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10/01/11 Giovanni Anceschi Mostra-testo, mostra-ipertesto, mostra-regia Stringa, albero e rete. (titolo di lavoro)Titolo da citare perché è stato effettivamente pubblicato: La struttura narrativa della scena ostensiva , in Claudia Donà (ed.), Mobili italiani. Le varie età dei linguaggi , Milano, Cosmit, 1992 Premessa Hans Neuburg, Internationale Ausstellungs-gestaltung, Niggli, Teufen, 1969 Sergio Polano, Mostrare. L'allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta, Edizioni Lybra Immagine, Milano1988, n.ed. 2002. Exhibition Design vs Allestimento David Dernie, Exhibition Design, London, Laurence King Publishing, 2010 Exhibition design ad Exhibit design Mostre Nel 1851 a Londra si verifica - sul campo e non in un laboratorio di ricerca - una scoperta di ordine inconsapevolmente massmediale e di rilievo, consapevolmente, universale: le meraviglie produttive di un industrialesimo già maturo e le infinite varietà commerciali di una cultura materiale già vastamente planetaria vengono offerte alla contemplazione stupefatta - appunto - di masse immense di visitatori in quella che sarà chiamata la Great Exhibition per antonomasia.. In essa possiamo dire che confluissero due polarità o meglio due filoni evolutivi dell’istanza culturale del mostrare. Il primo è il filone che, partendo dall’idea barocca dell’intero mondo, con i suoi esotismi, nonché dell’intero passato, con le sue rovine, raccolti nella dimora del signore, collega alla Wunderkammer la collezione di tesori, d'arte e non. Un filone questo, che condurrà poi a una forma istituzionale estremamente specializzata la quale, passando attraverso la formula della galleria dei dipinti di famiglia, si trasformerà in quel particolare negozio nel quale si vende l’art pour l’art. Oppure, parallelamente, la linea che va da 1 parco nobiliare coi padiglioni grotteschi il cui fin é la meraviglia al Luna Park. A Londra si era manifestata , accanto alle molte sale, appunto esotiste e istoriste (ad es. l’atrio egizio disegnato da Pugin), anche la seconda linea evolutiva, quella dell’esposizione, anzi dell’offerta delle merci: la serra di Paxton come il più colossale dei Grands Magasins del Commonwealth e dell’occidente industriale.

5.4 Exhibition Design

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Hans Neuburg, Internationale Ausstellungs-gestaltung, Niggli, Teufen, 1969 Sergio Polano, Mostrare. L'allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta, Edizioni Lybra Immagine, Milano1988, n.ed. 2002. Exhibition Design vs Allestimento Mostra-testo, mostra-ipertesto, mostra-regia Mostre

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10/01/11Giovanni Anceschi

Mostra-testo, mostra-ipertesto, mostra-regia

Stringa, albero e rete. (titolo di lavoro)• Titolo da citare perché è stato effettivamente pubblicato: La strutturanarrativa della scena ostensiva, in Claudia Donà (ed.), Mobili italiani. Levarie età dei linguaggi, Milano, Cosmit, 1992

Premessa

Hans Neuburg, Internationale Ausstellungs-gestaltung, Niggli, Teufen, 1969Sergio Polano, Mostrare. L'allestimento in Italia dagli anni Venti agli anniOttanta, Edizioni Lybra Immagine, Milano1988, n.ed. 2002.Exhibition Design vs Allestimento

David Dernie, Exhibition Design, London, Laurence King Publishing, 2010Exhibition design ad Exhibit design

Mostre

Nel 1851 a Londra si verifica - sul campo e non in un laboratorio diricerca - una scoperta di ordine inconsapevolmente massmediale edi rilievo, consapevolmente, universale: le meraviglie produttive di unindustrialesimo già maturo e le infinite varietà commerciali di unacultura materiale già vastamente planetaria vengono offerte allacontemplazione stupefatta - appunto - di masse immense di visitatoriin quella che sarà chiamata la Great Exhibition per antonomasia..In essa possiamo dire che confluissero due polarità o meglio duefiloni evolutivi dell’istanza culturale del mostrare. Il primo è il filone che, partendo dall’idea barocca dell’intero mondo,con i suoi esotismi, nonché dell’intero passato, con le sue rovine,raccolti nella dimora del signore, collega alla Wunderkammer lacollezione di tesori, d'arte e non. Un filone questo, che condurrà poi auna forma istituzionale estremamente specializzata la quale,passando attraverso la formula della galleria dei dipinti di famiglia, sitrasformerà in quel particolare negozio nel quale si vende l’art pourl’art. Oppure, parallelamente, la linea che va da1 parco nobiliare coi padiglioni grotteschi il cui fin é la meraviglia alLuna Park.

A Londra si era manifestata , accanto alle molte sale, appuntoesotiste e istoriste (ad es. l’atrio egizio disegnato da Pugin), anche laseconda linea evolutiva, quella dell’esposizione, anzi dell’offerta dellemerci: la serra di Paxton come il più colossale dei Grands Magasinsdel Commonwealth e dell’occidente industriale.

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Karl Gerstner e Marcus Kutter, invece, nel loro saggio Die neueGraphik, del 1959, mostrano una splendida pagina calcografica delcatalogo di un produttore di chiavi di Sciaffusa del 1770, e laintitolano “Al posto della vetrina”, implicando così l’intero sistemadelle vendite per corrispondenza: si pensi alla famosa Sears &Roebuck, attiva a partire dalla metà dell’800 negli Stati Uniti.

Nello stesso senso, diciamo, genetico e cioè nella prospettiva di unateoria protetica degli oggetti artificiali, ovverosia secondo unaconcezione che vede gli oggetti come surrogati o potenziatori diorgani di un organismo vivente, e complessivamente la storia dellatecnica come una catena di sostituzioni, surrogazioni e vicarianze,possiamo vedere collegati certi organi ostensivi (come appunto ilcatalogo o addirittura il manifesto commerciale), al sistema generaledel display delle merci, e, soprattutto, a quella vetrina occasionale(colossale vetrina-evento, si potrebbe dire), che è la fieracommerciale. “Ex merce pulchrior” recita il motto del sigillo delconsole mercantile preposto alla fiera commerciale, creato a Bolzanonel 1635 dalla Arciduchessa Cristina de’Medici.

(E in margine, a proposito della vetrinistica, troppo poco studiata, varicordato che è stata un cavallo di battaglia dello Studio Boggeri, e varicordato l’autentico stage design, praticato per le vetrine esterne deLa Rinascente da Albe Steiner. E ancora andrebbe verificato quantoad essa debba l’Istituzione artistica dell’istallazione, prima e dopol’Arte Povera, così come andrebbe indagato quanto la Mail Art debbaagli ephemera del mailing.)

A questo abbozzo di un panorama storico-genetico si può tentare dicollegare una tipologia delle forme-mostra di natura questa volta non oggettuale (protesico) macomunicazionale (semiotico). L’idea è quella di considerare l’insieme complessivo di tutte le mostree di provare ad ordinarle in gruppi, secondo determinati criteri.

Il primo criterio classificatorio può essere rappresentato da quelloche potremmo definire come lo stile complessivodell’argomentazione sottesa alla mostra in questione: una certamostra può collocarsi vuoi nella prospettiva di una qualche forma dipersuasione o vuoi in quella della pura trasmissione; in altri termini visono mostre che tendono a convincere coloro ai quali si rivolgono,ed altre che si propongono di informarli. Il criterio successivo di classificazione è rappresentato invece daltipo di intenzione comunicativa, o ancor meglio dal tipo di effettoprevisto sul destinatario e atteso dal committente, e cioè dal motivoche lo spinge a realizzarla.

Il gruppo tipologico della comunicazione trasmissiva e non-persuasiva può essere dunque a sua volta allora idealmente

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suddiviso - secondo, appunto, il criterio della funzione espletata - indue sotto-insiemi, quello delle mostre didattiche, nelle quali vengonoprovocati dei processi conoscitivi presso il destinatario: il destinatariovi viene formato, e quello delle mostre “puramente” informative,quelle esposizioni dove oggetti, immagini e testi vengonosemplicemente presentati: si pensi alle mostre per collezionisti, peresempio.

Ma, subito, è necessario avanzare un’avvertenza: in realtà nessuntipo è un tipo puro. Ogni manifestazione comunicativa è un mix dicomponenti - agitatoria o propagandistica, didattica o semplicementenotificatoria - più o meno sviluppata.

Ad esempio è poco credibile pensare che una mostra didattica, nonsia anche educativa (come abbiamo detto, formativa, cioètrasformatrice dei comportamenti: il che è la definizione stessa dipersuasività). Quando si dice ad es. mostra didattica va intesa dunque la modalitàprevalente: la spiegazione di un processo materiale complesso o diuna connessione fra eventi disparati, per farne capire i nessi causalio, rispettivamente, strutturali, o simili. E in questo caso il tipo di destinatari (il che rappresenta un ulteriorecriterio di affinamento della classificazione), possono andare da unapolarità caratterizzata da una definizione socioculturale minima (ades. un’esposizione scientifica che divulga universalmente i portatitecnologici della cibernetica), a una specializzazione massima (ades. una mostra pedagogica sull’insiemistica per scolari elementari).

E l’avvertenza va mantenuta in vigore necessariamente ancora,quando si passi a trattare di pura notificazione, di quella modalitàcioè che, come abbiamo visto, tende a trasmettere “dati di fatto purie semplici”. Una comunicazione che voglia solamente informarepraticamente non esiste, rappresenta un’astrazione concettuale: ilsuo destinatario non sarebbe né un cittadino, né un acquirentepotenziale, né uno scolaro, ma una sorta di ideale uomo standard.

La concreta mostra persuasiva può collocarsi invece nellaconcretissima dimensione agitatoria (“far fare”), tendere cioè apromuovere un’attività specifica (l’acquisto di una merce,l’espressione di un voto politico). Tende, come abbiamo visto, amodificare il comportamento di qualcuno.

Il tipo di messaggio, o meglio il programma comportamentale,immediato o sottinteso e inscritto in essa è una prescrizione (ad es.:“Compera!”). E la forma in cui si manifesta è l’ostensione, nella sua colorazionesemantica di offerta, di messa a disposizione. Il fruttivendolo,insegna Brecht, lustra ben bene le mele e le impila sul banchetto. E il programma gestuale indotto in chi guarda è l’afferrare (come bensapeva chi ha inventato i supermercati).

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E i destinatari sono un grande insieme di pubblici, unificati dal lorocomune carattere di consumatori (nel caso della Grande FieraCommerciale), mentre si tratta di un gruppo specifico,socioeconomicamente ben definito e precisato, un pubblico diautentici acquirenti potenziali (per le fiere specializzate e le mostrepromozionali), musei o gallerie.

Ci si muove sempre all'interno della dimensione persuasiva, anchequalora sia mutata l'intenzione comunicativa e da quella agitatoria sipassi all'intenzione più modestamente propagandistica, la qualetende ad esigere dal destinatario la formazione di una valutazione(“far pensare”, e magari “far dire”). Il messaggio tende qui inprevalenza a valorizzare l'immagine dell'entità che lo emette: miesibisco per farmi valere. Mentre il ventaglio delle esemplificazioni legate al tipo di destinatariva dalla mostra di massa ( Tsukuba, Lisbona, Shanghai), al modelloestremo di mostra esclusiva (e si può pensare a un determinato usofatto delle mostre d'arte, o, ancor meglio, del diverso senso, non disostanza ma di prestigio, che acquisisce una mostra al vernissage.

In generale il primo gruppo di mostre (quelle a carattere informativo)potrebbe essere bene assimilato alla costruzione di un prodottoeditoriale. In un certo senso la mostra storica, scientifica, ma anchela mostra artistica al museo, sono forme di pubblicazione. Sono, inun certo senso, la produzione di una specifica merce comunicativaverso e dentro la quale il destinatario muove, per così dire, spintodalla fame di conoscenza.Le seconde, come abbiamo visto, si assimilano invece al negozio.Sono forse più simili all'occasione di un incontro, fra un offerta contutto il suo ventaglio di opzioni e qualcuno che più che il destinatariodi un messaggio è il contemplatore di un panorama, lo spettatore diun evento.Nel primo caso il protagonista è qualcosa d'altro (un cosiddettocontenuto), che viene rappresentato, raffigurato, metaforizzato,allegorizzato. Nel secondo caso il protagonista è l'oggetto stesso qui è davveroappropriato il termine Exhibit: nel caso estremo, la merce. Oppure,spesso, la sua forma metonimica e cioè il campione e cioè, se nonl'oggetto nella sua fondamentale integrità sensoriale, almeno unasua parte rappresentativa e promettente.

E qui non è più questione di rappresentare, ma di presentare. Non sitratta di “metter qui”, nell'astanza degli occhi della mente, e cioè dida(r)stellen (come dicono i Tedeschi), ma di “metter fuori”: aus-stellen davanti agli organi visivi del nostro corpo di spettatori incarne ed ossa.

Il modello di mostra che abbiamo definito editoriale, ha comepresupposto il modello concettuale del flusso di informazioni. La

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mostra è pensata come il meccanismo di emissione di un fiume diinformazioni che passano attraverso il canale mostra. Questotrasferimento di informazioni avviene attraverso l'entità materialerappresentata dai pannelli, dalle attrezzature di proiezione e menodalle strutture allestitive in generale. Ma queste componenti fisiche,materiali, ed anche le scritture e le figure che vi compaiono, tuttoquesto insieme è pensato come veicolo trasportatore.

A questo concetto si contrappone, ma forse si può dire che gli siacomplementare, il modello della mostra come messa in vetrina e poimessa in scena, appunto Exhibit Se nel primo caso si può constatareuno straordinario interesse per ciò che passa dentro alla mostrainformativa, cioè appunto per i cosiddetti contenuti, nel secondo casoil ruolo principale non è giocato solo dalle informazioni ma anche, eforse soprattutto, dalle percezioni. E mentre il primo caso vede ildestinatario come un pubblico (magari come un certo tipo dipubblico), il secondo caso vede il destinatario come una componentecostitutiva del processo di comunicazione. Un partner collaborativo enon un ricettore passivo o tutt'al più, reattivo.E ancora: nel primo caso l'itinerario dello spettatore non èparticolarmente importante, è anzi irrilevante, nel senso che parte dalpresupposto di un percorso dello spettatore che è dato. Nel secondoè proprio il formarsi dell'itinerario ciò che determinerà la sequenza , ecioè letteralmente il senso delle percezioni, e quindi l'effettocomplessivo nella mente dello spettatore.Insomma nel primo caso il progettista intende se stesso cometraduttore (in forme, luci, movimenti, figure e scritture visibili) delleintenzioni comunicative di partenza, e in questo caso anche glioggetti eventualmente mostrati non sono oggetti nella loro interezzae totalità, ma esemplificazioni, esemplari, campioni, emblemi. Sonocioè oggetti che servono a comunicare qualcosa, che sono asservitial compito di comunicare qualcosa. Gli oggetti sono qui forme vuote,supporti vuoti, elementi fortemente segnici.Al contrario nella prospettiva della messa in scena, come dicevamo,l'oggetto è protagonista. E l'operazione progettuale, lungi dall'essereuna traduzione, può essere interpretata come un'operazione divalorizzazione: la registica allestitiva è l'arte retoricadell'enfatizzazione e della complementare esclusione ooccultamento oggettuale.Tipici di questo pensiero progettuale sono i meccanismi manipolatoridell'universo spettacolare: le accurate operazioni di messa in risaltoe in rilievo compiute sull'oggetto di esposizione. Si pensi all'analogiacon il caso della ripresa fotografica d'atelier, cioè alla messa inposizione e poi in posa del modello (still-life o portrait), ma anche allasofisticata operazione di messa in luce (nel cinema c'è la figuratecnica del datore di luci), il tutto nella prospettiva della costruzione econcretizzazione di una vista vantaggiosa. La lingua dice proprio“mettere in luce” come metafora della valorizzazione.E se la fotografia mette in posa l'oggetto (o la molteplicità deglioggetti) per la fissazione dello scatto, l'allestimento mette in posa

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oggetto o oggetti, per la sequenza dinamica dei frames di quell'idealestory-board, che viene prodotto dal succedersi delle viste che avràvia via lo spettatore. In sostanza si tratta dell'aggiustamento, se nondel compromesso, fra le posizioni di chi guarda (i punti di vistavariamente vantaggiosi) e le pose (gli atteggiamenti più o menoespressivi), che viene ad assumere ciò che va messo in scena.

Si tratta complessivamente di mettere in mostra, e cioè dell'atto dimettere sopra il palcoscenico della mostra: c'è sempre - ed èespressa nell'accentuazione del termine “mettere”, che accomunal'atto espositivo a “messa in scena”, “messa in pagina”, ecc. -quest'idea della necessità di uno stacco (stacco espositivo) rispettoal resto, rispetto al contesto complessivo. C'è, in altre parole,bisogno di una marcatura dell'attivarsi della funzione anaforica,(mettere avanti) che diventa così ostensiva (alzare) . É come se nonbastasse semplicemente mostrare. L'oggetto deve apparireesplicitamente come oggetto in mostra.

Abbiamo visto, a questo punto, da un lato il modello tubolare, ilmodello cioè della canalizzazione del flusso delle informazioni econtemporaneamente del percorso dello spettatore e dall'altro,invece, il modello ambientale, o meglio dell'oggetto ambientato,messo sullo sfondo di una scena. E, per inciso, quello dello sfondoscenico è in prima istanza il problema di una cancellazionedell'espressività delle preesistenze architettoniche, come famaterialmente coprendo finestre e soffitti settecenteschi con le suevele triangolari Achille Castiglioni allestendo “L'altra metàdell'avanguardia” al Palazzo Reale di Milano (1980), o come invecefa Ugo La Pietra, costruendo una struttura/contesto fortementefocalizzante in grado di subissare il contesto novecentista, per“L'immagine della città”, alla XVI Triennale (19XX).In un certo senso la polarizzazione canale/scena corrisponde a unanalogo polarizzarsi delle strutture di emissione. Cioè la mostra può assumere quasi fisicamente una strutturatubolare, in connessione con le modalità di un percorso che vieneproposto, o meglio imposto, allo spettatore.E quando dico tubolare intendo un paradigma preciso: la struttura delMuseo infinito di Le Corbusier, o la versione che ne ha dato Frank L.Wright al Museo Gugennheim di New York, dove il fatto che lospettatore scenda dall'alto lungo un piano spiralico inclinato, iscrivenella sua struttura propriocettiva, e addirittura nella mielina del suocorpo, la ineluttabile monodirezionalità della visita.

Abbiamo dunque una modalità nella quale lo spettatore è costretto inun percorso obbligato (o convenzionale, come nel “sempre a sinistrae verso destra” delle sale di museo), e abbiamo di contro unapossibilità di fruizione secondo la quale lo spettatore dispone di ungrado di libertà tendenzialmente crescente, al limite totale ecompletamente casuale, come potrebbe essere il casodell'allestimento di Pierluigi Cerri per la B&B al XVIII Salone del

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mobile di Milano del 1988. A una chiusura massima si contrappone una massima apertura,potremmo dire usando la famosa terminologia di Umberto Eco,demetaforizzandola però e riferendola alla struttura fisicadell'allestimento. É ad una apertura materiale, fattuale, fisica, cioè daun lato strutturale e dall'altro percettiva, e non ad un'aperturaermeneutica, interpretativa o proiettive, cioè mentale, che siamo difronte qui.

A metà strada fra questi due poli estremi trova posto la possibilità dipercorsi ramificati, o gerarchizzati. Ad esempio un percorsogenerico, sintetico e veloce dal quale si può accedere ad una serie dipercorsi di approfondimento. E qui io penso ad es. non ad unallestimento effimero ma al Musée d'Orsay di Gae Aulenti e alsistema grafico di Bruno Monguzzi e Jean Widmer, che consente, apartire dalla balconata, di pianificare il proprio itinerario, giù in bassonell'intreccio dei percorsi reali. Del resto la struttura a padiglioni estand delle fiere commerciali rappresenta il paradigma della strutturaramificata.

Stringa, albero e rete sembrano essere le tre morfologie basilari delleesposizioni così come si configurano nella concretezza progettuale,ma ciò che risulta davvero sorprendente è che esse presentano delleomologie di struttura davvero rilevanti con tre forme fondamentalidell'esposizione testuale. Se, cioè, la mostra fosse un testo, nel primo caso si tratterebbe diuna normale narrazione lineare, una story con la sua sequenza disituazioni concatenate. La seconda, caratterizzata dalla molteplicità di percorsi subordinati,sarebbe la forma testuale del saggio, rappresentata da un testoprincipale e da un sistema di apparati paratestuali: note, illustrazioni,didascalie, marginalia, per cui la lettura si sviluppa secondo unpercorso ramificato, che inanella una serie di va e vieni, secondo unasequenza di asole che partono da un certo luogo del testo e viritornano: cioè scendono nelle note e ritornano, passanoall'illustrazione, e poi forse scendono subito alla didascalia, prima dirisalire al testo e proseguire. Ma il lettore può forzare la mano eleggere solo il testo e rimuovendo, per così dire, il paratesto, oppurepuò cominciare a leggere tutte di seguito tutte le note, o guardare lefigure, o consultare il libro a partire dai suoi indici e dalle indicazionidi numero di pagina. E così facendo, soprattutto se salta da una forma di lettura all'altra,passa impercettibilmente al terzo caso. Infatti il terzo modello èquello della consultazione enciclopedica. Cioè il visitatoredell'enciclopedia si lascia guidare da un insieme di attrazioni e diappetiti conoscitivi, e si muove in questo spazio libero saltando dauna voce all'altra. E in realtà il modello di fruizione dell'enciclopedia èil modello proprio di quella forma di concatenamento informatico chesi chiama ipertesto.

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E sembra ancora che a queste tre forme dell'emissione espositiva,alle quali abbiamo associato altrettante forme di esposizionetestuale, corrispondano altrettante forme tecniche di presentazione.Quando - come ad es. nel caso della mostra RAI del 1965,progettata da Enzo Mari e Achille Castiglioni alla Fiera di Milano -non prende proprio la forma materiale di un tubo percorribile, laversione tubolare tende a vivere la mostra proprio come unostampato ingigantito, cioè come una sequenza di pagine trasformatein pannelli, pagine, appunto per le quali è predisposto un determinatoordine di lettura. Un paradigma di questa concezione può essereidentificato nella mostra che Herbert Lindinger e Claude Schnaidtallestirono per la prima grande mostra della Scuola di Ulm allaTriennale di Milano, e che corrispondeva quasi perfettamente allepagine del catalogo. Quella editoriale è la forma di presentazioneche presuppone la massima diligenza dello spettatore, in quantoappena si prende la sola libertà che ha, cioè quella di saltare unpannello o un intero capitolo, magari aiutato da segnaletiche etitolazioni, che immediatamente si ritrova nella formula successiva,per non dire che la produce.Il caso limite opposto è quello che prevede uno spazio vuotodisseminato di apparizioni, e uno spettatore pensato non comelettore diligente ma come esploratore ludico e curioso (forse unflaneur), che si muove ricevendo via via non solo le informazioni maanche le sensazioni che i vari oggetti gli trasmettono. Quanto aglioggetti essi funzionano qui come informatori ma anche comeirradiatori estesici, in qualche modo come oggetti inesauribilmenteinformatori, il che è legato alla natura stessa della percezione.Intorno all'oggetto da esposizione (ad es. una “rosa”), lo spettatorecompie una serie di evoluzioni puntandola con gli occhi e riceve unaserie di visioni prospettiche, una successione di frames oinquadrature, le quali mettono in vista diversi aspetti dell'oggetto. Mapotremmo immaginarci anche una mostra che consenta una analogalibertà di manovra aspettuale in un senso non solo ottico-percettivoma anche semantico: della “rosa” potremo vedere l'aspettualitàscientifica (ad es. botanica), ma anche forse l'aspetto cromatico (epiù finemente coloristico e cromatologico), e ancora l'aspettosimbolico (la rosa rossa come simbolo della passione amorosa, maanche come emblema storico della Guerra delle due Rose).

All'interno della prospettiva scenico-interattiva sembra cioè pensabilel'iscrizione di un'apertura cognitiva, associabile all'apertura percettivae sensoriale, anche se è proprio la componente estesica, nel caso diquesto modello scenico, ad essere fortemente valorizzata, mentrenel modello informativo ci troviamo di fronte a una sostanzialecensura di questi connotati.

Se pensiamo a una mostra tubolare (come abbiamo detto prima), o auna mostra a sequenza obbligata di pannelli, le scelte formali oestesiche sono relativamente secondarie ed al servizio dellatrasmissione efficiente. Nell'altro caso, di fronte a un oggetto dato, va

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tenuto conto, anzi diventano essenziali i caratteri di predisposizioneall'esposizione, di iconogenia, per non dire di spettacolarità. Sonocioè le peculiarità degli oggetti ad essere esibite. Gli oggetti, inquesta prospettiva, vengono trattati come individui, o meglio comeattori. E la loro semantica può essere intesa come una sorta di loroparticolare fisiognomica, cioè di un loro intrinseco carattereespressivo (oggetti aggressivi o accattivanti, dinamici o stabili, fragilio solidi, e così via. E ancora la sintassi fra i diversi oggetti mostratipuò essere pensata come una sorta di prossemica oggettuale. Cioègli oggetti si accostano l'un l'altro secondo compatibilità (ad es.“rime” morfologiche e cromatiche), e incompatibilità di vario registro.Ma, più precisamente, come attori sono trattati in una sorta dicoreografia unitaria, tutti gli elementi comunicativi: oggetti, immagini,testi, ecc., deuteragonisti che vengono incontro al vero protagonista,cioè allo spettatore.

A questo punto si potrebbe prendere questo oggetto d'esposizione, evedergli assumere tutto un ventaglio di pose (espressive e ad untempo comunicative). Possiamo pensare a questo oggetto e alsignificato che assume a seconda della maniera in cui viene messoin mostra, e a che cosa cambia se cambia la forma di quello cheabbiamo chiamato lo stacco ostensivo

Se noi vediamo un oggetto appeso sopra le nostre teste (mettiamouna sedia, o un appendibottiglie, o le sagome gigantografate deipersonaggi TV che scendono dal cielo del Padiglione RAI, realizzatoda Achille e Piergiacomo Castiglioni alla Fiera di Milano del 1966),noi ne abbiamo una limitazione delle viste teoricamente possibili. Noipossiamo vederlo secondo le viste dal basso. E il programma, nontanto narrativo, quanto coreografico che esse contengono, cioèl'azione che fanno pensare di stare facendo, è qualcosa di altamenteenfatico, drammatizzante, di “elevazione”, “ascensione”, o appunto di“discesa dall'alto” (Descendat super nos) Gli sembrano incombere eesprimono una gestualità un poco espressionista.

Se invece lo stesso oggetto lo vediamo appoggiato su un piedistallo,la sua posa, che tende ad eliminare sia la visione dall'alto che quelladal basso, produce un programma di azione scenica molto diverso,di tipo contemplativo. Ne abbiamo una visione normale. Normale maleggermente rilevata, potremmo forse dire “decorosa”, certamenteuna visione “profilata”.E ancora - come avviene in un esempio di Joe Colombo del 1967 perla Kartell a la Rinascente - l'oggetto è posto su un piano inclinato.Forma di basamento ideale per gli oggetti di design, perché favorisceuna vista che assomiglia alla più sintetica delle convenzionirappresentative: la prospettiva assonometrica, amatissima dai padrifondatori di Bauhaus e dintorni. Per così dire, senza fare muovere lospettatore, gli fa vedere la vista di sopra e dei due fianchi. Ma èanche una modalità presentativa altamente dinamica, come dimostrail sistema espositivo sviluppato alla fine degli anni sessanta per Fiat

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da Gae Aulenti, a partire da un'idea di Pio Manzù, forse perl'allusione alla curva parabolica, o forse perché suggerisce al nostrocorpo il gesto di fermare lo scivolamento in basso dell'oggetto, evocaenergicamente il movimento.Una variazione della disposizione, che abbiamo definito normale condecenza, è quella dell'oggetto che per sua natura va posato sulpavimento, oppure, rispettivamente su un rialzo che fa la parte di untavolo, nel caso di oggetti piccoli. Qui lo stacco sarà realizzato conaltri mezzi e accorgimenti; ad es. l'illuminazione ad occhio di bue suuno sfondo buio, o la distanza, che crea gerarchie, oppurel'incorniciatura e il passe-partout, o la messa sotto vetro con la suaconnotazione obiettivamente protettiva. Ma in tutti questi casil'oggetto propone un programma di azione ambiguo. Da un lato tidice: «Usami, perché sono alla tua portata», macontemporaneamente lo stacco espositivo gli fa dire: «Io sono unoggetto mostrato, e quindi non usarmi ma guardami».

E infine abbiamo la vista dall'alto, o meglio dalla superioritàdell'altezza. C'è tutta una classe di mostre (ad es. molte mostre dicase, proposte da architetti), che in qualche modo trasferisconoall'exhibition design, il modello raffigurativo prediletto e cioè la sinossidella pianta architettonica. Ma il programma sceneggiante intrinsecoa questa forma espositiva è piuttosto la proiezione, cioè: «Io,spettatore, mi vedo agire là dentro, in basso», un poco come avvienein certi videogame, dove un'entità vicaria, in tutto e per tutto unavatar, colpisce, schiva, avanza e arretra per te.

Se nella messa in scena di ambientazione, gli attori sono gli oggettimostrati, esiste una competenza caratteristica della professionalitàregistica, e cioè la cosiddetta conduzione degli attori, vale a dire lacapacità di far fare agli attori ciò che serve alla storia. Unacompetenza che assume qui una curiosa trasformazione. E riguardaqui non solo proprio l'allestimento degli oggetti mostrati ma anche ilcomportamento del partner degli oggetti, e cioè lo spettatore. E checonsiste proprio nello sfruttamento di quella che abbiamo chiamatola fisiognomica e la prossemica oggettuale, nonché della mimicaallestitiva, cioè la gestualità di quel grande corpo che - come insegnapoeticamente Niki de Saint-Phalle - è l'ambiente allestito. Enell'impiego dell'insieme degli inviti e degli ostacoli al percorso checonsiste questa capacità di mettere gli spettatori nella posizionegiusta. Un esempio estremo di questa facoltà è stato lamanipolazione del comportamento dello spettatore nel Padiglionedell'Esercito Svizzero, all'Expo di Losanna del 1965. Il visitatore eraincanalato e costretto a passare nella penombra in mezzo a dellesagome nere. Ma al momento di oltrepassare questo varco aveva lasorpresa di vedersi riflesso in un grande specchio, ben allineato inuna fila di soldati in divisa e sull'attenti, cotretto quindi a sentirsi neipanni di un militare.

All'inizio abbiamo parlato di due poli, un polo della massima

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limitazione nel comportamento dello spettatore (il modello tubolare),e un polo della massima libertà (il modello ambientale). E se nellaversione lineare il limite è la passività, nella versione ambientale elabirintica, proprio come avviene nella consultazione ipertestuale, ilrischio è quello di perdersi, e di perdere il senso complessivoannegando nella frammentarietà sensoriale. Nel labirinto si puòaddirittura parlare di percorsi fortunati e di percorsi sfortunati.Una soluzione, che per certi versi rappresenta una variazione dellaversione mostra ramificata, e nella quale le competenze registichedebbono raggiungere l'apice, è un allestimento costituito da unsequenza saldamente concatenata di atmosfere. Lo spettatore puòlasciarsi andare e perdersi nella ricchezza sensoriale degli oggettiambientati per ritrovarsi ad ogni cambiamento di sala-scena.La mostra “I Fenici”, allestita da Gae Aulenti con Pierluigi Cerri aPalazzo Grassi nel 1988, è un esempio che porta alle estremeconseguenze registiche questa concezione (e forse non vadimenticata la lunga frequentazione della Aulenti scenografa conRonconi). Porta cioè la narrazione espositiva oltre i limiti della fiction.Favoloso è infatti l'impiego del reperto autentico in un contesto dirappresentazioni realizzate autenticamente, cioè direttamente suimuri (un ulteriore radicale modo per venire a capo delle preesistenzearchitettoniche). Con tecniche di pittura e di graffito, dove ilprocedimento inventivo è stato quello del “come se”: se i feniciavessero disegnato in pianta, se avessero avuto carte geografichecome le vrebbero fatte? Per pervenire alla finzione davvero osè - inquanto passa a un capello dai geroglifici e dai caratteri greci diAsterix - di un carattere pseudopunico per le didascalie.

Ma il vero problema è quando dalla mostra si esce, come quando sichiude un libro, che inequivocabilmente, come tutta la letteratura acui appartiene, è un ilare menzogna, come insegnava coi suoiromanzi Giorgio Manganelli.

Il rischio è quello di proseguire in una dimensione di vita dovel'arredamento è un fondale, che provoca un continuo entrare e usciredi scena, dove il furniture design è un trovarobato, che produce uneterno cambio di scena a vista, e dove la moda fornisce i costumi(con allegati programmi-sceneggiato che si possono intonare vuoialla nostalgy in costume, vuoi all'avventura esotica o no-limits, vuoiall'action bellica ma magari anche quella dell'efficienza manageriale,vuoi al lusso gourmet. Il rischio è che vivere sia sempre più recitare,e recitare non sia più un jeux, un play, uno Spiel, ma una cosamortalmente seria.