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L’entrata in guerra dell’Italia. Nonostante l’opposizione di Giolitti e della maggioranza parlamentare, Vittorio Emanuele decise per la guerra. Ecco la storia delle «radiose giornate». Trecento deputati, la sera del 9 maggio 1915, lasciano nella portineria della casa romana di Giolitti il loro biglietto di visita. E' una manifestazione silenziosa di solidarietà. Appartengono tutti alla maggioranza parlamentare giolittiana e con quel gesto fanno sapere al loro leader di condividere, alla vigilia di drammatiche decisioni, la sua posizione: no alla guerra, no all'intervento militare dell'Italia nel conflitto che impegna da quasi un anno Austria e Germania da una parte, Francia e Inghilterra dall'altra. Passano undici giorni e il 20 del mese quegli stessi deputati votano alla Camera l'entrata in guerra dell'Italia a fianco di Francia e Inghilterra, concedendo i pieni poteri al governo Salandra che il 4 ha denunciato la Triplice alleanza con austriaci e tedeschi, in vigore da più di trent'anni. Il 24 maggio l'Italia sceglie di battersi e l'ambasciatore austriaco barone Karl von Macchio è invitato a tornare in patria, mentre a Vienna il suo collega italiano, Avama di Gualtieri, consegna al ministro degli Esteri von Berchtold, «con le lacrime agli occhi», la dichiarazione di guerra. Cos'è accaduto, in quegli undici giorni, per determinare un simile voltafaccia parlamentare e un così clamoroso cambio di campo? il tentativo di dare una spiegazione parte da lontano. Quando il 24 luglio del 1914 l'Austria, dopo un ultimatum inaccettabile e tuttavia accolto quasi in pieno, decide di attaccare la Serbia per punire l'assassinio a Sarajevo dell’erede al trono Francesco Ferdinando e di sua moglie, l’Italia ha molte ragioni per non entrare per non entrare automaticamente in guerra, pur essendo membro della Triplice. In primo luogo l’arroganza austriaca. Nessuna comunicazione preventiva al nostro governo della decisione presa. Un arrogante telegramma a 1

Bertold i

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L’entrata in guerra dell’Italia. Nonostante l’opposizione di Giolitti e della maggioranza parlamentare,

Vittorio Emanuele decise per la guerra. Ecco la storia delle «radiose giornate».

Trecento deputati, la sera del 9 maggio 1915, lasciano nella portineria della casa romana di Giolitti il loro biglietto

di visita. E' una manifestazione silenziosa di solidarietà. Appartengono tutti alla maggioranza parlamentare giolittiana

e con quel gesto fanno sapere al loro leader di condividere, alla vigilia di drammatiche decisioni, la sua posizione: no

alla guerra, no all'intervento militare dell'Italia nel conflitto che impegna da quasi un anno Austria e Germania da

una parte, Francia e Inghilterra dall'altra.

Passano undici giorni e il 20 del mese quegli stessi deputati votano alla Camera l'entrata in guerra dell'Italia a fianco

di Francia e Inghilterra, concedendo i pieni poteri al governo Salandra che il 4 ha denunciato la Triplice alleanza con

austriaci e tedeschi, in vigore da più di trent'anni. Il 24 maggio l'Italia sceglie di battersi e l'ambasciatore austriaco

barone Karl von Macchio è invitato a tornare in patria, mentre a Vienna il suo collega italiano, Avama di Gualtieri,

consegna al ministro degli Esteri von Berchtold, «con le lacrime agli occhi», la dichiarazione di guerra.

Cos'è accaduto, in quegli undici giorni, per determinare un simile voltafaccia parlamentare e un così clamoroso cambio

di campo? il tentativo di dare una spiegazione parte da lontano. Quando il 24 luglio del 1914 l'Austria, dopo un

ultimatum inaccettabile e tuttavia accolto quasi in pieno, decide di attaccare la Serbia per punire l'assassinio a Sarajevo

dell’erede al t rono Francesco Ferdinando e di sua moglie, l ’I tal ia ha molte ragioni per non entrare

per non entrare automaticamente in guerra, pur essendo membro della Triplice. In primo luogo l’arroganza

austriaca. Nessuna comunicazione preventiva al nostro governo della decisione presa. Un arrogante telegramma a

posteriori di Francesco Giuseppe a Vittoria Emanuele: «... D'accordo con la Germania sono deciso a difendere i

diritti della Trìplice...». E l'Italia? Forse si tratta di un alleato di seconda categorìa? Ancora: «... Sono felice di poter

contare sull'appoggio dei miei alleati...». Quale appoggio? Lo si pretende come atto dovuto? Vittorio Emanuele ha

un motivo in più per cogliere nel documento imperiale il disprezzo austriaco per il Paese che si è liberato col

Risorgimento.

Ma l'astio tra le due nazioni ha altre cause, più concrete. L'Italia sa che a Vienna si spera ancora di

tornare ai tempi del dominio degli Asburgo. Nel 1909, proprio mentre l'Italia era colpita dal dramma del ter-

remoto dì Messina, il capo di Stato maggiore austro- ungarico, Conrad, proponeva di attaccare preventivamente il

nostro Paese, alleato del suo.

L'erede al trono, l'arciduca Francesco Ferdinando, non nascondeva i suoi sentimenti antitaliani: diceva di essere

d'accordo con Conrad, auspicava il ritorno del potere temporale del Papa e la rinascita degli antichi Stati

prerisorgimentali. I problemi dell'alleanza venivano discussi direttamente tra Vienna e Berlino, dove regnava il

kaiser Guglielmo II, arrogante e detestato da Vittorio Emanuele. Quando, il 2 agosto, il governo italiano proclama la

neutralità, le ragioni che hanno portato a quella scelta sono, oltre a queste di natura umorale, la mancata

comunicazione preventiva dell’attacco alla Serbia e dell’intenzione di cambiare lo status nei Balcani.

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L’interpretazione aggressiva di un trattato concordato come difensivo, l 'assenza di qualsiasi

consultazione con l'Italia nel mese trascorso dall'attentato di Sarajevo all'entrata in guerra dell'Austria contro la

Serbia.

Sulla neutralità, come sempre accade nel nostro Paese alle svolte della sua storia, l'unità politica e popolare si

spacca. Al governo, dal 21 marzo 1914, c'è Salandra, liberale classico. Gli ha passato la mano Giolitti, com'è solito

fare quando vuole sottrarsi a situazioni che è meglio lasciare sbrogliare da altri. Ma il grande regista detta politica

nazionale è lui, Giolitti, che ha dalla sua la maggioranza del Parlamento ed è aureolato da dieci anni memorabili di

guida dell'Italia, statista dalle straordinarie preveggenze. Giolitti ha tentato, prima con i socialisti e poi con i cattolici,

ossia con le due forze popolari, e purtroppo invano, di portare le masse nell'area di potere, allargando la base dei

consensi su cui deve reggersi un governo democratico. Giolitti è l'uomo che ha detto tra l'altro: «L'ascensione del

quarto stato è il portato di leggi storiche ed economiche alle quali nessuna forza umana può resistere».

Nel 1915 ha 75 anni, ma è lucido e vigoroso, con un'autorità riconosciuta da tutti. Molti, che lo

contrastarono ai suoi debutti, si sono ricreduti. Altri, come la regina madre Margherita, sua fiera

avversaria, non contano più nulla. Giolitti può decidere le sorti dei governi e del Paese e fa sorridere

il giudizio su di lui dato da Crispi: «Lo credo incapace di reggere lo Stato... Non ha studi, non ha

esperienza, non ha arte di governo. Conosce appena l'amministrazione...». Giudizio temerario.

Giolitti è stato da giovane sostituto procuratore del re, e poi segretario personale di Sella, massimo

esperto di finanze che abbia avuto l'Italia, infine consigliere di Stato. Quando, da Parigi dove si

trova, fa sapere a Salandra di condividere la scelta della neutralità, tutti capiscono che sarà lui il

capo di quanti tenteranno di convincere gli italiani dell’inutilità di ottenere con le armi ciò che

possono avere con le trattative.

Per la neutralità sono schierati Giolitti, i socialisti, il Vaticano, i cattolici. Per l'intervento con

Francia e Inghilterra, i nazionalisti, gli irredentisti, i futuristi di Marinetti, i repubblicani, i massoni,

i radicali, i liberali, i socialisti riformisti con Bissolati e personaggi come D'Annunzio, Salvemini,

Boito, Albertini, Borgese. Qualcuno comincia opponendosi alla guerra, come Mussolini, Sonnino e

Federzoni, poi passa nel campo opposto. Qualche altro vorrebbe che si scendesse in lotta con la

Germania e l'Austria: come Croce, Missiroli, Frassati, Scarfoglio, Giustino Fortunato, il romanziere

Zuccoli. Ci sono anche cattolici propensi alla guerra a fianco di Francia e Inghilterra, sono Meda,

Cavazzoni, Jacini, Carnaggio. C'è di tutto. Ci sono, poi, milioni arrivati sotto banco per aiutare a

schierarsi da una parte o dall’altra, a seconda di chi paga.

Così prendono soldi Mussolini (per lanciare il suo «Popolo d'Italia»), il conte Grosolì, presidente

della stampa cattolica, per i giornali sostenitori detta Triplice, giornalisti di varia estrazione. Si

sussurra perfino di personaggi dì Casa Reale,

Ma il partito più forte è quello di chi vuoi cavare il massimo frutto dalla situazione in cui si trova

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l'Italia, trattando la neutralità o l'intervento con entrambe le parti, tirando sul prezzo e scegliendo il

miglior offerente. Il capo di questo partito è il re. I Savoia hanno una antica tradizione nel cambio di

campo. Vittorio Amedeo II era passato dalla parte francese a quella austriaca durante la guerra di

secessione di Spagna e Carlo Emanuele II stipulava addirittura alleanze dove era previsto il

passaggio al nemico. Così il nuovo ministro degli Esteri, Sonnino, comincia nel febbraio 1915 i

contatti con gli inglesi a Londra per sentire cosa offrano se interveniamo al loro fianco. A Roma si

assiste a una specie di mercato dove offerte e rilanci vengono dai quattro ambasciatori dei Paesi in

lizza, Rennell Rodd per l'Inghilterra, Macchio per l'Austria, von Bulow per la Germania, Barrère

(che li giocherà tutti) per la Francia. Ogni tanto il Kaiser manda un suo emissario personale von

Kleist a tentare di convincere Vittorio Emanuele, ma il re è un maestro nell'arte di fare il pesce in

barile. Del resto, la sua decisione personale è già presa. Sosterrà l'iniziativa di Salandra e Sonnino,

l'offerta inglese è per lui la più seducente: Trento, Trieste, l'Alto Adige, la Venezia Giulia, l'Istria, la

Dalmazia, le isole dell'Alto Adriatico. Imparerà, l'Austria, a lesinare sul prezzo.

Invece, l'Austria non lesinava più, di fronte alla prospettiva di trovarsi nuovi eserciti contro.

Giolitti, fin dal 24 gennaio 1915, aveva scritto all'amico Peano, perché lo facesse risapere a chi

doveva intendere: «Non credo sìa lecito portare il Paese alla guerra per un sentimentalismo verso

altri popoli… credo molto nelle attuali condizioni dell’Europa potersi ottenere senza guerra, ma su

ciò chi non è al governo, non ha elementi per un giudizio completo» . Non ha elementi soprattutto

perché le trattative con Londra avvengono nel massimo segreto e le conducono soltanto in tre, il re,

Salandra e Sonnino. Il 26 aprile sono loro tre a firmare il patto che prevede l'entrata in guerra

dell'Italia a fianco dell'Intesa entro un mese: e firmano senza metterne al corrente né il Parlamento,

né i ministri, né alcun istituto rappresentativo detta volontà popolare. Un colpo di stato di Vittorio

Emanuele, si dirà poi: il primo della sua carriera, il secondo essendo quello con cui vent'anni dopo

si libererà di Mussolini in vista, d'un altro cambio di alleanze. Scrive Nitti che si trattò di un «...

documento di disonestà e tutti i mali che ne derivarono ne furono la conseguenza».

Il 26 aprile l'Austria, sia pure con sofferenza ed odio, s'era spinta ad offrire pressa poco lo stesso di

Francia e Inghilterra: Trentino, Istria, Trieste, alcune delle isole dell'Alto Adriatico. Soltanto per la

neutralità, non per l'intervento al suo fianco.

Ma ormai molti premevano per la guerra e stavano per cominciare le giornate del «maggio

radioso», preludio alla mossa finale. Gli idealisti, i grandi industriali che avevano cospicui interessi

nei rifornimenti dell'esercito, i mercanti d'armi, coloro che si erano fatti comprare ed ora dovevano

mantenere la parola, chiedevano la guerra.

C'è chi non ammette il «tradimento». Il deputato giolittiano Fusinato, tenace ammiratore della

Germania, figlio del poeta Arnaldo famoso per l'ode a Venezia («... il morbo infuria, il pan ci

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manca, sul ponte sventola bandiera bianca...»), si toglie la vita. Ammirava senza limiti la potenza

tedesca e considerava la Germania invincibile. Lasciò scritto: «Io sono incrollabilmente convinto

della vittoria finale tedesca: perché i tedeschi sono in terra i più forti contro tutti e contro tutto;

perché la civiltà germanica è la prima di tutto il mondo; perchè gli slavi non sono maturi per

sostituirli; perché la Francia decade». Non sopporta il voltafaccia. Un colpo di pistola e addio.

Dall'altra parte c'è chi esorta invece al combattimento e c'è il governo alla base dell'iniziativa

propagandistica, a favore del partito della guerra, consistente nel far tenere a Quarto a D'Annunzio

il discorso celebrativo della spedizione dei Mille, per l'inaugurazione del monumento che la ricorda.

D'Annunzio, tornato in Italia dalla Francia dopo che gli sono stati pagati i debiti, si scatena: «O

compagni, questa guerra, che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la più feconda

matrice di bellezza e di virtù apparsa sulla terra... Il nostro Iddio, qui nella lunga miseria nostra,

volle darci una testimonianza del nostro sangue privilegiato...».

Poi, da Roma, inveisce forsennatamente contro Giolitti, l'oppositore dell'avventura bellica,

indicandolo ai giovani come il nemico della patria ed incitandoli a bruciargli la casa. Giolitti deve

essere protetto, davanti al palazzo dove abita si devono stendere i cavalli di Frisia. Nelle strade dai

cortei degli studenti si chiede la sua impiccagione, i muri si ricoprono di scritte «Morte a Giolitti».

Il re, che ha ignorato il Parlamento, accetta il volere della piazza, proclamandosi interprete della

nazione, ma calpestando lo Statuto che dovrebbe difendere. Ancora una volta sono le minoranze a

fare la storia. Come nel Risorgimento, frutto di élites borghesi, anche la prima guerra mondiale

vedrà l'Italia in campo nell'assenza delle classi popolari e degli operai, contrari e nemmeno

ascoltati. Bisogna decidere, manca poco alla scadenza del patto di Londra. Salandra si dimette il 16

maggio per dimostrare che non vi è alternativa al suo governo. Infatti il re gli ridà l'incarico, dopo il

no di Giolitti, la latitanza di Carcano e il rifiuto di Boselli. Senza governo bisognerebbe denunciare

il patto, il re sarebbe costretto ad abdicare, la crisi assumerebbe proporzioni devastanti.

Giolitti, chiamato a Roma, ha visto il sovrano e Salandra il 9 maggio e ad entrambi ha ripetuto la

sua convinzione, senza successo. Dopo la riconferma di Salandra, di fronte alla sconfitta della sua

causa, abbandona la lotta e si ritira a Cavour, nel suo collegio elettorale. È il 17 maggio: tre giorni

dopo la Camera vota l'intervento contro l'Austria con 407 sì e 74 no (i voti di Turati e dei socialisti).

Al Senato, 262 sì e 2 no. Il 24 maggio l'Italia entra in guerra con due giorni di anticipo sulla data

prevista dal patto di Londra. Il re si veste in grigioverde e parte in treno per il fronte, stabilendosi a

Torreano di Martignacco.

La sua «rivolta antiparlamentare», come la chiamerà Giuseppe Maranini, si è conclusa

vittoriosamente.

Ma per il Parlamento non ha scritto una pagina di cui possa andare glorioso. Come accadrà quando

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si tratterà, anni dopo, di votare la fiducia a Mussolini che ha conquistato il governo con la

sovversione: e tutti si precipitano a dargli il loro voto, perché chi comanda ha ragione ed è sempre

bene, come diceva Longanesi, correre in soccorso del vincitore.

[Silvio Bertoldi, su il Corriere della Sera, 5 maggio 1993].

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