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Democrazia come diarchia.
Intervista a Nadia Urbinati
di ALESSANDRO MULIERI
Riprendendo alcuni spunti dal suo recente "Democrazia sfigurata. Il popolo fra
opinione e volontà" (UBE), Nadia Urbinati spiega, in questa intervista concessa al
“Rasoio di Occam”, perché la democrazia non è tale se non riposa su una duplice
sorgente d'autorità, quella della volontà (l'autorità formale della legge) e quella
dell'opinione (il giudizio dei cittadini). È questo delicato equilibrio fra volontà e
opinione che è messo in pericolo da populismo e plebiscitarismo.
Cominciamo dall’inizio. Il suo pensiero combina in maniera originale la storia
delle idee politiche e un’attenzione particolare allo studio teorico delle realtà
politiche contemporanee. Secondo lei, qual è l’importanza di una prospettiva
storica nel fare teoria della politica e della democrazia?
La politica è un’arte del discorso e della decisione. Si nutre della conoscenza umana,
individuale e collettiva, psicologica e storica; questa conoscenza è la condizione che
orienta il giudizio verso l’azione. Muovere la volontà comporta usare l’arma della
parola per far valere un ragionamento e guidare le emozioni. Per questo Artistotle
aveva incluso la politica nel genere del sillogismo retorico, non di quello scientifico.
Questo vale soprattutto per la democrazia, un sistema di governo e una forma politica
che riposa essenzialmente sul discorso, l’arte della persuasione che muove in concerto
persone tra loro diverse ed estranee. Incanalare le azioni verso la decisione (ovvero
verso un esito univoco) è opera delle procedure democratiche, convenzioni che sono
coerenti ai principi di questa forma di governo: contare voti di egual peso secondo la
regola di maggioranza e lasciare che ciascuno contribuisca con la parola alla
costruzione della decisione. Il legame con il mondo sociale e storico è inevitabile in
quanto queste procedure agiscono su una materia che à fatta di interessi e opinioni di
individui concreti, i protagonisti del governo democratico. John Dewey scriveva che
in quanto progetto in permanente formazione, la democrazia ha necessariamente una
storia e si tinge della specificità della società nella quale si fa strada. Le democrazie
rappresentative contemporanee sono l’esito e l’espressione permanente di una lunga
serie di lotte volte a contenere poteri gerarchici fondati su ragioni non estendibili a
tutti, e in questo senso arbitrarie, come l’età, una competenza specifica, la proprietà, la
sacralità, la forza militare. La secolarizzazione, l’evoluzione di un sistema di scambio
fondato sul mercato, l’invenzione della stampa, hanno contribuito in vario modo alla
crescita di relazioni sociali rette su una qualche eguaglianza e infine alla costruzione
di uno spazio pubblico separato nel quale un’eguaglianza più ampia potesse
consentire al maggior numero di competere per incarichi pubblici. In questo senso
possiamo dire che lo studio della democrazia non può essere concepito in una
prospettiva antistorica o puramente astratta, anche se i suoi principi hanno una validità
che trascende il tempo nel quale sono stati ideati e sperimentati. Il processo storico di
sviluppo della democrazia è una sintesi composita di principi ed esperienze che si
sono consolidati nel corso di un tempo lungo. Comincia nell’antica Grecia e arriva
fino a noi, alle nostre democrazie rappresentative. Diverse condizioni storiche, diverse
istituzioni e diverse forme di governo democratico, ma un simile principio di libertà
politica come sfera separata dalla dimensione sociale.
Ci può spiegare più nel dettaglio quali sono questi principi?
Innanzitutto l’eguale libertà politica di darsi leggi, ovvero l’autonomia, un principio
che attraversa l’intera storia occidentale. Quella democratica è un’eguaglianza
artificiale per cui persone di diversa condizione sociale, economica, e oggi dobbiamo
aggiungere culturale, religiosa e di genere, hanno un potere eguale di prendere parte al
processo politico, sia approvando direttamente le leggi che votando per chi dovrà
coprire questa funzione. E’ questa la condizione per vivere liberi: non sottostare al
potere di chi lo reclama dichiarandosi superiore in una qualche cosa che non può
essere acquisita anche dagli altri e idealmente da tutti. Gli antichi ateniesi chiamavo
questa eguaglianza isonomia o per legge ovvero per una ragione che nulla aveva a che
fare con qualità naturali o situazioni sociali. Quando Solone dichiarò che i poveri
erano uguali ai ricchi, intese dire che come cittadini di Atene essi erano uguali e la
legge li doveva proteggere dal rischio derivante dalla traduzione delle diseguaglianze
sociali in diseguaglianze di potere politico. La democrazia fece dunque una promessa
di ugual potere in qualcosa, non in tutto. Due sono i principi correlati a questo:
isegoria o il potere eguale che ogni cittadino ha di partencipare con la parola alla
formazione della decisione, e parrhesia o il sapere di poter con sicurezza parlare
francamente in pubblico. La condizione democratica è di tranquillità e di sicurezza
non solo di libertà. Essa non promette se non questo e per tanto il suo valore come
ordine politico sta nell’essere un metodo, una procedura.
Parlando di quest’aspetto, mi viene in mente che nel suo libro lei insiste molto sul
rapporto stretto che lega la democrazia al liberalismo politico. Come lei scrive,
“la democrazia prima di tutto promette la libertà e usa l’eguaglianza politica e
legale per proteggere ed esaudire questa promessa”. In altre parole, sulla scia di
Bobbio e Habermas, lei insiste sul ruolo dell’eguaglianza come necessario
complemento della libertà. Come risponde a quei teorici, come Chantal Mouffe,
che guardano al rapporto tra liberalismo e democrazia in termini di
opposizione?
Credo che sia davvero difficile concepire la democrazia senza il principio della libertà
di scelta da parte dei cittadini. Sia Hans Kelsen che Norberto Bobbio (che si ispirava a
Kelsen) hanno ben spiegato la relazione tra democrazia e libertà. La mia visione del
rapporto tra democrazia e liberalismo è simile a quella di questi autori e riposa su
un’idea semplice: il liberalismo politico (governo moderato e fondato sui diritti
individuali) e la democrazia sono intrecciati perché senza le libertà di parola e
associazione i cittadini non possono contribuire a costruire opzioni politiche e a
scegliere di schierarsi, pro o contro, ovvero a formare una maggioranza o a finire
all’opposizione. Si ritorna insomma al ruolo fondamentale che la libertà politica
assume nel garantire l’isegoria. Autori come Chantal Mouffe che insistono sulla
centralità del conflitto in democrazia hanno però difficoltà a contemplare il momento
della decisione. Quando si decide, si verifica un’interruzione momentanea del
processo conflittuale o di antagonismo – o meglio quel processo si sposta fuori dalle
istituzioni, le quali procedono secondo quella specifica visione selezionata dalla
maggioranza. Quindi non è sufficiente dire che la democrazia è basata sul conflitto (o
il suo opposto, il consenso); bisogna specificare che la democrazia è prima di tutto
metodo di decisione basato sulla regola di maggioranza. Questa specificazione è
fondamentale perché elimina alla radice il consenso unanimistico, che non fa parte
della democrazia anche perchè esso può conferire il potere di veto anche a uno solo,
ovvero assegnare potere alla minoranza invece che alla maggioranza. La democrazia
comincia quando non si è d’accordo e si deve poter decidere e quando di decide di
decidere contando i singoli voti secondo il principio di maggioranza, che, come si
intuisce, presuppone l’esistenza di una minoranza (cosa che, invece, il principio
unanimista non presuppone: qui, infatti, l’esistenza dell’opposizione è vista come una
sconfitta). La regola di maggioranza e il voto individuale sono le condizioni
fondamentali che caratterizzano la democrazia rispetto a sistemi non-democratici. E’
per questo che liberalismo (quello politico) e democrazia si implicano a vicenda,
hanno bisogno l’uno dell’altro.
‘Democrazia sfigurata’. Questo il titolo del suo ultimo libro in uscita con
università Bocconi editore in cui racconta la crisi delle democrazie
contemporanee (edizione in Inglese Democracy Disfigured. Opinion, Truth and the
People per Harvard University Press). Lei descrive la democrazia come un
sistema diarchico basato sui concetti di volontà e opinione. Allo stesso tempo, la
sua intenzione dichiarata è quella di difendere una concezione procedurale della
democrazia. Può spiegarci cosa intende?
L’espressione ‘diarchia” vuol significare che in democrazia ci sono due poteri o due
sorgenti di autorità e poi che essi non sono in opposizione ma che, pur restando
diversi e distinti, sono in permanente relazione. Una, la volontà, è l’autorità formale
della legge e di chi la fa e l’applica (il voto dei cittadini, quello dei corpi elettivi, le
regole e le istituzioni dello Stato) e il cui procedere è secondo norme stabilite in una
costituzione scritta; uso il termine volontà riferendomi alla tradizione delle teorie
della sovranità che identificavano la legge con la volontà (Rousseau in particolare,
dove la volontà è la legge del sovrano). L’altro potere, quella che chiamo opinione, sta
e vive fuori delle istituzioni, nel mondo regolato dai diritti individuali politici che
servono ad articolare il giudizio dei cittadini e a esprimere il dissenso nella società, a
raccogliere informazioni. Questa seconda forma di autorità include forme diverse di
partecipazione. Per opinione (che dovrebbe essere pensata al plurale), intendo il
mondo vario di formazione delle idee che coinvolge settori diversi della società civile.
L’opinione ha tre funzioni: la prima è conoscitiva-cognitiva e cioè raccoglie e
diffonde informazioni grazie alle quali noi formuliano i nostri giudizi politici; la
seconda è politica e consiste nello schierarsi al momento di costruire o scegliere
agende politiche; la terza è estetica nel senso che si basa sull’idea dell’esposizione
pubblica da parte di chi gestisce il potere e le istituzioni (noi cittadini vogliamo vedere
quello che avviene dentro il palazzo per poter giudicare). Queste tre funzioni
costituiscono insieme l’idea di autorità dell’opinione.
Una concezione, questa della diarchia democratica, che sembra molto simile a
quella di Habermas per cui la democrazia deliberativa si basa su una struttura
doppia della deliberazione formale e informale. Quali le differenze con la teoria
habermasiana?
Sicuramente queste due forme di autorità politica, volontà e opinione, sono presenti in
diversi autori, soprattutto nel lavoro di Jürgen Habermas. Tuttavia, in Fatti e Norme di
Habermas le due forme di autorità, le procedure che corrispondono alla volontà e
l’opinione, rimangono indipendenti l’una dall’altra. Inoltre, la democrazia come
deliberazione sulla quale Habermas ha focalizzato la sua teoria politica dà molto
rilievo alla funzione integrativa dell’interazione etica tra cittadini che argomentano
delle questioni pubbliche e meno alla funzione decisionale che nasce dal suffragio e si
manifesta con le opzioni partigiani ovvero in partiti politici. Infine, l’opinione
ragionata di cui parla Habermas intende in qualche modo emendare gli interessi e le
opinioni non riflessive, modi se così si può dire inferiori di partecipazione perchè
esposti alla ragione strumentale. Secondo me le due dimensioni devono essere pensate
insieme benchè ciascuna abbia una funzione sua propria e il loro potere sia diverso; e
infine, la dimensione dell’opinione deve contemplare le ragioni partigiane e interessi e
non escluderle come forme contaminate di deliberazione.
E qual è la posizione di Bobbio su quest’aspetto?
A differenza di Habermas, Bobbio sembra suggerire l’idea della democrazia come
diarchia. Quando in Il futuro della democrazia Bobbio definisce la democrazia un
metodo, egli aggiunge che questo metodo presuppone che la società sia luogo di
espressione e contestazioni delle opinioni, un esercizio di dissenso che necessita di un
metodo per convergere verso decisioni. In Bobbio la democrazia promette l’elezione
dei rappresentanti, e si basa anche su un processo di partecipazione regolata diretta e
indiretta alla formazione del consenso, di condivisione del potere da parte di tutti. La
forma razionale della deliberazione è una componente, non però ciò che vale a
nobilitare la democrazia: sono invece le procedure a nobilitarla perchè consentono il
libero gioco delle idee e degli interessi, il rispetto dell’esito della gara a patto che le
regole consentano sempre di provare a vincere domani. E’ la temporaneità di ogni
decisione che ci rende liberi, il fatto che nessuna vittoria è ultima. Quello che faccio
rispetto a Bobbio è di schematizzare la distinzione servendono dell’idea diarchica di
volontà e opinione. La mia idea è che i due poteri debbano rimanere separati e distinti
e interagire senza mai confondersi o sovrapporsi. Questo equilibrio o meglio la
tendenza a mantenere questo equilibrio è il lavoro in cui consiste la democrazia, un
ordine politico e insieme un modo di agire nello spazio pubblico (definito sia dal voto
che dalla sfera dell’opinione).
Il libro arriva a conclusione di un periodo decennale in cui il suo pensiero si è
contraddistinto per un’attenzione particolare, storica e teorica, al concetto di
democrazia rappresentativa. L’idea alla base del suo libro del 2006
Representative Democracy: Principles and Genealogy è che la democrazia
rappresentativa sia “una forma unica di governo democratico peculiare delle
società moderne” che non costituisca un'alternativa alla partecipazione. In
contrasto rispetto al democratismo radicale alla Rousseau e l’elitismo
schumpeteriano (che convergono nel definire rappresentanza e partecipazione
come opposti concettuali) lei sostiene che la partecipazione ha bisogno della
rappresentanza per dispiegarsi e dipinge la rappresentanza come una forma
complessa di partecipazione, un processo politico che genera e si sostiene su un
continuo flusso di influenza, controllo e comunicazione tra cittadini e
rappresentanti. In che modo quest’idea della rappresentanza come
partecipazione si rapporta (o si evolve) nel concetto diarchico di democrazia
come volontà e opinione?
La diarchia di cui parlo in questo libro è lo svolgimento di quello che già avevo messo
in luce nel libro del 2006. Comune a entrambi è l’idea che la democrazia sia fatta
delle regole che conosciamo proprio perchè retta sull’opinione e quindi il dissenso (in
quanto contrariamento alla verità l’opinione non ha altra autorità che il numero dei
consensi che riesce a ottenere). Tuttavia, in quest ultimo lavoro faccio un passo
ulteriore approfondendo il concetto di potere dell’opinione e individuando le possibili
deformazioni cui la diarchia può andare incontro. Mi sembra che le maggiori
metamorfosi avvengano proprio sul versante dell’opinione, nel modo in cui le tre
funzioni dell’opinione sono espresse. Presumendo la democrazia procedurale come la
figura essenziale, parlo di variazioni della sua figura e anche di sfiguramenti.
Si può pensare che le deformazioni della democrazia convivano con la concezione
diarchica?
Le deformazioni non devono essere viste come alternative rispetto alla democrazia,
ovvero come forme non-democratiche; nella maggior parte dei casi, esse convivono e
nascono dall’interno della democrazia, come forme estreme di stiracchiamento di una
funzione dell’opinione rispetto alle altre. Proprio in virtù di questa coabitazione della
democrazia con le sue sfigurazioni, è importante interrogarci su quali sono le
condizioni che portano allo sviluppo di quest’ultime. Ce ne sono molte e tutte attuali.
Penso ad esempio all’invenzione di Internet, la cui importanza è sicuramente
paragonabile a quella che l’invenzione della stampa ebbe per la nascita della
democrazia moderna. Ma penso anche al problema della regolamentazione dei
finanziamenti economici e agli squilibri legati alla globalizzazione che mettono in
crisi la forma statale della democrazia. Credo che la particolare pericolosità delle
deformazioni della democrazia cominci a essere evidente quando queste cominciano a
diventare narrative dominanti.
Come spiega lei stessa, il concetto di democrazia epistemica è particolarmente
attuale perché guarda in modo falsato al tema del rapporto tra democrazia e
verità. In che modo le concezioni epistemiche della democrazia si rapportano o
modificano la democrazia come diarchia?
Nel rapporto tra le due autorità è possibile che questa seconda, l’autorità
dell’opinione, si trasformi così da voler svolgere la funzione della volontà. Questo
avviene nella prima sfigurazione della democrazia che analizzo, quella sostenuta dalle
teorie epistemiche della democrazia. La mia critica a questa sfigurazione parte dal
fatto che la democrazia ha e ha sempre avuto un rapporto molto complicato con la
verità e la teoria politica con la filosofia. Questo perché il suo metodo di decisione
non ammette che ci sia una verità assoluta. Sulla verità non si ha senso votare.
Quando Rousseau dice che in assemblea chi si trova in opposizione sbaglia, egli non
presuppone una concezione di verità assoluta, ma un’idea di verità legata alla nozione
di cittadinanza (la volontà generale). Secondo il filosofo ginevrino, per il cittadino la
giustizia e l’utilità devono andare insieme: questo è il senso del patto sociale. La
volontà generale non ha contenuto ma è un medoto grazie al quale i cittadini si fanno
la domanda alla quale devono rispondere quando sono chiamati a votare, a operare
cioè come attori pubblici, come cittadini. Quando un cittadino deve giudicare una
proposta da votare non si deve chiedere: “mi piace questa proposta?”. Si deve invece
chiedere: “è questa proposta in accordo col patto fondativo del contratto sociale per il
quale l’utilità individuale deve andare insieme alla giustizia?” Rousseau non dice
quindi che chi è all’opposzione sbaglia nel senso che si oppone a u certo contenuto o a
una verità assoluta; lo dice invece presumendo che come cittadini dobbiamo farci la
domanda giusta, alla quale, secondo lui, non ci possono essere due risposte diverse ma
una sola. Il punto di riferimento – i principi fondamentali – è il termine centrale sul
quale il goudizio politico si forma, rispetto al quale chi ha ottenuto meno voti è
prevedibilmente nel torto (presupponendo che tutti ragionino senza malevolenza o che
nessuno usi l’arte della retorica per persuadere). La lezione di Rousseau è importante
per questa ragione: ci ricorda che la democrazia presume la diversità di opinione e
l’argomentazione, anche se non possiamo seguire Rousseau nella regola del silenzio
per tenere lotanto il discorso e l’arte della persuasione (sulle quali del resto riposa la
rappresentanza, che Rousseau come sappiamo esclude). Retorica e ideologia sono le
armi che i cittadini usano quendo partecipano alla formazione delle opinioni, le quali
sono plurali. I filosofi alla ricerca della verità non sono contenti di questa soluzione e
credono che la democrazia non debba soltanto concederci di vivere nell’eguale
opportunità di participare alla formazione della volontà politica; vorrebbero inoltre
che le sue procedure ci diano la possibilità di ottenere decisioni buone o migliori di
quelle che otterremmo se seguissimo procedure non-democratiche. Tuttavia, le
procedure democratiche non sono costruite perché noi otteniamo risultati di un certo
tipo. Noi abbiamo quelle procedure perché prendiamo decisioni all’interno di
situazioni per nulla omogenee o organiche e questo ci può portare anche a decisioni
non soddisfacenti. Lo scopo delle procedure non è di darci buoni risultati ma risultati
che siano sempre modificabili – direi quindi che la democrazia è il regno delle
decisioni penultime.
In altre parole, le teorie epistemiche della democrazia rigettano una visione
procedurale della democrazia e preferiscono considerarla un mezzo per ottenere
certi risultati. Ma quale può essere una risposta democratica a queste teorie?
Un esponente di punta delle teorie epistemiche della democrazia, David Estlund,
critica Habermas per diferere il proceduralismo senza dargli nessun valore oltre la
procedura stessa; in questo senso il proceduralismo habermasiano sarebbe indicativo
di un atteggiamento nichilista. Questa è la visione propria delle teorie epistemiche
della democrazia che vedono nella procedura una struttura in sè priva di valore se non
finalizzata a un esito buono. La mia risposta a questa visione consequenzialista è che
nella procedura c’è un valore perché le regole dicono chi siamo, cioè uguali cittadini
che liberamente partecipano alla costruzione delle decisioni. Le procedure della
democrazia sono piene di contenuto in questo senso. Tra l’altro, l’idea epistemica
della democrazia è storicamente infondata. La democrazia non ci promette dove
andare ma soltanto come dobbiamo camminare, non è uno strumento quindi ma un
fine in se stesso. Questo si porta alla mente Machiavelli, secondo il quale la politica
assomiglia all’acqua che gli argini incanalano per approfittare al massimo della sua
forza e tener sotto controllo le sue potenzialità disastrose. La democrazia procedurale
fa le veci degli argini. La visione epistemica ci porta invece a vedere la procedura
politica come un mezzo per raggiungere certi risultati ovvero per correggere le nostre
opinioni nella ricerca di ottenere risposte vere o corrette ai problemi. Gli epistemici
vogliono una democrazia la cui bontà sta nelle buone leggi che produce. E invece, la
democrazia produce anche decisioni pessime, eppure noi continuiamo a preferirla a
sistemi dispotici che promettono e forse anche producono bone decisioni. Perchè
scegliamo la democrazia invece del dispotismo illuminato? Se noi ci basiamo su
quello che produce, rischiamo davvero di svalutare la democrazia, la quale come
regime politico produce molto spesso mediocri o pessime decisioni.
Tra l’altro, è difficile non riscontrare delle somiglianze tra le teorie epistemiche
della democrazia e la crescente importanza della tecnocrazia o dei tecnici nei
governi democratici contemporanei. Ad esempio, al livello europeo adesso si
parla spesso di ‘output democracy’ intendendo con quest’espressione il fatto che
la democrazia debba essere un regime in grado di raggiungere risultati tanto
legittimi quanto efficienti. Che rapporto c’è tra le teorie epistemiche e questa
visione efficientista della democrazia?
Credo che gli epistemici, a differenza degli efficientisti, partano dal concetto di
eguaglianza. La democrazia dà la stessa voce a tutti perché c’è una base di
uguaglianza di potenzialità intellettuali in tutti. Secondo la visione epistemica, la
procedura è già contenuta nel principio di eguaglianza della capacità intellettiva. Per
gli efficientisti, invece, la situazione è più estrema e, credo, pericolosa perché
trasformano la democrazia in una questione di problem-solving, proprio come accade
nella governance. Il ragionamento sembra sia il seguente: dato che le democrazie sono
incapaci di prendere con certezza decisioni efficaci o efficienti, occorre restringere il
raggio d’azione della scelta politica. Questo è il discorso che emerge per esempio dal
libro Republicanism di Philip Pettit, che discuto nel secondo capitolo del mio libro.
Secondo Pettit, i parlamenti devono diventare silenti mentre tutto il lavoro deve essere
fatto da commissioni di esperti che sanno meglio ragionare imparzialmente perchè
non soggetti al verdetto popolare; ai parlamenti si lascia il voto finale si/no. In
quest’ottica, l’opinione deve essere superata, non può entrare nel gioco deliberativo se
la democrazia deve raggiungere ‘buone’ decisioni. Ma se le decisioni nei luoghi
deliberativi elettivi non sono più rilevanti, allora ci dirigiamo verso una forma di
deliberazione spoliticizzata. Come si vede, il rischio è l’esautoramento dei corpi
elettivi. Ma al di là di ciò, la procedura non ha bisogno di una giustificazione basata
sull’eguaglianza delle capacità intellettive per essere legittima: del resto l’idea di
universalità del suffragio è una risposta radicale contro il principio della capacità
intellettiva. Bobbio ha ben chiarito questo: la democrazia non ha un fine specifico da
raggiungere. Se riempi il fine della democrazia con qualcosa, da quel momento tu
limiti le possibilità dei cittadini, la loro libertà. La democrazia ci lascia quindi la
capacità di sbagliare e rifare decisioni. E’ un sistema aperto di decisione: il regno,
appunto, delle decisioni penultime. Tra l’altro, se la ragione dovesse essere il
fondamento della sovranità allora dovrebbero votare solo i più sapienti (un’idea
permanente nella storia, da Platone fino a Guizot). Invece, è la nostra libertà la
ragione della nostra partecipazione. E’ per questo che credo che, sia la democrazia
epistemica che quella efficientista siano un ossimoro. Nel dialogo platonico del
Protagora c’è un esempio interessante per capire il rapporto tra la democrazia e la
competenza tecnica. In questo dialogo, Platone ci spiega che se il popolo vuole
costruire una nave si rivolge ovviamente ai tecnici competenti e ai costruttori di navi,
non le costruisce da solo. Però è il popolo che decide se quelle navi servono e se
devono essere costruite: questo è il loro potere politico, che risiede appunto nel potere
eguale di decidere non nel potere di decidere bene o correttamente (per cui si possono
delegare competenti o tecnici).
Passiamo a quella che lei considera nel libro la seconda disfigurazione della
politica, e cioè il populismo. In che modo esso si appropria del concetto di volontà
in una democrazia e lo riformula in senso anti-democratico?
Delle tre disfigurazioni, il populismo è l’unico che agisce in maniera radicale anche
sulla trasformazione del concetto di volontà. Per i populisti, l’ideologia del popolo
unisce volontà e opinione: l’opinione più omogenea o quella che ha più largo
sostegno dovrebbe essere eo ipso la volontà o la legge. Mentre la democrazia
epistemica si concentra sull’opinione (per negarla) qua abbiamo a che fare con una
critica serrata al concetto di rappresentanza che svuota la volontà di qualsiasi aspetto
formale e procedurale per essere espressione dell’opinione popolare. Il populismo usa
le procedure solo nella fase della propria affermazione, allo scopo di vincere. In un
secondo momento, il leader populista tenta in tutti i modi di realizzare la propria idea
facendo ad essa coincidere il potere dello stato. Se nella visione epistemica la
democrazia è giudicata dal punto di vista della verità esterna alla procedura, qui è
giudicata dal punto di vista dell’aderenza della procedura a quel che il popolo (ovvero
il leader) vuole che la verità sia. Un esempio di questa visione viene o è spesso venuto
dall’America latina, dove i leader populisti o i caudilli hanno utilizzato il potere dello
stato per favorire la propria costituency e quindi togliere le armi all’opposizione.
Questo modo di concepire il potere, tuttavia, toglie valore alle procedure
democratiche concepire come mezzi al servizio di un’idea di popolo. In questa visione
della democrazia, il liberalismo è espunto. Il vero obiettivo polemico del populismo è
la democrazia rappresentativa, la competizione e il pluralismo partitico, espressioni
del fatto che nella società ci sono interessi diversi e non tutti unificabili sotto un’idea
egemonica di popolo.
La sua critica alla deformazione populista della democrazia ha come obiettivo
principale il libro di Ernesto Laclau, la ragione populista. Qual è la sua critica
principale al libro del filosofo argentino scomparso recentemente?
Laclau è stato forse l’unico pensatore contemporaneo che ha cercato di dare al
populismo una statura teorica autonoma; per fare questo ha sostenuto un’identità di
populismo, democrazia e politica. Quest’ultima avrebbe a che fare con la costruzione
collettiva del sovrano (Laclau non lo chiama sovrano ma popolo). Il popolo di Laclau
è tale nel senso romano di plebe, cittadini meno abbienti, coloro che cercano
nell’unità sotto un tribuno la loro protezione dai potenti. La politica è costruzione
ideologica dell’unità del popolo. Laclau è giungo a questo esito con due mosse
teoriche notevoli: ha prima emancipato il popolo dall’identificazione con la massa
ignorante e la democrazia oclocratica (nella tradizione di Gustave le Bon o Ortega-i-
Gasset); poi, ha emancipato l’azione politica della massa dall’accusa di irrazionalità
che è servita a giusitificare la teoria della scelta razionale, cioè la dissoluzione del
soggetto collettivo immettendo nella politica il ragionamento strumentale economico
individuale. Laclau emancipa la politica dalla razionalità economica ed emancipa la
massa dall’irrazionalità rivendicando l’unicità della ragione politica, che è fatta di miti
e di retorica ed in questo profondamente razionale allo scopo: uniformare una massa
di individui portatori di varie rivendicazioni in un popolo attore collettivo è agire
politico. Laclau rivendica l’originalità dell’azione politica e popolare collettiva
attraverso un processo egemonico. Questo è indubbiamente un importante contributo.
Se non che la politica non è soltanto costruzione dell’egemonia. Oltretutto, come
spiego nel libro, il modo in cui Laclau usa l’idea gramsciana di egemonia è
discutibile. La teoria di Laclau è inquietante perché l’identificazione tra populismo e
politica ci dice che tutto è populismo. Se è così, allora perché parlare di democrazia e
di populismo? Secondo me le cose stanno in un modo diverso. Il populismo per essere
definito ha bisogno della democrazia, esso non è la democrazia. E’ una
radicalizzazione del principio maggioritario che non è abolito ma realizzato e poi
usato in maniera così intensa da rendere l’opposizione nana o inutile. Questo utilizzo
strumentale del principio maggioritario fa del populismo una creatura parassita della
democrazia, che sugge dalla democrazia la linfa e che per questo può corromperla. Il
populismo sta al confine estremo della democrazia, oltre il quale ci può essere
dittatura.
Tuttavia lei distingue il populismo da certi movimenti popolari come gli
Indignados o OccupyWallStreet…
E’ impossibile dare una definizione categorica del populismo. Quel che faccio è
identificare alcune categorie che lo contraddistinguono. Lo distinguo prima di tutto
dal movimento popolare. Un movimento popolare è democratico e non è la stessa
cosa del populismo. Indignados e OccupyWallStreet sono stati movimenti popolari
che non hanno voluto e avuto un capo unico e hanno invece contribuito alla dialettica
democratica dei regimi rappresentativi, anche se li hanno radicalmente contestati. Al
contrario, il populismo è un progetto di governo e di trasformazione della democrazia
da parlamentare e partitica a consensuale e mono-archica. In quest’ultimo caso, il
rischio è di andar fuori dalla democrazia e avere un altro regime.
Qualcuno potrebbe leggere la sua critica al populismo come un tentativo di
mettere sullo stesso piano fenomeni molto diversi come quello quelli del
populismi europei di Le Pen o della Lega Nord e i populismi sud-Americani di
Chavez e Correa. E’ possibile distinguere politiche populiste ‘buone’ e populismi
‘cattivi’?
Non credo. Il populismo è l’affermazione di un maggioritarismo estremo e in questo
senso la distinzione tra populismo di destra e di sinistra non è rilevante; essa è
contingente. La forma populista ha delle caratteristiche costanti. Se dovessero
prendere in mano il potere, i due populismi farebbero le stesse cose. Il populismo è
antiliberale e non sopporta le minoranze politiche. Unisce il popolo contro l’élite e per
raggiungere quest’obiettivo la distinzione tra destra e sinistra non ha grande
importanza.
Nell’ultima parte del libro, lei discute una terza disfigurazione della democrazia
che lei definisce plebiscitarismo. Quali sono le differenze col populismo?
Il plebiscitarismo è imparentato al populismo ma mantiene la distinzione tra
procedure e opinione e le distribuisce tra due gruppi diversi: chi opera nelle istituzioni
(l’elite) e il pubblico che sta fuori. Nel plebiscitarismo i pochi sono eletti e i molti
fanno un’altra cosa, assistono all’esercizio del potere da parte dei primi. C’è una
divisione del corpo sovrano in due gruppi, e quindi la funzione del popolo viene ad
essere passiva in rapporto a quella svolta dai pochi. Il popolo diventa spettatore o
occhio (come lo chiama Jeffrey Edward Green) ma è privato dell’elemento della
cittadinanza attiva. Dato che il popolo è svilito a plebiscito, la figura della leadership
fa tutto il lavoro e le procedure si risolvono nell’andare a votare, nel sancire il leader,
secondo una logica Schumpeteriana, che ben si lega a questa visione della
democrazia. E’ chiaro che nel caso del populismo c’è una presenza dirigistica assai
forte, come nel caso del plebiscitarismo; ma la differenza è che nel primo l’elemento
popolare è più attivo che nel secondo. Nel populismo c’è la massa mobilitata mentre
nel plebiscitariamo ci sono soprattutto gli spettatori che guardano la televisione o
usano Twitter o seguono il leader nelle sue permanenti esternazioni pubbliche. Nel
populismo la voce è centrale mentre nel plebiscitarismo è la vista a farla da padrone.
Nel plebiscitarismo non c’è bisogno che il tema del popolo sia centrale perchè ci sia
un leader. Come dice Bernard Manin, nella democrazia dell’audience i veri attori sono
gli esperti di comunicazione dei partiti che diventano mezzi di costruzione
dell’audience e non sono più strumenti di elaborazione politica.
Nel suo libro, lei spiega che il concetto di Cesarismo (cioè il rapporto diretto tra
un leader carismatico e il suo popolo) ha varie declinazioni e può essere
interpretato sia come una conseguenza del populismo che come una componente
del plebiscitarismo. Quali sono gli elementi di specificità del cesarismo populista
in rapporto a quello plebiscitario?
In effetti, il concetto di Cesarismo assume un aspetto diverso nel populismo e nel
plebiscitarismo. Il leader plebiscitario è un leader carismatico come di insegna Max
Weber, e ha bisogno di essere amato dalle masse e di dare loro quella forma che esse
non sanno darsi da sole. Il leader del nostro tempo tuttavia non cresce nel parlamenro
e nemmeno nel partito, ma nella sfera dell’opinione. Ecco perchè uso l’espressione
plebiscitarismo dell’audience. Questo leader non ha più vita privata e paga questo
prezzo in cambio del potere. Questo nuovo plebiscitarismo pensa che finalmente il
pubblico riesca a controllare il leader senza più doversi affidare a istituzioni non
democratiche, come le corti costituzionali o la dovisione dei poteri o il
bicamenralismo. Si tratta di visione idealistica del ruolo dei mezzi di comunicazione,
che si scontra con l’esperienza recente e recentissima: noi non abbiamo in effetti alcun
controllo o potere sul leader, è la sua immagine che controlla noi; egli vuole il nostro
consenso e di serve di strategie commerciali o mediatiche per ottenerlo. Quel che noi
facciamo è vedere quel che qualcuno ha deciso che dobbiamo vedere. Al contrario,
nel populismo il leader cesarista è un attore politico: c’è unione mistica tra popolo e
leader in tutti e due i casi, ma viene raggiunta in maniera diversa in ciascun caso. Nel
populismo, il leader va in piazza, interagisce col popolo, talvolta si confonde con esso
e in mezzo a questo. Nel caso del plebiscitarismo, invece, la costruzione del leader
carismatico dei media è un’immagine, una costruzione mediatica dai contorni mitici e
sfumati. Il leader rappresenta se stesso: è un esemplare di uno di noi. L’aspetto
estetico è essenziale mentre nel populismo c’è un aspetto politico preminente. Credo
tuttavia che la deformazione totalitaria sia molto più pericolosa nel caso del
plebiscitarismo perché qui il popolo scompare per diventare pubblico. In entrambi, i
corpi intermedi sono comuque esautorati. Esempi di leader plebiscitari sono stati
Bettino Craxi, Tony Blair e, più recentemente Matteo Renzi. Silvio Berlusconi
combinava fattori populisti e plebiscitari, se non altro perchè aveva un apparato
ideologico (liberali contro comunisti) del quale si serviva per gestire la dialettica
“amici”/”nemici”. Ma queste semplificazioni sono semopre stiracchiate; in realtà tra
populismo e plebiscitarianismo c’è osmosi, soprattutto nella società dell’opinione
mediatica.
Il dibattito recente sulla rappresentanza, soprattutto nel mondo anglofono, tende
a valorizzare sempre di più il ruolo costitutivo ed estetico della rappresentanza
come creazione del politico o come interazione dinamica tra pretese
rappresentative e un concetto molto ampio di pubblico (penso ad autori come
Frank Ankersmit e Michael Saward). Questa tendenza, che ha delle similitudini
nel concetto estetico di doxa che lei critica nella deformazione plebiscitaria della
democrazia, radicalizza l’idea che la rappresentanza sia una sorta di sovranità
riflessiva (quello che lei definisce opinione) e, in certi casi, tende a isolarla dal
concetto di volontà da lei descritto, promuovendo forme post-rappresentative e
post-sovrane di democrazia. Qual è il suo giudizio sulla qualità democratica di
queste forme di rappresentanza estetica?
Le forme di rappresentanza estetica esprimono solo una parte del discorso sulla
rappresentanza. La rappresentanza politica è una categoria complessa che ha bisogno
di un’autorizzazione formale, della volontà. Di conseguenza, mi sembra che queste
forme estetiche di rappresentanza siano imparentate alla sfigurazione plebiscitaria
della democrazia la quale, da sola, non qualifica la rappresentanza democratica.
Inoltre, mi sembra che esse non abbiano un’accredito normativo democratico perché
presumono che la rappresentanza sia un’azione autoreferenziale che si impone
acquistando visibilità senza sottostare al controllo dei rappresentati visto che c’è
rifiuto dell’indicazione del rappresentante per via di elezioni. Che dunque il loro
programma le qualifichi come rappresentative ovvero che la rappresentanza avvenga
per auto-legittimazione mi sembra problematico. L’uso della rappresentanza estetica è
un modo per legittimare la rappresentanza degli interessi o dei valori e ci ricorda
Schmitt, quando nei suoi scritti parlava di rappresentanza dell’autorità ecclesiatica
come simbolo di una forma di rappresentanza superiore al consenso dei rappresentati.
Giova ricordare che questo tipo di rappresentanza serve a giustificare l’autorità dei
rappresentanti più che a dare potere ai rappresentati.
L’impatto della globalizzazione sulle democrazie contemporanee è alla base di
una buona parte dei fenomeni di spoliticizzazione e anti-politica descritti nel suo
libro. Crede che la crescita dell’interdipendenza globale e della complessità
sociale e politica della governance transnazionale stiano avendo un impatto
negativo sulle democrazie contemporanee? E come guarda alle diverse teorie che
cercano di dare una risposta democratica ‘cosmopolitica’ al deficit democratico
globale?
Indubbiamente i processi di globalizzazione stanno avendo un impatto fondamentale
sulle trasformazioni della democrazia rappresentativa. Il problema non è la
democrazia ma la condizione statale dell’autorità politica. Tuttavia sono molto
scettica sulla possibilità di uno stato globale come soluzione a questo problema. Chi è
il cittadino di una democrazia globale? Thomas Piketty nel suo ultimo libro parla
molto della necessità di una tassazione globale. Il problema è chi decide che ci debba
essere una tassazione al livello globale? Chi sono gli attori politici e come li si seglie e
controlla?
Un’ultima domanda è sul futuro della democrazia. Dall’ascesa dei populismi
(soprattutto alle ultime lezioni europee) al peso crescente della globalizzazione,
sembra che le democrazie contemporanee siano sempre più incapaci di dare
risposte adeguate alla realtà politica in cui operano. Ci sono secondo lei degli
aspetti prioritari su cui dovremmo concentrarci per cercare di rimediare alla
crisi delle democrazie?
Credo che la cosa più importante da evitare di fronte allo stato di crisi delle
democrazie sia una forma di rassegnazione che può rivelarsi fatale. Certo, è
innegabile che gli strumenti che abbiamo al momento sono insufficienti. Ci sono due
aspetti che ritengo assolutamente prioritari per cercare di arginare la crisi che
contraddistingue le democrazie contemporanee. Bisogna essere più radicali nel creare
le condizioni economiche della democrazia: la cittadinanza deve avere delle proprie
risorse, delle basi economiche auonome dal mercato privato, per finanziare il potere
della volontà e quello dell’opinione (ovvero partiti, campagne elettorali e mezzi di
informazione). Devolvere al privato questi mezzi di formazione della scelta politica
non è la strada migliore per irrobustire la democrazia. La democrazia ha un costo e
costa, e questo non è uno scandalo (è fatta da cittadini ordinari, non da plutocratici o
da nobili!). Questa attenzione alle procedure e ai costi per ben attuarle riporta in
primo piano il valore delle elezioni e mette in guardia dalla trendenza in atto a
restringere il numero e le funzioni degli organi elettivi per designare a comitati di
nominati compiti politici.