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Teatro e performance culturali Generi performativi come modello, specchio e riflesso della dimensione socio-culturale di Alfredo Caputo INDICE 1. INTRODUZIONE 2. VICTOR TURNER E RICHARD SCHECHNER: UN INEDITO E PROFICUO SCAMBIO FRA ANTROPOLOGIA E TEATRO 3. CONCLUSIONE 1. INTRODUZIONE Negli ultimi decenni si è assistito ad un sempre maggiore scambio e ad una sempre più frequente interazione fra discipline appartenenti all’ambito delle scienze sociali, in particolare l’antropologia e la sociologia, e discipline dello spettacolo, come il teatro, sia a livello pratico (si pensi agli esperimenti di messinscena etnografica condotti, negli anni Ottanta, da Victor Turner, in collaborazione con Richard Schechner e altri studiosi ed esperti di vari settori, dalla psicologia alla sociologia 1 ) che teorico (si pensi alle diverse 1 Nei primi anni Ottanta alcuni antropologi, in modo particolare, appunto, Victor Turner, diedero vita alla performing anthropology, mentre in campo teatrale

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Teatro e performance culturali

Generi performativi come modello, specchio e riflesso della dimensione socio-culturale

di Alfredo Caputo

INDICE

1. INTRODUZIONE

2. VICTOR TURNER E RICHARD SCHECHNER: UN INEDITO E PROFICUO SCAMBIO FRA ANTROPOLOGIA E TEATRO

3. CONCLUSIONE

1. INTRODUZIONE

Negli ultimi decenni si è assistito ad un sempre maggiore scambio e ad una sempre più frequente interazione fra discipline appartenenti all’ambito delle scienze sociali, in particolare l’antropologia e la sociologia, e discipline dello spettacolo, come il teatro, sia a livello pratico (si pensi agli esperimenti di messinscena etnografica condotti, negli anni Ottanta, da Victor Turner, in collaborazione con Richard Schechner e altri studiosi ed esperti di vari settori, dalla psicologia alla sociologia1) che teorico (si pensi alle diverse teorie elaborate nel corso delle ultime decadi, in ambito antropologico e sociologico, in particolare quelle del già citato Turner, da cui prenderà le mosse, a cui contribuirà e con cui si confronterà, sul versante teatrale, il lavoro del già anch’egli citato Schechner, nonché ai famosi studi condotti da George Simmel, Kenneth Burke, Erving Goffman e Jean Duvignaud, giusto per citarne alcuni, l’ultimo dei quali, fra l’altro, già negli anni Sessanta, è stato, per molti aspetti,

1 Nei primi anni Ottanta alcuni antropologi, in modo particolare, appunto, Victor Turner, diedero vita alla performing anthropology, mentre in campo teatrale Peter Brook, Jerzy Grotowski e soprattutto Eugenio Barba esplorarono ciò che quest’ultimo definì antropologia teatrale. Originariamente il termine antropologia veniva compreso come lo studio del comportamento dell’uomo non solo a livello socio-culturale, ma anche a livello fisiologico. L’antropologia teatrale, di conseguenza, studia il comportamento fisiologico e socio-culturale dell’uomo in una situazione di rappresentazione.

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uno dei padri fondatori di una vera e propria sociologia del teatro come disciplina specifica e autonoma2).In particolare, c’è nelle scienze sociali degli ultimi decenni un costante ricorso alla cosiddetta “metafora teatrale” o “prospettiva drammaturgica” (o “approccio drammaturgico”, come era stato definito dal critico e filosofo Kenneth Burke, i cui studi sono stati fondamentali in questo senso, e a cui un sociologo come Goffman deve molto) da parte di sociologi e antropologi di indubbia importanza: una “metafora” che si configura come un’aggiunta importante sia sul piano euristico che interpretativo, e che sembra dettare una via di ricerca e di riflessione ormai ineludibile .Da Edmund Leach a Erving Goffman, da Victor Turner a Clifford Geertz (per fare i nomi principali, alcuni dei quali ho già citato in precedenza) c’è una “corrente” nelle scienze sociali che sottolinea come il Dramma o il Teatro o la Rappresentazione – ma infine la dialettica fra la finzione e la convenzione – si fa strumento di valutazione e comprensione dell’interazione fra cultura e società.“Il Teatro del Mondo” o “Il Mondo come Teatro”, quindi, sono diventate ormai vecchie immagini che non suggestionano più. Eppure non si sono consumate, ma al contrario si sono andate precisando. In realtà, la questione non è così semplice come potrebbe sembrare. Come scrive Piergiorgio Giacché: “Da tempo il problema non sta più nel rapporto fra Società e Teatro, ma in quello fra Teatro e Cultura, e viceversa. Da tempo dunque la questione politica e sociologica del rapporto fra finzione e realtà è diventata una competenza e un’urgenza antropologica. È sempre più l’antropologia culturale a fornire ed esplorare le nuove ‘teorie drammaturgiche’ con cui si analizza e si spiega la condizione umana e la vita sociale; anzi, per mezzo delle quali si penetra finalmente nel sottile scarto che divide e confonde la Società e la Cultura, la struttura sociale e la rappresentazione culturale. Le vecchie analogie e metafore con cui si osservava la società – per lo più organiche e meccaniche – sono man a mano diventate obsolete; non perché inefficaci nella descrizione e interpretazione oggettiva dei fatti e delle istituzioni sociali, ma perché impotenti e addirittura elusive per ciò che riguarda la soggettività sociale (corsivo mio; si veda anche più avanti, a proposito dell’individuo) ovvero la mentalità collettiva: in una formula sintetica, quell’insieme delle rappresentazioni mentali socialmente elaborate e condivise che è appunto la Cultura, e che non conviene più considerare ‘dipendente’ dalla Società ma invece valorizzare come ‘interagente’ con essa.3”.

2 A tal proposito si veda, in particolare, la sua famosa opera Sociologia del teatro (tit. or. Sociologie du théâtre: essai sur les ombres collectives), del 1965. Duvignaud fu uno dei primi ad occuparsi, in qualche modo pioneristicamente, insieme a Pierre Bourdieu e Pierre Francastel, di sociologia applicata al teatro e all’arte.3 Piergiorgio Giacché. “L’antropologia del teatro e il teatro della cultura”. Campodellacultura.it. Campo della Cultura / Sezione Quarta - cap. 25. http://www.campodellacultura.it/conoscere/campo-della-cultura/sezione-quarta/l-antropologia-del-teatro-e-il-teatro-della-cultura/

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Fra tutte le teorie, quella di Erving Goffman è stata senz’altro quella più discussa e criticata, e quella che ha dato luogo a molti equivoci. Anche in riferimento alle osservazioni di Piergiorgio Giacché riportate sopra, infatti, questa è una “analogia” – tra società e teatro – che va molto al di là della nota e perfino abusata “metafora” de La vita quotidiana come rappresentazione di Erving Goffman. Come ci spiega ancora Giacché, il sociologo canadese aveva dichiaratamente usato il teatro e la sua recitazione dei ruoli (peraltro, spesso, in maniera piuttosto generica e approssimativa, poco fondata storicamente, come alcuni, ad esempio Claudio Vicentini, hanno fatto giustamente notare) come una “impalcatura” utile per registrare e analizzare i comportamenti quotidiani e le relazioni sociali; subito dopo, però, quei ruoli teatrali ritornano per così dire nella Realtà e si distaccano dalla Finzione, cioè da quel “come se4” che li ha resi utili all’analisi dei ruoli sociali. Goffman sembra cioè “prendere a prestito” il teatro e applicarlo o disattivarlo solo in funzione dei suoi lavori sociologici. Restano innegabili, ad ogni modo, il contributo e la spinta teorica, sul piano sia euristico che interpretativo, che questo studioso ha dato, direttamente e indirettamente, per gli approcci e le ricerche degli ultimi decenni.Se si dà, comunque, un breve sguardo al panorama degli studi che sono stati portati avanti fino ad oggi in ambito teatrale, da un lato, e in ambito socio-antropologico, dall’altro, non si può certo negare che gli scambi e le reciproche influenze si siano spesso rivelati interessanti, originali e proficui, seppur problematici.In questa mia breve trattazione, voglio trattare alcuni punti e nodi teorici, in ambito antropologico, sui rapporti fra teatro (e performance culturali in senso più ampio) e società, intesa come struttura e insieme complesso di dinamiche, processi ed interazioni socio-culturali, con particolare riferimento alla dimensione dell’individuo (e quindi, in definitiva, della collettività stessa), e al suo rapporto con la performatività5, riflettendo altresì sulla natura e sulla funzione di quest’ultima. Mi

4 Sulla formula del “come se”, interessanti risultano le riflessioni dell’antropologo Francesco Remotti, che in un suo libro di qualche anno fa, intitolato Contro l’identità, fra le altre cose ribadisce, attraverso un percorso che va da Kant a Geertz, la necessità, e infine la verità antropologica, della “analogia drammaturgica della vita sociale”. Così scrive: “La società è la somma degli individui? La società è una struttura autonoma e unitaria indipendente dalle azioni degli individui? Essa è piuttosto una via di mezzo, espressa molto bene dalla formula del ‘come se’: non è, ma è come se lo fosse.” (Francesco Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 2007). Conviene altresì precisare che si tratta di una “via di mezzo” non nel senso del compromesso, ma in quello della finzione-convenzione, per cui è come se fosse l’una e l’altra cosa. E intanto non è propriamente nessuna delle due. Questa nuova veste e sostanza “analogica” di cui parla il libro di Remotti, supera di gran lunga “l’uso metaforico del teatro” da parte dei sociologi: qui non si tratta più di metafore meccaniche o organiche utili per studiare la vita sociale, ma del ‘come se’ – cioè della finzione e della convenzione – come essenza sostanziale e non veste superficiale del comportamento umano e delle istituzioni sociali.5 A tal proposito, interessante risulta la differenza che l’antropologo Kenelm Burridge fa tra “persona” e “individuo”. Nella sua opera Someone, No One. An Essay on Individuality, egli scrive: “La persona si accontenta delle cose come sono, l’individuo pone un insieme alternativo di discriminanti morali”. E ancora, parlando dell’individuo: “L’individuo è il critico della morale che aspira ad un altro genere di ordine sociale o morale, la scintilla creativa che resta sospesa e pronta a cambiare la tradizione. Tuttavia, se alcuni sono completamente individui e altri persone, la comune osservazione mostra che la maggior parte della gente è per certi aspetti e il più di frequente persona, mentre sotto altri aspetti e in altre circostanze si può rivelare come individuo. E questa visibile oscillazione fra persona e individuo

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riferisco soprattutto a due degli autori precedentemente citati: Victor Turner e Richard Schechner6. Assumerò come base di partenza e modello di fondo la teoria del <<dramma sociale>> di Turner, ed in particolare, all’interno di questa, il concetto-chiave di << liminalità >>, che Turner elabora originariamente in riferimento al << processo rituale >>, sulla base della nozione di << rito di passaggio >> che l’antropologo e folclorista Arnold Van Gennep propone e introduce nel suo libro intitolato appunto I riti di passaggio (tit. or. Les rites de passage) del 1909, e che poi si è rivelato fecondo e suscettibile di interessanti applicazioni e rielaborazioni anche nel campo dei fenomeni teatrali: si pensi, ad esempio, all’uso che ne fa Schechner, sia in riferimento allo statuto ibrido, liminale appunto, “interstiziale”, per usare proprio un termine turneriano (nel senso che esso si colloca ‘sulla soglia’ fra realtà e finzione), che – a suo dire – sarebbe costitutivamente proprio dello spettacolo teatrale, o meglio ancora dell’atto del rappresentare, sia nell’ambito di un confronto fra il processo rituale e il processo teatrale, con le prove dello spettacolo a fungere da vero e proprio rito di passaggio, di morte e rinascita, per l’attore7.

[…] può essere identificata con l’individualità. Detto altrimenti, il termine “individualità” si riferisce alla possibilità e capacità di muoversi dalla persona all’individuo e/o viceversa.”.6 Quest’ultimo è, oltre che regista, uno studioso e teorico del teatro a 360 gradi, che ha legato, attraverso un approccio originale, aperto e pluridisciplinare, gli studi sul teatro e sulla performance alle scienze sociali, in particolare all’antropologia, e agli studi culturali in genere. È innegabile che il suo lavoro abbia avuto un profondo impatto sulle più recenti acquisizioni teoriche in materia, nonché sull’interpretazione della performance come una modalità ed espressione di pratica culturale nel senso più ampio del termine. Lo inserisco nella mia trattazione anche per i suoi significativi legami e rapporti con Victor Turner, di cui fu amico e con cui collaborò a stretto contatto, e alle teorie del quale diede un contributo rilevante. Entrambi questi autori ebbero un ruolo fondamentale nella scena artistica d’avanguardia degli anni Sessanta in America, che portò alla nascita e allo sviluppo dei cosiddetti Performance Studies come nuova disciplina autonoma. Le riflessioni di Turner sono fortemente influenzate dal pensiero di Richard Schechner con cui collaborò attivamente all’interno di alcuni seminari aventi luogo nel Performing Garage, un teatro di Soho dove la compagnia teatrale di Schechner, il Performing Group, rappresentò alcuni notevoli spettacoli (vedi anche la nota 1, a proposito della performing anthropology.).7 Su quest’ultimo punto, si pensi anche alla sua particolare concezione dell’attore, che Turner ben ci illustra nel suo libro Dal rito al teatro (tit. or. From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play). Come ci spiega Turner, Schechner, in quel complicato processo che egli chiama processo di prova, considera l’attore, nel suo assumere il ruolo di un altro, fornito dal copione, come in movimento, sotto l’occhio intuitivo ed esperto del regista/produttore, dal non-io (la parte progettata) al non-non io (la parte realizzata), e, ancora più importante, considera il movimento stesso come una sorta di fase liminale (corsivo mio) in cui tutti i tipi di esperimenti esperienziali sono possibili, anzi obbligatori. Quella del <<dall’io al non-io al non-non-io>> è una formula che Schechner prende in prestito dallo psicologo Donald Woods Winnicott per esprimere questo processo di maturazione teatrale. Scrive Turner: “L’io, l’individuo biologico-storico, l’attore, si trova di fronte al ruolo dato nel copione, al non-io; nel crogiolo del processo di prova ha luogo una strana fusione o sintesi fra l’io e il non-io. […] Il ruolo del regista è principalmente quello di un catalizzatore, egli dà il suo aiuto nella celebrazione delle nozze mistiche o alchemiche che avvengono quando l’attore attraversa il limen fra il non-io e il non-non-io. In questa terza fase l’io è un io più ricco, se non più profondo, di quello iniziale.”. Schechner, in particolare, individua un ampio territorio confinante tra antropologia e performance, soffermandosi soprattutto su alcune aree in cui la frontiera tra i due soggetti è estremamente flessibile: transformation of being and/or consciousness, intensity of performance, audience-performer interactions, the whole performance sequence, transmission of performance knowledge. La trasformazione dell’essere e/o della percezione (transformation of being and/or consciousness) è presente in maniera permanente nei riti iniziatici (cfr. Victor Turner e la sua teoria della liminalità) e in maniera momentanea nel teatro o nella danza; il performer e a volte anche lo spettatore subiscono una trasformazione in seguito alla rappresentazione; si ottiene una trasformazione permanente o una trasformazione temporanea attraverso strategie d’azione e comportamentali. Tornando al concetto di liminalità, scrive Cage: “Che cos’è la liminalità se non la soglia che separa ed unisce due limiti?”. L’interazione di queste due

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2. VICTOR TURNER E RICHARD SCHECHNER: UN INEDITO E PROFICUO SCAMBIO FRA ANTROPOLOGIA E TEATRO

La relazione fra le discipline dell’antropologia e del teatro si rivela sempre più obbligata, indispensabile ed efficace. Sono sempre maggiori gli stimoli e i tentativi in direzione di uno studio del teatro come minuscola ma concreta “fabbrica di rappresentazioni”, ovvero come microscopico “doppio della cultura”. Questo approccio insieme fenomenologico e concettuale, da una parte porta a considerare il teatro (le sue pratiche e teorie) come autonomo campo di indagine antropologica, e dall’altra invece sospende definitivamente il facile gioco metaforico e lo trasforma in un difficile rapporto di scambio tra una scienza (l’antropologia) e un’arte (il teatro): o per meglio dire, tra una scienza che in fondo somiglia ad un’arte e un’arte che ha necessità di darsi una base scientifica. In ultima analisi, si potrebbe addirittura arrivare a dire che, in prospettiva, quello che ha da instaurarsi, è un estremo e necessario rapporto, dai confini tutt’altro che netti, tra un’antropologia che vuole ormai svilupparsi come studio specifico della vita della cultura (sia pure nel quadro della vita sociale) e un teatro che ha cominciato a concepirsi come “spedizione

sfere, come fa ben notare Turner, può essere rappresentata metaforicamente come il riflesso su di uno specchio doppio: sull’una superficie si riflette la vita, sull’altra l’arte. La realtà dell’evento percepito come arte o come vita è sia ciò che viene visto sia la visione di esso. Diverse esperienze ma soprattutto diversi livelli di esperienze interagenti operano simultaneamente, dando vita a ciò che Schechner definisce, appunto, il not-not not. La liminalità si estende alla frantumazione della soglia non soltanto per cancellare la frontiera tra oggettivo e soggettivo, ma soprattutto per determinare una non-non non verità che afferma per automatismo che il qui ed ora agisce all’interno dello spazio riflettente, lontano dall’immedesimazione, oltre l’estraniamento, dentro la possessione.Lo scopo di un workshop teatrale e di una sessione di prove, secondo Schechner, è quello di cercare l’equilibrio tra operazioni corticali, cerebrali, motorie e istintive fino a comportamenti simbolici, espressivi, scherzosi, ritualizzati. Questa istantanea viva, mutevole, corporea e densa di ritualità gestuali della performance teatrale è quella che Schechner chiama actual. “Lo scambio primitivo tra individuo e gruppo viene acquisito dalla performance per sostituire il rapporto cerebrale tra attore, personaggio e spettatore con l’interazione psico-fisica del performer con la performance e l’audience. La performance è completa solamente se l’attore è in grado di mandare avanti con il gruppo e con l’audience il processo che ogni sera propone (Foreman 1993); il nodo teorico è l’actual che converte le azioni quotidiane in misteri (Valentini 1984). L’azione dell’actual, ritiene Schechner, è quella di actualizing, un’operazione semplice fra le comunità agricole e primitive che è diventata ancora più semplice fra i giovani e la loro arte d’avanguardia […]. Il nuovo teatro, la performance, è molto vecchio, l’avanguardia cittadina appartiene a una tradizione cosmopolita rurale (Schechner 1984, pp. 45-46) […] Comprendere l’actualizing significa capire sia la condizione creativa sia l’opera.” (Anna Sica, Studi sulla Performance, in Michele Cometa, Dizionario degli studi culturali, a cura di Roberta Coglitore e Federica Mazzara, Meltemi editore, Roma 2004). Attraverso l’operato di Schechner, quindi, la teoria e la pratica della performance assumono un nuovo senso, che si basa essenzialmente sul fattore sperimentativo e sull’imparare rappresentando. Nel teatro di Schechner la parte cresce gradualmente insieme all’attore, assume forma attraverso il processo di prova, che a volte può comportare momenti di profonda autorivelazione. Attraverso l’agire corporeo si sviluppano nuovi comportamenti dal recupero di esperienze vissute e nello stesso tempo si vivono nuove esperienze: il teatro in questo senso si avvicina sempre più alla vita stessa. Mediante l’esperienza performativa teatrale, secondo Schechner, è possibile rivivere e dare un nuovo senso anche ad eventi e pratiche proprie di altre culture, ricreando il comportamento dell’altro dall’interno. Nel processo di prova viene istituita una relazione dinamica fra il copione, il regista, gli attori, la scena e il materiale scenico, in totale attitudine sperimentativa e attribuendo paritaria importanza ad ognuno di questi elementi. Sperimentando quindi sul proprio corpo, agendo in una zona liminale in cui tutti gli esperimenti esperenziali sono possibili (e anzi obbligatori), si attua una riflessione critica sull’individuale e sul sociale.

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antropologica” all’interno della società ed ha finito per fondare una sua propria antropologia.8

In effetti, a ben guardare, i nuovi terreni dell’antropologia dell’esperienza, dell’azione e della performance si possono sviluppare soltanto se “il laboratorio del teatro” partecipa al lavoro dell’antropologo; così come, al tempo stesso, il patrimonio delle ricerche antropologiche diventa strumento e alimento della teoria e della pratica teatrale. Non si tratta più allora di approfondire o rinnovare le teorie drammaturgiche sulla cultura e la società, ma più semplicemente di lasciare che il teatro e l’antropologia vengano operativamente e teoricamente a contatto, una volta superate le diffidenze e le definizioni “tradizionali”.Certamente innovativi e pionieristici, in questo senso, sono stati i primi e significativi esperimenti di performing anthropology degli anni Ottanta, a cui ho già accennato in precedenza (vedi p. 1), portati avanti soprattutto da Victor Turner e Richard Schechner, due figure importanti su cui mi soffermerò fra non molto. Già all’epoca, infatti, durante queste prove ed esperienze di messinscena etnografica, che Turner ci descrive, e su cui si sofferma anche come punto di partenza per interessanti riflessioni teoriche, in diversi capitoli dei suoi libri, in particolare nel terzo capitolo di Dal rito al teatro9 (tit. or. From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play), e nel sesto capitolo di Antropologia della performance10 (tit. or. The Anthropology of Performance), già a quell’epoca, dicevo, furono vagliati, sottoposti ad esame, e, in definitiva, rivalutati ed in parte superati, i tradizionali e rigidi schemi, confini e definizioni dei rispettivi campi di studio e d’azione. Come dicevo prima, Turner utilizzò queste esperienze di messinscena come importante punto di partenza per interessanti riflessioni teoriche, che, talvolta, già preludono a quegli imprescindibili, necessari e stretti contatti e rapporti di scambio fra ricerca antropologica e ricerca teatrale di cui si parlava prima. Ad esempio, egli, ad un certo punto del terzo capitolo di Dal rito al teatro, intitolato “Rituale drammatico / dramma rituale. Antropologia della performance e della riflessione”, dopo aver concluso la descrizione e il dettagliato resoconto delle fasi di prove affrontate nel corso dei laboratori, scrive: “[…] È difficile separare i problemi estetici e quelli teatrali dalle interpretazioni antropologiche. Anche le storie esemplari riferite più incisivamente o più chiaramente

8 Come si sa, la “scienza del teatro” che ieri riempiva trattati di poetica oggi sempre più spesso prende il nome e il metodo dell’antropologia; e non mi riferisco solamente a Eugenio Barba, Jerzy Grotowski e Richard Schechner, e alle loro strutturate proposizioni, ma anche alle incursioni e invenzioni di molti altri teatri e teatranti, alla ricerca di un senso e di uno spazio culturale sempre più autonomo dal contesto sociale di appartenenza. Non si vuole certo dire, in tal modo, che il teatro non sia espressione della società, ma si cerca sempre più di sottolineare la relativa sospensione e l’illusoria libertà dell’arte scenica, della “finzione” degli attori ma anche della “convenzione” con gli spettatori.9 Victor Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986 (ediz. or. From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, New York, Performing Arts Journal Publications, 1982).10 Victor Turner, Antropologia della performance, Il Mulino, 1993 (ediz. or. The Anthropology of Performance, New York, Paj Publications, 1986).

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nella letteratura etnografica, devono essere ulteriormente distillate e abbreviate ai fini della performance. Per far questo bisogna combinare una solida conoscenza dei contesti socio-culturali pertinenti con la capacità rappresentativa per produrre un valido copione teatrale, che ritragga efficacemente sia la psicologia individuale, sia il processo sociale articolato in base ai modelli forniti da una particolare cultura. Uno dei vantaggi di questo modo di sceneggiare il materiale etnografico sta nel fatto che esso attira l’attenzione sui sottosistemi culturali […] da un punto di vista drammatico.11”. Queste riflessioni, pur inserendosi in uno specifico e limitato contesto di ricerca etno-antropologica in senso teatrale, sottolineano già fortemente l’esigenza, per l’antropologia e le scienze umane di quel periodo, di superare certi schemi e certe barriere, per operare una proficuo e intelligente collaborazione con le ricerche teatrali sulla recitazione e sulla performance, portate avanti in maniera originale e brillante, fra gli altri, da Richard Schechner, come già detto diverse volte. E continua dicendo, più avanti: “Gli studenti di antropologia potrebbero aiutare quelli di teatro anche durante le prove, se non con la partecipazione diretta, almeno svolgendo funzione di Dramaturg. […] Horny e Schechner vedono nel Dramaturg una sorta di critico letterario strutturalista che sviluppa la sua ricerca attraverso una produzione teatrale e non meramente a tavolino. Ma il Dramaturg o Ethnodramaturg antropologico non si occupa tanto della struttura del copione (a sua volta un preciso spostamento dell’etnografia alla letteratura), quanto della fedeltà di quel copione sia ai fatti descritti che all’analisi antropologica delle strutture e dei processi del gruppo. […] Il movimento dall’etnografia alla performance è un processo di riflessività pragmatica.12”. Qui Turner, nell’ultima frase, fa implicitamente e indirettamente riferimento alla sua teoria della liminalità e dell’operazione di “riflessività” ad essa connessa ed in essa insita, come ripiegamento e processo di self-consciousness nel magma e nel flusso inarrestabile di eventi, processi ed interazioni sociali. Una sorta di ‘non flusso’, quindi, o ‘anti-flusso’, come lo definisce lo stesso Turner, che si oppone al flusso ordinario, proprio come, nella sua più generale teoria dei “drammi sociali”, l’ ‘anti-struttura’ si oppone alla ‘struttura’. E le performance culturali, che nelle società moderne post-industriali e capitalistiche si inseriscono, secondo Turner, nella cosiddetta dimensione “liminoide” dello svago, che egli distingue da quella “liminale”, propria invece delle società e comunità tribali, agricole e feudali, e in generale di tutte quelle pre-industriali, sono l’espressione per eccellenza di questa funzione riflessiva. Altrove, Turner, a proposito della cosiddetta “compensazione” o

11 Victor Turner, Capitolo terzo: “Rituale drammatico/dramma rituale. Antropologia della performance e della riflessione”, in Dal Rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 178.12 Victor Turner, Capitolo terzo: “Rituale drammatico/dramma rituale. Antropologia della performance e della riflessione”, in Dal Rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 179-180.

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“riparazione”, che costituisce la terza fase di quelli che lui chiama “drammi sociali”, ed in cui appunto emerge con chiarezza questo tipo d’azione riflessiva, scrive: “Che contro il dilagare della crisi si faccia appello a processi giuridici oppure rituali, il risultato è un incremento di quella che potremmo definire la riflessività sociale o collettiva, gli strumenti con i quali un gruppo cerca di esaminarsi, di rappresentarsi, di comprendersi e quindi di agire su se stesso. Barbara Myerhoff ha scritto che le performance culturali sono

Riflettenti nel senso che mostrano noi stessi a noi stessi. Sono anche in grado di essere riflessive, risvegliando in noi la coscienza di come vediamo noi stessi. […] Diventiamo consapevoli di noi stessi, coscienti della nostra coscienza. Attori e pubblico insieme, possiamo allora raggiungere la pienezza delle capacità umane, e forse del desiderio umano di auto-osservazione e di provare il piacere che procura il sapere di sapere.13” (grassetto mio).

I generi performativi, quindi, sono sia riflettenti che riflessivi, nel senso che sono influenzati dai processi sociali, e dai relativi drammi sociali, li riflettono, appunto, assorbendone, nella forma quanto nel contenuto, gli effetti, e a loro volta, retroattivamente, influenzano i successivi processi e drammi sociali. Sono, pertanto, non semplici specchi, ma, come Turner li chiama, “specchi magici”.Richard Schechner ha ben sintetizzato, in maniera schematica, questa reciproca relazione di interdipendenza, questo processo circolare, con il suo famoso disegno di otto messo in posizione orizzontale e bisecato in entrambi gli anelli, il cosiddetto “otto rovesciato”. È lo stesso Turner che ce ne parla: “Richard Schechner raffigurò questa relazione con l’immagine riprodotta […] di un otto coricato tagliato in due da una linea. I due semicerchi sopra la linea divisoria orizzontale rappresentano la sfera pubblica visibile, manifesta, quelli sotto la sfera latente, nascosta, forse addirittura inconscia. L’anello o occhiello sinistro rappresenta il dramma sociale, […] l’anello destro rappresenta un genere di performance culturale. […] Si noti che il dramma sociale manifesto agisce sulla sfera latente del dramma scenico; la sua forma caratteristica in una data cultura, in un dato contesto spaziotemporale, influenza inconsciamente, o forse preconsciamente, non solo la forma ma anche il contenuto del dramma scenico di cui è lo specchio attivo o ‘magico’ (grassetto mio). Il dramma scenico […] è un metacommento, esplicito o implicito, consapevole o inconsapevole, dei principali drammi sociali del suo contesto sociale. […] Non solo, ma il suo messaggio e la sua retorica retroagiscono sulla struttura processuale latente del dramma sociale […]14”.E altrove, parlando nello specifico della forma più tradizionale di dramma scenico, e quindi del teatro, per così dire, tout court, scrive: “Il teatro è forse più vicino alla vita della maggior parte dei generi della performance, in quanto, nonostante le sue 13 Victor Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 138.14 Victor Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 191.

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convenzioni e i limiti spaziali delle sue possibilità fisiche, esso è, come disse Marjorie Boulton, << letteratura che cammina e che parla davanti ai nostri occhi, concepita per essere rappresentata, potremmo dire ‘recitata’ [acted], e non vista come serie di segni sulla carta e di immagini, suoni ed azione nelle nostre teste >>. Richard Schechner, in Performer e spettatore trasportati e trasformati, ci ricorda che

Il comportamento sulla scena non è libero e immediato; scaturisce invece dallo studio e dalla pratica << è recuperato15 >> attraverso le prove o per averlo conosciuto in precedenza o perché lo si è appreso spontaneamente fin dalla prima infanzia, o perché viene fuori durante la performance con l’aiuto di maestri, guide, guru o anziani, o perché obbedisce a regole che determinano l’esito come nella improvvisazione o negli sport.

La performance, dunque, è sempre duplice, di quella duplicità dell’acting di cui abbiamo già parlato: non può sfuggire alla riflessione e alla riflessività. Il fatto che il teatro sia così vicino alla vita, pur rimanendo distante da essa quel tanto che basta per farle da specchio, fa di esso la forma più adatta per il commento o << meta commento >> di un conflitto, poiché la vita è conflitto, e la contestazione non è che una specie particolare di conflitto.16”.La teoria del “dramma sociale” di Turner è da alcuni aspramente criticata per il fatto di introdurre arbitrariamente, come Turner stesso dice, “un modello tratto dalla letteratura […] per gettare luce su processi sociali spontanei che non sono inventati o inseriti in convenzioni, ma sorgono da scontri di interessi o dall’incompatibilità fra principi socioculturali negli scambi della vita quotidiana in un gruppo sociale17.”.

15 Qui Schechner parla del cosiddetto comportamento << recuperato >> o << rivissuto >> (restored behavior), di cui tratta ampiamente e diffusamente in uno dei suoi scritti, intitolato Restauration of Behavoir (pubblicato per la prima volta in << Studies of Visual Communication >> nel 1981 e presente nella citata raccolta italiana con il titolo << Sul recupero di comportamenti passati >>) dove Schechner individua il paradigma del rito nel processo di allestimento dello spettacolo, e nel << recupero di un passato comportamento >> il denominatore comune che unisce attività così diverse come il rito, il teatro, la psicoterapia, lo sciamanesimo. In questa visione, quindi, “la cellula germinale del processo performativo rimane all’interno del restored behavior, il comportamento ritrovato o recupero del comportamento, un fenomeno presente in ogni tipo di performance, dai riti iniziatici ai drammi sociali, dalla psicoanalisi allo psicodramma. Il comportamento ritrovato agisce all’interno di frammentazioni comportamentali, legate ad emozioni o ad azioni specifiche o generali, che Schechner definisce sequenze di comportamento. La verità o la fonte d’origine di un comportamento può essere smarrita, ignorata, o persino contraddittoria. Le modalità di recupero del comportamento possono essere occultati, elaborati, in taluni casi distorti dal mito e dalla tradizione. Il comportamento ritrovato viene rappresentato secondo una esecuzione estesa, come dramma e rito, o breve, mediante gesti, danze e formule magiche (Turner 1979). Il performer recupera il comportamento attraverso una tecnica rigorosa (training), che gli permetta di entrare non soltanto in un’altra personalità, ma di agire a metà tra le due identità; in tal senso il performing è un paradigma della liminalità.” (Anna Sica, Studi sulla Performance, in Michele Cometa, Dizionario degli studi culturali, a cura di Roberta Coglitore e Federica Mazzara, Meltemi editore, Roma 2004). Su quest’ultimo punto, del performer che, attraverso il recupero del comportamento, entra “non soltanto in un’altra personalità”, ma agisce “a metà tra le due identità”, si veda quanto detto in precedenza, nella nota 7, a proposito della cosiddetta formula del <<dall’io al non-io al non-non-io>> che Schechner adotta in riferimento al complesso e complicato percorso dell’attore nelle prove teatrali.16 Victor Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 187-188.17 Victor Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 188-189.

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Altri invece, come l’antropologo Clifford Geertz, la elogiano e condividono, ritenendola acuta e originale. Quest’ultimo, in particolare, dà la sua qualificata approvazione a quella che lui chiama << analogia tra dramma e vita sociale >> fatta da Turner, annoverandolo fra i << fautori della teoria rituale del dramma >>, contrapposta alla << tesi dell’azione simbolica >> che sottolinea << le affinità fra il teatro e la retorica: il dramma come persuasione, il palcoscenico come tribuna 18>>, legata al nome di Kenneth Burke, poi ripresa e portata avanti, come già detto nella parte introduttiva, da Erving Goffman.Proprio a proposito di Geertz, tornando un attimo a quanto dicevamo, nella parte introduttiva, riguardo alla necessità di superamento, emersa e in parte affermatasi negli studi e nelle ricerche degli ultimi decenni, dell’obsoleto e per lo più scontato “uso metaforico del teatro”, a partire da Kenneth Burke (con la sua già citata formula dell’ “approccio drammaturgico”), e poi con Goffman e altri, di gran parte della sociologia, c’è da dire che una conclusione e insieme un fondamento di questo nuovo sguardo “teatrale” sul sociale si può senz’altro individuare nell’ innovativa quanto penetrante proposta della cosiddetta antropologia interpretativa (o riflessiva) dell’antropologo statunitense, che tanto deve, fra le altre cose, anche all’ermeneutica, e che si è posta criticamente in particolar modo nei confronti dell’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss. Egli, nel suo libro Interpretazione di culture (tit. or. The Interpretation of Cultures), scrive: “La società è sempre meno rappresentata come un meccanismo elaborato o come un quasi organismo e sempre più come un gioco serio, una rappresentazione teatrale o un testo comportamentale.19”. E ancora: “La cultura è fatta di abiti e di costumi, che gli uomini indossano per recitare e soprattutto per dar forma alla loro vita. Ci si può chiedere se ci sia, o se mai ci potrà essere, un qualche luogo dove la recitazione abbia fine.20”. La risposta di Geertz è chiara: “Non c’è, non può esserci un retroscena dove si possa andare a gettare un’occhiata agli attori […] come persone reali21.”. In altri termini, dietro questa recitazione e dopo questa recitazione non c’è una diversa situazione, una realtà o una verità sottesa o nascosta: si può cambiare parte, stile di recitazione, dramma da recitare, ma gli “uomini – come osservò Shakespeare stesso – stanno sempre recitando.22”. E poi, ancora: “Coltivare l’idea che la diversità di usanze nello spazio e nel tempo non è solo questione di vesti e di apparenza, di scenari e di maschere” – scrive Geertz – “vuol dire credere che l’umanità è tanto varia nella sua essenza

18 Clifford Geertz, Blurred Genres. The Refiguration of Social Thought, in << American Scholar >>, primavera 1980, p. 172.19 Clifford Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1987 (ediz. or. Clifford Geertz, The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, 1973).20 Ibidem.21 Ibidem.22 Ibidem.

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quanto lo è nella sua espressione.23”. È, in poche parole, una questione che concerne direttamente l’essenza dell’uomo”.Essenza e apparenza, quindi, in questa nuova prospettiva e interpretazione a cui la riflessione di Geertz ha aperto la strada, finalmente coincidono, se è vero che l’uomo è già in ciò che appare in superficie, e se è vero che anche nelle più intime profondità ritroviamo finzioni o – come conclude Geertz – “costruzioni più o meno illusorie, un variegato e sempre ambiguo come se.24”.Già abbiamo fatto notare, di sfuggita, come Geertz sia stato una di quelle figure che si è posto in aperta critica e opposizione allo Strutturalismo, in tal caso in ambito antropologico. Lo Strutturalismo è un movimento culturale complesso, che nasce intorno agli anni Cinquanta e si diffonde negli anni Sessanta-Settanta raccogliendo e raggruppando studiosi di vari settori, filosofi, linguisti, psicologi e antropologi, che esprimono, peraltro, dottrine molto diverse fra loro. Ed è proprio a partire dagli anni ’70, periodo di maggior diffusione dello Strutturalismo, che emergono diverse correnti che, se da un lato assumono il paradigma strutturalista come base e punto di partenza per nuovi approcci metodologici, dall’altro tentano, spesso con successo, di superare lo stesso, che si era ormai ancorato su posizioni rigide da un lato, poco efficaci e coerenti dall’altro. Fra queste c’è appunto la scuola inglese, con uno dei suoi maggiori esponenti, il nostro già ampiamente citato Turner.A questo proposito, voglio qui riportare l’estratto di una lettera che Richard Schechner, scrisse l’8 agosto del 1976, mentre si trovava in India, a Michael Kirby, e apparsa su un numero della rivista The Drama Review25, di cui lo stesso Kirby era, all’epoca, direttore26. Il documento completo consiste di 9 pagine, di cui purtroppo sono riuscito a reperire solamente la prima.Riporto sia l’originale in inglese che la traduzione italiana. La traduzione è stata fatta da me.

Dear TDR:

In T70 Michael Kirby interrogates my production of The Marilyn Project (TMP). Is it structuralist? Is the doubling of cast and environment a metaphor? Is there characterization, thematic emphasis, humor, meaning? After describing the production accurately (though unfortunately not mentioning any of the performers), and noting that it has both narrative and abstract elements, he concludes: “If theatrical structuralism is defined as the primacy of performance structure rather than meaning, it is

23 Ibidem.24 Ibidem. Per le riflessioni sul “come se”, si rimanda anche alle osservazioni di Francesco Remotti, nella nota 4 della parte introduttiva.25 The Drama Review: TDR, Vol. 20, No. 4, Theatrical Theory Issue (Dec., 1976), pp. 117-12526 Michael Kirby nel 1970 aveva preso il posto di Erika Munk come direttore della rivista. Erika Munk, a sua volta, aveva preso il posto di Schechner nel 1969. Schechner fu direttore della rivista dal 1962 al 1969, e poi di nuovo, dopo una lunga interruzione, riprese la direzione nel 1986, ed è ancora oggi l’attuale direttore della rivista.

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probably most accurate to say that for some TMP was a Structuralist play; for others it was not.” This non-conclusion focuses one of the difficulties of Kirby’s theory: his insistence on either/or – on univocal responses: either “structure” or “meaning” is primary; some will find the play structuralist, others will not but presumably nobody will have an ambivalent response or a multivocal response; and if they did this would be a shortcoming either in the spectator or the production. In his brief essay “Structuralism Redefined” (Soho Weekly News, 22 July 1976) Kirby writes: “The answer to the question ‘Is it structuralist?’ can be felt rather than deduced. If you can feel your mind working primarily in certain ways – understanding the arrangements and interrelationships of a performance – the piece is structuralist.” This focuses another difficulty: the subjectivism of Kirby’s theory. Note: he doesn’t say “your approach to the piece is structuralist” or “your reaction or response to the piece is structuralist” but “the piece is structuralist.” Thus according to Kirby, what’s “out there” is what you “feel your mind working” on. This of course leads to the conclusion about TMP: those who worked on it mentally as a structuralist piece thought it was, and those who didn’t didn’t.Both of Kirby’s tendencies – toward either/or univocalism and towards subjectivism – set his kind of structuralism worlds apart from that developed by Claude Levi-Strauss and his followers. Levi-Strauss’s approach is adapted from linguistics and phenomenology and is holistic: that is, it deals with “bundles of relations” which are examined both diachronically (as an unfolding in time) and synchronically (as a completed self-contained system). In this widely-known method of structuralism “meaning” and “significance” – and all the other things Kirby so scrupulously excludes – are definitely included; not as affects pertaining to the examiner or spectator but as important aspects of the “bundles of relations” which comprise the structure being examined. Although not strictly a follower of Levi-Strauss, Victor Turner – whose books The Ritual Process and Dramas, Fields, and Metaphors are of value to theatre theorists – also uses a structuralist approach, which he calls “processual”. Structuralism has been applied mostly to anthropological material – but in areas where this discipline converges on theatre: myth, ritual, and art (including performances).

Trad. It.

Cara TDR (The Drama Review, nda):

Nel numero 70 della rivista Michael Kirby prende in esame il mio allestimento di The Marilyn Project (TMP)27. È, si chiede a proposito del mio lavoro, strutturalista? Il raddoppio del cast e dell’ambientazione scenica costituisce una metafora? C’è, in esso, caratterizzazione, enfasi tematica, comicità, significato? Dopo aver descritto accuratamente il lavoro (pur non avendo menzionato nessuno degli interpreti), e dopo aver fatto notare che esso contiene sia elementi narrativi e descrittivi, che elementi astratti, conclude così: “Se si definisce lo strutturalismo teatrale come il primato della struttura dello spettacolo sul significato, molto probabilmente sarebbe esatto affermare che solo per alcuni TMP era un lavoro strutturalista; per altri invece no.” Questa non-conclusione mette in luce una delle difficoltà della teoria di Kirby: la sua, cioè, insistenza sull’aut-aut, sulle risposte univoche: o la “struttura” o il “significato”, solo uno di questi due elementi è

27 Si riferisce qui all’allestimento che egli diresse nel 1975 dell’opera omonima di David Gaard, del 1974, con la sua compagnia teatrale The Performance Group.

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predominante; alcuni, pertanto, troveranno il lavoro strutturalista, altri invece no, ma presumibilmente nessuno avrà un responso ambivalente o eterogeneo; e se qualcuno l’avesse, questo sarebbe di certo un errore o dello spettatore in questione o del lavoro. Nel suo breve articolo “Ridefinizione dello Strutturalismo” (Soho Weekly News, 22 luglio 1976) Kirby scrive: “La risposta alla domanda “È strutturalista” si può percepire più che dedurre. Se ci si può accorgere che la propria mente segue determinati percorsi – ossia quelli di individuare l’organizzazione complessiva e le reciproche interrelazioni all’interno di uno spettacolo – allora lo spettacolo è strutturalista.” Questo fa altresì emergere un’altra difficoltà: il soggettivismo della teoria di Kirby. Si noti: egli non dice “il tuo approccio allo spettacolo è strutturalista” o “la tua reazione o risposta nei confronti dello spettacolo è strutturalista”, ma “lo spettacolo è strutturalista”. Dunque, secondo Kirby, quello che sta “lì fuori” è ciò su cui si “sente lavorare la propria mente”. Ciò, riguardo al TMP, porta senz’altro alla seguente conclusione: quelli che si sono avvicinati mentalmente ad esso come ad uno spettacolo strutturalista l’hanno considerato tale, e quelli invece che non l’hanno fatto non l’hanno considerato tale.Entrambe le tendenze di Kirby – verso l’aut-aut univoco e verso il soggettivismo – pongono il suo tipo di strutturalismo agli antipodi di quello elaborato da Claude Levi-Strauss e i suoi seguaci. L’impostazione di Levi-Strauss è derivata dalla linguistica e dalla fenomenologia, ed è olistica: ciò significa che si occupa di “insiemi di relazioni” che vengono esaminati sia diacronicamente (come un dispiegamento nel tempo) che sincronicamente (come un sistema finito e conchiuso). In questo largamente conosciuto metodo strutturalista “significato” e “senso” – e tutte le altre componenti che Kirby così scrupolosamente esclude – sono senz’altro inclusi; non come affezioni che appartengono all’analista o allo spettatore, ma come aspetti importanti degli “insiemi di relazioni” che compongono la struttura che viene esaminata. Pur non essendo uno stretto seguace di Levi-Strauss, Victor Turner – i cui libri Il processo rituale e Drammi, campi e metafore sono di utilità per i teorici del teatro – utilizza anch’egli un’impostazione strutturalista, che lui definisce “processuale”. Lo strutturalismo è stato generalmente applicato al materiale antropologico – ma in ambiti dove questa disciplina confluisce nel teatro: mito, rituale, ed arti in genere (compresi gli spettacoli).

Appare subito chiaro, in questa lettera, l’approccio estremamente critico, da parte di Schechner, nei confronti di alcune tendenze rigide e “unilaterali” su cui si era fossilizzata e ancorata la riflessione strutturalista di quel periodo, e nella fattispecie quella di Michael Kirby, la cui teoria risultava tutta chiusa e irrigidita in soluzioni e “risposte univoche” (“univocal responses”), sull’ “aut-aut” (“either/or”), teoria che, a discapito dei suoi intenti iniziali, non può che portare, paradossalmente, ad un estremo “soggettivismo” (“subjectivism”). Contemporaneamente, però, si può notare il confronto, in negativo, che egli fa, alla fine, fra questo tipo di strutturalismo (o per meglio dire, “tendenza strutturalista”) e quello originariamente “elaborato da Claude Levi-Strauss e i suoi seguaci” (“that developed by Claude Levi-Strauss and his followers”). Schechner dice chiaramente che quello di Kirby è un tipo di strutturalismo “agli antipodi” (“worlds apart”) di quello di Levi-Strauss. E spiega, poi, così (ci tengo a riportare tutto il passo): “L’impostazione di Levi-Strauss è derivata dalla linguistica e dalla fenomenologia, ed è olistica: ciò significa

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che si occupa di “insiemi di relazioni” che vengono esaminati sia diacronicamente (come un dispiegamento nel tempo) che sincronicamente (come un sistema finito e conchiuso). In questo largamente conosciuto metodo strutturalista “significato” e “senso” – e tutte le altre componenti che Kirby così scrupolosamente esclude – sono senz’altro inclusi; non come affezioni che appartengono all’analista o allo spettatore, ma come aspetti importanti degli “insiemi di relazioni” che compongono la struttura che viene esaminata.” [“Levi-Strauss’s approach is adapted from linguistics and phenomenology and is holistic: that is, it deals with “bundles of relations” which are examined both diachronically (as an unfolding in time) and synchronically (as a completed self-contained system). In this widely-known method of structuralism “meaning” and “significance” – and all the other things Kirby so scrupulously excludes – are definitely included; not as affects pertaining to the examiner or spectator but as important aspects of the “bundles of relations” which comprise the structure being examined.”]. Questo passaggio ci fa chiaramente capire la visione positiva che Schechner ha dell’originario e, per così dire, “puro”, metodo strutturalista, facente capo a Levi-Strauss, che, come dicevo prima, se da un lato veniva apertamente criticato, in particolare nelle sue più recenti estremizzazioni e “derive” teoriche, dall’altro veniva comunque assunto come base e punto di partenza spesso fondamentale e imprescindibile. Ma quella più importante è l’ultima parte, in cui si riferisce a Victor Turner. Cito di nuovo qui il passo: “Pur non essendo uno stretto seguace di Levi-Strauss, Victor Turner – i cui libri Il processo rituale e Drammi, campi e metafore sono di utilità per i teorici del teatro – utilizza anch’egli un’impostazione strutturalista, che lui definisce ‘processuale’. Lo strutturalismo è stato generalmente applicato al materiale antropologico – ma in ambiti dove questa disciplina confluisce nel teatro: mito, rituale, ed arti in genere (compresi gli spettacoli).” [“Although not strictly a follower of Levi-Strauss, Victor Turner – whose books The Ritual Process and Dramas, Fields, and Metaphors are of value to theatre theorists – also uses a structuralist approach, which he calls “processual”. Structuralism has been applied mostly to anthropological material – but in areas where this discipline converges on theatre: myth, ritual, and art (including performances).”].Qui è messo ancora di più in evidenza questo ambiguo, e peraltro sotto molti aspetti ineludibile, rapporto dei più recenti studi e ricerche con l’eredità dello strutturalismo. In particolare, Victor Turner, “pur non essendo” – scrive Schechner – “uno stretto seguace di Levi-Strauss […] utilizza anch’egli un’impostazione strutturalista, che lui definisce ‘processuale’28 (grassetto mio)”. La conferma di quest’importante eredità, 28 Si può qui, a mio parere, intuire e stabilire un implicito confronto del pensiero e delle teorie di Turner a proposito dei drammi sociali e delle performance culturali (che ad essi collega come momento significativo di quella che lui

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soprattutto per quanto riguarda l’ambito dell’antropologia teatrale e della performance, è apertamente ribadita e messa in luce subito dopo, quando scrive appunto: “Lo strutturalismo è stato generalmente applicato al materiale antropologico – ma in ambiti dove questa disciplina confluisce nel teatro: mito, rituale, ed arti in genere (compresi gli spettacoli).” [“Structuralism has been applied mostly to anthropological material – but in areas where this discipline converges on theatre: myth, ritual, and art (including performances).”]. Quello che vuole far intendere Schechner, a mio parere, è che quest’eredità non può e non deve di certo essere ignorata, ma nemmeno essere accettata passivamente: deve piuttosto essere precisata, perfezionata e ricondotta sui binari di un nuovo tipo di metodo e approccio, che ha nell’analisi “processuale”, basata su dati esperienziali diretti e su dinamiche costantemente interagenti fra loro, in fieri, il suo fulcro, senza essere irrigidita e appiattita in una mera visione di netta polarità, di inconciliabili opposti, come viene appunto fatto da Kirby. E Turner, in questo senso, è stato senz’altro uno dei protagonisti principali che ha “rivoluzionato”, con le sue teorie, gli ambiti e le prospettive di ricerca all’interno delle scienze umane e sociali applicate al teatro e alla performance, peraltro profondamente influenzato, in questo, dal pensiero dello stesso Schechner (ma, come già detto, la cosa è reciproca).

3. CONCLUSIONE

Con questo ho voluto mettere in evidenza l’importanza fondamentale del ruolo svolto, parallelamente ma anche in convergenza, in ambito sia teorico che culturale, da queste due figure, che hanno dato senz’altro input e stimoli fondamentali per le ricerche successive, nel panorama antropologico e teatrale, facendo emergere sempre di più la consapevolezza della necessità di un rapporto e scambio sempre più stretti e intelligenti fra queste due discipline.

chiama “riflessività liminale”) con quelle di Schechner stesso, a proposito della performance e del cosiddetto processo di prova, che per lui costituisce, come già ampiamente detto (si veda la nota 7), un complesso ed intricato percorso “processuale” dell’attore, un momento catalizzatore e culminante, oltre che di conflitto, di riflessione su se stesso e sulla propria identità, quasi una sorta di ripetizione, si potrebbe azzardare, in forma microscopica, della processualità, su più larga scala, dei drammi sociali turneriani. Secondo Turner, come già ampiamente sottolineato nelle pagine precedenti, nelle società in cui viviamo, l’autoanalisi, la riflessione critica sulla società stessa, la valutazione del nostro comportamento sociale, la presentazione metaforica di modalità con cui trovare una risposta all’ambiguità socioculturale, trova una collocazione nella sfera delle arti. È quel processo ciclico che Schechner ha ben rappresentato nel suo disegno ad “otto rovesciato”, su cui mi sono già soffermato (vedi p. 8). Possiamo dire, quindi, che la dimensione “processuale” costituisce un elemento di base in comune alle due teorie, quella di Schechner e quella di Turner. Concludo riportando un passo di Turner: “Secondo me l’antropologia della performance è una parte essenziale dell’antropologia dell’esperienza. In un certo senso, ogni tipo di performance culturale, compresi il rito, la cerimonia, il carnevale, il teatro e la poesia, è spiegazione e esplicazione della vita stessa, come Dilthey sostenne spesso. Mediante il processo stesso della performance, ciò che in condizioni normali è sigillato ermeticamente, inaccessibile all’osservazione e al ragionamento quotidiani, sepolto nelle profondità della vita socioculturale, è tratto alla luce.” (Victor Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 36).

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BIBLIOGRAFIA

- Turner, Victor, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986.