bila-terale, quella che i Paesi fanno per poi arrivare alla cooperazione unpo’ più piccola, quella che fanno le Regioni. Ci dovrebbero però es-sere delle grandi linee di indirizzo. Per esempio, la Spagna ha unpo’ “il monopolio dell’America latina” come mondo di cooperazio-ne perché c’è l’affinità linguistica, c’è la storia che unifica .In Africatrovi un po’ di tutto a seconda degli interessi, per esempio, la Fran-cia è molto presente con le sue multinazionali per tenere buona an-cora una sorta di colonialismo, che hanno in quelli che sono i Paesiex colonie, l’Inghilterra lo fa nelle sue realtà, insomma, la situazioneè abbastanza complessa e alla fine chi soffre di tutto questo, come alsolito, è la popolazione che continua a vivere nella miseria. Servi-rebbero 254 miliardi di dollari, questa è una stima di un paio di an-ni fa, attualmente ne servirebbero un po’ di più, ma non molto dipiù, una somma corrispondente allo 0,7% del Pil di quei Paesi chenegli anni Settanta avevano preso l’impegno di contribuire. Quelloche si dà adesso, perché alla fine un qualcosa si dà, è fondamental-mente per la remissione del debito, per l’emergenza, per la quale so-no state donati tanti soldi, e per i costi amministrativi, che incidonomolto.

Uno dei grandi problemi che abbiamo è che i progetti, più chealtro quelli dei grandi organismi internazionali, hanno dei costi digestione dovuti agli alti stipendi che ricevono gli addetti. Tutto l’au-mento di questi ultimi anni è stato diviso tra tre grandi aree,la primadelle quali è la remissione del debito che non è mai cash, ed è im-portantissima. Siamo scesi a sessanta miliardi di dollari, che sonoquelli che la Banca ha stimato per raggiungere i famosi obiettivi del

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millennio, quando è fallito “Salute per tutti nel 2000” siamo andatiagli obiettivi del millennio nel 2015, che falliranno di nuovo. Lamortalità materna deve diminuire e invece sta aumentando, questoè uno dei grandi problemi dell’Africa perché in questo settore nonsi è fatto niente Per la mortalità infantile invece qualcosa è migliora-to e continua un poco a decrescere perché ci sono alcuni Paesi, co-me il Brasile e alcuni Paesi dell’est, che stanno investendo veramen-te molto bene in questo settore, ovviamente non si arriverà mai aquello che era previsto come obiettivo del millennio, ma ci sarà unmiglioramento. Quello in cui sicuramente non si arriverà a niente èla mortalità materna, nonostante nell’ultimo G20 sia stato detto cheè impossibile che i poveri debbano pagarsi le malattie, ma questesono delle dichiarazioni politiche cui spesso non seguono i fatti. Inun articolo del British Medical Journal, è stata fatta una stima: se noiavessimo tolto gli User fees, cioè, il pagare la prestazione, si poteva-no prevenire circa 233.000 morti l’anno in Africa, che sono numerigrandi. Ventotto miliardi, vedete, è il contributo che dovrebberoversare le varie organizzazioni ed i Paesi impegnati nella coopera-zione per garantire una spesa procapite che è salita da trentacinquea quarantaquattro dollari, nell’ultimo report della “Salute del mon-do” che ha fatto l’OMS. Questa spesa attualmente sarebbe necessa-ria per garantire i LEA essenziali, che sono fondamentalmente levaccinazioni, la lotta a Malaria, Tb e Aids, diarrea, malattie respira-torie, malnutrizione. Invece noi, tutti i Paesi, diamo intorno a dodi-ci miliardi di dollari. La cooperazione allo sviluppo, la cooperazionesanitaria, con tutto l’impegno necessario, dovrebbero colmare inqualche misura quanto i Paesi ricchi hanno promesso ai Paesi pove-ri in questi anni, anche perché tutto sommato, in un’ottica globale,quello che succede in Burkina Fasu ha sempre una ripercussione suquello che succede in Toscana e anche perché è ovvio che di quelloche succede al sud del mondo c’è anche una grossa responsabilitàper quanto riguarda il nord del mondo. Ormai siamo un mondounico dove tutti i meccanismi sono interconnessi, allora è un obbli-go morale che i Paesi più ricchi aiutino quelli più poveri e li aiutinofondamentalmente a svilupparsi, a crescere e a far sì che la sanità el’educazione, che sono i due pilastri fondamentali della società, fun-zionino. Sicuramente non è quello che sta succedendo nel mondo

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reale, nonostante questo però ci sono delle realtà piccole che simuovono, sicuramente in maniera non troppo organica e strutturataperché non abbiamo un indirizzo internazionale e nazionale moltochiaro sui reali obiettivi da raggiungere, che non siano soltanto ledichiarazioni che il G20, il G8, i grandi, Obama stesso ha fatto condichiarazioni a livello molto politico, ma che non si traducono maiin azioni concrete. La situazione non è delle più rosee, ma questosecondo me non ci deve togliere dalla responsabilità di agire inquello su cui possiamo agire.

L’impegno della Regione Toscana

La cooperazione decentrata è la cooperazione che fanno gli Entilocali; esiste un livello internazionale, nazionale e poi quello cheogni Regione, ogni Comune può fare con il suo bilancio, insieme aquello che è il tessuto associativo locale, per dare risposta ai bisognidi salute e in questo settore tutta la Regione Toscana, per quello cheè la sua storia e per quello che è il suo presente, ha portato a casa econtinua a portare a casa alcuni piccoli risultati. In questi cinqueanni, in cui ho seguito direttamente questo argomento, abbiamoelaborato delle linee guida, dei manuali, delle attività, prendendo al-cuni pilastri, che fanno un po’ parte del background di quello che èil famoso modello toscano in cui la salute è intesa come diritto, lasolidarietà come scelta e la programmazione come strategia operati-va. Queste tre premesse erano un po’ la nostra Bibbia, sulle qualiabbiamo costruito tutto. Abbiamo avuto una volontà politica moltoforte in passato, un po’ più in crisi attualmente. In Regione Toscanac’è un livello politico che ti portava a una scelta tecnica e sono stateanche fatte delle normative e degli atti che in qualche maniera so-stenessero le scelte politiche dal 2007 al 2009. Noi facciamo unastrategia annuale o biennale di quelle che sono le attività di coope-razione sanitaria della Regione Toscana; abbiamo deliberato anchela 300, e poi abbiamo fatto anche le linee guida deliberate, con unimpegno annuo di spesa di tre milioni e sei, che vengono dal Fondosanitario regionale, fino al 2010. La scelta organizzativa che ha unpo’ dato forza a questo progetto è stata la presenza in Toscana, per

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un periodo di cinque anni, di un Assessorato mirato alla coopera-zione internazionale, guidato da Massimo Toschi. Avevamo un rife-rimento politico molto chiaro che non c’è più con la nuova Giunta,il che ha ridefinito un assetto un po’ diverso perché adesso la co-operazione internazionale è in mano alla Presidenza, cioè, ha la de-lega direttamente il Presidente Enrico Rossi ma con una crisi comequella che stiamo attraversando, una disoccupazione come quellache c’è anche in Toscana, l’impegno per la cooperazione diventasempre più piccolo. Mentre prima avevi una struttura che era dedi-cata a questo, oggi tanta sensibilizzazione non ce l’hai più, ce l’ha ilPresidente, che ha sì un suo staff addetto al settore, ma con una po-ca presenza politica perché ovviamente un Presidente deve gestirela propria realtà. Prima eravamo più correlati agli indirizzi di To-schi, oggi seguiamo quelli di Rossi. Stiamo lavorando sul nuovo Pia-no per definire chiaramente le funzioni, non soltanto della coopera-zione, ma di tutte le attività internazionali che la Regione Toscana fain sanità perché c’è il mondo della cooperazione, ma c’è il mondodei rapporti con i Paesi emergenti, tipo Cina, Brasile e India. La sa-nità è un grande volano per lo sviluppo dei popoli, anche se gestia-mo un piccolo budget, perché sono tre milioni e sei, un euro a testa,lo dedichiamo all’aiuto pubblico, allo sviluppo. È anche importanteche stabiliamo dei rapporti, non tanto di cooperazione, quanto dicollaborazione con quei Paesi emergenti, dove si possono creare de-gli scambi che hanno una ricaduta anche importante sulla societàtoscana .

Noi ci stiamo muovendo su questi due versanti: cooperazione equello che noi chiamiamo collaborazione internazionale, anche at-traverso i rapporti con la UE, con il Ministero della Salute e altroancora Tutta questa partita fa riferimento alla la Digis Salute cheadesso si chiama “politiche del diritto di cittadinanza e coesione so-ciale”. La Digis, ha affidato nel nuovo organigramma la gestione ditutta questa strategia al meglio della mia Azienda perché storica-mente, quando è nata la cooperazione in Toscana più di dieci annifa, con la guerra nei Balcani, che si occupava fondamentalmente difare arrivare bambini dalle guerre per essere curati da noi e il Me-yer, per le sue caratteristiche di Ospedale pediatrico, riceveva moltibambini. Attualmente il Meyer fa una funzione regionale della co-

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operazione all’interno di una struttura aziendale. Abbiamo poi indi-viduato, in ogni Azienda sanitaria delle Aree vaste, un referente perla cooperazione, abbiamo costituito questi coordinamenti di Areavasta che si raggruppano in un comitato al quale partecipano i sin-goli coordinatori che hanno un rapporto con il territorio locale. Ov-vero, il Comune X dell’Area vasta nord che vuole lavorare, presen-tare un progetto, si raccorda con l’Azienda di riferimento che pre-senta il progetto direttamente a noi; nello stesso momento, noi dia-mo delle linee strategiche guida ai referenti delle Aree vaste per lapresentazione dei progetti, in maniera da creare questa sorta di di-rezionalità tra politiche e attori locali, cercando di integrare tutte leprogettualità, cosa difficilissima, perché se l’abbiamo visto a livellointernazionale, in Toscana è identico. Anche perché la Toscana è laterra dei Comuni e ogni Comune vuole avere il suo progetto per leconnotazioni anche culturali e storiche che questa terra ha, è unarealtà con la quale io faccio una fatica enorme a lavorare, addirittu-ra nella stessa Azienda presentano due progetti, sulla stessa areageografica, due soggetti diversi, allora, è molto difficile coordinarele cose.

Come abbiamo governato, come proviamo a governare

Noi dedichiamo una fetta dei finanziamenti ai ricoveri a carattereumanitario, una piccola fetta, ma diamo sempre spazio a bambini eadulti, che vengono qua per alcune cure particolari, anche con deicriteri molto rigidi. Abbiamo elaborato e deliberato dei criteri diammissione ai ricoveri a carattere umanitario, determinando un im-pegno e poi partecipiamo a quello che si chiama il “Medical evacua-tion”, che è un progetto gestito dalla Commissione Salute, Confe-renza Stato-Regioni nei casi delle emergenze, belliche o naturali, ti-po Haiti, Gaza, dove spesso ci sono questi canali diretti con la Cro-ce Rossa Internazionale e la Protezione Civile e si chiamano Mede-vac. Nei Medevac quasi tutti diamo la disponibilità ad accoglierequesti feriti presso le nostre strutture sanitarie. Noi abbiamo duemodalità, come Regione Toscana, di presentare i progetti: una, sonoi progetti di iniziativa regionali, che sono quelli che assorbono di

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più del budget e, per il momento, non sono soggetti a bando, ma auna discussione e a una valutazione molto consensuale, dando peròdelle priorità a tutte quelle progettualità che provengono dalleAziende sanitarie. Noi vogliamo assolutamente che siano le Aziendea partecipare a queste attività, più che i soggetti esterni, tentandosempre di più di collegarci con quello che fa la presidenza nell’am-bito delle relazioni internazionali, anche perché sicuramente dal-l’anno prossimo anche i PIR dovranno essere soggetti a bando, do-vranno essere un po’ più regolamentati e dovremmo essere semprepiù in connessione con quelle che sono le aree geografiche sullequali intervenire Abbiamo poi un bando annuale che ne comprendetre:uno per la pace, uno per la cooperazione e uno per la sanità; so-no piccoli progetti, duecentomila euro a bando, dove diamo spazioa tutti i piccoli soggetti e li affidiamo ad un valutatore esterno.Que-sto sostiene quelle piccole iniziative che sono più che altro alla basedel volontariato della Toscana, nel senso che dai forza anche al vo-lontario che fa la sua donazione, al Comune che fa le sue, che nonhanno, secondo me, incidenza sulla salute dei Paesi dove vanno, maun guadagno sulla realtà locale.Per quanto riguarda i PIR, progettidi iniziativa regionale che noi vorremmo che diventassero il fulcrodella nostra attività, già quest’anno stiamo cominciando a dare alcu-ne linee più rigide. La nostra idea per il futuro è concentrare le atti-vità in non più di sei Paesi africani, in Palestina e in Albania, facen-do più progetti ad ampio respiro, dove tutti i soggetti che lavoranoin quell’area confluiscano sullo stesso Paese. Vogliamo sempre dipiù andare a incidere sul lavoro che fanno gli operatori e sui Paesidove noi stiamo lavorando. Quando uscirà il Piano nuovo, che saràquinquennale, noi ci introdurremo per parlare, ma fondamental-mente la nostra strategia ha degli obiettivi, i progetti devono indiriz-zarsi fondamentalmente alla lotta alla povertà, alla difesa dei dirittiumani e all’eguaglianza di genere, come grandi aree macro sullequali noi lavoriamo che poi si declinano in una molteplicità di azio-ni che hanno a che vedere con strategie di salute. Quello che peròvorremmo veramente è che i progetti mirino a rafforzare strutture ea migliorare quello che per noi è la base della sanità, perlomeno inAfrica e non solo, che è la Primary Health Care, tutto quello che è illavoro con il territorio. Per ovvi motivi privilegiamo il materno-in-

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fantile di fronte a altre aree e privilegiamo anche molto quei proget-ti che prevedono la formazione in loco del supporto degli operatoridove noi andiamo a lavorare. Ovviamente poi ci sono alcune areepiù specifiche, come quelle dei disabili dove abbiamo alcuni inter-venti molto interessanti, poi non possiamo non tenere conto dellatrilogia, come dico io, Tbc, Malaria e Aids, perché molti dei nostriinfettivologi sono coinvolti in progetti di questo tipo in Africa.

Non possiamo poi dimenticare la ricerca anche nei Paesi in viadi sviluppo, perché aiuta molto a crescere gli stessi Paesi, e un me-dico, un biologo, un professionista della sanità, ha gli stessi dirittidi un professionista nostro vuole imparare, crescere, non soltantocurare le diarree. Creare momenti di incontro e dare la possibilitàanche a questi Paesi di fare ricerca in campi che siano ovviamenteaffini alle loro realtà li fa crescere perché crea sviluppo. Posso sol-tanto raccontare un aneddoto: noi stiamo lavorando da parecchioin Burkina Fasu, sosteniamo una Pediatria perché i nostri specia-lizzandi ruotano e praticamente quella struttura si alimenta di spe-cializzandi. Questa nuova Pediatria sta diventando uno dei model-li ospedalieri, è un Ospedale rurale del Burkina Fasu, uno dei Pae-si più poveri del mondo. Casualmente è arrivato due anni fa il dot-tor T…, che è un biologo molecolare che ha fatto tutta la sua car-riera in Europa e negli Stati Uniti e ha vinto un Grant della BillGates per il vaccino della Malaria, lui ha detto: io voglio provare alavorare nel mio Paese, è arrivato con un sacco di soldi, dati dallaBill Gates e in quattro e quattr’otto ha realizzato un locale nuovo,una parabola, delle attrezzature; è andato dal Ministro e ha detto:senza elettricità io non posso fare le mie ricerche, in un mese tuttifelicissimi perché avevamo finalmente l’elettricità. Intorno a que-sta ricerca, che anche noi stiamo supportando, stiamo comincian-do a utilizzare anche il macchinario che lui ha per alcune attivitàdi microbiologia, lavoriamo sulle malnutrizioni e su tutta la partedelle malattie diarroiche. La ricerca sta portando sviluppo ed è at-traverso questo medico che poi questa realtà pian piano si sta svi-luppando perché crea lavoro alla gente, poi la gente comincia aavere bisogni, poi vanno più a scuola, studiano di più; in questiPaesi, non bisogna fare soltanto quello che abitualmente la caritàcristiana realizza, nessuna critica alla carità cristiana, ma la coope-

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razione non può significare fare beneficenza, cioè, quello che miavanza glielo do, quell’apparecchiatura mezza rotta che non miserve più la mando in Africa che è piena di apparecchiature sca-denti che noi abbiamo dismesso Le mandiamo in Africa, inveceche a Napoli e così abbiamo la spazzatura africana perché io hovisto nel mondo i sotterranei di alcuni Ospedali pieni di ferri vec-chi, ecografi che arrivano e alla prima volta che non funzionanonessuno li ripara. O si comprano le cose nuove, essendo sicuri chehai una ditta che te le manterrà, altrimenti si fa senza l’ecografo,questa, secondo me, è una delle strategie possibili sulle quali noi,perlomeno come cooperazione toscana, stiamo puntando. In que-sti ultimi anni abbiamo fatto un protocollo, che ha firmato Panti,con la Regione Toscana nel 2008 dove praticamente all’internonon solo dell’Ordine di Firenze, ma come Federazione, c’è ungruppo di operatori, al quale partecipiamo: ci riuniamo, organiz-ziamo, discutiamo e abbiamo una banca dati dove i professionisti,che hanno fatto attività formativa, possono iscriversi e noi all’oc-correnza potremo andare ad attingervi. Abbiamo poi fatto una de-libera che consente ai nostri operatori e ai nostri dipendenti dipartecipare per un mese all’anno, in orario di servizio, come sefossero in missione, a progetti di cooperazione che siano approvatidalla Regione Toscana. È importante andare a vedere la situazionein cui vivono queste popolazioni, anche se poi servirà più a noiche a quanto potremo fare, ma spesso diamo per scontato tantecose che non lo sono, siamo abituati a aprire il rubinetto del ba-gno e avere l’acqua corrente per lavarci, avere il gas, andare alPronto Soccorso e avere sicuramente qualcuno che ci curerà e tral’altro non ci costerà niente. Queste cose formano parte della no-stra storia, del nostro sviluppo, del nostro welfare; quando vai inAfrica, ma non solo, ti trovi di fronte a realtà molto diverse cheaiutano a capire quello che facciamo e a creare una coscienza cheti fa anche vedere in maniera diversa i problemi di salute globali.La diversità che c’è nel mondo ci mette poi in discussione comeprofessionisti della sanità su tanti di quelli che sono gli schemi cheabbiamo costruito nella nostra carriera, nella nostra storia, ci met-te di fronte soprattutto ai clinici, che si trovano ad esercitare lapropria professione senza il supporto tecnologico, al quale oramai

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ci siamo abituati e allora l’anamnesi acquisisce un valore molto piùgrande di quanto ha adesso. Dopodiché noi abbiamo anche inve-stito molto nella formazione: ogni anno facciamo un corso sullacooperazione rivolto ai nostri operatori, ne abbiamo già fatte treedizioni per ottanta partecipanti ciascuna.

Le sfide che la Toscana deve affrontare sulla cooperazione è faremeno progettino e più programmi. Vorremmo provare a fare siner-gia tra gli attori toscani, vorremmo coinvolgere comunità di immi-granti residenti nel nostro Paese, cosa difficilissima, ma stiamo pro-vando con il Senegal, la Cina e con l’Albania. Abbiamo poi istituitogià da tre anni – è uno dei nostri fiori all’occhiello – un sistema dimonitoraggio e di valutazione permanente affidato ad un’agenziaesterna. Noi siamo in tre aree geografiche, la Toscana è presente inPalestina, dove per due anni abbiamo supportato la cardiochirurgiadi Nablus, questo è un progetto più di eccellenza che di PrimaryHealth Care, con tutti gli operatori del team di Pisa e di Massa chesono andati ogni due mesi a operare i cardiopatici palestinesi e con-tinuano a andare. Lavoriamo in Africa sub sahariana, fondamental-mente con Primary Health Care, questo è un progetto di malnutri-zione e nell’area balcanica, dove abbiamo lavorato a un diverso li-vello. Ovviamente i progetti si adattano alla realtà del contesto,quello balcanico è un mondo di pre -annessione all’Europa e allorala situazione economica di sviluppo non è quella dell’Africa sub sa-hariana, in questo caso i progetti mirano sempre di più a aumentareconoscenze e competenze, dove già esistono infrastrutture. Noi sia-mo in moltissimi posti del mondo, ma in due o tre anni, vorremmoconcentrare tutti gli sforzi e i pochi soldi che abbiamo in non più diqueste nove realtà che stiamo identificando. Questa è una frase diSaramago, che amo molto, che ha scritto sul suo blog pochi mesiprima di morire : se mi dicessero di disporre in ordine di precedenzala carità, la giustizia e la bontà, metterei al primo posto la bontà, al se-condo, la giustizia e al terzo, la carità. La bontà, da sola, già dispensala giustizia e la carità, la giustizia giusta già contiene in sé sufficientecarità, la carità è ciò che resta quando non c’è bontà né giustizia.

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Resoconto e valutazione di un progetto africanoBarbara Tomasini

Referente per la Cooperazione sanitaria internazionale (CSI) per l’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese (AOUS)

e per l’Area Vasta Sud-Est

L’inizio del percorso personale in CSI ha radici lontane.Nel 1985 ho avuto il primo contatto con la Organizzazione non

governativa (ONG) Medici con l’Africa C.U.A.M.M., che da oltre60 anni lavora in sanità per le popolazioni più svantaggiate dei Paesidell’Africa sub-sahariana. Dopo un periodo di formazione specifica,nel 1987 ho trascorso un periodo di 27 mesi come medico poliva-lente presso l’Ospedale “Consolata Hospital NKUBU”-Kenya conun contratto di “Medici con l’Africa” riconosciuto dal MinisteroAffari Esteri ed in contemporanea ho conseguito la specializzazionein Neonatologia e Pediatria preventiva presso l’Università degli Stu-di di Firenze. La mia aspirazione è sempre stata poter fare la neona-tologa e dedicare una parte del mio lavoro alle popolazioni svantag-giate; lavorare in Africa si è concretizzato grazie ad una serie di cir-costanze e d’incontri che mi hanno permesso di svolgere la mia pro-fessione nel modo sognato, associando questo privilegio al duro la-voro.

Dal 1990 lavoro nel reparto di Neonatologia-Terapia intensivaneonatale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese (AOUS),rimanendo sempre in contatto ed in attività con “Medici con l’Afri-ca” e con la Cooperazione sanitaria internazionale (CSI).

Durante tutto il percorso lavorativo in AOUS ho trascorso perio-di più o meno attivi in CSI e dal 2001, per “Medici con l’Africa” hoiniziato a seguire ed a coordinare un Progetto sulla disabilità inKenya riconosciuto dal Ministero Affari Esteri. L’attività richiestamicon costanza, missione annuale per formazione-supervisione al Pro-getto, ha coinvolto maggiormente il Reparto nel quale lavoro e insenso generale i colleghi di lavoro ai quali raccontavo l’impegno e lagrande energia che il lavoro in Africa porta.

Nel 2005 il Direttore generale della AOUS, in modo attivo e lun-

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gimirante, ha voluto di persona conoscere il progetto seguito da mee dal dottor Stefano Zani, collega e marito, rendendosi disponibilepersonalmente, venendo in missione con noi in terra africana perconoscere il progetto e per istituzionalizzare l’ attività che da operasingola e personale è diventata opera aziendale. Da quel momentoin Azienda è stato istituito un Comitato per la CSI aziendale con loscopo di coordinare e potenziare al meglio le attività che molti sani-tari nella nostra Azienda già facevano singolarmente creando un’e-quità e una trasparenza per il personale sanitario impiegato in taliprogetti.

L’incontro con il Direttore generale dell’AOUS e con l’attuale re-ferente per la CSI della Regione Toscana, Dr.ssa Maria Josè CaldesPinilla, ha certamente cambiato la qualità degli interventi in coope-razione ed ha portato a importanti normative regionali in ambito diCSI che normano in modo chiaro, trasparente, verificabile e valuta-bile i progetti di cooperazione sanitaria della Regione.

Le attività illustrate, se si escludono i 27 mesi di contratto con“Medici con l’Africa” in Kenya, sono state svolte tutte senza alcunaretribuzione aggiuntiva ma con il riconoscimento orario da partedell’AOUS, in linea con le varie normative aziendali, regionali e se-condo il nostro codice etico.

La salute globale come argomento e quindi l’approccio alla Salu-te globale come “modus operandi” l’ho conosciuta frequentando icorsi, preparatori alla partenza, di “Medici con L’Africa”. Questoargomento, ha trovato in noi coppia e in noi famiglia, quando que-sta si è ingrandita, terreno fertile diventando idea trainante per la vi-ta e per la professione.

La salute globale e la lotta alla povertà, intesa dal nostro punto divista sanitario come lotta alle barriere per l’accessibilità ai servizi sa-nitari, all’equità, al miglioramento della qualità dei servizi, sono in-sieme al convincimento che il diritto alla salute sia un diritto impre-scindibile per ogni uomo , il movente del nostro lavoro quotidiano.

Salute globale intesa anche come apertura mentale verso la Medi-cina del mondo, Medicina della maggioranza della popolazionemondiale e non orientata solo verso il 20% dei popoli più ricchi efortunati.

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La Neonatologia è una branca relativamente nuova, rispetto allealtre specialistiche mediche e nel tempo ha visto crescere la sua im-portanza all’interno della salute globale.

Come neonatologa ho molto lavoro in Italia tra i piccolissimi del-la Terapia intensiva che sono in costante aumento e nei Paesi con ri-sorse limitate, poiché la lotta alla mortalità materna e neonatale alparto è una sfida quotidiana nei Paesi poveri. La mortalità infantile,oltre 7 milioni di bambini muoiono all’anno secondo gli ultimi datidell’Oms, è enormemente gravata dalla mortalità neonatale oltre il40% dei bambini muore nella prima settimana di vita per cause di-rettamente o indirettamente legate al parto. Per ogni neonato chemuore ci sono 7-10 neonati con media e/o grave sofferenza asfitticae quindi disabilità più o meno gravi che compromettono il loro svi-luppo cerebrale e fisico, rendendo minata la futura società civile delloro Paese. Mortalità neonatale e disabilità sono due aspetti di un’u-nica medaglia per eradicare i quali occorrono strategie condivise da-gli Stati del mondo. Le madri e i bambini sono il futuro della socie-tà e pertanto la salute globale passa attraverso la loro difesa.

Dal 2001 al 2010, come detto, “Medici con l’Africa” ci ha affida-to il coordinamento di un Progetto comunitario sulla disabilità inKenya con la collaborazione sul territorio africano di una ONG lo-cale, Saint Martins CSA che trova nell’approccio comunitario la suaspecificità.

Siamo stati incaricati di questo lavoro da parte di “Medici conl’Africa” per vari motivi: la conoscenza del territorio africano svi-luppatasi nei due anni di operatività sanitaria da noi svolta in questoPaese, la nostra specializzazione di pediatri/neonatologi con cono-scenze delle problematiche di salute infantile nei Paesi con scarse ri-sorse, il lavoro quotidiano in sala parto con tutte le implicazioni sul-la riduzione della nati mortalità e conseguenze dell’asfissia legate alparto distocico.

L’aspetto qualitativo riconosciuto nella mortalità infantile e nelladisabilità, da parte di “Medici con l’Africa” è quello di aver com-preso che la disabilità non si può ridurre alla sola correzione orto-pedica, fisioterapica o farmacologia, aspetti molto importanti dellalotta alla disabilità, ma nell’affiancare al progetto sanitari “esperti”nella problematiche feto/neonatali e in grado quindi di garantire al

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progetto l’aspetto formativo ed educativo sul feto/neonato quale in-dividuo separato dalla madre, ma con essa intimamente legato pertutti i problemi di salute.

Si trattava di affiancare la comunità, molto attiva verso i proble-mi di integrazione del disabile nella società civile, informando esupportando i rari operatori sanitari locali con attività di formazio-ne per ampliare le loro conoscenze sulle cause di disabilità, sullepossibili terapie e dunque sulle possibili strategie per ridurre il ri-schio di disabilità. Un altro aspetto importante del mandato delprogetto è l’attività ambulatoriale pediatrica e neonatale di suppor-to alla identificazione delle patologie che affliggono i bambini dis-abili e la ricerca attraverso strumenti estremamente poveri dellapossibile causa della disabilità che porta ad una rimodulazione dellestrategie della attività per la comunità nella prevenzione e cura delladisabilità.

La parte comunitaria e sociale sul territorio è ottimamente svoltadalla ONG locale ed a “Medici con l’Africa” è affidata la parte sani-taria con un fisioterapista espatriato e con le nostre figure di coordi-namento.

Il disabile, in questo progetto, è il fulcro delle attività sanitarie esociali è il soggetto che la comunità deve sostenere per inserirlodopo aver abbattuto le barriere fisiche molto più grandi nei Paesipoveri rispetto ai Paesi ricchi, vista la scarsità di mezzi economici, lascarsità di vie di comunicazione, di mezzi di locomozione ma so-prattutto le barriere mentali degli abili, che come in ogni parte delmondo, non gli permettono di essere accettato, curato procurando-ne l’isolamento e l’emarginazione.

Nelle attività svolte il simbolo dell’efficacia dell’intervento, da unpunto di vista sanitario, è stato l’abbattimento dell’età delle primevisite per disabilità, spostando l’età media della prima visita fisiote-rapica dai 5 anni del 2001 ai 3-6 mesi del 2005 rendendo in questomodo efficace il trattamento e la cura, dove questo è possibile, enon la sola osservazione delle lesioni.

Fare awarness nella popolazione, fare aggiornamento ai sanitaried ai volontari, effettuare viste ambulatoriali, fare rete con il sistemasanitario locale e cercare contatti con le strutture locali in attività

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sul territorio è stato l’obiettivo di questi anni. La raccolta dati pervalutare l’efficacia delle attività è stato uno dei nostri punti fermi equalificanti per poter rendere visibili i traguardi raggiunti e la loroentità.

I progetti su base comunitaria sono solo recentemente diventatiimportanti nella CSI, in questi il coinvolgimento attivo delle comu-nità è diventato fulcro ed elemento essenziale dei progetti: la comu-nità è l’elemento da dove nascono e si evidenziano i problemi ma èanche il luogo dove si elaborano le soluzioni condivise e pertantodurature. I progetti e le soluzioni devono essere entrambi elaboratiinsieme alle comunità locali pena la loro non sostenibilità nel tem-po. Quando si lavora con la comunità e per la comunità un elemen-to molto importante è la continuità dei progetti: la durata dei qualidovrebbe essere non inferiore a 5 anni, meglio se 10, perché questopermette una migliore conoscenza dei territori e delle dinamichecomunitarie. È nel camminare insieme ognuno con la propria iden-tità e nel rispetto reciproco che si trovano le soluzioni e le strategieper la risoluzione dei problemi.

In questo progetto sostenuto da “Medici con l’Africa” per un de-cennio, sono stati identificati, sostenuti e riabilitati in parte o total-mente, sappiamo di non poter fare miracoli poiché molte malattie ocomplicanze di malattie non possono essere eliminate, oltre 1500disabili.

Oltre 1000 hanno ricevuto un inserimento completo o parzialenelle loro comunità (scuola, lavoro, famiglia), ma sicuramente du-rante lo svolgersi del progetto i disabili sono stati valorizzati comeelementi essenziali e facenti parte della comunità e non segregatinelle capanne come all’inizio del progetto.

I dati raccolti sul campo durante il progetto, hanno confermato idati della letteratura internazionale, per quanto riguarda l’entità deiproblemi neonatali e perinatali sulla mortalità infantile (40%) e lecause di disabilità alla nascita (asfissie, infezioni, traumi, malforma-zioni ,etc.), che rappresentano più del 60% delle cause di disabilitànei Paesi poveri.

Durante lo sviluppo di questo progetto, che abbiamo seguito inmodo costante con due missioni all’anno utilizzando i possibili per-

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messi ( studio, ferie ecc.) che l’AOUS ci concedeva, è cresciuta l’esi-genza di trovare nel territorio del Kenya una struttura ospedalierache potesse fornire servizi di buona qualità e che rispondesse alledomande di salute dei beneficiari del Progetto ma indirettamente aibisogni di salute dell’intera popolazione della zona. Consapevoliche quando parliamo di salute materno infantile e soprattutto dimortalità materno-neonatale parliamo indirettamente del funziona-mento del sistema sanitario.

È in questa continua ricerca di collaborazione con il territorioafricano che ci è giunta la domanda dell’allora Direttore generale,donna dotata di notevole spessore umano e di intelligente capacitàmanageriale, del cosa stessimo facendo e su come l’AOUS ci potes-se sostenere in questa impresa. Così con questo desiderio di volercontribuire alla salute globale nel 2003 è nato l’embrione di questacollaborazione che vede l’AOUS ed il North Kinangop Catholic Ho-spital ormai consolidata da oltre 7 anni.

Quindi dalla richiesta di sostegno del proprio Ospedale di riferi-mento per i pazienti disabili, da parte della comunità in Africa è ini-ziata la collaborazione che ha visto coinvolti oltre 50 sanitari del-l’AOUS.

In questo periodo di tempo c’è stata un’evoluzione e struttura-zione delle politiche regionali in CSI.

La Regione Toscana si distingue nel panorama italiano della co-operazione sanitaria in quanto dal 2008 ha prodotto alcune delibereregionali che regolamentano l’invio del personale del sistema sanita-rio regionale, le linee guida di CSI della Regione, la progettazioneannuale e pluriennale, lo stanziamento costante dei fondi, tutte difondamentale importanza per rendere i progetti regionali di coope-razione sanitaria maggiormente trasparenti e valutabili in base a deicriteri oggettivi e quantificabili rispetto al passato.

In questi ultimi 5 anni l’evoluzione delle politiche regionali è ma-turata di pari passo con il Progetto che stiamo coordinando in Kenyaed abbiamo così potuto toccare con mano il miglioramento che unachiara impostazione politica produce nello sviluppo di un settore.

La collaborazione tra il NKCH e l’AOUS prosegue, nonostante ilprogetto sulla disabilità sarà dal 2011 portato avanti solo dallaONG locale e sarà come si dice interamente africanizzato, proprio

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grazie alla stabilizzazione di questo attraverso l’approvazione regio-nale e grazie al buon lavoro svolto dai sanitari toscani riconosciutodai colleghi africani da parte dei quali è stato manifestato apprezza-mento per il sostegno costante dei sanitari senesi nella elaborazionedi protocolli condivisi e nella formazione che ha permesso alNKCH di divenire una delle dieci strutture in Kenya che possonoerogare crediti in Educazione medica continua.

L’esperienza di questi oltre 25 anni di attività in CSI mi ha fattocomprendere come non si finisca mai di maturare nuove idee e so-luzioni a problemi che apparentemente sono gli stessi, vedi disabili-tà, in tutto il mondo ma che in ogni Comunità risultano diversi (dif-ficile o scarsa accessibilità ai servizi, scarsa qualità degli stessi etc.).

Non esistono soluzioni precostituite ed applicabili dovunque allostesso modo, ma esistono metodologie e modelli che, se applicati inmodo continuo, costante e rispettoso possono aiutare ad evitare er-rori gravi nella relazione tra chi ha un bisogno e chi può dare rispo-sta al bisogno.

Un altro aspetto importante è non credere che la CSI, essendonoi sanitari, possa da sola raggiungere buoni risultati, in quanto iprogetti integrati (sanità, educazione, aspetti sociali ecc.) riesconomeglio ad affrontare i problemi e portare ad uno sviluppo maggior-mente sostenibile da parte delle comunità locali. La mortalità ma-terno-infantile si abbatte infatti anche attraverso la scolarizzazionefemminile e non solo con la possibilità di erogare un taglio cesareooppure la disponibilità di una trasfusione alla donna o della riani-mazione neonatale o dell’allattamento al seno.

La differenza tra Progetti e “carità”

I Progetti hanno il vantaggio di essere valutabili e ripetibili e con-frontabili nelle diverse realtà, soprattutto se sono attività svolte co-me operatori di un sistema istituzionale quale ad esempio il sistemasanitario, mentre le attività caritatevoli sono legate solo al singoloindividuo e quindi all’interno della loro validità hanno il limite dinon poter essere costanti nel tempo ma legati alla persona che li

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propone, così come i criteri di scelta non sono valutabili e confron-tabili ma sono legati alle emozioni ed alle necessità del momentoche non sono magari i reali bisogni di quella comunità, così come avolte si possono scontrare con le politiche locali.

Ribadendo la validità di queste attività caritatevoli non possiamoapplicare tali criteri ai Progetti di CSI che hanno bisogno di esseretrasparenti, valutabili e a sostegno del sistema sanitario locale e nonpossono essere personalizzati.

Il rapporto con le persone ci modifica, ci matura ci mette in dis-cussione e ci fa progredire costantemente e pertanto la sfida è dinon chiudersi e non aver paura di confrontarci alla pari con le per-sone che incontriamo. La cooperazione è un incontro tra pari e lacooperazione allo sviluppo è un incontro che provoca un’evoluzio-ne per entrambi i soggetti che si incontrano; nei Progetti di coope-razione sanitaria dobbiamo cercare di contribuire a migliorare i si-stemi sanitari locali, affinché possano con le loro risorse occuparsidella salute della loro popolazione ma durante tali percorsi condivi-si al nostro rientro trasferiamo quell’umanità che incontriamo equella carica positiva che riceviamo.

La coerenza nel comportamento sia umano che professionale èalla base del “successo” dei vari Progetti a cui siamo chiamati a par-tecipare, la continuità del nostro agire e l’opportuna conoscenza de-gli scenari ci porterà ad essere autentici ovunque lavoriamo, Italia oAfrica, raggiungendo più agevolmente gli obiettivi del Progettostesso.

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Edizioni ETSPiazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa

[email protected] - www.edizioniets.comFinito di stampare nel mese di dicembre 2011

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