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Estetica dello spettacolo e dei media a cura di Maddalena Mazzocut-Mis e di Elena Tavani LED edizioni, Milano Presentazione PARTE I Spettacolo e esperienza mediale (E. Tavani) Etica e politica dello spettacolo (E. Tavani) Spettacolo e spettatore (M. Mazzocut-Mis) Estetica attoriale (M. Mazzocut-Mis) BIBLIOGRAFIA PARTE I PARTE II Pagina e scena Note sul teatro del Novecento (L. Mango) Estetica della televisione (M. Senaldi) Estetica della musica nello spettacolo (C. Serra) Estetica della rete (R. Diodato - E. Locatelli) Le foglie, la piuma e altre immagini Note di estetica (e di etica) del cinema nell’età del digitale (L. Venzi) Estetica e fotografia (A. Scarlato) BIBLIOGRAFIA PARTE II 1

Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

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Sylabus of the course on Art Aesthetics Media at IULM University, Milan, Italy

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Page 1: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Estetica dello spettacolo e dei media

a cura di Maddalena Mazzocut-Mis e di Elena Tavani

LED edizioni, Milano

Presentazione

PARTE I

Spettacolo e esperienza mediale (E. Tavani)

Etica e politica dello spettacolo (E. Tavani)

Spettacolo e spettatore (M. Mazzocut-Mis)

Estetica attoriale (M. Mazzocut-Mis)

BIBLIOGRAFIA PARTE I

PARTE II

Pagina e scenaNote sul teatro del Novecento (L. Mango)

Estetica della televisione (M. Senaldi)

Estetica della musica nello spettacolo (C. Serra)

Estetica della rete (R. Diodato - E. Locatelli)

Le foglie, la piuma e altre immaginiNote di estetica (e di etica) del cinema nell’età del digitale (L. Venzi)

Estetica e fotografia (A. Scarlato)

BIBLIOGRAFIA PARTE II

Presentazione

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La scelta di pensare l’estetica con riferimento diretto allo spettacolo, ai media e ai nuovi media nasce dalla convinzione che sotto questi titoli confluisca gran parte della nostra attuale esperienza di spettatori e di attori chiamati a rispondere e ad agire all’interno di contesti non più solo espressivi né solo mass-mediatici, ma neocomunicativi e interattivi.

La categoria dello spettacolo, attraverso una storia lunga e articolata, sembra oggi farsi carico in particolare dell’ ‘estetica diffusa’ che caratterizza la vita sociale, economica, politica, mentre il passaggio dai mass-media ai nuovi media mette in primo piano la richiesta individuale di informazione e comunicazione, lasciando per molti versi sullo sfondo la dimensione massificata e unilaterale dei media ‘generalisti’.Di qui la proposta avanzata dal volume di un impianto tematico che, alla luce di problemi di carattere filosofico e dei contributi forniti dalle scienze della comunicazione, si interroga su quello che si configura di volta in volta come un vero e proprio riposizionamento sul piano dell’esperienza estetica e mediale, nell’incontro sempre rinnovato con ‘opere’ o prodotti di vario genere (cinema, teatro, videoarte, musica, la rete ecc.).

Il volume si presenta diviso in due sezioni. La prima parte riflette sul concetto di spettacolo a partire dall’istituzione del rapporto spettacolo-spettatore e dalle diverse estetiche attoriali che si sono succedute o sovrapposte nell’ambito di tematiche sorte con la nascita dell’estetica moderna, privilegiando le questioni legate alla fruizione e alle modalità di esperienza man mano sollecitate o senz’altro determinate e rifunzionalizzate dall’entrata in campo di diverse forme espressive e mediali. Un secondo polo di riflessione presente nella prima sezione del volume è dunque proprio l’esperienza mediale intesa come occasione di istituzione di rapporti di vario genere, oltre che come capacità di utilizzare o attraversare un medium. Esperienza attoriale e spettatoriale, potenza dell’immagine e simbolicità, capacità performative all’interno di un medium vengono così considerati nei loro effetti produttivi e comunicativi e nelle valenze etiche e politiche.Particolare attenzione è dedicata al binomio di finzione-realtà e di virtuale-reale, luoghi elettivi di messa in scena, cattura del reale, fruizione e interazione, come anche al momento espressivo, interattivo ed emozionale della ‘produzione di forma’ da parte dell’attore, dello spettatore e infine dell’utente dei nuovi media.

La seconda parte lascia invece spazio a specifici ‘modi’ e singoli aspetti dello spettacolo e della scena mediale, inseriti in contesti ben definiti: dal cinema alla televisione, dal teatro alla fotografia, dalla musica alla videoarte e alla rete. La prospettiva storica è sempre presente, in primo piano o sullo sfondo delle varie disamine proposte, quale indispensabile supporto e sostegno a una lettura dei fenomeni analizzati che opta comunque per un’impostazione interpretativa e non solo narrativa dell’analisi. Nell’insieme dunque non una semplice sequenza di capitoli concentrati unicamente nella disamina del proprio oggetto, considerato alla luce dei rapporti che intrattiene con una tradizione specifica, ma in ciascuno una rinnovata opportunità di indagine e di verifica all’interno di uno stesso intreccio di problematiche comunicative e estetiche.

Il volume cerca di mettere a frutto i vantaggi del manuale – offrire una panoramica ampia e tendenzialmente completa di un certo ambito tematico, e al tempo steso la possibilità di una consultazione anche parziale e rapsodica, interrotta e ripresa ‘a richiesta’ –, senza però rinunciare a proporre un itinerario che sia, anche grazie alle diverse voci degli autori presenti, un vario percorso di attraversamento dell’esperienza contemporanea, vista nella componente mediale e spettacolare,

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nell’avanzata di nuove tecnologie, nelle mutazioni percettive e comunicative, nelle nuove forme di produzione creativa.

Maddalena Mazzocut-MisElena Tavani

PARTE II3

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Lorenzo Mango

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Pagina e scenaNote sul teatro del Novecento

Una nuova scrittura

Nell’estate del 1905 viene pubblicato un libro che segna una svolta decisiva nella storia del tetro

moderno, L’Arte del Teatro di Edward Gordon Craig. Con la pubblicazione di quel breve trattato in

forma di dialogo tra un regista e uno spettatore, Craig non solo tirava le fila di quanto aveva

sperimentato negli anni immediatamente precedenti, ma trasformava quell’esperienza in un discorso

teorico organizzato e coerente. L’obiettivo che si era dato era di rimettere il teatro sulle sue gambe,

di dotarlo, dal punto di vista teorico, di uno statuto fondante autonomo e specifico che ne facesse

cosa distinta dalle altre arti, e in primo luogo dalla letteratura con cui veniva perlopiù confuso.

L’idea di base de L’Arte del teatro, infatti, è quella di definire le coordinate linguistiche che più

squisitamente appartengono al teatro e meglio ne definiscono l’identità artistica. L’incipit di quel

dialogo è memorabile: «L’arte del teatro non si identifica con la recitazione o con il testo, e neppure

con la scenografia o la danza, ma è sintesi di tutti gli elementi che compongono quest’insieme: di

azione, che è lo spirito della recitazione; di parole, che formano il corpo del testo; di linea e di

colore, che sono il cuore della scenografia; di ritmo, che è l’essenza della danza»1.

Le parole di Craig forniscono la definizione più chiara ed esplicita di un modo di pensare il

teatro che vuole sfuggire da un lato al secolare primato della parola (sul piano della identità

artistica) da un altro a quello dell’attore (sul piano della resa spettacolare). L’ipotesi che ne emerge

è di una creazione organica, che corrisponde alla natura composita dell’evento rappresentativo

trasformandola in statuto estetico, il che, fino a quella data non era. Se lo spettacolo, infatti, non

poteva non essere qualcosa di composito, esso non veniva identificato con «l’arte del teatro», che

era fatta coincidere, invece, con il momento letterario, inteso tout court come l’opera. Craig

sostiene, invece, che il teatro ha una sua autonoma specificità linguistica che consiste nel partire

dalla sua natura promiscua per giungere a una creazione organica e unitaria, frutto dell’incontro tra

gli elementi linguistici che discendono da ciascuna delle diverse arti coinvolte nel prodotto teatrale.

Così facendo apre un orizzonte di straordinaria ampiezza per la ricerca a venire tanto che il suo

libro può essere considerato, a ragione credo, una delle più importanti porte di accesso al teatro del

Novecento.

Non è certo solo Craig in questo sforzo di innovazione, ma l’impatto delle sue teorie fu

fortissimo, tanto che «craighiano» finì con essere l’aggettivo che spiegava un certo modo di

intendere la pratica teatrale e quella registica in particolare. Con lui, infatti, la regia che, come arte

1 Craig 1905, p. 83.5

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moderna, poteva considerarsi appena nata, diventò l’asse portante della scrittura teatrale,

acquistando una qualità autoriale che fino a quel momento o non aveva avuto o, quanto meno, non

aveva rivendicato teoricamente. L’Arte del Teatro è, quindi, anzitutto un saggio di teoria della regia,

ma non si limita a questo. In quell’immagine di un linguaggio caratterizzato dalla sintesi di elementi

diversi (azione, parole, linea, colore, ritmo) gestiti artisticamente da una sola mano – il regista che si

è fatto artista – si prefigura un nuovo campo dell’estetica in cui collocare l’opera d’arte teatrale:

quello della visione. Craig non pensa al teatro come «arte visiva» in senso banale, non cioè come

predominanza degli effetti scenografici, ma in quanto è nello sguardo e attraverso di esso che si

veicola la comunicazione teatrale, che è affidata all’atto che viene compiuto fisicamente in scena e

che, come tale, è visto dallo spettatore.

La collocazione del teatro tra le arti della visione è, oggi, un postulato tanto acquisito da esser

diventato anche banale, ma quando Craig la sostiene – affermando oltretutto che per esser tale l’arte

del teatro dovrà fare a meno del testo letterario convenzionalmente inteso – è uno shock. Non si

limitava, infatti, Craig a sostenere una nuova poetica – basata sulla stilizzazione simbolica e

antirealista e sul primato della regia – ma minava alle fondamenta la concezione occidentale stessa

di teatro, proponendone una antagonista e diversa che non voleva essere «nuova», quanto risalire a

quella che era considerata la matrice originaria e autentica del linguaggio teatrale.

Craig, di fatto, proponeva una straordinaria rivoluzione antiaristotelica. I suoi avversari più

prossimi erano sicuramente il realismo, la drammaturgia letteraria, gli attori mattatori

dell’Ottocento, ma il suo obiettivo più significativo era proprio lui: Aristotele. Non sembri una

stravaganza essere antiaristotelici all’inizio del XX secolo; nonostante i secoli trascorsi e nonostante

i tanti antiartistotelismi di cui la storia del teatro è costellata, quello fornito dalla Poetica era ancora

il modello di riferimento. Non certo per quel che riguarda le cosiddette unità, né in fondo neanche

per quello che era il vero fuoco tematico di quel libro, la catarsi, ma per qualcosa che sta un po’ più

a monte e può risultare anche meno evidente. Quando nel capitolo sesto Aristotele elenca i diversi

elementi che caratterizzano la tragedia (il racconto, i caratteri, il linguaggio, il pensiero, lo

spettacolo e il canto), esaminati i primi quattro, liquida gli altri due in questo modo: «Tra gli

elementi che rimangono, la musica è il maggiore degli abbellimenti, mentre lo spettacolo seduce sì

l’anima, ma è il più alieno dall’arte e il meno proprio della poetica; infatti la potenza della tragedia

si esplica anche senza rappresentazione e senza attori e, inoltre, per la realizzazione delle cose da

vedersi è più efficace l’arte dell’arredatore che quella dei poeti»2.

Aristotele è di una chiarezza straordinaria; distingue, infatti, il discorso teatrale in due parti:

una artistica e una decorativa. A quella artistica pertengono tutte quelle cose che sono, in una

2 Aristotele 2008, p. 49.6

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misura o nell’altra, legate al momento narrativo e letterario; il resto, cioè lo spettacolo con tutti i

suoi apparati, è decorativo e secondario. Serve solo ad accompagnare la ricezione della tragedia. È

un’aggiunta, piacevole ma non indispensabile e, soprattutto, non necessaria a definire i confini

artistici del teatro che, invece, Aristotele marca con lucida precisione, creando i presupposti della

nozione occidentale di teatro che di quella distinzione si è pasciuta e che ha seguito (salvo qualche

deviazione non a caso guardata lungamente con diffidenza come la Commedia dell’Arte) in una

maniera coerente fino alle soglie del Novecento, quando per la prima volta è messa in discussione

dal punto di vista teorico. Dire, allora, che l’idea moderna di teatro è un’idea antiaristotelica è meno

paradossale di quanto possa in un primo tempo apparire. È uno modo, invece, per cominciare ad

affrontare i tratti più tipici e propri del teatro novecentesco e, soprattutto, dei suoi postulati teorici.

Craig, dunque, teorizza un linguaggio teatrale basato sulla sintesi di elementi linguistici che,

pur provenendo da arti diverse, con esse non si identificano. Ci saranno, tanto per fare un esempio,

linea e colore, ma non la pittura scenografica in quanto tale. Il linguaggio teatrale, dunque, appare

come un conglomerato di materie diverse che l’artista manipola libero da condizionamenti (primo

fra tutti la riproduzione della realtà). Ciò che Craig sta mettendo in luce è una nuova scrittura del

teatro basata su una nuova grammatica. Ma di questo tra breve. Chiediamoci, prima, se fosse solo in

questo sforzo teorico. A voler creare un sintetico schema di riferimento, potremmo dire che alle sue

spalle c’è Wagner, mentre accanto, come compagni di strada, almeno Adolphe Appia e Antonin

Artaud.

Già a metà dell’Ottocento in una serie di scritti teorici fondamentali (L’arte e la rivoluzione,

1849; L’opera d’arte dell’avvenire, 1850; Opera e dramma, 1851) Wagner aveva posto il problema

della rifondazione dei codici portanti del linguaggio teatrale. Pur guardando al problema dalla

prospettiva di un musicista, Wagner si pone, infatti, una questione di vera e propria estetica del

teatro. Anche per lui – sulla scia dell’insegnamento romantico – il problema è risalire alle fonti

originarie del teatro greco, per ritessere con esse un discorso che il trascorrere dei secoli aveva

interrotto. Le qualità originarie di quel momento aurorale della nostra storia da recuperare sono due:

lo spirito comunitario e di popolo dello spettacolo teatrale e l’unione che, in esso, avveniva tra tutte

le distinte arti. Per Wagner, anzi, esisteva presso i greci un’unica arte, organica e unitaria, il teatro,

nata dalla sintesi di tutte le altre: musica, poesia, danza. Tale unione dava vita alla forma più alta di

arte la Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale che, di fatto, coincide con il teatro. C’era, dunque,

nell’Atene del V secolo una doppia fusione, di linguaggi e di popolo, che dava vita all’arte per

eccellenza. Poi, dice Wagner, gli egoismi individuali ebbero la meglio, le arti presero ognuna una

via diversa infrangendo l’unità originaria e determinando la decadenza in cui progressivamente è

precipitata la storia. Compito dell’artista moderno è dare nuova vita a quell’opera originaria, tornare

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a produrre un’opera d’arte totale, una Gesamtkunstwerk. Questo può avvenire a una condizione: che

l’autore di tutti i diversi livelli linguistici sia uno e la creazione, di conseguenza, unica e organica.

Wagner propone una «sintesi» che è cosa ben diversa dalla semplice somma di arti diverse.

L’autore, infatti, scriverà la sua opera affidando a ogni mezzo linguistico una funzione espressiva

peculiare: la musica è la voce universale del sentimento profondo; la poesia il luogo in cui agisce il

logos e con esso l’articolazione narrativa e individuale; la danza, infine, corrisponde, dopo spirito e

mente, al terzo livello cognitivo dell’essere umano, la sfera del sensibile. Così facendo l’artista

poteva dar vita a un tutto unitario e armonico, a un vero organismo. Continuava, però, Wagner a

parlare di arti che si incontrano, ciascuna in sé definita e ciascuna, in fondo, in qualche modo

autonoma e scindibile dalle altre. Craig va oltre, pensando alla necessità che le singole arti debbano

dissolversi, per donare all’arte del teatro l’essenza del proprio essere, che non corrisponde più alla

loro forma canonica (parole non poesia, ritmo non danza, ecc.). È innegabile, però, che Wagner si

stagli alle spalle di Craig e che la sua idea di Gesamtkunstwerk rappresenti una matrice

determinante del suo modo di pensare il teatro.

D’altronde l’influenza wagneriana fu fortissima: poeti, pittori, uomini di teatro, per non

parlare dei musicisti, ne trassero ispirazione e motivo di riflessione. Wagner rappresenta, da questo

punto di vista, uno straordinario ponte tra la cultura romantica e quella simbolista giungendo a

influenzare anche le avanguardie novecentesche. Non è esagerato dire, mutuando una celebre

affermazione, che il teatro moderno non può non dirsi wagneriano. Anche se Wagner non fu

accettato in toto, ed anzi molte delle sue affermazioni – a cominciare dal coinvolgimento delle arti

in quanto tali nel progetto teatrale – furono contestate, la sua idea di un teatro che colga la sua

matrice artistica non più nel momento letterario e testuale (nella pagina e nel libro, per capirci) ma

in quello spettacolare in cui convergono tutte le diverse arti rappresentò non solo un termine di

riferimento concettuale fondamentale ma un primo vero e proprio atto di insubordinazione

antiartistotelica.

Appia costruisce la sua idea di arte proprio a partire dal dettato wagneriano, che gli fornì il

primo grande punto di riferimento concettuale per la sua proposta di riforma scenica. Ma il Wagner

dell’opera d’arte totale, il Wagner teorico, non era, per lui, il Wagner delle messe in scena di

Bayreuth, troppo impregnate di realismo romantico: «La riforma wagneriana» – scrive – «riguarda

la concezione stessa del dramma […]. Ma egli» – aggiunge – «non ha saputo accordare la forma

rappresentativa – la messa in scena – alla forma drammatica che adottava. […] nessuno – conclude

– ha ancora visto sulla scena un dramma di Wagner».3 Può sembrare un’affermazione paradossale e,

invece, è rivelatrice della posizione di Appia. Wagner ha intuito alcune cose fondamentali dell’arte

3 Appia 1921, p. 230.8

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del teatro: che essa deve nascere dall’osmosi tra diversi piani espressivi; che l’opera deve essere un

prodotto organico; che la musica è l’anima e il motore della creazione. Limiti storici, però, gli

hanno impedito di condurre fino in fondo la sua riflessione e di toccare così realmente l’origine del

teatro. È come se Appia proponesse un Wagner oltre Wagner e così affrontasse la condizione

fondante e primaria del linguaggio teatrale. È uno sforzo teorico espresso soprattutto ne La musica e

la messa in scena del 18994. L’idea che smuove la riflessione appiana è la necessità che il motivo

ispiratore e direttivo che è contenuto nella musica, portatrice attraverso la durata del principio

regolatore stesso dell’opera, trovi una sua immediata e diretta traduzione scenica. La scena, per

Appia, non deve illustrare, né descrivere ma dare corpo sensibile, espressivo, alla notazione

musicale. Si delinea così, su di un piano concettuale, un’opposizione radicale tra espressione, che

appartiene alla musica, e significato, che riguarda, invece, la parola5. Compito dell’arte non è

rappresentare ma esprimere, e in particolare esprimere quella tensione universale e sovra

individuale che alligna nella musica. Di qui la diffidenza verso il dramma di parole che invece,

staticamente, ancora il segno espressivo al significato discorsivo e verso la pittura, intesa come

raffigurazione dell’illusione rappresentativa. Il teatro trova, invece, il suo momento di sintesi ideale

nell’incontro tra la musica e la scena. Tale incontro si celebra nell’attore, inteso come corpo in

movimento, la cui azione nasce dall’incarnare il sentimento musicale del tempo e tradurlo in azione

nello spazio fisico. Appia giungerà in seguito a ritenere fondamentale più il principio ritmico e

musicale del movimento corporeo che non la presenza effettiva della musica, risolvendo così

l’azione drammatica nel confronto dialettico tra una forza attiva, il corpo in movimento, ed una

passiva, la scena, che è chiamata a «opporre» resistenza al corpo e deve, quindi, essere solida,

tridimensionale e praticabile. E soprattutto, cosa che emerge chiaramente in una serie di disegni

denominati spazi ritmici, astratta. La scena, per Appia, infatti deve essere una struttura elementare

fatta di piani orizzontali e verticali che si incontrano, realizzando quella che sarà la sua immagine

tipo: la scala. Su essa e con essa agiranno sia l’attore che l’altro principio drammaticamente attivo,

la luce che, libera dai vincoli naturalistici, diventa una vera e propria scrittura.

Le tesi di Craig e Appia schiudono al teatro l’orizzonte della sua modernità centrandosi su di

un’affermazione comune: il teatro è arte della scena, che diviene una vera e propria scrittura

(scrittura scenica verrà chiamata a partire dagli anni sessanta6). La messinscena è un mezzo di

espressione autonomo e non l’accompagnamento, più o meno illustrativo, di un testo drammatico

4 Appia 1899.5 Si vedano, al proposito, Marotti, Prefazione a Appia 1975, p. 10 e Artioli 1972, p. 258.6 La diffusione teorica del termine scrittura scenica si deve a Giuseppe Bartolucci che comincia a utilizzarlo negli anni sessanta come strumento critico per analizzare le pratiche teatrali più innovative del momento. Alla scrittura scenica Bartolucci intitolerà un libro, Bartolucci 1968 e la rivista che diresse dal 1971 al 1983. Sulla genesi e sulla configurazione storica e teorica del termine mi permetto di rimandare a Mango 2003.

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scritto. Già nei secoli passati c’erano state aperture in questa direzione, basti pensare alle pagine

sull’illuminazione nel celebre trattato cinquecentesco di Serlio o ai pressoché contemporanei

Dialoghi in materia di rappresentazione scenica di Leone de’ Sommi, ma si tratta di opere che

investigano un lato della creazione teatrale, quella della realizzazione scenica, non pretendendo di

proporre una riflessione complessiva sull’estetica del teatro, come invece avviene nel Novecento7.

Estetica della messinscena e teoria del teatro adesso coincidono. I risultati di questa apertura

concettuale sono almeno due: lo spostamento della dimensione autoriale dalla pagina alla scena e la

dilatazione dell’ambito di ciò che è definibile teatro. Artaud, il grande teorico e poeta surrealista,

contiene nelle sue pagine visionarie uno straordinario esempio di tale duplice condizione. Se il

Novecento non può non dirsi wagneriano, di certo è stato un secolo profondamente artaudiano,

perché il suo insegnamento di scrittore marginale, fino alla follia e al manicomio, estraneo

totalmente al sistema teatrale, autore di quasi nessuno spettacolo, ha avuto, e ha tutt’ora, una

ricaduta fondamentale.

La sua riflessione sul teatro parte, anche nel suo caso, dall’affermazione della centralità del

momento spettacolare rispetto alla parola: «Come è possibile – si chiede – che a teatro, almeno

quale lo conosciamo in Europa, o meglio in occidente, tutto ciò che è specificamente teatrale, ossia

tutto ciò che non è discorso e parola, o – se si preferisce – tutto ciò che non è contenuto nel dialogo

[…] debba rimanere in secondo piano?»8. Evidentemente, per lui, il teatro deve essere qualcosa di

diverso da come lo conosciamo, una scrittura scenica geroglifica, come la definisce, fatta di segni

visibili che costituiscano una poesia della scena, dello spazio e del corpo dell’attore, come aveva

visto fare dai danzatori balinesi che tanto lo avevano colpito alla Esposizione Universale di Parigi

del 19319. Il teatro, dunque, deve essere un congegno formale criptico e misterioso, basato

sull’interferenza (più che sulla sintesi) di segni espressivi diversi10. Un passo avanti verso quella

scrittura scenica dell’evento rappresentativo che tanto caratterizza il teatro moderno. Un teatro così

congegnato sarà un alambicco alchemico per risalire alle fonti primarie, rituali e inconsce della

natura umana, un «teatro della crudeltà» destinato a rimettere in questione non solo le forme

dell’arte ma anche, e soprattutto, la vita nei suoi assetti più profondi: «[…] il teatro, che non si

immobilizza nel linguaggio e nelle forme, non soltanto distrugge le false ombre, ma apre la via a

un’altra nascita d’ombre, intorno alla quale si raccoglie l’autentico spettacolo della vita»11.

7 Serlio, 1545; de’ Sommi 1968, edizione critica del manoscritto conservato presso la Biblioteca Palatina di Parma, databile alla fine degli anni sessanta del Cinquecento.8 Artaud 1938, p. 154.9 Si legga, al proposito, il suo straordinario Sul teatro balinese, in ibidem, pp. 170-184.10 «Il teatro, che non consiste in nulla, ma che si serve di tutti i linguaggi – gesti, suoni, parole, luce, grida – nasce proprio nel momento in cui lo spirito per manifestarsi ha bisogno di un linguaggio» (ibidem, p. 132).11 Ibidem.

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Il teatro come «evento» che sostituisce il dramma di parole; il teatro come luogo di

fondazione di una nuova e/o ancestrale ritualità sono due tratti fondamentali che caratterizzano

l’intero corpo del Novecento teatrale, rappresentandone uno dei denotatori più rappresentativi. La

teoria di un teatro enviromentale, messa in gioco negli anni sessanta da Richard Schechner, quella

del teatro povero di Jerzy Grotowski o il «teatro necessario» di Brook sono alcuni degli esempi più

limpidi e calzanti di questo stato delle cose teorico12. In essi si nota la dilatazione del concetto di

teatro: nel primo perché il teatro finisce incastonato teoricamente dentro una cornice, la

performance, che prevede la spettacolarizzazione rituale e sociale a tutti i livelli come elemento

teatrale; nel secondo e nel terzo, invece, la scarnificazione assoluta di tutti gli orpelli rappresentativi

riconduce il teatro allo scambio primario tra individui.

A questo aspetto della ridefinizione concettuale del teatro ne corrispondono però anche altri,

magari meno dichiarati teoricamente, ma non meno significativi. Sono quelli che riguardano la

contaminazione degli specifici dando vita a una ibridazione straordinariamente vitale. Basti fare due

soli esempi: l’happening come scrittura di un evento scenico dalla matrice pittorica o tutti gli

episodi di teatro danza tra cui spicca quello di Pina Bausch. Più complessivamente possiamo

concludere questa parte del discorso sottolineando come in forme e modi diversi, la ricerca teatrale

(sia operativa che teorica) del teatro moderno si sviluppa, in gran parte, a partire da una dialettica di

scritture, quella scenica e quella drammatica, che è dire una cosa diversa da messa in scena e testo

letterario, perché si tratta di uno spostamento ulteriore che vede la dimensione drammatica del

teatro distaccarsi dall’assoluto letterario e farsi immediatamente atto creativo della scena: «vi dirò

con quali materiali un artista del teatro dell’avvenire creerà i suoi capolavori. Con l’AZIONE, la

SCENA, la VOCE. […] E quando dico azione, intendo gesto e danza, prosa e poesia del

movimento. Quando dico scena, mi riferisco a tutto ciò che è visibile […] Quando dico voce, alludo

alle parole parlate e a quelle cantate, in opposizione alle parole da leggersi […]»13.

La crisi del dramma

A questo riposizionamento linguistico del teatro corrisponde quello che potremmo definire uno

smottamento della identità e della tenuta della sua componente letteraria, quella che la tradizione

occidentale ha identificato aristotelicamente con il dramma. Non si tratta di una crisi del dramma

nel senso di una perdita di efficacia artistica ma della necessità di provvedere, anche da questa

angolazione, a un ripensamento degli statuti linguistici.

12 Di Richard Schechner si vedano le raccolte di saggi tradotti in italiano Schechner 1984, Schechner 1999 e il più vecchio Schechner 1968. Di Grotowski si veda soprattutto Grotowski 1968; di Brook, soprattutto Brook 1968.13 Craig 1905, p. 103.

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Peter Szondi, in un importante libro degli anni cinquanta, ha esaminato con grande precisione

i tratti dominanti di questa crisi, cogliendone il momento germinale nella letteratura teatrale a

cavallo tra Otto e Novecento. La tesi di Szondi è che la nozione moderna di dramma si basa sulla

messa in contraddizione di tutti quegli elementi che hanno caratterizzato lo sviluppo della forma

drammatica dal Rinascimento in poi. Il dramma aristotelicamente inteso, scrive, è assoluto e

primario. Si basa, cioè, sul presupposto che ciò che accade in scena simuli, in modi non

necessariamente realistici, un accadimento reale. Che, cioè, l’azione drammatica sia sufficiente a se

stessa, non richiedendo (anzi negandolo) ogni tipo di intervento esterno (una figura di «narratore»,

ad esempio), come accade, viceversa, nel romanzo o, aristotelicamente, nell’epica: «Il dramma è

assoluto. Per poter essere puro rapporto, cioè essenzialmente drammatico, esso deve essere staccato

da tutto ciò che gli è estraneo. Il dramma non conosce nulla al di fuori di sé»14.

Alle soglie dell’era moderna, con scrittori come Ibsen Strindberg Cechov, tale monolitica

autoreferenzialità comincia a infrangersi, in nome di un’interferenza epica destinata a diventare

negli anni sempre più invadente fino ad assumere con Brecht la sua veste teorica più definita.

Anzitutto il tempo, che nella forma drammatica è necessariamente il presente, si apre a dimensioni

altre (in Ibsen, ad esempio, il passato che è la causa drammatica della catastrofe), lo stesso accade

all’unitarietà (di matrice aristotelica anche se non meccanicamente tale) che si spezza e al

personaggio che da soggetto psicologicamente definito si trasforma in una entità composita e

problematica. A monte di tutto c’è la messa in crisi del dialogo, in cui il dramma si riconosce, e il

suo «esser posto», vale a dire la distanza che separa l’autore dal suo oggetto. Il dramma moderno,

secondo Szondi, parte da queste premesse teoriche e si può senz’altro esser d’accordo con lui, anche

se in molti casi (vedi Pirandello e Beckett) la sua incomprensione è clamorosa.

La principale fonte ispiratrice di Szondi, quella che gli fornisce parametri concettuali e la

stessa definizione lessicale è Brecht, la cui teoria drammatica è probabilmente la più ricca,

complessa e influente del Novecento. È Brecht a parlare, infatti, di teatro epico, con un preciso ed

esplicito richiamo alla distinzione aristotelica tra dramma – il luogo narrativo in cui le cose

accadono di fronte agli occhi del pubblico – ed epica – in cui, invece, l’azione si proietta in un

racconto che agisce nella mente del lettore. Tale distinzione per Brecht va superata e il teatro può e

deve diventare epico. Non solo per una ragione estetica ma perché solo infrangendo l’illusione, che

è il risultato della drammaturgia aristotelica, si può raccontare il mondo contemporaneo, il mondo,

dice, dell’era scientifica, in cui le cose non sono più date come assoluti immutabili (primo fra tutti

l’uomo) ma come oggetto di una conoscenza destinata a produrre una trasformazione: «il mondo

14 Szondi 1956, p.10.12

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d’oggi può essere descritto agli uomini d’oggi solo a patto che lo si descriva come un mondo che

può essere cambiato»15.

Il teatro, e in particolare la forma drammatica, hanno dunque per Brecht una funzione di

conoscenza che è espressa in termini politici. Non perché debba propagandare una idea, ma perché

si pone come obiettivo quello di schiudere gli occhi dello spettatore sulle dinamiche di classe e di

potere che regolano il vivere pubblico e quello privato. Al marxismo, come programma scientifico

di cambiamento del mondo, corrisponde una forma d’arte che, altrettanto scientificamente e

criticamente, sia in grado di affrontare il reale, per renderlo conoscibile e trasformabile. Per far

questo è necessaria una profonda rivoluzione linguistica, che Brecht battezza epica, fondata

sull’effetto di straniamento: «Come l’immedesimazione fa apparire consueti i fatti eccezionali, così

lo straniamento fa apparire eccezionali i fatti consueti di ogni giorno»16.

Lo straniamento è lo strumento linguistico di cui deve servirsi, secondo Brecht, l’autore

teatrale. Esso consiste nella capacità di sezionare l’apparenza dei fenomeni (specie di quelli sociali)

e di presentarli criticamente attraverso degli interventi che mettano lo spettatore nella condizione

«dell’osservatore che fuma»17, di colui, cioè, che di fronte all’opera mantiene una distanza

razionalizzante che gli consente di non perdere mai la sua lucidità analitica. Compito del

drammaturgo, o dello «scrittore di drammi» come amava definirsi, è di presentare al pubblico

un’opera teatrale che lo aiuti e lo indirizzi in questa direzione, attraverso una serie di soluzioni che

riguardano la scrittura letteraria (l’uso di cartelli per indicare le azioni; la presenza di canzoni; la

terza persona utilizzata dal personaggio per parlare di sé) ma coinvolgono anche altri piani della

scrittura: la recitazione, anzitutto, e la componente scenica. Anche per Brecht la drammaturgia non

è più contenuta tutta nella pagina e nasce dal confronto dialettico tra linguaggio verbale e

linguaggio della scena: «Così chiamiamo a noi tutte le arti sorelle dell’arte drammatica, non per

creare un’«opera d’insieme» in cui tutte si annullino e si disperdano, ma perché ognuna di esse,

insieme all’arte drammatica, dia a modo suo impulso e sviluppo all’opera comune; e il loro rapporto

reciproco sarà proprio quello di straniarsi a vicenda»18.

Quella di Brecht è una teoria drammatica forte che parte dalla presa d’atto dall’impossibilità,

per la parola, di farsi tramite assoluto del dramma. La sua scrittura teatrale, così incisiva, è il segno

tangibile di come parlare di «crisi», per il dramma moderno, significhi parlare, fondamentalmente,

di una strategia decostruttiva degli assunti e dei lasciti formali e linguistici della tradizione, per

mettere l’atto della scrittura letteraria a confronto con le altre scritture di scena.

15 Brecht 1955, p. 20.16 Brecht 1937-1951, p. 95.17 Brecht 1931, p. 39.18 Brecht 1948, p. 148.

13

Page 14: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Un simile atteggiamento decostruttivo segna trasversalmente la drammaturgia novecentesca.

Negli anni cinquanta e sessanta quello che Martin Esslin definì teatro dell’assurdo19 (Ionesco,

Adamov, Genet, Beckett) acuì tale atteggiamento giungendo a un depotenziamento totale della

parola, che precipitava nel nonsense e nell’inerzia drammatica. Il dramma, così, toccava il suo

barthiano grado zero, creando una macchina linguistica che girava ossessivamente su se stessa come

una giostra. Fu un momento particolarmente significativo della scrittura teatrale cui corrispose,

quasi come una forma di reazione, la grande esplosione della seconda generazione dei riformatori

della scrittura scenica: il Living Theatre, Grotowski, Brook, Kantor, Barba, Wilson. A leggerla oggi

sembra una vicenda artistica chiusa in un cul-de-sac, il segno dell’incapacità degli scrittori di

abbandonare il proprio schema mentale che si riferiva solo alla parola, anche se per annullarla, ma

fu un fenomeno interessante perché segnala, in una maniera inequivocabile, del processo di

trasformazione della forma drammatica novecentesca.

Già qualche decennio prima Pirandello, con la trilogia del teatro nel teatro (Sei personaggi in

cerca d’autore, Ciascuno a suo modo, Questa sera si recita a soggetto) aveva affrontato un tema

analogo. I suoi sono pienamente drammi di parola, perché l’azione è eminentemente verbale, ma

Pirandello mette in risalto, con un effetto straniante, il meccanismo di contraddizione linguistica che

è alla radice della messinscena teatrale. Lo aveva già fatto in epoche remote, nel 1908, in un saggio

di grande rilievo, Illustratori attori traduttori, negli anni venti lo trasforma in maniera drammatica

viva. Nei Sei personaggi in cerca d’autore, che è un po’ il suo manifesto teorico, la contraddizione

insanabile tra l’universo dei personaggi e il mondo degli attori chiamati a incarnarli è emblematica

della faglia che si è aperta tra linguaggio della scena e dimensione rappresentativa. Il teatro non è

più in condizione di dire, secondo gli assiomi della tenuta aristotelica, ed è destinato, invece, a

raccontarsi nello sforzo inane, ma irrinunciabile, di raccontare il mondo. Il grido disperato e

irrisolto, verità o finzione, che esplode nel finale denuncia con chiarezza che la coesione del

dramma si è oramai dissolta e che non resta che mostrare la contraddizione stessa nel suo farsi.

Altrettanto, in modo anche più estremo, avviene in Samuel Beckett, che vogliamo citare con

Brecht e Pirandello quale ideale trittico di riferimento della letteratura teatrale del Novecento. Lo

abbiamo già nominato come uno dei protagonisti del teatro dell’assurdo, ma quella collocazione gli

va un po’ stretta. In Beckett, infatti, l’inerzia della parola sfugge a un destino autoreferenziale. Il

suo è un vero e proprio itinerarium theatri in nihil, sprofondamento del teatro nel nulla.

L’azzeramento è il segno distintivo dei suoi drammi fin da Aspettando Godot, ma esplode in

maniera clamorosa negli anni settanta, quando Beckett cancella progressivamente dai suoi testi ogni

parvenza di forma drammatica, lasciando spezzoni frammentariamente tragici di linguaggio a 19 Esslin 1961.

14

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galleggiare in azioni sceniche minimali e stranianti. Con lui la crisi del dramma da un lato tocca il

più autentico grado zero, da un altro evidenzia come sia una straordinaria «macchina teatrale».

L’assenza di tutto evocata da Beckett, il «nulla» inteso come qualità filosofica, è dotata di una

straordinaria forza teatrale che si traduce nel qui e ora dell’atto rappresentativo, con una

significativa sintonia con quanto sta accadendo nel campo della scrittura scenica.

L’esito conclusivo del complesso di tali processi è la modificazione sostanziale della

definizione di drammaturgia. Eugenio Barba, uno dei più importanti registi degli ultimi trent’anni,

risale alla matrice linguistica del termine il drama-ergon, che traduce opportunamente come «il

lavoro, opera delle azioni»20. Drammaturgia, dunque, è termine che, nel lessico del teatro moderno,

non è più sinonimo di letteratura teatrale ma indica la logica costruttiva composita che sta al

fondamento della scrittura teatrale, intesa come scrittura scenica. La drammaturgia, insomma,

diventa un fatto della scena e non della pagina. Si può, così, parlare di drammaturgia anche per quel

tipo di operazioni, come quelle di Carmelo Bene o di Jerzy Grotowski, che agiscono in maniera

registica, nel senso craighiano del termine, su testi letterari. Il risultato di tali messe in scena è

un’opera nuova, uguale e diversa, una riscrittura, più che una regia, che si presenta come una

«drammaturgia della differenza», in quanto è, a un tempo, autonoma e dipendente dal rapporto con

l’originale.

Se, in conclusione, la tradizione occidentale – sviluppandosi lungo la direttrice aristotelica –

ha assimilato drammaturgia e testo letterario; il riposizionamento concettuale della nozione di

drammaturgia è uno dei segnali più espliciti della rivolta antiaristotelica che origina la scena

moderna.

L’attore è un corpo pensante

La modernità ha una ricaduta sensibile anche sul versante dell’attore e della recitazione che

vengono affrontati come un problema teorico su più fronti e secondo prospettive diverse. È un

percorso aperto nel 1700 con la disputa tra «emozionalisti» e «antiemozionalisti», tra coloro che

teorizzavano l’adesione emotiva al personaggio e chi sosteneva, invece, l’assenza di partecipazione

da parte dell’attore. Fu un dibattito acceso, che diede vita alla prima grande e articolata riflessione

critica sull’attore, culminando in quel capolavoro del pensiero teatrale che è Il paradosso sull’attore

di Diderot, testo emblema dell’antiemozionalismo21. Riflessi di quel dibattito, non solo tradotti in un

linguaggio più aderente ai tempi ma anche fondati su presupposti teorici diversi, si hanno nel

Novecento. Il secolo si apre con l’opera teorica forse più sistematica, quella di Konstantin

Stanislavskij. Fin dall’inaugurazione del Teatro d’arte di Mosca, nel 1898, Stanislavskij pone al

20 Barba - Savarese 1996, p. 46.21 Sul dibattito tra emozionalismo e antiemozionalismo si veda Vicentini 2000.

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Page 16: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

centro della sua attenzione la questione della recitazione, anche perché i testi di Cechov, con cui

aveva creato una sorta di vero e proprio rapporto simbiotico, gli imponevano di dirigere l’attore

verso territori inusuali. A partire dai quei drammi, così «inerti» dal punto di vista della convenzione

drammatica, che avevano bisogno di trovare la loro verità altrove rispetto alla pura enunciazione

delle parole del dialogo, Stanislavskij comincia la sua riflessione sull’interpretazione del

personaggio. Una volta morto Cechov, nel 1906, e interrotto quello straordinario e unico sodalizio,

la ricerca di Stanislavskij assumerà il carattere più generale di una vera e propria pedagogia

dell’attore.

Nemico dei cliché, dei modelli stereotipi e convenzionali, a Stanislavskij premeva soprattutto

la verità della scena. Lo spettatore doveva credere a quanto vedeva, non perché abboccasse a

un’illusione ma perché autenticamente vero era ciò che accadeva in scena. Anche se il realismo era

la veste formale più congeniale a raggiungere lo scopo, l’imitazione della realtà non era il suo

obiettivo. Piuttosto la sua «ricreazione», vale a dire la rigenerazione del personaggio attraverso la

creatività dell’attore. La questione, allora, era come determinare le condizioni creative dell’attore,

affinché riuscisse a essere autentico in scena. E come, inoltre, potesse rigenerare nel tempo il suo

stato creativo, sfuggendo alla triste ripetizione formale del mestiere. Il risultato della ricerca di

Stanislavskij, esperita non solo nei suoi spettacoli ma anche e soprattutto nei Teatri studio che

accompagnarono, come veri e propri laboratori permanenti (i primi della storia del teatro) l’attività

ufficiale del Teatro d’Arte, fu il cosiddetto «sistema», non un ricettario, ma un articolato processo

pedagogico e formativo basato su solide basi teoriche. Tra i tanti argomenti teorici ed operativi –

essendo impossibile qui affrontarne il complesso – spicca la «memoria emotiva»: «Come la

memoria visiva fa rinascere davanti alla vista interiore cose dimenticate, paesaggi, figure persone,

così la «memoria emotiva» fa tornare in vita sentimenti già vissuti»22.

Obiettivo dell’attore è vivere il personaggio rivivendo il proprio personale universo interiore.

Si crea, così, un ponte emotivo tra attore e personaggio attraverso cui passa l’immedesimazione che

diventa, nelle mani di Stanislavskij un processo dialettico, affidato ad una serie complessa di

passaggi e rapporti che spaziano tra l’introspezione psicologica e l’elaborazione delle «azioni

fisiche» che allo stato emotivo corrispondono, concorrendo a generarlo.

La teoria di Stanislavskij determina un approccio scientifico all’immedesimazione; altrettanto

scientifico, ma su di un fronte opposto, voleva essere Brecht. L’attore è parte costitutiva fondante

dell’effetto di straniamento, perché è lui il tramite diretto col pubblico. Il suo rapporto con il

personaggio (con le relative tecniche di recitazione) è quindi fondamentale.

22 Stanislavskij 1938, p. 220.16

Page 17: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Per Brecht l’attore è un dimostratore; deve, cioè, come sostiene in uno dei suoi scritti più

significativi La scena di strada, […] rendere il personaggio come una persona a lui estranea, la sua

dimostrazione non deve nascondere che «fu lui a fare questo, fu lui a dire così». L’attore non deve

permettersi di trasformarsi completamente nella persona che dimostra»23. È, quindi, una sorta di

testimone critico del personaggio che mostra e racconta nel mentre lo interpreta. Quella osmosi che

è alla base del sistema di Stanslavskij viene da Brecht contraddetta con decisione. Lo spettatore non

deve cadere nell’illusione del personaggio, non deve, soprattutto, essere trascinato emotivamente

verso di lui, così da perdere di lucidità critica. All’inverso va messo in una condizione di distanza,

resa possibile da una recitazione che metta tra attore e personaggio un filtro che impedisca di

identificarli. Meno elaborato rispetto a quello di Stanislavskij sul piano dei dettagli tecnici, il

«sistema» (chiamiamolo così, anche se è improprio) di Brecht non solo rappresenta un modo di

pensare altrettanto forte ma anche altrettanto influente sul teatro del Novecento.

Ma il Novecento conosce anche un modo completamente diverso di guardare all’attore: non

nel rapporto con il personaggio ma quale corpo. Il discorso è complesso. Se da un lato, infatti,

riguarda l’attore come parte concreta e fisica della scrittura scenica, da un altro esprime, invece, una

strategia concettuale che si traduce in un vero e proprio pensiero del corpo: «L’attore – scrive

Artaud – è simile a un vero e proprio atleta fisico, ma con questo sorprendente correttivo:

all’organismo atletico corrisponde in lui un organismo affettivo, parallelo all’altro, quasi il suo

doppio benché non operante sullo stesso piano»24. Attraverso il corpo, e solo attraverso di esso,

passa una sfera di conoscenza e di rapporto col mondo che sfugge ai vincoli della ragione. Il corpo è

la forma sensibile della totalità perduta, in cui tragicamente perdersi, come nel caso di Artaud, o cui

guardare come al luogo di una futura resurrezione spirituale. Appia che gli affida, come abbiamo

detto, il ruolo di punto di raccordo tra musica e spazio ne parla come di un «corpo collettivo», il

«grande sconosciuto» che consente la rigenerazione se, attraverso la forma ritmica del movimento,

sfugge alla gabbia della quotidianità. Craig, con la sua definizione teorica più nota, lo teorizza come

Übermarionette, prefigurazione, sulla scia della metafora nietzschiana dell’übermensch, di un

umano oltre l’uomo, di un corpo in stato di grazia o, come dice, in catalessi, sospeso tra la casualità

della vita e il trionfo sublime della morte.

L’insieme di questi pensieri del corpo svela come le teorie dell’attore nel Novecento diano

voce alla vocazione più esplicitamente simbolica e utopistica del secolo. Non si tratta tanto e solo di

dare una veste teorica a un mestiere del teatro per farne arte, ma di partire dal corpo artistico

dell’attore per prefigurare nuovi scenari conoscitivi. Lungo questa direttrice si muove il più

importante teorico del secondo Novecento, Jerzy Grotowski, che però, pur affidando al teatro una

23 Brecht 1940, p. 49.24 Artaud 1938, p. 242.

17

Page 18: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

vocazione quasi messianica, tiene il suo discorso saldamente ancorato per terra, fondendo assieme

la visionarietà di un Artaud e la sistematicità di uno Stanislavskij. La sua ipotesi di un «attore

santo», che aspira a una ricomposta unità delle sfere dell’umano non è una metafora, come nei casi

che abbiamo appena citato, ma un metodo di lavoro. Teatro, per lui, è «ciò che avviene tra lo

spettatore e l’attore»25, dove questo accadere esprime un rapporto di tipo rituale, un confronto faccia

a faccia in cui all’attore è affidato il compito di produrre un’autopenetrazione della propria natura

umana che, facendolo sprofondare nei recessi più remoti della psiche, gli consente (e con lui allo

spettatore) di giungere alla più piena e luminosa manifestazione dell’essere. Questo processo non è,

però, astratto o mentale; riguarda, invece, la capacità di cogliere l’espressività del corpo attraverso

un allenamento costante, una tecnica, che, addestrando il fisico superi e annulli i blocchi psichici.

L’attore, scrive Grotowski, «deve poter esternare, grazie al suono e al movimento, quegli

impulsi che oscillano fra la sfera del sogno e quella della realtà. In poche parole, deve poter

costruire un suo proprio linguaggio psico-analitico di suoni e di gesti così come un grande poeta

crea un suo proprio linguaggio di parole»26. Torna, significativamente, nel nostro discorso il tema

della scrittura. Scrivere il corpo come strumento di investigazione psichica che schiude all’attore i

territori inesplorati dell’umano è l’obiettivo di Grotowski che giungerà, nella seconda parte della

sua carriera, a proporre un teatro senza spettacolo, fatto di eventi laboratoriali cui attori e

spettatori/partecipanti concorrono senza quasi distinzione di ruoli, mancando un oggetto formale

definito da fruire. Utopia di un teatro che, grazie a una tecnica e a un’applicazione disciplinata e

rigorosa di lavoro, rompa la «logica del tempo» che ci limita al nostro presente. In gioco entrano,

invece, l’arcaico (come forma ancestrale dell’umano) e il futuro (come superamento delle

contingenze del presente). È un atteggiamento ricorrente nell’estetica teatrale contemporanea:

l’invenzione di una nuova scrittura vuole essere anche prefigurazione di un nuovo mondo e di un

nuovo essere.

Scriveva Craig: «La parola OGGI è bella, e la parola DOMANI è bella, e la parola

AVVENIRE è divina – ma la parola più perfetta che le unisce e le armonizza tutte è la parola E»27.

Il teatro moderno cerca, nel corpo vivo della concezione del linguaggio, proprio quella «e»,

facendone progetto e tecnica di scrittura.

25 Grotowski 1968, p. 41.26 Ibidem, p. 43.27 Craig 1907, p. 32.

18

Page 19: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Marco Senaldi

Estetica della televisione

Riassunto delle puntate precedenti

Benché sia considerata uno dei mezzi di comunicazione più influenti della modernità, la televisione

non ha generato ancora delle autentiche teorie in grado di spiegarne l’immane potere – e meno che

mai delle teorie estetiche.

È facile riscontrare questa lacuna se solo si prende in esame quello che forse è il primo

contributo ad una teoria estetica della tv, cioè l’articolo di Rudolph Arnheim apparso nel 1935, che

peraltro ricomparirà in un volume il cui titolo è esemplarmente Film as Art, escludendo a priori che

la tv possa mai essere considerata un’arte.

Di fatto questo è l’assunto di Arnheim: la tv – e la tv che poteva vedere lo studioso doveva

essere un mezzo alquanto preistorico! – è appunto un semplice mezzo che «trasporta»

comunicazione: «La televisione è un parente prossimo della motocicletta e dell’aeroplano: un

mezzo di trasporto culturale. A dirla tutta, è un mero strumento di trasmissione, che non offre nuovi

mezzi per l’interpretazione artistica della realtà».28

Pertanto la tv non genera valori esteticamente apprezzabili (forse lo potrebbe in quanto

oggetto di design, ma allora in quanto elettrodomestico, non come sistema comunicativo di cui il

monitor è solo una periferica). Questo testo in altre parole legittima uno dei più grandi equivoci

intorno all’oggetto stesso di una eventuale teoria e di una ancor più eventuale estetica, rinunciando a

spiegare che cos’è (o non è) la tv, e concentrandosi sul banale ruolo tecnico del «televisore».

Un approccio sostanzialmente diverso è sostenuto da uno storico dell’arte e grande studioso di

cinema come Carlo Ludovico Ragghianti, che propone di leggere nella tv dei valori estetici di

carattere formale, come l’importanza della ‘taglia’ del monitor, o il peso delle luci, dello spazio,

dell’atmosfera (che ne differenziano l’estetica da quella della fotografia e del cinema), che si

dimostreranno in seguito autenticamente profetiche29. Le sue intuizioni saranno decisive per quegli

artisti, come gli spazialisti prima e i video artisti poi, che vedranno nella tv un mezzo di espressione

del tutto nuovo – ma fatalmente gli faranno sfuggire il senso riposto dell’anima ‘relazionale’ del

televisivo come sistema mediatico.

28 Cfr. Arnheim 1957, pp. 207-16 (per inciso l’articolo citato apparve sulla rivista italiana Intercine 2, nel febbraio 1935, pp. 71-82, l’anno prima delle emissioni televisive in Germania all’epoca delle Olimpiadi di Berlino).29 Cfr. Ragghianti 1957, pp. 387-393; il testo considerato è del 1955, cioè posteriore al Manifesto del movimento spaziale per la televisione, risalente al 1952, eppure sembra implicitamente prenderne le parti, anche suggerendo la possibilità che, all’interno dei palinsesti tv fosse accordato spazio a ‘sperimentazioni visive’ di carattere artistico (quella ad opera di Fontana, nel maggio ’52, doveva avere proprio questo senso).

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Page 20: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Tra i primi critici a considerare in maniera più globale il senso e la potenza del mezzo

televisivo, troviamo invece un filosofo e sociologo come Adorno, con un denso saggio del 1954

intitolato How to look at Television30. Adorno parte dal tentativo di definire più precisamente gli

effetti della tv non solo in termini di successo/fallimento, ma facendo uso di categorie socio-

psicologiche più raffinate. Già dall’impostazione del discorso – per cui non ha senso parlare della tv

in termini di «riuscita o fallimento» – appare chiaro che nel contesto della teoria critica, di cui

Adorno è il massimo esponente, il problema non è la definizione del nuovo strumento – ma la

valutazione del suo peso socioculturale. È evidentemente una radicale scelta di campo: non si tratta

più di ragionare sull’eventuale importanza del mezzo televisivo nel campo sociale, ma di assumerne

l’esistenza come una componente essenziale di questo campo, qualcosa che contribuisce a

delimitarne i confini e a produrne delle rappresentazioni ideologicamente determinate. Non ha

senso parlare della tv in termini di «riuscita o fallimento», semplicemente perché la tv «ha già

vinto» – si tratta semmai di vedere come lo ha fatto e di rendere edotto il pubblico sul suo

funzionamento.

In questo lavoro, dove vengono messe a punto le idee ancora embrionali sull’industria

culturale già espresse nel celeberrimo Dialettica dell’Illuminismo del 1947, Adorno scende nel

dettaglio del prodotto televisivo e si concentra espressamente sulle fiction.

La sua idea di «pseudo realismo» è assolutamente centrale in questo dibattito. Infatti Adorno

non considera la tv come un medium semplicemente «più realista» del cinema (a sua volta più

realista della fotografia, da cui deriva). Da buon dialettico Adorno sa che ogni accrescimento

tecnologico non è una semplice sommatoria dei fattori precedenti, ma implica dei rovesciamenti

imprevedibili. L’aderenza senza precedenti alla vita quotidiana permessa della comunicazione

televisiva, non fa che estremizzarne gli aspetti estetizzanti. In particolare, concentrandosi sulla

fiction, Adorno ne sottolinea la similarità rispetto alla fiction cinematografica, dato che in entrambi

i casi non c’è introversione (ciò che è visto, è visto senza retroscena, ma per come appare). Ma –

cosa decisiva – questo elemento realistico (a differenza, aggiungiamo noi, di quanto accade nel

cinema) non esclude una intima ambiguità del messaggio televisivo: ad un messaggio esplicito dove

vengono riproposti dei valori tradizionali, si associa un messaggio implicito che «mira a un quadro

mentale dove essi non sono più validi»31. Da qui l’idea di «pseudorealismo»: la realtà rappresentata

è implicitamente smentita dalla possibilità latente che la rappresentazione stessa lascia trasparire. Il

verdetto di Adorno è pertanto molto negativo: lo pseudorealismo tv è un «realismo camuffato»,

attraverso cui si contrabbanda uno spazio illusorio, è un metodo per far perdere il senso di realtà al

pubblico, e un diversivo per distogliere l’attenzione da una realtà che nel frattempo si è fatta

30 T.W. Adorno 1954, pp. 213-35.31 Ibidem, p. 218.

20

Page 21: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

«sempre più opaca e complicata»32.

Adorno si colloca certamente all’interno di una critica fortemente ideologica della tv – ma la

nozione di pseudorealismo insieme a quella di scomparsa del retroscena non può non far pensare

alle più acute analisi successive, come quella di Joshua Meyrowitz.33 È proprio Meyrowitz a

definire il carattere fondamentale della tv come l’impossibilità di non essere completamente realista,

nel senso di svelare completamente lo spazio scenico, distruggendo in tal senso la nozione stessa di

«scena» come spazio funzionale e separato. Meyrowitz, rifacendosi alla nozione di «vita come

rappresentazione» di E. Goffman, definisce questa caratteristica come il crollo della fondamentale

distinzione tra scena e retroscena; le conseguenze catastrofiche di questo crollo sono la confusione

dei ruoli, la sovversione delle differenze, e in una parola l’impossibilità di mantenere il livello

simbolico di una qualsiasi rappresentazione. Inoltre, questo crollo spinge ad un livello più elevato la

nozione adorniana di pseudorealismo: in effetti, la comunicazione televisiva è realista a un punto

tale da includere le condizioni stesse della propria efficienza – è talmente realista da ristrutturare i

parametri di ciò che consideriamo «reale» (e in tal senso le idee di Meyrowitz si avvicinano all’idea

baudrillardiana di «iperrealtà televisiva»).

Le riflessioni di Meyrowitz costituiscono uno snodo importante perché includono

esplicitamente tra le proprie fonti McLuhan e Goffman. Secondo Meyrowitz è indispensabile questa

fusione tra le teorie mediali mcluhaniane e la sociologia della comunicazione goffmaniana, per dare

profondità storica all’idea di «vita come rappresentazione», ma anche per ancorare nel contesto

sociale il «media-centrismo» di McLuhan. Tuttavia, questa posizione sincretica non riesce

veramente a dar conto degli esiti generati dal suo proprio impianto teorico. Quando nella parte IV

del suo studio Meyrowitz parla della «confusione» (merging) generalizzata di ruoli, tra privato e

pubblico, tra adulti e bambini, o tra maschile e femminile, ecc., senza saperlo sta sviluppando le

premesse di una concezione tipicamente dialettica, secondo la quale ogni confusione è solo la forma

embrionale di un «superamento» (Aufhebung). Là dove l’occhio sociologico coglie un «semplice»

fenomeno di confusione progressiva tra i «diversi», lo sguardo del dialettico decifra l’immanenza

degli opposti. Ma questa impostazione teorica di fondo (la quale del resto sta al centro del grande

dibattito filosofico del nostro tempo34) segna la divergenza-chiave nel campo dei media studies tra i

due ‘classici’ comparsi negli anni ’60 – cioè Understandig mass media di McLuhan e La société du

spectacle di Guy Debord. È solo nel testo di Debord però che l’idea di una duplicità dialettica

intrinseca nel discorso televisivo è veramente messa al centro, non solo dei consumi culturali, ma

della deriva generale della società, d’ora in poi definita come «società spettacolare».32 Ibidem, p. 229.33 Cfr. Meyrowitz, 1985.34 Basti pensare in proposito alle pagine dedicate ad una analisi critica della dialettica come strumento di pensiero nel classico Popper 1963, pp. 531-70.

21

Page 22: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Lo «spettacolo» in senso debordiano (che quindi integra in sé le sue varie forme al di là e al di

fuori delle specificità mediali, cioè cinema, tv, pubblicità, ma anche turismo, uso del tempo libero,

consumismo delle merci ecc.) – viene quindi individuato come «l’inversione concreta della vita»,

«il cuore dell’irrealismo della società reale»35. Questo pensiero fondamentale è quello che ritorna in

varia guisa nei resoconti posteriori; giustamente nella prefazione all’edizione italiana (2001) un

autore e dirigente televisivo (nonché intellettuale) come Carlo Freccero sottolinea che lo spettacolo

integrato nella visione di Debord costituisce quel «crimine perfetto» che «ha soppresso la realtà»,

istituendo così un palese richiamo alle tesi espresse ne Le crime parfait, il libro di Baudrillard sulla

derealizzazione televisiva apparso nel 199336. In questa «irrealizzazione» si ritrova tutto il senso

filosofico dello «pseudo realismo» di Adorno, che d’altra parte ritorna nell’interessante disamina

del rapporto tra finzione e realtà simbolica (condivisa) in altri contributi come Finzioni di fine

secolo di Marc Augé37. Nelle pagine che l’antropologo dedica all’analisi di un evento mediale come

i Mondiali di calcio del 1998, l’accento viene spostato sul fatto che, al termine dello spettacolo

televisivo costituito dalla partita finale, le persone scesero per strada ritrovandosi in una festa

collettiva condivisa; l’incontro è reso possibile però dalla spettacolarizzazione stessa dell’evento

sportivo, a testimonianza del fatto che lo spettacolo «non è un supplemento del mondo reale, un suo

sovrapposto ornamento», dato che «la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione

dello spettacolo»38.

In questa linea, l’idea che la comunicazione televisiva nasconda un doppiofondo dialettico è

al centro del recente Feedback. Tv against Democracy di David Joselit39. La nozione di feedback

sostiene che ad ogni azione (in questo caso comunicativa) corrisponde una retroazione, consistente

nel processare le informazioni dell’ambiente, che migliora le prestazione dell’organismo

considerato. Benché ricalcata dalla teoria cibernetica, l’idea fa compiere un decisivo passo in avanti

nelle teorie mediali, sbarazzandosi definitivamente del vetusto impianto tecnocentrico

unidirezionale basato sulla triade emittente-messaggio-ricevente, e, cosa ancor più importante,

reintroducendo una visione ‘riflessiva’ del medium televisivo: «Una concezione dei media adeguata

all’era televisiva del dopoguerra deve comprendere queste tre dimensioni [la struttura ricorsiva

manifestata nel circuito chiuso, la posizione ecologica dei media uno rispetto all’altro, e la loro

concentrazione speculativa condizionata dall’investimento sociale e finanziario]. Propongo che il

feedback raccolga tutto ciò in una sintetica categoria». A partire dal feedback, Joselit si spinge a

teorizzare una diversa storia e una diversa teoria dei media, ed anche un diverso approccio creativo

35 Cfr. Debord 1967, tesi 2 e 4.36 Cfr.Baudrillard 1996.37 Cfr. Augé 2000.38 Debord 1967, §§ 6 e 7.39 Cfr. Joselit 2007.

22

Page 23: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

ad essi, dato che «né la tattica modernista della rivoluzione, né la tecnica poststrutturalista della

sovversione […] sono adeguate a accompagnarci nel circuito chiuso che struttura i nostri mondi

pubblici […] [occorre] prendere ispirazione dalle impossibili traiettorie inventate dagli artisti […] e

dagli attivisti per produrre sentieri aberranti o utopici attraverso i terreni recintati della

televisione»40.

Inoltre, cosa in questo contesto oltremodo importante, a sostegno della sua tesi Joselit invoca

un’opera d’arte «dialettica» quale il famoso Wipe Cycle di Frank Gillette e Ira Scnheider – una

installazione presentata alla mostra TV as a Creative Medium (1968) e costituita da nove monitor

nei quali lo spettatore rivedeva ciclicamente se stesso con un delay temporale diverso per ciascuno.

Quando il circuito chiuso è affare di (auto)coscienze (e non di animali o di sistemi cibernetici)

le cose cambiano, la ‘retroazione’ assume tutto il suo senso profondo: spettacolarizzazione,

emulazione, o anche semplicemente innamoramento o violenza, possono davvero essere spiegati in

termini di feedback. Lette in questa chiave, le operazioni di Nam June Paik, a cominciare dalla

famosa Exposition of Music – Electronic Television, per continuare con TV Cello Première (1971)

con Charlotte Moorman che incarna e ‘indossa’ letteralmente la tv, sotto forma di piccoli video-

reggiseno, per continuare con vere e proprie trasmissioni televisive come Electronic Opera # 1 per

The Medium is the Medium, programma in onda sulla WGBH TV, o Global Groove, andata in onda

nel 1974 su WNET TV, assumono un preciso significato, quello di incursioni virali momentanee,

cioè di produzione di rumore nel feedback silenzioso della televisione, e quindi di creazione di

diverse possibili retroazioni dal valore altamente estetico.

Lo specifico televisivo

Joselit conclude il suo testo con quello che suona quasi uno slogan: «Learn the system and counter

it – make noise», concludendo il suo libro con quello che assume espressamente la forma di un vero

Manifesto. Le acute indagini di Joselit farebbero dunque pensare che siano esistiti diversi usi della

televisione per scopi prettamente artistici – ma nonostante la possibile ‘artisticità’ della tv, manca

una vera descrizione estetica specifica di essa – o meglio, si evidenzia in proposito una evidente

contraddizione. Da un lato i numerosi tentativi di definirne lo «specifico» come era già accaduto per

altri media più storicizzati (fin dal caso del ben noto «specifico filmico«, consistente nel montaggio,

nel movimento di macchina e nelle marche semantiche41), escludono che la tv possa avere un valore

estetico. Dall’altro, si cerca molto spesso di leggere la televisione come un medium «transitorio»,

da un lato derivato da quelli precedenti (cinema e radio), dall’altro presto destinato a dissolversi in 40 Ibidem, pp. 39-41.41 Cfr. Metz 1975.

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quelli del futuro, se non proprio già scomparso in un universo mediale «convergente».

A questo proposito occorre notare una rilevante discrasia ermeneutica tra una lettura

convergente e una lettura divergente dei media. La cosiddetta «convergence culture»42 costituisce

una novità di rilievo nell’ambito delle interpretazioni culturali dei media – intendendoli come una

sorta di campo integrato entro il quale le relazioni tra artefatti, e soprattutto tra artefatti e fruitori,

rivestono grande importanza. Il problema di questo tipo di interpretazione è che, pur spiegando

fenomeni come quello delle migrazioni di tematiche fra media e media, o delle convergenze

transmediali, non è poi in grado di fornire soddisfacenti spiegazioni dell’emergere di tematiche

specifiche, e del perché esse si affermino in questo o quel media, e in definitiva non fornisce alcun

metodo ermeneutico, ma solo osservazioni posteriori. In un certo senso, opposto a questo è il

metodo che è stato definito «anamorfico», e che potremmo ribattezzare divergente, secondo il quale

un artefatto (mediale e non solo) viene letto mettendolo a confronto con le sue stesse mancanze

intrinseche (versioni scartate o incompiute, remake che cercano di colmarne le lacune senza

riuscirvi, ecc.) – per cui la specificità di un medium spicca per differenza rispetto a quella di un

altro medium, e risalta ancor di più rispetto alle differenze che un medium mantiene rispetto a se

stesso (i propri blocchi interni, i punti di dis-funzionalità, ecc.)43. Così, anziché descrivere un

universo ‘pieno’ in cui il prolungamento convergente di un film d’azione è una serie tv, e poi un

videogioco diegeticamente affine, e poi le manipolazioni mimetiche realizzate da una web

community di fans, è assai più proficuo osservare come ognuna di queste «variazioni» non riesca a

colmare i vuoti strutturali del «testo» di origine, anche se ciascuna è leggibile per differenza rispetto

ad esso (l’«originale» che andrebbe letto anamorficamente rispetto a se stesso).

In tal senso una lettura anamorfica dei media non può limitarsi a registrare le ovvie differenze,

ad esempio, tra il cinema e il teatro sia dal punto di vista presentativo che dispositivo (il teatro non è

riproducibile, non ha il montaggio, non possiede la possibilità di variare i punti di vista – soggettiva,

oggettiva, semisoggettiva, ecc. – ), ma deve anche mostrare come lo specifico cinematografico si sia

definito in risposta all’impasse dell’originario «teatro filmato». In questa prospettiva, al di là

dell’originaria idea di immagini in movimento, occorre domandarsi cosa può fare la tv che il cinema

non può fare. Come venne notato a suo tempo, certamente una caratteristica determinante del mezzo

tv è la possibilità di trasmettere un evento live, all’interno di una forma comunicativa a flusso,

aperta e non chiusa, e non soggetta a un disegno prefissato, ma disponibile all’improvvisazione;44

42 Cfr. Jenkins 2006. Nonostante l’approccio apparentemente scanzonato, il libro di Jenkins si impegna seriamente in una disamina del nuovo mediascape emergente; purtroppo, la sua analisi è inficiata dalla vetusta contrapposizione tra old media passivi e new media interattivi, senza avere gli strumenti filosofici per affrontare il complesso tema dell’interpassività (su cui cfr. Pfaller 2000, concetto ripreso da Žižek 2004).43 Cfr. Žižek 1991.44 Cfr. Eco 1962.

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Page 25: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

ma, purtroppo, proprio queste caratteristiche che rendono la tv diversa dal cinema, sono le stesse già

offerte dalla radio.

Occorre dunque cercare in altro una «differenza specifica» televisiva, che risiede senza

dubbio nel dispositivo televisivo, ossia nella forma-schermo: come ebbe a notare McLuhan, mentre

nel cinema lo spettatore «è la macchina da presa», con la tv «lo spettatore è lo schermo». 45 Il

monitor ha, rispetto allo schermo, il vantaggio di non richiedere una sala di proiezione e

conseguentemente di poter essere installato ovunque; la dislocabilità del monitor e la sua taglia

impongono un rapporto veramente faccia a faccia con lo spettatore, che è chiamato ad avvicinarsi

alle immagini, è colpito da esse in modo quasi fisico, ma può muoversi nello spazio domestico, nel

frattempo divenuto uno spazio mediale percorribile, «odologico», praticabile. Questo nuovo schema

sensorio-motorio, ma anche culturale, modifica lo status dello spettatore e il meccanismo di

identificazione con le immagini: al cinema l’identificazione è basata su elementi narrativi esteriori

verso cui si dirige l’attenzione (identificazione proiettiva), la tv invece coinvolge lo spettatore come

testimone oculare, lo rende complice di un processo comunicativo, ma insieme lo sposta rispetto a

se stesso, lo chiama pertanto in causa attribuendogli un’identificazione ribaltata

(disidentificazione46).

Il segreto del ribaltamento a cui la tv sottopone l’identità di chi la guarda implica una

revisione della nozione stessa di comunicazione mediale. La tv è stata vittima (consenziente) di una

enorme ambiguità poiché è stata tradizionalmente intesa (ovviamente fin da McLuhan47) come

medium, cioè come canale comunicavo (o peggio tecnico) che interviene tra emittente e ricevente.

Questa visione proviene sostanzialmente da una nozione deterministica di comunicazione quale

quella descritta da Shannon e Weaver verso la fine degli anni 40. Nel loro celebre testo Teoria

matematica della comunicazione del 1949, i due studiosi pensano a un modello comunicativo dove

il messaggio sia semplicemente concepibile come un «pacchetto di dati» che cerca di passare

tramite un canale da un punto di partenza emittente a uno di arrivo (ricevente) – uno schema

ricalcato su quello tecnico delle trasmissioni radio dell’epoca. La sola cosa che eccede lo schema –

cioè il rumore di fondo – è anche ciò che deve in un modo o nell’altro essere eliminato affinché la

comunicazione sia efficace48.

45 Cfr. McLuhan 1962, p. 69. Notevole il fatto che la stessa frase sia ripresa da uno dei maggiori artisti video e performer americani, Vito Acconci, che afferma che col video siamo faccia a faccia con le immagini (cfr. Acconci 1990, pp. 125-134; p. 125).46 Il concetto di «disidentità» deriva naturalmente da Hegel, 1807; è ripreso soprattutto nel discorso analitico, come in Lai 1999; ma in ambito filosofico cfr. soprattutto i saggi di Žižek e in particolare Žižek 2004.47 Cfr. McLuhan 1964.48 Cfr. Cimatti 1999, pp. 53 sgg.; il modello deterministico di Shannon e Weaver è stato anche definito un modello «postale» o ispirato ai «condotti» della posta pneumatica; sovente gli è stato opposto il modello aperto fornito da G. Bateson (ad es. Bateson 1990), secondo il quale emittente e ricevente si definirebbero in un campo instabile costituito dall’ambiente. Ma anche questo modello, benché prenda in seria considerazione l’ostacolo-rumore come lo sfondo e il

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Page 26: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Tuttavia, fenomeni come la fascinazione, l’emulazione, l’interazione spettatoriale, pur

rivestendo oggi un’importanza evidentemente centrale, resterebbero inspiegabili e paradossali

all’interno di questo contesto. Tali fenomeni, hanno messo in chiaro che questo schema è non solo

limitato, poiché circoscrive il ruolo del medium a quello di un «neutrale» condotto comunicativo,

ma è profondamente ideologico, dato che nasconde l’impatto comunicativo sulle reciproche

posizioni di emittente e ricevente.

Basterebbe pensare alla celebre trasmissione radiofonica di Orson Welles, tratta da La guerra

dei mondi, che anticipò il coinvolgimento tipicamente televisivo delle forme di neotelevisione,

come il reality-show. Ciò che i cittadini americani si videro recapitare dalla radio quel 30 ottobre

1938 non fu affatto un messaggio che partiva da un emittente per raggiungerli come riceventi. In

realtà, il messaggio in apparenza era una fiction di fantascienza (tratta dall’omonimo libro di H.G.

Wells): ma il messaggio «vero» fu sostanzialmente la loro stessa inquietudine per la situazione

mondiale, ossia il fatto di essere disidentificati dalla semplice posizione di «spettatori» di un

programma di intrattenimento, e trasformati in testimoni di una guerra, dunque coinvolti

emotivamente e esperienzialmente – al punto di diventare i veri protagonisti, i veri «emittenti» del

messaggio (con le ben note conseguenze)49.

Da questo punto di vista, dunque, occorre ritornare alla celebre definizione che un altro

hegeliano come Jacques Lacan dà del processo comunicativo, secondo cui in una comunicazione

«l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita»50. In altre parole, per

Lacan, comunicare non significa affatto «trasmettere» un messaggio da un emittente a un ricevente

tramite un canale di trasmissione, ma piuttosto comunicare significa ricevere indietro dal ricevente

il nostro stesso messaggio in forma inversa, cioè vera. «Ricevere indietro dal ricevente» significa

che il messaggio non è un qualche contenuto, ma è «l’azione stessa dell’inviare un messaggio, i cui

destinatari in ultima analisi siamo noi stessi»; «il nostro stesso messaggio in forma invertita»

significa che il senso vero della comunicazione, deve venir catturato e rilanciato a noi «a rovescio»,

per poter esser colto appieno.

Benché inizialmente tale definizione fosse stata concepita soprattutto per descrivere il

transfert, cioè l’interazione all’interno della seduta psicanalitica tra analista e paziente – è evidente

che il caso eccezionale della comunicazione psicoanalitica va inteso come il paradigma generale

contesto in cui la comunicazione ha effettivamente luogo, non riesce a fornire una spiegazione genuina della dialettica mediale, segnatamente televisiva.49 Sui disordini, e persino i suicidi, che seguirono alla trasmissione di Welles, cfr. Brown 1998.50 Lacan 1966, p. 291.

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Page 27: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

della comunicazione mediale contemporanea – che, come coglierà poi Debord, si basa sul

rovesciamento (in questo, Debord spartisce con Lacan l’eredità della dialettica hegeliana51).

Questo modello comunicativo a boomerang (che per Lacan si verifica in ogni comunicazione

tra soggetti) va assunto come la forma fondamentale della comunicazione televisiva e ne costituisce

lo «specifico», perché va collegato al dispositivo della ripresa video in diretta. Non è un caso che

prima di formulare questa «legge» della comunicazione, Lacan avesse cercato di definire il

momento della presa di coscienza del soggetto (infante) in riferimento alla percezione della propria

immagine riflessa («stadio dello specchio»52). Lo specchio però si limita a «restituire» un’immagine

rovesciata, non può certo costruire quel ribaltamento comunicativo che invece sperimentiamo

davanti a un monitor. Si può pensare in questo senso a un’opera d’arte come Video Corridor (1968-

70) di Bruce Nauman. Come è noto si tratta di un corridoio in cui lo spettatore può entrare; come

spiega l’autore stesso «su un altro supporto, c’è una videocamera installata in alto, al di sopra

dell’entrata del corridoio. La videocamera è dotata di un grandangolo. Quando entrate nel corridoio,

la videocamera è dietro e sopra di voi. Man mano che vi avvicinate al monitor, alla vostra propria

immagine – ossia all’immagine di voi stessi visti da dietro – vi allontanate dalla videocamera; così

che sul monitor vi allontanate da voi stessi, e più cercate di avvicinarvi, più vi allontanate dalla

videocamera, e dunque da voi stessi. È una situazione del tutto bizzarra»53.

Si tratta di un’opera in cui entra in gioco la videoripresa, ma il video non viene usato per

realizzare (come accadeva nella ripresa cinematografica) una narrazione o un effetto pittorico, ma

per riprendere a circuito chiuso solo e semplicemente l’eventuale fruitore, che diventa così il

consumatore di un processo estetico da lui stesso innescato. Video Corridor mette in crisi l’abituale

modo di relazionarsi con le immagini n movimento: al posto di una relazione pacifica e domestica

tra schermo e spettatore, Nauman introduce un movimento dettato dal desiderio di vedere meglio,

ma governato da una ripresa di cui, sulle prime, lo spettatore è inconsapevole, e il cui risultato è la 51 Cfr. Borch - Jacobsen 1999, che insiste giustamente sui motivi lacaniani tratti dal magistero di Kojève. Da questo punto di vista è vano inserire la teoria lacaniana e situazionista della comunicazione fra le altre teorie che si affacciano nei primi decenni del Novecento e si confermano poi negli anni Sessanta e Settanta – a cominciare da Laswell per continuare con Eco e Jakobson; infatti, mentre tutte quelle teorie sono appunto delle ‘teorie’, cioè dei modelli astratti più o meno perfezionati che cercano di descrivere un fenomeno ‘reale’ – queste sono comunicazioni ‘reali’ che cercano di concretizzare modelli astratti (il fatto che situazionismo e psicoanalisi fossero intese come ‘pratiche’ fu il tratto che le accomunò e ne segnò il destino). La ben nota ‘incomprensibilità’ del gergo lacaniano andrebbe letta in questa chiave, come una comunicazione che tende essa stessa al non-senso per resistere alla legge da lei stessa descritta della reversibilità comunicativa; mentre per quanto riguarda Debord, è noto il fatto che anche egli si sia mosso in un rovesciamento intrinseco dei suoi enunciati, dato che la sua opera principale, La società dello spettacolo, dopo essere stata scritta in forma di saggio, costituì la ‘sceneggiatura’ di un film dallo stesso titolo (1973) che ne conferma/smentisce le ipotesi di fondo (le conferma in quanto il testo recitato dalla voce off di Debord stesso distorce il senso delle immagini, e le smentisce in quanto le immagini distorcono il senso ultimo delle affermazioni teoriche).52 Cfr. Lacan 1949, pp. 87-94. Si noti che il testo di Lacan, che già individua con precisione il carattere «drammatico» dell’identificazione prematura, insufficiente, ingannevole che il soggetto ha verso la sua immagine, è esattamente coevo con la teoria matematica della comunicazione di Shannon e Weaver.53 Cit. in Nauman 1997, p. 102.

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sconcertante esperienza di vedersi ripresi e di «non riconoscersi» nell’immagine del monitor – quasi

una parafrasi visiva e sperimentale dell’idea lacaniana di comunicazione.

Video Corridor ribadisce che in definitiva è solo davanti a un monitor televisivo e alle

immagini live degli altri, del mondo e di noi stessi, che viene messa in gioco la nostra identità e la

consapevolezza visiva, cognitiva e d esistenziale che abbiamo di noi stessi.

In questa fondamentale inversione comunicativa consiste la specifica capacità inversiva della

tv, inversione che è stata descritta a suo tempo da Jean Baudrillard, proprio in

riferimento/distinzione rispetto allo «stadio dello specchio» lacaniano, come «stadio video»54.

Estetica dei generi tv

Da quanto detto, ne consegue che la discussione sui generi televisivi, derivata da quella sui generi

cinematografici, risulta assai limitata, per non dire che non coglie affatto nel segno. Eppure come si

può affrontare lo studio di una estetica televisiva prescindendo dall’evidente differenziazione dei

generi che la tv dimostra di possedere? A questa domanda, pur pertinente, corrisponde un

interrogativo che è però ancor più insistente: come è possibile che, pur nella varietà quasi estrema

dei generi, la specificità televisiva continui a predominare in modo inequivocabile? Ovvero, come è

possibile che, anche considerando le produzioni televisive le più diverse, esse restino comunque

fondamentalmente accomunate proprio dal loro ineliminabile carattere ‘televisivo’ che le rende tutte

invariabilmente simili, tutte riconducibili facilmente allo specifico televisivo che abbiamo prima

individuato?

Interpretare la televisione come una arena amorfa abitata da generi diversi deriva

sostanzialmente dall’interpretarne la struttura come quella di un testo. Benché la metafora letteraria

del testo implichi di per sé un abuso se applicata ad artefatti audiovisivi55, è evidente che il cinema

deve senz’altro molto di più alla letteratura di quanto non debba ad esso la tv. In quel caso dunque,

l’analitica dei generi, definita da studiosi di cinema come Rick Altman e Steve Neale, ha svolto

l’importante funzione di trascendere il singolo artefatto (film) collocandolo all’interno di insiemi

definiti da modelli, forme stili e strutture che sono appunto i generi56. Ma il tentativo di suddividere

la produzione televisiva in generi definiti da determinate convenzioni e collegati ad altrettanti modi

d’enunciazione risulta molto meno convincente, e in definitiva ha poco a che vedere con la realtà

54 Baudrillard 1989.55 Sul carattere problematico della definizione di tv come ‘testo’, anche all’interno di una concezione semiotica, concordano anche Grasso-Scaglioni 2003, che comunque ne sposano la posizione.56 Non è il caso di ritornare alle analisi di Horkheimer e Adorno comunque per rendersi conto che la suddivisione in generi sia la classica costruzione di un sistema di ‘pseudo-differenze’ atte a rendere semplicemente commestibile un’unica categoria merceologica che andrebbe definita come immaginario cinematografico. La teoria dei generi (anche cinematografici) in definitiva è meno «un’intelligente griglia ermeneutica», quanto piuttosto uno strumento produttivo, un importante ausilio nel marketing culturale – uno strumento che è costruito a priori, e che può essere applicato a posteriori solo a prezzo di un’evidente collusione ideologica tra interpretante e testo interpretato.

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televisiva. L’idea che la tv incarni di volta in volta un modo d’enunciazione funzionale, uno

veritativo e uno di intrattenimento o ludico, sembra non tener conto della capacità inversiva del

mezzo57.

A tal proposito anche coloro che sostengono una divisione generica fondata su queste diverse

modalità enunciative, arrivano ad affermare: «In sostanza, un autore o un produttore televisivo dà

vita a un nuovo programma avendo ben in mente la mappa dei generi che caratterizzano quel

particolare momento di storia televisiva. E lo fa anche quando mette esplicitamente in campo

operazioni tese a mettere in discussione la mappa dei generi o a ibridare generi diversi»58. Se ne

evince che il problema della divisione in generi sembri riguardare più un tentativo di ‘costruire’ un

senso relativo intorno all’artefatto visivo operato a priori, a monte, un atto dunque produttivo – che

però rischia di distorcersi nella sua discesa verso l’audience. L’aggiunta secondo cui la teoria dei

generi vale anche quando viene «esplicitamente» messa in discussione non ha tutta l’aria di una

excusatio non petita? In effetti, se v’è qualcosa di veramente tipico nei generi televisivi è proprio il

fatto che essi rimettono in discussione se stessi – e non tanto per volontà dei loro autori o produttori,

quanto per la alterazione che subiscono ad opera della mediazione televisiva. Quello che la

neotelevisione ha messo in evidenza negli ultimi due decenni è qualcosa di molto diverso dalla

semplice ‘ibridazione’ dei generi fra loro (che è piuttosto un effetto tipicamente letterario). Il fatto è

che nel contesto televisivo un genere tende strutturalmente a invertirsi nel suo esatto inverso. Per

non parlare del solito reality show (che fin nella terminologia inverte i termini del reale e dello

spettacolare) prendiamo in considerazione ad esempio il caso ben noto dell’infotainment, cioè di

quei programmi che uniscono entertainment e informazione. Già all’alba postmoderna della

neotelevisione Gilles Lipovetsky notava: «Il ruolo importante svolto dall'informazione col processo

di socializzazione e individualizzazione non può essere scisso dal suo registro spettacolare e

superficiale. L’informazione, votata alla cronaca e all’oggettività non è per niente al riparo dal

lavorio della moda, anzi: gli imperativi dello show e della seduzione l’hanno in parte rimodellata

[...]. I servizi devono durare poco, i commenti devono essere chiari e semplici, intramezzati da

spezzoni d’interviste, di vissuto, d’aneddoti. E dappertutto immagini che divertano, che trattengano

l’attenzione, che provochino emozioni forti»59.

In Italia i casi di Annozero (prima Tempo reale, prima ancora Il rosso e il nero, e ancor prima

Samarcanda), Matrix, Porta a porta, ecc., sono emblematici in questo senso: il contenuto manifesto

resta pur sempre l’informazione politica, di cronaca o di costume, ma il contesto spettacolare

sovverte proprio la neutralità epistemologica su cui l’informazione dovrebbe basarsi – così che i

57 Cfr. Jost 1999.58 Grasso - Scaglioni 2003, p. 93.59 Cfr. Lypovetsky 1987, p. 239.

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«modi d’enunciazione» invertono il valore veritativo in quello ludico e viceversa. Anche se si

potrebbe obiettare che questo continuo rincorrersi di ruoli, interpretanti e interpretazioni che

costituisce la trama stessa della comunicazione (e dunque dell’estetica) mediale è imputabile alla

neotelevisione attuale – ed era sconosciuta alla paleotelevisione – è del tutto evidente che, come la

tv ha «portato a verità» le caratteristiche comunicative che erano già inerenti ai media precedenti

come la radio, la neotelevisione ha «fatto emergere» tendenze che erano già ben presenti e radicate

nella televisione degli esordi, anche se tenute ai margini e tendenzialmente «controllate»; come non

ricordare a questo proposito la sovversione docu-drammatica delle prime candid camera, che

univano un linguaggio visivo da documentario socio-antropologico al vaudeville dello «scherzo a

parte»?

La neotelevisione non ha fatto altro che rendere strutturale la sovversione della mappa dei

generi, istituendo proprio la riflessione di un modo d’enunciazione dentro l’altro. Chiaramente

questo fenomeno, inscritto nella genetica tv fin dalle origini, va molto al di là della semplice

modalità enunciativa – è infatti centrato nell’identità ontologica stessa della comunicazione

televisiva. Non è questa in fondo la cifra già contenuta in nuce nella nozione di pseudo-realismo

coniata da Adorno nel 1954?

In questo senso, la crisi della nozione di genere è stata oltrepassata dall’imporsi della nozione

di format, ossia dello schema originale e compiuto di un programma che però può essere

indefinitamente tradotto e adattato a seconda dei contesti mediali, culturali e sociali di riferimento60.

Più che un macro-genere (un sovra-insieme di cui i generi sono gli insiemi e i programmi gli

elementi), il format si distingue dal genere per il suo carattere più strutturale che contenutistico. Ne

segue la situazione paradossale che due programmi derivati (in contesti diversi) da un identico

format possono sembrare appartenenti a generi diversi: il caso di Grande Fratello è emblematico

sotto questo aspetto, dato che il format, di origine olandese, in USA si è trasformato in senso

fortemente spettacolare (e anche nelle ultime edizioni italiane ha prevalso la diretta da studio e

l’incursione di celebrities), mentre in Africa Big Brother Africa ha assunto il pieno valore di un

documento sociologico e il senso di una vera sfida tra appartenenze nazionali, unitamente a

un’imprevista emancipazione dall’occidentalismo mediatico egemone61. La forza del format

consiste dunque meno nella determinazione dei contenuti o del registro enunciativo implicito,

quanto nella dimensione strutturale, protocollare, in quanto condizione di possibilità

«trascendentale» di un determinato artefatto visivo. Il format è la perfetta «cornice vuota» che

permette al rovesciamento comunicativo televisivo di esprimersi appieno.

60 Cfr. P. Fabbri, «Estetica del format», La repubblica, 18 maggio 2007.61 Cfr. Jacobs 2007, pp. 851-868. Notevole il fatto che il vincitore Cherise Makubale fu ricevuto e indicato come un esempio da Nelson Mandela.

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Bello e brutto televisivi

A questo punto inizia a divenire più chiara la possibilità concreta di descrivere un’estetica

televisiva.

Solitamente la televisione è stata accusata di produrre forme impermeabili all’estetica – non

solo i singoli programmi, ma in generale gli usi retorici dei processi visivi (riprese, linguaggio,

interazione fra personaggi e col pubblico) sembrano quasi condannati ad essere confinati nel brutto,

nel kitsch, nella spazzatura. È un punto di vista così diffuso nella saggistica sulla televisione da

risultare difficile anche criticarne i fondamenti. Si può prendere come esempio, anche per la sua

notevole acutezza, l’analisi effettuata da Bottiroli in un intervento del 199962. Bottiroli fa

riferimento alla nota triade peirciana di Primità, Secondità e Terzità, corrispondente alla triade

modale classica di Possibile, Reale, Necessario, e si aggancia a Deleuze che utilizza le categorie di

Peirce per interpretare le immagini cinematografiche. Così, il cinema non è solo dominato dalla

Secondità, ossia dall’immagine-azione (tipica del cinema americano), cioè dal ‘realismo’, ma è

capace di fornire anche immagini-effetto o immagini mentali, afferenti alle tipologie modali della

Primità e della Terzità. Per questo il cinema ha valenze artistiche, che alla televisione sarebbero

precluse: «Il linguaggio specificamente televisivo è il linguaggio della realtà: le immagini del

telegiornale, i grandi avvenimenti sportivi, i funerali di lady Diana e l’interrogatorio di Clinton, ecc.

Vorrei ora che cercassimo di trarre le conseguenze sul piano estetico da questa subordinazione a

‘ciò che esiste, nel momento in cui accade’. Se questa è la forza della televisione, se questa è la

motivazione fondamentale a guardarla, allora mi sembra difficile mettere in discussione la tesi

secondo cui la TV è il luogo dell’antistile. Infatti lo stile è selezione e elaborazione (e così genera

bellezza): ma in una trasmissione in diretta non si può né selezionare né elaborare. Non vi è il

tempo per farlo, e non sarebbe opportuno farlo. L’elaborazione stilistica appare superflua, in quanto

il telespettatore viene interamente appagato dalla ‘percezione di realtà’. Una realtà non selezionata è

ridondante, ma la ridondanza è televisivamente necessaria: ogni correzione, ogni scelta, rischia di

cancellare qualcosa di importante: come è accaduto per esempio la sera del 9-12-1998, quando un

collegamento con lo stadio di Bilbao ha ‘disturbato’ e in pratica ha impedito di vedere in diretta il

goal di Amoruso, al Delle Alpi di Torino. Questa goffaggine della TV, ogni volta che deve far

ricorso a interventi di selezione, mi pare significativa». Bottiroli ne conclude che «un’opera in cui

una categoria scaccia le altre, anziché includerle attivamente, sarà un’opera fallita o mediocre. Un

linguaggio che privilegia unilateralmente una categoria modale è brutto. Ci si può chiedere se la

televisione sia davvero ‘irriformabile’ sul piano estetico. Io affermo che il linguaggio televisivo può

62 Cfr. Bottiroli 1999.31

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ospitare bellezze preesistenti, e provenienti dal mondo della vita (pesci tropicali e splendide

soubrette) ma, in quanto linguaggio, è inadatto a generare bellezza»63

Il richiamo alla nozione di stile è in questo contesto problematico; probabilmente le

osservazioni di Bottiroli potrebbero valere non solo per la televisione, per tutta la videoarte, anzi,

forse per tutta l’arte contemporanea in generale. L’arte contemporanea si è costituita per differenza

rispetto alla nozione tradizionale di «arte» come un fare orientato alla produzione di bellezza, fin

dalle avanguardie storiche se non proprio a partire dal travolgente successo del realismo già nel

XIX secolo64. Certamente una data di nascita dell’antistile può essere rintracciata nelle forme

artistiche del primo dopoguerra come l’Espressionismo Astratto americano, e più tardi in tutte le

esperienze performative, dall’happening in poi, che evitano a priori qualsiasi elaborazione proprio

perché avvengono «in diretta». Sono queste forme che, lungi dal tendere semplicemente verso il

«brutto», ne rovesciano il significato: brutto è proprio lo stilistico e l’elaborato, il volutamente

selezionato, mentre «bello» è l’improvvisato, il casuale, l’amorfo, che coincide con il «riuscito»,

con il realizzarsi, l’attualizzarsi dell’eventum65. Un’idea unilaterale della bellezza, sostanzialmente

come armoniosa composizione formale, rischia di essere inadeguata a cogliere il carattere

«dialettico» dell’estetica tv, e tende a riflettersi sulla interpretazione stessa delle categorie modali

peirciane. Sarebbe fare un torto a Peirce pensare che la Secondità sia banalmente la categoria del

realismo: è cosa ben nota che la nozione di «realtà» in senso pragmatista implica un continuo rinvio

all’infinito, e «sarà compiutamente vera solo alla fine della serie dei rinvii interpretativi, mai nella

presenza della raffigurazione intuitiva. ‘Tale teoria […] fa della realtà qualcosa costituito da un

evento infinitamente futuro’»66. La famosa Secondità è piuttosto un’angolazione del prisma che

comprende le altre due categorie, e da cui esse stesse possono essere giudicate – proprio come nei

nodi borromei cari a Lacan, in cui ogni elemento implica gli altri due. Il pragmatismo di Peirce è

piuttosto la base per i nuovi approcci all’estetica come quelli di Dewey che, nel suo Art as

Experience, riprendendo il dinamismo ontologico del maestro, anticipa le nuove forme d’arte come

l’happening basate sull’accadimento nel qui e ora, e sull’allargamento dell’estetica a qualunque tipo

di esperienza67.

Il significato estetico della dialettica genere/format che caratterizza in genere il prodotto

televisivo è evidenziato in negativo proprio dai momenti di «malfunzionamento» del mezzo. La

«goffaggine» della tv quando ad esempio «buca» un collegamento sportivo in diretta, potrà anche

spiacere al tifoso, ma palesa in pieno il potenziale televisivo, rompendone da dentro la falsa

63 Bottiroli 1999, p. 10.64 Cfr. Danto 2003.65 Belgrad 1999.66 Cit. in Fabbrichesi Leo 1993, p. 21.67 Su questo specifico punto rimando a Senaldi 2008, pp. 49-60.

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Page 33: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

naturalità: il vero evento che così si rivela è proprio l’evento stesso della comunicazione – in altre

parole, «il televisivo» come tale (quello che con un modo di dire abusato è «il bello della diretta»,

ossia il suo carattere impredittibile, aperto sull’infinitamente futuro peirciano-deweyano)68.

In questo contesto, all’apparenza addomesticato e strutturato in generi ben definiti, le

incursioni artistiche nel mezzo tv, da Dalì a Cage, da Duchamp a Warhol, a Chris Burden, Eco,

Pasolini, Gino De Dominicis, Carmelo Bene, ecc., assumono un inedito senso estetico all’interno

della dialettica tra mediazione ed esperienza e rivelano la vera natura della televisione.

Si prenda in considerazione una delle prime apparizione di un artista all’interno di un tipico

quiz show paleotelevisivo come What’s my Line? (andato in onda su CBS dal 1950 fino al 1967). Il

gioco consisteva nell’indovinare, da parte di alcuni concorrenti bendati, il nome di un personaggio

famoso presente in studio, a cui potevano essere rivolte delle domande che prevedevano come

risposta solo dei sì o dei no. In una puntata (ora divenuta visibile69) del 1952 fa la sua apparizione

Salvador Dalì, all’epoca già molto famoso negli USA, sia come artista che come personaggio

pubblico, anche per le sue stravaganze leggendarie come la realizzazione del «Dream of Venus

Pavillion» in occasione della World’s Fair di New York del 1939. Si potrebbe trattare di una

semplice ospitata all’interno del tipico quiz show, se Dalì, che evidentemente fatica a capire le

domande in inglese, si prestasse non solo al gioco, ma in un certo senso lo facesse sfuggire alla sua

logica appunto di gioco televisivo – instaurando una sorta di performance. Basta questa uscita di

senso per ribaltare il significato della sua apparizione televisiva: con questa performance è la tv

stessa a uscire dai propri limiti di intrattenimento e a costituire una vera e propria «opera» firmata

Dalì: Dalì in effetti inizia la sua partecipazione allo show proprio apponendo una gigantesca firma

su una parete dello studio, quasi anticipando la colossale firma apposta da Picasso su una tela

bianca al termine del mitico Le Mystère Picasso di H.G. Clouzot del 1956)70. È forse solo un caso

che questo intervento avvenga nello stesso anno in cui John Cage concepisce e realizza il primo

happening della storia dell’arte al Black Mountain College? E che, sempre nel 1952, Lucio Fontana

firmi con altri spazialisti il rivoluzionario Manifesto del movimento spaziale per la televisione?71

68 Esiste tra l’altro una famosa opera di videoarte – ma ispirata chiaramente all’universo televisivo, realizzata da due importanti esponenti dell’arte contemporanea internazionale quali Douglas Gordon e Philippe Parreno, cioè Zidane. Un portrait du XXIème siècle, 2006, che consiste nella ripresa del solo Zinedine Zidane durante una partita escludendo tutto il resto dell’evento sportivo; il senso complessivo, cronachistico, della sfida tra Real Madrid e Villareal del 23 aprile 2005 a cui si riferiscono le immagini è perduto, ma il «senso» profondo della trasmissione televisuale torna visibile come se fosse la prima volta, e per la prima volta vediamo davvero cosa fa, come si comporta, come «esiste» un giocatore in una partita per tutti i lunghissimi 90’ che ne compongono lo svolgimento.69 Su youtube, http://www.youtube.com/watch?v=ZG41jTUVL5k, accesso del 12/9/2010.70 Le partecipazioni televisive di Dalì furono del resto assai numerose, sia sotto forma di ospitate (oltre che a What’s my Line, anche a The Name’s the Same, nel 1954, poi a I’ve Got a Secret) che sotto forma di interviste, spesso sorprendenti. È noto che Dalì disprezzava la televisione, ma questo non gli impedì di utilizzarla a più riprese per i suoi «happening»; cfr. l’intervista a Amanda Lear, notoriamente la musa di Dalì negli anni 70, che usa esattamente questa espressione, cit. in King 2007, p. 183.71 Rimando qui, e per la sezione che segue, a Senaldi 2009.

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Page 34: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Evidentemente no, anche se occorre qui stabilire alcune distinzioni. Nel 1952 Fontana non

solo teorizzò l’uso artistico della televisione, ma lo mise in pratica realizzando una trasmissione

sperimentale oggi perduta, ma che certamente, se dobbiamo credere alle immagini sopravvissute e

soprattutto alle tesi spazialiste, doveva impiegare la luminosità dello schermo come strumento

espressivo. Nel Manifesto è però messo in evidenza un altro carattere che a quegli artisti appariva

fondamentale, cioè la vocazione «spaziale» (più che temporale) della televisione, il fatto che per

loro fosse il mezzo ideale per usare «gli spazi… come materia plastica». Questo punto di vista si è

rivelato, col tempo, assai fecondo, se solo si pensa all’opera video artistica di Nam June Paik,

l’artista che forse più di ogni altro ha impiegato il video e le possibilità di trasmissione delle

immagini nel tempo e nello spazio. Tuttavia, proprio Paik, come la grande maggioranza dei video

artisti, si è allontanato dallo specifico televisivo, impiegando la teletrasmissione e l’immagine video

come forma alternativa rispetto al tipico «contenitore» televisivo.

La strada percorsa invece da altri artisti, segnatamente da Dalì a Cage, su fino a Andy Warhol

(artisti interessati al sistema televisivo, non al mezzo in sé, e pertanto lontani dalla videoarte

tradizionale) è invece quella di inserirsi entro il contesto televisivo – sovvertendolo per così dire da

dentro, evidenziando in modo anamorfico la dissimmetria che lo contraddistingue.

Pochi anni dopo Dalì, anche John Cage stesso prese infatti parte ad un quiz televisivo assai

simile. Nel 1958 Cage, a quell’epoca in Italia, decise di concorrere a una delle più importanti e

seguite trasmissioni della neonata tv italiana, cioè il celeberrimo Lascia o raddoppia, il cui format

era peraltro modellato sull’esempio del classico USA The $ 64.000 Question72. La registrazione

dell’intervento di Cage si è persa ma ne è sopravvissuta la trascrizione in ogni caso straordinaria73.

Inoltre, cosa ancor più importante, è sopravvissuta una partecipazione risalente al 1960 a I’ve Got a

Secret, un quiz americano di quegli anni, in cui lo stesso Cage performa il suo brano «musicale»

Water Walk.74

Ora, si potrebbe sostenere che il motivo della partecipazione di Cage al quiz italiano fosse

dovuta alla necessità di reperire i fondi per proseguire le sue ricerche musicali, e che quindi il senso

di queste comparsate fosse puramente economico – del resto, in che altro modo si potrebbe

giustificare la presenza all’interno della scatola tv di uno dei compositori più sovversivi del

Novecento, sedotto dalla filosofia orientale la più distante che si possa immaginare dalla società

spettacolare occidentale? Eppure, il comportamento di Cage, e soprattutto il fatto che tale

72 Cfr. Grasso 2006, p. 365.73 Cfr. il numero monografico dedicato a Cage di Sonora 1992.74 Visibile su youtube http://www.youtube.com/results?search_query=cage+water+walk&aq=f (accesso del 9/9/2010). Cosa notevole, anche Dalì prese parte a una puntata di I’ve Got a Secret, in cui «impersona» la Monna Lisa, in una performance di straordinaria forza e di irresistibile comicità surreale.

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Page 35: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

partecipazione sia stata reiterata dopo poco tempo, fanno ritenere superficiale questa

tranquillizzante lettura.

In effetti, la partecipazione tv di Cage del 1958 segue di pochi anni Untitled Event il primo

happening da lui tenuto con altri al Black Mountain College nel 1952. Uno dei caratteri

dell’happening da non sottovalutare (oltre ai ben noti elementi di aleatorietà, improvvisazione,

mescolanza di arti diverse, confluenza fra arte e vita ecc.) è il fatto che esso si doveva inserire nel

resto delle attività quotidiane senza una netta separazione, e che inoltre il suo senso dipendeva dal

contesto in cui veniva realizzato75. Ora, Cage negli anni ’50 si era già reso conto che il contesto in

cui l’arte andava sempre più inserendosi non era il contesto «naturale» della pura vita. Benché il

Black Mountain College fosse un luogo di educazione ispirato alle teorie sul rapporto arte/vita

espresse da John Dewey nel suo Art as Experience del 1934, Cage opera in un contesto teoretico e

sociale ormai distante da quello deweyano76. Cage comprende chiaramente che l’«esperienza» in

senso deweyano è qualcosa di utopico nel suo presunto ritorno alla natura – e infatti nelle opere

degli anni ’50 come Wiliams Mix, e Imaginary Landscape 4 e 5 e soprattutto il celebre Radio Music

(tutti del 1952, cioè coevi a Untitled Event) utilizza mezzi di comunicazione come radio e dischi

registrati su nastro e riprodotti in modo aleatorio – cioè elementi appartenenti all’universo mediale.

Pensare dunque che quando Cage va in tv lo faccia ingenuamente sarebbe a sua volta ingenuo;

in realtà Cage sta intervenendo esattamente all’interno di quella che è un modello dell’‘esperienza’

contemporanea.

Cage inserisce, nell’evento televisivo, l’evento come happening, l’evento dell’arte. L’evento

dell’evento riporta le cose all’inizio – situazione non diversa che in Welles, se pure su scala molto

ridotta: Cage cioè riconduce a verità l’ideologia falsamente trasparente del mezzo, ritrasforma la tv

da (pseudo) mezzo di comunicazione (ciò per cui essa stessa vuole farsi passare) a comunicatore di

mediazione (la mediazione come ciò che conta nella comunicazione, l’accadimento del fatto

mediale in quanto tale).

Nella seconda partecipazione tv degli anni 60, che invece possiamo osservare interamente,

questo aspetto è ancor più accentuato. Il conduttore inserisce Cage all’interno del flusso tv

esattamente come se si trattasse di un comico o di un pezzo di varietà come un altro – e di fatto ci

vuole un po’ per realizzare che si tratta di un happening e non di un bizzarro inventore di macchine

inutili. La sua esibizione musicale, infatti, è realizzata perlopiù con oggetti domestici (un frullatore,

una vasca piena d’acqua ecc.), Questo dettaglio è però di grande rilevanza: a differenza, infatti,

delle letture tradizionali che vedono nell’happening una forma di evento multimediale

75 Cfr. Balzola - Monteverdi 2004.76 Cfr. ancora Senaldi 2008.

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Page 36: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

«eccezionale», «festivo», di rottura e di inaugurazione di pratiche spettacolari rivoluzionarie,

occorre invece ribadire che l’happening ha invece un registro basso, routinario, segnato anche da

una vena di insopprimibile comicità. La scoperta specifica di John Cage consiste pertanto proprio in

questo, nel comprendere che, attraverso una «semplice» iniezione di nonsense è possibile una

inversione dialettica del televisivo – ovvero che il televisivo non è altro che questo continuo

ribaltarsi di senso. Le partecipazioni tv di Cage sono dunque di estrema importanza perché

riflettono il funzionamento inverso del sistema mediale televisivo – lo afferrano per quello che esso

(non) è, e lo rilanciano non al mittente, ma a se stesso – lo flettono, per così dire, su di sé (su ciò che

non sa di essere).

In tal senso l’happening prende atto del ribaltamento universale indotto dall’esperienza

spettacolare (già sottolineato da Debord) – ribaltamento a cui non si può opporre nessun «mondo

raddrizzato», nessuna utopia artistica, nessun atto «rivoluzionario» – ma in cui l’unico modo per

«prendere coscienza» consiste nel creare un momento di minimo distacco, di leggera asincronia, di

sottile sfasamento – cioè appunto l’happening televisivo, calato entro e realizzato dentro (e non

fuori o contro) le strutture stesse dello «spettacolo» nella sua massima espressione.

In questo senso, la cifra estetica televisiva, il distacco disidentificante che la mediazione

televisuale ha sulle cose e sui soggetti, viene pienamente assunta dall’unico artista che si sia

incaricato non solo di partecipare a trasmissioni tv, ma di diventarne autore e produttore – cioè

Andy Warhol. Warhol si dedica alla tv in maniera approfondita e tutt’altro che episodica a partire

dalla fine degli anni 70 fino alla sua morte, nel 1987, prima con Fashion, una sorta di proto-talk

show andato in onda sull’emittente via cavo Manhattan Cable. Alcune puntate di Fashion vengono

del resto riprese e ritrasmesse all’interno della Andy Warhol’s TV (su MSG Network,1980-86) che

quindi può a pieno titolo essere considerata la prima vera tv warholiana, seguita dalla più celebre

serie Andy Warhol’s Fifteen Minutes (1986-87) su MTV. È significativa la presenza di Warhol:

sempre laterale, non fa assolutamente nulla per imporsi nello show, non conduce, non ruba la scena

– anzi, molto spesso, la lascia ad altri, quasi che in fondo il livello più alto dell’opera fosse ormai

quello di un puro registrare gli eventi e le novità che si susseguono in un andirivieni senza posa, di

cui solo la televisione può essere il fedele specchio. È vero che a più riprese intervengono nello

show vecchie glorie della Factory come Divine, o artisti veri e propri come David Hockney, Philip

Glass, Keith Haring, ma è indiscutibile che Warhol non fa nulla per far fare alla tv ciò che la tv non

farebbe da se stessa. Il fatto, a tutta prima sorprendente, che Andy Warhol’s Tv non evidenzi dei

contenuti apertamente artistici, non ne fa un ‘sottoprodotto’ all’interno della variegata attività di

Warhol, anzi, ne costituisce semmai – e nella voluta mancanza di qualsiasi elemento «originale» –

l’originalità estrema. Andy Warhol’s Tv va collocata pertanto al punto limite della sdefinizione

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Page 37: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

dell’arte, e contestualmente della figura separata dell’artista, là dove questa sdefinizione sconfina

nella sdefinizione del medium televisivo. Con questa operazione Warhol compie un gesto

estremamente significativo perché, proprio nella sua vicinanza alla logica più retriva e commerciale

del prodotto televisivo di massa, cioè il talk show, riesce ad additarne la cornice strutturale non da

una presunta alterità ermeneutica, ma da dentro – da una vicinanza rischiosamente confondibile con

la collusione. Un po’ come accadde per le famose Brillo Boxes, autentiche sculture che simulano le

vere scatole di prodotto, Andy Warhol’s Tv riesce a mettere in simulazione la macchina produttrice

per eccellenza di simulacri, ossia la televisione – e con ciò produce sia l’oggetto (un vero prodotto

mediale, un talk show) che un processo mentale (una riflessione su di esso). Per questo la Andy

Warhol’s Tv è l’equivalente mediale delle Brillo Box di vent’anni prima.

D’altra parte quest’«opera» televisiva cela un monito che nella sua vita Warhol ha ribadito a

più riprese, ossia il fatto che, nella società dello spettacolo mediale, si può certo diventare famosi,

ma questa fama, o meglio, questo successo momentaneo, è pagato con la moneta sonante della

propria identità. Diventare dei personaggi televisivi, insomma, ci ricorda Warhol, implica

necessariamente cessare di essere persone – significa entrare nello stadio-video – dunque cessare di

«essere se stessi». E il primo a sperimentare questo senso di estraneità intrinseca è Warhol stesso:

«Avevo sempre pensato di non essere del tutto presente: ho sempre avuto l’impressione non di

vivere, ma di guardare la Tv»77.

Andy Warhol’s TV riassume quindi i caratteri determinanti della poetica warholiana, ma

esprime anche un’importante concezione dell’estetica televisiva: il carattere inversivo della

comunicazione (per cui tutto ciò che entra nel video tende a perdere la propria identità, e a

rovesciarsi nel suo opposto); l’elemento di creazione dell’«evento»; e infine (qui più chiaramente

che altrove) la ripresa del concetto di interpassività, trattandosi del classico talk-show in cui non

succede niente (il titolo originariamente pensato da Warhol era Nothing special, «Niente di

speciale», in cui l’eccezionale dell’opera d’arte diventa quel nulla di speciale che è la televisione

stessa, questo nulla che non si nota, ma che domina le nostre vite, le «passivizza»).

In ogni caso, tra le partecipazioni più notevoli di Warhol alla tv, vanno annoverati i tre celebri

episodi di un minuto ciascuno realizzati per il Saturday Night live, lo show più famoso d’America.

È sintomatico il modo con cui Warhol gestì questo rapporto con la più importante emittente USA, la

NBC, produttrice dello show. Contattato da Lorne Michaels già nel 1979 infatti, che aveva

intenzione di realizzare uno speciale di 90’ su di lui, Warhol rifiutò, perché non avrebbe avuto

abbastanza controllo artistico sulla produzione. Questo rifiuto è della massima importanza in quanto

fa capire che Warhol era talmente consapevole dell’importanza estrema della tv, e del fatto che la

77 Warhol 1975, p. 77.37

Page 38: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

propria identità di individuo e di artista ne sarebbe stata segnata, da rifiutare la possibilità che la tv

si occupasse di lui se lui non poteva occuparsi della tv. Fu solo più tardi, nel 1981, quando venne

nuovamente contattato da Nelson Lyons, amico del writer e produttore Dick Ebersol che gli

chiedeva di realizzare tre spezzoni per lo show, che Warhol – che nel frattempo aveva acquisito

l’esperto Don Monroe come direttore delle produzione tv della Andy Warhol Studio – accettò. Lo

spezzone più famoso è quello in cui Warhol viene truccato davanti a uno specchio e parla dell’unico

vero tabù televisivo, cioè la morte. Ma non si tratta della morte cristiana – il passaggio all’al di là –,

né della morte romantica (tema autodistruttivo che invece è tipico proprio di Basquiat come

incarnazione tardiva del vangoghismo) – no: qui la morte è veramente la morte mediale, il venir

meno dello spettacolo all’interno dello spettacolo come tale. Infatti, mentre Warhol dice: «la morte

può renderti simile a una star. Ma tutto va storto se il tuo make up è sbagliato...», gradualmente,

mentre viene truccato con un pesante cerone biancastro, quasi come se fosse già un cadavere da

esporre allo sguardo dei fan, l’immagine si sfuoca, diventando una trama di pixel sempre più larghi,

sempre più astratti. Warhol, la sua effige, diventano niente, si smarriscono nei pixel che

compongono l’immagine televisiva stessa78.

La vita, divenuta completamente estetizzata (e non a caso la tv di Warhol si occupa spesso di

moda e di stilisti) è anche divenuta totalmente anestetizzata (secondo la profezia di Duchamp): il

massimo della pervasività dell’esperienza estetica combacia col suo minimo, coincide con la

sparizione di ogni Bedeutung artistica – altro ossimoro tipicamente televisivo. Il singolo è

l’universale, il minimo diventa il massimo, l’inestetico diventa l’estetico e viceversa

l’estetizzazione forzata conduce all’anestesia totale, e infine il massimo dell’agire coincide con il

puro patire – in questo incessante rovesciarsi di una cosa nel suo opposto sta il tratto tipico

dell’epoca televisiva.

78 Su questo punto cfr. Spiegel 2008, cap. 7, «Andy Warhol TV».38

Page 39: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Carlo Serra

Estetica della musica nello spettacolo

Cosa vuol dire forme complementari?

In che modo un’immagine si collega al suono? Vi sono almeno due vie per tentare di rispondere a

questa domanda: esse trovano il proprio fondamento nei decorsi percettivi che sostengono il

costituirsi della nostra esperienza del mondo. Cammino lungo il corridoio di casa mia, e ascolto il

rumore dei miei passi, che accompagnano il continuo modificarsi del mio punto di vista nella scena

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Page 40: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

percettiva, un susseguirsi di immagini che, passo dopo passo, si susseguono, secondo

un’articolazione causale. Ascolto il segnale dell’ambulanza che si rende via via più intenso, mentre

passa sotto casa mia: l’intensificarsi di un suono, come indice dell’incombere di una cosa che

ancora non vedo, è un gradiente di senso, che guida l’organizzazione del nostro vivere nel mondo.

Così, nell’attenuarsi di quel suono, avverto anche il venir meno dell’oggetto, il suo allontanarsi. Si

tratta di due esempi diversi, ma che rendono palpabile un primo nesso suono-cosa, in cui

l’integrazione suono – immagine, il correlarsi dei loro indici, diventa gradiente essenziale

nell’articolazione del rapporto con l’ambiente. Nell’arricchimento latente che lega le due forme

percettive, si svela una tendenza, tutta interna alla configurazione del senso dell’esperienza, tesa a

ricostruire un terreno comune, fra due regioni distinte della ricezione, saldamente intrecciate sul

piano di decorsi ordinati attraverso cui ci costruiamo un’idea delle regole che organizzano il mondo

che ci circonda: nel tessuto costitutivo della nostra esperienza le modificazioni dell’intensità sonora

e lo svilupparsi di serie d’immagini che si susseguono secondo un rapporto di implicazione

reciproca sono fuse tra loro, e così, all’allontanarsi dell’ambulanza, corrisponderà un progressivo

affievolirsi del suono della sirena.

Attestandoci su queste forme di correlazione implicita, potremmo pensare al rapporto suono-

immagine in una poetica della rappresentazione di tipo realistico: la necessità di una

complementarità fra suono e immagine obbedirebbe così ad un intento di tipo mimetico, di

ricostruzione delle condizioni dell’esperienza all’interno della fruizione artistica. E certamente il

tema accompagna la storia del teatro fin dall’inizio (si pensi all’acustica del teatro greco, alla sua

capacità di far risuonare la voce dell’attore in maschera nell’ampio spazio che circonda la scena) ed

emerge anche all’interno di quel complesso passaggio della storia del cinema che va dal muto

all’audiovisivo.

Il tema evoca immediatamente le sfere concettuali che legano la natura all’imitazione, una

delle linfe più vive nell’evoluzione della riflession sui nessi suono-immagine: conviene tuttavia

ricordare che gli intenti espressivi di un’opera d’arte non possono collassare completamente sul

piano del realismo o della forma mimetica. Il saldarsi di quei nuclei originari dell’esperienza può,

al contrario indebolirsi o sciogliersi, quando teatro o cinema ricorrono alla dimensione acustica, e

al suono variamente inteso, per la drammatizzazione di azioni.

Si apre così un percorso che va dal suono verso l’immagine, in particolare, nella tradizione

estetica del mondo antico, nasce un fitto dibattito sulle possibilità rappresentative legate a quelle

che potremmo chiamare le proprietà psicagogiche della musica, quell’insieme di sollecitazioni

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Page 41: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

emotive prodotte da ritmi e da melodie che conducono l’animo umano verso orizzonti semantici o

espressivi intimamente collegati alla potenza emotiva della musica79.

Proviamo, per ora, a entrare nelle regioni concettuali, dove prende forma quel rapporto che

lega il suono all’immagine, e, in particolare, il suono alla messa in scena: dovremo intendere questa

relazione ponendo l’accento sul terreno della rappresentazione simbolica. Mirando a questo modello

di relazione dovremmo pensare che suono e gesto teatrale si incontrano nell’esplicitazione di

contenuti narrativi latenti, che la musica dovrebbe disambiguare o portare in evidenza: il suono

lavora sui nuclei affettivi che latitano attorno all’immagine o alla scena.

Tali relazioni assumono particolare trasparenza nei contesti rituali, un campo dove la

trasformazione simbolica dell’evento sonoro, pur essendo strettamente sigillato nella dimensione di

una teatralità rituale, risulta più facilmente avvicinabile: nel rito, infatti, le forme simboliche e la

teatralizzazione del suono devono incontrarsi, per portare lo spettatore all’interno di una comunità

celebrante. All’interno della comunità, lo spettatore è chiamato a partecipare al rito, ad assumere

un’identità simbolica, che gli fa condividere le forme di significato agitate dal rito stesso.

Nel nesso musica-rito il musicale fa propria la nozione di mondo, perché il rito vuol

trasformarne il senso o il valore. Nella cerimonia o nella ritualizzazione di un oggetto, il valore

delle cose si trasforma, e la musica che si utilizza trasforma l’oggetto in una struttura su cui agire, o

da manipolare, come accade per i tamburi magici o per le danze rituali. Ciò significa che nella

ritualità nasce un rapporto magico con la cosa, rapporto che vede il suono attivare una

modificazione dell’oggetto attraverso la sua assenza e la sua sacralizzazione. Le molte pratiche

dello sciamanesimo, dove l’evocazione del mondo del magico si dà attraverso l’uso di richiami

simbolici di tipo sonoro, ne è una buona esemplificazione. In quel caso, l’elemento sensibile

evocato dalla qualità del richiamo, dell’imitazione, sta alla presenza dell’animale simbolico in un

senso ampio e frastagliato80: l’imitazione dell’animale fa tutt’uno con l’evocazione dello spirito che

l’animale simbolizza, quel suono si fa voce di un mondo invisibile. L’imitazione acustica è tutta

proiettata verso il valore immaginativo del simbolico.

Illuminando dall’interno la relazione fra suono e immagine in senso magico, il rituale

trasfigura l’ovvio riferimento al rapporto suono-cosa. La calibratissima imitazione di un verso

animale non evoca più la cosa, ma il significato spirituale, e magico, che la cosa assume all’interno

di un regime simbolico, il lato sinistro, nascosto della cosa stessa, mettendo in gioco quei

79 Per un’introduzione al tema rimandiamo al bellissimo Rouget 1986.

80 Difficile fornire una bibliografia esauriente su questo tema, che da anni interessa gli etnomusicologi: ci limitiamo a rimandare alla complessa vicenda della fruizione dello sciamanismo siberiano, di cui il lettore troverà ampia rassegna in Andrei. A. Znamenski, (2003) Shamanism in Siberia. Russian Records of Indigenous Spirituality,Kluver Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London.

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meccanismi metamorfici che sembrano accompagnare continuamente l’idea di mimesi determinata

dalla interferenza fra suono e immagine. Nel momento in cui il suono si sostituisce alla cosa, la

teatralizzazione del rituale pone l’aspetto sonoro come unica traccia della presenza di un mondo

magico ed invisibile.

Il suono va oltre se stesso, perdendo la propria identità referenziale, assumendo senso solo

all’interno di quell’intervallo della credenza comune in cui il verso imitato di un animale diventa la

voce di un demone, in una profonda complicità espressiva, che lega tra loro tutti i partecipanti: si sta

riaffacciando il tema dello sconfinamento, in un senso vicino a quello evocato dal raffinato

strutturalismo metamorfico di Ejzenštein: il suono dà valore alla cerimonia, ne fissa i recinti

simbolici, la porta dialogare con una dimensione di tipo estatico, non lontana dagli esiti espressivi

prefigurati da La natura non indifferente, e soprattutto l’irrompere dell’espressività degli eventi

sonori modifica, con la complicità dei partecipanti, i nessi interni alla realtà, proponendone il

rovesciamento magico.

La qualità mimetica è ora totalmente assorbita nella transvalutazione simbolica: sembra quasi

che l’apertura della dimensione simbolica del rituale partecipi dello sfumarsi delle forme di

credenza, che ne sostengono la condivisione, e che la potenza del suono creino un disorientamento

ritmico, che muta lo stesso valore visivo della cerimonia: il suono si fa filtro narrativo, che fonde tra

loro strutture diverse in grado di porre in regime di continuità piani della realtà e valorizzazioni

immaginative, che vengono rafforzate dagli atteggiamenti di credenza e di complicità dei

partecipanti.

Credenza e complicità: a ben guardare l’orizzonte simbolico giocato dall’interazione

ritualistica fra suono e immagine non è poi così lontano dal nostro atteggiamento di spettatori

quando partecipiamo ad un evento teatrale: basterebbe pensare, ad esempio, che anche il corpo

dell’attore nella tragedia greca stia per qualcos’altro, per una presenza mitologica, che si incarna in

quella persona e in quella maschera. Lo scambio simbolico nel corpo dell’attore permette che

qualcosa di estremamente remoto si formi sotto i nostri occhi e si lasci ascoltare: la radice rituale e

politica del teatro trova il proprio fondamento nell’apertura di una correlatività partecipe: fra i

mezzi a cui si ricorre con più facilità emerge la drammaturgia sonora, che avvolge i nessi narrativi,

suggerendo aspetti che sulla scena possiamo solo avvertire e non vedere, che sottolinea significati

che trascendono i personaggi. Tutto il melodramma è lambito da queste ambiguità, che stringono a

vario titolo, e con intensità diverse, reti di complicità con lo spettatore.

I legami fra complicità, credenza, e acontestualizzazione dei prodotti dell’immaginazione, che

vivono naturalmente all’interno della propria forma narrativa, entrano a far parte anche della

grammatica cinematografica: alle volte, nel brulicare dei suoni e dei rumori extrainquadratura (che

42

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ci parlano dell’incombere del mondo sulla narrazione) il senso di tali relazioni si rovescia, arrivando

a decontestualizzare l’immagine stessa, portandola quasi fuori di sé. Emerge così quella dimensione

estatica al centro degli interessi di Ejzenštein , la capacità di far collassare tutte le componenti

narrative in una struttura compatta tesa a catturare lo spettatore, che ora corre modo centrifugo

verso le grandi costituzioni simboliche della visione, ora verso il mondo.

L’inquadramento sonoro dell’immagine non apre solo su registri emotivi che modificano

completamente il senso dell’immagine stessa, ma mostra quanto spessore venga attribuito

all’immagine dal movimento temporale del suono, come ne filtri la ricezione in termini temporali,

modificandone il respiro interno.

È un problema diverso, molto più sfumato di quanto non faccia immaginare il semplice

rovesciamento dei climax emotivi, come accade per il sorriso decontestualizzante che viene

sollecitato da una scena tragica, accompagnata da una musica sguaiata. Possiamo parlare

dell’emergere di un tema espressivo del suono, che stringe in sé il ritmo del montaggio, il taglio

della sequenza, il colore timbrico della fonte, una serie indefinita di variabili piuttosto complesse,

che si fanno avanti tutte assieme e che conducono nell’azione attraverso le interferenze delle loro

colorazioni. Ce lo spiega bene un esempio tratto da Michel Chion:

Sullo schermo si succedono immagini brutali […] Scene traumatizzanti di animali sacrificati. Una mano inchiodata. Poi: un obitorio in cui scorre il tempo quotidiano; nell’obitorio, un bambino che sembra inizialmente un corpo come gli altri, e che invece si agita, vive, legge un libro accosta una mano alla superficie dello schermo […]

Stop! Riavvolgiamo il film di Bergman fino all’inizio e così semplicemente eliminiamo il suono, per provare a

rivedere il film dimenticando quanto abbiamo visto in precedenza. Ciò che vediamo è tutt’altro.Il piano della mano inchiodata, tanto per cominciare: nel silenzio scopriamo che si trattava di tre piani distinti,

mentre ne avevamo visto soltanto uno perché si legavano grazie al suono. E soprattutto, privata del rumore, la mano inchiodata è astratta. Sonorizzata essa è terrificante, reale. Le immagini dell’obitorio: senza il suono che le legava (uno sgocciolio d’acqua), scopriamo in esse una serie di fotografie fisse, di pezzi di corpi umani isolati gli uni dagli altri, privati di spazio e di tempo […]. Tutta la sequenza ha perso il proprio ritmo e la propria unità81.

L’inizio di Persona di Ingmar Bergman (1966) illumina in modo incisivo il tema delle

proiezioni del suono sull’immagine, tenendoci lontano dai tratti realistici, a cui sembravano portarci

le correlazioni da cui abbiamo preso le mosse. Le sequenze hanno un evidente colore onirico, se

non da incubo, mentre i nessi di continuità fra le scompaginate sequenze iniziali, che mirano a

condurci all’interno del dramma della scissione psichica, cercano un’unità del contenuto narrativo,

garantita soltanto dal suono. Sospendere il nesso sonoro ha esito frastornante: la sequenza della

mano inchiodata si frantuma in tre tronconi, la lacuna del riferimento sonoro confina il gesto

sinistro in un’atmosfera astratta.

81 Chion 2001, pp. 13-14.43

Page 44: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Qualcosa di diverso accade per le immagini dell’obitorio, che, senza la continuità dello

sgocciolio, potente immagine di un regime di una dispersione, di una mancata coagulazione, si

mostrano per quello che sono, una sinistra serie di fotografie fisse, di frammenti di corpi, che isolati

nello spazio e nel tempo, rimandano all’immagine di una raggelata catalogazione del funebre, in cui

il senso di solitudine e di abbandono della morte viene potentemente amplificato dalla

frammentazione. Il venir meno del filo conduttore del suono, che si proiettava sull’ordine stravolto

dell’immagine, fa emergere un aspetto ancora più terribile del funebre: l’idea di un abbandono dei

corpi a se stessi, di una perdita del senso che la categoria del funebre ancora poteva proteggere. Il

suono funge così da relazione di contiguità, fra nuclei di senso che non si coagulano tra loro, ma che

tendono ad avvicinarsi.

Evidentemente è proprio la natura temporale del suono, il fatto che esso implichi, come dice

(un po’ misteriosamente) Chion, uno spostamento anche minimo, un’azione, che rende tale sintesi

così significativa: e lo stesso varrà per l’immobilità, perché quando un suono viene proposto come

fisso, osserva Chion, esso è un processo che si ripete, che gira su stesso.

Dobbiamo comprendere i presupposti di questo ragionamento, un po’ elusivo: per Chion il

suono ha una propria dinamica temporale, anche quando rimane identico a se stesso, come accade

per un loop che si ripete, o per una nota tenuta, che si mantiene identica a se stessa. Questi esempi

mostrano che l’identità del suono non è altro che il ripresentarsi di uno stesso elemento, che, per

essere riconosciuto come tale, deve continuamente riattivare il processo della sua identità nel

tempo, un aspetto molto diverso dalla constatazione dell’identità per un oggetto spaziale, che mi sta

di fronte.

Ascoltare è molto diverso dal continuare a guardare un’immagine, l’identità dell’immagine è

sotto ai miei occhi fa tutt’uno con il suo essere una cosa posizionata in un luogo nello spazio. Il

suono invece è un processo che mi si impone, rispetto a cui sono inizialmente passivo, un evento

che si ripete nello stesso punto del tempo, quindi qualcosa di più complesso e fuggente, che non può

essere indicato col dito, come faremmo per un luogo spaziale. Un suono identico a se stesso risulta

continuamente soggetto al movimento che lo costituisce, al suo irrompere dal nulla. Gli accenni di

Chion sono evidentemente incompleti, ruotano attorno al problema, ma, ancora, non ci fanno

comprendere in che senso il suono collochi l’immagine o la scena dentro ad un tessuto temporale,

drammatizzandone i contenuti.

Per cominciare a spiegare la confusione delle trame che questi aspetti mettono in gioco,

dobbiamo produrre qualche esempio: guardando quattro triangoli identici, allineati uno all’altro,

posso leggere la sequenza come quattro figure uguali tra loro, una a fianco dell’altra, ma posso

44

Page 45: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

anche leggerla come il ripetersi dello stesso elemento quattro volte82. Il valore della configurazione,

da una lettura all’altra, muta completamente il proprio senso: nel prima caso sottolineo la

molteplicità delle figure nello spazio, nel secondo la ripetizione della stessa figura, il suo darsi

all’interno di un ordine. In tal modo si attribuisce alla sequenza, come scrive Piana nel saggio citato,

un inizio, una fine o una sua indefinita prosecuzione.

L’idea di ordine, di sequenza, rimanda implicitamente al concetto di tempo, e se quattro suoni

uguali tra loro, non si possono dare in un unico sguardo, come accade per gli oggetti nello spazio, si

intenderà appunto che, in un certo intervallo di tempo, lo stesso suono è accaduto quattro volte. Il

passaggio dall’uguaglianza all’identità ci pone all’interno di un registro temporale, ed è proprio

questo che ci insegna l’esempio di Chion: la natura temporale del suono trascina l’immagine,

indipendentemente dal registro realistico del taglio narrativo, e questo accade nel cinema come nel

teatro: il riverbero di questa forma logica guida l’organizzarsi del senso della sequenza delle

immagini, che verranno fruite secondo le possibilità interne all’ordine scandito dai suoni.

In tal modo ogni immagine è una rappresentazione di un oggetto, e questa rappresentazione

accade in un momento dello spazio e in un luogo nel tempo. Ogni immagine è congelata all’interno

di questa localizzazione, anche se poi dialoga con tutte le immagini – anche dello stesso oggetto –

che la precedono e che la seguono nel tempo: l’inseguirsi di queste unità, che si raccolgono assieme

attraverso un rapporto di implicazione reciproca e di svolgimento, determina il senso di una

sequenza.

Giocando con l’immagine, il suono arricchisce la dinamicità degli spaccati spazio temporali,

che sono in fondo le rappresentazioni degli oggetti. Ma il suo lavoro non si esaurisce in questa

funzione dinamica: l’esempio mette in luce che il suono enfatizza la capacità di narrare. Il taglio

proposto dall’autore, in questo caso, porta queste due situazioni al limite di rottura, e allora sarà il

rumore o il suono musicale a permettere che tutti quei nuclei che non riescono a condensarsi

ritrovino una loro continuità, profondamente spezzata dal fatto che le sequenze di un sogno, o di un

incubo, non sono consequenziali, vivono la logica discontinua dell’immaginazione, il suo cercare

nessi aldilà dell’ordine regolare delle cose, per stabilire i propri criteri d’ordine. Il suono si trova a

sottolineare, a esplicitare, a mettere in gioco i contenuti espressivi della rappresentazione, sigillando

l’evento all’interno di una sfera sonora che lavora su atmosfere, colorazioni emotive, suggestioni

82 Per questo tema cfr. Piana 1994.45

Page 46: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

interpretative: l’idea dell’evocazione della goccia d’acqua, rispetto alle immagini fisse dell’obitorio,

colora quel quadro di un colore ancora più sinistro, più opaco.

Tornando a Bergman, nell’esemplificazione tratta da Persona l’immagine sta prima del

suono, ed il suono cerca di riplasmarsi all’interno del regime espressivo messo in moto

dall’immagine, e dalle lacune del montaggio che le assembla: vi è un movimento dall’immagine al

suono, dalla dimensione della spazialità narrativa a quella della temporalità musicale. La mano

inchiodata, che senza suono torna ad essere solo un’immagine astratta, è solo un assemblaggio non

riuscito: con il suono, attribuiamo movimento a quella staticità inchiodata, rintracciamo un senso

che è emotivo e direzionale (i piani si fondono tra di loro). In un contesto così ambiguo, il suono

prende la funzione di un indicatore emotivo, riempiendo di senso il montaggio delle immagini, e

creando una tensione che ne confonde i significati, in un precipitare da un’immagine all’altra. Al

tema imitativo si affianca una riflessione sulla libertà del narratologico, e sull’articolazione

possibile dei suoi nessi interni: il suono, semplicemente, assume la funzione di un secondo

montaggio, scambia quasi la propria posizione con il flusso delle immagini, e lo fa proprio per

quelle tendenze iterative di cui ci parla l’esempio della sequenza del triangolo che si ripete. Mimare

un ordine temporale non è una condizione sufficiente a costruire un insieme organico di immagini,

ma suggerisce un ordine possibile, che ha natura emotiva, colorato dalle suggestioni espressive

imposte dalla qualità di suono e rumore.

Siamo partiti dal piano imitativo, e dalla complementarità fra ascolto e visione, ma, già ai

primi passi, il senso di tale relazione si fa complesso, e teso verso nuclei espressivi bivalenti, dove

immagine e suono possono scambiarsi le parti, obbedendo ad esigenze espressive che trovano la

propria giustificazione nella scelta del piano narratologico che organizza l’immagine. Potremmo

chiederci allora se questo non sia solo un problema di logica combinatoria, fra oggetti spaziali (le

immagini) e strutture temporali (i suoni) che si possono scambiare i posti, all’interno della

costituzione del racconto audiovisivo.

Diamo pure una risposta positiva a questa domanda, ma certamente la logica combinatoria

non ci spiega nulla della relazioni espressive, che sostengono questi scambi continui, perché è

chiaro che il movimento temporale del suono ha un continuo riverbero nella fruizione affettiva

dell’immagine: è su questo terreno che prendono forma quelle esigenze strutturali che permettono

quelle interpolazioni. Adesso comprendiamo anche perché il tema paradossale del rovesciamento di

senso della musica lieta, che scorre sull’immagine tragica, ci possa insegnare pochissimo sulla

correlatività di suono e di immagine: un rovesciamento fra nuclei semantici, o un rovesciamento di

componenti espressive, si limita a farci oscillare fra due poli di una relazione che andrebbe invece

indagata nel suo costituirsi. L’aspetto ha considerevole peso, ad esempio, nella nascita del cinema, e

46

Page 47: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

nel passaggio da muto a sonoro, perché le fibrillazioni espressive di un suono che proviene

dall’immagine, aprono campi di senso che ci portano un passo oltre il piano, sempre presupposto,

della complementarità. Non si tratta più di far aderire il suono all’immagine, ma di farli nascere uno

dall’altro. Il piano dell’espressivo prende forma proprio qui: la nostra domanda iniziale, relativa al

significato di forma complementare, ci spinge in direzione dell’intreccio fra forme affettive legate

alla fruizione combinata di suono e immagine, nell’intenzione creativa che collega oggetti spaziali,

movimento, e strutture temporali.

Estasi e ritualità

La tematica dell’espressione trova una esemplificazione assai efficace in Sergej. M. Ejzenštein83,

che parla di un vero e proprio sconfinamento dell’immagine nella musica, osservazione preziosa da

parte di un regista che vede nell’organicità della natura il modello della struttura narrativa del

cinema: la narrazione deve diventare incalzante, non può permettersi pause, il ritmo intenso del

montaggio non può dar respiro allo spettatore. La funzione della musica va indagata dentro a questo

plesso.

Vi è organicità se la struttura del film, le parti che lo compongono, sono in grado di

convertirsi l’una nell’altra: una scena è tanto più organica, quanto più immagine, musica,

inquadratura, colore, convergono dinamicamente una nell’altra, per dare un risultato coerente, in cui

ogni parte sembra uscire da se stessa, per fondersi nell’altra. Il convergere dinamico di tutti i registri

espressivi, uno nell’altro, crea il clima espressivo, la sua capacità di portare lo spettatore dentro di

sé, in un quadro di totale metamorfosi delle forme che rimanda, circolarmente, all’organicità del

ciclo naturale.

Non è il momento di impugnare delle legittime resistenze nei confronti di un parallelismo così

accentuato, utilizzato in modo geniale dal regista russo, per raccontare gli intrecci costitutivi della

struttura filmica, per saldarne insieme i singoli momenti, in una teoria che mira ad un

rispecchiamento patetico dello spettatore nell’evento filmico e nei suoi nessi strutturali, letti come

opera d’arte totale. Tuttavia è certamente interessante notare che, in una poetica in cui la

spontaneità della natura si fa modello formale, l’immagine sconfini nella musica.

Lo sconfinamento, il fatto che immagine e suono si costituiscano assieme in una totalità

indifferenziata, in cui le singole parti superano la propria identità strutturale nell’affermazione di un

quadro espressivo non si lega solo al fatto che il montaggio delle immagini debba obbedire ad una

logica emozionale che ha più di una parentela con il ritmo musicale- Ciò trova una geniale

83 Cfr. Ejzenštein 1945-1947, pp. 231 e sgg.47

Page 48: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

conferma nell’idea che, nel cinema muto, sia proprio il paesaggio l’elemento più libero del film,

che diviene la cassa di risonanza di tale esigenza espressiva.

Il rapporto fra suono e immagine nel cinema muto trova un doppio nel rapporto che lega

l’immagine a se stessa, alla sua contestualizzazione, lasciando intendere che tutta la logica

costruttiva del film viva in questo regime di trapasso fra dimensioni vicine, verso quelle più lontane:

per spiegare il gioco contestuale della musica, la sua forza narrativa, si prendono le mosse da ciò

che circonda l’immagine, da quello che definiremmo lo sfondo organico, in cui l’immagine

cinematografica è inserita. Il paesaggio è l’elemento più libero da condizionamenti narrativi, e si

mostra particolarmente duttile per la trasmissione di umori, stati d’animo, atmosfere emotive.

L’idea di fusione qui prende un rilievo difficilmente contestabile: lo sfondo della figura, ciò che

circonda i personaggi, deve respirare della loro drammaticità, come la musica deve catturare

l’espressività dell’immagine e riproporne con forza i contenuti. La funzione della musica avrà così

il senso di una coloratura emotiva e indicalità narrativa delle situazioni, che dovrebbe condurre,

nell’evoluzione del mezzo audiovisivo, a una fusione organica di suono e immagine.

Natura, sconfinamento, risonanza: persino nel cinema muto suono musicale, rumore e

gradazione dell’atmosfera emotiva vengono evocate come fusione fra due sfere sensoriali: al tempo

stesso, sembra che vi sia qualcosa di più, perché la funzione della musica non consiste solo nel

rafforzare l’azione, quanto nel finire di raccontare emozionalmente quanto è inesprimibile con altri

mezzi84. In questo senso, la musica è insostituibile, perché coglie uno strato segreto dell’azione, un

piano che la narrazione non può esplicitare in altro modo. La musica si rende indispensabile, perché

tocca un piano nascosto, e crea un nuovo orizzonte di senso, rimodellando attorno a sé tutto il piano

narrativo. È un’osservazione molto meno ovvia di quanto non potremmo immaginare: se la musica

è in grado di suggerire quello che la relazione implicita paesaggio-immagine sa solo mostrare come

risonanza, vuol dire che, nei precipitati espressivi della musica che commenta la scena, si apre un

piano nascosto, dove vivono latenze e direzioni di senso, che contengono qualcosa di simile

all’immagine, una sorta di traccia che fatica ad emergere da sola, ma che orienta il senso della

sequenza filmica che sostiene: «Nell’ultima opera cinematografica di Tarkovskij, Sacrificio (Offret,

1986) si percepiscono suoni che sono già sull’altro versante della vita, percepiti da un orecchio

immateriale, liberati dal nostro confuso orecchio umano: sono richiami modulati, che risuonano in

un’aria limpida, lanciati da voci giovani e fresche, e ci riportano lontano, alla nostra infanzia a

quell’età in cui l’immortalità ci pareva essere il nostro tempo naturale. Quei canti, lo spettatore può

udirli, senza accorgersi di averli sentiti. Perché nulla nell’immagine, risponde ad essi o li sottolinea.

84 Ibidem, p. 232.48

Page 49: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Essi sono come l’aldilà dell’immagine, ciò che si potrebbe scoprire se lo schermo fosse un pendio,e

si potesse andare a vedere ciò che succede dall’altra parte»85.

Il suono come immagine di un mondo, che sta aldilà dell’immagine monodimensionale che

vediamo sullo schermo, si fa polifonia fra tempi esistenziali diversi: esso può vivere totalmente al di

fuori del visibile, raggiungere una tale forma di precarietà che potrebbe essere sì ascoltato, ma non

riconosciuto. Lo straniamento rispetto all’immagine le attribuisce un tale spessore espressivo da

creare una tensione verso il perduto, che nel passo di Chion diventa evocazione dell’orizzonte

dell’eterno presente che caratterizza l’infanzia.

I suoni che si muovono fuori dall’immagine (ma, che, se ascoltati, decontestualizzano quasi

dalla drammaturgia in atto, creando l’effetto di una terza parete che va superata per andar a vedere

cosa sostiene l’immaginario della visione), l’accento sulla acontestualità immaginativa che sostiene

la narrazione cinematografica creano un potentissimo ponte semantico verso le radici simboliche in

cui prende forma l’attività dell’immaginazione. Gli stessi suoni, del resto, potrebbero volgersi

verso l’interiorità dei personaggi della storia, come accade per le grida di rondini che si inseguono

nella colonna sonora del film, e di cui nessuno dei personaggi parla mai: ascoltate solo da noi e dal

bambino convalescente86. Quelle grida, si attestano su un luogo di transizione fra virtualità

dell’opera e vita vissuta dell’ascoltatore, sono trame che cercano una soggettività disposta a giocare

con quelle forme di dislocazione, con messaggi poetici nascosti nelle pieghe della narrazione che

puntano su regioni di confine del contesto narrativo.

Le fasi di decontestualizzazione del suono, le sue forme tese al limite del paradosso (ma

spesso indispensabili, si pensi all’uso della voce nelle narrazioni operate dai personaggi) diventano

così un filtro per muoversi attorno ai vari regimi di costituzione dell’opera cinematografica. La

posta in gioco è il senso della localizzazione spazio-temporale dell’opera filmica, il gioco con cui

essa dialoga direttamente con lo spettatore, aldilà e al di qua dell’immagine stessa, che, in molti

casi, coincide con i personaggi stessi e tutto il tessuto di relazioni che costituisce il loro mondo. È

forse il modo più radicale in cui l’irruzione del suono opera nella dimensione dell’estasi,

determinando un uscire da sé che non è più solo spaziale, ma va a toccare l’identità stessa che

circoscrive l’opera all’interno del suo contenitore, portandola ad un dialogo interno con lo

spettatore.

Andiamo oltre i paradossi mossi dalla riverberazione del suono sull’immagine filmica, per

chiarire meglio il senso del rapporto del suono con la ritualità.

La musica come drammaturgia

85 Chion 2001, p. 123.86 Ibidem, p. 124.

49

Page 50: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Vorremmo seguire il prender forma di questi problemi nel mondo antico: il riferimento alla forma

di teatralizzazione (alla possibilità di far emergere attraverso qualcosa qualcos’altro, come accade

quando una tragedia porta alla luce, nel significato di una vicenda, tutto un sistema di valori etici,

morali, politici, estetici, stilistici, motivazionali o, per usare un’espressione aristotelica che si

colloca trasversalmente su tutti questi significati, raccogliendoli in una solo parola, mimetici)

emergerà immediatamente, con tutta la sua carica problematica.

Il profondo intreccio fra forme della ritualità e spettacolarizzazione accompagna lo sviluppo

della nozione di musica fin dall’origine della musica greca: non è certo un caso se Aristotele

nell’Ottavo libro della Politica, o Platone nel VII Libro della Repubblica (530c-531d) avvertano la

necessità di circoscrivere le tipologie e gli effetti dei suoni sull’anima e che si trovino così a dover

costruire complesse teorie sulla ricezione e la riarticolazione dell’esperienza musicale all’interno

degli spettacoli pubblici, con una caratteristica divaricazione delle tematiche interne alla struttura

degli oggetti sonori.

L’idea di una potenzialità espressiva che guidi e sostenga la fruizione musicale sembra

implicare la possibilità di un aggancio possibile verso la drammatizzazione di un’azione visiva, di

una danza, o di un gesto teatrale. Questo passaggio è decisivo, perché crea un ponte espressivo fra

musica, immagine, e concetto, o idea, che si vuol rappresentare.

Nella prescrittiva greca, ad esempio, il puro gioco di forme in cui si articolano le strutture

sonore viene spinto ad uscire dalla sua astrattezza, dalla sua lontananza dal mondo, per creare un

canale privilegiato che illumini il mondo dell’esperienza e dell’affettività dall’interno, secondo

l’articolazione di una serie di modelli canonici, che vedono la musica animata dalle stesse

proporzioni matematiche che sostengono il movimento dei pianeti o l’ordinarsi delle relazioni fra

concetti (ma è ancora presto per entrare in un contesto così definito).

Il rapporto suono-azione sarà così uno dei temi avvertiti con maggior tormento nella

riflessione sul musicale, in parte per una profonda diffidenza dei due filosofi verso le pratiche

connesse alla sfera dello spettacolo, in parte per la polivalenza interna al concetto di mimesi.

Se la forma e la struttura del racconto imitano un mondo possibile attraverso cui il contenuto

poetico della tragedia assume una forma politica di riconoscimento da parte di una comunità che

partecipa alle peripezie dell’eroe tragico, tutti gli elementi troppo compromessi con il piano della

spettacolarizzazione creano interferenze che sono dannose alla fruizione dell’opera. Cosa significhi

in questo contesto spettacolo è presto detto: tutto il piano di azioni, gesti di rafforzo, suoni di

contorno, canti, costumi, che, avvicinando la dimensione poetica del testo a una rappresentazione

forte, esuberante di contenuti sensibili, ne schiacciano il valore ideale: la diffidenza platonica nei

confronti dell’idea di una mimesi, di un rappresentazione che guardi al piano imitativo (il tema

50

Page 51: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

dell’imitazione è dunque il prodotto di una stilizzazione, di una schematizzazione del reale,

particolarmente efficace), dei suoi limiti e dei suoi pregi, va collocata all’interno di questa capacità,

di questa produzione di immagini che soggiogano.

Possiamo parlar solo di diffidenza, non di disinteresse, perché i filosofi prendono tutti atto

della forza di quel legame originario per la comunità greca, tanto che le speculazioni sul teatro, sul

suono, sulle intonazioni della voce, sui contenuti narrativi e mimetici della narrazione diventano

snodi impegnativi in ogni speculazione etico-politica, e lasciano le loro tracce sulle riflessioni

connesse alla retorica, alla zoologia, e alla fisiognomica87: al preoccupato riconoscimento della

forza dell’immagine (non disprezzo come spesso si scrive), Aristotele dedicherà il nucleo teorico

della Poetica, chiedendosi come sia possibile l’imitazione, e ricostruendo una serie di

considerazioni antropologiche ed estetiche che vedono nella mimesi un passaggio essenziale per la

vita sociale dell’uomo (impariamo a giocare, a parlare, a far poesia imitando, attraverso processi di

schematizzazione, i cui esiti sono inesorabilmente legati ai modi della nostra caratterialità).

Fin dall’inizio della speculazione filosofica sull’oggetto teatrale, estetica e antropologia

creano un ponte fortissimo fra di loro, per comprendere in che modo le tendenze istintive dell’uomo

si connettano al mondo-ambiente che lo circonda: nessuno stupore se questo accade anche per la

musica.

Il suono disturba, emoziona, facilita la ricezione di alcune emozioni, e allontana da altre:

nell’Ottavo Libro della Politica Aristotele propone persino un modello di tipo catartico: emozioni

come compassione, paura, entusiasmo, appartengono, in modo diverso a tutti, ma vengono

sensibilmente rafforzate dalla presenza di forme melodiche, in grado di intensificarne, o renderne

meno avvertibili, gli effetti. Accade così che, muovendoci all’interno di una teoria della ricezione

artistica, ci venga subito incontro un sovrapporsi di piani in cui il complesso gioco di emozioni

messo in moto, ad esempio, dalla rappresentazione tragica, trova una sponda immediata negli effetti

che un oggetto sofisticato come una melodia rituale sollecita nello spettatore. In particolare, osserva

Aristotele: «alcuni individui sono portati ad essere scossi da tali moti, ma quando partecipano a

quelle melodie […] ci sembrano curati da queste melodie sacre, come se fossero state date loro cure

mediche e catarsi»88.

La melodia cura, fa ritrovare un equilibrio, crea un movimento fra interno ed esterno,

riportando gli individui all’interno di uno stato più contemplativo, o più entusiasta. I suoni

agiscono, rafforzano una pratica, ne modificano lo statuto, ma possono anche ricreare una

condizione dinamica di equilibrio.

87 Per una coloratissima rassegna sul tema, cfr. Bettini 2008.88 Aristotele, Politica 1342 a 4-12.

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Vi è un sentire assieme alla musica, un movimento dall’ascoltatore verso la struttura sonora e

un ritorno dalla struttura sonora all’ascoltatore89: l’idea di una musica che esprima le emozioni si

radica all’interno di questa complicità, che la vede portare ad espressione (verrebbe voglia di dire,

portare ad icona) i moti dell’animo, in una sorta di rispecchiamento fra udire, essere e portare a

rappresentazione. Sembra che la descrizione di Aristotele veda nel carattere di sacralità della

melodia, che purtroppo ci rimane ignota, una sorta di struttura retorica modellata secondo regole

molto precise, in grado di farne riconoscere immediatamente il carattere rasserenante

all’ascoltatore. La strategia interna del rito, la sua forma narrativa, prevede un turbamento e un

rasserenarsi dell’animo attraverso un rapporto di complicità fra ascolto del suono e trasformazione

psicologica, un passaggio che si consolida all’interno del rito stesso, e che alcuni individui

avvertono più di altri.

Non è un’osservazione di poco conto, perché accettare queste forme di complicità implica

l’idea che esista un potere persuasivo interno alle strutture melodiche, che dà loro la possibilità di

far intendere, a modo proprio, dei contenuti: una costruzione sofisticata come una forma di canto

rituale riesce a modificare dall’interno gli elementi affettivi che stanno dietro alle forme che

organizzano il piano della ricettività dei contenuti dell’esperienza, di cui ora va ricercato il

fondamento autentico.

Rimane, tuttavia, un punto da chiarire: come accade tutto questo, e che rapporto stringe

l’effetto della musica al concetto di espressione? In altri termini, se la musica agisce sul modo di

sentire, se riesce a scuotere chi la ascolta, deve avere un carattere, un contenuto interno che entra in

dialettica con la passione che essa sa suscitare, una serie di valori espressivi che conducono l’anima

da una situazione emotiva all’altra. I contenuti del suono sono, nel mondo greco, dei caratteri, delle

forme emozionali, che si esprimono attraverso i processi sonori. La questione è cruciale, perché se

la musica porta con sé dei caratteri, vuol dire che sa imitarli, che vi è una valenza emotiva del

suono, che trova il modello emozionale nel suono stesso. Se pensiamo che nel mondo greco un

carattere è il nucleo più intimo e nascosto di qualcosa, potremmo dire che agisce sull’anima perchè

porta con sé dei caratteri. Ma come li imita? Per comprendere questo problema, dobbiamo uscire

dall’ambito delle opere autenticamente aristoteliche, e volgerci verso gli scritti della sua scuola, in

particolare il libro XIX dei Problemi, che ha come oggetto la musica90.

Nel Problema 27 si apre una discussione sul perché gli oggetti dell’udito siano gli unici

oggetti sensoriali che contengano ethos, un carattere morale. Perché la musica contiene un carattere

etico, che si offre ai nostri sensi, mentre non lo posseggono odori, sapori o colori? Secondo l’autore

del testo la ragione è legata al fatto che la musica contiene movimento, un movimento che collega

89 Il tema è sviluppato in Halliwell 2002, pp. 143-144.90 Per questa sezione, cfr. Barker 2005, pp. 99-111.

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tutti i suoni fra loro: «Perché la percezione uditiva è la sola ad essere espressiva di un carattere?

Anche senza parole la melodia ha lo stesso un ethos, che invece non hanno né il colore, né l’odore,

né il sapore. Oppure perché essa solo comporta un movimento, che non è il semplice movimento

indotto in noi dal rumore? (questo movimento riguarda anche gli altri sensi: anche il colore muove

la vista)»91.

L’osservazione mira subito a separare la dimensione dell’ascolto musicale dagli altri sensi. Il

movimento che procura la musica non si riduce a quello percettivo, perché la musica dispone il

soggetto verso certe inclinazioni morali, rianima delle passioni psicologiche. Ma come lo fa? «Si

tratta piuttosto della percezione di movimento che accompagna un determinato suono. Questo

movimento comporta una somiglianza dei ritmi e nell’ordine dei suoni acuti e gravi […] Nelle altre

percezioni questo non accade. I movimento di cui si è parlato sono invece connessi con l’azione, e

le azioni sono indicative dell’ethos»92.

Il movimento di cui parla il testo è un principio formale, qualcosa che tesse assieme suoni e

ritmi, un ordine in movimento che, nella strutturazione dell’architettura di un brano musicale,

esibisce uno stile, imita qualcosa, esprime un carattere. Esprime il carattere espressivo di un’azione,

di un’azione che è immagine di un modo di essere. La percezione musicale, spiega Barker, è

dinamica, un brano musicale si dispiega nell’esecuzione secondo una componente ritmica, e noi ci

concentriamo su di esso, come di fronte ad un unico organismo «che esiste nel suo progressivo

movimento da un suono ad un altro, e che impiega un periodo di tempo, per giungere a

compimento.»93. Se ci concentrassimo sulle singole note, su ogni singolo evento, perdendo la forma

in movimento, perderemmo al musica e ascolteremmo solo suono: in altre parole, è il senso del

decorso percettivo a guidarci nella fruizione musicale, non la parcellizzazione o l’isolamento sulla

singola fase. Tali movimenti sono governati da uno stile che si riflette su ogni loro pulsazione, sul

concatenamento armonico del suono, e le azioni sono segno di un carattere. Barker insiste

correttamente sull’idea che l’azione sia qui da pensare in senso mimetico, come un qualcosa di

conforme a un modello, concordemente a ciò che abbiamo già rilevato nei nostri cenni alla Poetica.

Seguendo l’orientamento generale del nostro discorso, diremo che la melodia imita lo stile di

un carattere, e che tale aspetto non poteva che prender forma all’interno di oggetti temporali come

sono i suoni. L’immagine sonora del carattere sembra essere l’evocazione di un andamento, di un

gesto, un fatto espressivo che trova il proprio fondamento nella struttura temporale dell’azione

stessa. È un paradosso interessante, perché basta guardare la cosa più da vicino per comprendere

che l’andamento ritmico del brano, la sua profilatura espressiva, i criteri d’ordine che ne guidano lo

91 Aristotele, Problemi, a cura di Maria Fernanda Ferrini, Bompiani, Milano 2002, pp. 284-285.92 Ibidem.93 Barker 2005, p. 109.

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Page 54: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

sviluppo, sono diventati immagini per pensare un concetto, o un modo di essere. Si affaccia con

forza l’idea di una mobilità della forma, che spinge verso il terreno della relazione gestaltica, o,

come preferiremo dire noi, dei nessi strutturali interni alla scena percettiva.

Le osservazioni aristoteliche parlano evidentemente di un piano dell’ascolto ben orientato, di

un contesto in cui la musica viene somministrata, per così dire, in vista di determinati effetti,

appoggiandosi all’idea che l’ordine interno alla musica sia in grado di suggerire un colore emotivo

adeguato al piano dell’emozione. L’effetto catartico è il punto di arrivo del rituale stesso. Esso porta

alla luce una regione emotiva particolarmente permeabile al suono, un modo di sentire comune a

tutti, ma che agisce in modo diverso a seconda della configurazione psicologica, e sensibile,

dell’individuo. La catarsi, il passaggio da uno stato emotivo ad un altro, porta a compimento,

risolve tutte le tensioni emotive sollecitate dalla musica in una disposizione psicologica determinata

dall’ascolto. Si possono selezionare regole per produrre trasformazioni emotive attraverso suoni,

costruire melodie che puntino ad un determinato risultato emotivo.

Possiamo manipolare un carattere, se gli individui toccati dalle melodie sacre indulgono in

comportamenti che sembrano entrare in consonanza con l’ordine dei suoni, con la loro diposizione

musicale, con l’architettura che ne stringe le relazioni. Possiamo educare, rafforzare l’immagine con

il suono, ma questa interferenza apre su un altro lato della medaglia, il cui profilo lambisce già le

critiche sollevate nella Repubblica platonica, legate a quella accentuazione del mimetico all’interno

della tragedia, o della poesia: la forza di queste arti è, per certi aspetti, il loro limite, l’eccesso di

realismo, l’evocare in modo troppo diretto il piano dell’esperienza, le turbative dell’animo degli dei

e degli uomini interferiscono con un quadro di riferimento ben consolidato, che permetta una

fruizione piena degli aspetti ideali dell’oggetto artistico.

Nasce un turbamento di fronte all’idea di trasformazione, di instabilità, di dispersione nel

quadro dell’esperienza ricettiva, di cui è buon testimone la stessa preoccupazione aristotelica per cui

le parti della Tragedia debbano diventare forme (Poetica, XII, 1452b), matrici che possano produrre

un racconto che sia al tempo stesso collante in grado di dare unicità di direzione ad episodi diversi,

separati nel tempo, ma connessi in modo tale da dare l’illusione di un continuo flusso fra la fine

dell’uno e l’inizio dell’altro, fino al totale esaurimento del movimento drammatico nel chiudersi

dell’intreccio, nell’esaurirsi delle sue premesse. Il racconto si consolida, il movimento interno delle

sue parti, degli episodi che ne costituiscono la trama, diventa pannello, si consolida in una struttura,

solida e agile al tempo stesso, che si mantiene uguale a se stessa. Non vi è spazio per varianti, per

aspetti ambigui: tutto il divenire degli eventi si chiarifica nel prender corpo di una storia, una storia

che, per funzionare, dev’essere priva di lacune interne.94.

94Una preziosa panoramica di questi temi è offerta nei primi dieci capitoli di Halliwell 2002.54

Page 55: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

In un quadro determinato con tanta limpidezza, il suono, la musica, i canti che accompagnano

la tragedia affondano in un terreno controverso, mettendo in gioco un colorarsi dell’esperienza: la

melodia può opacizzare un contenuto, può colorare il senso di una situazione in modo sbagliato. Il

tema sembra essere una sorta di bordone, di riferimento fisso ad ogni analisi sulle inflessioni del

suono, sulla loro capacità di sedurre la mente, se vogliamo seguire la deriva delle riflessioni

espresse nella Politica aristotelica.

Il suono colora l’esperienza in molti modi, ne determina la fruizione, e ne può mutare le

potenzialità immaginative, disturbando il piano della catarsi: da qui l’esigenza di strutture

normative, che determinano il nucleo originario di un’estetica musicale elaborata dal mondo greco

sin dai tempi della filosofia pitagorica.

Le ricadute del doppio potere della musica continueranno a farsi avvertire in modo

intermittente nella storia del teatro musicale, e conoscerle permette di cogliere in modo più chiaro

gli snodi concettuali che conducono da teatro antico a quello moderno: pensando all’idea di un

suono che riesce a parlare aldilà della parola, che guida l’immaginazione dello spettatore dentro

all’essenza drammaturgica di un atto, il grande riformatore del teatro d’opera moderno, Richard

Wagner, teorizzerà, ad esempio, in Musica dell’avvenire (1860), il totale assorbimento delle

funzioni narratologiche del coro all’interno dell’orchestra. Al centro del suo interesse sta la potenza

evocativa del musicale, l’idea che la musica porti dentro di sé dei significati drammatici, che sono

già evento teatrale, come mostra bene un frammento di questo testo sulla III Sinfonia di Beethoven

(1851), in cui Wagner esplicita i caratteri della musica: «Il primo tempo abbraccia come in un

punto focale incandescente, tutte le sensazioni di una ricca natura umana colta nel più incessante,

nel più frenetico slancio giovanile. Gioia e sofferenza, piacere e dolore, grazia e mestizia,

meditazioni e aspirazioni, languori e frenesie, ardire, ostinazione e un’irrefrenabile coscienza di sé

si alternano e si intrecciano con tanta forza e immediatezza che, mentre vibriamo partecipi di tutte

queste sensazioni, nessuna riesce a scindersi in maniera percepibile dalle altre: la nostra

partecipazione è costretta ad indirizzarsi sempre e soltanto verso l’uomo che ci si manifesta capace

di ogni sensazione»95.

È un passo esemplare, che spiega molte cose: la musica è subito tradotta in un plesso di

emozioni, che arrivano con grande immediatezza all’ascoltatore, ma queste emozioni sono già, in

qualche modo, aldilà della musica stessa, sono nel paesaggio che la circonda, direbbe il regista

russo, che di Wagner fu grande ammiratore. La musica ci fa partecipare a qualcosa, ci guida verso

una natura umana, e quest’espressione è particolarmente pesante, perché indica non tanto una figura

psicologica, ma una dimensione spirituale, un evento della storia, una personalità in cui si condensa

95 Wagner 1851b, p. 132.55

Page 56: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

lo spirito di un’epoca: vi è un forte colore romantico in queste osservazioni, ma questo

romanticismo guarda all’universalità, e, così, nella composizione musicale cogliamo in filigrana un

ritratto eroico dello stesso Beethoven. L’immagine è ora tutta interna alla musica, ma c’è qualcosa

di ancor più esuberante nell’articolazione del rapporto suono-emozione-significato.

È evidente che Wagner non sta parlando dell’avventura del Beethoven storico, ma del mito di

Beethoven, che facciamo nostro immergendoci in una serie di emozioni, meglio ancora nel

precipitato semantico delle emozioni stesse. Non è una specificazione di poco conto: è l’essenza

stessa della cosa, il significato più profondo dell’emozione ad avvicinarci al valore universale di

una figura. È difficile non cogliere, aldilà delle colorature accese della prosa wagneriana, una

tensione verso un universale: non il momento psicologico della emozione, ma il condensarsi

monumentale della sua idea. La musica sembra essere sul punto di cogliere delle essenze

immutabili, un aspetto che fa tutt’uno con la celebrazione di Beethoven come paradigma stesso

dell’idea compositiva. La musica va direttamente all’idea, e ce la fa sentire come emozione, anzi

come compartecipazione, secondo lo schema del teatro classico.

È un passaggio fondamentale, per comprendere il rapporto che lega la musica all’azione: se

nella tragedia greca è il coro a commentare quanto accade sulla scena, e a parteciparvi

emotivamente, la sostituzione di quella funzione narratologica con l’orchestra, sviluppa l’idea di

una correlazione talmente profonda fra suono e gesto, da assorbire completamente il senso

dell’azione nei suoni che la commentano. L’idea, che ha ampio riverbero nella filosofia di

Nietzsche, e ritroverà la propria fonte d’ispirazione nella filosofia della musica di Arthur

Schopenhauer, e nell’idea che solo la musica, fra tutte le arti, possa toccare dall’interno il

significato metafisico del mondo, nascosto dietro alla rete di fenomeni e apparenze, che ne

opacizzano irreversibilmente il senso96.

La musica è più di un personaggio, perché permette una totale compartecipazione emotiva ai

significati della azioni, e alle emozioni della rappresentazione, portandone alla luce le motivazioni

più nascoste. Siamo lontani da un semplice rispecchiamento psicologico tra la musica e

personaggio: se l’orchestra coglie il senso delle azioni, e ne inquadra irreversibilmente il significato,

emozionando l’ascoltatore, questo significa che il teatro musicale ha di mira l’universalità

dell’esperienza umana, un’essenza che va aldilà del piano delle semplici relazioni affettive, per

cogliere dei caratteri universali, in una totale depsicologizzazione dell’esperienza teatrale. Lo

spettatore è completamente guidato dalla musica, dallo sviluppo ininterrotto di ritmi e melodie,

all’interno della trama dell’opera, per coglierne fino in fondo il significato.

96 Cfr. Schopenhauer 1819 e Nietzsche 1872.56

Page 57: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Da qui l’idea di una fusione fra tutte le arti (musica, poesia, scultura architettura danza ),

tenute assieme sotto l’egida del musicale, per giungere a un grado talmente forte di condensazione,

da poter precipitare l’una nell’altra e sostenersi espressivamente, ognuna facendo proprio il punto

di vista dell’altra, in un modello metamorfico che ha sicuramente influenzato le concezioni

strutturali di Ejzenštein.

L’opera d’arte totale è dunque il punto d’arrivo di una trasfigurazione dell’identità di ogni

singola arte, per poter arrivare alla scena, al momento di perfetta compiutezza in cui immagine e

suono possano riavvicinarci alle fonti del mito, e alle radici ultime della natura. Come scrive

Wagner, soltanto alla scena è consentito di radunare in sé «tutte le proprietà e tutti i momenti

dell’arte figurativa» nella loro perfetta compiutezza97. La musica dunque porta a trasfigurazione

tutte le arti che le si sottomettono, per introdurre alla dimensione onirica del mito. Ma ancora una

volta la musica si fa immagine di un carattere, evoca la totalità di un mondo, rappresenta delle idee.

Il cerchio aperto dalla citazione di Ejzenštein si chiude ma ancora non riusciamo ad individuare

cosa permetta alla musica di guadagnare tanto spessore, da assorbire tutti i sensi latenti delle

immagini.

Le immagini che vivono nella musica, come ci hanno mostrato bene gli esempi che abbiamo

citato, da Chion a Wagner, da Ejzenštein al pensiero aristotelico, sono caratterizzate da questo

modello di generalità che le rende aspecifiche perché nessuna immagine interna al suono può

esplodere nella sua totale esplicitazione, per usare la bella immagine di Piana98 nella sua Filosofia

della Musica.

Il nesso rimane così possibile, non necessario, ed è attorno a questa possibilità che lavora la

sedimentazione fantastica, il senso della costruzione immaginativa, il tessuto di nessi che unisce,

per fare un esempio la densità e la timbrica di un suono, all’evocazione materica delle cose. Il suono

guarda verso l’immagine, e nell’immagine trova il suo rapporto con il mondo: questo nesso in

qualche modo, necessario, è interno alla sua grana, o al senso interno delle sue strutture, come

mostrava bene l’esempio aristotelico. L’aspetto espressivo permette alla musica di appoggiarsi a un

referente che rimane sempre nascosto, uno strato potenziale che si evoca, proprio mentre

ostinatamente si nasconde. La necessaria ambiguità di tale rapporto spinge la musica di scena verso

quella dimensione estatica, che la fa fondere con l’immagine, e tutti gli ambiti che sono ad essa

complementari: spazio, colore, luce, atmosfera: il movimento estatico giace tutto nella sintesi

immaginativa.

97 Wagner 1851, p. 146.98 Sul rapporto fra suono immagine, e per l’idea che l’immagine sonora sia un oggetto inesploso vedi la voce Simbolo in Piana 1991. Oggi il volume è reperibile in formato digitale presso il Sito Spazio Filosofico: http://www.filosofia.unimi.it/piana/filosofia_della_musica/fdm_idx.htm

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Page 58: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Roberto Diodato – Elisabetta Locatelli

Estetica della rete

Rete virtuale

Forse l’idea di rete virtuale può considerarsi un’estensione spazio-temporale astratta della celebre

idea di villaggio globale elaborata da McLuhan negli anni Sessanta, in particolare nel libro Gli

strumenti del comunicare del 1964. Il villaggio globale era pensato da McLuhan come un ambiente

sociale, produttivo e comunicativo, la cui condizione di possibilità era interna a una concezione

della tecnologia come estensione della corporeità che comportava una potente concezione della

tecnologia della comunicazione quale estensione del sistema nervoso: rete della comunicazione

come rete neurale, ibridazione corpo-macchina, intreccio tra organico e tecnologico dotato della

potenza di costituire un ambiente sui generis capace di infrangere le consuete barriere spazio-

temporali quasi fosse una stoffa comune tra gli elementi (persone e macchine) che lo popolano.

Così il termine «media» si ricollocava nella sua origine significativa: «media» come sostantivo

neutro plurale di medium, il quale a sua volta corrisponde all’uso sostantivato dell’aggettivo medius, Roberto Diodato è autore dei primi due paragrafi, Elisabetta Locatelli dei successivi.

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Page 59: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

che indicava ciò che ‘sta in mezzo’, o nel mezzo, in quanto centro del luogo proprio del dibattito

pubblico, in specie giuridico. In altri termini la rete è ambiente che implica, coinvolge, orienta e

struttura le possibilità della comunicazione intersoggettiva, scenario di azione sociale, spazio

pubblico di connessione, di luogo medio in quanto mediazione, prima che dispositivo.

Da qui si sviluppano le note metafore dell’intelligenza collettiva e connettiva, forme di

estensione pubblica e relazionale delle capacità individuali della mente, dell’immaginazione, della

memoria, in un sistema aperto nel quale la struttura delle relazioni costituisce un valore aggiunto

dipendente dalla natura sistemica della rete e fruibile dagli elementi del sistema. La tecnologia delle

reti traduce quindi in uno spazio digitale l’idea plurale di rete sociale, sempre esistita come

necessità umana in varie forme; ovviamente la tecnologia non è esteriore al senso della rete, ma è

indistinguibile dai suoi contenuti, messaggi ecc. , ne è cioè condizione di senso.

Come è noto la rete internet si sviluppa a partire da un progetto di ricerca dell’ente americano

ARPA (Advanced Research Projects Agency), per la costruzione di un sistema di collegamento tra

elaboratori elettronici impegnati in una certa ricerca. La rete arpanet aveva quindi lo scopo di

permettere ai ricercatori di scambiare dati, informazioni e in seguito più genericamente messaggi,

contribuendo così a creare il senso di una comunità delocalizzata, esistente nell’interazione

consentita dalla rete. Lo sviluppo ulteriore di internet, inteso come rete globale e come comunità

virtuale, riconfigura quindi il fattore geografico: non esiste più, propriamente, una differenza

metropolitana tra centro e periferia del sistema, e si elide anche l’idea di ‘provincia’ in senso

spaziale e culturale, eppure al tempo stesso un significato quasi geografico dei luoghi, inteso come

senso del loro potere di accentramento e concentrazione di senso, si ricostruisce all’interno della

rete, grazie alla sua struttura.

La struttura estetica della rete

La rete è un complesso di nodi tra loro connessi, in continua espansione, un sistema aperto regolato

da alcune costanti dipendenti dalla sua virtualità. Complessivamente tendente alla simulazione di

trasparenza concettuale proprio per mezzo dell’ipermediazione, tale sistema formatta i suoi utenti

incorporando nella sua qualità di dispositivo la qualità dei messaggi e selezionando le possibilità di

relazione. I nodi sono come isole emergenti nell’oceano del tessuto connettivo, più o meno definite,

grandi, articolate e connesse, che guidano i naviganti verso porti più o meno sicuri: un immenso

ipertesto costituito da ipertesti fruibili come interfacce. Per comprenderne il senso è quindi

necessario interrogarsi sul significato di alcuni termini, quali «virtualità», «ipertesto» e

«interfaccia».

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Page 60: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

La rete è un insieme proliferante di immagini digitali interattive, oggetti-ambienti informatici

con i quali un fruitore può interagire attraverso le periferiche di un computer. Con tali ambienti

informatici, elaborati per lo più non da un singolo autore, ma attraverso la collaborazione di

specialisti di diverse aree, talvolta l’utente interagisce attraverso i suoi avatar, gli alter-ego virtuali

che gli appaiono agire all’interno di tali ambienti, producendovi delle trasformazioni, altre volte la

sua funzione spettatoriale coincide con l’essere attore della situazione. Le trasformazioni o

modificazioni percettive e cognitive prodotte dagli utenti negli ambienti informatici o virtuali sono

possibili in quanto le immagini (visive, uditive, tattili ecc.) che essi percepiscono/producono non

sono altro che differenti fenomenizzazioni di una matrice algoritmica, cioè differenti possibili

attualizzazioni permesse dal programma. Il grado di interattività di tali oggetti informatici muta a

seconda che l’interazione avvenga sulla base di matrici algoritmiche ‘rigide’ – che preordinano le

possibili interazioni – oppure sulla base di matrici ‘flessibili’ che ‘apprendono’ e si modificano

attraverso l’interazione con l’utente. È quindi importante una descrizione del campo, una

fenomenologia dei corpi virtuali che li distingua in base al grado di immersività e di interattività che

consentono. In particolare La rete è un corpo virtuale in senso debole, in quanto le caratteristiche

che distinguono la virtualità (intermediarietà, immersività, interattività) non giungono

probabilmente a trasformare compiutamente la rete in un ibrido ontologico che sopprime la

differenza tra interno ed esterno, corpo e immagine, oggetto ed evento.

L’ipertesto è una forma di scrittura elettronica che approda a un oggetto a montaggio, un

insieme composto di vari elementi strutturati che appartengono a mezzi espressivi, o, in questo

senso, media differenti (parole, immagini, suoni) connessi tra loro da legami programmati.

L’ipertesto inoltre integra un design di interazione che produce connessione con l’utente.

Complessivamente è un meta-documento che tecnologizza, secondo le potenzialità della

digitalizzazione, il piano dell’espressione99. In generale la fruizione di un ipertesto segue dei

protocolli d’accesso che determinano dei percorsi apparentemente fluttuanti e aleatori, non

riconducibili per lo sguardo del fruitore a un’unica sequenza preordinata, bensì a molteplici

sequenze possibili, una moltiplicazione di possibilità che costituisce una forte illusione di libertà. La

rete (e in particolare il web inteso come servizio di internet, cioè insieme di ipertesti connessi nella

rete che connette gli elaboratori) è però nel suo complesso uno spazio pagano, in cui ci sono, per dir

così, molti dei, molti ipertesti che si disputano la qualità di essere centri di attrazione, ed è quindi

uno spazio sul quale non si dà uno sguardo di sorvolo: nessun iperautore può avere uno sguardo

totalizzante sul web. Ciò non vuol dire un guadagno assoluto di libertà, ma certamente un

accresciuto senso della libertà da parte dell'utente, anche se l'utente si muove sempre su un numero

99 Cfr. Zinna 2004, pp. 18-19.60

Page 61: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

parziale di località. Perciò l’ipertesto in web implica lo sfrangiamento del limite, innanzitutto: se la

compiutezza è condizione di possibilità per una scala delle perfezioni, e quindi per una modalità

tradizionale della valutazione estetica quale interpretazione, è possibile per una rete ipertestuale i

cui collegamenti sono quantitativamente finiti ma in effetti (per i suoi effetti) infiniti dal punto di

vista del fruitore, un ipertesto complessivo ma non compiuto i cui limiti o confini si fluidificano e si

sciolgono continuamente nel gioco della navigazione in aperture non dominabili da una logica che

non sia quella plurale dell'utile e del desiderio? Per esempio come si struttura la temporalità della

fruizione, come effetto di interattività, o meglio la sua percezione attraverso lo spazio: sappiamo

che la fruizione degli elementi di una schermata di IP avviene a un primo livello in parallelo, con un

colpo d'occhio, e sono codificati istantaneamente dal cervello: abbiamo di fronte insomma un testo

iconico complesso la cui percezione è analizzabile ad esempio a livello di topologia planare, ma a

questo primo sguardo istantaneo si aggiunge quasi immediatamente una fruizione sequenziale.

Nell’IP on line questo doppio processo si distende in un ambiente percettivo-temporale indefinito, e

questo scuote l'evidenza apparentemente senza fratture del presente come forma del tempo: in quel

tipo di esperienza immersiva che è la navigazione in rete il tempo viene davvero sentito come

‘tempo che non si raccoglie’, un tempo sempre travagliato da una disgiunzione, da un differimento

che è il ‘luogo’ stesso dell'alterità, introdotto nello stesso istante della percezione. Il secondo punto

riguarda la nozione di mondo. La rete è un insieme in continua espansione che modifica ed è

contemporaneamente modificato dai suoi utenti. I punti di vista, che sono sempre nella rete perché

un punto di vista esterno, globale o vero non può esistere, sono insieme determinati e indeterminati,

sono insieme non-finiti e definiti, poiché non sono altro che relazioni in continua mutazione. In

questo sistema essenzialmente privo di verità, il mondo sembra essere pensato nello spazio-tempo

come struttura relazionale, e moltiplicato potenzialmente all'infinito nella rete espressivo-

rappresentativa delle interazioni e dei collegamenti. Questo mondo ha carattere totale: nel suo

dinamismo tutti i possibili che possono attualizzarsi si attualizzano, ma non è dotato di alcuna

teleologia, in quanto non è possibile uno sguardo esterno dominante: si tratta quindi di un ulteriore e

alternativa metafora del mondo.

Fenomenologia degli ambienti virtuali

Scopo di questa seconda parte è quello di fornire una fenomenologia degli ambienti e dei dispositivi

in cui sussiste una componente virtuale intesa come una riserva d'essere che si fenomenizza

nell’interazione con un soggetto. Essa può assumere diverse forme e gradi in funzione del tipo di

applicazione o di ambiente utilizzato, di cui si darà conto seguendo una scala che procede dalla

gradazione più debole a quella più forte tenendo come riferimento i livelli di interattività e di

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Page 62: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

immersività sensoriale presenti. Le tre declinazioni dell’interattività che verranno utilizzate come

parametri di confronto sono: l’interattività come attributo del sistema tecnologico, del processo

comunicativo e della percezione dell’utente100. Si partirà dunque dal web, forma debole di virtuale,

per giungere al suo grado più compiuto, la realtà virtuale, passando attraverso i dispositivi mobili e

le installazioni artistiche interattive.

Se per mondo virtuale intendiamo un ambiente che si fenomenizza nell’interazione fra un

algoritmo binario e un utente, possiamo considerarne una prima forma di attualizzazione il web,

termine con cui ci si riferisce al World Wide Web101, una particolare modalità di navigazione

all’interno di Internet, ideata da Tim Berners-Lee nel 1993, che opera attraverso la connessione

ipertestuale fra file collocati in diversi computer. All’idea di ipertesto ideata da Nelson come

connessione multilineare di documenti102, Berners-Lee aggiunse l’idea di multimedialità103

consentita dall'utilizzo del linguaggio digitale per tutti i documenti104.

I legami fra computer e file non sono interamente stabiliti a priori, ma vengono definiti

nell’uso dagli utenti più o meno esperti, anche se sono presenti vincoli legati all’architettura delle

pagine e dell’infrastruttura. L’intreccio è paragonabile a quello di un tessuto, poiché ha spazi

punteggiati, punti fermi e passaggi obbligati ma come il feltro non è regolare quanto piuttosto

formato da fili attorcigliati senza un ordine preciso105 poiché all’utente è lasciata la libertà di

navigare e di muoversi fra documenti. I legami tra i nodi possono essere inoltre, dal punto di vista

ontologico, potenziali, e avere bisogno solo di essere realizzati attraverso il conferimento di un

actus essendi da parte di un utente, o virtuali ed essere oggetto quindi di un processo di

attualizzazione106. Questo è reso possibile dalla triplice articolazione dello spazio dell’ipertesto, e

quindi anche del web, in logico, visibile e agito107.

100 Per una rassegna dettagliata della letteratura e degli studi empirici su cui si poggia questa triplice distinzione si rinvia al saggio di Quiring 2009 e la bibliografia ivi indicata. In estrema sintesi, per quanto riguarda il primo aspetto si considerano la velocità di reazione del sistema, la flessibilità delle opzioni e la complessità degli stimoli sensoriali inviati. Per il secondo punto si possono invece valutare le caratteristiche di interazione fra utente e sistema o fra utente e utente consentita: comunicazione mono o bi-direzionale, il grado di controllo che ciascun partecipante può avere sulla conversazione o ancora il livello con cui ciascun messaggio è correlato con quelli che lo hanno preceduto. Infine, per quanto riguarda la percezione dell’utente, i parametri da analizzare sono il tipo di risposta percepita da parte del sistema, l’attivazione sensoriale, la sensazione di connessione con gli altri utenti, la possibilità di avere un senso del luogo definito e di presenza sociale.101 Intesa come interconnessione mondiale di computer a cui chiunque può accedere se dotato di un computer, una linea di connessione dedicata e un software apposito. La trasmissione delle informazioni avviene tramite il sistema HTTP (HyperText Transfer Protocol) attraverso dei protocolli di rete, i cui più famosi sono TCP/IP. Cfr. Abbate 2000, pp. 213-220.102 Per una definizione dell’ipertesto e una ricostruzione della sua storia si può fare riferimento a Bolter 1991, Nelson, 1992, Landow 1994 e 1997, Castellucci 2009.103 Abbate 2000, p. 214. Cfr. anche Berners - Lee 1999.104 Feldman 1997.105 Cfr. Deleuze - Guattari 1980.106 Per la distinzione, squisitamente ontologica, fra attualizzazione del potenziale e realizzazione del virtuale cfr. Deleuze 1968; Deleuze - Guattari 1991; Lévy 1995.107 Bettetini - Gasparini - Vittadini 1999.

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Page 63: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Il primo livello, condizione necessaria degli altri108, è lo spazio logico109, concettuale e

soggiacente alla manifestazione visibile dei contenuti110, che li connette in modo multilineare e che

va distinta dal supporto che li ospita111. Esso è, infatti, quello che «precede logicamente e

processualmente la manifestazione sensibile, dall’altro la motiva e la guida»112, «è il luogo

dell’effettiva scrittura dell’ipertesto dal punto di vista del senso, luogo metatestuale, che media i

testi dell’ipertesto»113. Esso ha una natura eminentemente semantica dal momento che

l’organizzazione del contenuto è costruita secondo una connettività reticolare in cui i singoli nodi

(testi) sono uniti in una serie di relazioni che dà loro un senso ulteriore rispetto alla somma delle

parti114, analogamente a quanto accade nella dispositio retorica.

Lo spazio logico si dà a vedere nello spazio visibile che restituisce le relazioni intertestuali

che lo compongono (le articolazioni di nodi e link) sia attraverso la loro sintassi che la loro messa in

forma, che anche in questo caso contribuisce a sovradeterminare il significato.

Le dinamiche di fruizione da parte degli utenti costituiscono, infine, lo spazio agito, poiché «il

regime interattivo impone all’utente di non limitarsi a guardare, ma di agire; di passare da spettatore

a «spett-attore» (Weissberg 1989); di entrare nel testo perché esso possa attualizzare le proprie

potenzialità»115. Le competenze richieste al lettore non sono solo di tipo cognitivo, ma anche

pragmatico (saper-fare, saper-agire, saper-usare).

La libertà con cui il fruitore può muoversi all’interno di un ipertesto viene spesso definita

non-linearità, ossia un’assoluta mancanza di linearità. Il testo non-lineare sarebbe un testo che in

nessun modo rispetta una connessione causale, nemmeno l’unione di due elementi per mezzo della

congiunzione ‘e’. Per quanto questa ipotesi sia suggestiva e sostenuta con forza da alcuni teorici

dell’ipertesto come Landow o Nelson, anche l’ipertesto ha una certa linearità e sequenzialità:

ciascun percorso deve pur avere un inizio e una fine e, talvolta, alcuni passaggi non sono consentiti.

Si può, quindi, affermare che «gli ipertesti non prevedono a priori una linearità»116 ma che «ciò non

significa che il regime ipertestuale neghi in modo assoluto la linearità e la sequenzialità»117. È

preferibile, quindi, parlare di multilinearità: le categorie narratologiche tradizionali restano invariate

108 In questo senso può essere paragonato allo spazio trascendentale kantiano anche se non è dato a priori poiché ogni ipertesto ha il proprio.109 La sua definizione non è univoca secondo i diversi teorici. Per una ricostruzione del dibattito cfr. Bettetini – Gasparini - Vittadini 1999, capitolo 2. 110 Che possono essere testi ma anche contenuti audio, video o fotografie, in ogni caso l’elemento comune è che siano digitali o digitalizzati.111 Anche se alcuni autori come Nelson riuniscono nello spazio logico anche il supporto fisico.112 Bettetini - Gasparini - Vittadini 1999, p. XVIII.113 Diodato 2005, p. 191.114 Cfr. anche Bolter 1989.115 Bettetini - Gasparini - Vittadini 1999, p. 95.116 Ibidem, p. 103.117 Ibidem.

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nell’ipertesto narrativo, ma esso «realizza alcune possibilità, cioè alcuni mondi possibili, consentiti

dal testo, è cioè un’esibizione della moltiplicazione delle possibilità: un’esibizione in senso proprio,

perché fa emergere la traccia delle sue regole di costituzione»118, rompendo, da un lato, la finzione

mimetica e, dall’altro, mettendo in luce la libertà del lettore.

A livello macroscopico, l’interconnessione multilineare concessa dall’ipertesto diventa

reticolarità, «struttura organica di relazioni tra unità diverse»119, un intreccio che ricorda la modalità

di costituzione dei poemi omerici. In essi non esisteva infatti una struttura fissa dell’articolazione

degli episodi, ma, a seconda del contesto e della tipologia di uditorio, l’aedo stabiliva una

connessione diversa accompagnandosi con la musica e la danza.

Secondo Nelson il web, pur essendo strutturato come un ipertesto, non ha fatto altro che

riprodurre una modalità gerarchica di consultazione dei contenuti. Il web 2.0120 sembra aver

accolto121 la nuova sfida che egli ha lanciato122 in questa direzione, suggerendo di rendere il lettore

propriamente autore e responsabile123 conferendogli la capacità di modificare i testi, che secondo la

terminologia di Bauman124, dovrebbero diventare «liquidi»125. Il web 2.0, infatti, non è più uno

strumento ma una piattaforma abilitante grazie a cui gli utenti sono protagonisti della produzione e

distribuzione di materiali, contribuendo attivamente a definirne architettura e contenuti126. Solo per

fare un esempio, la catalogazione dei documenti non avviene più seguendo principi universali a cui

ispirarsi (tassonomia) ma le etichette (tag) che ciascun autore decide di abbinare il contenuto

pubblicato (folksonomy).

Analizzando le applicazioni che si trovano in Internet e nel web, si può individuare un primo

gruppo caratterizzato da un grado debole di interattività. Esso comprende e-mail127, chat128,

118 Diodato 2005, p. 187.119 Bettetini - Gasparini - Vittadini 1999, p. 108.120 O’Reilly 2005b. Il dibattito sul reale portato di innovazione del web 2.0 è complesso: alcuni autori sostengono infatti che esso incarni una rivoluzione nel modo di pensare la rete, mentre per altri è semplicemente la realizzazione delle premesse contenute nella modalità di progettazione del World Wide Web. Per un approfondimento della questione cfr. O’Reilly 2005a e 200b, Hinchcliff 2005 e Garrett 2005.121 Castellucci 2009.122 Nelson 1997.123 Rispetto al Memex di Bush già l’ipertesto di Nelson teorizzato negli anni Sessanta non doveva essere un semplice archivio ma uno strumento di di diffusione di informazioni e di produzione di nuove unità basate su materiale preesistente. Cfr. Nyce, Kahn 1991 e Castellucci 2009.124 Bauman 2000.125 Nelson 1997, p. 92. Una delle traduzioni di questo concetto è il progetto Zig Zag di Nelson in cui la navigazione fra i dati è consentita da un sistema di relazioni dinamiche che si trasformano in base al tipo di interrogazione operata dall’utente. Il progetto è descritto in modo dettagliato in Castellucci 2009, pp. 204-208.126 Un'anticipazione di questa logica è stata portata avanti dal movimento dell'open source che mira alla progettazione collettiva di software rendendo accessibile il loro codice sorgente, cfr. Sciabarrà 2004.127 È un sistema che consente lo scambio di messaggi in tempo reale fra due o più caselle virtuali (mailbox) che si trovano su un server, ciascuna delle quali è assegnata ad un utente. Cfr. Abbate 2000 e Colombo 2005, p. 256128 Una chat, abbreviazione di Internet Relay Chat, è un sistema in cui più utenti possono dialogare in tempo reale attraverso messaggi scritti che appaiono immediatamente sullo schermo sotto forma di pannello scorrevole. Può essere pubblica, e quindi essere vista da tutti gli utenti iscritti al servizio, oppure privata, e quindi essere visitabile solo dagli utenti invitati alla conversazione attraverso una password. Data l’istantaneità della comunicazione si usano spesso

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Page 65: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

programmi di instant messaging129 e forum130, strumenti che hanno come funzione principale quella

di consentire lo scambio di messaggi fra utenti.

Dal punto di vista tecnologico, l’interattività consentita è limitata poiché si riduce alla

possibilità di personalizzare l’interfaccia o il proprio profilo. Per quanto riguarda il sistema di

comunicazione, ciò che accomuna questi spazi è la trasformazione dell’interattività in interazione

con altri utenti, ossia la possibilità di instaurare processi di comunicazione e di relazione attraverso i

messaggi scambiati. Essi non sono solo, infatti, mezzi attraverso cui veicolare un’informazione ma

anche luoghi in cui instaurare e mantenere un rapporto con altre persone, nella misura in cui

comunicare è, etimologicamente, ‘mettere in comune’. Un discreto livello di interattività si rileva

anche a livello di percezione dell’utente poiché, soprattutto attraverso la comunicazione sincrona di

chat e programmi di instant messaging, si genera un senso di compresenza degli interlocutori,

seppure non condividano lo stesso spazio131. La sensazione di trovarsi in un luogo comune è

confermata anche dall’uso di questi due strumenti con una mera funzione fàtica132, in cui cioè il solo

fatto di vedersi reciprocamente online mantiene aperto il canale comunicativo con la possibilità di

iniziare la conversazione in qualsiasi momento.

E-mail e forum, in quanto strumenti di comunicazione asincroni, fanno invece leva sulla

possibilità di poter attivare e interrompere la comunicazione in funzione delle necessità e dei

desideri dei partecipanti. Non a caso, per la posta elettronica si è molto lavorato per rendere la sua

consultazione sempre più agevole e svincolata da spazi e tempi determinati, attraverso la creazione

di sistemi sempre più raffinati di webmail e di telefoni cellulari in grado di consentirne una

consultazione di buona qualità.

In tutti i casi qui descritti il tempo si deve notare che «non si raccoglie»133, passato e presente

si mescolano grazie alla possibilità di conservare memoria dei messaggi. Si apre così la possibilità

di sperimentare una nuova forma del tempo134 non necessariamente rielaborabile secondo la

linearità aristotelica ma anche secondo altri paradigmi, come il continuum della coscienza di

Merleau-Ponty135 o la deleuziana coesistenza fra falde di passato e punte di presente136.

acronimi, abbreviazioni o emoticons (insiemi di punteggiatura che esprimono uno stato d’animo) che diano la possibilità di comunicare rapidamente e in modo efficace. Cfr. Colombo 2005, p. 48.129 I programmi di instant messaging possono essere considerati come una delle possibili evoluzioni delle chat: si tratta di programmi che consentono, previa registrazione, di scambiare messaggi privati di testo in tempo reale con una cerchia di contatti selezionati. Cfr. ibidem.130 Successori delle BBS (Bullettin Board System) e dei newsgroup, i forum sono gruppi di discussione dove chiunque può pubblicare il proprio messaggio su bacheche a tema, generalmente previa la registrazione di un profilo. Cfr. ibidem.131 Ad alimentare la sensazione di un luogo condiviso contribuisce certo il tempo di reazione dell’interfaccia che deve essere minimo, pena l’annullamento del senso di spontaneità del flusso di conversazione.132 Per un approfondimento delle funzioni di Jakobson si rimanda a Bettetini, Cigada, Raynaud, Rigotti 1999.133 Diodato 2005, p. 194.134 Cfr. Derrida 1972, pp. 59-104.135 Cfr. Merleau-Ponty 1942.136 Cfr. Deleuze 1983.

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Page 66: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Il secondo gruppo di strumenti, che comprende blog137, social network138, MUD139, strumenti

di upload di contenuti140, Second Life141 e wiki142, offre invece un’interattività più forte per ciascuno

dei tre parametri considerati. Dal punto di vista dell’interattività sistemica, infatti, l’utente ha la

possibilità di creare con le proprie mani tali ambienti, come accade per i blog, oppure di definirne

delle sezioni in modo autonomo, cosa che si verifica per i MUD e per Second Life. Questo, dal

punto di vista della sua percezione, gli consente di appropriarsi di uno spazio che può sentire suo e

che diventa quindi un luogo ancor più emotivamente connotato. Infine, anche la possibilità

comunicativa è ampliata dal momento che è possibile differenziare gli strumenti e il livello di

privacy usati in base agli utenti con cui si vuole avviare una conversazione.

A diverso titolo tutti gli strumenti qui raccolti consentono di creare un mondo, di definire uno

spazio ‘altro’ pubblicando dei contenuti (blog e social network) oppure creando un ambiente in cui

agire con altri, come avviene nei MUD e in Second Life. Sul principio della costruzione

collaborativa si fonda anche Wikipedia, la wiki più famosa, il cui scopo è quello di creare

un’enciclopedia in cui le voci non siano redatte da esperti ma attraverso la collaborazione reciproca

di utenti che condividono il loro sapere in materia. La presenza dell’altro come co-autore non si

limita, a ben vedere, alle wiki, poiché in quanto spazi pubblici, anche negli ambienti prima descritti

l’interazione si svolge sulla base delle azioni degli altri utenti, che contribuiscono in questo modo a

definire l’identità online del soggetto.

Si tratta quindi di un’intelligenza connettiva143 e non solo collettiva144 poiché non è sufficiente

che le intelligenze siano connesse per creare un plus cognitivo, ma che insieme possano creare degli

artefatti, seguendo a pieno la logica del virtuale come riserva d’essere del reale.

137 Dal punto di vista tecnologico un blog è costituito da un database, un modulo per l’inserimento di contenuti e uno per visualizzarli nel web, generalmente in ordine cronologico inverso, (Di Fraia 2007). A partire da questa struttura di base ciascun utente può costruire il suo blog scegliendo un layout predefinito o progettandolo da solo e definendo il tipo di contenuto e lo stile. Cfr. Blood, 2002a e 2002b; Di Fraia 2005, 2007; Rettberg 2009.138 Un social network è un servizio web che permette di costruire un profilo pubblico o semi-pubblico in un sistema vincolato, di definire una lista di altri utenti con cui condividere le informazioni del proprio profilo e di vedere le liste di contatti altrui. Cfr. Boyd - Ellison 2007. Secondo l’8° Rapporto Censis/Ucsi del novembre 2009 sulla comunicazione il social network più diffuso in Italia è Facebook, cfr. http://www.censis.it.139 Acronimo di Multi User Dungeon (o Domain) identifica una serie di giochi di ruolo a cui più utenti possono giocare contemporaneamente connettendosi a Internet.140 Sono spazi in cui caricare, previa registrazione, file propri come fotografie o video. Nel tempo sono sostanzialmente diventati social network a tema con cui condividere, commentare e promuovere le proprie creazioni con altri appassionati.141 È un mondo virtuale creato dalla Linden Lab in cui gli utenti possono interagire attraverso avatar stringendo relazioni, comprando casa o lavorando, per esempio. Cfr. il sito ufficiale http://secondlife.com/ e i testi di Canestrari, Romeo 2008 e Malaby 2009.142 Si tratta di siti web costruiti aggiornati dai loro utilizzatori a cui viene concessa la libertà di accedere al codice della pagina. Il loro principio fondante è la costruzione collettiva del sapere attraverso aggiunte e correzioni successive da parte di più persone. Gli utenti hanno massima libertà di azione anche rispetto al lavoro altrui, generando così un forte legame di fiducia e di responsabilità reciproca. Per evitare errori irreversibili viene comunque conservata la cronologia delle modifiche.143 Cfr. De Kerckhove 1997.144 Cfr. Lévy 1994.

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Page 67: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Dispositivi mobili

Un secondo settore in cui si verifica l’attualizzazione del virtuale attraverso la tecnologia è attuata

dai dispositivi mobili, come il telefono cellulare o il navigatore satellitare, ormai percepite come

protesi del corpo145. Se l’interfaccia a livello tecnico offre margini minimi di modifica, tali strumenti

consentono di affermare la propria presenza sociale e di intrecciare realtà virtuale e fisica in

maniera pervasiva tanto da poter essere considerato una chiave di lettura per la società moderna146.

Anche in questo caso si tratta di tecnologie in continuo mutamento: il telefono cellulare, per

esempio ha cambiato più volte la sua configurazione tecnologica, passando dall’essere uno

strumento per compiere la sola funzione di telefonare a dispositivo che consente la «costituzione di

oggetti sociali»147 diventando archivio, strumento per produrre contenuti multimediali o ancora per

accedere a internet.

Potendo localizzare in tempo reale la propria posizione, per esempio attraverso un navigatore

satellitare o utilizzando il proprio cellulare con una funzione analoga, viene in primo luogo

modificato il senso del luogo148, ossia l’‘essere-qui-ora’ percepito dal soggetto, che viene

amplificato nei suoi estremi. Da un lato, infatti, egli può infatti osservare i propri spostamenti

dall’alto, attraverso lo sguardo disincarnato del satellite. Lo spazio che egli percorre viene ridotto ad

una cartina e la sua presenza ad un punto sullo schermo, facendo prevalere la concezione

geometrica ed euclidea dello spazio. A questo appiattimento corrisponde, dall’altro lato, una forte

connotazione affettiva degli spazi che diventano animati perché catturati attraverso conversazioni,

scatti o riprese. Il telefono cellulare può inoltre diventare un mezzo per «inventare il proprio

territorio»149, poiché attraverso di esso si portano all’esterno dell’ambiente domestico abitudini e usi

consolidati a proposito della telefonia fissa, avendo sempre a portata di mano, letteralmente, il

mondo delle proprie relazioni e quindi la propria bolla comunicazionale150. Ponendosi «oltre il senso

del luogo»151 il flâneur contemporaneo può vagare senza perdersi, costruendo il suo percorso come

una strada che passa di schermo in schermo, da quello del navigatore satellitare a quelli disseminati

per la città.

Questo cambiamento incide fortemente anche sul senso della situazione: c’è la possibilità di

ritagliarsi un angolo di intimità in uno spazio pubblico dedicandosi ad una conversazione, per

145 Cfr. Colombo 2001.146 Cfr. Borrelli 2000.147 Ferraris 2005, p. 154148 Per la triplice distinzione qui considerata fra senso del luogo, della situazione e della rappresentazione si fa riferimento a Casetti 2009.149 De Gournay 1994.150 Aakhus, Katz 2002151 Meyrowitz, 1985.

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Page 68: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

esempio, o di incontrarsi con i propri amici seguendo le reciproche tracce sul navigatore152. In

questo senso i confini tra pubblico e privato diventano sfumati e non chiaramente definibili153,

anche perché cambiano i tempi e i modi della raggiungibilità: con un telefono cellulare in tasca si è

contattabili sempre e in ogni luogo, rendendo la non reperibilità l’eccezione rispetto alla regola.

Questo ha conseguenze sul modo di vivere la temporalità che viene vissuta attraverso strategie

diverse: ‘just in time’ quando il telefono è usato per comunicare a ritmi veloci, ‘intensive’ quando

diventa un mezzo per rendere produttivi gli interstizi di attesa e ‘estensive’ quando pervade i tempi

di pausa e riposo154. L’interfaccia del telefono cellulare è diventata così trasparente da coincidere

con la persona stessa tanto che ci si stupisce se non risponde il proprietario del telefono, conferendo

un senso di immediatezza forte ad una comunicazione che è pur sempre tecnologicamente mediata.

Un terzo livello di cambiamento si pone riguardo al senso della rappresentazione poiché

potenzialmente ogni attimo della vita quotidiana può essere fissato, archiviato e successivamente

raccontato o pubblicato sul web. In questa direzione agiscono i browser di realtà aumentata che

sovrappongono realtà fisica e virtuale155, intrecciando punto di vista diversi di uno stesso luogo.

L’«immediatezza trasparente»156 dell’interfaccia e l’abitudine con cui la si utilizza hanno creato una

continua permeabilità fra uomo e tecnologia in cui la figura del cyborg157 diventa la norma per

definire una corporeità protesizzata che estende la sua capacità di relazione con il mondo.

Le installazioni d’arte

Un ulteriore passo verso il coinvolgimento interattivo ed immersivo dell’utente è generato dalle

installazioni d’arte che offrono al loro visitatore la possibilità di attivare percorsi di fruizione

differenziati sensorialmente ricchi interagendo con il corpo dello spettatore. In questo modo, se dal

punto di vista sistemico l’interattività è minima e consiste nell’attivare percorsi predefiniti

dall’artista, per quanto riguarda la percezione dell’utente si ha invece un’interattività complessa

poiché ci si trova di fronte ad un ambiente che risponde in tempo reale e che ricrea la multimedialità

tipica della vita quotidiana.

Si tratta di un’arte nomade158 in cui lo sguardo ravvicinato sostituisce la visione a distanza, lo

spazio prensivo a quello visivo. In altre parole, lo sguardo supera la tradizionale concezione della 152 In questo senso, attraverso le applicazioni scaricabili dai siti delle case produttrici dei navigatori si possono implementare funzioni che assimilano questo strumento ad un social network o lo integrano con altri, come il computer o il telefono cellulare.153 Cfr. Scifo 2005.154 Ibidem.155 Ad esempio è possibile filmare una via e visualizzare sui palazzi la descrizione fatta da altri utenti, le foto che hanno scattato e caricato in rete oppure le persone di un dato social network che vi hanno posto la loro residenza. Il primo browser augmented reality è Layar http://layar.com.156 Bolter - Grusin 1999.157 Haraway 1991.158 Deleuze - Guattari 1980.

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Page 69: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

cultura occidentale in cui «vedere è ‘avere a distanza’»159 e la visione è sottoposta a leggi

prospettiche per diventare uno sguardo aptico160 nella misura in cui riunisce in sé il movimento

visivo che gli è proprio con quello prensivo tipico della mano ed è «un luogo di integrazione in cui

l’occhio tocca l’ambiente, la mano vede le cose, in continua reversibilità»161. In questo nuovo

rapporto la mano non è più subordinata all'occhio ma posta sullo stesso piano162.

Questa nuova dimensione restituisce al tatto la dignità di organo estetico e «ripristina quella

sensorialità tattile diffusa su tutto il corpo, quella sensorialità organica, fisiologica che è

manifestazione dell’energia vitale propria dell’organismo ancora a livello di embrione»163. Il

coinvolgimento di tutto il corpo rinvia anche ad una dimensione empatica: agendo nell’opera e con

l’opera lo spettatore è immerso nelle sensazioni e nelle emozioni che essa evoca. Lo spettatore

diventa quindi «un interattante inteso come partecipante sensomotorio di mondi visivo-tattili»164.

Una prima realizzazione di questa differente modalità di visione si attua già all’interno della

fruizione della rete prima descritta: la vista non si limita a guardare gli oggetti che compaiono sullo

schermo del computer, ma li afferra attraverso ombreggiature, rilievi e colori, cogliendo le

sensazioni che potrebbe avvertire la mano ancorata invece al mouse mentre segue i movimenti

dell’occhio.

Fra i numerosi esempi di installazioni artistiche interattive che coinvolgono attivamente lo

spettatore si può citare La pozzanghera, un video ambiente interattivo per bambini di Studio

Azzurro in cui i piccoli utenti possono ripercorrere lo scorrere delle stagioni attraverso l’interazione

con diverse pozzanghere d’acqua virtuali165 o The Legible City (1988-91), un’installazione di

Jeffrey Shaw in cui lo spettatore è invitato a pedalare su una bicicletta vera ai cui stimoli

rispondono immagini e testi di una città. Oltre all’interazione fra spazio fisico e virtuale l’artista ha

cercato di sperimentare la possibilità di un video racconto non lineare, ossia non progettato

interamente a priori, ma che si compone in funzione dell’azione degli spettatori sulla bicicletta, e la

percezione di una città non solo come un agglomerato di strade e case ma anche come un pattern

immateriale di esperienza166.

159 Merleau-Ponty 1964, p. 23.160 Come sottolineano Somaini e dell’Orto, la derivazione greca della parola dal verbo àpto non suggerisce una relazione di collaborazione fra occhio e mano, quanto l’assunzione da parte dell’occhio di una diversa funzione, di un tipo di sguardo che differisce da quello ottico (Somaini - dell’Orto in Mazzocut-Mis 2006)161 Diodato 2005162 Deleuze distingue diverse modalità di relazione fra occhio e mano: il digitale in cui la mano è completamente subordinata all’occhio; il tattile in cui la mano è meno subordinata e il visivo contiene riferimenti manuali; il manuale in cui è invece l’occhio ad essere subordinato e infine l’aptico che pone occhio e mano sullo stesso piano. Cfr. Deleuze 1981. Per una nuova concezione del rapporto fra sensi in questa direzione cfr. anche Merleau-Ponty 1964.163 Mazzocut-Mis 2001, p. 140.164 Boccia Artieri 1998, p. 217.165 Rosa 2007.166 Meigh-Andrews 2006, p. 273. Cfr. anche la sperimentazione della realtà aumentata a teatro descritta in Jernigan - Fernandez - Pensyl - Shangping 2009.

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Page 70: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

La realtà virtuale

Una più compiuta realizzazione della sensorialità aptica si attua negli ambienti di realtà virtuale. In

questi lo spett-attore dotato di caschi visori, cuffie, guanti e tuta infatti compie la maggioranza della

azioni con gli occhi: spostandoli in una certa direzione determina la sua direzione di marcia,

guardando un bottone e pronunciando il comando relativo lo aziona, quando tocca un oggetto lo

vede e dei sensori posti sul guanto determinano una sensazione analoga al tatto, ma di fatto non è la

mano che lo afferra quanto piuttosto l’occhio che lo vede e letteralmente tocca le cose. In altre

parole non c’è una telecamera o un vedere a distanza, ma lo sguardo si svolge dentro le cose stesse.

Inoltre, grazie alle tute che avvolgono l’utente, è recuperata la sensibilità tattile di tutta la superficie

corporea.

La realtà virtuale offre, infatti, un’esperienza completamente immersiva e interattiva al

soggetto poiché essa è «una riproduzione tecnologica del processo di percezione della realtà»167 che

si costituisce all’interno della tecnologia e che unisce in sé la sfera del significato e quella sociale 168.

Dal punto di vista tecnologico, infatti, l’ambiente di realtà virtuale interagisce in tempo reale con i

movimenti dell’utente, offrendo l’analoga sensazione di effettuare un’interazione con oggetti e

spazi fisicamente esistenti ma anche con altri utenti. L’applicazione di protesi offre inoltre la

possibilità di dare un’immersione percettiva che coinvolge tutti i sensi.

A differenza dell’allucinazione e del sogno che non hanno una sussistenza reale ma esistono

solo nella mente di colui che li elabora169 «il virtuale è una nuova condizione della sensorialità,

indipendente da ogni forma di simbolizzazione e da ogni elaborazione immaginaria, indotta da un

uso particolare della tecnologia elettronica»170. Sono diverse le condizioni che permettono di

conferire piena esistenza reale a questo tipo di esperienza171: possiede il realismo percettivo, ossia la

capacità di indurre un’esperienza percettivamente reale172; è possibile condividere un ambiente

virtuale con più persone; dota il soggetto di una libertà spazio-temporale e di libertà di movimento;

infine, prima che esistere nell’interazione con il soggetto essa sussiste in nuce nei programmi e nelle

interfacce che la costituiscono. Come osserva Benedikt, inoltre, essa condivide con la realtà il

Principio di Indifferenza, per cui «la realtà percepita di ogni mondo dipende dal suo grado di 167 Hills 2009, p. XIV, traduzione nostra. Hills distingue la realtà virtuale dai virtual environments, gli ambienti digitali tridimensionali immersivi generati da tecnologie digitali. Con il termine realtà virtuale inteso in senso ampio si possono infatti indicare tutti gli ambienti descritti nel corso della presente trattazione. Per non creare ambiguità ed effettuare una distinzione precisa dei diversi ambienti in questa sede si è scelto di operare un’equivalenza fra realtà virtuale e virtual environments.168 Ibidem, p. XV.169 Merleau-Ponty 1964, pp. 439-440.170 Costa 1998, p. 125.171 Antinucci in Belotti 1993, pp. 21-27.172 L’importanza di una tale immedesimazione è evidente anche a scopo terapeutico, cfr. a titolo di esempio Wiederhold 2005.

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Page 71: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

indifferenza alla presenza di un particolare ‘utente’ e dalla sua resistenza ai suoi desideri»173,

generando una dialettica fra progettazione e reazione agli stimoli dell’utente in modo che la realtà

virtuale sia allo stesso tempo indifferente e sensibile174.

Si può quindi affermare che a fronte di una cultura che, assorbendo la lezione di hegeliana175

sottolinea il primato della vista come punto privilegiato d’osservazione, gli ambienti di realtà

virtuale restituiscano all’occhio una funzione non solamente visiva e dignità a tutti gli altri sensi. Se

non è più l’occhio a restituire la prospettiva ma l’intero corpo si può allora parlare con De

Kerckhove di punto d’essere176. L’equivalenza fra lo spazio e la sua percezione attuata dalla realtà

virtuale non porta, infatti, all’equivalenza cartesiana fra essere e pensiero ma piuttosto richiama la

centralità del corpo, benché tecnologicamente dotato di protesi, nella sua relazione con il mondo.

173 Benedikt 1992, p. 167.174 Ibidem, p. 169.175 Hegel 1823.176 Cfr. De Kerckhove 2003, pp. 25-26 e De Kerckhove in Capucci 1994, pp. 45-60.

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Luca Venzi

Le foglie, la piuma e altre immaginiNote di estetica (e di etica) del cinema nell’età del digitale

Il vento soffia dove vuole177

Una famiglia attorno a un tavolo, in Francia, sul finire del XIX secolo. Marito, moglie e una

bambina di pochi mesi, all’aperto, presumibilmente nel giardino della loro abitazione. I genitori

attendono alla colazione della piccola. Nel fondo, dietro alle figure, degli alberi mossi dal vento:

uno stormire discreto, ma continuo, di foglie. L’inquadratura dura trenta secondi e consiste in uno

dei film più celebri del catalogo Lumière, Le goûter de bébé178 (1895). Il cinema è appena nato e

con questo e con altri piccoli film come questo, sbigottisce, alla lettera, i suoi spettatori.

Partirò da questa immagine (dunque, ma a bella posta, da molto lontano) e da un noto

aneddoto ad essa connesso (la reazione di un illustre spettatore di fronte al film), per tentare di

comporre un orizzonte teorico determinato entro il quale inquadrare la trasformazione epocale che,

ormai da diversi anni, investe frontalmente l’immagine filmica al punto da modificarne, come mai

prima, i tratti costitutivi e individuanti: mi riferisco al passaggio dalla tecnologia analogica a quella

digitale. Un qualsivoglia tentativo di discutere, infatti, fosse pure in termini puramente generali, i

lineamenti di un’estetica del cinema (e con essa, inevitabilmente, come ha scritto una volta Godard,

già sempre quelli di un’etica del cinema179), non può in alcun modo prescindere, oggi, dal prendere

adeguatamente in carico gli importi e le implicazioni di quella decisiva trasformazione, la quale,

come è noto, non costituisce che una peculiare configurazione del più generale processo di

digitalizzazione dei media nella loro interezza.

Lavorando a diversi livelli attorno a una singola immagine (a un’immagine filmica analogica,

o meglio a un modello esemplare di immagine filmica analogica, scelto proprio in ragione della sua

identità originaria, inaugurale), nelle pagine che seguono tenterò di descrivere i tratti più vistosi di

quella trasformazione e, accostando lungo il cammino un’altra immagine (anche in questo caso,

evidentemente, un modello di immagine elaborata attraverso la tecnologia digitale), di interrogare

nodi e questioni di estetica e di teoria del cinema che proprio in virtù del passaggio dall’analogico al

digitale richiedono di essere opportunamente ripensati.

177 Gv 3,8.178 Noto anche con il titolo Le repas de bébé. Vi sono raffigurati Auguste Lumière, sua moglie e la loro figlia Andrée.179 «Tra l’etica e l’estetica bisogna scegliere. È chiaro. Ma è altrettanto chiaro che ciascuna di queste due parole porta in sé una parte dell’altra. E chi opti decisamente per l’una trova necessariamente l’altra alla fine del cammino» (Godard 1998, vol. I, p. 182).

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Page 73: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

Ma occorre andare con ordine e muovere i primi passi assieme ai Lumière. Anzi, a Méliès. È

lui infatti lo spettatore protagonista dell’aneddoto cui si è accennato ma di cui non si è dato conto.

Eccolo, descritto da Aumont: «Tutti ricordano la sorprendente reazione di uno dei primi spettatori

del Goûter de bébé, Georges Méliès. Disdegnando di commentare ciò cui si deve ancora oggi il

fascino del film […] Méliès osserva una sola cosa: sullo sfondo dell’immagine ci sono degli alberi

e, quale meraviglia, le foglie di quegli alberi sono agitate dal vento»180.

Quella di Méliès è, per così dire, una meraviglia storicamente determinata. Come la gran parte

dei primi spettatori del cinematografo, egli è colpito dall’insuperabile ‘impressione di realtà’ che il

cinema è capace di suscitare in virtù della sua stessa identità meccanica. Esso non si limita, infatti,

come fa la fotografia da cui discende, ad imbalsamare un dato esterno ripresentandolo, dice Bazin,

«avvolto nel suo istante» come un insetto nell’ambra, ma di quel dato trascrive lo stesso divenire, il

suo stesso farsi nel tempo e nello spazio, configurandosi come una sorta di «mummia del

cambiamento»181. La capacità di riprodurre qualcosa del mondo colto nella sua durata è, al cinema,

a tal punto compiuta – sembra pensare Méliès e con lui gli spettatori del suo tempo – che di fronte a

un’immagine cinematografica è possibile cogliere con esattezza anche la più infinitesima delle

trasformazioni del visibile, qual è il soffiare del vento sulle foglie di un albero. Dunque, una

meraviglia comune all’epoca in cui si compone, riconducibile all’assenza di familiarità con un

dispositivo tecnico e con la tipologia di immagini che esso è in grado di determinare.

E tuttavia nella reazione di Méliès (che pure fin da subito ci è stata descritta come

«sorprendente») è possibile cogliere più di qualche indicazione per osservare, in profondità, e cioè

ben oltre l’orizzonte storico e culturale in cui il rapporto immagine-spettatore si è determinato, i

lineamenti per così dire essenziali di una immagine filmica tout court. La reazione di Méliès è

«sorprendente» per il fatto che egli ‘non guarda’ l’immagine che ha di fronte, ma solo una parte di

essa («osserva una sola cosa»), non si interessa cioè all’elementare dimensione informativa cui

l’immagine dà corso (due genitori danno da mangiare alla loro figlioletta) e questo perché il suo

sguardo è come rapito da un piccolo evento inatteso che, nell’immagine, ha posto accanto a quella

stessa dimensione. Un evento inatteso, per lui che guarda e per l’immagine (per la sua pur

elementare elaborazione formativa) che lo ha accolto in sé, che gli ha fatto spazio, senza poterlo in

alcun modo evitare. Insomma, d’un tratto, all’immagine cui assiste Méliès, e a Méliès stesso,

accade qualcosa: qualcosa di imprevisto, che in ragione del suo sopraggiungere, del suo succedere

dentro l’immagine, la nasconde e trattiene su di sé l’attenzione di chi guarda. Dal fondo

180 Aumont 1995, p. 13.181 Bazin 1958-1962, p. 9.

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dell’immagine – dal fondo oscuro di ciò che l’immagine non ha propriamente desiderato –,

qualcosa avviene all’immagine stessa e – con Barthes – al suo spettatore182.

Da questo tipo di eventi, evidentemente, per quanto minimi o appena percettibili, il cinema, in

modi diversi, è da sempre abitato. Che si limiti ad accoglierne le fenomenizzazioni più diverse o che

perfino si proponga, più e meno consapevolmente, di farvi agire e interagire modelli di poetica e di

retorica, il cinema fa da sempre i conti con questo non essere interamente per l’immagine del

mondo, con questo non stare fino in fondo in posa del reale, almeno in ragione del fatto che le sue

immagini semplicemente si nutrono, ancora con Bazin, del reale tout court e del suo stesso

procedere. Più in generale, allora, che situi il proprio sguardo nell’aperto continuum delle cose o che

ripari nei domini chiusi e governati degli studi (la storia del cinema e delle sue modellizzazioni

espressive potrebbe essere fatta anche a partire da questa differenziazione), il cinema, per il fatto

d’essere «mummia del cambiamento», è virtualmente già sempre chiamato a confrontarsi con ciò

che, al di là dei suoi propositi, delle sue pulsioni formative, dei suoi desideri (al di là di ciò che

un’immagine progetta, dispone, prevede), gli è dato dal mondo come alcunché di accidentale, di

impensato, di imprevedibile: il transito silenzioso delle nuvole o di un uccello, una luce, un’ombra,

il volo di un insetto in uno studio183, il brulicare cieco di una strada, ecc. Insomma il cinema, che sul

reale proietta e attraverso il reale dispiega le proprie istanze poietiche e configurative (elementari

come nel film dei Lumière o ardue e complesse come in tanto grande cinema successivo), è in via di

principio in grado di iscrivere in sé, in fondo alle proprie immagini, ciò che di supplementare e di

eccedente rispetto a quelle istanze il reale non fa che offrirgli.

Nei suoi diari, Daney si sofferma su questa stessa questione: «Poiché è impossibile prevedere

tutto ciò che rimarrà impresso sulla pellicola, non rimane che adattarsi a ciò che ci sarà ‘in più’.

Divine scoperte, scorie, sintomi oggettivi, verifiche e prove, brutte sorprese, punte di realtà che

impediscono all’immaginario di chiudersi […]. Il regista guarda una volta sola e poi, anche lui in

posizione passiva, deve fare i conti sia con ciò che ha restituito (come visione propria) sia con ciò

che non ha registrato volontariamente (come realtà, richiamo dell’Altro)»184. Ciò che abita

l’immagine come alcunché di involontario e di eccedente, dice Daney, non è che il «richiamo» di

ciò che non è noi, il segno esposto di come, con noi o senza di noi, «il mondo, lì di fianco,

182 Barthes 1980, p. 23.183 Si intitola La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti un lavoro recente di Massimo Carboni (2007) che prende direttamente in carico questo determinato ordine di problemi. In particolare, nella prima parte del libro, Carboni consacra un’ampia serie di riflessioni alla piccola mosca che durante le riprese di uno dei film più grandi di C.Th. Dreyer, La passione di Giovanna d’Arco (1928), piomba improvvisamente nel cuore della messa in scena, posandosi più volte, per di più in momenti di grande intensità drammatica, sul volto estatico e sofferente dell’interprete di Giovanna, Renée Falconetti. L’autore fa tra l’altro esplicito riferimento (pp. 22-23) all’aneddoto legato a Méliès spettatore del Goûter de bébé.184 Daney 1993, p. 20.

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Page 75: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

continui»185. La costitutiva alterità del reale rispetto ai nostri progetti, l’essere altro del mondo dal

formare dell’immaginario che lo attraversa e lo piega a sé, ci chiama dunque già sempre attraverso

tutte quelle presenze scomposte, pur minime, residuali, appena percettibili, che giungono ad abitare

un’immagine senza che l’immagine le abbia volute («che non ha registrato volontariamente») o

insomma attraverso qualcosa che, al momento di filmare, il cinema ha visto senza avere previsto. A

quel richiamo possiamo sempre corrispondere, venendone presi e sorpresi, oppure non farlo. Esso

può cioè restare inavvertito nelle pieghe delle immagini, oppure farsi improvvisa incrinatura, ferita

della visione, insomma punctum186, capace di raccogliere la nostra attenzione e convogliarla, anche

per pochi istanti, attorno al proprio farsi avanti, al proprio darsi a vedere. Più in generale, allora, si

può dire che lo spettatore di un’immagine cinematografica analogica si trovi sempre di fronte ad un

atto di negoziazione. In ragione della sua identità meccanica, cioè, il cinema non si compie che

all’incontro di due istanze distinte, o meglio non fa che contenere e negoziare187 due diverse

polarità, due spinte separate e interconnesse: da un lato una pulsione poietica (l’intenzione di

costruire qualcosa), dall’altro ciò che pur disponendosi ad accogliere quella pulsione (il dispiegarsi

del sensibile, il suo darsi ad uno sguardo che lo attraversa) non coincide con essa (il costitutivo

essere altro del reale dai nostri progetti formativi) e che ripresentandosi in immagine può già

sempre esibire il più radicale consistere di questa stessa alterità, le sue punte più dure e intrattabili.

L’immagine cine-fotografica analogica, che ha determinato un peculiare tipo di percezione «di cui

siamo gli eredi e di cui avvertiamo ormai l’esaurimento»188, è questa regione d’incontro, questa

zona di frontiera che divide e insieme trattiene attorno a sé, dell’immaginario e del reale, vale a dire

un desiderio all’opera (l’attualità di una forma) e l’essere altro del mondo che continua (la

potenzialità di una forza)189. C’è un’azione formativa che si spinge nel reale di cui si nutre e c’è una

potenza del reale che l’accoglie e che può lasciarle in cambio, ora più ora meno evidenti, i tratti del

suo ottuso trascorrere, distante da quella pulsione. Un’immagine analogica – fotografica o filmica

che sia – si origina sempre all’incontro di questa duplice pressione. L’atto della trascrizione

automatica di un dato esterno, la registrazione, è ciò che tiene insieme e manifesta questa duplicità.

Nel suo farsi, un’immagine cinefotografica analogica è allora sempre attestazione e scrittura: essa

185 Ibidem, p. 125.186 Non sarà inutile sottolineare come Barthes si soffermi sulla sostanziale non-intenzionalità di ciò che definisce punctum dell’immagine fotografica, sul suo presentarsi come ciò che ha trasceso il desiderio dell’operator e che si configura come quella fatalità che salendo allo sguardo dello spectator ne rapisce l’attenzione. Cfr. Barthes 1980, p. 49.187La nozione di negoziazione, discussa e articolata in un ampio orizzonte teorico, è uno dei nodi cruciali dell’ultimo, importante lavoro di Francesco Casetti (cfr. Casetti 2005).188 Sorlin 1997, p. XXII.189 Una ricognizione teorica importante delle nozioni di forma e forza nel cinema, secondo una prospettiva post-deleuziana, è rintracciabile negli ultimi lavori di Roberto De Gaetano, tra i quali si veda De Gaetano 2005, pp. 101-138. in partic. 106-112, in cui si contrappone una estetica della forma e della formatività ad una estetica delle forze e si rintraccia nella riflessione sul cinema di Ejzenštejn e di Deleuze i rispettivi nuclei generativi delle due direttrici di pensiero.

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certifica l’esistenza di qualcosa di reale e di passato («l’è stato» di Barthes) e nello stesso tempo lo

consegna ad una forma, lo restituisce come alcunché di costruito. L’identità documentale e quella

costruttiva e in senso largo finzionalizzante del dispositivo costituiscono l’immagine filmica, la

quale è sempre ‘documentaria’ e sempre ‘finzionale’, quale che sia l’assunto discorsivo

complessivo (un film documentario, un film di finzione) lungo il quale inclina il testo in cui è

compresa. Un’inquadratura dei Lumière, di Ford, di Ejzenštejn, di Godard, da questo punto di vista,

funzionano tutte nello stesso modo. Il film che le contiene potrà tendere, più o meno

consapevolmente e a livelli diversi, verso l’una o l’altra delle due polarità, disporsi lungo le linee

dell’uno o l’altro versante (e ben oltre la distinzione elementare tra documentario e fiction, ma, più

in profondità, in termini compositivi, espressivi, stilistici, ecc. L’intera storia del cinema potrebbe

essere fatta anche a partire da questa oscillazione).

Un’immagine filmica analogica quale che sia, non è che l’intreccio di un immaginario al

lavoro e di qualcosa d’altro (alcunché di reale e di passato, che essa costruisce e di cui è insieme

testimone) che si conforma ai suoi desideri ma non vi corrisponde fino in fondo: al punto che in

ogni momento i segni intrattabili, improgettabili della sua radicale alterità possono farsi incontro a

chi si trovi a guardare, operator o spectator che sia. Potrà bastare un poco di vento, che soffia dove

vuole.

Un nuovo paradigma

Molte delle osservazioni appena avanzate vengono poste evidentemente in questione se pensate

all’interno dell’odierno regime visuale e più precisamente di fronte all’impiego, esteso ad ogni

livello del processo filmico, della tecnologia digitale nel cinema. Essa sostituisce la tecnologia

analogica tradizionale in modo pressoché universale, in un arco che va dalle grandi produzioni

spettacolari hollywoodiane fino alle produzioni indipendenti (con la pervasiva diffusione delle

videocamere a base numerica, dei programmi di editing e compositing digitale, ecc.) e a quelle

amatoriali. Praticamente ogni film prodotto ai nostri giorni, che sia un blockbuster dei grandi

studios, un’opera d’autore (o l’una e l’altra cosa insieme), un filmato pubblicitario o musicale o il

lavoro di un film-maker di famiglia, è, con ogni probabilità, benché evidentemente in modi e con

potenzialità differenti, interessato dall’impiego del digitale. Ora, per ciò che concerne il cinema, la

denominazione di tecnologia digitale investe un gran numero di territori, di questioni e di pratiche

che qui non sarà possibile accostare nella loro interezza. Ciò che ora mi interessa rilevare, tuttavia, è

che un’immagine digitale, lo sappiamo da tempo, scardina la certezza dell’«è stato» barthesiano.

Fotografica o filmica che sia, in ragione della sua natura numerica, discreta, essa non è più per

essenza documento di quello che mostra. Sospende definitivamente la nostra certezza di ritrovare in

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Page 77: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

immagine ciò che in un tempo e in uno spazio determinati è stato presente di fronte a un obiettivo190.

Di più: letteralmente fondata sul principio della manipolazione, attuabile con la più grande rapidità

e la più grande efficienza, essa può già sempre restituire come interamente trasformato (emendato,

incrementato, deformato) ciò che in essa si dà a vedere. Quello stesso principio – autentico

principio di determinazione dell’immagine numerica – garantisce il più vasto e generalizzato

controllo su ogni punto dell’immagine. Basterà pensare a programmi d’uso comune quali

Photoshop, come ai sofisticati processi di composizione e di animazione digitali, vale a dire al

lavoro di post-produzione computerizzata oggi largamente in uso nel cinema, negli spot

pubblicitari, nei video musicali. La composizione digitale, in particolare, non è che una pratica

d’assemblaggio e di combinazione di immagini provenienti da fonti differenti (filmati realizzati in

pellicola, in video o direttamente acquisiti in formato digitale, immagini interamente create al

computer, ecc.) nel corpo di una singola immagine ‘integrata’ o di sequenze ‘integrate’, in cui gli

elementi utilizzati (le singole immagini) e ciascuna parte di essi (ciascuna parte delle singole

immagini), per l’intera durata del processo di costruzione «mantengono le loro identità separate e

quindi si possono facilmente modificare, sostituire, cancellare. […] Così come viene definita dal

software, l’immagine digitale consiste in una serie di livelli separati, ognuno dei quali contiene

determinati elementi visivi. Durante il processo di produzione, gli artisti e i programmatori

manipolano separatamente ognuno di questi strati; ne eliminano alcuni e ne aggiungono altri.

Lasciando ogni elemento in un livello separato si può modificare in qualunque momento il

190 La luce riflessa che nell’analogico veniva ad iscriversi in modo continuo su un supporto fotosensibile è qui campionata in una serie di unità discrete (i pixel) e convertita in una serie di codici numerici. Ad essi corrispondono singoli valori cromatici la cui ricomposizione determina l’immagine del dato fotografato. Questa ricomposizione in immagine del dato di partenza si costituisce, di fatto, come la riconversione in termini visuali (necessaria alla nostra percezione, che altrimenti si troverebbe di fronte a colonne di numeri) di una serie di dati numerici e non necessariamente di una situazione reale in un tempo passato. Quello che Rodowick, via Cavell, ha raccolto nella nozione di «causalità automatica analogica», proprio della fotografia e del cinema tradizionali, definito da un processo di trascrizione continua, nello spazio e nel tempo, di un dato esterno su un supporto uniforme, e che Stiegler, via Barthes, ha chiamato «la catena della luce memoriale», viene interrotto nella conversione della luce in un codice numerico da un processo di calcolo che di fatto procede ad una sostanziale riscrittura del dato fotografato. La trascrizione analogica continua cine-fotografica è spezzata da un processo discontinuo di transcodifica, tale per cui l’immagine finale e la sua fonte «rimangono – dice Rodowick – concettualmente distinte, separate, irreversibili». Scrive ancora Rodowick: «I dispositivi analogici riproducono o amplificano un segnale spazialmente isomorfico con le loro fonti in un atto di trascrizione temporalmente continuo rispetto a quelle fonti. La conversione dall’analogico al digitale richiede una ‘riscrittura’ della fonte in una notazione decifrabile dalla macchina che non è né spazialmente né temporalmente continua rispetto alla sua fonte. […] La forza della somiglianza spaziale tende a farci dimenticare che la registrazione digitale è una forma simbolica e che logicamente è simile a una descrizione scritta piuttosto che a un’impressione visiva. […] La conversione analogico-digitale è come la realizzazione di un dipinto dettagliato che parte dall’informazione fornita da una descrizione molto precisa. In breve, l’acquisizione digitale produce rassomiglianza, ma non isomorfismo o omomorfismo nel senso comune dei termini. Non si può ristabilire la forza storica dell’analogia una volta che la continuità spaziale e temporale della traccia indessicale si è spezzata. […] Dammi le istruzioni e ti costruirò un’altra immagine. Ti sbalordirà per quanto sarà simile percettivamente a quella che hai acquisito, ma ontologicamente sarà un omologo e non un analogo, perché il tempo della trascrizione analogica e l’espressione della durata si sono interrotti» (cfr. Rodowick 2007, pp. 136 e pp. 141-42). Di fatto l’immagine vede declinare ed attenuarsi la sua natura indicale e si presenta come un simbolo, o appunto come un omologo e non come un analogo di quanto rappresenta. Il testo di Cavell con cui Rodowick istituisce un dialogo serrato è Cavell 1979. Quello di Barthes cui si riferisce Stiegler è ovviamente Barthes 1980. La citazione stiegleriana si trova in Derrida, Stiegler 1996, p. 175.

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contenuto e la composizione di un’immagine: cancellare uno sfondo, sostituire un soggetto,

avvicinare due persone, sfumare un oggetto e così via»191.

In base a quanto si è detto fin qui, ciò che troviamo nel corpo di un’immagine filmica digitale

può configurarsi, in ragione della stessa natura del dispositivo, come alcunché di interamente

desiderato. È cioè evidentemente possibile che all’interno di questo tipo di immagine tutto ciò che

si vede risulti a pieno titolo voluto dall’istanza poietica che la percorre. Scorie, residui, supplementi

della visione raccolti in fondo al suo stesso dispiegarsi, al suo stesso formare, possono in ogni

momento e con la più grande facilità essere rimossi, addomesticati o per così dire spuntati,

nell’immagine e dall’immagine. Al contrario, apparenze, figure, visioni accessorie, possono

divenire parte di un corpo visuale il cui statuto originario non appare più, in definitiva, pensabile

come tale dal momento che l’immagine può configurarsi come un composto di strati, di livelli di

immagine indistinguibili l’uno dall’altro192.

In generale, un’immagine digitale tende a presentarsi come il luogo in cui l’istanza formativa

esibisce un elevatissimo gradiente di operatività (la cui espressione più radicale consiste ad

evidenza nelle immagini di sintesi in movimento, interamente generate al computer senza bisogno

di riprodurre alcunché). Il che equivale a dire, come è stato più volte notato 193, che essa appare del

tutto consimile – paradosso della tecnologia – ad un’immagine pittorica, manipolabile e

controllabile in ogni sua parte.

Che ne è allora, qui, di quelle «punte di realtà» che in un’immagine analogica resistono

all’inclinazione totalizzante dell’immaginario (che, ce lo aveva insegnato già Bazin, al reale

«progetta di sostituirsi»194) e gli «impediscono», diceva Daney, «di chiudersi», cioè di bastare a se

stesso? Che ne sarebbe, dunque, di ciò che avviene a un’immagine cinematografica, di ciò che le

viene inaspettatamente dal mondo in ragione del suo stesso muovergli incontro, del suo scrivere

attraverso di esso e assieme ad esso? E che ne sarebbe di quello stato della cine-fotografia per cui

un’immagine era sempre e in via di principio una sorta di emblema necessario dell’altro, il luogo di

un’accoglienza ineludibile, di un’apertura necessaria, visibile, rispetto a ciò che non è noi? E infine:

cosa vede propriamente uno spettatore quando si trova di fronte un insieme di strati indecidibili di

visibile, il risultato di innesti e di prelievi, la sovrapposizione indiscernibile di visioni suturate e

compatte?

191 Manovich 2001, pp. 180 e pp. 285. Assemblati secondo le esigenze più diverse all’interno di un’immagine integrata, gli elementi possono quindi essere immessi ed animati in spazi virtuali in 3D in cui movimenti virtuali della macchina da presa, creati al computer, hanno facoltà di dispiegarsi in ogni direzione. Cfr. ibidem, p. 376.192 «Oggi possiamo comporre un numero illimitato di livelli d’immagine. Un’inquadratura può consistere in decine, centinaia o migliaia di livelli di immagine» (ibidem, p. 196).193 Tra i primi ad osservare e discutere il carattere intimamente pittorico dell’immagine digitale, poi sistematicamente segnalato e approfondito nei non numerosi studi teorici dedicati alle tecnologie digitali in fotografia e nel cinema, è stato W.J. Mitchell (1992) nel suo The Reconfigured Eye.194 Bazin 1958-1962, p. 70.

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Occorre spingerci ad accostare un’altra immagine, celebre quanto e forse più della prima, per

osservare attraverso di essa (la quale, non sarà inutile ripeterlo, non è che un modello, qui

convocato in ragione di una sua certa, marcata esemplarità) la necessità di riconfigurare dalle

fondamenta il nostro modo di leggere e di pensare le immagini.

Ecco dunque l’azzurro del cielo su una città degli Stati Uniti, sul finire del XX secolo. Nel

centro dell’azzurro una piuma, volteggiante. Pare galleggiare nell’aria vuota e invece discende.

Dietro di essa, compaiono edifici. Sospinta dal vento, la piuma risale, torna a scendere, scivola

verso la strada. Qui auto e persone e un parco con panchine. Dopo ripetuti e insistiti volteggi, è ora

quasi sull’asfalto, sfila al di sotto di un’auto in corsa, giunge nei pressi di un giovane seduto su una

panchina. E finalmente si posa ai suoi piedi. L’inquadratura (una sola inquadratura, dal cielo alla

terra: possibile?) dura meno di due minuti e consiste nella suggestiva apertura di Forrest Gump di

R. Zemeckis (1994). Il cinema qui non ha compiuto ancora cento anni, ma con questa e con

immagini più o meno simili a questa, continua a sbigottire i suoi spettatori. E tuttavia, tra

l’immagine dei Lumière e questa che apre il film di Zemeckis – o tra la meraviglia di Méliès e dei

suoi contemporanei e la nostra meraviglia –, non soltanto, possiamo ben dire, scorre intera la storia

del cinema e con essa la storia dei discorsi sul cinema, ma a guardar bene, tra quelle foglie e questa

piuma, un’intera epoca dell’immagine in movimento si dà come conclusa ed un’altra si presenta in

tutta la sua evidenza. Nell’apertura di Forrest Gump, come in una parte assai larga dell’audiovisivo

contemporaneo più invasivo e più influente, non c’è posto per il comporsi in immagine di alcunché

di indesiderato, dal momento che il farsi del sensibile, che pure resta il materiale di base delle nuove

immagini filmiche (ad eccezione naturalmente delle immagini di sintesi), vi appare del tutto

sottoposto al potere dell’immaginario. Interamente progettata, controllata, costruita nei suoi

movimenti più infinitesimi, animata e composta da un’istanza poietica di fatto incondizionata, la

piuma che danza all’infinito nell’inquadratura di Zemeckis obbedisce – di più: vi aderisce da cima a

fondo – al soffio illimitato dell’immaginario, il quale, essenzialmente da solo, governa ogni lato

dell’immagine e ne modella ogni parte. In un’immagine digitale, in cui tutto è per essenza gestibile

e in senso stretto programmabile – in cui tutto è in via di principio sotto controllo – è allora

possibile che senza alcuno sforzo, nessuna preventiva, laboriosa riarticolazione materiale del

fotografabile, il vento soffi dove vogliamo noi, vale a dire che il reale risulti perfettamente

amministrato dalla spinta di un’azione formativa che può quello che desidera. Sorretta da

un’operatività che la assimila in tutto a un disegno, intimamente grafizzata, cartoonizzata – si pensi

alla cosiddetta realtà elastica dei grandi prodotti delle majors, come di moltissima pubblicità

audiovisiva, ecc. –, l’immagine digitale pare comporsi, nei casi appena evocati, attorno ad un

formare che controlla tutto ciò che tocca, che domina per intero e fino in fondo i suoi materiali, che

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si presenta al nostro sguardo solo con la sua forza. La manipolazione virtualmente infinita garantita

dal dispositivo vi si presenta come la condizione necessaria e sufficiente per conseguire, nel modo

più compiuto, più immediato e in molti casi più evidentemente accordato con le regole del mercato,

una multiplanare prevaricazione dell’immaginario sul reale, che proprio in una poderosa

grafizzazione delle immagini e in una loro generalizzata e interscambiabile inclinazione attrazionale

presenta i suoi più vistosi tratti distintivi. Qui davvero l’immagine è sola con se stessa, è fatta di se

stessa, è niente altro che immagine o immagine senz’altro. È il visuel del tardo Daney, l’ininterrotta

autocelebrazione dell’uno, del medesimo, dell’uguale a se stesso195.

Le osservazioni appena avanzate richiedono alcune precisazioni. Occorrerà farle subito, a

scanso di equivoci. La prima: è assolutamente evidente che un’immagine filmica analogica prevede

anch’essa la possibilità della manipolazione. Nella prima parte di questo lavoro, non si è sostenuto

che questo: il comporsi di una forma al lavoro che produce un’immagine non è nulla di diverso da

un atto di manipolazione: è una manipolazione estetica (tecnico-formale, espressiva, configurativa,

stilistica, ecc.) di un materiale determinato (la traccia di qualcosa di reale e di passato). Per non

parlare del montaggio, vale a dire del più immediato e più significativo procedimento manipolatorio

di cui il cinema dispone e che ne fa quello che è. La seconda: sappiamo bene, per altri versi, che

l’immagine cine-fotografica analogica è stata presto capace, attraverso la pratica del fotomontaggio,

di manipolare, anche radicalmente, i ‘modi di apparizione’ di ciò che era stato di fronte alla

macchina. E tuttavia quella pratica si doveva pur sempre alla sovrapposizione, alla mescolanza, alla

composizione, di immagini tutte indicali, tutte cioè certamente riferibili ad un dato esterno, tanto

che Rodowick non distingue il fotomontaggio dal montaggio sequenziale, e dunque da ogni altra

operazione di manipolazione estetica196. Inoltre – e il fattore è decisivo – la pratica di modificare i

modi d’apparizione del rappresentato, nel complesso molto lenta e molto laboriosa, non ha mai

costituito il vero principio individuante dell’immagine analogica (che consisteva invece proprio

nella sua indicalità), come accade per l’immagine digitale. Mi pare che l’avvento del digitale sposti

la questione della manipolazione in un ordine di problemi del tutto differente. Ben al di là

dell’ordine dell’estetica (in cui si iscrive la poiesis dell’analogico, che non può spingersi ad erodere

la natura indicale dei suoi materiali), la manipolazione digitale riguarda per così dire l’ontologia di

un’immagine prodotta tecnicamente: un’immagine digitale è già intimamente il prodotto di una

manipolazione numerica (lo spectrum di Barthes è già campionato, quantizzato, ‘ricomposto’) e più

in generale il suo potenziale creativo comincia dalla consustanziale e infinita mutabilità di ogni sua

singola parte: il che equivale a dire che essa si crea e crea a partire dalla messa in questione

dell’indicalità.

195 Cfr. Daney 1991, passim.196 Rodowick 2007, p. 70.

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Discutendo del primo e del secondo punto, abbiamo accennato alla questione del montaggio,

che è come dire alla questione del cinema tout court. A parere di molti, il digitale mostrerebbe nelle

sue manifestazioni più esemplari i tratti di una poiesis che tende a porre in subordine la centralità

operativa del montaggio filmico quale l’abbiamo conosciuta nel XX secolo, in particolare

assegnando un ruolo costruttivo cruciale non tanto all’articolazione sequenziale delle unità distinte

ma alle pratiche di assemblaggio di materiali diversi all’interno delle stesse unità. Si tratta di una

posizione tutt’altro che priva di fondamento, che pure andrebbe approfondita, oltreché iscritta in un

quadro teorico ben più ampio di quello che è possibile tracciare qui197. Tuttavia vorrei sostenere che

al di là del depotenziamento propriamente operativo dell’articolazione sequenziale

(dell’indebolimento compositivo dell’ordine della discretezza e della successione su cui si fonda il

‘discorso’ filmico), è nell’atto stesso della costruzione di un’immagine che molte delle forme

dominanti dell’audiovisivo contemporaneo ridefiniscono in profondità la questione del montaggio.

Al di là delle sue grandi espressioni storiche, delle sue numerose e peculiari modellizzazioni

stilistiche e tecnico-formali, dei suoi paradigmi estetici più forti (il paradigma del découpage, che

tende a occultare i segni dell’articolazione; quello del collage ‘critico-analitico’, che tende a

sovraesporli; le dinamiche di oscillazione e di incontro tra i due paradigmi198), il montaggio non è

solo, evidentemente, un procedimento di elaborazione sequenziale. Più in profondità, con

Ejzenštejn199, il montaggio è innanzitutto la radice dell’elaborazione costruttiva, la scomposizione e

la ricomposizione di un dato esterno in una forma. La costruzione di una singola immagine è

insomma un atto di montaggio. È allora forse innanzitutto qui che il cinema digitale sconquassa le

carte: se, come ha scritto Montani, in un’immagine digitale il lavoro costruttivo «può aspirare alla

più completa autoreferenzialità, assumendo come oggetto una regione del sensibile integralmente

simulacrale e totalmente dominata»200, l’originaria azione di montaggio che presiede alla formazione

dell’immagine filmica e che si configura come un’azione negoziale tra due istanze coalescenti ed

incrociate, tenderebbe sostanzialmente a compiersi come l’espressione incondizionata di una sola di

queste istanze, libera dalle resistenze che l’altra già sempre le oppone e anzi capace in ogni

momento di eluderle, di cancellarle e più in generale di controllare l’altro da sé che le si dava

accanto. Potendo liberamente disporre di quell’alterità e dei suoi segni intrattabili, irriducibili,

197 Il trattamento teorico più approfondito della questione relativa al rapporto tra il montaggio cinematografico e l’impiego delle tecnologie digitali si trova in Montani 2003. Sullo stesso problema si veda anche Montani 2004a, ad vocem.198 La distinzione tra i due grandi regimi del découpage e del collage, drastica quanto convincente, è in Amiel 2002.199 La più ampia e sistematica riflessione ejzenštejniana sul principio del montaggio è, come è noto, consegnata ad uno dei testi teorici maggiori dell’autore di Riga, l’incompiuto Teoria generale del montaggio (Ejzenštejn 1963-1970a), risalente alla seconda metà degli anni ’30, in cui pure, evidentemente, non si esaurisce. Dello stesso autore resta fondamentale anche la raccolta di testi Il montaggio (Ejzenštejn 1963-1970b) più dichiaratamente consacrata all’orizzonte tecnico e applicativo del montaggio propriamente filmico.200 Cfr. Montani 2004a.

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puntuti – o prescindendone completamente (le immagini prodotte unicamente da programmi) –, il

digitale tende a sottrarre al montaggio la sua capacità di contenere, coordinare e negoziare le forze

del sensibile con le forme del pensiero201, e dunque a ridisegnare tanto l’orizzonte della produzione

delle immagini quanto quello della loro ricezione. In molte delle espressioni dominanti

dell’audiovisivo digitale, lo spettatore non è più chiamato a misurare con lo sguardo, di fronte ad

una singola immagine, il comporsi di un atto di negoziazione, il farsi dell’accordo necessario tra

due voci coimplicate e concomitanti. Nel cinema dei grandi effetti, nella pubblicità, nel video

musicale e più in generale in gran parte delle immagini che ci circondano, egli non trova che il

pieno dispiegarsi di un’unica voce, il chiudersi dell’immaginario su se stesso, solo con le sue

attrazioni.

“Immagini malgrado tutto”

Dunque, provando a riassumere (e continuando, per necessità, a semplificare): 1) il digitale pone

radicalmente in crisi e in via definitiva la dimensione attestativa dell’immagine cine-fotografica

analogica; 2) per contro, in ragione del suo costitutivo e larghissimo potenziale manipolatorio, esso

incrementa in modo esponenziale le capacità più intrinsecamente formative di un’immagine, al

punto da renderla simile a un’immagine manuale. Ciò la espone, almeno per una larga parte delle

sue espressioni più influenti, alle logiche spettacolari del mercato, che a livelli diversi tende, proprio

sfruttando l’illimitata mutabilità delle immagini, a una diffusa attrazionalizzazione del visibile.

Ma la questione si esaurisce in definitiva nei termini appena descritti? Le cose stanno

insomma soltanto così?

Relativamente al secondo punto, va osservato che la possibilità di disporre di una

‘incondizionata’ operatività formativa e di esercitare il più ampio controllo possibile sui dati

dell’immagine si configura presto come una delle linee più definite che percorrono dall’interno,

pure in forme volta a volta differenti, la storia del cinema. Da questo punto di vista, le nuove

tecnologie sembrano condurre a pieno compimento quello che per molti versi si dà come un

desiderio profondo, ma tutt’altro che segreto, della cinematografia (un desiderio che nonostante la

fortissima ipoteca indicale del mezzo, passa ovviamente proprio per Méliès, per il cinema del

‘controllo’ delle majors, per un’ampia parte del grande cinema sovietico, oltreché naturalmente per

l’animazione, ecc.). Insomma, qui l’avvento del digitale si presenta come l’atteso conseguimento di

un’antica aspirazione.

Ciò detto, e per un altro verso, appare evidente che se da un lato l’innalzamento del potenziale

immaginativo e applicativo garantito dalle nuove tecnologie può agevolmente essere assorbito, con

201 Ibidem.82

Page 83: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

diversi gradi di consapevolezza, nell’orizzonte inglobante del mercato, dall’altro non può non

presentarsi all’immagine come il principio di un suo più autentico e più profondo incremento

espressivo, configurativo, compositivo (più autentico, più profondo e dunque più complesso della

logica elementare delle attrazioni in cui, come detto, confluisce in larga parte l’impiego strettamente

costruttivo delle nuove tecnologie). Se pensiamo al cinema contemporaneo si noterà come molti dei

realizzatori più sensibili tendano a pensare il digitale non soltanto come a uno strumento con cui sia

più semplice, più rapido e più economico dar corso a progetti configurativi già destinati

all’analogico, ma come a un mezzo pienamente espressivo attorno alle cui specifiche potenzialità

orientare dinamiche compositive nuove e complesse, e nuovi progetti poietici, talora del tutto

coincidenti con le regioni immaginative profonde di un’intera costruzione testuale. Pensare in questi

termini le tecnologie digitali significa consegnare loro, ora più ora meno integralmente, la

possibilità che il cinema si faccia capace di comporre202 come prima non gli era possibile fare e

proprio in forza di un potenziale espressivo aggiunto, che apre alle più varie e alle più diverse

possibilità formative (qui, dunque, ma solo qui, l’introduzione del digitale nel cinema non é così

distante da quella del sonoro o del colore). Basterà pensare ai lavori condotti negli ultimi anni, tra

gli altri, da autori come Von Trier (Dancer in the Dark, 2000), Godard (Eloge de l’amour, 2001),

Rohmer (La nobildonna e il duca, 2001), Kiarostami (Dieci, 2002), Sokurov (Arca russa, 2002),

Lynch (Inland Empire, 2006), per osservare nel dettaglio quanto qui si è indicato in rapide

osservazioni. In queste immagini, allora, tra loro così diverse, si agita in tutta la sua densità un

qualche decisivo tratto di bellezza, per cui pure assediata da processi di generale anestetizzazione

(che tendono a convertire la complessità del sentire nell’immediatezza della sensazione o della

sensazionalità)203, un’immagine si dà ancora, malgrado tutto, come il luogo di un fare estetico

elaborato e complesso, che in sé si definisce in quanto forma d’opposizione, espressione di qualcosa

d’altro nell’indistinto dispiegarsi di una azione di regolamentazione tecnologica e mercantile,

pienamente in corso, del visibile.

202 Nel senso direi ejzenštejniano del termine e non limitandosi ad unire, come in tanto cinema dei nostri giorni, una serie più o meno efficace di effetti. La struttura generale del film spettacolar-commerciale di finzione tende infatti ad integrare in modo elementare e il più possibile organico, nel corpo di un impianto narrativo, le attrazioni da cui è sistematicamente punteggiato (Gaudreault 2004, p. 39). In generale, in questo tipo di cinema, la tecnologia digitale potenzia massimamente la dimensione per così dire performativa delle attrazioni, senza modificare nel complesso modi, figure e procedure propriamente narrative tipiche del film hollywoodiano. Nel quadro della modellizzazione industriale del racconto cinematografico spettacolare, in definitiva, il digitale non viene impiegato da realizzatori e produttori per trasformare ma anzi per confermare il funzionamento dei modelli preesistenti (a questo proposito si veda Bordwell 2006). Oltre il film e oltre il peculiare rapporto cinematografico tra narrazione e attrazione, e come accennato più volte in queste pagine, mi pare che l’uso elementarmente attrazionale delle tecnologie digitali si configuri oggi come il solo modello compositivo ‘forte’ delle forme dominanti dell’audiovisivo digitale.203 Sulla nozione di anestetizzazione e sulle dinamiche che essa comporta (cui qui, semplificandole, non si è potuto che accennare), si veda Montani 2007.

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Relativamente al primo punto, la cui portata appare evidentemente epocale: occorre prendere

in carico nel modo più consapevole la radicale trasformazione che interessa l’identità stessa

dell’immagine filmica. Ma anche osservare subito che ove si collochino evidentemente al di fuori di

orizzonti espressivi e comunicativi largamente inclinati sul versante delle attrazioni (blockbuster,

spot televisivi, clip musicali, ecc.), le immagini digitali continuano a essere percepite come del tutto

capaci di restituire a chi ne fruisce la pienezza di un’esperienza ‘veritativa’. Sarà sufficiente fare un

solo esempio: di fronte alle spaventose immagini (fotografie, filmati) giunteci – malgrado le

intenzioni dei loro realizzatori – dall’orrore di Abu Ghraib, nessuno, come è stato notato204, ha

pensato anche solo per un momento che ciò che ci trovavamo a guardare fosse il frutto di una

qualche azione di mistificazione, che ciò che avevamo davanti non fosse realmente accaduto così

come lo vedevamo. Potere per così dire postumo di ciò che un tempo era costitutivamente

un’immagine-documento e oggi è tardivamente percepito come tale o potere nuovo dell’immagine

digitale, che è ontologicamente incapace di dare testimonianza certa e tuttavia, in ragione del suo

prodursi senza ingombro e senza sforzi (telefoni cellulari, minuscole foto e videocamere, ecc.)

laddove anche solo una immagine è ancora necessaria, e, soprattutto, della sua eccezionale facilità

di trasmissione, può farsi capace di mostrare, più facilmente che in passato, ciò che pretende di

essere testimoniato? Paradosso della visione – che ci domanda di essere pensato in tutta la sua

complessità – per cui non ho le prove che quello che vedo «è stato» (non esistono ad esempio

negativi cui poter fare appello) e insieme ho ‘evidentemente’ le prove (nient’altro che queste povere

immagini giunteci così come sono) che sia stato proprio così come lo vedo. Godard diceva, qualche

tempo fa, che il declino dell’indicalità dell’immagine potrebbe far sostenere a chiunque che l’orrore

che si agita in una fotografia non è più in alcun modo certificabile205. Aveva ragione e insieme,

forse, si sbagliava. Una fotografia digitale ha ancora tutto il potere che si deve a un’immagine se si

trova laddove c’è bisogno di lei (e laddove essa non si accontenti di presentarsi come un emblema

del potere).

Una significativa fioritura di un cinema compositivamente improntato all’orizzonte della

testimonianza206 (nel film documentario e non solo in quello, in opere che raggiungono la vasta

distribuzione e in molte altre che popolano i festival internazionali) ha potuto in anni recenti

svilupparsi e diffondersi proprio in virtù della leggerezza, della duttilità, della maneggevolezza delle

strumentazioni digitali. Ma più in generale, nell’ampio arco che va dai filmati ‘diretti’ che

testimoniano quasi in tempo reale di accadimenti presenti (mentre scrivo: la grave crisi post-

204 Rodowick 2007, p. 163.205 Godard 1998, vol. II, p. 424.206La necessità di rintracciare nelle nuove tecnologie l’apertura e la praticabilità di autentiche opportunità testimoniali costituisce un nodo importante della riflessione recente di Pietro Montani (si veda in particolare Montani 2004b e 2007).

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elettorale in Iran), del tutto o quasi del tutto privi di accorgimenti formali, spesso unicamente dovuti

alla sola attivazione del dispositivo (siti come you tube ne diffondono ogni giorno le espressioni più

diverse), fino alle altezze e al rigore compositivi di un Kiarostami (ABC Africa, 2001), il digitale si

offre paradossalmente come una delle più importanti opportunità documentali che l’audiovisivo

abbia oggi modo di percorrere. Si fa capace, cioè, più che in passato (la nostra immediata capacità

di produrre e diffondere immagini non può non rimandare all’utopia, che fu dei kinoki come di uno

Zavattini, di un cinema-documento cui chiunque potesse dare corso), di accompagnare gli uomini,

di formare i nostri sguardi e, almeno in via di principio, di darci del mondo tutte quelle immagini

che il potere trascura o cancella. Sparse nella rete o capaci di giungere fino alle nostre sale, in tutte

queste immagini si dà forse allora un qualche decisivo tratto di giustezza che nelle sue espressioni

più elementari come in quelle più ardue e meditate, si configura come un fare etico aperto nel cuore

visuale del presente e che in esso insiste come una forza contraria, qualcosa d’altro che torna a dirci

che un’immagine, malgrado tutto, è ancora capace di mostrare.

Alessio Scarlato

Estetica e fotografia

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La nascita della macchina

Qual è la prima foto? La storiografia ha da tempo individuato una data per la nascita della

fotografia: il 7 gennaio 1839. Lo scenografo teatrale Jacques-Mandé Daguerre, sotto il patrocinio

del parlamentare François Arago, presenta all’Académie des Sciences la propria invenzione. Con

essa Arago intende convincere il governo a elargire una pensione annuale a Daguerre, al fine di

liberare il procedimento dalle rivendicazioni di un brevetto e di renderla disponibile alla collettività.

Il dagherrotipo è un’immagine in bianco e nero prodotta per una reazione fotochimica dovuta a

vapori di mercurio, all’interno di una camera oscura di legno, su di una lastra di rame placcata

d’argento, di circa 16 X 21 cm. La lastra è lucidata in precedenza fino a luccicare. La copia è unica

e non riproducibile.

Daguerre non è stato il primo a tentare di fissare l’immagine della camera oscura con l’azione

della luce207. Tra gli esperimenti precedenti, emergono quelli di Nicéphore Niépce, che intorno al

1817 concentra i suoi sforzi sul fissaggio delle immagini su lastre al bitume di Giudea, da trattare

con solventi e con lo iodio. Niépce chiama il suo procedimento eliografia. Il tempo di esposizione

necessario è di diverse ore e le immagini risultano così sfocate. L’unico esemplare rimasto di tale

tecnica è La veduta dalla finestra a Le Gras (1827), su lastra di peltro. Sono state conservate alcune

riproduzioni di altre eliografie, più nitide, prodotte su lastre di vetro, ma ne sono andati perduti gli

originali. Lo scarso interesse riscontrato verso l’eliografia, presentata in un consesso di scienziati a

Londra, induce Niépce a formare una società nel 1829 con lo scenografo Daguerre che sta

conducendo analoghe ricerche. Dopo la morte improvvisa di Nicéphore Niépce, il suo posto nella

società è preso dal figlio Isidore, che non porta contributi al miglioramento del procedimento.

Daguerre ha come obiettivo la perfezione formale delle immagini, rinunciando al principio della

riproducibilità presente nell’eliografia. Le soluzioni che raggiunge tra il 1835 e il 1838 fanno sì che

imponga nuove condizioni alla società: il procedimento scoperto dovrà prendere il suo nome.

Daguerre intuisce che l’elemento commerciabile della produzione automatica delle immagini della

camera oscura è l’aderenza alla realtà percepita. La notizia della sua invenzione circola negli

ambienti artistici già dal 1835, ma Daguerre non riesce a trovare investitori. L’incontro con Arago è

decisivo.

La nascita della fotografia risponde a un atto politico. Arago è matematico, parlamentare di

fede repubblicana, scienziato di fama internazionale, nonché segretario della sezione di matematica

207 Il principio della camera oscura inizia a essere utilizzato per produrre immagini nel Rinascimento. Tra gli antecedenti della fotografia, si ricordano lo scotophorus di Schultze nel XVIII secolo e la camera lucida di Wollaston all’inizio del XIX secolo (cfr. Newhall 1982, pp. 3-10).

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Page 87: Estetica Dello Spettacolo e Dei Media

dell’Académie des sciences208. Influenzato dalle idee di Saint-Simon, Arago mette al centro delle

sue attività politiche il libero accesso all’istruzione e alla cultura da parte delle masse. Il brevetto

privato per innovazioni come il dagherrotipo significherebbe dare spazio a un rafforzamento della

tendenza monopolistica dell’economia, che volgerebbe a favore di privati il progresso scientifico. Il

dagherrotipo, grazie anche a un’abile campagna stampa mossa da Arago, diventa strumento da

valutare per la sua utilità. Ma, come Arago indicherà nel rapporto presentato alle Camere il 3 luglio

del 1839, è un’utilità non strettamente economica; servirà alle arti, come produttore di immagini che

sostituiscano il bisogno dell’osservazione diretta, e servirà alle scienze, come strumento di

misurazione della luce, oltre a essere valido aiuto per gli egittologi che non saranno più costretti a

copiare a mano i segni geroglifici.

L’annuncio dell’invenzione del dagherrotipo scatena una controversia sulla paternità del

procedimento di registrazione e fissaggio delle immagini della camera oscura. Si succedono i ricorsi

di William Henry Fox Talbot e di Hyppolyte Bayard. La via istituzionale presa dal dagherrotipo fa

sì che tali rivendicazioni siano deluse. Talbot lavorava ai suoi disegni fotogenici (photogenic

drawings) dall’estate 1833, Bayard soltanto da pochi mesi. Al di là della precedenza cronologica, i

diversi procedimenti muovono verso risultati diversi: quello di Talbot verso un negativo su carta,

che può essere riprodotto; quello di Bayard verso delle immagini uniche, dei positivi diretti, sempre

su carta. Arago difende il dagherrotipo nelle sedi istituzionali e la Camera riconosce l’utilità di tale

invenzione accordando una rendita vitalizia a Daguerre e Isidore Niépce, in cambio del segreto di

tale tecnica. Bayard trova un appoggio nell’Académie des Beaux Arts, ignorata da Daguerre, ma

senza risultati efficaci, e manifesta la sua delusione verso lo Stato francese con tre celebri

Autoritratti da annegato (1840)209. La fabbricazione nel 1841 di un obiettivo sedici volte più

luminoso, da parte del matematico J. Petzval, rende infine sfruttabile commercialmente il

dagherrotipo. I tempi di esposizione di un modello in pieno sole diminuiscono dal quarto d’ora al

minuto e offrono la soluzione per l’utilizzo che caratterizza i primi anni della fotografia: il ritratto

d’atelier.

La ricerca di una foto iniziale rischia di sottostare a una definizione puramente tecnica della

fotografia. Ognuno dei procedimenti richiamati, da Niépce a Daguerre, da Talbot a Bayard, produce

delle immagini che nascono da un fissaggio attraverso reazioni fisiochimiche di apparenze ottiche:

dall’incontro di una macchina con la luce. Nella ricerca di un’essenza della fotografia, si

208 Prima di diventare segretario dell’Académie, Arago svolge ricerche sulla polarizzazione della luce, sulla fotometria, sui rapporti tra magnetismo ed elettricità, sulla natura delle comete. Durante il suo incarico, i suoi interessi si volgono a questioni di scienze applicate e alla diffusione delle idee scientifiche che, in un’ottica positivista, devono contribuire al progresso e al miglioramento delle condizioni umane.209 Bayard raffigura se stesso seminudo, appoggiato alla parete, come morto. Nella nota esplicativa spiega di essere stato abbandonato da tutti, in particolare dallo Stato francese che gli ha preferito Daguerre.

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sovrappone a una caratteristica tecnica una preistoria che indica a quale bisogno antropologico essa

dovrebbe rispondere. La modernità della fotografia viene così rintracciata nella creazione della

camera oscura o addirittura nell’impulso, già emerso con i miti di Narciso e della Medusa,

all’elaborazione di rappresentazioni connesse fisicamente col proprio referente. Questi due modelli

storiografici ritrovano l’essenza della fotografia nella fedeltà visiva o memoriale, nella produzione

di una copia indistinguibile dall’originale o nella conservazione di una traccia del modello. In

entrambi i modelli si discute dell’immagine fotografica nei termini di una dialettica tra presenza e

assenza del referente210. Nel primo caso, l’immagine è prodotta da un artigiano che cerca di

riprodurre fedelmente le apparenze ottiche e trova nella prospettiva e quindi nel procedimento della

camera oscura il passaggio decisivo. Nel secondo caso è traccia, emanazione di qualcosa di distinto

che continua a vivere (sopravvivere) nell’immagine stessa e vede quindi nel processo chimico

l’attestazione di qualcosa che è stato211.

Più convincente appare interrogarsi sulle strategie con cui sono negoziati, attraverso

l’evoluzione della macchina, il lavoro della mano (e dell’occhio) del pittore e la disponibilità del

reale a lasciare un’impronta di sé, tenendo presenti le esigenze conflittuali di un medium di

massa212. Prendiamo il caso esemplare di Talbot. Le sue ricerche conducono già nel 1841 al

perfezionamento e al brevetto del suo procedimento cui dà il nuovo nome di calotipo. Talbot

individua il principio dello sviluppo dell’immagine latente. La carta è sensibilizzata dallo ioduro

d’argento e quindi lavata in una soluzione di acido gallico e nitrato d’argento; già dopo pochi minuti

d’esposizione emerge un’immagine, il negativo, fissata con l’iposolfito di sodio. Tale negativo è

matrice per un numero indefinito di positivi. Per l’affermazione del calotipo vi erano difficoltà

tecniche, legate al supporto di carta, sulla quale residui chimici creavano macchie e irregolarità,

nonché difficoltà politico-economiche, legate al bisogno di sottoscrivere una licenza, quando l’uso

del dagherrotipo in Francia e negli Usa era libero. D’altro canto, la leggerezza della macchina ne

faceva uno strumento ideale per la fotografia di paesaggi e di architetture; ma queste pratiche a loro

volta, non redditizie come il ritratto d’atelier, interessavano meno i professionisti e i dilettanti

trovavano ingiusta la spesa per la licenza. Questo spinge perciò a un associazionismo fotografico

(Calotype Society, Société Héliographique), attraverso il quale è possibile scambiarsi informazioni

210 L’iconologia occidentale ha lavorato questa dialettica secondo i due poli del Libro X della Repubblica di Platone (immagine come copia) e del Prologo del Vangelo di Giovanni (l’immagine come una e insieme distinta dalla sua origine).211 Usando la terminologia della semiotica di Peirce, puntando l’accento sul dispositivo visivo, oscilliamo tra una lettura della foto come icona, segno che rinvia all’oggetto per una rassomiglianza e l’analogia di alcuni caratteri, o come simbolo, segno convenzionale e generale, che rinvia all’oggetto in virtù di una legge. In entrambi i casi il rinvio è a un oggetto, indipendentemente dal fatto che esso esista. Spostando l’attenzione sul dispositivo chimico invece leggiamo la foto come un indice, come un segno fisico particolare, che significa il proprio oggetto soltanto in virtù del fatto che esso è realmente in connessione con esso, al modo di un segnale di fumo.212 Tra gli studi più recenti secondo questa prospettiva, emerge l’importante raccolta di Gunthert - Poivert 2007.

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per migliorare il procedimento e cercare di trasformare la marginalità della fotografia su carta in

una concezione d’avanguardia. La scoperta di nuove formule per il calotipo permette una

produzione di positivi molto più alta attraverso la riduzione dei tempi di stampa. La Société

Héliographique si impegna in una battaglia culturale attraverso la rivista «La Lumière» che cerca di

dare dignità al procedimento su carta, utilizzando soltanto per questo il termine fotografia e

scegliendo quello di eliografia per entrambe le tecniche213. Dietro una disputa terminologica, c’è il

tentativo di ridurre a un conflitto tra tecnologie il contrasto tra diverse strategie culturali. La cattiva

definizione del supporto cartaceo, agli occhi della Société Héliographique, non è un limite rispetto

alla precisione microscopica della lastra del dagherrotipo; piuttosto indica la possibilità di

un’interpretazione della natura e di una manipolazione dell’immagine, secondo i modelli pittorici

più volte richiamati su «La Lumière». Alla concezione democratica e popolare della fotografia di

Arago è contrapposta una visione elitaria, che inserisce il mezzo nella storia delle arti, proponendo

un continuo confronto con modelli pittorici. Il procedimento al collodio umido su lastre di vetro,

scoperto dallo scultore Archer nel 1851 e presentato lo stesso anno alla prima esposizione

universale a Londra, soppianta nel giro di un decennio entrambe le tecniche. La tecnica al collodio

umido è libera da brevetti, quindi più economica, più semplice, e conserva la precisione del

dagherrotipo.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo sono elaborati i procedimenti che hanno

costituito l’orizzonte tecnico della fotografia cosiddetta analogica. La stampa alla gelatina-bromuro

d’argento, sostituendo a partire dal 1880 le tecniche precedenti, libera il fotografo dai vincoli di una

camera oscura vicina alla posa, perché le lastre conservano per mesi la sensibilità alla luce e

possono essere sviluppate anche molto tempo dopo l’esposizione. L’immagine conquista una

maggiore sensibilità ottica, con un ampliamento delle fasce dello spettro luminoso, nonché si

proseguono le ricerche sul colore, iniziate ai tempi dei primi esperimenti di Niépce. I primi risultati

ragguardevoli si hanno all’inizio del Novecento, con le lastre autocrome dei fratelli Lumière, che

sfruttano e semplificano i procedimenti di addizione dei colori. La produzione di queste lastre dura

fino al 1932, per essere soppiantata da tecniche basate sulla teoria subtrattiva214, in particolare dalla

pellicola Kodachrome per apparecchi fotografici da 35 mm. (1937), che poteva però dare soltanto

copie uniche, e quindi dalle pellicole Kodacolor (1941) e Ektakolor (1947), che consentono l’uso

del principio ‘negativo-positivo’. Dal punto di vista della macchina, l’innovazione fondamentale è

stata la riduzione del volume, che ha permesso di renderla portatile. Tra le case produttrici che si

213 Il termine fotografia, proposto da John Herschel nel 1839, era utilizzato come vocabolo generico, indicante sia la pratica su lastra che su carta.214 «Diapositive tratte da negativi presi attraverso filtri rossi, azzurri e verdi, se verranno colorate nei rispettivi colori complementari (azzurro-ciano, giallo e cremisi) adeguatamente sovrapposti, e tenuti contro la luce, riprodurranno la scena ripresa dall’obiettivo del fotografo con tutti i suoi colori naturali» (Newhall 1982, p. 377).

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contesero il mercato, ebbe la meglio la Kodak (1888), economica, leggera, con un’autonomia di 100

scatti. Essa consentiva al cliente un servizio completo di sviluppo e stampa, secondo il famoso

slogan: «Voi premete il bottone, noi faremo il resto». La fotografia diventa un taccuino con il quale

qualsiasi dilettante inesperto può annotare qualsiasi momento della sua esperienza. Quindi, il

procedimento della Polaroid-Land (1947), che permette la produzione in pochi secondi, istantanea,

di un positivo già stampato, la cui ridotta dimensione e l’unicità della copia rimanda addirittura al

dagherrotipo.

Dal punto di vista dell’uso della fotografia nel campo dei media, il primo snodo fondamentale

è l’acquisizione di una tecnica (la lastra a mezzatinta) che permette di stampare le foto in un torchio

insieme al testo. A partire dagli anni Ottanta del XIX secolo le fotografie sono riprodotte a prezzi

contenuto su libri, ma soprattutto su riviste e giornali, così da dar vita al fotogiornalismo.

L’adattamento della foto ad altre tecniche conduce ai media che hanno dominato il XX secolo, il

cinema e la televisione, fino alla grande innovazione che segna gli ultimi decenni, la foto numerica

di sintesi. Essa si è sviluppata a partire dalle esigenze della comunicazione a distanza. Il dispositivo

CCD (Charge Coupled Device) nasce alla fine degli anni Sessanta nel campo della videotelefonia,

grazie alle ricerche di due ingegneri americani (George Smith e William Boyle), e sostituisce a un

apparato chimico di cattura della luce un meccanismo elettronico. Il segnale, sempre analogico,

viene tradotto in un segnale numerico discreto. Prima di affrontare tale innovazione, è utile

discutere il trauma che la riflessione estetica ha dovuto vivere dai tempi della Vista alla finestra di

Niépce e del Boulevard du Temple di Daguerre.

1) Niépce - Veduta dalla finestra a Le Gras

2) Daguerre - Il Boulevard du Temple alle 8 del mattino

L’autonomia dell’arte: la foto come quadro e come indice

Quando la fotografia entra nel campo dell’arte? A metà del XIX secolo associazioni come la Société

Héliographique e la Photographic Society si impegnano per un riconoscimento della dimensione

culturale della fotografia. Danno impulso sulle proprie riviste a una critica che tratti la fotografia

come arte, collocandone le immagini all’interno della storia delle arti visive, dando spazio a

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un’analisi stilistica che interroga il lavoro di rielaborazione-manipolazione compiuto dalla mano del

fotografo-pittore. L’Esposizione Universale di Londra del 1851 sarà la prima occasione importante

nella quale lo spettatore inesperto potrà accostare fotografie scattate in luoghi diversi, riconoscendo

le diversità degli stili. Quelli descritti sono in nuce i due passaggi che servono ad affermare la

possibilità di una pratica fotografica con finalità artistiche: a) la possibilità di produrre e quindi

discutere delle foto come dei quadri pittorici, utilizzandone i soggetti e gli stilemi compositivi

coevi; b) la catalogazione museale dei ‘capolavori’ al fine dell’allestimento di mostre, dalle quali

prendono le mossa le trattazioni che hanno dominato per decenni le storie della fotografia. Il primo

movimento a leggere la pratica fotografica in chiave estetica sarà quello della fotografia artistica, i

cui maestri riconosciuti sono Henry Peach Robinson e Oscar Gustav Rejlander. Nelle loro

fotografie, al modo delle coeve pratiche pittoriche come i tableaux vivants, sono messi in scena

soggetti storici o letterari, spesso attraverso il principio della stampa combinata, ossia della

costruzione di un’immagine a partire da negativi diversi, che sarà proseguita nel XX secolo con il

fotomontaggio (i collages cubisti, gli assemblages di Kurt Schwitters).

3) Robinson (Fading away)

Alla fine del XIX secolo si insiste perciò sulle tecniche di manipolazione che permettano di

esaltare una dimensione artigianale e di costruire un’immagine non automatica, ma frutto di

un’interpretazione215. È il primo tentativo di rispondere alla ripetuta condanna all’automaticità del

mezzo fotografico216. All’inizio del XX secolo si capovolgerà il paradigma e l’esteticità

dell’immagine fotografica sarà ritrovata piuttosto nella capacità di esaltare l’automaticità del mezzo.

Questa automaticità può però essere intesa secondo due direttrici. La prima è quella rappresentata

esemplarmente dal neo-pittorialismo della fotografia-straight (diretta) di Alfred Stieglitz e Paul

Strand che spostano l’attenzione dalla formatività della mano al movimento/taglio dell’occhio, in

grado di comporre, di valorizzare linee e volumi, di esprimere valori cromatici, di dar ordine al

caos, così da abbracciare, dopo la stagione accademica e simbolico-impressionista del primo 215 Le tecniche sono diverse, dalla sfocatura ottica, molto diffusa in Gran Bretagna con la fuzzy school, alle sperimentazioni sui procedimenti di stampa (in particolare quelli inerenti la gomma bicromata), che trovano spazio in Francia (R. Demachy), Austria, Germania e rendono il lavoro del fotografo simile a quello dell’incisore o dello scultore.216 La formulazione più icastica di questa condanna è nelle poche pagine pubblicate da Baudelaire sulla «Revue Française» all’interno di un ciclo di riflessioni sul Salon del 1859. «Il gusto esclusivo per il Vero (così nobile se limitato alle sue proprie applicazioni) reprime e soffoca il gusto del Bello» (Baudelaire 1859, 219). Propone gli elementi di critica estetica poi ricorrenti: l’assenza di creatività e immaginazione e la confusione tra dimensione artistica e industriale. La fotografia deve tornare al compito di ancella delle scienze e delle arti; può con la sua precisione aiutare la visione del viaggiatore, del naturalista, dell’astronomo, e salvare dall’oblio le rovine cadenti, tutto ciò che il tempo divora.

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pittoricismo, le nuove strategie formali delle avanguardie pittoriche. Il fine rimane perciò quello di

produrre un’immagine fotografica che lavori come un quadro, come un’opera visiva autonoma,

come una materia formata. La fotografia artistica, aggiornamento del quadro nell’epoca della

tecnica, trova ancora il suo luogo d’elezione nel museo. Questa direttrice è stata interpretata come

un richiamo alla natura documentaria del mezzo, come esemplarmente accade nell’opera di Walker

Evans, Dorothea Lange, August Sanders e, più vicini ai nostri giorni, in Diane Arbus e Lee

Friedlander; ma al contempo è stata sviluppata come esortazione all’uso del dispositivo come luogo

di ricerca formale, fino addirittura alla produzione di immagini sperimentali di carattere astratto,

che possono nascere anche soltanto dalla manipolazione di giochi di luce, liberandosi così da ogni

riferimento esterno (la vortografia di Coburn, la rayografia di Man Ray217, i fotogrammi di Moholy-

Nagy).

La seconda direttrice, più radicale, cerca di introdurre nel campo delle arti visive il modello di

funzionamento del dispositivo fotografico. Non è la fotografia a doversi fare artistica, ma è l’arte a

dover divenire fotografica. Del dispositivo fotografico, secondo negoziazioni diverse, sono

sottolineate le caratteristiche tecniche già ricordate: l’automaticità, la riproducibilità, e soprattutto il

carattere indicale. È una direttrice che insiste sulle pratiche più radicali delle avanguardie storiche,

in particolare sul ready-made del dadaismo, concepito come istantanea-traccia di un avvenimento

particolare, fino a interessarsi, più che delle pratiche, del fotografico come oggetto teorico. Da opera

l’immagine si fa gesto, azione, costruzione di una relazione per contatto (anche casuale) tra la

macchina e la luce, e tale gesto è indizio, traccia, sintomo, finanche spettro.

Attorno a questi due paradigmi ha lavorato la storiografia della foto come oggetto d’arte.

Volendo indicare due momenti fondamentali di questo dibattito, possiamo far riferimento alla

Storia della fotografia (1937, più volte rieditata fino al 1982) di Beaumont Newhall, e ai saggi di

Rosalind Krauss, dall’inaugurale Notes on Index del 1977 ai numerosi contributi poi raccolti in

Teoria e storia della fotografia (1990). Questi paradigmi acquistano significatività se inseriti nel

loro contesto produttivo, nel dialogo di questi studiosi con le pratiche artistiche coeve, nei modelli

di riferimento (Alfred Stieglitz per Newhall, Duchamp e il surrealismo per Krauss); se analizzati

alla luce delle rimozioni che producono218 e delle polemiche culturali nelle quali si inseriscono219. 217 Man Ray appare figura di confine tra l’idea della fotografia come opera visiva e come azione indicale. La rayografia è una pratica fotografica realizzata senza macchina.218 Newhall prepara la sua Storia sulla base del catalogo che cura per la mostra di fotografia, da lui stesso organizzata, per il MoMA di New York nel 1937. Nella preparazione della mostra dovette escludere dai suoi viaggi di ricerca la Germania a causa della situazione politica. Questa involontaria rimozione di gran parte della produzione tedesca del XIX secolo peserà per molti decenni nella storiografia nordamericana.219 In Notes on Index Krauss cerca una nuova griglia ermeneutica per le pratiche artistiche, come le installazioni, la body art, la land art, che avevano dominato New York negli anni Settanta. Il saggio è tradotto per la rivista «Macula» in Francia, corredato di alcune schede che illustrano la tripartizione dei segni di Peirce, insistendo su una chiave semiotica. Questa chiave trova terreno fertile in Francia, dove si cercava una fuoriuscita dal modello linguistico di carattere saussuriano e la possibilità di una lettura estetica e non soltanto sociologica della pratica

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Ma lì dove si parla della fotografia come di un’azione indicale, ha ancora senso affermare

l’autonomia dell’immagine artistica? Il modello dell’autore-creatore che attraverso la poiesis

costruisce un segno privo di finalità pratica come può resistere di fronte alla diffusione e alla facilità

d’uso del mezzo fotografico, che pressoché annulla la distinzione tra professionista e dilettante; di

fronte ad archivi che rendono sempre più arbitraria la catalogazione di capolavori per mostre le

quali a loro volta presentano immagini non più uniche ma godibili e riproducibili ovunque; di fronte

soprattutto a un segno che obbliga al contatto (e alla negoziazione) con qualcosa d’altro da sé?

4) Stieglitz (Equivalent)

Tutte le immagini, un’immagine sola: la mobilitazione per le immagini e la traccia testimoniale e la

traccia testimoniale

Non è soltanto il campo dell’arte visiva a essere riorganizzato dalla fotografia. È la nostra

esperienza a divenire potenzialmente luogo continuo di una mobilitazione per l’immagine. Di tutto

possiamo fare copia automatica, fino al limite teorico dell’indistinzione tra reale e riproduzione

(simulacro). Ogni immagine a sua volta può essere riprodotta fotograficamente. Il dispositivo

fotografico ci costringe a pensare in modo nuovo l’oggetto artistico e le nozioni di copyright e di

autore, legate alla stagione che va dal Rinascimento alle avanguardie storiche, perché è una tecnica

in cui i risultati dei cosiddetti dilettanti contribuiscono in modo essenziale alla storia delle sue

immagini. Più radicalmente, la fotografia ci costringe a ripensare il nostro stare all’interno

dell’esperienza, il nostro commercio con le cose, fatte di immagini. Come il fuori segnato dal gesto

indicale lascia la sua traccia, tanto da poter dire che l’immagine è il deposito della realtà,

specularmente ogni reale è permeato di immagini. Nulla sembra potersi nascondere all’occhio

automatico della macchina, che unifica tutti i referenti fino a ridurli a un fondo per il controllo della

visione. Il contatto tra immagine e cosa, nell’epoca della tecnica (fotografica), travalica i confini

delimitati di un’estetica intesa come discorso attorno alle poetiche e alle retoriche della produzione

artistica, per farsi domanda sull’esteticità della nostra esperienza, sempre più organizzata attraverso

dispositivi. Il discorso sul fotografico, su questo gesto indicale attraverso una macchina, quando

prova ad andare alla radice della questione, non può limitarsi né a una descrizione tecnico-

fotografica, come invece nel testo di riferimento del dibattito francese (Bourdieu 1965). Krauss riattivava una sotterranea linea indicale della riflessione francese, da Delluc e Epstein a Bazin. La riflessione indicale di Krauss incontrava a sua volta il lavoro tardo di Barthes 1980. Una sistematizzazione di questa costellazione è in Dubois 1983.

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scientifica, né continuare a difendere una pretesa autonomia estetica dell’immagine artistica, senza

porsi la domanda sul potere di tali immagini.

Intorno a questo potere, per tentare un percorso attraverso alcuni luoghi teorici esemplari ed

evidentemente non esaustivi, convocherò a sostegno alcune immagini (o catene d’immagini). La

prima è tratta da una raccolta di fotografie di Edmund Schultz, Il mondo mutato. Un sillabario per

immagini del nostro tempo (1933), editata e commentata da Ernst Jünger. È intitolata L’uomo di

vetro e riproduce un modello di essere umano costruito con materiale trasparente e presentato negli

anni Venti all’Esposizione d’igiene di Dresda220. Secondo la didascalia di Jünger, «il rapporto

dell’uomo con il suo corpo assume un carattere cosale. La sua sorveglianza e il controllo delle sue

prestazioni ricorda l’esattezza che caratterizza gli strumenti di precisione»221. Il corpo umano è reso

del tutto visibile da ogni punto di vista: si fa perciò al contempo spettacolo e oggetto di

sperimentazione scientifica, che lo rende a sua volta disponibile e controllabile. Questa fotografia è

all’interno di un atlante nel quale l’immagine è fondamentalmente immagine di guerra, non soltanto

quando esplora i segni di devastazione sui corpi nelle trincee della Grande Guerra e illustra la

potenza dei nuovi strumenti militari. Il singolo è inserito all’interno di una disciplina automatizzata,

in un ordine pianificato dei mezzi, dal campo del lavoro a quello del tempo libero o della cura del

proprio corpo. È l’immagine esemplare di quello che Jünger definisce un «mondo di marionette»222,

accostando le donne nei saloni di cosmetica, le attrici-dive del cinema, gli atleti nel momento del

massimo sforzo, gli operai negli altiforni e gli aviatori ed esploratrici con uniformi antigas, le

adunate di massa e i parlamenti «incapaci di operare»223, l’igiene di stato e le celle costruite come

sanatori, fino alla pianificazione del lavoro e dell’educazione come se fosse un’attività bellica. La

logica della mobilitazione totale fa perdere di significato i confini tra guerra e lavoro, rendendo la

guerra un processo meccanico da organizzare secondo logiche economiche e il lavoro un processo

in ogni istante conflittuale e pericoloso.

L’immagine, sempre disponibile attraverso la tecnica, riduce l’oggetto in una posizione

d’inferiorità, sia perché lo aggredisce, lo strappa dal suo contesto, lo inquadra, sia perché lo rende

disponibile, senza limiti, alla propria parola che lo può commentare secondo scopi contrapposti.

L’immagine tecnica è strumento di controllo: offre una tavola di informazioni sull’oggetto, così da

neutralizzare la sua eventuale reazione e renderlo disponibile alla manipolazione dello sguardo.

220 Su quest’immagine e sul problema della fotografia in Jünger ha richiamato l’attenzione nella sua postfazione Guerri, curatore dell’edizione italiana de Il mondo mutato. Jünger e Schultz collaborano tra il 1930 e il 1933 alla compilazione di cinque raccolte fotografiche, dedicate soprattutto a una fenomenologia della guerra totale e dei suoi strumenti di propagazione. In quegli anni Jünger pubblica i suoi lavori principali, dalla Mobilitazione totale all’Operaio, dedicati agli stessi temi di queste antologie fotografiche.221 Jünger - Schultz 1933, p. 29.222 Ibidem, p. 23.223 Ibidem, p. 41.

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Tale manipolazione non va interpretata riduttivamente come inganno, né tanto meno si riduce

all’uso dell’oggetto fotografato. Essa ancor di più riguarda l’elaborazione di un universo di giudizi e

di sentimenti, di un mondo che viene costruito attraverso una serie di immagini apparentemente

neutrali, la cui organizzazione risponde a una logica di potere. La pericolosità di ogni istante,

propria della logica della mobilitazione totale, è anestetizzata: l’oggetto è al contempo disponibile e

distante, raggiungibile meccanicamente e orientabile ideologicamente. La violenza di quegli istanti

pericolosi è normalizzata, resa uniforme e totale. Si è sempre in guerra224, in ogni momento e in

ogni luogo, e tale guerra è sempre una guerra di immagini.

L’immagine fotografica rende ogni cosa, anche lo stesso soggetto della visione, una

raffigurazione predisposta, organizzata e calcolabile: è strumento che riduce l’essere dell’ente alla

sua dimensione strumentale225. Il mondo nella sua totalità si presenta perciò come immagine, come

qualcosa che è soltanto nella misura della sua disponibilità a rendersi pubblico, come un uomo di

vetro del tutto visibile, e a farsi controllare dalla potenza dello sguardo del soggetto della visione,

che a sua volta sempre più si fa conflittuale, in guerra con altri sguardi. Tale soggetto in guerra

cerca di affermare la propria potenza attraverso l’esibizione di una neutralità, di un’indiscutibilità,

di un’automaticità della propria visione. Questo conduce a un oblio dell’essenza produttiva della

tecnica stessa226. Rispetto al dominio totale dell’immagine, può essere allora utile contrastare la

lettura deterministica, tecnica, sulla specificità del mezzo. Di fronte a un mondo unificato sotto il

dominio universale della tecnica, come appare nell’atlante jüngeriano, va riproposta la domanda su

che cosa voglia dire produrre immagini, che cosa nascondiamo nell’istante in cui rendiamo visibile

qualcosa: quale sia la verità dell’immagine, prima ancora di quale sia la sua bellezza.

5) JUENGER

Una seconda immagine, questa volta una serie di fotografie. Le quattro scattate da alcuni

membri del Sonderkommando dal crematorio V, nell’agosto 1944, i cui negativi sono conservati al

Museo d’Auschwitz227. Testimoniano la cremazione di alcuni corpi gasati e di alcune donne spinte

224 Jünger prefigura il movimento epocale segnato dalla crisi di legittimità dello Stato-nazione. La conflittualità permanente, cancellando la barriera tra civile e militare, fa di ogni momento della vita quotidiana in epoca di pace un istante di possibile scatenamento di violenza bellica. Saltano le convenzioni, per poter approdare a quell’uniformizzazione che fa di ogni luogo un luogo di guerra, di ogni abitante un nemico assoluto, senza più rifugi nella neutralità. Il progresso tecnologico rende impossibile preservare la sicurezza e indebolisce il legame di fedeltà tra cittadino e Stato.225 La diagnosi di Jünger aiuta Heidegger nella sua indagine sulla modernità, interpretata come epoca della tecnica, ossia di un mondo ridotto nichilisticamente a immagine.226 La dimensione sistemica di un mondo risolto nella guerra delle immagini, mondo nel quale a sua volta ogni conflitto, ogni guerra si derealizza, si fa spettacolo, attraversa molte ricerche dedicate alla politica delle immagini nel secondo dopoguerra, da quelle di Sontag e Debord a quelle di Baudrillard e Sloterdijk.227 La discussione di queste immagini è il cuore di Didi-Huberman 2003.

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verso le camere a gas. Queste fotografie sono state strappate all’oblio. Lì dove Jünger ci mostra la

potenza mortifera dell’occhio fotografico, le foto del Sonderkommando resistono. Il mondo mutato

ci mostra un universo sottomesso a un unico e unificante punto di vista, quello di una massa di

lavoratori che contemplano con piacere estetico la messa in forma della propria autodistruzione,

ossia della propria trasformazione in materiale umano. Quella violenza pervasiva è estetizzata e così

rimossa, resa invisibile. Il mondo mutato si apre con il teschio di un ignoto militare, sperso in una

pozzanghera di uno degli innumerevoli teatri di guerra, e si chiude con le esposizioni belliche, tra le

parate degli strumenti di distruzioni e le esibizioni di combattimenti all’interno di palazzi dello

sport. Le foto del Sonderkommando ci mostrano l’evento senza testimoni, un momento all’interno di

un processo di distruzione (la ‘soluzione finale’) che doveva svolgersi come se nulla stesse

accadendo. Le fasi dello sterminio procedevano secondo l’organizzazione anonima della più grigia

burocrazia, così da mimetizzare alle coscienze dei carnefici e degli ‘spettatori’ indifferenti il

processo di radicale messa al bando, fino alla morte per gas e all’incenerimento. Ma qualcuno

riesce, a rischio della propria esistenza, a testimoniare l’hic et nunc, a indicare il punto di vista

unico e solo al mondo dal quale si poteva vedere quel che stava accadendo in quel campo occultato

alla vista, dal quale si potevano segnare, già a partire dalle condizioni materiali della fabbricazione

dell’immagine (la cattiva messa a fuoco, la visuale scomoda e non centrata), le posizioni

inconciliabili, non unificabili, dei carnefici e delle vittime. È l’esempio più perspicuo di ciò che

qualche anno prima Benjamin aveva definito la politicizzazione dell’estetica. Rispetto alla distanza

sacrale, all’aura che l’immagine bella provoca soggiogando e impadronendosi del proprio

spettatore, le immagini riproducibili meccanicamente permettono di trasferire nell’hic et nunc della

storia l’attenzione: possono farsi traccia, ossia apparizione di una vicinanza (per quanto distante)

attraverso la quale facciamo nostra la cosa228: «Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il

calcolo dell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare

nell’immagine quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il

carattere dell’immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo

di quell’attimo ancora lontano si annida oggi il futuro»229.

6) Anonimo (dal crematorio V di Auschwitz)

228 Oltre a Benjamin 1931 e 1935-36, vanno ricordati gli appunti che fanno parte del materiale preparatorio dei Passages di Parigi (1982, postumo). Tra i riferimenti polemici (impliciti) c’è anche Jünger. Entrati nel dibattito anglosassone solo negli anni Sessanta, quelli di Benjamin sono oggi tra i testi centrali nel dibattito sui media di massa. Sono altresì fondamentali, al di là di alcune schematizzazioni dettate dall’urgenza politica dell’epoca, per intendere la sua filosofia messianica della storia, al di fuori dei canoni dello storicismo, e per riconoscere nel montaggio il metodo d’investigazione più adatto.229 Cfr. Benjamin 1931, p. 479.

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La fotografia può non essere la riduzione di ogni luogo e di ogni tempo al presente sempre

disponibile per l’occhio (della volontà di potenza) della macchina ma farsi immagine dialettica nella

quale, fulmineamente, possiamo riconoscere la tensione dialettica tra ciò che è e ciò che è stato e

nella quale questi due poli del tempo, in modo sempre rinnovato, riconoscono se stessi scorgendo in

quella scintilla del caso la contingenza gravida di futuro, le possibilità ancora non viste. Le

immagini hanno così vita postuma, sono immesse in uno spazio pubblico (non più rituale) che non

le lascia mute ma le riproduce, le interpreta, le discute, le critica, ne svela l’inconscio ottico,

cercandone il significato nel dialogo e nel montaggio con altre immagini (visive, musicali, verbali)

prodotte e trasmesse anche attraverso altri media230. Il lavoro di discussione non ha come fine la

derealizzazione dell’immagine, la possibilità di dirne tutto, ma quella di poterne dire sempre

altrimenti e sempre di più. L’interminabilità dell’analisi e del commento di una foto ha come

desiderio quello di scavare sempre meglio in quell’hic et nunc, riconoscendo le diverse posizioni

rispetto all’evento, indagando il controcampo rispetto alla scena, ‘setacciando’ e combattendo

stereotipi e proiezioni che orientano e spesso occultano la visione. Come accade appunto con queste

quattro foto dissotterrate dalla cenere e conservate nel Museo d’Auschwitz, montate da Resnais in

Notte e Nebbia, quando ancora non si sospettava che fossero gli unici documenti visivi dalle camere

a gas, indagate nella loro genealogia da Pressac in Auschwitz: Technique and Operation of the Gas

Chambers (1989)231, discusse da Didi-Huberman per mettere a confronto i due ‘monumenti’

storiografici di Shoah di Lanzmann e Histoire(s) du cinéma di Godard che, con strategie opposte,

con il rifiuto o una bulimia di documenti visivi, scavano continuamente per indagare l’invisibile

distruzione che è stata di fronte ai nostri occhi e alle nostre macchine fotografiche. Tutte le

immagini sono così convocate e messe di fronte alla propria responsabilità rispetto a quel vuoto

d’immagine che lo sterminio di un popolo e della sua memoria intendeva produrre.

Una terza fotografia. Questa volta non sono immagini che cercano di rendersi visibili

malgrado tutto, ma al contrario una foto che vuole rimanere privata. È la foto del Giardino

d’inverno, attorno alla quale Barthes costruisce una lunga variazione nella seconda parte della

Camera chiara (1980). In quella foto, di «un’innocenza assoluta»232, riconosce il volto giusto della

madre da poco morta: «Era una fotografia molto vecchia. Cartonata, con gli angoli mangiucchiati,

d’un color seppia morto, essa mostrava solo due bambini in piedi, che facevano gruppo,

all’estremità d’un ponticello di legno in un Giardino d’Inverno col tetto a vetri. Mia madre aveva

230 Sulla possibilità di costruire un’estetica intermediale a partire da Benjamin (e dalla pratica cinematografica del Kinoglaz di Vertov, a cui Benjamin si richiama esplicitamente), si veda Montani 2007, pp. 85-120.231 Jean-Claude Pressac indagando i documenti disponibili su Auschwitz abbandonò le sue posizioni inizialmente revisioniste sulla Shoah.232 Cfr. Barthes 1980, p. 70.

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cinque anni, suo fratello sette»233. Barthes già negli anni Sessanta aveva manifestato la difficoltà a

far rientrare nell’ambito degli studi semiotici il messaggio fotografico, che difatti con una formula

famosa (e controversa) aveva definito «senza codice»234. Nella Camera Chiara racchiude questa

insofferenza verso una lettura improntata all’analisi dei codici (semiotici, storico-sociologici,

estetici) in una dicotomia, studium-punctum, che è l’espressione ancora ‘culturale’ di una tensione

tra l’immagine come problema e come ferita. Lo studium è «l’applicazione a una cosa, il gusto per

qualcuno, una sorta d’interessamento, sollecito, certo, ma senza particolare intensità»235; è

l’interesse mosso dalla cultura, che quindi tanto più cresce quanto più lo sguardo (del fotografo,

dello spettatore) è addestrato, rendendosi padrone dei codici che si sovrappongono nella

produzione-decifrazione dell’immagine. Ma quello che ossessiona Barthes è la ferita del punctum,

di ciò che nell’immagine resiste alla macchina del Logos, sconvolgendo la visione predisposta e

messa in scena. È l’irruzione dell’irripetibilità dell’evento che può trovare espressione in un

particolare che stride con lo spazio organizzato attraverso la negoziazione dello sguardo tra

operatore e soggetto rappresentato. Possono essere il cinturino di una scarpa, i denti guasti di un

ragazzino, le braccia conserte di un mozzo236.

Noema della fotografia è perciò l’attestazione di qualcosa che è stato e non è più.

L’immagine non è copia ma emanazione del reale passato. La documentatività non riguarda

l’oggetto, del quale offrire un’immagine più o meno aderente, ma il tempo. È l’attestazione della

dimensione intrattabile della realtà, di ciò che si offre con piattezza, intorno a cui vaga lo sguardo

cercando inutilmente un senso, una profondità al di là dell’esteriorità. È l’attestazione della morte,

ogni volta singola, unica, contingente, insensata. Come Benjamin, Barthes individua il processo per

cui sempre più il mondo si fa un universo pubblico, al cui interno è del tutto assorbita l’interiorità

del privato237. Piuttosto che nella politicizzazione, nella capacità di farsi soggetto consapevole dello

sguardo, rendendo visibile ciò che prima era confinato in un controcampo (dall’invisibile al

visibile), Barthes ne individua il contraccolpo nella difesa delle immagini private le quali

conservano al di là di ogni cultura, di ogni pubblicità, di ogni costruzione di un mondo-in-comune,

al di là della loro visibilità, quello che in esse è invisibile: il confronto con la propria singola morte

(dal visibile all’invisibile). La difesa di tale privatezza impedisce a Barthes di mostrarci la foto del

Giardino d’Inverno per non ridurla a oggetto di studium. La propria singola morte è sempre privata,

233 Ibidem, p. 69. Barthes ha tenuto un diario, dal 1977 al 1979, per elaborare la tristezza per la morte della madre. È stato da poco pubblicato e tradotto in italiano: cfr. Barthes 2009.234 Cfr. Barthes 1961, p. 7.235 Cfr. Barthes 1980, p. 27.236 Ibidem, pp. 45, 46, 53.237 I ritratti o le foto di famiglia, e quindi le foto segnaletiche e mediche, sono tra i casi più evidenti del diventar pubblico del privato, secondo le direttrici della foto-documento che deve offrire informazioni sul referente e della foto-monumento che deve permettere di elaborare un ricordo del referente, attraverso una negoziazione dello sguardo tra operatore e soggetto fotografato.

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per quanto le immagini possano renderla pubblica e così banalizzarla, generalizzarla, rimuoverla. In

quell’immagine folle, raccontata alla prima persona singolare, Barthes riconosce l’intrattabile realtà,

quella che inchioda al proprio corpo, all’avventura irripetibile della propria esistenza, alla propria

storia, senza alcuna scappatoia né sublimazione finzionale. Quale emanazione dal passato possa

risvegliare non dipende da particolarità formali o sociologiche ma dalla storia assolutamente unica

della propria esistenza238.

La cosa è stata lì?

Nell’epoca delle immagini digitali possiamo considerare ancora la fotografia come una traccia? Una

lettura continuista del rapporto tra funzionamento chimico ed elettronico sottolinea: a) il dispositivo

elettronico del CCD registra comunque un segnale luminoso, che carica un microchip di silicio,

ricoperto di elettrodi (photosite), disposti su una griglia di pixel (picture element), e quindi rimane

un messaggio analogico; b) il lavoro di manipolazione fino alla produzione di un positivo senza più

un rapporto con il negativo originale è sempre esistito, sia come pratica volontaria di falsificazione,

dalle foto di regime ai messaggi pubblicitari, sia come sperimentazione di pratiche artistiche, come

nei fotomontaggi. La fotografia digitale sarebbe un segnale analogico che, all’interno della stessa

macchina, o attraverso una protesi esterna come lo scanner, è digitalizzato. È una risposta ancora

tecnica, cui si potrebbe contrapporre l’osservazione che il segnale registrato è subito convertito in

un segnale discontinuo numerico, così da avere la possibilità di lavorare il messaggio in totale

autonomia rispetto all’impulso originario239.

Il dispositivo tecnico permette di distruggere la dimensione auratica dell’immagine,

mobilitando lo sguardo verso l’hic et nunc della storia. Tale rovesciamento non segue in modo

necessario dalla macchina. La riproducibilità e i moderni sistemi di trasmissione e condivisione,

cause scatenanti della digitalizzazione, permettono di montare, giustapporre, commentare la stessa

immagine. Il dubbio sulla congruenza di un’immagine di sintesi numerica con l’apparenza visiva

della realtà esterna è neutralizzata proprio dai suoi diversi supporti tecnici (cellulari, telecamere),

che rendono possibile un confronto più continuo e capillare con quel dato hic et nunc e chiedono al

contempo di discutere il fatto fotografico, ossia il lavoro di negoziazione della visione tra i soggetti

coinvolti, dal fotografo alla realtà fotografata, dai media allo spettatore. La politicizzazione

dell’immagine esalta il lavoro critico di revisione e di confronto continuo tra il lavoro di

composizione e la capacità dell’immagine di dare testimonianza. Rimane l’incertezza ontologica

238 Barthes scrive la Camera chiara dal 15 aprile al 3 giugno 1979, durante una pausa tra i corsi dedicati alla preparazione del romanzo, tenuti al Collège de France; in particolare elabora alcune riflessioni svolte nella lezione del 17 febbraio, dedicata alla fotografia. In quei mesi iniziava a lavorare a un seminario su Proust e la fotografia, a partire da un corpus di foto di Paul Nadar appartenute a Marcel Proust.239 Per una prima ricognizione del problema, si vedano Marra 2006, Manovich 2002, Mitchell 1992.

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rispetto al rapporto di successione temporale tra la singola immagine e il suo fuori. La cosa è stata

lì: il noema attorno a cui muove la Camera chiara va oramai declinato in forma interrogativa? Il

punctum appare in modo ancora più radicale come qualcosa di privato, come qualcosa che mette in

gioco l’esperienza dello spectator che solo può sapere con certezza, a dispetto della cultura dello

studium, se l’immagine sia simulacro o impronta di qualcosa che è stato. Non per cercare la

congruenza con l’apparenza percettiva sperimentata all’epoca dello scatto, ma per riconoscere la

giustezza dell’immagine rispetto a quell’evento e continuare a porsi le domande banali, ma

inevitabili, dell’ontologia.

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