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Numero novantuno – Novembre 2013
Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca
Direttore responsabile Sisto Capra
DISTRIBUZIONE GRATUITA
www.socratealcaffe.it
la Feltrinelli a Pavia,
in via XX Settembre 21.
Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30
Made in Italy In Bielorussia
Scarpe d’artista?
GIORGIO FORNI alle pagine 6-7
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
GIOCARE per prevenire
il declino cognitivo
S. PAZZI - V. FALLERI
C. TASSORELLI
E. CAVALLINI
alle pagine 2-3
Patrie e radici di
GIANNI BRERA
SILVIO BERETTA
alle pagine 4-5
uscito in questi giorni
un mio
libretto che si
chiama
“Un’idea di laicità”. L’ha
pubblicato il
Mulino. Al
vecchio Socrate ho solo fatto
un cenno alla faccenda,
perché mi ha subito detto che di questioni come la laicità lui
proprio non se ne intende.
Ha già avuto i suoi bei
problemi con gli déi nella
polis. Ora, come tutte le idee
importanti di valore politico e morale, l’idea di laicità è vaga
ed è esposta a una essenziale
varietà di interpretazioni.
Un concetto di laicità, più
concezioni della stessa. E la vaghezza, anche nel caso
dell’idea di laicità, non ne
riduce l’importanza. Ma un
modo per rendere le nostre
idee almeno un po’ più chiare
può essere quello di lavorare a una singola interpretazione
della nostra idea preziosa ed
elusiva. L’interpretazione che
propongo nel mio libretto è
specificamente politica. Ed è
basata sulla connessione fra la virtù della laicità e la forma
di vita democratica, le sue
istituzioni e le sue procedure.
Più precisamente, sulla
connessione fra la virtù pubblica della laicità e la
natura distintiva della eguale
libertà democratica di
cittadinanza. Può essere
interessante ricordare che,
almeno nella mia prospettiva, (Continua a pagina 12)
L’EDITORIALE
Un’idea
“politica”
di laicità
di Salvatore Veca «Amici di Socrate al Caffè, stateci vicini in un momento di difficoltà economica». Salvatore Veca e Sisto Capra, fondatori del ciclo di incontri che ha compiuto dieci anni di vita e del giornale, lanciano un appello per la salvezza del “Giornale di So-crate al caffè”, il mensile a distribu-zione gratuita da loro diretto, il cui primo numero è uscito nel gennaio del 2003. Nell’incontro di domenica 27 ottobre alla libreria Feltrinelli di Pavia è stata lanciata una sottoscri-zione. Il giornale di Socrate al caffè mira a coprire il budget per il costo della stampa nel 2014. Pubblicare i dieci numeri annui del giornale co-sta complessivamente 5.000 euro, per le sole spese di stampa, poiché collaboratori e direttori non perce-piscono alcun compenso.
Il contributo potrà essere versato direttamente
in contanti o al conto corrente bancario Iban
IT81F0504811302000000044013 intestato a Socrate al Caffè.
In questi primi giorni
hanno aderito al nostro appello gli amici:
Amici dei Musei
e dei Monumenti Pavesi, Silvio Beretta, Paola Bernardi,
Giuseppe Bernuzzi, Luigi Casali, Giovanni Rodolfo Cassani,
Sandro Coda, Paolo Corticelli, Luigi De Carli,
Domenico Gorgoglione, Luisa Lavelli,
Pier Giuseppe Milanesi, Mario Mocchi, Paolo Piazzardi,
Paolo Ramat, Silvano Riva.
IN QUESTO NUMERO
AAAPPELLOPPELLOPPELLO AGLIAGLIAGLI AMICIAMICIAMICI Sottoscrizione Sottoscrizione Sottoscrizione per il nostro per il nostro per il nostro
giornalegiornalegiornale
CCESAREESARE AANGELININGELINI -- CCARLOARLO LLINATIINATI
CARTEGGIOCARTEGGIO 19181918--19471947
Renzo Cremante Nicoletta Trotta
DA PAGINA 8 A PAGINA 12
Pagina 2 Numero novantuno - Novembre 2013
Ecco dove viene distribuito gratuitamente Il giornale di Socrate al caffè
Il giornale di Socrate al caffè Direttore Salvatore Veca
Direttore responsabile Sisto Capra Editore
Associazione “Il giornale di Socrate al caffè” (iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale)
Direzione e redazione via Dossi 10 - 27100 Pavia 0382 571229 - 339 8672071 - 339 8009549 [email protected]
Redazione: Mirella Caponi (editing e videoimpaginazione), Pinca-Manidi Pavia Fotografia Stampa: Tipografia Pime Editrice srl via Vigentina 136a, Pavia
Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002
I PUNTI SOCRATE
ome può un
gioco essere
definito serio? Noi
tutti alla
parola
“gioco”
tendiamo ad
associare solo la sua
componente
ludica e di
intrattenimento, tralasciando
l’esistenza di un obiettivo più generale e importante.
Riuscire ad apprendere
attraverso il gioco non è
soltanto un sogno, ma
l’obiettivo dichiarato dei Serious Games, altrimenti
noti come giochi seri.
I Serious Games sono giochi
elettronici progettati per scopi
diversi dal puro divertimento,
perché simulano esperienze di vita reale difficilmente
riproducibili in altro modo. Il
fine è quello di guidare il
giocatore (player) all’apprendimento di
determinate competenze o alla modifica dei propri
comportamenti quotidiani
imparando con gli esercizi
(learning by doing). Questa
metodologia fa sì che l’utente
si senta protagonista del percorso formativo,
aumentandone il
coinvolgimento.
D’altro canto, “Serious game is a serious business”, come
affermato da Ben Sawyer, co-fondatore della Serious Game Initiative e considerato il
padre di questa tipologia di
giochi. Da una ricerca GFK
commissionata da AESVI
(Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi
Italiani) è emerso che nel
2011 il nostro Paese ha
superato la Spagna,
piazzandosi al quarto posto
tra i mercati europei e avanzando di una posizione
rispetto all’anno precedente.
Il valore del mercato italiano è
pari a 993 milioni di Euro.
Nel 2006, il valore del mercato globale dei
videogiochi era pari a 20
miliardi di euro e all’interno
di questo settore i Serious Games costituivano una
piccola nicchia di valore pari
a 10 milioni di euro. Il rapporto tra valore dei giochi
seri e mercato totale dei
videogiochi risultava un
esiguo 0,05%. Oggi,
nonostante la crisi, il giro
d’affari è notevolmente
cresciuto e si stima che il mercato dei Serious Game valga oltre un miliardo di
euro e costituisca circa il 2%
di tutto il comparto
videogames. L’ipotesi più
verosimile è che questo rapporto cresca fino al 3% nel
2015, per un ammontare in
valore assoluto che tenderà a
superare i due miliardi e
mezzo di euro.
I campi di applicazione dei
Serious Games sono
moltissimi: il primo, anche a
livello storico, è quello
militare. Questi giochi
nascono, infatti, come strumento di addestramento
per i soldati prima delle
missioni, per istruirli sui
pericoli in cui avrebbero
potuto incorrere e insegnare loro come reagire.
Questa particolare tipologia di
giochi può essere usata anche
in ambito scolastico-universitario, così come in
ambito aziendale. A tal scopo,
i Serious Games vengono
utilizzati come strumento di
formazione dei dipendenti per
le competenze più varie: dall’aumento delle vendite
incrociate alla gestione delle
obiezioni a una miglior
comprensione delle esigenze
della clientela. La formazione
aziendale affrontata con questi strumenti presenta
notevoli vantaggi, soprattutto
in termini di costi (di
assunzione del personale che
eroghi la formazione) e di tempo (perché i corsi possono
essere seguiti comodamente
alla propria postazione).
Recentemente, i Serious Games sono stati utilizzati
anche per attività di
marketing: alcune tra le più
famose multinazionali, quali
L’Oréal e Mc Donald’s, li
hanno utilizzati rispettivamente per
selezionare e inserire nel
proprio organico i migliori
talenti e per migliorare la
propria immagine aziendale
attraverso la comprensione dei processi produttivi.
Ultimo ma non ultimo, i
giochi seri vengono utilizzati
anche nel settore salute e benessere. Gli scopi sono
molteplici: dai classici esercizi
di fitness che tutti
conosciamo grazie alla Wii al
miglioramento delle abitudini
alimentari fino ad arrivare a tematiche più complesse. Tra
queste vi è sicuramente la
prevenzione del decadimento
cognitivo lieve (conosciuto
anche come Mild Cognitive Impairment - MCI) e il
trattamento della demenza
nell’anziano.
È proprio in questo contesto
che si inserisce la piattaforma
Smart Aging, sviluppata
nell’ambito di un progetto finanziato dal MIUR dal
Consorzio di Bioingegneria e
Informatica Medica (CBIM) di
Pavia, in collaborazione con
due partner pavesi, ossia l’IRCCS Fondazione Istituto
Neurologico Nazionale C.
Mondino e l’Università degli
Studi di Pavia, Dipartimento
di Scienze del Sistema
Nervoso e del Comportamento, e al CREB -
Centre de Recerca en
Enginyeria Biomédica -
Universidad Politécnica de
Catalunya di Barcellona. Il progetto Smart Aging
contribuisce inoltre alla
European Innovation Partnership on Active and Healthy Ageing (VEDI BOX
NELLA PAGINA ACCANTO). La piattaforma Smart Aging è
stata progettata come un
ambiente di realtà virtuale in
3D basato su Serious Games per la diagnosi precoce e il
self-training di lievi disturbi
cognitivi, in grado di implementare test
neuropsicologici di uso
comune, scientificamente
validati. Il vantaggio è che
rispetto a quelli tradizionali su carta, questi test sono
notevolmente semplificati e
costituiscono uno strumento
di screening più amichevole e
più motivante. In aggiunta,
questo tipo di approccio terapeutico, accessibile per
via telematica, favorisce il
rapido trasferimento nella vita
reale delle competenze
acquisite, permettendo facilità di monitoraggio, controllo e
documentazione degli effetti
del trattamento, ripetizioni
infinite di esercizi,
trasferibilità su larga scala,
contribuendo allo sviluppo di una nuova tipologia di servizi
di e-sanità che rendano
fruibili, via network,
conoscenze ed expertise
cliniche.
Il target del progetto è la
popolazione over 50 che
possa essere considerata a
rischio aumentato di
sviluppare un quadro di demenza franca.
L’ambiente 3D è composto da
un loft, che racchiude in uno
spazio ridotto gli elementi di
base di interazione di un
ambiente domestico: un (Continua a pagina 3)
di Stefania Pazzi, Valentina Falleri - CBIM
Cristina Tassorelli - IRCCS Istituto Mondino Elena Cavallini - Università di Pavia
per prevenire il declino cognitivo
Novembre 2013 - Numero novantuno Pagina 3
PAOLA PAOLA CASATICASATI MIGLIORINIMIGLIORINI Perito della Camera di Commercio di Pavia dal 1988 C.T.U. del Tribunale di Pavia
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angolo cottura, una camera
da letto e un angolo soggiorno (FOTO NELL’ALTRA PAGINA).
La navigazione avviene in
prima persona, ossia la
posizione del giocatore
all’interno dell’ambiente è associata a una telecamera,
indirizzata dal mouse.
All’utente viene quindi
richiesto di eseguire compiti
correlati alle attività quotidiane. I compiti (task)
della piattaforma Smart Aging
sono stati progettati per
valutare diverse funzioni
cognitive: funzioni esecutive (ragionamento e
pianificazione), attenzione
(selettiva e visiva), memoria (a
breve e lungo termine,
prospettica), orientamento.
Ad oggi, i task realizzati sono
cinque: nel primo gioco
l’utente deve trovare una serie
di oggetti all’interno della
cucina, al fine di valutarne la memoria, l’orientamento
spaziale e l’attenzione. Gli
stessi oggetti dovranno poi
essere ritrovati in altri due
giochi, per valutarne la
memoria a lungo termine. Un altro gioco prevede che
l’utente accenda la radio,
innaffi i fiori e schiacci la
barra spaziatrice ogni volta
che alla radio sente la parola “sole”. L’obiettivo è quello di
valutare la capacità di
pianificazione e l’attenzione
dell’utente. Infine, all’utente
viene richiesto di comporre
un numero di telefono cercandolo prima nella
rubrica e successivamente di
accendere la TV: l’obiettivo è
quello di valutarne
l’attenzione e la memoria a
breve e lungo termine.
Un Indice di Valutazione
viene calcolato all’esecuzione
del compito, considerando
come parametri il numero di azioni corrette, il numero di
errori, le omissioni, il tempo
necessario per
completare il
compito, il numero
di selezioni con il mouse e infine la
distanza percorsa
con il mouse. Il
punteggio del Serious Game
viene confrontato
con i test
neuropsicologici
tradizionali al fine
di convalidare la piattaforma Smart Aging come
strumento di
screening su larga
scala per la
valutazione pre-
sintomatica e la diagnosi precoce
di disturbi
cognitivi.
La validazione del
sistema è già stata
avviata: 1000 persone di età
compresa tra i 50
e i 60 anni sono in fase di
valutazione per la diagnosi
precoce di un lieve decadimento cognitivo. I
soggetti con decadimento
cognitivo confermato e/o
demenza neurodegenerativa
rappresenteranno il secondo
gruppo target. Una volta convalidata, la piattaforma
Smart Aging costituirà un
potente strumento di
screening per la diagnosi
precoce dei disturbi cognitivi
su larga scala. Del resto, numerosi studi nel
tempo hanno dimostrato che
l’allenamento della memoria
basata sulla realtà virtuale
fornisce risultati promettenti nella prevenzione del declino
della memoria negli anziani.
In particolare, un training
cognitivo basato sui
videogiochi è efficace nel
ridurre il declino cognitivo nei pazienti con Malattia di
Alzheimer. In accordo con il
recente articolo “Games to do you good” comparso sulla
famosa rivista Nature, “i
neuro-scienziati dovrebbero
contribuire a sviluppare
videogiochi interessanti che
stimolino le funzioni cerebrali
e migliorino il benessere”.
Suonano perciò quasi
profetiche le parole di George
Bernard Shaw che in tempi
non sospetti affermò: L’uomo non smette di giocare perché invecchia ma invecchia perché smette di giocare”.
(Continua da pagina 2)
Il Consorzio di Bioingegneria e Informa-tica Medica (CBIM) è un consorzio no-profit di ricerca fondato nel 1992 dall'Università di Pavia e dagli IRCCS pavesi Fondazione Policlinico San Mat-teo, Fondazione S. Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, Fondazio-ne “Istituto Neurologico Nazionale C. Mondino”, cui partecipano l’IRCCS O-spedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e l’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. Il CBIM opera dal
1993 nella progettazione, sperimenta-zione e validazione di sistemi ICT inno-vativi in sanità. CBIM ha partecipato e coordinato Pro-getti Europei relativamente allo svilup-po di servizi e-health nei FP IV-VI M2DM, Homey, MyHeart e nel FP VII COMOESTAS, coordinato dal Mondino. CBIM è partner del Ministero della Sa-lute e del Consortium Garr per la ge-stione del Sistema Informativo Nazio-nale della Ricerca Biomedica.
Il progetto Smart Aging partecipa al-la European Innovation Partnership (EIP) on Active and Healthy Ageing (AHA), un progetto pilota della Com-missione Europea che mira all’obiettivo ambizioso di aumentare di due anni la vita me-dia in buo-na salute degli euro-pei entro il 2020. A tal fine si p r o p o n e di: miglio-rare la sa-lute e la qualità del-la vita (in particolare delle per-sone anziane), garantire la sostenibi-lità ed efficienza dei sistemi sanitari e assistenziali nel lungo periodo e mi-gliorare la competitività del compar-to europeo con attività economiche e un'espansione ai nuovi mercati. La partnership prevede la collabora-zione tra la Commissione europea, i paesi dell'UE, le regioni, le aziende del settore, gli operatori sanitari e so-ciali e le organizzazioni che rappre-
sentano gli anziani e i pazienti. EIP, la prima Alleanza sorta nell’ambito del programma strategico comunitario Horizon 2020, non si pre-figura come un nuovo programma o schema di finanziamento e non cerca
di sostituire o duplicare la funzione dei pro-grammi e delle inizia-tive esisten-ti. Al contra-rio, essa in-tende crea-re sinergie invitando i programmi esistenti a tenere in
considerazione la prospettiva della domanda svi luppata dal la partnership. Smart Aging è inserito in questo pro-getto attraverso due gruppi d’azione: il gruppo d’azione A3 “Prevenzione e diagnosi precoce della fragilità e del declino funzionale, sia fisico che co-gnitivo, nelle persone anziane” e il gruppo d’azione D4 “Innovazione per edifici, città e ambienti age-friendly”.
Pagina 4 Numero novantuno - Novembre 2013
uando
l’amico e
collega Angelo Stella
mi ha chiesto
di intervenire
alla
presentazione
di questo bel volume su Gianni Brera, e per
giunta di prendervi la parola
in apertura dell’incontro, mi
sono domandato se in lui
prevalesse la ben nota cortesia personale o non,
piuttosto, lo sprezzo del
pericolo. Glielo ho anche
chiesto, seppure in forma
scherzosa. «Ma ti rendi conto
- gli ho domandato - che chiedere a un (quantomeno)
agnostico dello sport come me
di parlare di un giornalista
sportivo è come chiedere a
Marx di intrattenere il pubblico sul mistero
dell’Incarnazione?». E poi ho
io sufficiente familiarità con il
Po, le osterie e la cucina della
Bassa, e con la nebbia che
comunque non posso soffrire? E poi questa mistica delle
radici, simbolismi da
protoleghisti (attribuzione
non del tutto infondata, a
giudicare dal saggio di Sergio Giuntini contenuto nel
volume, ma un po’ contestata
in quello di Andrea Maietti,
un po’ confermata da Brera
stesso quando dice che “La
patria di un uomo è il posto dove è nato”, ma parzialmente
sconfermata sempre da lui
quando proclama che “nello
sport non ci sono stranieri”)?
Non abbiamo proprio alcun rapporto, noi due, e quindi
che posso raccontare? Allo
stadio sono stato due volte in
vita mia cinquanta anni fa, il
ciclismo mi annoia, mi
ricordo a stento di quello che ho mangiato il giorno prima
(mentre “…si conterebbero
meno luoghi dove dormì
Garibaldi di quelli dove cenò
Brera” si legge a p. 96 del
volume) e, come se non bastasse, fra i vini preferisco
lo champagne: e poi cosa
sono questi esoterismi
linguistici (l’ “impasto
linguistico di forte impatto mimetico”, come viene
definita la prosa di Brera a
pag. 262) da Camilleri del
fiume, emulati da schiere di
seguaci, quasi una setta,
comunque una confraternita? Basta, in conclusione, la
circostanza di provenire dalla
stessa Facoltà, seppure a un
bel po’ di anni di distanza, a
giustificare la mia indebita intromissione? Mi rispondevo
di no, naturalmente, né
pensavo sarebbe bastata, a
creare qualche consonanza,
la mia passione, sconfinante
nel fanatismo, per Francesco Guccini, in fondo un Brera di
Bologna e dell’Appennino
emiliano.
Naturalmente mi sbagliavo,
non so se per snobismo mal fondato oppure per ignoranza
dei fatti e ancora più dei testi,
o per entrambi i motivi. Me ne
sono accorto, sempre più
incuriosito, e pentito al trascorrere delle pagine,
leggendo con attenzione (e per
necessità di tempo solo)
alcuni dei saggi raccolti nel
volume, da quello introduttivo
di Angelo Stella, ricco e impegnativo, ai contributi di
Sergio Giuntini che ho già
citato, di Renata Crotti, di
Guido Legnante, di Claudia
Bussolino, di Matteo
Grassano e scorrendo tutti gli altri a cominciare da quello,
piacevolissimo, di Paolo
Brera. Come si intuisce da
questo elenco, non ho
superato, neppure in questa circostanza, proprio tutte le
mie remore idiosincrastiche.
Lo sport, quello esplicito, l’ho
infatti costeggiato senza
praticarlo, l’ho guardato a
distanza, e così i giornali sportivi, e la cucina e il
localismo troppo insistito:
d’altra parte, ogni conversione
che si rispetti è, per la
maggior parte dei convertendi, un processo
graduale e accidentato e solo
a pochi è concessa
l’illuminazione, quando mai la
cercassero.
È nella storia e nella politica, quindi, che ho potuto
individuare qualche canale di
comunicazione, o almeno
qualche punto di tangenza. E
Brera, da uomo di vasta e tutt’altro che superficiale
cultura, la pratica la storia
(“uno storico prestato al
calcio” lo definisce infatti
Giulio Signori), ma a modo suo o, per meglio dire,
seguendo le proprie
inclinazioni, il che gli fa
impastare fatti e personaggi
della storia “ufficiale” con
quelli di qualche sport e di qualche sportivo, e poi con
vicende e figure dei suoi
luoghi, vere o inventate che
fossero, il tutto per il tramite
del suo speciale linguaggio.
Così accade, ad esempio, nella Storia critica del calcio italiano (che è un po’ anche
una storia d’Italia, come nota
Giulia Delogu scrivendo della
Trieste di Brera) dove spicca
la singolare coincidenza fra i moti di Milano di fine secolo e
il primo campionato italiano
di calcio svoltosi proprio l’8
maggio 1898 al Velodromo
Umberto I di Torino (lo mette
in evidenza Matteo Grassano), ma anche nell’Avocatt in bicicletta. Romanzo di cinquant’anni del ciclismo italiano del 1952 (lo ricorda
Alberto Brambilla). E, per
quanto ne ho letto (e ne riferisce con sapiente
diplomazia Renata Crotti, che
si sofferma pure sulle
umanissime pagine di “storia
fantastica” dei Suggerimenti di Francesco Sforza al figlio Galeazzo Maria), accade
anche nelle Storie dei Lombardi, dove Brera si
destreggia per oltre quattrocento pagine fra il
Nume Po, la grandguignolesca
storia di Rosamunda, del
guerriero Almakild, di re
Alboino e dell’esarca Longino, e poi Francesco Sforza e
quindi Manzoni (che “nasce
nel 1785 da amplessi ambigui
e quasi turpi, di cui non ha
verosimile colpa” e che
comunque Brera non ama, come non ama Cesare
Angelini e nemmeno la “forza
arguta e sottilmente maligna”
della sua prosa), e ancora il
“problema storico” della natura umana dei pavesi con
tanto di lode a Maria Teresa e
al Pollack ricostruttore
dell’Università di Pavia e ai
grandi dell’Ateneo, per
arrivare fino ai Cipolla (Carlo e Manlio), a Italo Pietra (“il
Nigra di Enrico Mattei”), a
Cassola e ad Arbasino, per
passare poi a Milano (e alla
sua storia definita “maschile” per contrasto con la “femmina
Italia”) e finire con Carlo
Cattaneo fra gli “altri
lombardi” e con la lunga
carrellata storico-geografica di
“Viaggio nel Nord-est”. Ha ben ragione quindi Renata Crotti
quando ragiona di Brera
storico qualificandolo
“Cantore della Storia”, a
sottolinearne l’intenzione di
occuparsene, della storia, come di un’ “occasione…per
dire che il passato ha un
valore e come tale va
considerato”, cioè per
evocarlo e per fissarlo nel
tempo, ma come trasfigurato
in conformità alle sensibilità
dell’autore, non certo a documenti d’archivio.
Naturalmente di
trasfigurazioni della storia se
ne possono dare tante, e tutte
diverse fra loro per la potenza evocativa che emanano e per
l’emozione che suscitano. Mi
permetto quindi di proporvi, a
caso, qualche esempio
alternativo di narrazione
storica, del genere al quale riservo la mia personale
predilezione. Comincio con il
mio poeta del cuore, il greco
alessandrino Constantinos
Kavafis, vissuto a cavallo fra
Otto e Novecento, e lo faccio richiamando una sua lirica di
ambientazione storica del
1912 intitolata “Re
alessandrini”. Vi si legge fra
l’altro, nella splendida traduzione di Nelo Risi e
Margherita Dalmàti e con
riferimento alla corte di
Cleopatra, allo sfarzo dei suoi
figli e alla pompa dei loro
titoli regali: “Alessandro fu detto re di Armenia di Media e
dei Parti. Tolomeo fu detto re
di Cilicia di Siria e di Fenicia.
Cesarione stava più avanti
agghindato di seta rosa…Di lui dissero più dei cadetti
poiché fu nominato Re dei
Re…Gli alessandrini si
rendevano ben conto ch’era
tutto un frasario da
teatro…Però il giorno era mite e melodioso, il cielo di un
azzurro stemperato…il lusso
dei cortigiani era
finissimo…con tutto che essi
sapevano di certo in quale conto tenere un fatto come
questo e com’erano vani di
senso tutti quei nomi di
regni”. Lo scopo di Kavafis,
che pure ha le proprie fonti
dal momento che si rifà a Plutarco e ad Apollodoro, non
è certo di fare storia
accademica ma di restituire
liricamente la luminosità
esangue di uno spettacolo di corte, e nel contempo la
sensazione quasi visiva della
sua rassegnata insignificanza,
che si accompagna al
presagio del suo imminente
sfacelo. Né fa storia accademica Manzoni nel
trentesimo capitolo de “I
promessi sposi”, con la
straordinaria sequenza delle
truppe imperiali che muovono
all’assedio di Casale, infilata dall’autore fra le ambasce di
(Continua a pagina 5)
Un convegno
e una mostra
all’Università
Patrie e radici
di GIANNI BRERA
di Silvio Beretta
Sabato 28 settembre si è tenuto, nel Salo-
ne Teresiano della Biblioteca Universita-
ria, un breve convegno in ricordo di Gian-ni Brera, fra l’altro laureatosi nel 1943
nella Facoltà di Scienze politiche
dell’Ateneo pavese. L’incontro aveva lo
scopo di presentare un corposo volume
(quasi 400 pagine) dal titolo Il tempo
sperperato. Nel ricordo di Gianni Brera curato, per iniziativa della Fondazione
Maria Corti dell’Università di Pavia, da
Angelo Stella con la collaborazione di
Gianfranca Lavezzi e Giuseppe Polimeni.
Con l’occasione è stata inaugurata una
mostra di scritti e documenti, dal titolo
La (dis)informazione sportiva in ricordo di Gianni Brera (“ritagli cronache immagini
di sport nella storia del Novecento”. La
mostra resterà aperta fino al 31 dicem-
bre.
L’incontro è stato introdotto da Angelo
Stella. Hanno successivamente preso la parola Silvio Beretta, Claudio Gregori e
Renata Crotti. In finale Paolo Brera ha
salutato il pubblico.
IMPRESA CALISTI PAVIA
1928-2013
TRE GENERAZIONI IMPEGNATE NEL RESTAURO CONSERVATIVOTRE GENERAZIONI IMPEGNATE NEL RESTAURO CONSERVATIVOTRE GENERAZIONI IMPEGNATE NEL RESTAURO CONSERVATIVO DI EDIFICI E MONUMENTI STORICIDI EDIFICI E MONUMENTI STORICIDI EDIFICI E MONUMENTI STORICI
Novembre 2013 - Numero novantuno Pagina 5
don Abbondio e le “piume e
penne delle galline di
Perpetua”: “Passano i cavalli
di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di
Anhalt, passano i fanti di
Brandeburgo, e poi i cavalli di
Montecuccoli, e poi quelli di
Ferrari; passa Altringer;
passa Fürstenberg, passa Colloredo; passano i Croati,
passa Torquato Conti,
passano altri e altri; quando
piacque al cielo, passò anche
Galasso, che fu l’ultimo. Lo squadron volante de’
veneziani finì d’allontanarsi
anche lui; e tutto il paese, a
destra e a sinistra, si trovò
libero”: anche qui
l’accostamento fra quei risonanti nomi di condottieri
e le umili vicende private di
tre esuli, unitamente
all’iterazione “passano …
passano … passano”, evoca con qualche ironia, almeno
nella mia percezione, la
potenza livellatrice dei
drammi della storia e, in
fondo, la vanità del potere dei
potenti. Appunto: “passano … passano … passano”. Non è
certo storia di fatti, infine, la
straordinaria affermazione
autoassolutoria con la quale il
“Gran Ciambellano della Storia”, il principe di
Benevento Charles-Maurice
de Talleyrand, introduce con
supremo, affascinante
cinismo la Dichiarazione di
apertura del primo dei cinque tomi di quel monumento alla
dissimulazione che sono le
sue Memorie: “Dichiaro,
innanzitutto, di morire nella
religione cattolica, apostolica
e romana”. Tanti sono quindi i modi di
filtrare gli eventi (veri o
inventati) per raggiungere uno
scopo che poi non è altro che
la proiezione di sé:
“consolare” con lo sfarzo dei nomi, dei titoli e degli abiti il
tramonto di una civiltà,
intrecciare con ironica
solennità i destini dei grandi e
quelli degli umili, “aggiustare” la propria vicenda a uso dei
posteri per captarne la
benevolenza e attenuarne la
severità del giudizio,
impastare infine - come fa
Brera - luoghi e personaggi
per restituirci, idealizzato con
ruvida nostalgica simpatia,
un mondo intero: il suo.
E veniamo brevemente alla politica, tema affrontato con
completezza da Sergio
Giuntini. Dall’ analisi emerge
un Brera “politico” del tutto
coerente con la narrazione
che il nostro ha sempre fatto di sé. Vitali, anzi vitalistiche e
un poco futuriste, le sue
successive e solo in
apparenza contraddittorie
appartenenze, così come alcuni suoi giudizi. Si veda
per tutti l’importante fondo su
“Il popolo repubblicano” del
20 febbraio 1944, nel quale
coesistono nazionalismo, europeismo à la Mussolini e
scetticismo sulla maturità
politica dei cittadini,
“socialmente attivi” per non
più del 20% e mussoliniani
per il 15%. Ancora in un
articolo del 1968 darà del “magnifico giornalista” e del
“vir … roboante” allo stesso
Mussolini, per il quale “l’Italia
ha straveduto, così
confermando la sua natura di
femmina”, ma dichiarerà, come per un pentimento, di
preferire il “frigido ragioniere”
Giolitti. “Salutate l’Impero di
Roma ritornato sui colli fatali
Alta l’aquila forte e mai doma ancor vola a raggiungere il
sol. Giovinezza di sangue e
pensiero All’Italia ridiè la
vittoria Salutate di Roma
l’Impero La grandezza, la fede,
l’amor”, aveva comunque scritto nel 1938, lo stesso
anno in cui - 27.10.1938 XVI
- aveva fatto domanda di
iscrizione all’Università di
Pavia, Facoltà di Scienze Politiche, firmandosi “Giovani
Luigi Brera non appartenente
alla razza ebraica”. Non si
arruola in sussistenza, e
neppure fra gli alpini o gli
artiglieri, ma fra i paracadutisti della Folgore.
Dopo l’ 8 settembre non
mormora né si nasconde, ma
fugge in Svizzera per tornare
a fare il partigiano in Val d’Ossola; si avvicinerà ai
massimalisti di Menotti
Serrati e poi ai comunisti,
licenziando il primo numero
non clandestino de “L’Unità”,
organo di quel partito nelle
valli ossolane. Si definirà
“nazionalcomunista”, sarà
nazionalista e nel contempo
internazionalista, il che gli costerà la direzione de “La
Gazzetta dello Sport”,
collaborerà a lungo con un
quotidiano, “Il Giorno”,
fondato da un ex partigiano
cattolico (Mattei) e poi diretto da un socialista (Pietra) per
sfiorare nel 1983 il Senato
con i socialisti e candidarsi
poi senza successo con i
radicali. Nel ’68 ammira Che Guevara che assimila a un
Pisacane “… molto più
fortunato agli esordi, ed
egualmente infelice”. Si è già
detto del Brera protoleghista,
antimeridionalista e inventore di una supposta Padania,
nonché sostenitore della
“superiorità padana” nel
calcio. In tutto questo tempo,
e malgrado che le occasioni non gli fossero certo mancate,
non sparerà mai un colpo. Di
Italo Pietra, capo partigiano,
dirà infatti: “Non avere mai
ucciso nessuno di sua mano è
per me un vanto che lo onora come socialista e come
pavese. Neanch’io, per dir
vero, ho mai sparato a un
uomo, e forse per questo sono
indotto ad ammirare Pietra…”. Ci si domanda che
peso dare a quelle che hanno
tutta l’apparenza di essere
contraddizioni di Brera nel
contatto con gli eventi della
politica, ma che sono, forse, soltanto la proiezione esterna
di una prorompente,
vitalissima personalità:
questa, all’occasione (e le
occasioni sono state diverse, e
fra loro antitetiche) non ha
opposto resistenza alle
tentazioni dell’adesione
entusiastica, mai tuttavia trasformandosi in
comportamenti che pure
sarebbero stati, e per molti
sono stati, ben giustificati
dalle circostanze. Altri agì
diversamente. Ci si domanda sempre come ci si sarebbe
comportati al posto di un
altro. Me lo domando anch’io
senza sapermi rispondere.
Tuttavia, quando alzo lo sguardo dalla mia scrivania,
leggo alla mia sinistra,
incorniciato, il numero dell’
”Avanti!” del 29 aprile 1945. Il
titolo, a caratteri cubitali è
“Mussolini giustiziato” e il sottotitolo “Anche Pavolini,
Farinacci, Mezzasoma,
Barracu, la Petacci, Zerbino e
Ruggero Romano hanno
pagato con la vita”. L’editoriale reca il titolo
“Giustizia è fatta”. Leggo il
tutto senza un particolare
compiacimento, ma con
adesione sì.
E vengo infine, anche se brevemente e forse
contravvenendo a quello che
ci si aspettava da me, al
Brera studente di Scienze
politiche. A questo proposito il contributo di Claudia
Bussolino è del tutto
esauriente, ben restituendo
anche l’atmosfera di una
Facoltà di recente istituzione
e che si apprestava di lì a poco (ma Brera ne era già
uscito) ad attraversare
momenti di passeggera
difficoltà, la soppressione con
aggregazione ad altra Facoltà,
documentati anche in questa mostra. Qui troviamo
testimonianza del fatto che
all’onorevolissimo curriculum
universitario di Gianni Brera
contribuirono nomi ben noti della vita culturale
dell’Ateneo, la cui notorietà
aveva per altro già valicato (o
lo avrebbe fatto di lì a poco) i
confini di Pavia. Lo vediamo
già dalle tre tesine che Brera discusse il 27 ottobre 1942-
XX: quella su “L’Egitto nel
passato e nell’avvenire” con
Franco Borlandi, uno dei
maestri di Carlo Cipolla e poi
Prefetto della Liberazione,
allora docente di Storia e
politica coloniale prima di
insegnare Storia economica;
quella su “La Turchia nel Medio Oriente” con Raffaello
Maggi, allora docente di
Politica economica e studioso
non poco eclettico, che a
Pavia si era guadagnato ben
tre lauree, era stato allievo di Camillo Supino, aveva
conseguito la libera docenza
in Economia marittima, si era
occupato di industria
cinematografica e di industria cotoniera (era nipote di Luigi
Candiani, pioniere
dell’industria tessile
lombarda) per passare, sotto
l’influsso di Giovanni
Demaria, all’economia teorica trattando, ad esempio,
dell’indeterminazione in
economia fino a occuparsi di
psicanalisi e scienza
economica, soprattutto nella successiva sede di Modena e
poi in quella, conclusiva, di
Bologna; quella infine su
“Garibaldi e Cavour nel 1860”
con il grande Franco
Valsecchi, con il quale per altro non aveva sostenuto
l’esame di Storia moderna,
essendo Valsecchi arrivato a
Pavia nel 1942 da Palermo, e
dopo avere insegnato a Lipsia e a Vienna, città nella quale
aveva anche diretto l’Istituto
italiano di Cultura. Ma
l’incontro più scoppiettante
deve essere stato senz’altro
quello con Vittorio Beonio-Brocchieri, studioso,
giornalista, scrittore e
intrepido viaggiatore che dal
1939 ricopriva la cattedra di
Storia delle Dottrine politiche
e con il quale Brera discusse una tesi di laurea (orale) su
“L’Utopia di Tommaso Moro”.
Non so quanti di voi sanno
che, a un giovane collega che
rispettosamente gli faceva osservare che, in fondo, un
po’ fascista lo era pure stato,
Beonio domandò di rimando:
“Ma che colpa ne ho io se il
fascismo si è
‘brocchierizzato’?”. Se la cavò così. Con chi altri avrebbe
potuto laurearsi uno come
Brera?
Silvio Beretta
(Continua da pagina 4)
NELLE FOTO
NELL’ALTRA PAGINA
Istantanee di Gianni Brera
IN QUESTA PAGINA
1. Processo alla tappa
con Sergio Zavoli e Bruno Raschi
2. Intervista a Fausto Coppi
3. Con Gianni Rivera
4. Con Alberto Lattuada
5.Con Raimondo Vianello e O-mar Sivori
6. Con Azeglio Vicini ed Enzo Bearzot
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Pagina 6 Pagina 6 Numero novantuno - Novembre 2013 Pagina 6 Numero novantuno - Novembre 2013
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
ono ad allestire la nostra collezione di accessori di Moda Italiana nelle bacheche della più bella Biblioteca mai vista (NELLE
FOTO). Dall’esterno, soprattutto la sera, quando è illuminata da migliaia di led che cambiano tinta (come nel famoso grattacielo di Barcellona firmato Jean Nouvel) sembra di vedere un’astronave atterrata nelle steppe e tra i boschi bielorussi. L'interno non è da meno, tutto scale e ballatoi di cristallo, come le coperture che lasciano filtrare la grigia luce naturale di questo Paese. Tavoli di consultazione, ognuno con un computer dotato di stampante. Piante verdi ovunque, a separare isole per gruppi di lavoro, o pronte a ospitare incontri e letture o conferenze. Tanti libri, i luminosi scaffali. Strana cosa in un tempo che pronostica la fine della pagina scritta a favore del libro elettronico. Quasi una bestemmia. Siamo lontani dalle atmosfere tipo “Il nome della rosa”, ma l’effetto è sempre, diversamente stupefacente. Ad annoiati custodi degli accessi si oppone la freschezza dei giovani e anziani utenti. Silenziosi si muovono tra i tavoli, diretti al bar o al ristorante panoramico al settimo piano. Ai bagni più puliti e profumati che io ricordi. O alla sauna/ bagno turco (che domani voglio provare!). Corridoi circolari che ospitano mostre di grafica e di fotografia. Per un mese, quasi una provocazione, nelle bacheche del
terzo piano abiteranno le creazioni di Ferragamo e Gucci, di Roberta di Camerino e Prada, di Pfister, Ken Scott e Sorelle Fontana, Armani, Ferré e Versace. Iniziando, a giustificare il titolo (cento anni di made in Italy) … con la presentazione dei pezzi di inizio XX secolo. La trousse in corno di bue e argento del milanese Ravasco, con le borsettine da sera in maglia d' argento e porta monete/pillole agganciati. Passando a borse di rettile pregiato (coccodrillo o lucertola) anni 30/40 di pelletterie ignote, sino ad arrivare ai pezzi Ferragamo anteguerra. Subito dopo Venezia e Udine (molto tratto dal guardaroba di mia suocera ...), con le piccole borse in seta o broccato di Rubelli e tanti piccoli capolavori di quella donna fantastica che fu Roberta di Camerino. Velluti stampati con cinghiette e bottoni, asole e falsi taschini. Invenzioni di proto-design pre industriale, che lo anticipavano.
Con le mitiche “Bagonghi”, care a Grace Kelly e a Soraya di Persia, Bottega Veneta d'epoca, siamo sempre negli anni 50/60. Poi Pucci e Gucci, con Gherardini e altri marchi dell'eccellenza fiorentina. Salendo in Lombardia con le creazioni di poco successive di Prada, arrivando alla Vigevano di Pfister e Cesare Martinoli. Gloriose fantasie del primo per le dive sue ospiti, ma pure per tante icone dello spettacolo quali Elton John o Rudolf Nureyev, Barbra Streisand e Nancy Sinatra. Sino agli anni 80/90 con le Meduse di Versace, i finti cocco (drillo) di Ferré animalista, le “gipsy bags” D&G tutte cernierine e frange country. Qualcosa di Armani / Borbonese / Trussardi e un nucleo importante di calzature Moreschi, da poco arrivate in collezione. Esempio anch’esse del ben fatto italiano, che riprende l’intreccio prezioso delle pelli e la loro allegra colorazione,
anche per l’uomo. Nel poster che presenta la mostra le icone dell’architettura e dell’arte italiane si sposano con quelle della nostra moda. Accoppiamento quanto mai felice e “azzeccato” (… direbbe Tonino ...), sintesi efficace, corretta e convincente. Un eccellente invito, anche turistico, al nostro Paese, sulla scorta di quello 1951 del marchese G. B. Giorgini. Il gentiluomo inventore della moda italiana. Che invitava alle sue sfilate fiorentine con Alitalia targata Pucci e Sorelle Fontana. In compagnia del David e della cupola di Brunelleschi.
i vivono meno di due milioni di abitanti, ma la città è ricca di verde e di piccoli laghi, molto frequentati con la bella sta-gione. Minsk fu letteralmente rasa al suo-lo dai nazisti in ritirata dalla Russia e rico-struita mattone su mattone da corvée di cittadini, moltissime le donne, come docu-mentato da una ricca, un poco agiografi-ca a tinte eroiche, raccolta di manifesti
che vedo al museo di storia, sede di una nostra mostra anni or sono. Vengo a salutare il direttore e i suoi gentili collaboratori, prima di andare alla Biblioteca Nazionale, fresca di apertura (2009). Magnifico edificio di cui pubblichiamo alcune vedute, lontano dal centro città, cui è ben collegato da mezzi pubblici, sulla strada per l'aeroporto. Arteria grande e maestra, la vec-chia Mosca/Berlino, intorno alla quale la città è stata ricostrui-ta. Con un frullato di stili singolare, in qualche modo disorien-
tante. Moltissimi edifici mimano al meglio l'architettura neo-classica ottocentesca, con un profluvio di colonne doriche, ioniche e corinzie, metope e frontoni da tempio greco/romano, miste a cupole di rame ottomane. Ma pure di sapore francese, alla Barone Hausmann, tanto per confondere il visitatore, che apprezza i colori e la pulizia perfetta di strade e facciate. Viene da pensare, con buona pace di Sgarbi e “Bollito” Oliva, che i writers siano … in campo di lavoro. A col-
tivare patate e barbabietole, o impegnati in altri lavori social-mente utili. La visione da cartolina si interrompe spesso di fronte a possenti edifici razionalisti, di stile sovietico puro, magniloquenti anche quando non celebrativi. Vuoi residenza popolare o blocchi di uffici pubblici, accademie, centri cultura-li. Molto di nuovo però si è costruito e si sta facendo. Molti grattaceli e alberghi, anche lussuosi. A breve si aprirà una sorta di mercato comune tra paesi ricchi di risorse minera-rie e petrolifere, di gas. Con previsione di grande sviluppo e crescita economica, cui la città si prepara per tempo. Cartina di tornasole il traffico, intenso ma ben regolato, di automobili nuove e spesso di lusso. Accanto però agli autobus, spesso elettrici, con cui si spostano, come in ogni parte del mondo, i meno ricchi. Dal mio ultimo viaggio molto è cambiato. Il nu-mero di bar/ristoranti/negozi di moda, tutto a segnare una crescita visibile del tenore di vita dei bielorussi. Di molti di loro, almeno.
MINSK Ritratto di una città che cresce
di Giorgio Forni
Novembre 2013 - Numero novantuno Pagina 7
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
on per feticismo, sia chiaro, ma il soggetto mi ha incuriosito da tempo. Dagli anni del pop, quando Attilio Forgioli ne
aveva fatto un tema/mantra del proprio lavoro, forse ispirato da Iannacci e dalla sua famosa canzone. Poi incontro un maestro del vetro muranese, Angelo Rinaldi, e non posso evitare di acquistare per la nostra collezione di sculture luminose la sua “cinderella”. Un fascinoso blocco di vetro cristallo retro illuminato su cui sono incise al diamante e colorate a smalti … scarpette da “favola”. Ma non ho ancora scarpe di Lodola ... Ho la sua Italia/stivale, donataci per festeggiare insieme i 150 anni dell'Unità del nostro disgraziato/straordinario Paese ... Bene. Proseguiamo. Porto Miss Italia al Ministero degli Esteri per la spedizione a Lima/Perù … e un alto funzionario mi presenta la pittrice romana Nora Nicoletti, di cui ha la “stanza” piena di opere coloratissime. Frutta e verdura e fiori. Scherzando, mi lascio scappare la battuta infelice … “chissà se la signora si dipinge così anche le calzature …”. Il mese successivo mi
arriva a Sartirana un pacco. “Clarabella e nonna papera: due mie scarpe dipinte come pensavi?”. Così recitava il simpatico biglietto dell’autrice/donatrice. Siamo
diventati amici e le sue scarpe, anche se un poco sformate, attirano e divertono i visitatori delle mostre in cui le esponiamo. In compagnia dei prototipi “con posate da tavola” di Franco Moschino e con le crudelissime creazioni (da morir dal ridere l’effetto ragionato ...) di Silvia Levenson. L’artista italo/argentina usa il vetro cristallo o satinato. Ma lo riempie di chiodi e coltelli ... “Bambina cattiva” si chiama il paio di scomode pantofoline! Mentre la bag da autodifesa … porta il titolo “sono una signora!”. “AMOR”, invece, si chiama la borsa in tessere vitree muranesi legate da filo spinato … Tutto uno zucchero! Adoro il lavoro dell’amica Levenson! Devo trovare denari per trasformare il prestito in acquisto. E non fermarmi a questi tre pezzi sublimi! Conosco Silvia a casa Giandelli/Gagliardi e trovo un’altra opera impensata di Pilù. Un paio di suole di corda consumate, ma consegnate ai posteri da una colata di vetro, sicura collaborazione dei “due”! Ricordo di viaggi è il titolo spiritoso, quasi romantico. È un attimo … rubarle per la mostra di Bangkok ..., per la vetrina degli artisti. Arricchita poi da un paio di “scarpescultura” di Stefano Bressani (che veste le sue creazioni di tessuti tecnici). Un nuovo filone si è aperto. La famiglia delle collezioni cresce, con i relativi problemi. Di mantenimento! Anche però con un interesse più vivace e divertito che i visitatori hanno dimostrato pure a Minsk. Per
quanto gli occhi dei più, splendide ragazze o bei giovanotti, fosse polarizzato dalla serie di modelli Moreschi, alcuni storici, altri attuali, che chiudevano, su basi bianche, la
balconata concessaci dalla Biblioteca Nazionale. Nuovissima, 2007, ma fascinoso contenitore di saperi come … quella in cui si muoveva l’abate Connery …
SCARPE D’ARTISTA? CI TOCCANO ANCH’ESSE, PER BACCO!
PIER GAGLIARDI, RICORDO DI VIAGGI 2012
NORA NICOLETTI, NONNA PAPERA
E CLARABELLA
ATTILIO FORGIOLI
SILVIA LEVENSON
ANGELO RINALDI, CINDERELLA
di Giorgio Forni
MOSCHINO Sotto: ANDREA PFISTER, SHOE
BAG
(1980. PER IMELDA MARCOS)
Pagina 8 Numero novantuno - Novembre 2013
e pagine del
dialogo epistolare che
vede ora la
luce,
illustrato con
cura pari alla competenza
da due
provveduti ed
esperti cultori di cose
angeliniane e linatiane quali
Fabio Maggi e Nicoletta Trotta, hanno, fra altri molti,
il merito di richiamare
l’attenzione su due scrittori
novecenteschi accomunati,
nonché da molteplici affinità e ragioni e convergenze di
poetica e di stile e, insomma,
da una pur discorde
concordia, anche da questa
circostanza: che il trascorrere
dei decenni, se non sottratti del tutto alla tenacia della
memoria locale o alla
devozione immobile e
nostalgica delle piccole patrie,
li ha però inesorabilmente allontanati, come
dall’ordinaria circolazione
libraria, così, fatte salve
numerate eccezioni, dalla
corrente attenzione critica;
ma ai quali è pur doveroso assegnare un posto, quale
che sia, di autonoma
evidenza, di distinta
riconoscibilità, nella storia e
nella geografia letteraria,
specificamente lombarda, della prima metà, in
particolare, del secolo che
abbiamo alle spalle. È lecito
attendersi che questo volume
possa fornire al riguardo qualche utile argomento,
qualche novità documentaria,
magari anche qualche
vantaggiosa indicazione di
ordine più generale.
Per più di due terzi inediti (parte custoditi nel Fondo
Manoscritti dell’Università
di Pavia, parte felicemente
riesumati, non senza
laboriose indagini, nell’archivio privato che
tuttavia conserva le carte
linatiane), il corpus dei
documenti superstiti qui
raccolti, cronologicamente
ordinati e commentati
con puntuale attenzione ma
anche con lodevole misura,
assomma a 66 unità epistolari, fra lettere, cartoline
postali e cartoline illustrate,
distribuite in ugual numero
fra i due corrispondenti: ma
con una bilancia, occorre
subito aggiungere, soltanto casualmente in pareggio, dal
momento che la perdita
capricciosa e accidentale o la
indisponibilità di un numero
imprecisato di elementi, specie di data più alta, spezza
e interrompe in più punti la
continuità e il regolare
contrappunto della trama
epistolare. E se Linati, con la
sua grafia arruffata e disadorna, «a zampa di
gallina», come è stato detto,
sembra prediligere, come
supporto della
comunicazione, la modesta
‘cartolinetta’ postale (in ossequio a un costume
generazionale di discrezione,
di frugalità, di parsimonia,
ma anche di celerità e di
fretta, che caratterizza, com’è noto, tanta parte della
corrispondenza letteraria
novecentesca), la carta da
lettera, quand’anche non si
tratti di «quella bella carta
che schiocca ad ogni voltar di foglio, con uno sgrigiolio
di melograna acerbetta che si
frange sotto i denti» decantata
nel carteggio, meglio si
direbbe convenire alla stilizzata eleganza calligrafica
di Angelini, ad una calligrafia
«che definisce - ha osservato
una volta Gianfranco Contini,
fissando così, come di
sfuggita, le coordinate essenziali di un nitido
paesaggio storico - alcuni
grandi stilisti dei suoi anni, in
ordine cronologico Emilio
Cecchi, Giuseppe De Robertis (per accidente altro serriano,
che travolse Angelini nel
comune trasporto per Serra),
Roberto Longhi».
Completa opportunamente il
volume una corposa, succosa appendice che riunisce i saggi
critici, più o meno dimenticati
e dispersi, che i due
corrispondenti, trasferendo, si
può dire, il dialogo dalla discrezione della
comunicazione privata
all’informazione e alla
circolazione pubblica, si sono
vicendevolmente scambiati
nel corso di quasi mezzo secolo. Più volte nel carteggio
Linati accenna al più giovane
interlocutore come a
«inestimabile, preziosissimo
collaboratore […], così pieno
d’amore, di finezza, di gusto», a «giudice raffinato», fino ad
assegnargli, in una lettera del
1921, il titolo di «mio Chirone
letterario». Spicca dunque in
questa sezione, per quantità, qualità e impegno, la parte di
Angelini, a cominciare dal
saggio più antico e
insolitamente sovrabbondante
e circostanziato, quasi una
compiuta monografia, pubblicato dapprima, nel
1921, in un fascicolo de «Il
Convegno» e poi raccolto,
due anni dopo, nell’opera
prima di Angelini, Il lettore provveduto: un testo che
avrebbe dovuto inaugurare
una Conversazione sui lombardi di respiro più largo e
generale e che bene
rappresenta, con evidenza e
puntiglio persino didascalici e, beninteso, anche nelle sue
manifeste contraddizioni e nei
suoi limiti, il lampeggiante
sperimentalismo frammentistico e l’ardente
apostolato critico della prima
stagione angeliniana. E la
rilettura di saggi che a
distanza anche di molti anni
ripropongono, con eventuali manipolazioni, integrazioni
e varianti, intere pagine,
paragrafi, porzioni testuali o
formule già usati in
precedenza, illumina, oltre tutto, su un aspetto non
secondario dell’officina
letteraria di Angelini, non
ignoto, immagino, ai suoi
lettori. La sua lunga fedeltà al
congeniale conterraneo si afferma, infatti, attraverso
modalità di lavoro
sperimentate con alta
frequenza e che fanno del
riuso uno strumento
peculiare della scrittura
elzeviristica, fra prosa d’arte e giornalismo. È una tecnica di
‘cannibalizzazione’ che lo
scrittore pavese, del resto,
condivide con altri stilisti e
prosatori d’arte del suo tempo: penso, fra le altre, alle
prove tanto più spregiudicate
di Bruno Barilli, portate
qualche decennio fa alla luce
dalla inedita testimonianza dei Taccuini di lavoro. Valga
per tutte, a titolo d’esempio,
questa sola citazione che
estraggo dal «ritratto celere»
pubblicato originariamente,
nel 1943, su «Primato» con il titolo Linati (e ristampato
l’anno seguente da Garzanti,
con uguale intestazione, nel
volume Carta, penna e calamaio). A proposito de I doni della terra scriveva
dunque Angelini:
Pagine monde, battute, tirate a perfezione con l’istinto e il controllo proprii dei lombardi, consapevoli che ogni parola se la devono conquistare con patimento. Brevi, linde costruzioni, in ognuna delle quali s’agita la nuvola d’una querce, canta un motivo d’acqua o indugia un novembre lumeggiando di kaki. Sensazioni scontrose, inedite, con un che di ingrandito da una fantasia inquieta che lo fa spesso dirupare verso un ingenuo mito.
Con significative varianti la
pagina sarà incorporata, a
distanza di quasi un quarto di
secolo, nell’articolo Fedeltà lombarda, apparso sul
«Corriere della Sera» del 24 ottobre 1968 e poi raccolto
nel volume Cronachette di letteratura contemporanea (Bologna, Boni, 1971):
Prosette monde, agghindate, ruminate, tirate a perfezione con la lima e l’istinto di pulizia proprio dei lombardi; nelle quali si agita la nuvola d’una quercia miniata dall’autunno, o indugia un novembre lumeggiando di kaki, o trema un tramonto sospeso in una lustra aria di colli, o una limaccia che fa sua strada, dando tempo al tempo; e, su tutte, che le impreziosisce, una vaga malinconia dell’anima.
La corrispondenza abbraccia
l’arco cronologico di un
trentennio. Risale infatti al 10 marzo 1918 la tessera più
antica del mosaico, una
cartolina postale intestata
«Battaglione Intra» - dislocato,
in quegli ultimi mesi del conflitto, nella Zona di
Guerra, più precisamente
nella Val Braulio, presso le
Cantoniere dello Stelvio - e
indirizzata dal trentunenne
Tenente Cappellano degli Alpini don Cesare Angelini al
più anziano «Avvocato
Tenente Signor Carlo Linati»,
addetto, come ufficiale del
Genio, alla censura telefonica presso il centralino della 39ª
Compagnia Telegrafisti, di
stanza a Bassano.
L’occasione, un «commosso
ringraziamento» per il dono –
che è poi una parola chiave,
(Continua a pagina 9)
Pubblicato da Edizioni
di Storia e Letteratura il volume Cesare Angelini - Carlo Linati
Carteggio 1918-1947
A cura di Fabio Maggi
e Nicoletta Trotta,
con il contributo dell’Associazione Alunni
Almo Collegio Borromeo
Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo il testo della Prefazione di Renzo Cremante e, a seguire, la Nota al Testo di Nicoletta Trotta
Il libro contiene, oltre al trentennale
carteggio, un’Appendice
dedicata a Scritti del letterato
pavese Cesare
Angelini e dello scrittore comasco
Carlo Linati
di Renzo Cremante
Cesare Angelini (a sinistra) e Carlo Linati (a destra) .
Novembre 2013 - Numero novantuno Pagina 9
ricca di significati e carica di sfumature e di armoniche,
per entrambi i corrispondenti
- del penultimo libro di Linati,
I doni della terra («così
saporosi e terrosi. Così
grandi»), pubblicato dallo Studio Editoriale Lombardo di
Mino Facchi nel 1915.
Mentre a suggellare l’intero
carteggio, essendo ignota
l’esistenza dell’eventuale
responsiva, è un’altra cartolina postale, spedita da
Rebbio il 9 maggio 1947 e
indirizzata al Rettore
dell’Almo Collegio Borromeo
di Pavia, con la quale Linati discute il progetto di
un’antologia dei propri scritti
da affidare alle cure
maestrevoli dell’amico e ai tipi
di Mondadori, verosimilmente
per la collana «I prosatori dello Specchio». Ma anche il
clima editoriale, nel concitato
trapasso di quel secondo
dopoguerra, stava
rapidamente cambiando. Il progetto, com’è noto, non
venne mai realizzato: la
lettera, del resto, precede di
poco più di due anni la morte che avrebbe colto lo scrittore
lariano, nella solitudine della
fiabesca residenza di famiglia,
a pochi chilometri da Como,
l’11 dicembre 1949. Ma è
bene precisare che la massima parte della
corrispondenza - più dell’80%
del totale - risulta scambiata
nello spazio di soli otto anni,
fra il 1918 e il 1925, e che
circa un terzo dei documenti, senza contare quelli andati
perduti, appartiene al triennio
1918-1920. Su quella
stagione, fra le più intense
e felici per entrambi gli scrittori, converrà soffermarsi
brevemente.
A quarant’anni, Linati ha alle
spalle una carriera letteraria
ventennale e ormai
consolidata, con più volumi all’attivo già passati al vaglio,
se non ancora di un largo
pubblico, però dei critici
nuovi, da Cecchi a
Bontempelli, da Papini a Boine; Angelini, da parte sua,
potendo vantare anch’egli, al
pari del corrispondente, una
collaborazione con la «Voce»
bianca che gli aveva
assicurato qualche notorietà negli ambienti letterari, ha
appena finito di compiere il
suo fruttuoso apprendistato
letterario nel quinquennio
trascorso a Cesena sotto il segno luminoso di Serra. Ed è
proprio la memoria del «primo
critico puro», quale egli l’aveva
appunto delineato con
appassionata
immedesimazione nel numero commemorativo della «Voce»
dell’ottobre 1915, ad orientare
fin dall’inizio, prima ancora
della minuta attenzione
ermeneutica e critica che seguirà, la sua immediata
apertura di credito, la sua
istintiva simpatia e fiducia nei
confronti di «un artista
purissimo tra i puri» e della
strenua ricerca di stile, «su la linea della bellezza autentica
e pura», sottesa, nella
fattispecie, a I doni della terra (quante volte ritornano, in
queste lettere, termini quali
‘purezza’, ‘purità’, ‘purificazione’, ‘mondizia’
ecc., con tutti i relativi
aggettivi):
E penso, con malinconia, alla gioia consolata con la quale li
avrebbe letti e ne avrebbe parlato Serra, che guardava a voi come a custode della poesia; candido. Serra. Mi sovviene di alcune parole piene di chiara fiducia, che un giorno nella Malatest[iana] di Cesena, egli mi disse a vostro riguardo. Se un giorno, dopo la guerra, non mi crederò del tutto indegno, le ripiglierò io, quelle sue parole. Oppure non le ripiglierò mai. Me le terrò chiuse, con dolce egoismo, dentro il cuore profondo: perché mi aiutino a meglio comprendervi e a meglio amarvi. E sarà meglio.
Così, nei disagi della vita
militare, fra un trasferimento
e una sosta («Siamo in marcia da quattro giorni; passando
dalla Valtellina alla
Valcamonica, dove ci aspetta
un paesino su l’Oglio», lettera
del 31 agosto 1918), scorrendo «nella confidenza
d’un manoscritto», che
l’autore gli ha voluto subito
trasmettere per riceverne
suggerimenti e consigli, il
futuro discorso liminare di Nuvole e paesi, il lettore
provveduto vi ritrova «certi
modi di voltar via la frase e di
sciogliere il proprio sospiro
che fan pensare, con piacere,
a Serra - nell’Esame, che ha pure, in qualche pagina una
disamina dei nostri malanni
spirituali italiani» (lettera del
25 settembre 1918). Ma la
lezione perenne di Serra,
tante volte menzionato sia nel carteggio sia nei saggi
dell’Appendice, travalica
naturalmente, per Angelini, i
confini dello spazio letterario.
Né in linea di principio, né in linea di fatto, può già
trattarsi, per lui, di questione
semplicemente di letteratura.
Di là dalle ricognizioni
strettamente formali,
linguistiche, intertestuali, dalle analisi circostanziate e
spesso felici esibite nel suo
esercizio critico, sulla prosa
linatiana - ma lo stesso discorso potrebbe valere
anche per altre applicazioni
critiche angeliniane di quegli
anni, a cominciare da Pascoli
-, sulla «incisività di vocaboli
incorrotti che sorprende e turba e dà l’intorpidimento di
certe contemplazioni: che è
come la morte del corpo per la
prepotente vita dello spirito»
(lettera del 25 settembre 1918), il sacerdote serriano
sembra proiettare la tensione
irrisolta di un’inquietudine
esistenziale tutta personale e
segreta. L’amicizia con Linati
trova forse il suo primo impulso, la propria
problematica motivazione, e
insieme i termini degli
sviluppi futuri, nel solco di
una tormentata ricerca avviata appunto negli anni
cesenati e intesa a realizzare
con salda e ferma
determinazione e ognora più
lucida consapevolezza la
difficile, pericolosa identità di vocazione e devozione
religiosa e vocazione e
devozione letteraria, a
sperimentare con rischioso
ardimento il paradosso o la scommessa per cui soltanto
attraverso un esercizio
assolutamente
incontaminato, libero e
spregiudicato dello stile, cioè
di se stessa, la letteratura può ritrovare i propri
fondamenti etici, «sciogliendo
dalle parti caduche e
transitorie quelle che sono
parole di vita eterna, bastevoli
alla nostra gioia e alla nostra salvezza» (per citare una
pagina del saggio Pascoli e Croce, apparso sulla «Voce»
nel 1915).
Si spiegano, allora, certi
imprevedibili abbandoni confidenziali, certe
confessioni sfiduciate, certi
disincanti, che non
appartengono agli stereotipi
forse più vulgati di Angelini, e
che egli non esita tuttavia a consegnare a un amico di
penna ancora pressoché
sconosciuto, al quale
continua a rivolgersi
con il pronome allocutivo di terza persona (si
incontreranno per la prima
volta a Milano, nelle stanze
del «Convegno», nel 1920,
mentre il Tu non compare nel
carteggio che a partire dal
1942): «perché io sono un
uomo di poche letture e di
molta pigrizia […]. Notizie di
me? Non ho nulla e non faccio nulla o, per essere sincero,
ben poco […]. D’altra parte, io
vivo solo, oggi: solo, senza
fiducia e senza santità»
(lettera del 24 marzo 1918); «Ma io, caro Linati, le sarò
sempre amico: purché lei mi
perdoni, una volta per tutte,
questa mia peccaminosa
indolenza, che mi pesa
addosso come un castigo […]. Progetti veri non ne ho,
né vere ambizioni […].
M’accorgo d’essere un
uomo finito, pur non avendo
mai cominciato» (lettera del
20 maggio 1919). La confidenza può riguardare
altri argomenti, come quando
il Cappellano militare, non
ancora smobilitato, in una
lettera del 14 giugno 1919 scrive:
Non c’è altro che m’interessi. Le donne - francamente - meno di tutto: in omaggio a un voto in grazia d’un temperamento quasi casto. Del resto, non dico che anch’esse non stiano bene nel mondo, come le rose: un ornamento, una fragranza e basta. Ma le rose io non le colgo mai: mi piace di guardarle e lasciarle dove sono. Si sa
mai, sotto, qualche spina che mi spoetizzi sul loro conto. È una timidezza anche questa, come tante altre.
In un’altra occasione (lettera
del 21 febbraio 1921), chi si
definisce un «piccolo timido
uomo» (lettera del 17 giugno 1918), un «povero cristiano
che porta la croce di se
stesso», confida all’amico:
Però è vero che a forza di lasciarcele sfuggir tutte le occasioni, si invecchia e si appare quello che si è: creature disutili. Alla fine, le dirò anche questo, Linati: che il mio vero sogno è un altro: ritirarmi a vivere con spirito un poco riposato entro un chiostro. Il mondo è troppo pieno di peccato e, per un vas figuli quale son io, troppo pericoloso. Soltanto che per ora non ho trovato il modo di staccarmi delicatamente dal mondo, né ritirare tutt’e due gli occhi dalle sue immagini vane. Né vorrei staccarmene con violenza, ché porterei le ferite e il sangue chissà fino a quando. Basta, stiamo a vedere.
Fra la «Voce» di De Robertis,
la fugace esperienza della
«Raccolta» di Raimondi («una
rivistina di buone intenzioni che esce a Bologna, dove pare
che tutto pigli sapore di
eternità. Questo basta perché
la gente ne possa parlar bene
e con una certa sicurezza di non sbagliar troppo»), e la più
lunga e riposata sosta
milanese del «Convegno» di
Ferrieri (per non dire de «La
Festa» dell’Opera Cardinal
Ferrari, per la quale Angelini acquisisce la traduzione
linatiana della Freccia nera di
Stevenson), i percorsi letterari
dei due interlocutori
presentano più punti
d’intersezione e d’incontro. Uno, sopra tutti, che è tema
in diversa guisa centrale per
tanti protagonisti della
stagione post-bellica (dai
rondisti da una parte - dal programma classicistico
dei quali sia Angelini sia
Linati prendono però,
comecchessia, le distanze -
a Montale dall’altra): il
rapporto fra modernità e tradizione, il proposito di
conciliare, ancora una volta,
antico e moderno. Scrive per
esempio Angelini (lettera del
17 giugno 1918):
(Continua da pagina 8)
(Continua a pagina 10)
Cartolina postale autografa di Cesare Angelini del 10 marzo 1918 con intestazione “Battaglione Intra”
Pagina 10 Numero novantuno - Novembre 2013
l presente carteggio consta di 66 unità epistolari che testimoniano il sodalizio culturale tra il letterato pavese Cesare Angelini (1886-1976) e lo scrittore comasco Carlo Linati (1878-1949). La corrispondenza comprende un ugual
numero di scambi epistolari (33 unità di Angelini a Linati, altrettante di Linati ad Angelini), distribuiti non uniformemente nell’arco temporale di un trentennio, dal 1918 al 1947, con alcuni periodi di silenzio, di cui il più lungo dal maggio 1925 al giugno 1936, interrotto solo da poche missive del 1928. Come noto (cfr. il linatiano Incontro con Angelini, qui ristampato in Appendice), l’esordio del colloquio epistolare tra Linati ed Angelini risale ai tempi di guerra, quando il critico pavese, cappellano militare, nel marzo 1918 alle Cantoniere dello Stelvio assaporava i linatiani Doni della terra (Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915). Il carteggio si apre proprio con una cartolina postale di Angelini del 10 marzo 1918, ma registra evidenti dispersioni: nutrito è infatti il nucleo più antico delle missive del letterato pavese, mentre sono assenti le responsive linatiane, ad eccezione della lunga e rilevante lettera (n. 7) senza data, posteriore al 25 settembre 1918. Fitta e più omogeneamente ripartita la corrispondenza risalente ai primi anni Venti, quando l’amicizia tra Linati e Angelini si rinsaldò in occasione del loro incontro alla redazione del «Convegno», la rivista milanese
fondata nel 1920 da Enzo Ferrieri, della quale Linati fu colonna portante e Angelini collaboratore fino al 1927. Proprio sulle pagine del «Convegno» uscì nel 1921 l’importante saggio del critico pavese intitolato Conversazione sui lombardi. I - Carlo Linati, (anch’esso qui riproposto in Appendice), «penetrante» e dettato da «amorosa intuizione», secondo il parere dello stesso Linati, manifestato nella lettera del 27 maggio 1921 (n. 26). Altra circostanza che favorì lo scambio epistolare fu la collaborazione di entrambi alla rivista milanese promossa dall’Opera Cardinal Ferrari, «La Festa», che uscì a partire dal dicembre 1923 e vide Angelini impegnato nelle cronache di letteratura, su richiesta di Papini, direttore letterario. Dopo un decennio di interruzione, il colloquio riprende nel 1936 quando Linati, ricordando i tempi della loro buona amicizia, si rammarica che gli avvenimenti lo abbiano allontanato dal suo interlocutore. Nel 1942 un invito di Angelini, in qualità di Rettore dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia, per una conferenza linatiana sui lombardi ottocenteschi, sollecita un rinnovato scambio epistolare; così come nel 1946, l’occasione sarà offerta dall’allestimento dell’antologia scolastica La porta d’oro da parte di Angelini e Linati per i tipi di Garzanti. Gli ultimi scambi
risalgono al 1947 e sono incentrati sul progetto, non realizzato, di pubblicare presso Mondadori un volumetto di prose linatiane per le cure del critico pavese. Le missive inviate da Cesare Angelini a Carlo Linati (22 lettere, 3 cartoline postali e 7 cartoline illustrate) provengono da un archivio privato e sono state gentilmente messe a disposizione da Vittoria Bonsignore Vecellio, nipote della moglie di Linati, Anna Silvia Bonsignore. Quest’ultima è destinataria di una breve lettera di Angelini datata 5 luglio 1955, pure compresa nel medesimo corpus epistolare, ma esclusa dal presente carteggio essendo successiva alla morte dello scrittore comasco avvenuta l’11 dicembre 1949. In essa Angelini si rivolge «con antica amicizia» alla signora Bonsignore a proposito di una giacenza, presso il magazzino dell’editore Garzanti, della già citata antologia scolastica
La porta d’oro. Si è inclusa la lettera del 2 gennaio 1947 (n. 65), formalmente indirizzata alla moglie di Linati, ma destinata da Angelini ad entrambi. Di diversa provenienza la cartolina postale del 2 luglio 1923, pure accolta nel presente carteggio (n. 40), indirizzata da Angelini a Linati presso la redazione del «Convegno», rimasta nell’archivio della rivista milanese, quindi reperita all’interno del fondo Ferrieri, acquisito nel 1991 dal Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia (la cartolina si conserva nel corpus delle lettere di Angelini a Enzo Ferrieri). Le missive indirizzate da Carlo Linati a Cesare Angelini (11 lettere, 19 cartoline postali e 3 illustrate) appartengono al fondo Angelini acquisito nel 1992 dal sopracitato Centro
(Continua a pagina 11)
Le dico solo che lei ha ereditato
dai nostri antichi una gola d’oro, che lei non deve, in nessun modo, cambiare con la voce esasperata (penso alla Raccolta del Signor Raimondi) di certi modernisti che vogliono fare Rimbaud senza averlo prima, per troppa impazienza, compreso. Il nuovo è bello, caro Linati, ma l’antico è eterno.
In un’altra lettera (25 settembre 1918), l’amico
indugia ad assaporare nella
«mondizia fantastica», nella
«felicità di suoni e di parole»
del proverbialmente ricco e
«bel tesoro» lessicale linatiano «il sacro e sapido (incantato)
aroma dell’antico e la vivacità
liquida del moderno» (lettera
del 25 settembre 1918). E
Linati, ribattendo su questo
punto (ma la sua lettera è senza data):
Ma perché, a proposito di parole, ella, caro Angelini, ha quasi l’aria di scusarsi quando mi nomina i classici? Ma io li amo, ne derivo, e me ne nutro continuamente. Che vi può esser di bello, di eterno in arte senza l’uso e la coscienza di
quella bellezza antica accumulata dai nostri grandi morti? Tutto sta nell’essere modernam[ente] classici.
Non può non essere un
programma irto di difficoltà,
di ostacoli, di contraddizioni,
soprattutto per Angelini. Non
è facile, per lui, liberarsi – e
forse non se ne libererà mai – da un resistente sostrato di
sensualità e di estetismo di
ascendenza, in parte,
dannunziana (anche se in
una lettera del 9 gennaio 1920 egli dichiara di vivere da
tanto tempo lontano, «con la
persona e l’animo», da
D’Annunzio). In una cartolina
illustrata del 2 luglio 1918,
raffigurante una figura femminile, scrive per
esempio:
Oggi ho baciata l’Adda! Ho baciata l’Adda sulla bocca odorosa di muschio e spumeggiante di sorriso e di freschezza. Bella bocca tutta di macigno. Oggi mi sento così inzuppato di felicità solare, che chiamerei lauri anche i sambuchi. Caro Linati!
Ma ancor più che a
D’Annunzio, egli guarda a
Oscar Wilde:
Perché la bellezza, è peccato di oscenità volerla dispiegare per via di discorso letterario. Si sente - chi la sente - così; come si guarda
la luce, come si beve un profumo […]. Badi, Linati, che in arte io ho molta simpatia per Oscar Wilde – l’Eletto - e credo che nessuno non l’abbia, che sia, nell’animo, artista: e ciò non per estetismo vano, ma per compiuta aristocrazia,
si legge nella lettera già citata del 25 settembre 1918. Ed
ancora, in difesa di un’arte
aristocratica, di un’«arte con
lo stemma», per servirci di un
titolo angeliniano (lettera del
20 maggio 1919): Anzi, a dir la verità, c’è da spaventarsi quando attorno a un nome si fa tanto chiasso. C’è da pensare che ci siano, in quel nome, troppi elementi banali; precisamente quelli che colpiscono il pubblico, il quale, fin’ora, d’arte non ha capito un’acca. E io, per mio conto, son sempre del parere
che, non l’arte al pubblico, ma il pubblico debba accostarsi all’arte, se n’ha i mezzi e le possibilità. Perché il pubblico che cerca d’accostarsi all’arte, si sublima; ma l’arte che vuole avvicinarsi al pubblico, si contamina e prostituisce. Tra Mazzini e Wilde, in giudizi d’arte, credo che abbia sempre più ragione l’ultimo. Non è così, Linati?
Sarà anche a questo
proposito che via via si
accentueranno, nelle
discussioni del «Convegno», le
divergenze con Linati, destinate a sfociare in un
pur temporaneo distacco.
Come non è facile, neppure in
letteratura evitare gli
«sconfinamenti dell’eresia»,
oggi che «la nostra generazione s’è pervertita
per via del mal francese; e
specialmente rimbaudino»
(per spigolare ancora
una volta dalla capitale lettera del 25 settembre
1918). In una lettera del 14
giugno 1919 Angelini ricorda
ancora di aver «messo
insieme certe paginette tra
l’Oscar Wilde e il Rimbaud (pensi che spavento!) le quali
conservano il loro colore
morale di castigo: cioè sono il
frutto di certe mie
discussioncelle antirimbaudine con un
dottore di qua». Con
Rimbaud, «il quale nella
storia della poesia è
certamente un fatto unico e
grande», i conti li chiuderà definitivamente proprio nel
saggio su Linati del 1921:
Rimbaud - e il torto fu quello di averlo più ammirato che capito - è come uno di quei fili sospesi e pieni di corrente, presso i quali si scrive igienicamente: - Pericolo di morte - e van lasciati isolati. E in verità coloro che han voluto accostarsi a quel modello impraticabile, si son trovati nelle mani protese, con gran mortificazione, i frutti della loro arte inseccoliti; o finivan per identificare l’arte con l’assurdo. Pensate ai chimismi lirici che fan rizzare la pelle. Sicché quelli che contan la storia del tempo, arrivati a questo punto, spengono
il lume e, con un sospiro sfiorato di tristezza, dicon che l’arte - questo nostro fragile bene - tacitamente trasmigra.
Ma il carteggio offre molti altri
spunti e motivi d’interesse, in
particolare intorno a
questioni di lingua e di stile.
Penso, per esempio, a certe
strutture
ritmiche, a certe misure prosodiche auscultate con
orecchio finissimo e sicura
perizia tecnica nella prosa
linatiana, da avvicinare per
questo riguardo, alle
sperimentazioni di Boine. Molte delle osservazioni di
Angelini sembrano
accordarsi, insomma, con il
giudizio che sull’arte di Linati
espresse nel 1927 Eugenio Montale,
lodando
il suo senso innato del doigté, inteso non solo come esatta granitura del periodo, ma ancora come sapiente modellatura ottenuta a rapidi colpi di pollice, e facoltà di rendere sensibile alle nocche delle dita ogni punto morto della sua prosa. Nella quale, per simile qualità, quelle zone che il Valéry chiamerebbe le «parti grigie» sono dissimulate abilmente, ma non mai truccate a scapito delle pagine più schiette.
Ed è proprio riguardo a questi
temi che la cooperazione dei
due sodali produce frutti
cospicui. Merita una segnalazione, in particolare,
la precoce messa a punto,
con dovizia di esempi, di
quella linea lombarda che si
diparte
dal semenzaio dossiano e che Contini avrebbe poi fatto
confluire nella categoria
dell’espressionismo e nella
«funzione Gadda». Che i due
compagni in «lombarderia»,
per usare la spiritosa definizione di Boine, possano
essere in qualche modo
annessi a tale funzione, è
argomento che richiederebbe
forse un supplemento di analisi. Anche a questo
proposito l’accuratissimo
indice dei nomi che chiude il
volume, registrando sotto il
lemma dell’autore anche
i titoli delle opere citate, potrà fornire informazioni preziose.
(Continua da pagina 9)
Fotografia di Carlo Li-
nati,
in divisa militare,
con dedica autografa a Cesare Angelini
LE IMMAGINI E LE RIPRODUZIONI DEGLI SCRITTI PRE-
SENTATE IN QUESTE PAGINE SONO CONTENUTE NEL VOLUME CESA-
RE ANGELINI - CARLO LINATI, CARTEGGIO 1918-1947 (A CURA DI FABIO MAGGI E NICOLETTA TROT-
TA, CON PREFAZIO-
NE DI RENZO CREMANTE), EDI-
ZIONI DI STORIA E LETTERATURA, ROMA 2013
Un colloquio lungo trent’anni
di Nicoletta Trotta
Novembre 2013 - Numero novantuno Pagina 11
Manoscritti dell’Università di Pavia. Allegata al corpus epistolare si conserva inoltre una fotografia formato cartolina di Linati in uniforme militare con dedica autografa all’amico (qui riprodotta nella sezione iconografica). I documenti presentati sono inediti tranne: – Due lettere di Carlo Linati a Cesare Angelini pubblicate a cura di N. Trotta in «Autografo», XIII , n. 34, gennaio-giugno 1997, pp. 97-106. Si tratta della lettera senza data, ma del 1918 (n. 7), e di quella del 17 novembre 1923 (n. 43); – 17 unità indirizzate da Cesare Angelini a Carlo Linati pubblicate in C. Angelini, I doni della vita. Lettere 1913-1976, a cura di A. Stella e A. Modena, Milano, Rusconi, 1985. Si tratta delle missive datate: 10 marzo 1918 (n. 1); 24 marzo 1918 (n. 2); 31 agosto 1918 (n. 5); 25 settembre 1918 (n. 6); 20 maggio 1919 (n. 8); 14 giugno 1919 (n. 9); 6 luglio 1919 (n. 10); 4 settembre 1919 (n. 13); 20 settembre 1919 (n. 14); 9 gennaio 1920 (n. 17); 21 febbraio 1921 (n. 22); 21 luglio 1921 (n. 28); 28 ottobre 1921 (n. 31); 8 novembre 1923 (n. 42); 2 marzo 1925 (n. 52); 20 dicembre 1928
(n. 56); 5 ottobre 1946 (n. 63). Si fa presente che, per quanto riguarda le lettere a Linati, i curatori non poterono disporre degli originali bensì di trascrizioni effettuate dalla vedova dello scrittore: ciò spiega alcune difformità di lezione e qualche discrepanza nella datazione. L e lettere di Angelini del 24 marzo 1918 (n. 2) e del 25 settembre 1918 (n. 6) erano state precedentemente pubblicate in C. Angelini, Trenta lettere, con una nota di A. Comini e A. Stella, Pavia, Almo Collegio Borromeo, 1981. Tre lettere di Linati - senza data ma del 1918 (n. 7), 29 settembre 1920 (n. 20) e 18 giugno 1936 (n. 60) - sono state esposte nella mostra che il Centro Manoscritti dell’Università di Pavia dedicò nel 1996 a Cesare Angelini (cfr. la sezione linatiana del catalogo curata da A. Modena in Cesare Angelini nel ‘tempo’ delle amicizie, Pavia, Edizioni Tipografia Commerciale Pavese, 1996, pp. 193-195). Si segnala inoltre che il presente carteggio è stato oggetto dell’intervento di N. Trotta dal titolo Un maestro a nome Chirone. Il carteggio Angelini-Linati, presentato alla sessione dedicata a Cesare Angelini e la cultura del Novecento in occasione del convegno Umanesimo ecumenico: percorsi interiori della convivenza, Pavia, Almo Collegio Borromeo, 13-14 ottobre 2006. Notizie in merito erano state anticipate nell’articolo di N. Trotta, Voci
lombarde nell’epistolario linatiano. Lettere indirizzate a Ferrieri e ad Angelini, pubblicato nel volume Carlo Linati a 50 anni dalla morte. Atti del Convegno tenutosi a Como 1999, Comune di Como, 2001, pp. 48-58. Si deve a Nicoletta Trotta la trascrizione delle missive di Linati e di quella di Angelini datata 2 luglio 1923, reperita nel fondo Ferrieri; a Fabio Maggi la trascrizione delle restanti missive di Angelini. Le lettere, presentate secondo l’ordine cronologico, sono state numerate progressivamente. Nella trascrizione si sono rispettati fedelmente gli originali, anche nell’uso oscillante di maiuscole / minuscole (ad esempio nei giorni della settimana o nei mesi). Ci si è limitati a correggere casi rari di evidenti sviste grafiche. Sono state rese in corsivo le parole sottolineate dai due corrispondenti, come pure le parole straniere anche quando non sottolineate. Sono altresì stati trascritti in corsivo i titoli di testi e di volumi, così come le
testate di riviste e di giornali, sottolineati sempre da Angelini e in buona parte da Linati (che però talvolta fa uso di virgolette alte e di trattini). Si è pure uniformato l’uso delle virgolette caporali nelle citazioni all’interno delle missive, rispettando nelle lettere di Linati l’utilizzo delle virgolette alte per le citazioni di due parole. Si sono mantenuti gli a capo degli autografi. Le posizioni della data e della firma sono standardizzate, l’una in alto a destra, l’altra in basso a destra, seguendo i criteri della collana. Si è rispettata la forma della data. In mancanza di datazione autografa, si è ricorsi al timbro postale (dandone segnalazione: «t. p.» entro parentesi quadre) per le cartoline postali o illustrate e per le lettere di cui si conservi la busta (le missive di Linati ne sono totalmente prive, mentre quelle di Angelini ne contano dieci); si è racchiusa tra parentesi quadre la datazione ricostruita attraverso riferimenti interni. Le parentesi uncinate sono state introdotte in due soli casi per indicare un’integrazione congetturale di parole che mancano nel testo o per svista dell’autore (‹preso›: lettera n. 17) o per lacuna dovuta a un’abrasione del supporto cartaceo (‹mio›: lettera n. 54). Le abbreviazioni presenti negli autografi (relative a nomi di persona, di luogo, titoli di libri) sono state sciolte ed integrate nel testo
entro parentesi quadre, tranne le abbreviazioni canoniche (come es., vol., pag., ms.). Ogni missiva è fornita, in nota, di una sintetica indicazione archivistica nella quale sono segnalati oltre alla consistenza, l’eventuale presenza di intestazioni della carta, l’indirizzo delle cartoline postali e di quelle illustrate e l’indicazione di mittente e destinatario vergata sulle buste. Le missive sono tutte
manoscritte autografe (indicate con ‘ms.’) tranne una lettera (n. 64) e una cartolina postale (n. 66), entrambe di Linati, dattiloscritte (indicate con ‘ds.’). Ogni missiva è inoltre corredata di annotazioni illustrative dedotte, in primo luogo, da scritti degli autori o da altri carteggi, sia editi sia inediti. Si è cercato di fornire informazioni utili a chiarire il contesto nel quale si sviluppa il dialogo epistolare, evidenziandone i nuclei tematici più rilevanti. Si sono date notizie su
personalità meno note citate nei testi, mentre per i personaggi maggiori ci si è limitati a precisare i loro rapporti con i due corrispondenti. Per le citazioni di volumi, di articoli, di testate di giornali e riviste, si sono seguite le norme tipografiche dell’Editore. Si sono segnalati pure in nota gli sporadici interventi correttorî presenti negli autografi. Nell’ambito di un progetto comune si devono a Nicoletta Trotta le note relative alle missive di Linati (e ad alcune di Angelini), a Fabio Maggi le note relative alla gran parte delle missive angeliniane. In riferimento ai volumi sui quali sono state apposte, si sono riportate in nota anche le dediche autografe vergate da Linati sui libri donati ad Angelini, i quali si conservano nel fondo intestato ad Angelini presso la Biblioteca del Seminario Vescovile di Pavia. Sono rimaste escluse le seguenti dediche, relative a due testi non citati nel carteggio: «All’amico Angelini | fraternamente | Linati | Rebbio | Agosto del ’42» in Aprilante. Soste e cammini, Roma, Tumminelli, 1942 e «All’indimenticabile | Amico | Linati» in Due tempi in provincia. Cupido fra gli alambicchi. Barbogeria, Milano, Ultra, 1944. Per completezza si segnala la presenza nel fondo Angelini di altri volumi di Linati, privi di dedica, ma per lo più postillati dal letterato pavese: Cristabella, Milano, Tipografia Enrico
Zerboni, 1909; Duccio da Bontà, Varese, A. Nicola & C., 1912; I doni della terra, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915; Nuvole e paesi, Firenze, Vallecchi, 1919; A vento e sole. Pagine di vagabondaggio, Torino, Società Subalpina Editrice, 1939; Passeggiate lariane, Milano, Garzanti, 1939. Non è stato possibile reperire i libri donati da Cesare Angelini a Carlo Linati. A completamento, è parso utile raccogliere in Appendice gli scritti di Angelini su Linati e di Linati su Angelini, in buona parte richiamati da singoli passi delle lettere, come si è segnalato di volta in volta in nota. Le citazioni dei testi linatiani variamente prodotte da Angelini sono state sempre controllate sulle stampe originali. Si forniscono qui di seguito le indicazioni bibliografiche relative ai testi raccolti nell’Appendice. Alla prima sezione appartengono gli scritti di Angelini su Linati: – Carlo Linati in Il lettore provveduto, Milano, Il Convegno Editoriale, 1923, pp. 101-143. Col titolo Conversazione sui lombardi. I - Carlo Linati il testo aveva già visto la luce in rivista, «Il Convegno», II (1921), 4-5, pp. 162- 188;
– Il Proverbio della Lombardia, «Il Convegno», III (1922), 11-12, pp. 674-679. La parte iniziale del testo (fino ai primi asterischi) fu poi riportata da Angelini, con minime varianti, anche nella rivista «La Festa», III (1925), 16, p. 3; – “Le tre pievi” di Carlo Linati, «Il Popolo Veneto», 1° novembre 1922. Questo testo è ricavato dall’articolo precedente, Il Proverbio della Lombardia, sensibilmente modificato nella seconda parte; – A Carlo Linati Cesare Angelini dice salute, «La Festa», III (1925), 18, pp. 7-8; – Linati in Carta, penna e calamaio, Milano, Garzanti, 1944, pp. 293-297. Col titolo Ritratti celeri. Linati il testo aveva già visto la luce in rivista, «Primato», IV (1943), 13, p. 242; – Nuvole e paesi in Vivere coi poeti, Milano, Fabbri, 1956, pp. 72-75. Il testo aveva già visto la luce in rivista, «Saggi di umanismo cristiano. Quaderni dell’Almo Collegio Borromeo», VI (1951), 4, pp. 85-87; – Poeta in Brianza in Quattro lombardi (e la Brianza), Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1961, pp. 47-58. Il testo aveva già visto la luce nel quotidiano «Il Corriere della Sera» del 4 ottobre 1957. Raccolto poi anche in C. Angelini, Uomini della «Voce», a cura di V.
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Cartolina postale autografa di Carlo Linati del 31 luglio 1919
Pagina 12 Numero novantuno - Novembre 2013
Scheiwiller, Milano, Libri Scheiwiller, 1986, pp. 71-77; – Fedeltà lombarda in Cronachette di letteratura contemporanea (1919-1971), Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 191-199. Il testo aveva già visto la luce nel quotidiano «Il Corriere della Sera» del 24 ottobre 1968. Alla seconda sezione appartengono gli scritti di Linati su Angelini: – Il dono del Manzoni di Cesare Angelini e Il lettore provveduto di Cesare Angelini, «Il Convegno», V (1924), 3, pp. 134-136; – Incontro con Angelini, «Settegiorni», 26 giugno 1943, p. 9, poi raccolto in Il bel Guido e altri ritratti, a cura di G. Lavezzi e A. Modena, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1982, pp. 97-105. Si segnala infine che Linati è presente nelle antologie scolastiche curate da Angelini, con brani, relativi ‘cappelli’ introduttivi e note.
Riportiamo di seguito i riferimenti bibliografici (non presenti nelle antologie): C. Angelini, La vite e i tralci, antologia per le scuole medie, Milano, Casa Editrice Alba, varie edizioni dal 1931 al 1938: – volume classe III , L’airone bianco, pp. 254-261 (da Storie di bestie e di fantasmi, Milano, Treves, 1925, pp. 1-12); – volume classe IV, I doni della terra, pp. 332-334 (Spoglie, Limaccia, da I doni della terra, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915, pp. 32-33, p. 89). C. Angelini-C. Linati, La porta d’oro, Antologia italiana per la scuola media inferiore, Milano, Garzanti, 1946; 2ª edizione riveduta e largamente accresciuta, ivi, 1949: – Immagini lombarde, pp. 117-119 (Spoglie, Limaccia [ma nell’antologia con titolo Lumaca], da I doni della terra, pp. 32-33, p. 89); – L’airone bianco, pp. 264-269 (da Storie di bestie e di fantasmi, pp. 1-12).
Entrambi riportati anche nella 2ª edizione. C. Angelini, L’allegra vendemmia, Antologia per il Ginnasio superiore e per il primo biennio del Liceo scientifico, Brescia, La Scuola Editrice, 1949: – Autunno pittore, pp. 9-10 (da Aprilante. Soste e cammini, Roma, Tumminelli, 1942, pp. 69-72); – Pagine lombarde, pp. 138-141 (Luglio, da Nuvole e paesi, Firenze, Vallecchi, 1919, pp. 113-114; Orietur Stella, La siesta sulla vasca, da Amori erranti. Figure ed episodi, Milano, Facchi, 1921, pp. 9-10, pp. 123-129; L’esodo, da «Il Resto del Carlino» del 22 novembre 1921); – Studi di mesi e di paesi, pp. 160-164 (Studi d’ulivi, Marzo, Aprile, Maggio,
Novembre, L’Inquieto, Visitazioni da Nuvole e paesi, pp. 25-26, pp. 103- 104, pp. 105-107, pp. 109-110, p. 121, pp. 75-79, pp. 83-85); – Le pianelle del Signore, pp. 203-215 (da Le pianelle del Signore. Racconti e paesi, Lanciano, Carabba, 1932, pp. 329-358).
Nicoletta Trotta
Dedico questo lavoro a mio marito, Franco Mirabelli, troppo presto strappato
alla vita e a tutti noi.
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la libertà democratica è
debitrice nei confronti
della mamma di tutte le
libertà moderne, quella
di credenza religiosa. È l’esperienza della
pluralità delle fedi e
delle credenze religiose,
etiche o culturali che
chiede sin dall’origine la
risposta della laicità. In due parole, il mio
teorema sulla laicità
deriva dall’assioma
dell’eguale libertà
democratica di
cittadinanza. Sono consapevole del fatto
che il mio teorema non
esaurisce i molti volti
della vaga e preziosa
idea di laicità. E so
anche quanto importanti possano
essere altri approcci alla
difficile questione. Ma
credo che quando
nell’analisi si può distinguere, allora è
buona cosa distinguere.
Se fosse possibile
raggiungere un accordo
ragionevole sulla
connessione intrinseca fra l’idea di laicità e la
natura della libertà
democratica di
cittadinanza e sulle sue
implicazioni, avremmo
almeno guadagnato
un’area condivisa di accordo per metterci alla
prova nelle circostanze
persistenti e durevoli del
disaccordo, anche nei
casi estremi. Del resto,
come ho più volte
sostenuto nei miei lavori
sulla libertà
democratica, la
persistenza del disaccordo e della
diversità non è un male
congiunturale quanto
piuttosto un tratto
strutturale che
contraddistingue le forme di vita
democratica. Come ci
ha suggerito nel suo
insegnamento un
autorevole maestro di
saggezza quale Carlo
Maria Martini, noi dobbiamo imparare a
convivere nella
diversità. Impresa certo
non facile per i figli della
fragilità di Voltaire. Ma,
al tempo stesso,
impresa sicuramente
resa impossibile e
impraticabile, se il
nesso fra laicità e democrazia fosse
esposto a un destino di
perdita e dissipazione.
Il vecchio Socrate ha
ascoltato perplesso e incuriosito e, alla fine,
mi ha ricordato che in
ogni caso un gallo ad
Esculapio vale la pena
di offrirlo.
Salvatore Veca
(Continua da pagina 1)
NELLE FOTO Cesare Angelini alpino, terzo da sinistra.
A destra: lettera autografa di Carlo Linati del gennaio 1924
Sessantasei unità epistolari
testimoniano il sodalizio culturale
UN’IDEA “POLITICA” DI LAICITÀ
A sinistra: la copertina del libro di Veca
A destra: Carlo Maria Martini (1927-2012)
L’EDITORIALE