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Marzo 2015 Rassegna Responsabilità Professionale 31 Marzo Il Sole 24 Ore Sanità Responsabilità professionale: le novità allo studio del comitato ristretto alla Camera di Maria Teresa Papadeus Per la legge sulla responsabilità professionale potrebbe essere la volta buona. Gli ottimisti dicono che a fine aprile approderà in Aula, i realisti puntano su giugno. Quel che conta è che la Commissione Affari Sociali ha impresso un'accelerata all'iter legislativo: dopo 28 sedute, e a distanza di un anno dalla costituzione del comitato ristretto, ha finalmente preso forma un articolato contenente i punti essenziali della futura legge sul rischio clinico. Undici articoli in tutto sui quali c'è l'accordo di massima di tutti i gruppi, pur con le dovute limature necessarie, a partire dall'art.1 dedicato alla definizione di atto medico. C'è chi vorrebbe una versione più radicale che espliciti in modo chiaro che un atto medico, che, va da sè deve essere eseguito nella massima sicurezza, può comportare, in presenza di particolari complessità, un rischio intrinseco per il paziente. C'è chi, invece, ritiene politicamente più opportuna una versione soft. La gestione del rischio clinico Ampio spazio, agli art. 2 e 3 è riservato alla gestione del rischio clinico con l'istituzione di vari organismi, a vari livelli, aziendale, regionale e nazionale, ipotizzando anche l'utilità di segnalazione del "quasi errore", che - sia ben inteso - è diretto alla prevenzione dei rischi e della sicurezza del paziente, ferma restando l' inutilizzabilità ai fini processuali, di qualsiasi attività di audit. Sulla scia di quanto accede in altri Paesi Europei, il Comitato ristretto pensa all'introduzione del sistema " no blame, no fault" , al fine di velocizzare gli indennizzi e deflazionare il contenzioso, prevedendo, tramite regolamento successivo, le fattispecie per le quali scatterebbe in automatico (art.8) . La depenalizzazione Non poteva mancare e non manca, infatti, la depenalizzazione della colpa professionale, e, come già anticipato dalla recente giurisprudenza, l'attribuzione della responsabilità contrattuale alla struttura sanitaria e di quella extracontrattuale per il singolo professionista (art. 5 e 6). Perno della legge che verrà è, infatti, un maggiore coinvolgimento della struttura sanitaria, rimasta un po' ai margini del regime della responsabilità medica, per la quale scatta l'obbligatorietà dell'assicurazione. Resta la possibilità per le strutture di rivalersi nei confronti dei propri prestatori d'opera qualora il fatto sia stato ommesso con dolo, (art.9) a tale scopo si ragiona sulla possibilità per il professionista, che lavora nel pubblico, di stipulare una polizza assicurativa. Inevitabile poi, l'obbligatorietà dell'assicurazione per il libero professionista. La negligenza accertata Lotta anche al professionista che si "macchia" di negligenza accertata, per il quale scatterebbero meccanismi sanzionatori. Eretta l'impalcatura della legge, non resta che sperare che non finisca come nella scorsa legislatura, che vide la XII Commissione del Senato adottare un testo unico e poi arenarsi per manifesta mancanza di volontà del Governo, poco attento a tematiche sanitarie. I componenti della XII Commissione vanno ripetendo che per la legge sulla responsabilità professionale sanitaria potrebbe essere la volta buona ed attendono un'apertura dal Governo che potrebbe arrivare a fine aprile. O più realisticamente prima della pausa estiva. Il Sole 24 ore Sanità – Il Settimanale Condanna per mancata chance al paziente Risponde di omicidio colposo il medico del pronto soccorso che dimette il paziente senza disporre i necessari accertamenti cardiologici che - ove tempestivamente eseguiti secondo le procedure delle linee guida - avrebbero potuto salvare il paziente e/o permettere un vantaggio clinico. L’esistenza di probabilità, per quanto scarse di miglioramento o guarigione, sono alla base dell’affermazione dell’esistenza della “prova processuale” sufficiente a giustificare la logica conclusione che: «Tenendosi l’azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato o si sarebbe inevitabilmente verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva». Questa è l’opinione della IV sezione penale che, con sentenza 10972/2015 del 13 marzo, ha confermato la condanna del medico disposta dalla Corte di merito di Palermo. In Appello era stato chiarito che il camice bianco avrebbe commesso una «“ma#cro” omissione delle linee guida secondo le quali era, in quella circostanza, necessario procedere a più approfondita valutazione dell’apparato cardiovascolare mediante l’esecuzione di esami elettrocardiografici e di controlli enzimatici ripetuti da effettuarsi nell’ambito del ricovero del paziente, che per le condizioni in cui si trovava (età di 77 anni, ipertensione, ipoglicemia) avrebbe dovuto essere tenuto in osservazione per almeno 24 ore con esecuzioni di esame elettrocardiografico e di controlli degli enzimi di necrosi cardiaca ogni 6 ore, volti ad accertare l’evoluzione della situazione e a consentire un tempestivo intervento; anche il dolore addominale lamentato dal paziente da alcuni giorni doveva far sorgere il sospetto di una possibile patologia coronarica, sia pure manifestatasi in forma atipica, tanto più che gli esami ematochimici eseguiti, l’esame obiettivo addominale, l’alvo aperto a feci e gas e l’esame radiografico addominale consentivano già di escludere una patologia addominale», come invece, erroneamente, diagnosticata dal medico.

31 Marzo Responsabilità professionale: le novità allo studio del ... · La gestione del rischio clinico Ampio spazio, agli art. 2 e 3 è riservato alla gestione del rischio clinico

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31 Marzo Il Sole 24 Ore Sanità Responsabilità professionale: le novità allo studio del comitato ristretto alla Camera di Maria Teresa Papadeus Per la legge sulla responsabilità professionale potrebbe essere la volta buona. Gli ottimisti dicono che a fine aprile approderà in Aula, i realisti puntano su giugno. Quel che conta è che la Commissione Affari Sociali ha impresso un'accelerata all'iter legislativo: dopo 28 sedute, e a distanza di un anno dalla costituzione del comitato ristretto, ha finalmente preso forma un articolato contenente i punti essenziali della futura legge sul rischio clinico. Undici articoli in tutto sui quali c'è l'accordo di massima di tutti i gruppi, pur con le dovute limature necessarie, a partire dall'art.1 dedicato alla definizione di atto medico. C'è chi vorrebbe una versione più radicale che espliciti in modo chiaro che un atto medico, che, va da sè deve essere eseguito nella massima sicurezza, può comportare, in presenza di particolari complessità, un rischio intrinseco per il paziente. C'è chi, invece, ritiene politicamente più opportuna una versione soft. La gestione del rischio clinico Ampio spazio, agli art. 2 e 3 è riservato alla gestione del rischio clinico con l'istituzione di vari organismi, a vari livelli, aziendale, regionale e nazionale, ipotizzando anche l'utilità di segnalazione del "quasi errore", che - sia ben inteso - è diretto alla prevenzione dei rischi e della sicurezza del paziente, ferma restando l' inutilizzabilità ai fini processuali, di qualsiasi attività di audit. Sulla scia di quanto accede in altri Paesi Europei, il Comitato ristretto pensa all'introduzione del sistema " no blame, no fault" , al fine di velocizzare gli indennizzi e deflazionare il contenzioso, prevedendo, tramite regolamento successivo, le fattispecie per le quali scatterebbe in automatico (art.8) . La depenalizzazione Non poteva mancare e non manca, infatti, la depenalizzazione della colpa professionale, e, come già anticipato dalla recente giurisprudenza, l'attribuzione della responsabilità contrattuale alla struttura sanitaria e di quella extracontrattuale per il singolo professionista (art. 5 e 6). Perno della legge che verrà è, infatti, un maggiore coinvolgimento della struttura sanitaria, rimasta un po' ai margini del regime della responsabilità medica, per la quale scatta l'obbligatorietà dell'assicurazione. Resta la possibilità per le strutture di rivalersi nei confronti dei propri prestatori d'opera qualora il fatto sia stato ommesso con dolo, (art.9) a tale scopo si ragiona sulla possibilità per il professionista, che lavora nel pubblico, di stipulare una polizza assicurativa. Inevitabile poi, l'obbligatorietà dell'assicurazione per il libero professionista. La negligenza accertata Lotta anche al professionista che si "macchia" di negligenza accertata, per il quale scatterebbero meccanismi sanzionatori. Eretta l'impalcatura della legge, non resta che sperare che non finisca come nella scorsa legislatura, che vide la XII Commissione del Senato adottare un testo unico e poi arenarsi per manifesta mancanza di volontà del Governo, poco attento a tematiche sanitarie. I componenti della XII Commissione vanno ripetendo che per la legge sulla responsabilità professionale sanitaria potrebbe essere la volta buona ed attendono un'apertura dal Governo che potrebbe arrivare a fine aprile. O più realisticamente prima della pausa estiva. Il Sole 24 ore Sanità – Il Settimanale Condanna per mancata chance al paziente Risponde di omicidio colposo il medico del pronto soccorso che dimette il paziente senza disporre i necessari accertamenti cardiologici che - ove tempestivamente eseguiti secondo le procedure delle linee guida - avrebbero potuto salvare il paziente e/o permettere un vantaggio clinico. L’esistenza di probabilità, per quanto scarse di miglioramento o guarigione, sono alla base dell’affermazione dell’esistenza della “prova processuale” sufficiente a giustificare la logica conclusione che: «Tenendosi l’azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato o si sarebbe inevitabilmente verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva». Questa è l’opinione della IV sezione penale che, con sentenza 10972/2015 del 13 marzo, ha confermato la condanna del medico disposta dalla Corte di merito di Palermo. In Appello era stato chiarito che il camice bianco avrebbe commesso una «“ma#cro” omissione delle linee guida secondo le quali era, in quella circostanza, necessario procedere a più approfondita valutazione dell’apparato cardiovascolare mediante l’esecuzione di esami elettrocardiografici e di controlli enzimatici ripetuti da effettuarsi nell’ambito del ricovero del paziente, che per le condizioni in cui si trovava (età di 77 anni, ipertensione, ipoglicemia) avrebbe dovuto essere tenuto in osservazione per almeno 24 ore con esecuzioni di esame elettrocardiografico e di controlli degli enzimi di necrosi cardiaca ogni 6 ore, volti ad accertare l’evoluzione della situazione e a consentire un tempestivo intervento; anche il dolore addominale lamentato dal paziente da alcuni giorni doveva far sorgere il sospetto di una possibile patologia coronarica, sia pure manifestatasi in forma atipica, tanto più che gli esami ematochimici eseguiti, l’esame obiettivo addominale, l’alvo aperto a feci e gas e l’esame radiografico addominale consentivano già di escludere una patologia addominale», come invece, erroneamente, diagnosticata dal medico.

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Nello specifico, la Corte di Palermo ritenne che, sulla base degli accertamenti tecnici compiuti nel processo, una volta disposto, come necessario, il monitoraggio del paziente si sarebbe potuto intervenire tempestivamente sulla patologia e scongiurare, contenendo i danni dell’infarto, e allungare la vita del paziente e ciò trova fondamento, secondo gli ermellini, in una consolidata acquisizione della scienza medica, ormai divenuta massima di esperienza, secondo cui le possibilità di superare o contenere i danni dell’infarto sono legate alla tempestività dell’intervento. Di conseguenza, il medico che non si sia attenuto alle linee guida non può beneficiare della scriminante della colpa lieve, prevista dall’articolo 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189, c.d. legge Balduzzi, che sussiste quando siano state rispettate le linee guida e/o le pratiche terapeutiche mediche virtuose, purché accreditate dalla comunità scientifica. P.F. 26 Marzo Il Sole 24 Ore Sanità Lorenzin firma il decreto. Nasce l'unità di crisi anti malpractice Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha firmato il decreto istitutivo della Unità di crisi permanente per il coordinamento degli interventi urgenti in caso di gravi eventi verificatisi nell'erogazione di prestazioni da parte del Servizio sanitario nazionale. L'attivazione dell'Unità di crisi permanente permetterà di rendere più efficace e tempestiva l'azione degli organismi ministeriali e delle altre istituzioni coinvolte nonché di programmare nel lungo e medio periodo gli interventi correttivi e sostitutivi necessari, e pertanto prevenire fenomeni di malpractice dovuti a disorganizzazioni, ritardi o omissioni di enti o persone operanti nell'ambito del Ssn. L'Unità di crisi è presieduta dal Ministro o da un suo delegato e di essa fanno parte: - in rappresentanza delle Regioni, l'assessore regionale alla Sanità del Piemonte, Antonio Saitta; - il commissario dell'Iss, Gualtiero Ricciardi; - il comandante del Nas; - il direttore generale di Agenas, Francesco Bevere; - il direttore generale della programmazione sanitaria del ministero della Salute. Quotidiano sanità Sicurezza delle cure. In 4 video le ‘buone’ e le ‘cattive’ abitudini dei medici. Ecco il progetto per la formazione multimediale Elaborati dal Centro Gestione Rischio Clinico della Regione Toscana una serie di strumenti interattivi per la promozione e la formazione del personale alla cultura della sicurezza. In esclusiva per Qs due coppie di video su cosa ‘fare’ e cosa ‘non fare in tema di checklist in sala operatoria e comunicazione con i pazienti. I VIDEO: CHECKLIST https://www.youtube.com/watch?v=S_c5DfvyLmE https://www.youtube.com/watch?v=7cG2Mg8Uecc COMUNICAZIONE PAZIENTE https://www.youtube.com/watch?v=p0ZW2-Us9CM https://www.youtube.com/watch?v=Sd1PIZZJCPY La sicurezza dei pazienti è un tema centrale nella formazione degli operatori sanitari per la condivisione di pratiche comuni per la qualità e la sicurezza delle cure a livello europeo. In 6 stati membri dell’Unione il tema della sicurezza del paziente è inserito nei corsi di laurea e nei corsi di specializzazione per gli operatori sanitari, mentre in Italia la formazione sulla sicurezza del paziente è maggiormente diffusa nei programmi ECM. Nella maggior parte degli stati membri la formazione sulla sicurezza del paziente da parte degli operatori è considerata parte integrante del training on-the-job (Indagine Eurobarometer 2014). In questo contesto, il Centro Gestione Rischio Clinico della Regione Toscana ha realizzato gli strumenti formativi “GRC START” per la formazione degli operatori in materia di rischio clinico e sicurezza del paziente. Gli strumenti interattivi per la formazione sono stati pensati come una cassetta degli attrezzi per i responsabili della gestione del rischio clinico nella promozione della cultura della sicurezza, possono essere usati sia in aula che per le attività di formazione on the Job. Offrono ricostruzioni audiovisive di situazioni lavorative pensate per dare spunti formativi e raccolgono un repertorio articolato di risorse didattiche e contenuti di approfondimento. Attraverso un’analisi dei temi rilevanti a livello internazionale, sono stati selezionati e approfonditi scenari rifieribili ai seguenti temi: - Teamwork e sicurezza in chirurgia - Comunicazione interprofessionale ed interpersonale - Comunicazione degli eventi avversi - Sistemi di Reporting e Learning - Pratiche per la sicurezza del paziente – prevenzione errori di terapia, cadute e infezioni Gli scenari rappresentati illustrano la complessità organizzativa, le opportunità di miglioramento e le situazioni di rischio che caratterizzano gran parte delle attività nelle professioni sanitarie. L’interfaccia lascia la possibilità al formatore di costruire, a seconda della esigenze, dei percorsi formativi personalizzati e di navigare fra le situazioni esplorando i comportamenti degli operatori ancorando a dei contesti reali la promozione della sicurezza del paziente. L’apprendimento ha come obiettivo sia l’analisi sistemica dei

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comportamenti che minano la qualità e la sicurezza delle cure, che la comprensione dei contesti organizzativi e relazionali favorevoli alla diffusione di una cultura della sicurezza. Per questo, ogni scenario è rappresentato con un “nasty case” in cui, seguendo la legge di Murphy, tutto ciò che può andare storto va anche peggio, seguito da un “good case” in cui gli stessi attori mostrano come applicare le buone pratiche nella quotidianità. A supporto degli scenari, una raccolta di materiali di approfondimento collegato ai temi trattati nei video è liberamente consultabile durante l’uso dello strumento. Ogni sezione dello strumento prevede una scheda tecnica che colloca il materiale video e le varie clip nel giusto ambito formativo, riferendosi alle relative Pratiche per la Sicurezza dei Pazienti, fornendo spiegazioni sul suo utilizzo, materiali propedeutici e spunti didattici elaborati dal gruppo di lavoro di metodologi e specialisti coinvolti nello sviluppo del progetto. Lo strumento è a disposizione gratuitamente presso il Centro GRC per tutte gli enti pubblici del SSN, 4 clip promozionali sono visibili ai link sotto indicati, la prima coppia riguarda due modi di affrontare la sicurezza in sala operatoria, mentre la seconda due esempi di cattiva e buona comunicazione degli eventi avversi. Tommaso Bellandi e Alessandro Cerri Centro GRC Regione Toscana 25 Marzo Il Sole 24 Ore Sanità Lorenzin presenta domani la Commissione sulla medicina difensiva e responsabilità professionale del sanitario Giovedì 26 marzo alle ore 12.30, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin presenterà alla stampa la nuova Commissione consultiva per le problematiche in materia di medicina difensiva e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie. La Commissione, presieduta dal Prof. Avv. Guido Alpa, presidente del Consiglio nazionale Forense, ha il compito di fornire al ministero della Salute idoneo supporto per l'approfondimento delle predette tematiche e l'individuazione di possibili soluzioni, anche normative. Sul tema è intervenuta oggi la segretaria generale del Sindacato dei Medici Italiani-Smi, Pina Onotri, prendendo spunto dalle parole del sottosegretario alla salute, Vito De Filippo, e di quello alla Giustizia, Cosimo Ferri, nel corso del recente convegno, a Roma: "La responsabilità sanitaria. Problemi e prospettive". Onotri ha espresso condivisione per quanto dichiarato dai due esponenti di governo, sulla necessità di un intervento legislativo organico e urgente sul tema della responsabilità medica: «Tutti – spiega - sono coscienti delle conseguenze umane, professionali, ma anche economiche di una normativa inadeguata e della diffusione di fenomeni crescenti di medicina difensiva. Il rapporto Marsh Risk Consulting, appunto, parla di circa 30 mila denunce l'anno e il sottosegretario De Filippo riferisce di una stima di costi, negli ultimi anni, di circa 10 mld di euro. Un'enormità». «Eppure non si muove nulla – sottolinea il segretario generale Smi – a parte alcuni annuali, e lodevoli, convegni, sono diversi i progetti di legge in perenne attesa dell'esame del Parlamento. Nel frattempo, si è riusciti nell'assurdo: i cittadini si sentono insicuri e i medici pure. Sì perché i casi, presunti o reali, di malasanità sono costantemente sulle pagine dei giornali, il che crea confusione e sfiducia nelle persone, nonché un danno enorme alla sanità pubblica. Nel contempo i medici lavorano con la paura, anche perché ricevono denunce, quasi sempre ingiuste, come dimostrano le statistiche sulle sentenze, con un calvario giudiziario che li vede oberati anche di enormi spese assicurative e legali». Lo Smi, quindi, da un lato auspica che si definisca con urgenza un testo unico dei vari ddl presentati al Parlamento, magari con un serio intervento del Governo, dopo una rapida consultazione con le rappresentanza sindacali mediche. Quindi, Pina Onotri rilancia: «è necessario un grande patto nazionale su tre assi: maggiore informazione per i cittadini, tutela effettiva del lavoro medico, accordo con l'avvocatura per una nuova cultura per la risoluzione alternativa dei conflitti. In questo senso, valutiamo positivamente la costituzione e presentazione, domani, della Commissione sulla medicina difensiva e sulla responsabilità professionale, da parte del ministro Lorenzin». Doctor 33 Omessa denuncia di un fatto è reato da parte del medico Commette reato di omessa denuncia il medico incaricato di un pubblico servizio che non informi l'autorità giudiziaria di un fatto che presenti le linee essenziali di un reato. Non è invece indispensabile che la notizia si riveli anche fondata nel successivo nel successivo sviluppo procedimentale. Il che si correla strettamente alla natura di reato di pericolo della incriminazione, dovendosi garantire che la notitia criminis pervenga comunque all'Autorità Giudiziaria, unica competente ad operare le valutazioni e ad assumere le decisioni in ordine all'ulteriore corso del procedimento penale. Ne discende che, diversamente dal reato di favoreggiamento, il delitto in oggetto è integrato anche qualora sia successivamente accertata l'insussistenza obiettiva del reato la cui notizia l'agente sia venuto a conoscenza ed abbia omesso di denunciare. [Avv. Ennio Grassini - www.dirittosanitario.net

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24 Marzo Newsletter Studio Cataldi La valorizzazione normativa delle linee guida nel giudizio di responsabilità medica La valorizzazione normativa delle linee guida nel giudizio di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria, così come operata dall’art. 3 del decreto Balduzzi (d.l. 158/2012 conv. in L. 189/2012), ha impegnato gli interpreti nella corretta qualificazione giuridica delle suddette prescrizioni. La riforma ha avuto, infatti, il merito di elevare le linee guida a criteri direttamente incidenti sul perimetro di rilevanza penale del fatto, prevedendo l’esenzione da responsabilità penale per le condotte connotate da sola colpa lieve, laddove il medico si sia attenuto a linee guida e buone pratiche dettate per il caso clinico di specie. Più precisamente tali precetti devono risultare codificazione di acquisizioni scientifiche e sperimentazioni della migliore ricerca clinica, elaborati da organismi accreditati dalla comunità scientifica e, quindi, garanzia di autorevolezza ed attendibilità euristica del sapere in esse espresso. Non devono, invece, sottintendere logiche prettamente economicistiche, deputate a finalità di risparmio della spesa sanitaria e, dunque, antitetiche all’interesse primario della salute del paziente. La creazione delle linee guida asseconda l’esigenza di perimetrare i fattori di rischio delle attività ontologicamente pericolose, quale è appunto l’attività medica, tentando di uniformare le condotte dell’esercente la professione sanitaria allo standard di perizia esigibile a fronte di determinate situazioni. Tuttavia la notevole varietà e specificità dei casi clinici impedisce una riferibilità immediata ed una applicazione aderente delle linee guida ai casi concreti; inoltre, la loro stessa natura di regole eterogenee e indeterminate osta a qualsiasi automatismo traspositivo all’interno del giudizio penale di colpa, se non a discapito del principio di tassatività della fattispecie. Pertanto, le linee guida sono da considerarsi regole cautelari improprie, in quanto a differenza delle comuni regole cautelari dotate di una rigidità applicativa incontestabile, alla cui violazione consegue sempre un giudizio di responsabilità, esse non sono affatto vincolanti tout court, ma il più delle volte necessitano di un adeguamento al caso concreto. Orbene, il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate, oltre a costituire garanzia di esenzione da responsabilità per colpa lieve può rappresentare un confortante salvacondotto per il medico nella criticità ed incertezza del suo operare in ordine a particolari casi clinici. Ma proprio tale evenienza rischia di vanificare le aspettative della riforma. Se da un lato, infatti, l’ingresso delle linee guida, quale parametro obiettivo nel giudizio di colpa, ha l’effetto di ridurre la discrezionalità valutativa del giudice e contrastare la medicina difensiva, dall’altro lato proprio codesta pratica si traduce in una rigida osservanza di tali regole per evidenti ragioni difensive e cautelative, rischiando di generare un’eccessiva standardizzazione delle condotte del medico attraverso un meccanico e acritico appiattimento della sua attività sull’osservanza di tali precetti. E ovviamente questa infelice prassi comporta un abbrutimento dell’essenza stessa dell’attività medica, confliggendo con il fondamentale principio di libertà terapeutica sancito nell’art. 4 del codice di deontologia medica, in base al quale «l’esercizio della medicina è basato sulla libertà e sull’indipendenza della professione». Con ciò va inteso che l’esercente la professione sanitaria non deve ridursi a mero esecutore protocollare delle linee guida e best practices vigenti in una data materia, ma deve operare previamente una verifica di attendibilità e pertinenza delle suddette raccomandazioni al caso concreto, sempre nell’ottica di una massimizzazione del benessere del paziente. Questo perché, come già detto, le linee guida non sono dogmi inconfutabili, ma sollecitano una attività di analisi dinamica del medico sia in fase diagnostica che terapeutica tant’è vero che la pedissequa osservanza delle linee guida non è sempre sinonimo di diligenza; al contrario, il medico che opera una acritica applicazione di tali precetti al caso clinico sottopostogli, senza valutarne la provenienza e, quindi, l’autorevolezza, il livello di aggiornamento e l’appropriatezza, può incorrere in responsabilità da colpa per adesione, qualora da tale passiva osservanza sia derivata una lesione alla salute del paziente, scongiurabile, invece, attraverso una condotta alternativa. Se ne deduce che le linee guida sono più propriamente delle raccomandazioni che integrano il bagaglio conoscitivo del medico e la cui applicazione va sempre valutata in base alle circostanze del caso concreto. Laura Amato 20 Marzo Quotidiano Sanità Responsabilità professionale. Più risk managment, ma senza una legge non si va avanti Da medici, manager, magistrati arriva la richiesta di un intervento legislativo, ma ora un comitato ristretto dovrebbe sintetizzare a breve in un unico testo i sette disegni di legge all’esame dell’XI Commissione Lavoro della Camera. Delle circa 30mila denunce l’anno solo il 9.4% dei contenziosi

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vengono decisi in sede di mediazione. Se ne è parlato oggi in un convegno alla Corte d'Appello di Roma. 20 MAR - Revisione della definizione dell’atto medico, necessario per trovare una linea di confine nella medicina difensiva. Definizione delle tabelle per la valutazione economica del danno non patrimoniale alla persona. Ricorso alla giustizia penale solo in casi di estrema ratio risolvendo i contenziosi medico legali in sede civilistica o disciplinare, o anche affidandoli alla mediazione. E ancora, attivazione di cartelle cliniche elettroniche correttamente compilate e creazione di un sistema di Risk management in tutte le strutture sanitaria. Sono queste solo alcune delle possibili soluzioni per sbrogliare la complessa matassa della responsabilità sanitaria che aspetta ormai da moltissimo tempo di essere definita in modo chiaro e univoco una cornice normativa, calmierando così gli effetti negativi del fenomeno della medicina difensiva. Argomenti caldi sui quali si sono confrontati magistrati, giuristi, medici legali, economisti, assicuratori, manager ed esperti di rischio clinico, nel corso del convegno “La responsabilità sanitaria. Problemi e prospettive”. Un convegno, organizzato oggi a Roma presso la Corte di Appello, dall’Istituto di ricerca Orme - Osservatorio sulla responsabilità in medicina, dall’Università di Tor Vergata Roma, dalla Corte di Appello e dal Tribunale ordinario di Roma, da Federsanità Anci - Federazione Lazio e dall’Omceo di Roma. Ad aprire i lavori del convegno è stato il primo presidente della Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce che ha sottolineato come “ci sia una difficoltà di definire la colpa lieve e la colpa grave. E comunque il ricorso alla giustizia penale deve essere l’estrema ratio. E solo in caso di colpa gravissima del medico”. Sul tema sono intervenuti il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo e il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. “La responsabilità professionale in campo medico - ha detto De Filippo - è un problema molto sentito. Il costo della medicina difensiva negli ultimi anni si stima in oltre 10mld di euro. La legge Balduzzi ha provato a fare chiarezza ma ha dei limiti. Oggi all’esame dell’XI Commissione Lavoro della Camera ci sono sette disegni di legge che un comitato ristretto a breve dovrebbe sintetizzare in un unico testo. Parallelamente al lavoro del Parlamento anche il ministero della Salute produrrà un suo documento sulla responsabilità medica”. Non c’è una linea ben precisa del Governo su questo tema, ha affermato il sottosegretario Cosimo Ferri, “si sta lasciando alla giurisprudenza l’interpretazione e la definizione di alcuni punti che meriterebbero un intervento legislativo". “Bisogna rimettere il rapporto medico paziente al centro e renderlo trasparente - ha aggiunto - la cartella clinica digitale può essere uno strumento positivo. Occorre anche capire cosa si intenda per atto medico, per questo serve una definizione più puntuale. Laddove le regole sono chiare e c’è certezza di diritto si può prevenire il contenzioso. Bisogna anche puntare su istituti alternativi alla giurisdizione, ma i dati in possesso per quanto riguarda ad esempio la mediazione non sono soddisfacenti: solo il 9.4% delle questioni vengono decise in sede di mediazione, non c’è ancora una cultura nel definirle anche stragiudizialmente”. Comunque, nelle more di una legge che dia contorni ben precisi al tema della responsabilità sanitaria, secondo i dati del rapporto Marsh Risk Consulting, il numero delle denunce nonostante si rimasto stabile negli ultimi 5-6, si attesta intorno ai 30 mila l’anno, con 2,6 sinistri ogni mille ricoveri nel pubblico. E un’ampiezza dei risarcimenti intorno ai 40 mila euro. Ma come ha ricordato Lino Del Favero, presidente di Federsanità Anci: “Nel 60-70% dei casi, le responsabilità degli eventi sono dovuti a deficit del sistema organizzativo delle aziende e gli eventi avversi accadono dove ci sono deficit gestionali e di governo clinico. Per questo bisogna sviluppare modelli di risk management ed anche attuare una ricognizione sistematica degli eventi sentinella e di quelli avversi quotidiani e sviluppare processi di audit clinico per imparare dall’errore". “La gestione del rischio clinico è il core della governance, per questo si chiede al Direttore generale di avere la capacità di misurare in maniera tridimensionale tutti gli aspetti in tema di responsabilità sanitaria - ha affermato Tiziana Fritelli, direttore generale della Fondazione Policlinico Tor Vergata di Roma e presidente di Federsanità Anci Lazio - sul quale serve un intervento normativo immediato, ma anche un grande confronto etico e culturale per affrontare i problemi anche perché bisogna tenere conto di una serie di criticità e delle molte figure deboli da tutelare”. Per questo è stato attivato al Policlinico Tor Vergata il Comitato di garanzia, che vede partecipare la direzione del Policlinico con l’Università Tor Vergata, per gestire e coordinare la responsabilità professionale all’interno della struttura. “Gli obiettivi del Comitato sono l’adozione di strumenti di prevenzione e di miglioramento della qualità dei processi assistenziali per la tutela dei cittadini e degli operatori sanitari - ha spiegato Fritelli - la formazione di tutti gli operatori sul piano tecnico, professionale e organizzativo; l’adozione da parte del Policlinico di efficaci protocolli per una gestione trasparente, corretta e sollecita degli eventi negativi”. Per Giovanni Bissoni, sub commissario alla sanità della regione Lazio, c’è un quadro normativo insufficiente, una scarsa formazione degli operatori sanitari, una programmazione organizzazione sanitaria a volte incompleta mentre il tema della sicurezza delle buone pratiche dovrebbe essere più presente nei percorsi formativi.

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Bissoni parte da alcuni dati dell’osservatorio nazionale dei sinistri errori sanitari: sono state 13mila denunce di sinistri nel 2013 nelle aziende delle 19 regioni che partecipano. Un dato stabile negli ultimi tre anni, anzi leggermente in calo nonostante l’enfatizzazione data al problema dovuta in larga misura a una crisi generale del sistema. Numeri importanti che vanno però rapportati al volume totale delle prestazioni offerte del Ssn, ossia oltre 10mln di ricoveri l’anno e 1 mld di prestazioni specialistiche. Il conto medio dei sinistri tra il 2009 e il 2013 è di 34mila euro con un trend in aumento, dai 17 mila euro del 2009 ai 41 mila euro del 2013. Soprattutto è aumentata la durata dei contenziosi: si è passati dai 286 giorni del 2009 ai 537 del 2013. “Bisogna evitare quindi soluzioni pasticciate - ha detto - che addossino alle Ssn tutte le contraddizioni del sistema senza un quadro normativo certo che invece gli altri paesi si sono dati”. E gli alti costi investono anche il sistema assicurativo. Come ha ricordato Bissoni, tra quello che pagano le aziende pubbliche e i professionisti si arriva ad 1 miliardo di euro a cui vanno aggiunti gli indennizzi liquidati per gestione diretta o per franchigia che rappresentano ormai circa l’85% dei sinistri. Sta di fatto, come ha ricordato nel suo intervento Dario Focarelli, direttore generale dell’Ania che per l’incertezza di determinare il costo finale dei sinistri l’offerta assicurativa per la copertura dei rischi delle strutture mediche si è progressivamente rarefatta. “Oggi la maggior parte delle Regioni sono in un sistema di autoassicurazione totale o parziale - ha sottolineato Focarelli - quindi i medici lamentano una mancata copertura delle strutture dove operano. Le assicurazioni dei medici sono a prezzi accessibili, ci sono però eccezioni come i ginecologi o gli ortopedici”. L’Ania propone una sua ricetta per superare l’impasse creata dalla legge Balduzzi del 2012, che ha cercato di affrontare il tema della responsabilità sanitaria ma che ancora soffre di ritardi nell’approvazione dei decreti attuativi. “Si deve ridefinire il concetto di responsabilità civile dei medici - ha concluso Focarelli - poi si devono approvare le tabelle per i risarcimenti. A quasi tre anni dalla legge Balduzzi deve essere ancora emanato il decreto attuativo per le tabelle che farebbero chiarezza sull’entità dei danni biologici. Infine, all’interno degli ospedali andrebbe rafforzata la figura del risk management, per ridurre in maniera consistente il numero di incidenti”. Quotidiano Sanità Responsabilità e colpa in medicina. Un vademecum per sottrarsi alla gogna. Ma una nuova legge è indispensabile Per capire di cosa stiamo parlando bisogna provare a ricevere un avviso di garanzia per omicidio colposo ed essere sottoposti alla gogna mediatica. Passare da indagato ad imputato e condannato prima ancora di entrare in tribunale. Questa è la realtà. Alcuni consigli per “difendersi al meglio”. Ma serve subito una legge chiara 20 MAR - In questi ultimi giorni è stata avviata da una nota associazione di consumatori l’ennesima campagna contro la “malasanità”, che spesso vuol dire contro coloro che, come noto, sono esposti nell'esercizio della professione ad un fuoco incrociato di profili di responsabilità che gli si pongono davanti come un "plotone di esecuzione" in attesa che succeda qualche cosa. E, prima o poi, qualche cosa succede. Dal punto di vista penale, l'attuale impostazione giuridica assimila il medico in tutto e per tutto al conducente di auto che ubriaco investe e uccide qualcuno, al di là delle finalità sociali dei suoi atti. Bisogna provare a ricevere un avviso di garanzia per omicidio colposo, essere sottoposti alla gogna mediatica, passare da indagato ad imputato e condannato prima ancora di entrare in tribunale, passare anni di tormenti psicologici con il fine pena mai essendo la prescrizione illimitata. Anche se, come quasi sempre accade, il processo si concluderà in assoluzione, chi ci restituirà il tempo passato in tormento, la perdita di immagine, l'indelebile traccia che lascerà questo evento nella nostra psiche? E tutto questo solo per avere svolto il proprio lavoro. Decisamente più complicato risulta il profilo della responsabilità civile, in cui l'onere della prova è invertito, quindi spetterà al medico (fino ad oggi?) dimostrare di non avere fatto errori e di avere rispettato tutti gli “obblighi contrattuali” posti in essere quando un paziente si presenta presso una struttura sanitaria pubblica. Nella procedura civile molto spesso il giudice tende a condannare al risarcimento della presunta parte lesa. Quando ci sono di mezzo i soldi incominciano i meccanismi “perversi”. Chi paga, e quanto? Ciò che interessa al giudice è che il danno venga risarcito. Il danno soprattutto nella nostra giurisprudenza è sia di tipo patrimoniale (cioè derivante sostanzialmente dalla capacità di produrre reddito) che extra patrimoniale, con una sfilza notevole di opzioni. Spesso, proprio per l'atteggiamento “paternalistico” e “pietistico” del giudice, l'entità stessa dei risarcimenti, in alcuni casi, diventa totalmente fuori dal controllo e difficile da prevedere. Se il medico, o l'equipe di medici coinvolti, lavorano in regime di libera professione, ovviamente saranno chiamati a risarcire in prima persona o tramite le loro assicurazioni nella speranza che offrano una copertura il più possibile ampia. Per i medici dipendenti dal SSN, la situazione negli anni si è modificata. Qualche anno fa, l'obbligo contrattuale della copertura era soddisfatto dalle aziende tramite polizze assicurative. Ma negli anni le assicurazioni, visto il proliferare delle cause (e forse l'atteggiamento punitivo con cui erano condotte le stesse), si sono progressivamente “ritirate” da un ricco mercato lasciando delle situazioni di scoperto. A questo punto ogni regione, e spesso ogni ASL, ha fatto a modo suo,in regime di autoassicurazione parziale o totale.

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Il che apre la strada ad una altra tipologia di danno ed ad un altro profilo di responsabilità, quello erariale. Poniamo che o in sede giudiziale o stragiudiziale la azienda sanitaria decida di liquidare il danno. Primo caso:dopo un processo civile viene stabilito che il risarcimento del danno “x” è quantificato in 500.000 euro. La mia ASL paga in prima istanza. Se la liquidazione arriva direttamente da una assicurazione (cosa al giorno d'oggi molto improbabile) la mia posizione è di relativa sicurezza: danno liquidato, la ASL non ha tirato fuori un centesimo, probabilmente nessuno mi chiederà più nulla. Se però i soldi sono direttamente dell'ASL o di un fondo regionale, insomma se sono soldi “pubblici”, l'amministrazione è tenuta a mandare il fascicolo alla corte dei conti la quale potrà chiedermi conto di quell'esborso, intentando eventualmente un vero e proprio processo con caratteristiche simili al processo penale. Se posseggo una assicurazione personale che mi copre anche questo profilo di responsabilità andrò ad accendere un cero, se non ho però questa tipologia di assicurazione, verrà intaccato il mio patrimonio personale. Insomma verrò letteralmente rovinato. Secondo caso: in assenza di processo, in sede stragiudiziale, senza che mi venga comunicato ufficialmente alcunché, la mia azienda decide di liquidare il presunto danno. Allo stesso modo del caso precedente verrà inviata informativa alla corte dei conti e da quel momento il mio destino è esattamente uguale al caso precedente ma la aggravante e che io non so nulla. Tanto per “allentare” un po' la tensione, ricordiamo la responsabilità disciplinare. La legge Brunetta ha introdotto nuove norme di regolamentazione disciplinare nella P.A. e questo tipo di procedimento, svolgendosi al di fuori dei tribunali, va gestito, in modo molto attento, possibilmente rivolgendosi ad un legale, poiché tra i suoi possibili esiti vi è anche il licenziamento. Inoltre, grazie al nostro titolo “onorifico” di dirigenti, “godiamo” anche del profilo di responsabilità di tipo dirigenziale che prevede una serie di obblighi e quindi di relative sanzioni. Come difendersi: Scrivere tutto quello che si fa nella cartella clinica e nei vari referti. La ricostruzione dei fatti avviene in primis tramite la cartella clinica e, se non scritto, sarà decisamente più difficile dimostrare che avete detto o fatto quella determinata azione. In un DEA vista l'intensità di lavoro, è possibile scrivere tutto ciò che si vorrebbe scrivere? Ovviamente no. Si cominciano a valutare le priorità che sono la vita del paziente e la necessità di valutare più persone possibile. E la medicina difensiva? Questa si commenta da se. E se fossi consapevole che le condizioni in cui mi trovo ad operare (vuoi per gli eccessivi carichi di lavoro, vuoi per la mancanza di strumenti fondamentali) sono potenzialmente rischiose per il paziente e lo segnalassi nelle sedi competenti (ad esempio: direttore di struttura, direzione medica, dipartimento ecc.) il mio profilo di responsabilità si attenuerebbe? Paradossalmente la mia posizione si aggrava perché pur sapendo che avrei potuto sbagliare, non ho fatto nulla per evitarlo e quindi dovrei rifiutarmi di lavorare in quelle condizioni e addirittura licenziarmi. Figurarsi! Una polizza assicurativa per la rivalsa da parte di Regione o Corte dei Conti è ormai diventata un utilissimo ferro del mestiere. Sia ben chiaro, ogni medico che fa il suo lavoro con coscienza sa, che se sbaglia, dovrà pagare l'equo prezzo del suo errore, come ogni cittadino, ma spesso è il concetto di equità che sfugge. Allora, serve una nuova sentenza o è la dolosa inerzia del legislatore che deve essere sanata? La sentenza n. 1430 del 2 dicembre 2014 del Tribunale di Milano ribadisce l'orientamento già espresso con due pronunce della scorsa estate, e cioè il carattere extracontrattuale della responsabilità del medico dipendente di una struttura ospedaliera che, in ragione della propria condotta, cagioni un danno al paziente. Ma, a noi sembra che ribadire qualcosa non metta al riparo nessuno, anzi spesso può condurre la giurisprudenza a dividersi. Serve una Legge! Ed in tempi rapidi! Dario Amati Coordinatore Macroarea Nord Settore Anaao Giovani Domenico Montemurro Responsabile Nazionale Settore Anaao Giovani IlSole24Ore Sanità RESPONSABILITÀ SANITARIA/ Le urgenze: una nuova normativa, la lotta alla medicina difensiva e la gestione del rischio clinico nelle strutture di Lucilla Vazza Ogni anno oltre 30mila professionisti sanitari sono chiamati a rispondere davanti al giudice del loro operato: è questo infatti il numero delle denunce in tema di responsabilità sanitaria. Per questo motivo, il costo dei sinistri è schizzato del 50% nelle coperture per i medici e del 72% per le strutture. Con risarcimenti che valgono in media 30mila euro. Oggi su questi temi e tutte le sfaccettature della responsabilità sanitaria si è discusso nel lungo e ricco convegno che si è svolto presso la Corte d'Appello di Roma. L'evento è stato organizzato dall'Osservatorio sulla responsabilità in medicina (Orme), il progetto nato dalla volontà del Tribunale e della Corte d'Appello di Roma, insieme all'Università di Tor Vergata, che dal 2007 ha avviato una sistematica raccolta e catalogazione delle pronunce civili e penali sulla responsabilità professionale medica.

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Giurisprudenza in cammino Ha introdotto e coordinato la prima sessione del convegno il primo presidente della Cassazione, nonché presidente onorario di Orme, Giorgio Santacroce, che ha ripercorso tutte le criticità della materia, anche alla luce delle pronunce più recenti e della legge Balduzzi, che ha introdotto elementi innovativi (aprendo però nuovi fronti interpretativi) a un istituto che dal 1999 era consolidato. Infatti la Cassazione con la sentenza del 22 gennaio '99 aveva indicato la via maestra, indicando che la responsabilità del medico debba essere considerata contrattuale, con tutte le implicazioni del caso: 10 anni per la prescrizione e colpa presunta in capo (si legga, la disamina della situazione, nel commento del giudice Giuseppe Buffone). «La responsabilità dei medici è essenzialmente civile, solo in extrema ratio, si deve passare al giudizio penale». Mentre di recente, con la sentenza n. 1430 del 2 dicembre 2014, il Tribunale di Milano, ha dato una lettura diversa della natura della responsabilità sanitaria, alla luce dell'articolo 3 della legge 189/2012, la cosiddetta legge Balduzzi (come spiegato, nel nostro articolo di Umberto Vianello) . Il richiamo al Parlamento: serve una nuova legge Fomentati da una certa cultura sensazionalistica, oltre che da una generale sfiducia nelle istituzioni, da oltre un decennio si assiste in Italia a un'impennata delle denunce su vera o presunta malpractice, con ricadute pesantissime sulla spesa a carico del sistema sanitario pubblico. E questo è un aspetto che però non può ridursi a una questione meramente contabile, come ha sottolineato il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, in apertura dei lavori: «Va tutelato il diritto costituzionale alla salute, perché è il diritto «perfetto» dell'individuo, che discende direttamente dal più alto dei diritti dell'essere umano: quello alla vita. Per questo la complessità della materia che, nel caso dei medici e della salute in generale, che investe molti settori (ambiente, lavoro ecc.), deve essere ripreso dal legislatore al più presto». Sono infatti 7 i provvedimenti che giacciono in Parlamento, ed è lì che occorre trovare la quadra per dare risposte certe a tutti gli attori coinvolti. Ma su questo tema, ha spiegato il sottosegetario alla Giustizia Cosimo Ferri: «Non c'è una linea ben precisa del Governo su questo tema», ha affermato il sottosegretario Cosimo Ferri, «si sta lasciando alla giurisprudenza l'interpretazione e la definizione di alcuni punti che meriterebbero un intervento legislativo». Le assicurazioni Sul costo che questa situazione porta in termini di sinistri e di esplosione delle tariffe assicurative è intervenuto Dario Focarelli, Dg dell'Ania, «tra il 2001 e il 2012 il costo dei sinistri del ramo ha ecceduto i premi raccolti in media del 50% nelle coperture per i medici e del 72% in quelle per le strutture». E come abbiamo scritto più volte su questa testata, le denunce contro medici e strutture sanitarie sono raddoppiate, raggiungendo il numero di 20mila. Il costo sinistri è di 107 euro a posto letto, secondo il rapporto del broker Marsh. Tutti i dati sono stati già anticipato sul Sole 24 Ore Sanità, 5/2015. In una situazione del genere, le soluzioni di policy da percorrere per cambiare rotta e ridurre il numero dei sinistri non possono essere univoche. Per gli assicuratori Ania «Nel campo della prevenzione occorre diffondere una cultura del rischio, incentivando l'adozione di protocolli di risk management presso strutture e professionisti». Il dovere del risk management Per Giovanni Bissoni, già ai vertici dell'Agenas e oggi subcommissario alla sanità per la Regione Lazio, la risposta deve partire dalla situazione di governance delle strutture «Va potenziata la ricerca sui sistemi sanitari. Occorre un cambio di mentalità, superare il discorso incentrato sul posto letto, orientandosi a quello molto più articolato che passa per le reti cliniche integrate. Le aziende devono curare sempre di più il risk management». «Tutto deve partire dalla gestione del rischio clinico» ha spiegato Tiziana Frittelli, direttore generale della Fondazione Policlinico Tor Vergata di Roma e presidente di Federsanità Anci Lazio - «in tema di responsabilità sanitaria - ha affermato sul quale serve un intervento normativo immediato, ma anche un grande confronto etico e culturale per affrontare i problemi anche perché bisogna tenere conto di una serie di criticità e delle molte figure deboli da tutelare». E, raccontando ai nostri microfoni, Frittelli ha spiegato «Quando sono arrivata al Policlinico Tor Vergata, ho trovato un conto di 10 milioni per la sinistrosità reale e presunta. Occorre individuare nuovi strumenti operativi, mappare i rischi e analizzare i sinistri. Solo in questo modo è possibile fare una sorta di "quaderno degli errori", e da lì ripartire. Ma il Dg non può fare tutto da solo. La gestione del rischio clinico è il cuore della governance, e attrraverso la figura dei facilitatori, che hanno il compito di facilitare i percorsi clinici, portandosi sulle spalle determinate procedure, è possibile governare l'intero sistema attraverso una logica diffusa e mai accentrata». Ogni anno denunciati 17 medici su 100 per malpractice sanità Roma, (askanews) - Circa 30mila denunce ogni anno per casi di malpractice in sanità e medici in difficoltà per i costi sempre più alti delle polizze assicurative che si trovano costretti a stipulare. Le assicurazioni denunciano ingenti perdite nel settore sanitario sottolineando come tra il 2001 e il 2012 il costo dei sinistri abbia ecceduto i premi raccolti in media del 50% nelle coperture per i medici e del 72% in quelle per le strutture.I dati sono impressionanti, secondo Dario Focarelli, direttore generale Ania che ha partecipato al convegno organizzato dall'Osservatorio Or.Me, Università di Tor Vergata, Corte D'Appello di Roma, Ordine dei medici di Roma e Anci Federsanita'."Il numero delle denunce è più che raddoppiato negli ultimi 20 anni,

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intorno alle 30mila l'anno, ogni 1000 ricoveri ci sono 2,6 casi di sinistri e di pagamenti. Ogni ricovero nelle strutture pubbliche costa, sotto il profilo assicurativo, 107 euro". Che fare? Secondo Ania tre i passi fondamentali da compiere: Ridefinire la responsabilità dei medici, poi approvare tabelle di risarcimento chiare e univoche su tutto il territorio nazionale, potenziare le strutture di risk management negli ospedali."L'obbligatorietà della polizza assicurativa per i medici non significa più lavoro per le assicurazioni: e' esattamente il contrario. Molti hanno difficoltà ad assicurarsi e questo in qualche modo ci toglie responsabilità". Specifica Tiziana Frittelli, d.g. Della Fondazione Policlinico Tor Vergata e presidente di Federsanità Anci Lazio: "La soluzione migliore e' quella di creare nuclei specifici che lavorino sulle richieste risarcitorie" 19 Marzo Quotidiano Sanità Obbligo assicurativo. Consiglio di Stato: “Non è operante fino a pubblicazione regolamento previsto da Legge Balduzzi” In un parere in risposta ad un quesito del Ministero sollecitato dalla Fnomceo, i giudici hanno evidenziato che fino a che non sarà emanato il regolamento previsto dalla Legge Balduzzi l’obbligo per i professionisti sanitari “non possa ritenersi operante” e lo stesso vale per le sanzioni disciplinari. Conte (Fnomceo): “Viva soddisfazione”. IL PARERE: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=3877874.pdf “Deve ritenersi che l’obbligo di assicurazione per gli esercenti le professioni sanitarie non possa ritenersi operante fino a quando non sarà avvenuta la pubblicazione ed esaurita la vacatio legis del D.P.R. previsto” dalla Legge Balduzzi, che “disciplinerà le procedure e i requisiti minimi ed uniformi per l'idoneità dei contratti assicurativi. Conseguentemente, sino ad allora, non potrà essere considerata quale illecito disciplinare la mancata stipula di una polizza assicurativa, da parte degli esercenti le professioni sanitarie”. Questo è ciò che riporta il parere del Consiglio di Stato in risposta ad un quesito formulato dal Ministero della Salute anche su sollecitazione dell’Ordine dei medici che aveva inviato una lettera a Lorenzin sul tema. “Esprimiamo la nostra più viva soddisfazione – ha affermato il segretario generale della Fnomceo, Luigi Conte, che ha la Delega del Comitato Centrale per la materia delle Assicurazioni - per il Parere del Consiglio di Stato, che ha dichiarato non operante - sino a che non sarà emanato il Dpr che disciplinerà le procedure e i requisiti minimi dei contratti - l'obbligo di assicurazione per i professionisti della Sanità e ha confermato che, nelle more, non potrà essere considerata illecito disciplinare la mancata stipula di una polizza”. Da notare come il il Dpr sia già stato approvato dalla Conferenza Stato Regioni che aveva espresso un parere favorevole lo scorso 14 dicembre. Ma da quel momento il regolamento si è di fatto bloccato a Palazzo Chigi. I ginecologi dell'Aogoi hanno diffidato già il Governo lo scorso mese. 10 Marzo Il Sole 24 Ore Sanità Cartella clinica: vietato compilarla in ritardo Il Sole 24 Ore Sanità - Settimanale Colpa medica, parla la Cassazione Rebus sull’applicazione della Balduzzi - Tribunali divisi sull’interpretazione in sede civile Torna come ogni anno la rassegna delle principali massime emesse dalla corte di Cassazione. Al centro delle sentenze il tema della colpa medica. Nei casi “lievi” vige la legge Balduzzi che definisce extracontrattuale la responsabilità del medico. Quindi l’onere della prova spetterebbe al paziente. Ma non tutti sono d’accordo. La rassegna delle sentenze della Suprema corte sugli emoindennizzi consolida un orientamento verso la definizione stragiudiziale del contenzioso. L’accento sulla responsabilità extracontrattuale del ministero della Salute, che implica la prescrizione entro cinque anni in sede civile. Il tribunale di Roma, invece, ha esteso l’indennizzo anche per il vaccino non obbligatorio (prevale l’interesse nazionale). Colpa, così parlò la Cassazione I supremi giudici ridisegnano la colpevolezza secondo la legge Balduzzi Puntuale come ogni anno, arriva il massimario delle sezioni civili e penali della Cassazione, sotto la direzione della magistrale opera di sintesi del presidente di sezione della Cassazione, Giuseppe Maria Berruti. Il focus riguarda le pronunce più importanti in tema di responsabilità medica, e, in particolare: l’interpretazione della legge Balduzzi e il conseguente tema della qualificazione - contrattuale ovvero extracontrattuale - della responsabilità civile con i suoi importanti risvolti in tema di prescrizione dell’azione e onere della prova e, gli ormai usuali temi del consenso informato, della ripartizione dell’onere della prova, oltre alla puntualizzazione della ripartizione della responsabilità all’interno dei reparti ospedalieri con particolare attenzione al tema della responsabilità del primario.

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Interpretazione della legge Balduzzi. A seguito dell’entrata in vigore del decreto legge 158/2012, convertito in legge 189/2012, le attenzioni della giurisprudenza di merito si sono concentrate sulla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità con pronunce decisamente discordi. Colpa lieve. La posizione della Cassazione è sintetizzata nella sentenza n. 8940, ove si chiarisce che la legge di conversione - nella parte in cui prevede che «l’esercente la professione sanitaria, il quale nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve», fermo restando, in tali casi, «l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile» - non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l’irrilevanza della colpa lieve. In particolare, la menzionata disposizione, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile, dev’essere interpretata, conforme al principio per cui in «lege aquilia et levissima culpa venit», nel senso che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilità extracontrattuale civilistica. Deve, viceversa, escludersi che con detto inciso il legislatore abbia inteso esprimere un’opzione a favore di una qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità extracontrattuale. In precedenza la Cassazione, n. 4030 del 2013, aveva affermato, senza però fornire indicazioni interpretative del secondo inciso dell’articolo 3, comma 1, che la materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate anche per la cosiddetta responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contratto sociale. Peraltro, trovandoci al cospetto di una decisione di inammissibilità ai sensi dell’articolo 360-bis, primo comma, del codice di procedura civile, la pur articolata dissertazione assume la valenza di mero obiter dictum e, come tale, non ha la portata di precedente. Medico sempre «garante» della salute del paziente. Il medico è sempre titolare di una posizione di garanzia verso il paziente, anche quando si trovi a prestare assistenza volontariamente o a titolo gratuito. In tal senso la Cassazione, sezione 3, n. 18230, ha chiarito che «colui il quale assume volontariamente un obbligo, ovvero inizia volontariamente l’esecuzione di una prestazione, ha il dovere di adempiere il primo o di eseguire la seconda con la correttezza e la diligenza prescritte dagli articoli 1175 e 1176 del codice civile, a nulla rilevando che la prestazione sia eseguita volontariamente e a titolo gratuito». Sul piano processuale, merita di essere segnalata sezione 3, n. 8413, a tenore della quale, nel processo a pluralità di parti - avviato da un paziente per far valere la responsabilità solidale di una casa di cura e del sanitario operante - non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario passivo, in quanto l’attore, avendo diritto di pretendere da ciascun condebitore il pagamento dell’intera somma dovuta a titolo di risarcimento dei danni subiti, instaura nei loro confronti cause scindibili. Per questo, in applicazione dei principi valevoli per l’obbligazione solidale passiva, la notifica della sentenza, che sia stata eseguita a istanza della parte attrice nei confronti di uno solo dei convenuti, segna esclusivamente nei riguardi dello stesso l’inizio del termine breve ex articolo 325 del codice di procedura civile. La questione, per quanto la soluzione qui riportata appaia condivisibile, probabilmente verrà in futuro portata, ai sensi dell’articolo 374, comma 2, del codice di procedura civile, all’attenzione delle sezioni Unite, in quanto, a fronte di pronunce conformi (239/2008), vi sono anche decisioni di segno contrario (676/2012, Rv. 621390). L’unicità della responsabilità solidale civile si presume anche quando l’evento si è determinato per il concatenarsi di una serie di eventi od omissioni imputabili a soggetti diversi. La Cassazione, sezione 3, n. 20192, ha posto in rilievo che l’unicità del fatto dannoso richiesta dall’articolo 2055 del codice civile ai fini della configurabilità della responsabilità solidale degli autori dell’illecito va intesa in senso non assoluto, ma relativo, sicché ricorre tale responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni od omissioni - dolose o colpose - costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi, sempre che le singole azioni od omissioni, legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione dell’intero danno. Focus sulla posizione del primario. Come la struttura è responsabile per il coordinamento e gli strumenti che mette a disposizione del medico e del pazienze, il primario ha un’autonoma responsabilità derivante dal suo obbligo di coordinamento. A definirne la responsabilità la Cassazione, sezione 3, n. 22338, nel condividere l’orientamento espresso nel precedente sezione 3, 24144/2010, ha affermato che questi deve adempiere a tutti gli obblighi normativamente previsti dall’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1969, n. 128 (nella specie, applicabile ratione temporis), tra i quali spicca quello di informazione sulle condizioni dei malati e di predisposizione di adeguate istruzioni al personale al fine di fronteggiare e gestire correttamente le emergenze. Resta infatti a suo carico, in caso di omissione, il danno derivato da una situazione di inadeguatezza della struttura sanitaria da egli stesso diretta e, nel caso si renda conto che il paziente non sia curabile per difetto di attrezzature, ometta di attivarsi per tentare di disporne il trasferimento in altra struttura più idonea. Danno da mancata attivazione della terapia del dolore e da accorciamento della vita. Importante, l’affermazione contenuta in Cassazione, sezione 3, n. 11522, che, ponendosi nel solco di sezione 3, 23846/2008, ha affermato l’esistenza di un danno da mancata attivazione della terapia del dolore.

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L’omessa diagnosi di un processo morboso terminale, determinando un ritardo della possibilità di eseguire un intervento cosiddetto palliativo, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che, nelle more, egli ha dovuto sopportare le sofferenze conseguenti a tale processo morboso e particolarmente il dolore, che la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza effetto risolutivo sul piano della patologia, alleviare. Sulla stessa lunghezza d’onda la Cassazione, sezione 3, n. 7195, che ha addebitato a un medico l’errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia, che aveva comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quel o poi effettivamente vissuto. In tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e di quella possibile, se intervento fosse stato eseguito correttamente. Danno su paziente grave. Parimenti la pronuncia, sezione 3, n. 6341 ha chiarito che, allorché un paziente, già affetto da una situazione di compromissione dell’integrità fisica, sia sottoposto a un intervento che, per la sua cattiva esecuzione, determini un esito di compromissione ulteriore rispetto alla percentuale che sarebbe comunque residuata, anche in caso di ottimale esecuzione dell’intervento stesso, ai fini della liquidazione del danno con il sistema tabellare, deve assumersi come percentuale di invalidità quella effettivamente risultante, alla quale va sottratto quanto monetariamente indicato in tabella per la percentuale di invalidità comunque ineliminabile, e perciò non riconducibile alla responsabilità del sanitario. Onere della prova. Sul tema della ripartizione dell’onere della prova non vi sono sostanziali novità. La Cassazione, sezione 3, n. 20547, ha ribadito l’orientamento secondo cui il danneggiato ha l’onere di provare l’esistenza del contratto (o il contratto sociale) e l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e di allegare l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, mentre a carico del medico e/o della struttura sanitaria grava la dimostrazione che tale inadempimento non sia verificato, ovvero che esso non sia stato causa del danno. L’eventuale situazione di incertezza o di stallo probatorio che residui, all’esito del giudizio, in ordine all’esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno è destinata a ricadere sul debitore. In tale prospettiva, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda risarcitoria avanzata dai familiari di una paziente deceduta, escludendo il nesso di causalità in quanto la consulenza tecnica d’ufficio aveva assegnato un identico grado di possibilità alle due cause di morte tecnicamente ipotizzabili, una sola delle quali attribuibile alla condotta del sanitario. In tema di valutazione della prova in materia risarcitoria, ha affermato il giudice, Cassazione, sezione 3, n. 22225, ha rilevato che correttamente il giudice può non tener conto delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio disposta nel corso del giudizio - che, pure, di norma presenta in tale ambito natura “percipiente” -, allorché questa, chiamata a pronunciarsi sull’efficienza causale della condotta della struttura sanitaria rispetto all’evento dannoso, formuli una valutazione in termini di «meno probabile che non», posto che, per ricondurre sul piano eziologico l’evento al soggetto ritenuto responsabile in termini di certezza probabilistica, è necessaria una valutazione opposta, ossia formulata in termini di «più probabile che non». La Corte, poi, con sentenza della sezione 3, n. 15490, ha affermato che il paziente ha il solo onere di dedurre «qualificate inadempienze», in tesi idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del debitore convenuto l’onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno. Inadempienza qualificata. Sottolineano l’onere di allegare l’inadempimento qualificato del medico o della struttura sanitaria le sentenze della sezione 3, n. 21025 e n. 20547, la quale ha inoltre ribadito che, qualora, all’esito del giudizio, permanga incertezza sull’esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno, questa ricade sul debitore. Tale ultima pronuncia si segnala per essersi posta in consapevole contrasto con sezione 3, n. 4792 del 2013, per la quale, se, all’esito del giudizio, permanga incertezza sull’esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno, tale incertezza ricade sul paziente e non sul medico. Da ultimo, sezione 3, n. 22222, ha precisato che la distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non vale come criterio di ripartizione dell’onere della prova, ma rileva soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova della particolare difficoltà della prestazione. Il risarcimento del danno. Infine, una puntuale ricognizione della portata dei poteri valutativi spettanti al giudice del rinvio in relazione alle risultanze istruttorie acquisite nelle precedenti fasi di merito - con particolare riferimento alla valutazione circa il raggiungimento della prova dell’assenza di colpa, incombente sulla struttura sanitaria, nel caso di danni subìti da un nascituro in conseguenza dell’omessa esecuzione di un parto cesareo - è stata operata da Cassazione, sezione 3, n. 13358. La sentenza ha infatti escluso che il giudice del rinvio possa trarre indicazioni al riguardo dalla stessa sentenza di annullamento pronunciata dalla Corte, attesi i limiti istituzionali propri del sindacato di legittimità, che escludono ogni potere di valutazione delle prove.

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Liquidazione del danno. Di estremo interesse è un ulteriore arresto giurisprudenziale, Cassazione, sezione 3, n. 6341, che ha delineato le specifiche modalità di applicazione del sistema tabellare nella liquidazione del danno in caso di lesione dell’integrità fisica conseguente alla cattiva esecuzione di un intervento medico nei confronti di paziente già affetto da una situazione di compromissione dell’integrità fisica. La Corte ha, al riguardo, affermato che, qualora dalla cattiva esecuzione dell’intervento derivi una compromissione ulteriore rispetto alla percentuale che sarebbe comunque residuata anche in caso di ottimale esecuzione dell’intervento stesso, la liquidazione del danno con il sistema tabellare va determinata muovendo dalla percentuale di invalidità effettivamente risultante - alla quale va sottratto quanto indicato in tabella in termini monetari per la percentuale di invalidità comunque ineliminabile - e, perciò, non riconducibile alla responsabilità del sanitario. In applicazione di tale principio, ha argomentato la Corte che, la condotta dei responsabili aveva cagionato un danno-evento rappresentato non dalla perdita dell’integrità fisica da zero al 5%, bensì dal 5% al 10%, onde, nella liquidazione del danno secondo il sistema tabellare, il riferimento al valore equivalente a un’invalidità del 5% si sarebbe tradotto nel considerare un danno-evento diverso da quello effettivamente cagionato. L’equivalente da considerare era, dunque, quello che, secondo le tabelle applicate, rappresentava la differenza fra il valore dell’invalidità del 10% e quello del 5%. Consenso informato e onere d’informazione. Il tema della portata dell’obbligo informativo continua a farla da padrone. Nel corso dell’anno si sono evidenziate pronunce che ponevano sul medico responsabilità diverse nel caso in cui il sanitario si trovasse di fronte a un intervento urgente e/o ineliminabile, piuttosto che a un intervento voluttuario e/o non fondamentale In particolare la Cassazione, sezione 3, n. 12830, ha precisato che, quando a un intervento di chirurgia estetica segua un inestetismo più grave di quello che si mirava a eliminare o attenuare, la responsabilità del medico per il danno derivatone è conseguente all’accertamento che il paziente non sia stato adeguatamente informato di tale possibile esito, ancorché l’intervento risulti correttamente eseguito. Infatti, con la chirurgia estetica il paziente insegue un risultato non declinabile in termini di tutela della salute, ciò che fa presumere come il consenso all’intervento non sarebbe stato prestato se egli fosse stato compiutamente informato dei relativi rischi, senza che sia necessario accertare quali sarebbero state le sue concrete determinazioni in presenza della dovuta informazione. La Cassazione, sezione 3, n. 19731, ha poi precisato che lo stesso va acquisito anche qualora la probabilità di verifica dell’evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, poiché la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono ometterle in base a un mero calcolo statistico. Mentre la Cassazione, sezione 3, n. 20547, ha ribadito che la violazione da parte del medico del dovere di informare il paziente può causare due diversi tipi di danni. Un danno alla salute - sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti -, nonché un danno da lesione del diritto di autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subìto un pregiudizio (patrimoniale o non) diverso dalla lesione del diritto alla salute. In merito all’importanza del consenso informato, quale elemento strutturale dei contratti di protezione che si concludono nel settore sanitario, in cui gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, la Cassazione, sezione 3, n. 19731, ha chiarito che va acquisito indipendentemente dal grado di probabilità di verificazione dell’evento e, in particolare, anche quando tale probabilità sia talmente esigua da essere prossima al fortuito o, all’opposto, risulti talmente elevata da confinare con la certezza, poiché la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono ometterla in base a un mero calcolo statistico. pagina a cura di Paola Ferrari Il Sole 24 Ore Sanità - Settimanale Balduzzi: i tribunali sono divisi La Cassazione consolida ma c’è contrasto nella giurisprudenza di merito La tecnica legislativa degli ultimi anni, si sa, non brilla per chiarezza del messaggio normativo inviato agli interpreti. Sono conseguentemente tanti gli arresti giurisprudenziali – soprattutto di legittimità – in cui la Corte giudicante, pacificamente, ammette “sviste”, “refusi”, “erro#ri” e altre défaillances dell’organo legiferante. Questo continuo inciampare del legislatore ha messo in crisi un canone ermeneutico molto importante: quello del cosiddetto «legislatore consapevole», che presuppone un Parlamento attento al diritto giurisprudenziale e composto, almeno in parte, da tecnici (Cassazione civile, sezione III, 24 agosto 2007 n. 17958). Ed ecco che il riferimento all’articolo 2043 del Cc, in seno alla legge cosiddetta Balduzzi, è in bilico tra il “pasticcio” di un Parlamento distratto e la consapevolezza di un Legislatore attento, come se si trattasse di un pendolo di Foucault che oscilla in diverse direzioni, disorientando lo sguardo dell’interprete. Forse, giunti a questo punto delle cose, non resta che aspettare che il pendolo si fermi.

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La questione. Sino al 1999, la giurisprudenza riteneva che il danno iatrogeno arrecato dal medico ospedaliero al paziente dovesse essere inquadrato nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e, quindi, ristorato secondo le regole dell’articolo 2043 del codice civile (vuoi in punto di prova, vuoi soprattutto in punto di prescrizione quinquennale). L’ermeneutica dei giudici si fondava sull’assenza, nel caso di specie, di un rapporto contrattuale diretto e univoco tra paziente e medico, il quale si limitava a operare nell’ambito della struttura sanitaria ospitante, senza alcun legame obbligatorio bilaterale con il malato. Con la sentenza 589/99, la Suprema corte ha, come noto, mutato indirizzo applicando, in modo inedito e per la prima volta, al paradigma della responsabilità medica, lo schema del cosiddetto contatto sociale qualificato, profilando l’applicazione delle regole contrattuali e, conseguentemente, la responsabilità ex articolo 1218 del codice civile, in ragione del “contatto” che - secondo questa nuova lettura - comunque si crea tra paziente e medico, in ragione del rapporto terapeutico in ospedale. La nuova interpretazione è rimasta vitale nel tempo ed è stata assunta, in itinere, a diritto vivente dalle Sezioni unite, senza alcuna significativa opposizione. Almeno fino al 2012: in quest’anno, in un clima di rinnovata attenzione verso la cosiddetta medicina difensiva, il Legislatore ha introdotto una nuova norma intesa a incidere proprio sulla responsabilità medica. L’affastellata serie di emendamenti intercorsi tra decretazione d’urgenza e legge di conversione e la mancanza di coerenza metodologia nella stesura dei testi normativi ha, però, generato una accesa diatriba in merito alla effettiva portata (e l’effettivo scopo) di questa nuova previsione inedita. L’articolo 3, comma 1, del decreto legge 183/2012, convertito dalla legge 189/2012 (cosiddetta legge Balduzzi) prevede: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile». Che senso ha il riferimento all’articolo 2043 del codice civile nel nuovo articolo in esame? La previsione normativa di nuovo conio ha innescato un ampio dibattito in giurisprudenza: da un lato, un primo orientamento di merito ha reputato che la nuova previsione abbia ricondotto la responsabilità del medico ospedaliero al paradigma della responsabilità aquiliana; dall’altro, un contrapposto indirizzo interpretativo ha giudicato che la novella non abbia modificato lo statuto della responsabilità sanitaria, da qualificare in termini contrattuali (seppur facendo riferimento allo schema del contatto sociale). In questa temperie si inserisce il contrasto di opinioni accesosi nel tribunale di Milano, la cui risonanza ha riacceso il dibattito anche sui media e i cui contenuti hanno evidenziato la complessa problematica, in tutto il suo spessore. E di tale complessa problematica, tutt’altro che univoca, quasi in maniera didascalica, si trova riscontro nella recente pronuncia della Corte di cassazione 7909/2014 dove la Corte di cassazione, chiamata a dare una qualificazione del termine “contratto” in riferimento a ipotesi di responsabilità sanitaria in relazione all’applicazione dell’articolo 8, paragrafo 5, della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 (ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge 30 novembre 1955 n. 1335), ha avuto modo di sottolineare, proprio in caso di qualificazione di domanda risarcitoria da errato trattamento medico - ancorché nell’ambito di interpretazione ancorata al diritto internazionale - che essa non può essere ritenuta contrattuale. Infatti, sottolinea la Corte, tale configurazione “contrattua#le” opera «allorché la richiesta di indennità trovi la sua ragione giustificativa nell’applicazione di un contratto, da intendere come accordo bilaterale (o plurilaterale) su singole clausole, che vanno adempiute dalle parti contraenti», escludendo che possa assumere tale natura il contratto da «contatto sociale» frutto esclusivo della elaborazione giurisprudenziale italiana, a fronte di una riconduzione, per tutti gli altri stati contraenti, della responsabilità del medico ospedaliero nell’ambito extracontrattuale o per tort (Cassazione civile, sezione III, sentenza 4 aprile 2014 n. 7909, presidente Amatucci, relatore Vivaldi). Il dibattito è stato, infine, ulteriormente arricchito dal tribunale di Milano che - proprio citando anche Cassazione 7909/2014 - con la sentenza 11 gennaio 2015 (tribunale Milano, sezione I civile, sentenza 2 dicembre 2014 n. 1430, presidente e relatore R. Bichi), ha ribadito che la responsabilità del medico ospedaliero non è contrattuale. Giuseppe Buffone giudice del Tribunale di Milano Il Sole 24 Ore Sanità - Settimanale L’orientamento della Suprema corte Cassazione civile, sezione III, 10 gennaio 2013 n. 4030 (Presidente Trifone; Relatore Petti) L’articolo 3, comma 1, del decreto legge 13 settembre 2012 n. 158, convertito in legge 8 novembre 2012, ha depenalizzato la responsabilità medica in caso di colpa lieve, dove l’esercente l’attività sanitaria si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L’esimente penale non elide, però, l’illecito civile e resta fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del Cc che è clausola generale del neminem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale è la salute. La materia della responsabilità civile segue, tuttavia, le sue regole consolidate e non solo per la responsabilità aquiliana del medico ma anche per quella cosiddetta contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale.

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Cassazione civile, sezione VI, ordinanza 17 aprile 2014 n. 8940 (Presidente Finocchiaro; Relatore Frasca) L’articolo 3, comma 1, della legge 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile, poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cassazione 4792/2013). Conforme Cassazione civile, sezioni Unite, 11 gennaio 2008 n. 577 (Presidente Carbone; Estensore Segreto) Il Sole 24 Ore Sanità - Settimanale L’interpretazione tradizionale consolidata a partire dal 1999 Cassazione civile, sezioni Unite, sentenza 11 gennaio 2008 L’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente ha natura contrattuale ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale” (Cassazione 22 dicembre 1999 n. 589; Cassazione 29 settembre 2004 n. 19564; Cassazione 21 giugno 2004 n. 11488; Cassazione n. 9085 del 2006). Cassazione civile, sezione III, sentenza 22 gennaio 1999 L’obbligazione del medico dipendente dal servizio sanitario per responsabilità professionale nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale” ha natura contrattuale. Consegue che relativamente a tale responsabilità i regimi della ripartizione dell’onere della prova, del grado della colpa e della prescrizione sono quelli tipici delle obbligazioni da contratto d’opera intellettuale professionale. Il Sole 24 Ore Sanità – Settimanale Il danno sfugge all’ecografia Il tribunale di Roma respinge la richiesta di risarcimento economico Con la sentenza del 24 novembre 2014, della XIII Sezione Tribunale di Roma, il giudice Paola La Rosa ha rigettato la richiesta di risarcimento per danni da responsabilità professionale a causa di negligente e imperito comportamento nell’esecuzione degli esami prenatali, mancata formulazione diagnosi sulle condizioni patologiche del feto - risultato alla nascita affetto da palatoschisi totale e micrognatia - con conseguente danno di carattere biologico ed esistenziale alla madre e alla minore. L’interessante sentenza del Tribunale di Roma affronta il caso dell’assunta esistenza di una responsabilità professionale medica, per «non aver rilevato» nonostante la effettuazione di due esami «ecografici» nel corso della gravidanza, (il secondo nel corso della 23a settimana) la presenza di malformazioni fetali, poi palesatesi con la nascita della piccola. Come nella maggioranza dei casi di responsabilità medica la consulenza tecnica disposta dall’ufficio ha consentito al giudicante di formarsi una chiara idea della esistenza o meno del profilo di «negligenza e imperizia» che, rapportato all’attività professionale medica, genera poi l’esistenza dell’obbligo di risarcire il danno provocato. L’elemento è poi tanto più delicato e importante in quanto si esamina il profilo di una responsabilità medica in riferimento all’esistenza di una malformazione congenita del feto e non di una «manovra medica che ne abbia comunque generato l’esistenza». In altre parole la possibile chiave della responsabilità medica nel caso risolto dalla sentenza in commento è quella dell’ipotesi di una mancata diagnosi tempestiva, l’esistenza della quale avrebbe impedito all’evento di avere una portata del genere sul vulnus alla normalità patito dalla piccola. Nel merito, il giudice del Tribunale di Roma è assolutamente preciso nel richiamare, nella sua pronuncia, gli aspetti della relazione del Ctu che hanno poi formato gli elementi cardine sui quali fondare il rigetto della domanda svolta dagli attori (padre e madre della piccina) per i danni esistenziali sofferti dalla minore e dalla madre della stessa. Precisa, infatti, il giudice La Rosa «il Ctu ha evidenziato di avere svolto l’indagine peritale sulla base della documentazione prodotta dalle parti, in particolare evidenziando come non fosse stata depositata la documentazione iconografica delle ecografie». Per altro anche in mancanza di queste, il perito del giudice - con valutazione congruamente motivata e pertanto condivisibile - «con riguardo alla lamentata mancata diagnosi relativa alla palatoschisi» in riferimento alla prima (febbraio 2005) delle ecografie svolte, rileva come «la descrizione ecografica elaborata dall’indagine sonoro-grafica effettuata... è sostanzialmente corretta relativamente alla descrizione della presenza del palato, correlabile alla presenza di processi palatini di cui non viene comunque descritta una esclusione di incompletezza di fusione consistente nella palato-schisi rilevata in epoca post-natale».

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Ma di più il medesimo consulente del giudice in riferimento al secondo esame ecografico, quello del settembre 2015, rileva: «L’esame ecografico eseguito in data 2 settembre 2005, descrive un lieve incremento del liquido amniotico che pertanto non configura una condizione di idramnios, che è di non infrequente associazione con particolari profili anamnestici e specifiche patologie, differenti rispettivamente dalla storia anamnestica della attrice e dal difetto malformativo di cui è risultata affetta la piccola: nella fattispecie poiché la malformazione congenita della neonata può associarsi sia ad idramnios che ad oligoidramnios, anche l’eventuale effettivo riscontro di polidramnios non poteva essere considerato indicatore di elevato sospetto né tantomeno patognomonico della suddetta malformazione». Ne deriva come il Consulente dell’ufficio abbia concluso nel senso che «la mancata diagnosi prenatale della malformazione congenita di cui alla nascita è risultata affetta la piccola va correlata alla non sistematica possibilità di visualizzazione del difetto malformativo, anche con l’utilizzo da parte di personale qualificato della tecnologia sonografica 3D; infatti l’ecografia tridimensionale ha indubbiamente determinato un incremento delle detection rate anche dell’insieme delle malformazioni oro-facciali, ma all’epoca dei fatti di cui è causa le possibilità di visualizzazione del difetto malformativo non erano certamente tali da poter garantire una sistematica esaustività di diagnosi». CASI DI MALASANITA’ 30 Marzo Corriere del Mezzogiorno – Allegato Medico assolto anche se ha sbagliato La colpa? È dell’ospedale disorganizzato Una sentenza della Corte di Cassazione segna una svolta nei casi di malasanità Le carenze organizzative di una struttura sanitaria, se tali da rendere sostanzialmente impossibile un intervento efficace e tempestivo per la salute del paziente, sono motivo di assoluzione dei sanitari impegnati in un pronto soccorso anche se accade un evento avverso evitabile. A stabilirlo non è un sindacato medico riunito in uno dei tanti convegni sulla colpa medica ma una sentenza della Cassazione (la n. 46.336 del 10 novembre scorso) che segna una svolta nello spinosissimo sentiero in cui si collocano i fatti di malasanità. Il fatto è avvenuto in un ospedale del Nord. Un motociclista rimane vittima di un incidente e un’autoambulanza lo trasporta nel più vicino ospedale. Al pronto soccorso ortopedico, separato da quello generale, riceve le prime cure per una frattura alla scapola. Al sopraggiungere di dolori addominali e vomito il medico, sospettando una lesione interna e non avendo a disposizione un ecografo, decide di trasferirlo al pronto soccorso generale, dall’altro capo dell’ospedale. È notte, l’autoambulanza non c’è, si perde tempo prezioso. Il medico stila un referto e dispone l’accompagnamento in lettiga. Qui il medico di turno affida il paziente al triage. L’infermiere dà codice verde, non urgente. La situazione si aggrava, il paziente mostra segni d’insufficienza respiratoria ma è visitato dopo un’ora. Sopraggiunge lo shock emorragico. Letale, nonostante le manovre rianimative. L’autopsia fa luce sulle cause: rottura della milza. Situazione clinica fronteggiabile solo con una trasfusione e un intervento chirurgico che a quell’ora della notte avrebbero richiesto un allerta immediato. Riformando la sentenza di condanna del Tribunale di Livorno, la Corte d’appello di Firenze assolve i due medici. La Cassazione conferma. La condotta del primo medico non è censurabile non avendo egli altri mezzi per confermare un sospetto di diagnosi. Ma va assolto anche il secondo medico, pur negligente nell’aver sottovalutato l’urgenza. Come mai? Non vi è prova del nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento tragico. In pratica è assai dubbio che una condotta appropriata avrebbe potuto s alvare il paziente. «Per la prima volta i giudici puntano il dito sulla cattiva organizzazione del nosocomio — spiega Antonio De Falco, segretario campano della Cimo — e stigmatizzano l’irrazionale separazione dei due pronto soccorso. Le conclamate deficienze organizzative della struttura sanitaria sono tali da rendere sostanzialmente impossibile un intervento tempestivo. Ciò apre uno scenario nel quale la responsabilità potrebbe, in casi del genere, essere cercata in capo a chi decide l’articolazione funzionale di un pronto soccorso o di un reparto». «Una sentenza innovativa come prassi, non come idea — aggiunge Claudio Buccelli, ordinario di medicina legale dell’Università Federico II di Napoli — è da tempo maturata la consapevolezza che la responsabilità assistenziale non è solo dei singoli medici o dell’equipe ma degli organi di governo clinico che stabiliscono l’organizzazione. Il medico non può rifiutare le cure anche in condizioni estreme. Fa quello che può. Pensiamo ai turni di guardia: spesso viene impiegato un medico di una specialità diversa dalla patologia da trattare. Viviamo un disagio in un sistema burocratizzato in cui incidiamo poco sulle scelte. Sui livelli dirigenziali, direttore generale e sanitario, ricadono responsabilità gravose non sempre gestibili al meglio col livello tecnico-politico». «Questa sentenza — aggiunge Silvestro Scotti, presidente dell’Ordine dei medici di Napoli — segna un discrimine tra diritto alla salute costituzionalmente garantito e pareggio della spesa che in questo momento storico prevale nelle scelte organizzativa. È ora di andare verso un riequilibrio in cui la salute torni al primo posto nella scala dei valori in gioco». «Il caso citato dalla sentenza — conclude Roberto D’Angelo, segretario provinciale della Cisl medici di Napoli — è emblematico delle conseguenze della marginalizzazione dei clinici nelle scelte di organizzazione sanitaria. Solo chi sa può deliberare correttamente».

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29 Marzo Corriere Veneto Malasanità, paga l’Azienda era rimasta senza assicurazione Padova, Tac in ritardo: deve sborsare oltre 1 milione padova Il maxi-risarcimento da oltre un milione di euro ai familiari del padovano morto a causa del ritardo con il quale fu sottoposto alla Tac, non è coperto da assicurazione. E quindi, l’azienda ospedaliera di Padova dovrà attingere da un proprio fondo di accantonamento. Soldi pubblici, quindi. In pratica, per l’errore dei medici pagheranno i contribuenti. Il caso è quello raccontato nei giorni scorsi dal Corriere del Veneto . Era il 23 giugno del 2002, quando l’uomo, un 32nne residente nel Padovano, venne portato in ospedale in seguito a una brutta caduta. Arrivò intorno alle 3 di notte e rimase al pronto soccorso fino alle 6 del mattino, quando finalmente fu visitato da un medico che dispose una Tac. Servirono però altre due ore per eseguire l’esame, dal quale emerse una frattura del cranio con edema cerebrale e soltanto alle 9 del mattino fu possibile avere una consulenza neurochirurgica. Ma ormai il quadro «era irrimediabilmente compromesso». L’uomo morì quel giorno stesso, nove ore dopo il suo arrivo in ospedale. Tre settimane fa, a 13 anni dal decesso, il tribunale civile di Padova ha condannato l’azienda ospedaliera a risarcire la moglie, i due figli (che all’epoca avevano 3 e 5 anni), i genitori e il fratello dell’uomo con una cifra complessiva di circa un milione e centomila euro. Il motivo? Per il perito del tribunale, non ci sono dubbi: «Se la Tac fosse stata eseguita subito dopo la richiesta, ossia alle 6 e non alle 8, ci sarebbe stato il tempo necessario per procedere con i necessari interventi terapeutici che, in via di elevata probabilità, avrebbero consentito di salvare la vita del paziente ». L’ufficio legale dell’ospedale sta valutando se ci siano gli estremi per presentare ricorso contro la condanna, forti del fatto che una decina di anni fa l’inchiesta penale aperta dalla procura di Padova fu archiviata. In ogni caso, però, il caso di malasanità ha costretto i vertici dell’azienda a chiedersi dove andare ad prendere quel milione di euro. La morte dell’uomo, infatti, avvenne proprio nei mesi in cui diverse strutture sanitarie venete, compresa quella della città del Santo, si trovarono di fronte a una parziale scopertura assicurativa. Erano i mesi successivi allo scandalo delle valvole killer, e diverse Compagnie - spaventate forse dal rischio che il caso potesse ripetersi - rimodularono le polizze fissando un tetto massimo per i risarcimenti. Una situazione che si trascinò per pochi mesi, ma il caso ha voluto che la morte di quel padovano avvenisse proprio allora. A distanza di tempo, l’ammontare complessivo concordato con l’assicurazione è stato raggiunto e quindi il milione di euro che spetta ai familiari della vittima risulta «scoperto». Di conseguenza, quando la sentenza diventerà esecutiva, a pagare sarà l’azienda ospedaliera . In casi come questi - spiegano fonti vicine all’ospedale - la somma viene attinta da un fondo di accantonamento 28 Marzo La Repubblica Roma Dramma all’Ifo gli perforano l’intestino. Paziente muore Operato per un tumore l’uomo aveva 57 anni Indagati 6 medici dell’ospedale FRANCESCO SALVATORE ERA ricoverato perché doveva essere operato per farsi togliere un tumore al rene. Durante l'intervento gli sarebbe stato perforato l'intestino e provocata un'infezione che lo avrebbe condotto alla morte. Questa la ricostruzione fatta nella denuncia dai familiari di un uomo di 57 anni, morto lo scorso 24 marzo a seguito di un intervento chirurgico all'Ifo, “Istituto nazionale tumori Regina Elena” a Mostacciano. La procura, sulla base dei fatti esposti, ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Il pubblico ministero Silvia Sereni, dopo aver ricevuto la querela dei familiari della vittima ha sequestrato la cartella clinica e iscritto nel registro degli indagati tutta l'e-quipe medica che ha operato l'uomo. Si tratta di sei medici del reparto di Urologia. Il magistrato, inoltre, ha disposto l'autopsia sul corpo dell'uomo. I risultati dell'esame, avvenuto ieri, saranno consegnati dai consulenti incaricati entro due mesi. La morte dell'uomo risale a quattro giorni fa, al 24 marzo scorso. Il paziente era entrato all'Ifo a metà gennaio e dopo alcuni giorni, in cui si era sottoposto ad una serie di esami di routine, era entrato in camera operatoria. Durante l'operazione, avvenuta alla fine di gennaio, i medici avevano asportato la neoplasia. Tutto sembrava essere andato per il meglio salvo poi, nei giorni successivi all'intervento, erano sorte delle complicazioni, poi il coma farmacologico e il decesso dopo 45 giorni. 25 Marzo La Repubblica Palermo Agrigento, neonato muore dopo tre giorni. Inchiesta LA PROCURA di Agrigento indaga sulla morte di un neonato di tre giorni avvenuta lunedì sera all’Unità di terapia intensiva neonatale dell’ospedale “San Giovanni di Dio”. Il piccolo, figlio di una coppia di Favara, era

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nato con un parto cesareo ed era stato subito intubato, a causa di alcuni gravi problemi respiratori. Quindi, era avvenuto il trasferimento all’Utin. Ma il piccolo non è sopravvissuto. Sono stati i genitori a chiamare il 112, denunciando un presunto caso di malasanità. I carabinieri hanno già disposto il sequestro della cartella clinica, su disposizione della procura. Anche l’ospedale “San Giovanni di Dio” di Agrigento ha aperto un’inchiesta interna per fare chiarezza su quando accaduto. «L’azienda ha preso questa decisione dopo la denuncia dei familiari del neonato — spiega il direttore sanitario dell’Asp 1 della città dei templi, Silvio Lo Bosco — . Gli elementi fino ad ora acquisiti fanno emergere che non c’è stata nessuna manchevolezza né dell’azienda, né del personale sanitario». Sarà comunque la magistratura ad esprimere la valutazione finale. Il piccolo è nato alla trentasettesima settimana, il trasferimento all’Unità di terapia intensiva è avvenuta in tempi brevi. Adesso, il papà del neonato, un operaio di 33 anni, chiede alla procura di Agrigento di ricostruire tutte le fasi del parto e del successivo ricovero all’Utin. I magistrati stanno valutando se effettuare l’autopsia sul corpicino del piccolo, oggi sarà presa una decisione sulla base delle valutazioni espresse dal medico legale che ha già esaminato il caso. Sembra che la gravidanza non avesse manifestato particolari complicazioni: negli ultimi giorni, però, era stato deciso un cesareo d’urgenza. Corriere.it Biopsia al cuore al San Camillo ma entra in coma e muore a 56 anni ROMA - Quel sorriso fiducioso al marito all’ingresso dell’ambulatorio del San Camillo è stato l’ultimo della signora Rosella Blasotta, prima di sottoporsi a una biopsia al cuore e venti minuti dopo cadere in coma irreversibile. La donna, 56 anni, è deceduta lo scorso 21 marzo, a tre giorni di distanza dall’inizio del controllo medico considerato di routine. Una disgrazia dai contorni poco chiari, che ha spinto il pm Nadia Plastina a iscrivere nel registro degli indagati. ipotizzando il reato di omicidio colposo, cinque medici dell’ospedale. Secondo i primi accertamenti, la morte della signora, madre di due figli, sarebbe stata causata dalla rottura di una vena forata durante l’esame. nel giro di poche settimane, si tratta del terzo caso al vaglio della Procura di persone decedute dopo aver svolto una biopsia al cuore. Gli altri casi Gli inquirenti stanno svolgendo accertamenti per verificare se esista una correlazione tra la biopsia e il decesso di una donna di 41 anni morta dopo aver fatto questo esame al Sant’Andrea il 30 gennaio scorso. A febbraio del 2014 aveva perso la vita a causa di una biopsia al cuore Olga Chapova, cantante lirica russa al tempo dell’Unione Sovietica. La vicenda è venuta adesso alla luce perché la Procura sta cercando di individuare dove la signora si sia sottoposta all’esame. Il dramma della famiglia Blasotta comincia la mattina del 18 marzo quando la Rosella si reca al San Camillo-Forlanini per svolgere un controllo al cuore, su disposizione del medico curante che le aveva prescritto l’accertamento in seguito a una serie di malesseri lamentati dalla paziente. Alle 8,30 la signora entra in sala. Dopo venti minuti esce il medico che disperato comunica l’insorgere di contrattempi. Il 21 mattina viene dichiarato il decesso della signora, i cui familiari sono assistiti dall’avvocato Annalisa Amicucci. La Repubblica Roma Latte nella flebo neonato morto al San Giovanni Medici alla sbarra La procura ha chiesto un anno di carcere San Camillo, indagine su decesso dopo biopsia FRANCESCO SALVATORE UN INTERVENTO in day hospital al cuore, totalmente di routine, che sarebbe dovuto durare mezz'ora ma in cui sono sorte fatali complicazioni che hanno portato alla morte di una donna di 57 anni. Uno scambio di sondini compiuto da un'infermiera nella culla di un neonato e che ha condotto al decesso del piccolo. Due episodi lontani nel tempo e nello spazio, il primo avvenuto la scorsa settimana all'ospedale San Camillo Forlanini e il secondo quasi tre anni fa all'ospedale San Giovanni Addolorata, posti sotto lo stesso comun denominatore dell'errore medico. Sul primo episodio la procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Il pm Nadia Plastina ha disposto l'autopsia sul corpo della donna e indagato cinque sanitari del reparto di Cardiologia del San Camillo. La biopsia endomiocardica a cui si è sottoposta la vittima, lo scorso 18 marzo, le era stata consigliata dal proprio cardiologo di fiducia, che l'aveva descritta come un esame di routine. L'intervento, effettuato in day hospital, sarebbe servito come diagnosi per approfondire il suo stato di salute: la 57enne, infatti, moglie e madre di un figlio maggiorenne, negli ultimi tre mesi si sentiva spesso affaticata. Lo scorso mercoledì, la donna a seguito dell'intervento, è stata subito ricoverata al reparto di Cardiologia di rianimazione, dove è rimasta altri tre giorni senza riprendere conoscenza. Poi il decesso. Il marito e il figlio, a quel punto, hanno denunciato l'episodio al commissariato con l'assistenza dell'avvocato Annalisa Amicucci. Il lee gale ha subito nominato un consulente medico per prendere parte all'incarico peritale disposto dal pm. La stessa trasparenza nel comunicare il decesso di una vittima in un ospedale non è stata adottata, invece, per il caso del piccolo Markus De Vega. Il neonato è morto nel giugno del 2012 nel reparto di Neonatologia dell'ospedale San Giovanni, a causa dello scambio di un sondino che ha mandato nella circolazione

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sanguigna del neonato il latte che sarebbe dovuto servire ad alimentarlo. Ma ciò che turba nell'inchiesta del procuratore aggiunto Leonardo Frisani, è la condotta che sarebbe stata messa in atto da una serie di medici al fine di insabbiare la morte del piccolo Markus e non subirne le conseguenze giudiziarie. In sette, fra dirigenti, primari medici, consci dell'errore della collega, non avrebbero comunicato in tempo il decesso del piccolo all'autorità giudiziaria. Tutti, indagati per concorso in favoreggiamento, omissione di referto e frode processuale, avrebbero glissato sulle cause della morte di Markus, non informando la mamma dell'errore medico e impedendole, di fatto, di richiedere l'autopsia. Omissioni queste finalizzate a mettere a tacere la vicenda. Ieri, il pm ha chiesto la condanna a un anno per tre di loro che hanno scelto l'abbreviato. Per altri tre ha chiesto il rinvio a giudizio. Per due l'assoluzione. I difensori della mamma di Markus, gli avvocati Massimo Argirò e Danilo Granito, hanno chiesto 200mila euro di danno per ognuno dei 4 medici che hanno chiesto l'abbreviato. 24 Marzo La Repubblica Palermo “La prescrizione fu sbagliata due volte di fila” processo Lembo, in aula il racconto degli errori ROMINA MARCECA SEDUTOnell’aula 23 del tribunale c’era anche il suo tutor, il professore per il quale era stata il fiore all’occhiello del reparto e per il quale adesso è la maggiore accusatrice. Ieri non si sono nemmeno salutati Laura Di Noto e l’ex responsabile dell’Oncologia medica del Policlinico, Sergio Palmeri. La dottoressa si è seduta sulla sedia degli imputati per essere sottoposta all’esame del pm nel processo per la morte di Valeria Lembo, la mamma di 34 anni uccisa da un’overdose di vinblastina, un farmaco chemioterapico. Alla donna, affetta dal tumore di Hodgkin, che si sconfigge nell’80% dei casi, venne somministrata il 7 dicembre del 2011 una dose di dieci volte maggiore per un errore in cartella: 90 milligrammi al posto di 9. Una svista grossolana che la uccise in venti giorni. Per la morte della mamma, che lasciò un bambino di sette mesi, sono a giudizio, oltre alla Di Noto e a Palmeri, altri due medici e due infermiere, imputati a vario titolo di omicidio colposo e falsificazione di cartella: lo specializzando Alberto Bongiovanni, lo studente universitario Gioacchino Mancuso, l’infermiera professionale Clotilde Guarnaccia e l’infermiera Elena D’Emma. Le accuse più gravi la dottoressa Di Noto, difesa dall’avvocato Marco Clementi, le ha rivolte al suo ex tutor. “Avevo espresso la mia perplessità sulla decisione di curare nel reparto la signora Lembo, affetta da un tumore cosiddetto “liquido”. Noi gestivamo melanomi “solidi”. Ma lui mi rispose che trattava tutti i tumori. Eppure c’era una circolare del direttore di divisione, Nicola Gebbia, che vietava espressamente la cura in reparto di quei tumori”. Anche quando il pm Emanuele Ravaglioli le ha chiesto se Palmeri avesse avvertito subito la famiglia dell’errore, l’oncologa ha risposto: “Mi aveva detto di non dire la verità. Subito dopo ai familiari venne detto che la paziente aveva una gastroenterite, un effetto collaterale della chemioterapia”. Laura Di Noto quel maledetto 7 dicembre 2011 firmò, a nome dello specializzando Alberto Bongiovanni, la terapia fatale con 90 milligrammi. “Ho confrontato la prescrizione preparata dallo studente Mancuso con la cartella clinica che il 23 novembre precedente riportava lo stesso quantitativo. Anche quel giorno era stato annotato 90 milligrammi”, ha spiegato. Per un assurdo destino (o forse per una maggiore conoscenza del farmaco?) quel 23 novembre chi redasse la terapia scrisse invece 9 milligrammi e Valeria Lembo visse 15 giorni in più. Più volte il giudice le ha chiesto come mai non si fosse accorta di quel dosaggio errato, lei che è un’oncologa: “Non era un chemioterapico che conoscevo, ne utilizzavo altri”, ha risposto. Tanti i “non ricordo” e i “non so” del medico, poi, sulla strana pratica di firmare e timbrare le terapie con il nome dei colleghi. “Un’usanza”, ha risposto Laura Di Noto al giudice Claudia Rosini che la incalzava. 22 Marzo Corriere della Sera Brescia Sanità, maxi risarcimento per un intervento al cuore «Il by-pass troppo invasivo», il Civile condannato a pagare 600 mila euro Prima un’operazione al cuore finita male, poi la causa civile e infine una condanna ad un maxi risarcimento da oltre 600 mila euro. La vicenda risale al 2009 e ha come protagonisti un medico del dipartimento di cardiochirurgia dell’ospedale Civile di Brescia e una donna non più giovane bisognosa di un intervento al cuore. Al centro del processo civile non tanto una colpa professionale o un’imperizia tante volte oggetto di procedimenti penali e denunce ma una questione un po’ più complessa: il medico chiamato ad intervenire ha operato la scelta giusta e migliore per quel caso clinico e per quella paziente non più giovane? Per il giudice del Tribunale di Brescia il medico del maggiore ospedale cittadino non avrebbe scelto la condotta migliore per affrontare i problemi della donna. Dopo avere valutato il quadro clinico della paziente, una signora affetta da coronopatia trivasale (ovvero un restringimento di tutti e tre i rami coronarici, i vasi che portano il sangue

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al muscolo cardiaco), il professionista, secondo la letteratura medica, aveva davanti due possibili alternative: un intervento chirurgico per la realizzazione di alcuni by-pass o una meno invasiva angioplastica (la dilatazione del vaso ostruito attraverso un catetere e un palloncino). Il medico ha optato per un intervento 22 Marzo 2015 Rassegna di settore chirurgico di by pass, ma nella fase post operatoria la paziente è morta. Sconvolti e increduli per quanto accaduto due parenti della donna, dopo avere consultato un avvocato, hanno fatto scattare una richiesta di risarcimento danni in sede civile nei confronti del chirurgo che aveva operato ipotizzando che non avesse operato nel modo migliore. Una ipotesi che, durante lo svolgimento della causa, ha trovato d’accordo il consulente tecnico d’ufficio. Secondo il perito, infatti, il medico ha sbagliato scegliendo l’intervento chirurgico di by-pass perchè le condizioni della paziente, già cardiopatica, avrebbero dovuto consigliare l’opzione meno invasiva, cioè l’angioplastica. Opposta invece l’opinione del chirurgo che reputava più rischioso l’intervento con un catetere per la salute della donna che in precedenza era già stata operata proprio per un intervento chirurgico di by pass. Il giudice però, nel luglio del 2014, ha accolto la tesi del perito, che ha collegato la morte a quel intervento non ben valutato, e la sentenza ha condannato l’ospedale Civile (che ha accolto l’istanza di patrocinio legale del medico) al pagamento di 614mila euro (280mila euro a una parente e 334mila euro all’altra) a titolo di risarcimento danni. Risarcimento di cui il Civile ha deliberato il pagamento una decina di giorni fa. Ma il caso è destinato a non finire qui: contro la sentenza del tribunale di Brescia il medico è determinato a ricorrere in appello per cercare di ribaltare l’orientamento di primo grado. Per il medico, infatti, anche se l’interventi di by-pass fosse stato avventato non avrebbe comunque compromesso la vita della paziente ma solo le chance di sopravvivenza. La Repubblica Palermo Muore diciannovenne, giallo in un pub di via Candelai I genitori accusano il 118 “Soccorsi inadeguati” Il pm ordina l’autopsia ARIANNA ROTOLO È UN giallo la morte di un diciannovenne palermitano, Luigi Faccilongo, trovato in arresto cardiaco davanti all’ingresso del pub “Chupitos” di via Candelai. Una serata trascorsa in allegria con un gruppo di amici nei locali della movida che, sul finire, si è trasformata in tragedia. Venerdì notte, all’1,45 circa, il giovane si è sentito male improvvisamente accasciandosi sull’asfalto, tra i tavolini esterni del locale, uno dei più frequentati della zona. I suoi amici hanno chiamato il 118, che ha inviato un’ambulanza: ma il giovane era già morto e il trasporto al Policlinico e i tentativi di rianimazione sono risultati vani. La procura ha aperto un’inchiesta, su denuncia dei familiari: l’autopsia sarà eseguita nei prossimi giorni. La famiglia del ragazzo — residente a Torretta — sostiene che i sanitari del 118 avrebbero sottovalutato la gravità della situazione inviando un’ambulanza con un infermiere a bordo. Se ci fosse stato anche il medico, il giovane, secondo i 22 Marzo 2015 Rassegna di settore genitori, si sarebbe potuto salvare. Ma dal 118 assicurano di «avere rispettato i tempi e tutte le procedure». Il giovane sembra che fosse astemio ma che soffrisse di asma e di una lieve cardiopatia. «Siamo intervenuti in pochi minuti con l’ambulanza più vicina — spiegano dalla centrale del 118 — e l’infermiere ha tentato di rianimarlo, inutilmente. Il paziente è stato poi trasferito d’urgenza al pronto soccorso del Policlinico, dove è stata eseguito un massaggio cardiaco per 50 minuti circa, ma il paziente era morto». Secondo il racconto della famiglia, il 118 avrebbe sottovalutato le condizioni cliniche del diciannovenne, tanto da trasportarlo in ospedale con un “codice giallo”, non riservato ai casi gravi. «Il medico viaggia in ambulanza solo se c’è un codice rosso — replicano dalla centrale del 118 — e dagli amici la situazione non era stata descritta come grave, perché al momento della chiamata il giovane respirava ancora, avevano detto che era svenuto. In 10 minuti l’ambulanza con un infer- miere specializzato è stata sul posto e in 15 minuti ha raggiunto l’ospedale ». Ieri nei pub di via Candelai non si parlava d’altro. «Due sue amiche gridavano chiedendo di non toccarlo prima dell’arrivo dell’ambulanza. Dicevano avesse qualche problema cardiaco e fosse asmatico, come la mamma — racconta il titolare di un locale — erano arrivati intorno alle 23, non aveva bevuto nulla. Era astemio. Siamo certi si sia trattato di un morte naturale, legata alla sua patologia». Gli investigatori, però, non escludono nessuna ipotesi. Nemmeno quella di un decesso provocato dall’assunzione di qualche bevanda o droga. «Impossibile. Era un bravo ragazzo », afferma un amico. 19 Marzo Il Resto del Carlino

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Corriere della Sera Roma Tedesca muore e per due settimane la salma rimane nell’ospedale Grassi Lasciata per sedici giorni in un angolo della camera mortuaria dell’ospedale « Grassi» di Ostia nell’attesa di qualcuno che si assumesse la responsabilità della sepoltura. È la vicenda della salma di una cittadina tedesca, residente in Italia da trenta anni, morta il 24 febbraio scorso all’età di 68 anni e abbandonata dai familiari nell’ospedale fino alla scorsa settimana, quando l’ex marito ha denunciato l’ospedale per quello che era accaduto. Il pubblico ministero Gabriella Maria Fazi ha aperto un’inchiesta con l’accusa di omicidio colposo per stabilire cosa sia avvenuto e se ci siano responsabilità per il decesso della donna. La prima disposizione degli inquirenti è stata di trasferire il corpo all’università di Tor Vergata per l’autopsia. Ma adesso c’è da capire perchè per 14 giorni è rimasto al «Grassi» a causa delle incomprensioni tra i parenti della vittima. A determinare il tardivo intervento del pm è stato innanzitutto il fatto che l’ex marito ha appreso della scomparsa della donna a distanza di undici giorni. L’uomo ha saputo del dramma solo una volta rientrato dalla Germania, dove si trovava con la figlia. Quando è sbarcato a Fiumicino la scorsa settimana, ha ricevuto la notizia che l’ex moglie era stata ricoverata al Grassi il 20 febbraio dopo essersi sentita male nella casa di Ostia. Una degenza durata appena tre giorni, trascorsi in Terapia intensiva, nel tentativo di salvarla da un malore letale. In un primo momento, però, nessuno dei familiari si era lamentato delle cure decise dallo staff medico. A scatenare una diatriba era stata l’impossibilità di un accordo sulle spese della sepoltura. Come il marito ha appreso della disgrazia, si è convinto della possibilità della commissione di errori da parte dei medici e così ha presentato la denuncia. Una procedura insolita che ha lasciato meravigliati gli inquirenti, intenzionati, tra l’altro, anche a fare luce sui ritardi con cui hanno appreso della morte della tedesca che da 30 anni aveva scelto di vivere in Italia. V. Cost. - G. D. S