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DIRITTO PENALE CONTEMPORANEO Fascicolo 9/2017

Fascicolo 9/2017DIRETTORE RESPONSABILE Francesco Viganò VICE DIRETTORI Gian Luigi Gatta, Guglielmo Leo, Luca Luparia REDAZIONE Anna Liscidini (coordinatore), Alberto Aimi, Enrico

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DIRITTO PENALE CONTEMPORANEO

Fascicolo9/2017

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DIRETTORE RESPONSABILE Francesco Viganò VICE DIRETTORI Gian Luigi Gatta, Guglielmo Leo, Luca Luparia

REDAZIONE Anna Liscidini (coordinatore), Alberto Aimi, Enrico Andolfatto, Carlo Bray, Alessandra Galluccio, Stefano Finocchiaro, Erisa Pirgu, Serena Santini, Tommaso Trinchera, Maria Chiara Ubiali, Stefano Zirulia

COMITATO SCIENTIFICO Emilio Dolcini, Novella Galantini, Alberto Alessandri, Jaume Alonso-Cuevillas, Giuseppe Amarelli, Ennio Amodio, Francesco Angioni, Roberto Bartoli, Fabio Basile, Hervé Belluta, Alessandro Bernardi, David Brunelli, Silvia Buzzelli, Alberto Cadoppi, Michele Caianiello, Lucio Camaldo, Stefano Canestrari, Francesco Caprioli, David Carpio, Elena Maria Catalano, Mauro Catenacci, Massimo Ceresa Gastaldo, Mario Chiavario, Luis Chiesa, Cristiano Cupelli, Angela Della Bella, Gian Paolo Demuro, Ombretta Di Giovine, Massimo Donini, Giovanni Fiandaca, Roberto Flor, Luigi Foffani, Gabriele Fornasari, Loredana Garlati, Mitja Gialuz, Glauco Giostra, Giovanni Grasso, Antonio Gullo, Giulio Illuminati, Roberto E. Kostoris, Sergio Lorusso, Stefano Manacorda, Vittorio Manes, Luca Marafioti, Enrico Marzaduri, Luca Masera, Jean Pierre Matus, Anna Maria Maugeri, Oliviero Mazza, Alessandro Melchionda, Chantal Meloni, Vincenzo Militello, Santiago Mir Puig, Vincenzo Mongillo, Adan Nieto Martin, Francesco Mucciarelli, Renzo Orlandi, Íñigo Ortiz de Urbina, Francesco Palazzo, Claudia Pecorella, Marco Pelissero, Vicente Pérez-Daudí, Daniela Piana, Lorenzo Picotti, Paolo Pisa, Daniele Piva, Oreste Pollicino, Domenico Pulitanò, Joan Josep Queralt, Paolo Renon, Mario Romano, Gioacchino Romeo, Carlo Ruga Riva, Markus Rübenstahl, Francesca Ruggieri, Marco Scoletta, Sergio Seminara, Rosaria Sicurella, Placido Siracusano, Carlo Sotis, Giulio Ubertis, Antonio Vallini, Paolo Veneziani, Costantino Visconti, Matteo Vizzardi, Francesco Zacchè Diritto Penale Contemporaneo è un periodico on line, ad accesso libero e senza fine di profitto, nato da un’iniziativa comune di Luca Santa Maria, che ha ideato e finanziato l'iniziativa, e di Francesco Viganò, che ne è stato sin dalle origini il direttore nell’ambito di una partnership che ha coinvolto i docenti, ricercatori e giovani cultori della Sezione di Scienze penalistiche del Dipartimento "C. Beccaria" dell'Università degli Studi di Milano. Attualmente la rivista è edita dall’Associazione “Diritto penale contemporaneo”, il cui presidente è l’Avv. Santa Maria e il cui direttore scientifico è il Prof. Viganò. La direzione, la redazione e il comitato scientifico della rivista coinvolgono oggi docenti e ricercatori di numerose altre università italiane e straniere, nonché autorevoli magistrati ed esponenti del foro. Tutte le collaborazioni organizzative ed editoriali sono a titolo gratuito e agli autori non sono imposti costi di elaborazione e pubblicazione. Le opere pubblicate su “Diritto penale contemporaneo” sono attribuite dagli autori con licenza Creative Commons “Attribuzione – Non commerciale 3.0” Italia (CC BY-NC 3.0 IT). Sono fatte salve, per gli aspetti non espressamente regolati da tale licenza, le garanzie previste dalla disciplina in tema di protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio (l. n. 633/1941). Il lettore può condividere, riprodurre, distribuire, stampare, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, cercare e segnalare tramite collegamento ipertestuale ogni lavoro pubblicato su “Diritto penale contemporaneo”, con qualsiasi mezzo e formato, per qualsiasi scopo lecito e non commerciale, nei limiti consentiti dalla licenza Creative Commons “Attribuzione – Non commerciale 3.0 Italia” (CC BY-NC 3.0 IT), in particolare conservando l’indicazione della fonte, del logo e del formato grafico originale, nonché dell'autore del contributo. La rivista fa proprio il Code of Conduct and Best Practice Guidelines for Journal Editors elaborato dal COPE (Comittee on Publication Ethics).

Peer review. Salvo che sia diversamente indicato, tutti i contributi pubblicati nella sezione papers di questo fascicolo hanno superato una procedura di peer review, attuata secondo principi di trasparenza, autonomia e indiscusso prestigio scientifico dei revisori, individuati secondo criteri di competenza tematica e di rotazione all’interno dei membri del Comitato scientifico. Ciascun lavoro soggetto alla procedura viene esaminato in forma anonima da un revisore, il quale esprime il suo parere in forma parimenti anonima sulla conformità del lavoro agli standard qualitativi delle migliori riviste di settore. La pubblicazione del lavoro presuppone il parere favorevole del revisore. Di tutte le operazioni compiute nella procedura di peer review è conservata idonea documentazione presso la redazione.

Modalità di citazione. Per la citazione dei contributi presenti nei fascicoli di Diritto penale contemporaneo, si consiglia di utilizzare la forma di seguito esemplificata: N. COGNOME, Titolo del contributo, in Dir. pen. cont., fasc. 1/2017, p. 5 ss.

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INDICE DEI CONTRIBUTI

PAPERS P. RIVELLO, Effetto estensivo dell’impugnazione e declaratoria di estinzione del reato per prescrizione………………………………………………………………….. 5 G. TRINTI, Principio del tempus regit actum nel processo penale ed incidenza sulle garanzie dell’imputato ………………………………………………………….. 15 A. GASPARRE, Quale «status» per il consulente tecnico del Pubblico Ministero? ……… 43 M. RAMPIONI, Il controverso rapporto tra dichiarazioni spontanee e diritto di difesa: una questione ancora irrisolta…………………………………………………… 55 L. FIERRO, La riforma del ricovero in un ospedale psichiatrico ai sensi del § 63 StGB 69 U. ADAMO, La tutela penale del sentimento religioso nell’ordinamento costituzionale spagnolo. Profili costituzionalistici ……………………………………………... 85 D. ALBANESE, Le sorti del procedimento di prevenzione nel caso di incapacità processuale del soggetto ‘proposto’ ……………………………………………… 117

NOVITÀ LEGISLATIVE – LEGGI APPROVATE P. RIVELLO, La revisione del modello definitorio dell’infermità mentale prevista dalla riforma Orlando ………………………………………………………………… 129

NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI – GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE G. LEO, Ancora un episodio nella storia dei conflitti tra poteri riguardo al sequestro di Abu Omar ed alle indagini collegate …………………………………………….. 133 G. LEO, Un nuovo profilo di illegittimità nella disciplina della recidiva e dei suoi effetti indiretti …………………………………………………………………………. 136 S. SANTINI, Mancata estensione della non punibilità per particolare tenuità del fatto alla ricettazione di particolare tenuità: infondata (ma non troppo) la relativa questione di legittimità ………………………………………………………….. 142

NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI – SEZIONI UNITE F. VIGANÒ, Le Sezioni Unite ridisegnano i confini del delitto di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione alla luce della sentenza De Tommaso: un rimarchevole esempio di interpretazione conforme alla CEDU di una fattispecie di reato …………………………………………………………... 146 A. GIUDICI, Furto con destrezza e distrazione del proprietario: le Sezioni Unite scelgono la via più restrittiva ……………………………………………………………... 151 D. POLETTI, Non c’è due senza tre: torna alle Sezioni Unite la questione dei caratteri fondanti la connessione teleologica ……………………………………………… 153

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NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI – GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ P. RIVELLO, Una decisione della Cassazione che integra (e non contraddice) le conclusioni delle Sezioni Unite, in tema di priorità fra dichiarazione di estinzione del reato e pronuncia di nullità della sentenza ……………………….. 156 E. SYLOS LABINI, Richiesta di messa alla prova in seguito a opposizione a decreto penale: la competenza è del giudice per le indagini preliminari …………………………. 161 L. NINNI, Aggravante del metodo mafioso: la Suprema Corte propone una sintesi degli elementi probatori rilevanti per l’integrazione della circostanza di cui all’art. 7 d.l. 152/1991 ……………………………………………………………………. 165 L. ROVINI, È applicabile l'aggravante ex art. 80, comma 1, lett. G), d.p.r. 309/1990 al traffico di sostanze stupefacenti nei pressi dell'università? …………………... 170 F. VIGANÒ, Strasburgo ha deciso, la causa è finita: la Cassazione chiude il caso Contrada 173 S. BERNARDI, La Suprema Corte torna sui limiti di operabilità dello strumento della “revisione europea”: esclusa l’estensibilità ai “fratelli minori” del ricorrente vittorioso a Strasburgo ………………………………………………………….. 177 L. GIORDANO, La prima applicazione dei principi della sentenza "Scurato" nella giurisprudenza di legittimità …………………………………………………… 183

NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI – GIURISPRUDENZA DI MERITO E. ZUFFADA, Revoca prefettizia della patente ex art. 120 codice della strada: una "sanzione" ragionevole? ………………………………………………………... 192 M. ARANCI, Aspetti problematici delle nuove lesioni colpose stradali (art. 590-bis c.p.): alcuni primi nodi all’esame del GIP di Milano ………………………………….. 198 OSSERVATORIO SOVRANAZIONALE – UNIONE EUROPEA: GIURISPRUDENZA

F. VIGANÒ, Le conclusioni dell'Avvocato Generale nei procedimenti pendenti in materia di ne bis in idem tra sanzioni penali e amministrative in materia di illeciti tributari e di abusi di mercato …………………………………………………… 206

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EFFETTO ESTENSIVO DELL’IMPUGNAZIONE E DECLARATORIA DI ESTINZIONE DEL REATO PER PRESCRIZIONE

Commento a Cass., Sez. V, ord. 17 maggio 2017 (dep. 10 luglio 2017), n. 33324,

Pres. Vessichelli, Rel. Caputo, Ric. P.G. Napoli in proc. Visconti

di Pierpaolo Rivello

SOMMARIO: 1. La questione rimessa alle Sezioni Unite. – 2. Le due differenti opzioni interpretative. – 3. Le considerazioni ricavabili dal prospettato contrasto esegetico.

1. La questione rimessa alle Sezioni Unite.

Nel sintetizzare brevemente la vicenda che ha condotto la Quinta Sezione penale

della Corte di Cassazione ad operare la rimessione alle Sezioni unite occorre precisare, a fini di chiarezza, che nel caso in esame ad una prima ordinanza di rimessione ha fatto seguito una decisione di restituzione degli atti da parte del Primo Presidente della Corte di Cassazione, che ha poi determinato un’ulteriore rimessione.

L’intera questione si incentra sull’interrogativo se l’ambito di operatività dell’istituto delineato dall’art. 587 c.p.p., concernente il fenomeno estensivo dell’impugnazione1 (tradizionalmente bipartito in virtù della distinzione tra estensione dell’impugnazione ed estensione della sentenza2), interessi anche tutte le ipotesi di dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

1 Va notato che, sebbene comunemente si utilizzi la dizione di “effetto estensivo dell’impugnazione” (recependo in tal modo la formulazione adottata dalla rubrica dell’art. 203 del codice di procedura penale del 1930), detta terminologia non appare pienamente corretta, in quanto, come è stato sottolineato (v. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, 128), tale fenomeno non si caratterizza alla stregua «di un immanente effetto dell’impugnazione», e rappresenta solo una possibile «evenienza relativa a processi plurisoggettivi». Al riguardo V. MELE, sub art. 587, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. VI, Torino, 115, rileva infatti che l’unico ed indefettibile effetto dell’impugnazione consiste nel «dovere decisorio del giudice cui è assegnato il riesame del provvedimento impugnato, anche quando questo si concreti nella mera dichiarazione di inammissibilità del gravame proposto». 2 Come osservato da M. GIALUZ, sub art. 587, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, V Ed., Milanofiori Assago, 2017, 3076 «la prima allude al diritto per il non impugnante di partecipare al giudizio di gravame, mentre la seconda comporta il diritto per il non impugnante di beneficiare della decisione favorevole pronunciata nei confronti dell’impugnante, benché non abbia partecipato al giudizio di gravame». A sua volta R. FONTI, L’effetto estensivo dell’impugnazione, Padova, 2013, 63 ss., nel delineare i profili dinamici dell’effetto estensivo, rileva che l’estensione dell’impugnazione

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Venendo agli specifici dettagli, la problematica derivava dal fatto che in un procedimento celebrato innanzi al Tribunale di Napoli la sentenza di condanna a carico dei due coimputati era stata appellata da uno solo di essi.

La Corte di appello di Napoli peraltro, ritenendo applicabile il disposto dell’art. 587 c.p.p., aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti di entrambi i soggetti, essendo i reati estinti per prescrizione. Il Procuratore Generale presso la predetta Corte di appello aveva proposto ricorso per cassazione, richiamandosi alla giurisprudenza prevalente in tema di effetto estensivo dell’impugnazione.

Peraltro, come è stato ampiamente rimarcato dalla Quinta Sezione della Cassazione, alla quale fu assegnato il ricorso, era ravvisabile un contrasto in ordine alla seguente questione interpretativa, così delineata dai giudici di legittimità: «se l’effetto estensivo ex art. 587 cod. proc. pen. della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione operi in favore del coimputato non impugnante solo qualora detta causa estintiva sia maturata prima dell’irrevocabilità della sentenza nei confronti dello stesso ovvero – fermo restando il presupposto che l’impugnazione non sia fondata su motivi esclusivamente personali dell’impugnante – anche nell’ipotesi in cui la causa di estinzione sia maturata dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna nei confronti del coimputato non impugnante».

La Quinta Sezione, a seguito di un’attenta analisi ricognitiva, era ben consapevole del fatto che la giurisprudenza assolutamente maggioritaria, confermata anche dalla pronuncia Vattani delle Sezioni unite3, era orientata a favore della soluzione in base alla quale l’effetto estensivo dell’impugnazione, per quanto concerne la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, andrebbe ritenuto operante solo qualora la causa estintiva fosse maturata prima dell’irrevocabilità della sentenza nei confronti del coimputato non impugnante (o del coimputato che avesse proposto un’impugnazione inammissibile) .

Veniva però preso atto della sussistenza di alcune decisioni di segno contrario, ed in particolare della puntuale ed articolata presa di posizione ad opera della pronuncia Mikulic del 20134, successivamente richiamata anche da altre pronunce.

Ciò permetteva di ritenere tuttora sussistente un contrasto in ordine a detta questione, pur successivamente alla decisione in c. Vattani, tale da giustificare la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite.

Tra l’altro, i giudici della V Sezione osservavano che, per i diversi tempi di deliberazione delle due pronunce, le Sezioni unite in c. Vattani non avevano potuto

consiste «nel diritto del non impugnante (o del soggetto la cui impugnazione sia stata dichiarata inammissibile) che versi in una delle ipotesi di cui all’art. 587 c.p.p. di partecipare al giudizio instaurato dall’imputato che ha proposto un’impugnazione ammissibile», mentre con la terminologia di “estensione della sentenza” si fa riferimento «al fenomeno in forza del quale la decisione di riforma o di annullamento, adottata dal giudice ad quem su impugnazione di una parte, giova anche ai soggetti non impugnanti, nei casi e alle condizioni previste dall’art. 587 c.p.p.. a prescindere dall’avvenuta partecipazione o meno al giudizio di impugnazione». 3 Cass., sez. un., 20 dicembre 2012, n. 19054/13, Vattani, in Ced Cass., 255297. 4 Cass., sez. III, 24 gennaio 2013, Mikulic, in Proc. pen. e giustizia, 2013, n. 5, 71 ss., con nota adesiva di F.R. MITTICA, Operatività della prescrizione “postuma” nei confronti dell’imputato non appellante.

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valutare le argomentazioni sviluppate, a sostegno del contrapposto orientamento, dalla decisione Mikulic.

Tuttavia, come già osservato, alla rimessione fece seguito, a distanza di venti giorni, l’adozione del provvedimento di cui all’art. 172 norme att. c.p.p. (Restituzione alla sezione di ricorsi già rimessi alle Sezioni unite).

Nel restituire gli atti «per una nuova valutazione circa la effettiva sussistenza di un attuale e consapevole contrasto giurisprudenziale in punto di operatività dell’effetto estensivo della impugnazione», il Primo Presidente rilevò infatti che su questo tema di diritto, «a fronte di una giurisprudenza delle Sezioni Unite espressasi con chiarezza nel senso della non operatività dell’effetto estensivo della impugnazione », l’ordinanza di rimessione, pur ritenendo esistente un “contrasto attuale”, si era limitata a menzionare la pronuncia Mikulic (che comunque, essendo stata depositata prima della decisione in c. Vattani, non aveva potuto tener conto delle argomentazioni sviluppate dalle Sezioni Unite), nonché la pronuncia Guardì, che, sebbene fosse successiva alla sentenza Vattani, non aveva esplicitato le ragioni in base alle quali era stata accolta in tal caso una difforme soluzione interpretativa.

Il Primo presidente osservò parimenti che l’ordinanza di rimessione della Quinta Sezione esprimeva «soltanto considerazioni indicative, in tesi, di una problematicità della questione, senza tuttavia prendere espressamente posizione per una soluzione o per l’altra; e in tal modo non soddisfacendo il rigoroso presupposto (contrasto di giurisprudenza effettivo o quanto meno potenziale) considerato dall’art. 618 cod. proc. pen. ai fini della investitura delle Sezioni Unite».

Fu comunque rammentata la possibilità di formulare un nuovo provvedimento di rimessione, a patto di delineare «con autonoma e approfondita motivazione, le ragioni della plausibilità di un orientamento contrario a quello già espresso dalle Sezioni Unite».

In effetti la Quinta Sezione addivenne a quest’ultima soluzione, con una successiva rimessione volta a tener conto dei rilievi espressi dal Primo Presidente.

In questa seconda ordinanza i giudici di legittimità non si limitarono a segnalare la persistenza del contrasto esegetico, ma presero nettamente posizione a favore dell’impostazione delineata, in particolare, dalla pronuncia Mikulic, sottolineandone la piena aderenza al dettato normativo.

2. Le due differenti opzioni interpretative. Cerchiamo ora di soffermarci, in maniera maggiormente analitica, sulle

contrapposte soluzioni date a questa problematica e sugli argomenti sviluppati a sostegno delle stesse.

Per quanto concerne l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario5, bisogna porre in luce che buona parte delle pronunce che ad esso si ispirano appaiono caratterizzate 5 V. in tal senso, ad esempio, Cass., sez. II, 25 novembre 2016, n. 9731/17, Fiore, in Ced Cass., 269219; Cass., sez. V, 27 gennaio 2016, n. 15623, Di Martino, ivi, 266551; Cass., sez. un., 20 dicembre 2012, n. 19054/13, Vattani, cit.; Cass., sez. II, 20 maggio 2009, n. 26078, P.G. in proc. Borrelli, in Ced Cass., 244664; Cass., sez. VI,

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da uno sbrigativo richiamo ai precedenti conformi e non esplicitano le ragioni atte a giustificare il suo accoglimento. In altri termini, questo orientamento, proprio in quanto dominante, non si preoccupa (fatte salve limitate eccezioni) di ripercorrere i passaggi logici che dovrebbero evidenziarne la preferibilità.

Nella stessa pronuncia Vattani a Sezioni Unite (peraltro la rimessione alle Sezioni unite non riguardava questa specifica problematica, in quanto verteva sul tema, di diritto sostanziale, concernente l’individuazione della fattispecie entro cui sussumere l’uso indebito di un apparato telefonico, e più precisamente di un apparecchio cellulare) i giudici di legittimità, in relazione ad un procedimento a carico di due coimputati, dopo aver affermato che la sentenza impugnata doveva essere annullata senza rinvio nei confronti dell’appellante, in relazione ad uno dei capi di imputazione, essendo il reato estinto per intervenuta prescrizione, rilevarono semplicemente che la declaratoria di estinzione non poteva invece essere estesa all’altro coimputato, in forza della regola di cui all’art. 587 c.p.p. «essendosi nei suoi confronti consolidato il giudicato di colpevolezza prima del verificarsi dell’effetto estensivo, venuto a maturazione in ragione del protrarsi del decorso del termine di prescrizione successivamente alla proposizione dei ricorsi ».

È stato sottolineato in dottrina6 come detta pronuncia, nell’aderire senza incertezze all’impostazione volta ad escludere che la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione possa estendersi al coimputato non impugnante nei cui confronti si sia formato il giudicato, non solo non abbia ritenuto di doversi soffermare sulle considerazioni che sorreggono tale linea interpretativa ma non abbia neppure menzionato la giurisprudenza orientata in senso contrario.

Tra le poche decisioni che hanno svolto un’ approfondita disamina tendente a porre in luce le motivazioni atte a supportare questo indirizzo esegetico, va indubbiamente menzionata la pronuncia Russo7, con cui è stato affermato che qualora uno solo dei due coimputati impugni la decisione sfavorevole, facendo valere l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, laddove l’altro rimanga invece inerte, determinando così il passaggio in giudicato della pronuncia nei suoi confronti, i motivi di impugnazione del coimputato appellante risultano motivi “personali”, in quanto l’altro coimputato, stante l’intervenuta irrevocabilità della decisione per quanto concerne la sua posizione, versa in una situazione del tutto differente, ostativa alla rilevabilità della prescrizione.

Nel ribadire che il coimputato non appellante non può beneficiare della prescrizione maturata dopo tale sopravvenuta irrevocabilità, si è rilevato come sia «di palese evidenza» che in detta situazione «rispetto a tale soggetto il successivo decorso del tempo non può più esplicare alcuna influenza», sottolineandosi come, al contrario, qualora la prescrizione si sia verificata prima del passaggio in giudicato «in tale evenienza, l’estinzione del reato fatta valere dal coimputato impugnante deve estendersi 18 marzo 2003, Cammardella, n. 23251, ivi, 226007; Cass., sez. I, 23 ottobre 2000, n. 12369, Russo, ivi, 217393; Cass., sez. VI, 12 dicembre 1994, n. 2381/95, Zedda, ivi, 201245. 6 R. FONTI, L’effetto estensivo dell’impugnazione, cit., 127. 7 Cass., sez. I, 23 ottobre 2000, n. 12369, Russo, cit.

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anche al non impugnante, per la ragione che si tratta di impugnazione fondata su motivi non esclusivamente personali».

Dunque, secondo questa tesi, se la prescrizione matura in data successiva all’irrevocabilità della sentenza nei confronti del coimputato non appellante, quest’ultimo perde ogni diritto a farla valere, anche qualora l’altro coimputato abbia invece ritualmente appellato, giacché in tal caso l’impugnazione volta a far rilevare l’estinzione del reato assume una valenza meramente “personale”.

Tali concetti risultano ribaditi con chiarezza dalla recente sentenza Di Martino8, ove nuovamente si evidenzia il carattere personale della causa estintiva della prescrizione, che rappresenta la «conseguenza diretta di scelta esclusivamente propria del coimputato impugnante non collegata a vizio di procedura nel comune procedimento ovvero al merito della comune accusa». Si ribadisce infatti che occorre tener conto della profonda distinzione intercorrente tra la posizione dell’appellante, nei cui confronti opera la causa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, e quella del non appellante, nei cui confronti la prescrizione risulti maturata solo successivamente alla formazione del giudicato.

Viene peraltro precisato che, anche con riferimento all’intervenuta estinzione per prescrizione, non si può più parlare di motivi esclusivamente personali (e si verifica pertanto il fenomeno estensivo dell’impugnazione), qualora «l’effetto estintivo si sia verificato prima del passaggio in giudicato della sentenza nei riguardi del coimputato non impugnante, poiché in tale ipotesi la causa estintiva appare oggettiva poiché svincolata rispetto alla scelta processuale del singolo coimputato impugnante».

Passiamo ora ad esaminare la tesi contrapposta, volta a ritenere sussistente l’effetto estensivo dell’impugnazione non solo qualora la prescrizione nei confronti del coimputato non impugnante interviene antecedentemente alla formazione del giudicato, ma anche se essa matura in data successiva9.

Occorre tener conto al riguardo delle ampie argomentazioni, dirette a supportare detta conclusione, sviluppate dalla pronuncia Mikulic10.

In questo caso i giudici di legittimità, soffermandosi sul dettato letterale dell’art. 587 c.p.p., hanno cercato di dimostrare come le limitazioni operate dalla contrapposta soluzione esegetica finiscano, di fatto, col tradursi in una compressione, non avallata da alcuna specifica previsione, dell’ambito di operatività della norma in esame.

Poiché l’art. 587 c.p.p., tendente ad evitare una contraddittorietà tra i giudicati11, enuncia chiaramente che in caso di concorso di più persone nello stesso reato

8 Cass., sez. V, 27 gennaio 2016, n. 15623, Di Martino, cit. 9 A favore di detta impostazione v. Cass., sez. III, 24 gennaio 2013, Mikulic, cit.; Cass., sez. IV, 11 novembre 2004, Antoci, in Arch. n. proc. pen.,2006, 219; Cass., sez. III, 4 novembre 1997, Giampaoli, ivi, 1998, 74; Cass., sez. III, 8 luglio 1997, Curello, in Cass. pen., 1999, 578. 10 Cass., sez. III, 24 gennaio 2013, n. 10223, Mikulic, cit. 11 V. in tal senso, per tutti, G. SPANGHER, voce Impugnazioni penali, in Dig. disc. pen., vol. VI, Torino, 1992, 680; G. TRANCHINA, voce Impugnazione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Aggiornamento, vol. II, Milano, 1998, 409. Peraltro secondo A. NAPPI, Ambito oggettivo ed estensione soggettiva dei giudizi di impugnazione, in Cass. pen., 2009, 3251, «la vera ratio dell’effetto estensivo dell’impugnazione non è […] nell’esigenza di prevenire contrasti di giudicati, come talora si sostiene […] ma è nella logica dell’impugnazione. È la logica

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l’impugnazione proposta da uno degli imputati, purché non risulti fondata su motivi esclusivamente personali, giovare anche agli altri concorrenti non impugnanti, è stata censurata la tesi interpretativa secondo cui il passaggio in giudicato della sentenza nei confronti di uno dei coimputati, conseguente alla mancata proposizione dell’impugnazione da parte di quest’ultimo, o alla proposizione di un’impugnazione inammissibile, renderebbe “personale” il motivo proposto dall’imputato impugnante.

Si è affermato che una simile conclusione contrasterebbe con la ratio ispiratrice dell’art. 587 c.p.p. Infatti, il fenomeno dell’estensione dell’impugnazione, volto ad impedire, come già accennato, il conflitto teorico di giudicati, e consistente «nel consentire ad un soggetto che non ha proposto impugnazione, o ne ha proposta una inammissibile, di giovarsi degli effetti favorevoli derivanti da un’impugnazione proposta da un altro soggetto, col quale il primo abbia un interesse identico, affine o collegato»12, induce necessariamente a ritenere che in tal modo «si debba giungere a rimuovere il passaggio in giudicato della sentenza nei confronti dell’imputato che non abbia proposta impugnazione».

Al fine di confutare la fondatezza dell’opposto criterio esegetico, viene inoltre sottolineato come, laddove invece si ritenga che ciò «renda personale il motivo (stante il passaggio in giudicato per uno ed il mancato passaggio per l’altro), detta estensione non potrebbe in realtà mai operare»13.

L’unica obiezione al riguardo è che in realtà l’opposta tesi interpretativa non si limita ad escludere l’effetto estensivo in caso di formazione del giudicato nei confronti del non impugnante, ma tende a soffermarsi sulla “peculiarità” dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione rispetto alle altre ipotesi.

Si potrebbe cioè sostenere che, mentre l’impugnazione volta a censurare i profili di attendibilità di una deposizione riguardante la posizione dei due coimputati appare certamente basata su motivi non esclusivamente personali, nel caso della prescrizione questa conclusione non è così scontata, anche perché, come rilevato dal Procuratore generale della Corte di appello di Napoli, nel ricorso per cassazione che ha dato origine alla successiva rimessione alle Sezioni Unite, «l’ an e il quando della prescrizione non operano oggettivamente, ma variano a seconda dell’imputato (avuto riguardo, ad esempio, alla recidiva)».

In effetti, come è stato riconosciuto anche dalla seconda ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, non necessariamente la fattispecie estintiva del reato risulta comune anche al coimputato non impugnante; ciò non si verifica, ad esempio, qualora «vengano

dell’impugnazione che impone di definirne gli effetti (soggettivamente) estensivi entro i limiti dei suoi effetti (oggettivamente) devolutivi. Infatti, quando il giudice dell’impugnazione deve decidere su un tema che coinvolga più parti, è ragionevole che decida anche in favore di chi la sentenza non l’abbia impugnata». 12 M. GALLO-ORSI, voce Impugnazione (effetto estensivo della), in Dig. disc. pen., vol. X, Appendice, Torino, 1995, 680. 13 A favore di questa conclusione v., in dottrina, C. VALENTINI, I profili generali della facoltà di impugnare, in Le impugnazioni penali, Trattato diretto da A. Gaito, vol. I, Torino, 1998, 266 ss., ove si osserva che le cause di estinzione del reato, in quanto dichiarabili d’ufficio, nulla hanno a che fare con la personalità o meno dei motivi di impugnazione; in tal senso v. anche R. FONTI, L’effetto estensivo dell’impugnazione, cit., 129; nonché A. NAPPI, Ambito oggettivo ed estensione soggettiva dei giudizi di impugnazione, in Cass. pen., 2009, 3252.

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in rilievo elementi che comportino la differenziazione dei termini prescrizionali per i due imputati».

Esaurito questo inciso, occorre riconoscere che tutte le ulteriori considerazioni sviluppate dalla pronuncia Mikulic appaiono pienamente condivisibili.

È stato ad esempio sgombrato il campo da ogni tentativo diretto a far ritenere significativo il richiamo operato dall’art. 587 c.p.p. alla nozione di «imputati» e non a quella di «condannati».

È in realtà proprio il meccanismo delineato dalla norma in esame a far sì che, a prescindere dalla specifica terminologia accolta dal legislatore, a seguito della mancata impugnazione da parte di uno dei coimputati la sentenza nei suoi confronti diventi irrevocabile, ed egli dunque venga ad assumere la veste di condannato.

Bisogna altresì rimarcare come la sentenza Mikulic, nel richiamare la pronuncia Cacciapuoti delle Sezioni Unite14, abbia rilevato correttamente che quest’ultima non può essere giudicata come un punto di passaggio lungo il cammino che ha condotto, tra l’altro, alla sentenza Vattani.

Al contrario, essa contiene delle considerazioni che sembrano semmai confermare la validità dell’opposta soluzione esegetica.

Infatti la pronuncia Cacciapuoti, sottolineando che l’effetto estensivo dell’impugnazione assume la natura di «rimedio straordinario capace di revocare il giudicato in favore del non impugnante», rendendolo partecipe del beneficio ottenuto dal coimputato in virtù dell’impugnazione, sviluppa un’analisi orientata verso la soluzione successivamente delineata dalla pronuncia Mikulic, volta a ritenere che il coimputato non impugnante possa comunque fruire della dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, anche laddove sia maturata nei suoi confronti dopo l’intervenuta formazione del giudicato, che in tal caso risulta “travolto” dall’effetto estensivo dell’impugnazione.

Abbiamo già osservato come le conclusioni a cui è giunta la pronuncia Mikulic siano state espressamente condivise dalla seconda ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite. Essa ha inoltre aggiunto un ulteriore rilievo, volto a confutare le affermazioni contenute nella sentenza Di Martino, tendenti ad escludere che il mancato riconoscimento della causa estintiva del reato per prescrizione nei confronti del non impugnante possa determinare una contraddittorietà tra giudicati, nonostante la diversa soluzione accolta per il coimputato appellante.

Nell’ordinanza di rimessione viene infatti osservato che l’impostazione così prospettata, più che avallare la distinzione «in relazione al tempo di perfezionamento della causa estintiva stessa (prima o dopo l’irrevocabilità della sentenza nei confronti del coimputato non impugnante)», indurrebbe «ad escludere tout court che la prescrizione del reato rientri nella disciplina dettata dall’art. 587 cod. proc. pen.: esito, questo, non consentito dalla stessa disciplina codicistica, che […] non è compatibile con opzioni interpretative che sottraggano all’ambito applicativo dell’istituto la fattispecie estintiva in esame».

14 Cass., sez. un., 24 marzo 1995, n. 9, Cacciapuoti, in Cass. pen., 1995, 2497 ss., con nota di R. M. SPARAGNA.

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3. Le considerazioni ricavabili dal prospettato contrasto esegetico. La diversa focalizzazione dell’attenzione sulle varie sfaccettature della tematica

in esame può dunque condurre ad esiti interpretativi radicalmente differenti. Trattasi del resto di una problematica assai risalente nel tempo, visto che l’istituto

non ha conosciuto particolari modifiche strutturali o mutazioni genetiche nel corso delle varie codificazioni, e che già nel diritto intermedio veniva sottolineato che si plures complices sint condemnati et unus appellatus, eius appellatio alii prodest.

Il codice Finocchiaro-Aprile del 1913, al secondo comma dell’art. 131 così stabiliva: «La dichiarazione fatta e i motivi addotti da una delle persone imputate di concorso in uno stesso reato giovano di diritto alle altre» (in relazione a detta ipotesi peraltro non veniva operata alcuna distinzione tra motivi personali di impugnazione e motivi non personali); il successivo terzo comma, introducendo invece detta distinzione, stabiliva che, parimenti, «nei casi di connessione di reati, o unione di giudizi, i motivi di nullità opposti da uno fra i più imputati giovano a tutti gli altri, a meno che si riferiscano personalmente a chi propone l’impugnazione».

Tale impostazione venne poi ribadita dal successivo codice del 1930, che peraltro all’art. 203, comma 1, delimitò in maniera assai netta l’operatività dell’effetto estensivo dell’impugnazione ai soli motivi non esclusivamente personali15.

Occorre prendere atto di una linea giurisprudenziale maggioritaria sostanzialmente costante, almeno a partire dal codice del 1913, nel ritenere che l’impugnazione del coimputato non impedisca l’esecutorietà della sentenza e il suo passaggio in giudicato nei confronti del non impugnante, e che la decisione di accoglimento dell’impugnazione operi come causa eccezionale di rescissione di un giudicato già formatosi.

Talora peraltro è sembrata mancare una seria volontà di rivisitazione di concetti dati per scontati.

Venendo ai nostri giorni, la conclusione a cui perviene l’orientamento esegetico maggioritario costituisce in effetti il frutto di un’elaborazione giurisprudenziale che sembra talora più attenta all’indicazione dei precedenti conformi che alla disamina del dettato normativo.

Essa appare incentrata sulla “peculiarità” della prescrizione e delinea una differenziazione tra connotazioni “personali” e “non personali” dell’impugnazione, a seconda del fatto che nei confronti del coimputato non impugnante la prescrizione maturi anteriormente o posteriormente rispetto al passaggio in giudicato, che in qualche modo pare non totalmente rispondente al principio in base al quale l’effetto estensivo

15 In base all’art. 203 c.p.p. 1930 «nel caso di concorso di più persone nello stesso reato, la dichiarazione d’impugnazione proposta da una di esse e i motivi da questa addotti, purché non siano esclusivamente personali, giovano anche alle altre. Nel caso di unione di procedimenti per reati diversi, l’impugnazione proposta da un imputato giova a tutti gli altri imputati soltanto se i motivi riguardano violazioni della legge processuale e non sono esclusivamente personali».

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dell’impugnazione “travolge” il giudicato successivamente instauratosi nei confronti del non impugnante.

Certamente, qualora si accogliesse invece la tesi secondo cui l’impugnazione da parte di uno dei coimputati rappresenta una condizione sospensiva del processo di formazione del giudicato anche nei confronti del non impugnante16 (detta soluzione, risultata sempre minoritaria in giurisprudenza, trova invece una positiva valutazione in dottrina17), non potrebbe poi essere prospettata la soluzione, sviluppata dalla giurisprudenza maggioritaria, volta ad operare una distinzione, in tema di rilevabilità dell’effetto estintivo della prescrizione a favore del non impugnante, a seconda che nei suoi confronti risulti o meno instaurato il giudicato.

Non a caso la dottrina favorevole a questa impostazione evidenzia come essa permetta di giungere ad epiloghi ermeneutici assai più lineari in relazione a simili problematiche, laddove l’orientamento giurisprudenziale prevalente è costretto ad elaborare al riguardo «soverchianti differenziazioni e sub-distinzioni»18 dei vari presupposti, «destinate a tradursi in prese di posizione opinabili se non anche, in determinati casi, intimamente contraddittorie rispetto alle stesse premesse di partenza»19.

16 V. a favore di questa impostazione, sotto la vigenza del c.p.p. 1930, Cass., sez. un., 18 giugno 1983, Carbonello, in Cass. pen., 1994, 488; nonché Cass., sez. V, 17 gennaio 1979, Pesci, in Giur. it., 1980, II, 306. 17 Ad esempio P. DUBOLINO, Effetto estensivo dell’impugnazione e sospensione dell’esecuzione: una discutibile decisione della Cassazione, in Arch. n. proc. pen., 1994, 815 ss., nel rilevare come l’irrevocabilità della sentenza nei confronti del coimputato non impugnante comporterebbe, quale automatica conseguenza, ai sensi dell’art. 650, comma 1, c.p.p., l’esecutività della stessa, con il rischio di veder espiata una pena destinata ad essere successivamente cancellata, ha evidenziato la preferibilità di un indirizzo interpretativo volto a negare il carattere di irrevocabilità della sentenza di condanna nei confronti del non impugnante. A tal fine viene osservato che occorrerebbe far leva sul dettato dell’art. 587, comma 1, c.p.p., secondo cui l’impugnazione che non sia fondata su motivi esclusivamente personali «giova anche agli altri imputati». Si afferma che quest’ultima espressione dovrebbe essere letta «nel senso che l’impugnazione si considera, ab origine, come se fosse stata proposta da ciascuno degli imputati con il naturale effetto, quindi, di impedire, per tutti, il passaggio in giudicato della sentenza». A sua volta ALTIERI, Estensione dell’impugnazione. Breve commento all’art. 587 c.p.p., in Arch. n. proc. pen., 1998, 504, così afferma: «La produzione di impugnazione estensibile impedisce ipso iure la formazione del giudicato senza limite soggettivo. L’estensione dell’impugnazione ha la funzione di comunicare al non impugnante tutti gli effetti utili dell’impugnazione realizzando una fattispecie di solidarietà processuale: conseguenza è quella di rimandare il momento formativo del giudicato per tutti i soggetti coinvolti, siano o no impugnanti, al verificarsi della decisione ultima sul fatto e sul processo». In senso adesivo a detta impostazione v. anche A. DE CARO, Il sistema delle impugnazioni penali: legittimazione, forme e termini, in L. KALB (a cura di), Impugnazioni. Esecuzione penale. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, in Procedura penale. Teoria e pratica del processo, diretto da G. Spangher - A. Marandola – G. Garuti – L. Kalb, vol. IV, Milanofiori Assago, 2015, 73; A. MARANDOLA, L’“effetto estensivo” dell’impugnazione: questioni applicative e sistematiche, in Dir. pen. proc., 2012, 488 ss. 18 C. VALENTINI, I profili generali della facoltà di impugnare, cit., 268. Detta A. infatti, dopo aver sottolineato come la problematica in esame potrebbe risolversi agevolmente solo accogliendo la tesi volta a ritenere che «la sentenza cumulativa diventa irrevocabile simultaneamente per tutti i coimputati», osserva appunto che «l’opposta opinio giurisprudenziale conduce a soverchianti differenziazioni e sub-distinzioni, a seconda che si ritenga o meno preclusiva della declaratoria la sopravvenienza della causa di estinzione del reato rispetto al momento in cui la sentenza diventa irrevocabile per il non impugnante». 19 R. FONTI, L’effetto estensivo dell’impugnazione, cit., 126 e 127.

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Si osserva infatti che il discrimen fondato sul momento in cui matura la causa estintiva del reato perderebbe di rilievo e consistenza laddove si escludesse l’irrevocabilità della sentenza nei confronti del non impugnante, giacché in tal caso «posto che il non impugnante è ancora un imputato il cui capo di sentenza non è passato in giudicato, non assume alcuna valenza preclusiva la circostanza che la causa estintiva, concernente il reato per il quale è coimputato dell’impugnante, sia preesistente o sopraggiunga nel corso del giudizio ad quem»20.

Peraltro anche la tesi in base alla quale l’intervenuta decisione sull’impugnazione formulata da un coimputato rappresenta una condizione risolutiva del giudicato formatosi nei confronti del non impugnante21 non appare di per sé ostativa al riconoscimento della fondatezza della conclusione volta ad individuare nell’art. 587 c.p.p. uno strumento atto a “travolgere” il giudicato formatosi nei confronti del non impugnante, operante in tutte le ipotesi in cui i motivi di impugnazione non risultino esclusivamente personali.

A dimostrazione della natura estremamente complessa della questione basterebbe rilevare come una delle più significative analisi sul punto, rappresentata dalla pronuncia Cacciapuoti a Sezioni Unite, sia stata indicata quale argomento a sostegno da parte di entrambi gli opposti schieramenti esegetici.

In realtà la pronuncia Cacciapuoti ebbe il merito di fissare con estrema nitidezza le coordinate dell’istituto processuale dell'estensione dell’impugnazione in favore del coimputato non impugnante, ponendo in luce due fondamentali concetti.

Da un lato infatti essa ritenne che, in caso di successivo accoglimento del motivo non esclusivamente personale dedotto dall’impugnante, l’istituto operasse come rimedio straordinario volto a permettere la revoca del giudicato formatosi nei confronti del non impugnante; d’altro canto affermò che in pendenza del giudizio sull’impugnazione si può pervenire all’esecutorietà della sentenza nei confronti del non impugnante. Sarebbe comunque presuntuoso sostenere, conclusivamente, che è ravvisabile una soluzione interpretativa “scontata”; occorre semmai condividere l’autorevole (e rassegnata) considerazione volta a prendere atto che in questa materia «vi è una grande incertezza di soluzioni della dottrina, con conseguenti contraddizioni della giurisprudenza»22.

20 R. FONTI, L’effetto estensivo dell’impugnazione, cit., 129. 21 Per una puntuale riaffermazione di questo indirizzo interpretativo v. Cass., sez. un., 24 marzo 1995, n. 9, Cacciapuoti, cit. 22 A. NAPPI, Ambito oggettivo ed estensione soggettiva, cit., 3242.

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PRINCIPIO DEL TEMPUS REGIT ACTUM NEL PROCESSO PENALE ED INCIDENZA SULLE GARANZIE DELL’IMPUTATO

Possibili prospettive di mitigazione

di Giorgia Trinti

SOMMARIO: 1. Aspetti sostanziali del principio del tempus regit actum. – 1.1. Significato del concetto di “tempus”. – 1.2. Significato del concetto di “actus”. – 2. Analisi dei limiti imposti alla retroattività della norma penale processuale. – 2.1. Teoria dell’affidamento nel sistema processuale penale. – 2.2. Problematiche interpretative in riferimento alla tenuta del giudicato rispetto ad interventi normativi successivi in ambito processuale. – 3. Possibilità di mitigare la rigidità del principio del tempus regit actum: tentativo di applicabilità dell’art. 2 c.p.

1. Aspetti sostanziali del principio del “tempus regit actum”.

La soluzione sostanziale, al complesso di problemi che attengono il limite di

efficacia della legge nel tempo, riflette ineluttabilmente la natura del rapporto che intercorre tra lo Stato e l’individuo, rappresentando, quindi, uno dei passaggi imposti nella descrizione di qualsiasi ordinamento giuridico1.

L’insieme delle regole concernenti la soluzione dei conflitti tra norme, derivanti dalla successione delle leggi nel tempo, costituisce l’oggetto del diritto intertemporale che viene ad essere ermeneuticamente definito come l’insieme di «norme e principi che dettano criteri generali per tutto l’ordinamento o per un settore specifico, al fine di individuare la

1 G. GROTTANELLI DE’ SANTI, Profili costituzionali della irretroattività delle leggi, Milano, 1970, p.1.

Abstract. Il principio del tempus regit actum, quale principio regolatore delle norme processuali penali, lede irrimediabilmente le garanzie dell’imputato nel preciso momento in cui viene data immediata applicazione a norme processuali peggiorative non in vigore né al momento della commissione del reato, né al momento dell’instaurazione del processo. Dopo aver analizzato il punctum dolens della disciplina processuale intertemporale, se ne prospetta una potenziale mitigazione attraverso un “rivoluzionario” tentativo di estensione applicativa dell’art. 2 c.p.

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norma applicabile nel caso in cui vi siano due norme valide successive nel tempo e incompatibili tra loro»2.

Il diritto intertemporale costituisce una categoria di norme che fuoriesce da ogni classificazione poiché si riferisce, paradossalmente, a disposizioni che hanno il compito di regolare delle altre norme, pertanto definite come ius supra iura3.

L’irretroattività è il metodo base del diritto intertemporale, disciplinatore delle logiche che governano il nostro sistema normativo, con la specificazione, secondo cui, nel nostro ordinamento, tale principio non assurge a rango di principio costituzionale salvo che per le norme in materia penale, dove è sancito ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost.; pertanto, il legislatore potrebbe emanare disposizioni innovative o interpretative4 con efficacia retroattiva «purché quest’ultima non si ponga in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti»5.

La teoria della retroattività, invece, dipende dalla definizione dei rapporti tra diritto intertemporale e diritto transitorio, quest’ultimo si esplica in norme dettate espressamente dal legislatore per indicare tassativamente i casi in cui la norma può operare retroattivamente.

Diritto intertemporale e diritto transitorio non possono, quindi, essere utilizzati come sinonimi, poiché, attengono alla regolazione di fenomeni completamente differenti; la natura stessa di queste due categorie normative è differente: le norme di diritto transitorio sono norme materiali perché suscettibili di immediata applicazione mentre le norme di diritto intertemporale, evidenziano una natura strumentale, limitandosi ad individuare quale sia la fattispecie applicabile ma non essendo esse stesse suscettibili di immediata applicazione6.

Il principio del tempus regit actum è il principio cardine delle logiche temporali nel processo italiano ed è proprio sia del versante processuale di natura penale ma anche di quello civile. Il processo viene ad essere governato temporalmente dalla regola secondo cui: un atto processuale deve seguire le norme vigenti nel momento in cui viene posto in essere, andando ad applicarsi le regole esistenti nel momento in cui l’atto ha origine.

Nel caso specifico di successione di leggi processuali nel tempo, in rispetto del principio del tempus regit actum, la nuova norma disciplina sia i processi iniziati dopo la

2 G. U. RESCIGNO, L’atto normativo, Bologna, 1988, p. 77. 3 Cfr. O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. UMBERTIS e

G.P. VOENA, Milano, 1999, p. 94. 4 Ci riferiamo alle norme c.d. d’interpretazione autentica, attraverso le quali il legislatore determina e fissa l’interpretazione della norma alla quale l’interpretazione si riferisce; le norme di interpretazione autentica possono avere efficacia retroattiva purché non siano volte a camuffare delle norme con portata effettivamente innovativa o siano volte ad annullare giudicati o per incidere su effettive fattispecie. Così come espresso da C. RUPERTO, La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina. Disposizioni sulla legge in generale, a cura di A. de Nitto, Milano, 2012, p. 95. 5 C. RUPERTO, La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina. Disposizioni sulla legge in generale, a cura di A. de Nitto, Milano, 2012, p. 94. 6 Cfr. O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. UMBERTIS e

G.P. VOENA, Milano, 1999, p. 101.

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sua entrata in vigore, ma anche i singoli atti, compiuti successivamente alla sua entrata in vigore, dei processi già iniziati, anche nel caso in cui la nuova disciplina sia più rigorosa per le parti rispetto a quella vigente all’epoca dell’introduzione del giudizio7.

Sin dal 1865, si osservava che «le leggi le quali regolano il procedimento ne’ giudizi penali sono eminentemente di ordine pubblico, e quindi senza declinare dal principio dell’irretroattività, all’istante della loro pubblicazione si vanno ad impossessare del giudizio nello stato in cui lo trovano, e regolano senza distinzione di sorta i giudizi pendenti e futuri»8.

Per il processo civile, possiamo limitarci brevemente a richiamare l’esplicito riferimento normativo dell’art. 5 del c.p.c., nel quale viene perseguito l’esclusivo specifico obiettivo del legislatore di conservare la giurisdizione del giudice, adito in base allo stato di fatto ed alle norme vigenti al momento della proposizione della domanda giudiziale, specificando l’irrilevanza di successivi mutamenti legislativi9.

Per quanto attiene la cadenza temporale del processo penale, questa è strettamente legata alle mutazioni normative che si succedono durante lo svolgimento del giudizio con l’eventuale possibilità, non troppo remota, che si concretizzino contraddizioni interne al sistema ma, soprattutto, che si pregiudichi ingiustificatamente il protagonista del processo penale: l’imputato.

Nel processo penale il pregiudizio che sostanzialmente si realizza, è notevolmente superiore rispetto a quello che ipoteticamente potrebbe realizzarsi in sede civile poiché, in gioco, non vi è una valutazione di interessi di natura meramente patrimoniale ma una sentenza che incide unilateralmente sulla libertà del soggetto. A tal riguardo, Carnelutti elabora la formula che sintetizza «la distinzione profonda tra i due processi, civile e penale, anzi fra i due diritti: in civile si contende dell’avere e in penale dell’essere»10.

La libertà dell’individuo è un diritto fondamentale sancito nell’art. 13 Cost. che determina le modalità con cui questa può essere oggetto di restrizione; ma oltre alla necessità di rispettare formalmente le disposizioni costituzionali, dobbiamo interrogarci sulla ratio di tale statuizione e renderci conto dell’irreparabili conseguenze che deriverebbero per l’individuo, vittima della trascuratezza e leggerezza del sistema. Il principio del tempus regit actum, se per un verso ordina rigidamente la fase processuale, dall’altro non tiene conto di quanto incida negativamente sull’imputato, andando contro tutti i buoni propositi di tutela e garanzia cui l’ordinamento aspira.

La causa del pregiudizio, che colpisce l’imputato, è l’irragionevole compressione del principio di uguaglianza poiché, la netta affermazione dell’irretroattività della norma, comporta che soggetti diversi, versanti in situazioni analoghe, potrebbero ricevere, per il solo fatto di essere giudicati in situazioni temporali diverse, un

7 Cfr. Cass., sent., 15 febbraio 2011, n. 3688. 8 E. QUINTO, Del principio della irretroattività in materia criminale, Torino, 1865, p.17. 9 Art. 5 c.p.c «La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo». 10 F. CARNELUTTI, Cenerentola, in Questioni sul processo penale, Bologna, 1950, p. 7.

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trattamento processuale drammaticamente differente determinato dall’avvenuto mutamento legislativo.

Solo comprendo ciò avremo un’importante indicazione rispetto al metodo per studiare l’efficacia nel tempo della legge nel processo penale.

Nel codice di procedura penale, non vi è alcun riferimento testuale che sancisce espressamente l’applicazione del principio del tempus regit actum alla fase processuale ed è per questa ragione che, da sempre, risulta essere questione fortemente dibattuta fra i giuristi: se le leggi regolatrici del procedimento penale debbano essere o meno assoggettate al principio di irretroattività e di immediata efficacia della nuova norma, senza alcuna eccezione11.

Per ricostruire la disciplina del diritto intertemporale valida per il processo penale, e colmare l’assenza di una regolamentazione generale del codice di rito, è necessario partire da una fonte normativa comune, istitutiva del principio in esame, che deve essere evidenziata nell’art. 11 contenuto nel Capo secondo delle «Disposizioni sulla legge in generale», premesse al Codice Civile, approvato con r.d. 16 marzo del 1942 n.26212.

Comprendere il valore normativo delle Disposizioni sulla legge in generale (da ora Disp. prel. c.c.) è un passaggio imprescindibile per intendere il grado di cogenza e vincolatività che hanno le norme in esse contenute; Giuliani, esponente della dottrina prevalente, le classifica come «norme di riconoscimento legislative»13 poiché relative alla determinazione dei limiti circa l’obbligatorietà, gli effetti nel tempo e l’interpretazione della legge.

È bene chiarire che le Disp. prel. c. c. hanno un’espansione applicativa estesa a tutto l’ordinamento e la loro funzione preminente è quella di stabilire principi vincolanti che mirano a razionalizzare il sistema normativo nel suo complesso in quanto, differentemente, sarebbe lasciato in balia della schizofrenia legislativa.

L’avvento della Costituzione avrebbe dovuto mettere in crisi la funzione razionalizzatrice delle Disp. prel. c. c., in quanto garanti di un sistema delle fonti fondato principalmente sul «primato della legge ordinaria»14; invece, dopo una lunga querelle dottrinaria, si è assistito all’attribuzione di un impensabile prestigio che le vede classificate nell’ambito di «norme strumentali»15, giacché necessarie per orientare consapevolmente l’attività del legislatore e dell’interprete.

Nelle norme sancite nelle Disp. prel. c. c. si pretende di affermare che la volontà del legislatore, costituisce l’unica norma di riferimento per il giudice e che solo escludendo l’interpretatio dei tribunali e la dottrina dei commentatori e risolvendo problemi relativi all’obbligatorietà della legge, alla sua vigenza nel tempo e nello spazio, si possono concretizzare obiettivi di certezza del comando16.

11 E. QUINTO, Del principio della irretroattività in materia criminale, Torino, 1865, p.16. 12 Sono denominate altresì «Preleggi» o «Titolo preliminare del codice civile». 13 A. GIULIANI, Le Preleggi. Gli articoli 1-15 del Codice Civile., Torino, 1999, p. 25. 14 A. GIULIANI, Le Preleggi. Gli articoli 1-15 del Codice Civile., Torino, 1999, p. 26. 15 Cfr. A. GIULIANI, Le Preleggi. Gli articoli 1-15 del Codice Civile., Torino, 1999, pp. 26 e ss. 16 Cfr. A. GIULIANI, Le Preleggi. Gli articoli 1-15 del Codice Civile., Torino, 1999, p. 5.

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Il mezzo sul quale il sistema ha maggiormente inciso per pervenire al risultato di certezza del diritto, prospettato dal nostro ordinamento, è dato dalla regolazione delle leggi nel tempo: partendo dal presupposto che la «lex posterior derogat priori», una legge può essere derogata soltanto da una legge successiva che specificatamente la abroga, con la conseguenza che una legge nasce formalisticamente con la sua promulgazione e muore inesorabilmente con la sua abrogazione sancendo la logica della «priorità della posterità»17.

La regola dell’irretroattività è propriamente contenuta nell’art.11 delle Disp. prel. c. c., intitolato «Efficacia della legge nel tempo» il quale dispone, al primo comma, che «la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo»18; con tale determinazione, si attribuisce efficacia immediata a quelle che risultano essere norme “nuove”19.

Un aspetto da non sottovalutare è riferibile alla peculiare forma con cui il legislatore ha costruito la norma, in quanto, l’utilizzazione, nella punteggiatura, dei “due punti” sta a significare che il secondo periodo è essenzialmente un corollario del periodo principale, pertanto, tale ridondanza non si limita ad affermare l’efficacia immediata delle norme nuove ma è volta ad escludere implicitamente la retroattività; infatti, interpretando letteralmente il dato normativo, dopo aver affermato che le norme possono operare soltanto riguardo accadimenti presenti o futuri sarebbe stato superfluo riaffermare che la legge non ha efficacia retroattiva ma è una scelta che il legislatore ha fatto perché implica un’esclusione indiretta del principio di retroattività20.

Parte della dottrina, ha ritenuto utilizzabile l’art. 10 delle Disp. prel. c. c. e l’art. 73, terzo comma, Cost. per costruire la disciplina della successione di leggi, poiché viene determinato che «le leggi e i regolamenti divengono obbligatori nel decimoquinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione, salvo che sia altrimenti disposto»21; ma, è il caso di notare che da questa disposizione non è ricavabile alcun principio riferibile alla successione di leggi nel tempo in quanto si riferisce, esclusivamente, alla determinazione del momento in cui le norme acquisiscono obbligatorietà22.

Nell’art. 11 Disp. prel. c. c. è rilevante il fatto che sia contenitore di una doppia direttiva d’azione, la prima rivolta al legislatore, la seconda rivolta all’interprete: al principio d’irretroattività può sottrarsi il legislatore, che può derogarvi con altra norma ordinaria, ma non vi si può sottrarre la figura dell’interprete23.

17 Cfr. A. GIULIANI, Le Preleggi. Gli articoli 1-15 del Codice Civile., Torino, 1999, p. 8. 18 Art. 11, primo comma, Disp. prel. c.c.. 19 La norma traduce puntualmente l’art. 2 del Codice Civile francese del 1804 che afferma «la loi ne dispose que pour l’avenir; elle n’a point d’effet rétroactiv.», con la differenza che tale articolo, trova applicazione esclusivamente in ambito di dinamiche civilistiche. 20 Cfr. O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. UMBERTIS

e G.P. VOENA, Milano, 1999, pp. 110-111. 21 Art. 10, Disp. prel. c. c. 22 Cfr. M. SINISCALCO, Irretroattività delle leggi in materia penale. Disposizioni sostanziali e disposizioni processuali nella disciplina della successione di leggi, Milano, 1987, p. 133. 23 Cfr. R. CAPONI, Tempus regit actum. Un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo, in Rivista di diritto processuale, 2006, pp. 449- 462.

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La rigida ratio del principio dell’irretroattività, sancito nell’art. 11 delle Disp. prel. c. c. ma comunque affermato nell’art. 25 Cost., è annodata alla logica di dover ordinare metodicamente un sistema di successione di norme che altrimenti sarebbe irrimediabilmente turbato dal continuo chiedersi qual sia la norma da doversi applicare ad una determinata fattispecie; in realtà, le ragioni di una migliore amministrazione della giustizia, non possono essere utilizzate come scusa giustificatrice e prevalere sulle non trascurabili esigenze di garanzia per il cittadino24. La portata applicativa nell’ordinamento italiano delle Disp. prel. c. c. è fondamentale per giustificare la cogenza di tali norme: essendo delle disposizioni preliminari al Codice Civile, si potrebbe ipotizzare la loro applicabilità soltanto all’ambito civilistico, in realtà queste hanno valore di carattere generale.

L’illustrazione dell’efficacia delle Disp. prel. c. c. ci porta a porre in relazione tali norme, di rango ordinario, con il dettato costituzionale contenuto nell’art. 25, secondo comma, Cost.; all’origine, il sistema risultava essere notevolmente “asimmetrico” poiché si aveva l’enunciazione intertemporale di ordine costituzionale per le norme sostanziali a cui faceva da contraltare un’enunciazione di rango ordinario per le norme processuali.

Tale squilibrio ha comportato la proliferazione di differenti teorie in ambito dottrinario; alcune dirette ad attribuire un’efficacia di ordine superiore alle norme contenute nelle Disp. prel. c. c., altre dirette a reinterpretare l’art, 25, secondo comma, Cost. per dimostrare la soggezione anche delle norme di rito, a tale tutela “rafforzata”, sulla base dei lavori preparatori25.

La teoria espressa da una parte della dottrina moderna, oltre ad attribuire a tali disposizioni valore di «leges legum»26, ne azzarda altresì un valore di natura costituzionale, giustificato dal fatto che anche i titoli preliminari sono garanti «di un patrimonio di idee, comuni alla legislazione dell’illuminismo, come a quella della rivoluzione e della stessa restaurazione»27.

In realtà, per comprendere effettivamente quale sia l’efficacia delle Disp. prel. c. c., dobbiamo ricondurle ai limiti propri di una norma ordinaria e quindi, come tale, non avendo valore supernormativo, sono suscettibili di essere derogate discrezionalmente dal legislatore ordinario.

La Corte Cost. è intervenuta per precisare il valore giuridico dell’art. 11 delle Disp. prel. c. c. rispetto ai principi costituzionali, affermando che «l'osservanza del tradizionale principio é dunque rimessa - così come in passato - alla prudente valutazione del legislatore, il quale peraltro - salvo estrema necessità - dovrebbe a esso attenersi, essendo, sia nel

24 Cfr. M. SINISCALCO, Irretroattività delle leggi in materia penale. Disposizioni sostanziali e disposizioni processuali nella disciplina della successione di leggi, Milano, 1987, p. 136. 25 Cfr. M. GALLO, Interpretazione della Corte costituzionale e interpretazione giudiziaria (a proposito delle garanzie della difesa nell’istruzione sommaria), in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1965, pp. 215 e ss.; nel primo capitolo sono già stati esplicitati una parte degli itinerari esegetici seguiti per sostenere l’estensione del disposo costituzionale dell’art. 25, secondo comma, Cost., alle norme di natura processuale 26 Denominate in tal modo per evidenziare la loro caratteristica di norme relative alla produzione giuridica; possono essere indicate anche come «principia iuris». 27 A. GIULIANI, Le Preleggi. Gli articoli 1-15 del Codice Civile., in Trattato di diritto privato, diretto da P. RESCIGNO, vol. I, Torino, 1999, p. 380.

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diritto pubblico che in quello privato, la certezza dei rapporti preferiti (anche se non definiti in via di giudicato, transazione, ecc.) uno dei cardini della tranquillità sociale e del vivere civile»28. Nello specifico, però, il principio espresso nell’art. 11 Disp. prel. c. c., limitatamente alla materia penale, viene riaffermato costituzionalmente nell’art. 25, secondo comma, Cost., con la conseguenza che, in queste circostanze, non può essere oggetto di deroga arbitraria da parte del legislatore ordinario; in qualsiasi modo, è la stessa Corte Cost. ad affermare che «il principio generale della irretroattività delle leggi - attualmente enunciato nell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale - rappresenta un'antica conquista della nostra civiltà giuridica. Esso però non é mai assurto nel nostro ordinamento alla dignità di norma costituzionale; né vi é stato elevato dalla vigente Costituzione, se non per la materia penale»29.

Sulla stessa linea, ha continuato ad esprimersi l’alluvionale giurisprudenza della Consulta, in cui pur determinando l’importanza della valutazione delle norme retroattive secondo il principio di ragionevolezza, afferma che «il divieto di retroattività della legge - pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell'ordinamento, cui il legislatore deve in linea di principio attenersi - non è stato tuttavia elevato a dignità costituzionale, se si eccettua la previsione dell'art. 25 della Costituzione, relativa alla legge penale. Al legislatore ordinario, pertanto, fuori della materia penale, non è inibito emanare norme con efficacia retroattiva, a condizione però che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti»30.

Rimane da specificare come sia stata giustificata l’estensione dell’art. 11 Disp. prel. c. c. al processo penale; è un passaggio realizzatosi attraverso un percorso interpretativo, ormai consolidato, che si fonda sul fatto che, non essendoci uno specifico riferimento normativo per l’ambito processuale, ed essendo l’art. 11 una disposizione generica, non vi è alcuna ragione per escluderne l’applicazione al processo penale.

Nelle Disp. prel. c. c. sono contenuti dei limiti rigidi per l’esplicazione dell’attività interpretativa ma non possono essere applicati al nostro caso, in quanto, sono riferiti esclusivamente alle leggi penali di natura sostanziale e alle leggi che «fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi», specificandosi che non devono essere applicate «oltre i casi e i tempi in esse considerati»31.

Il principio del tempus regit actum, nella sua applicazione al processo penale, risulta essere affermato in un preciso riferimento legislativo, che si ripete identico nel tempo, contenuto nell’art. 258, primo comma, delle Disposizioni di attuazione del c.p.p., regolanti il passaggio dal Codice di procedura del 1930, al Codice di procedura del 1988, nel quale si stabiliva che i procedimenti in corso di svolgimento avrebbero dovuto svolgersi, salvo eccezioni tassativamente indicate dalla norma, con l’osservanza delle disposizioni del nuovo codice32: da questa statuizione si ricava, velatamente, che tutto il

28 C. Cost., sent., 8 luglio 1957, n. 118, in http://www.cortecostiruzionale.it/. 29 C. Cost., sent., 8 luglio 1957, n. 118, in http://www.cortecostituzionale.it/. 30 C. Cost., sent., 4 novembre 1999, n. 416, in http://www.cortecostituzionale.it/. 31 Art. 14, Disp. prel. c. c. 32 Art. 258, primo comma, Disp. trans. c. p. p. «i procedimenti in corso diversi da quelli indicati negli articoli 241 e 242 proseguono con l'osservanza delle disposizioni del codice, ma i termini previsti dagli articoli 405 comma 2 e 553

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processo penale viene ad essere regolato dal meccanismo del tempus regit actum, per quanto attiene alle dinamiche in materia di successione di leggi nel tempo.

Quest’affermazione viene fermamente rimproverata da una parte della dottrina, più garantista, che ritiene vi sia un’impossibilità oggettiva di poter desumere dei principi intertemporali dalle norme transitorie del c.p.p.. Questo specifico riferimento normativo, infatti, contenuto all’interno delle disposizioni transitorie, non sembra ispirato da una ratio che in qualche modo sia suscettibile di generalizzazione ed estensione all’intero nuovo sistema penale processuale ma solo funzionale per coordinare l’entrata in vigore del nuovo codice di rito e quindi non consono per giustificare l’esistenza di un dato normativo che sancisca esplicitamente il corollario del tempus regit actum33.

Il principio di irretroattività è un principio essenziale del nostro ordinamento perché contribuisce alla garanzia del cittadino da eventuali arbitri del legislatore, come richiesto costituzionalmente dall’art. 2 Cost.34: l’articolo richiama il principio del neminem ledere di cui principale perseguitore è la Repubblica che ha il compito di garantire i c.d. diritti inviolabili, tra cui vi è, immancabile, la tutela della libertà del singolo; infatti, il legislatore che retroagisce, restringendo eventuali sfere di libertà, non solo non garantisce il cittadino ma si crea autonomamente una sfera di competenze che non gli è stata attribuita35.

Dov’è che si crea il problema? L’affermazione rigida del principio del tempus regit actum non è problematica esclusivamente riguardo alla sua inflessibilità e severità nell’affermare l’irretroattività della norma, non lasciando margini per tentare un’applicazione del principio di retroattività favorevole; l’ulteriore problema che si concretizza è nella lesione del principio di «ragionevole prevedibilità»36, poiché, rendendo immediatamente applicabile qualsivoglia modifica legislativa, ad atti di un processo penale pendente, si lede inevitabilmente il principio dell’affidamento: si viola la fiducia di coloro che avevano regolato il loro agire in base alla normativa previgente, oggetto di un imprevisto mutamento.

La circostanza per cui l’efficacia immediata delle norme sia propria di aspetti processuali, potrebbe sembrare non pregiudicante di alcun diritto dell’imputato; in realtà, le problematiche di immediata applicazione dei mutamenti legislativi, nell’ambito del processo penale, incidono pesantemente sull’imputato, pregiudicandolo irreparabilmente nel caso si tratti di una disciplina successiva sfavorevole.

comma 1 del codice sono di dodici mesi e il termine di durata massima delle indagini preliminari scade il 31 dicembre 1991». 33 Cfr. O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. UMBERTIS

e G.P. VOENA, Milano, 1999, p. 138 e s. 34 Art. 2, Cost.«La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» 35 G. GROTTANELLI DE’ SANTI, Profili costituzionali della irretroattività delle leggi, Milano, 1970, p. 91. 36 G. GROTTANELLI DE’ SANTI, Profili costituzionali della irretroattività delle leggi, Milano, 1970, p. 38.

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Il principio del tempus regit actum realizza una disparità di trattamento se valutato rispetto al «contenuto delle situazioni correlate ad uno stesso fatto»37, tale carattere discriminatorio non permette di reputare tale canone intertemporale come espressione del principio di uguaglianza formale disciplinato dall’art. 3, primo comma, Cost. ma, anzi, ne risulta essere una delle primarie opportunità di violazione legittimate dallo stesso sistema38.

In conclusione, la circoscrizione dell’applicazione del principio dell’applicabilità della norma più favorevole, alle sole dinamiche legate alla «commissione del delitto», sembra prima facie escludere completamente un eventuale slancio verso l’applicabilità del principio di retroattività della norma più vantaggiosa per il reo a dinamiche processuali mantenendo permanentemente rigida l’attuazione del principio del tempus regit actum; quali inevitabili conseguenze? L’accanimento del sistema avverso l’imputato comporta la categorica negazione di quello che dovrebbe essere il punto fermo per perseguire il fine di tutela auspicato: il favor libertatis.

1.1. Significato del concetto di “tempus”. Il tempo è la bussola della nostra esistenza poiché definito, da sempre, come

«mezzo di orientamento»39; gli studi per la definizione del concetto di tempus sono stati al centro delle riflessioni, alle volte contrastanti, di filosofi e pensatori, poiché «il tempo sembra non poter essere pensato senza contraddizione»40.

La riflessione che ci accingiamo a fare utilizza un metodo che richiama la sistematica della matrioska: partire dalla definizione globalmente attribuita al concetto di tempo, fino a sviluppare la concezione di tempus circoscritta al campo della materia penale, sia dal punto di vista delle norme sostanziali sia dal punto di vista delle norme processuali.

A cosa rimanda abitualmente il concetto di “tempo”? Riassumendo brevemente vediamo esistere «diversi tipi di concetti di tempo»41 ma

essenzialmente il riferimento a tale termine rinvia ad un voler «porre in relazione posizioni e segmenti di due o più sequenze di avvenimenti in movimento continuo e percepibili»42.

37 F. MAISTO, Diritto intertemporale, in Trattato di diritto civile del consiglio nazionale del notariato, diretto da P. PERLINGIERI, Napoli, 2007, p. 21. 38 F. MAISTO, Diritto intertemporale, in Trattato di diritto civile del consiglio nazionale del notariato, diretto da P. PERLINGIERI, Napoli, 2007, p. 22. 39 N. ELIAS, Saggio sul tempo, Bologna, 1996, p.50. 40 A. GIORDANI, Tempo e struttura dell’essere. Il concetto di tempo in Aristotele e i suoi fondamenti ontologici., Milano, 1995, p.13. 41 N. ELIAS, Saggio sul tempo, Bologna, 1996, p.99. 42 N. ELIAS, Saggio sul tempo, Bologna, 1996, p.17.

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Il tempo è un concetto cardine per la costruzione del diritto tanto che lo stesso Savigny evidenzia che «in molti ed importanti istituti si trova un rapporto con il tempo come elemento dei fatti posti a base di una regola generale di diritto»43.

Il passaggio successivo è volto a riuscire ad interpretare in maniera consapevole il principio del tempus regit actum cercando di approfondire singolarmente la definizione del concetto di tempus nell’ambito del processo penale e capire quali sono le barriere frappostesi al tentativo di superare la severa applicazione del principio dell’immediata efficacia della legge nel processo penale mitigandolo con l’applicazione della retroattività favorevole, tipica delle norme penali di natura sostanziale.

Il principio dell’irretroattività comporta la necessità di fissare dei criteri convenzionali attraverso cui individuare oggettivamente il momento, cui fare riferimento, per individuare quale sia la disciplina normativa applicabile.

È riscontrabile una reale differenziazione, rispetto al momento al quale ricondurre la disciplina normativa applicabile: il tempus commissi delicti per le norme penali sanzionatorie, al quale si contrappone il tempo del verificarsi dell’accadimento, preso in considerazione per ogni altra tipologia di norma, e quindi, nello specifico, il “tempo della realizzazione dell’atto”, in riferimento nella sua protasi, nell’ambito del procedimento penale44.

Questa diversificazione temporale cui fare riferimento, per individuare la disciplina normativa applicabile, è stata il punto critico basilare che ha portato la dottrina ad affermare la negazione dei tentativi di estensione dell’applicazione della norma più favorevole al reo anche all’ambito della disciplina processuale.

Già dal 1950 si era tentato un approccio dottrinario volto all’assimilazione, sotto il profilo della retroattività della legge penale più favorevole al reo, delle disposizioni processuali penali a quelle materiali, vedendolo come un passaggio logico del tutto ovvio, poiché «chi vorrà negare che pure il giudizio possa essere congegnato in modo più o meno favorevole al reo?»45. Questi tentativi vennero abissati rispondendo che era sufficiente osservare come l’allora terzo comma (oggi quarto) dell’art. 2 c.p. istitutivo della retroattività in circostanze più favorevoli al reo46, facesse riferimento esclusivamente al tempus commissi delicti e non al tempus acti in modo da escludere ogni aspirazione applicativa della retroattività alle disposizioni di natura processuale47.

L’unico ambito della disciplina processuale penale in cui, per espressa statuizione legislativa, il principio del tempus regit actum, viene ad essere inteso con riferimento al momento della commissione del fatto di reato (tempus commissi delicti) è quello dell’individuazione del giudice competente, in quanto «per determinare la 43 F. C. DI SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale, (traduzione dall’originale tedesco a cura di V. SCIALOJA), vol. IV, Torino, 1889, p. 298. 44 Cfr. O. MAZZA, Lo chassé-croisé della retroattività in margine alla “legge Severino”, in Archivio Penale, 2014, pp. 1-11. 45 F. CARNELUTTI, Riflessioni sulla successione di leggi penali processuali, in Questioni sul processo penale, Bologna, 1950, p. 197. 46 Art. 2, quarto comma, c.p. «Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile». 47 G. LOZZI, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, p. 162.

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competenza si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato»48, ma la connessione è inevitabile poiché la pena viene ad essere stabilita all’interno delle norme di ordine sostanziale.

La competenza del giudice, una volta stabilita, risulta essere bloccata in rispondenza della statuizione costituzionale dell’art. 25, primo comma, Cost., secondo cui «nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge». Tale determinazione costituzionale dovrebbe essere interpretata, in senso garantista, nel senso che il giudice competente deve essere individuato secondo le norme vigenti nel momento in cui il reato è stato commesso ed una volta individuata la competenza, questa, non può essere modificata da alcuna successiva determinazione di legge49. Di tale problematica si parlerà in seguito poiché ricorrono differenti prospettive di vedute sia in ambito giurisprudenziale, sia in ambito dottrinario.

In esecuzione di tale principio, si rileva la coerenza di quanto sancito nell’art. 258 delle Disposizioni di Attuazione al Cod. Proc. Pen. del 1988, secondo cui «ai fini della determinazione della competenza per materia e per territorio le disposizioni del codice si applicano solo per i reati commessi successivamente alla data di entrata in vigore dello stesso»50.

1.2. Significato del concetto di “actus”. Il processo penale è una concatenazione di atti giuridici che si susseguono

inesorabilmente al fine di scaturire l’avanzamento delle dinamiche processuali; ogni: ogni singolo atto, trova la sua ragione in quello immediatamente precedente e costituisce il fondamento logico di quello seguente, anche se non sempre gli atti processuali si susseguono cronologicamente secondo un ordine predeterminato.

L’atto processuale penale ha l’attitudine intrinseca di produrre effetti giuridici nel contesto del “procedimento” e del “processo” penale; lo spartiacque tra questi due momenti è determinato dal compimento di uno dei più importanti atti processuali tipizzato dal legislatore nell’art. 405 c.p.p.: l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero; tutti gli atti che si realizzano prima dell’esercizio dell’azione penale, sono riferibili agli atti della fase delle indagini preliminari e si classificano già come atti facenti parte della sequenza del procedimento, mentre gli atti che seguono sono strettamente atti ascrivibili al processo51.

Per enucleare la nozione di “atto penale processuale” dobbiamo dapprima indicare quale sia la distinzione tra “atti giuridici processuali” e “fatti giuridici processuali” utilizzando come criterio di discernimento la valutazione circa la presenza

48 Art. 4, c.p.p.. 49 Cfr. G. LOZZI, Lineamenti di procedura penale, Torino, 2009, pp. 76-77. 50 Art. 258, Disp. trans. c. p. p. 51 La mancanza, nell’intitolazione del libro II del c.p.p., dell’aggettivo «processuali» accanto al sostantivo di «atti», determina l’applicabilità delle disposizioni anche agli atti del procedimento mettendo in luce una differenziazione soltanto dal punto di vista logistico ma non normativo, così è evidenziato da G. P. VOENA, Atti, in Compendio di procedura penale, (diretto da) G. CONSO, V. GREVI, M. BARGIS, Padova, 2012, p. 174.

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o meno di una componente psichica, la volontarietà: si può parlare di atto giuridico solo quando il carattere della volontà sia espressamente preso in considerazione dall’ordinamento giuridico quale requisito specifico per l’attribuzione di effetti giuridici52.

Questa tesi viene fortemente criticata in dottrina sulla base del ragionamento, elaborato principalmente da Lozzi, per cui sarebbe assurdo andare ad escludere dalla categoria di atti processuali penali tutta una serie di comportamenti tenuti secondo un modus agendi per cui lo stesso legislatore non ne richiede la volontarietà53.

Pertanto, per una effettiva nozione di atto processuale penale, dobbiamo andare ad elaborare una classificazione sia su di un piano soggettivo e sia su di un piano oggettivo, pur in assenza di una specifica definizione legislativa.

Dal punto di vista soggettivo l’atto processuale, risulta posto in essere esclusivamente da un soggetto, sia pubblico che privato, facente parte del processo in cui l’atto ha effettiva rilevanza; mentre, sul piano oggettivo deve essere individuato come la trasformazione della realtà causata da un comportamento positivo, realizzatosi secondo uno schema preventivamente disposto dal legislatore ed ancorché sia carente dell’elemento della volontarietà54.

In contrapposizione alla definizione di atto processuale, il quale presuppone un’azione di natura positiva, dobbiamo inquadrare le caratteristiche dell’omissione che, per una parte della dottrina, può potenzialmente essere rilevante come actus processuale solo se sia espressamente «richiesta la volontarietà del comportamento omissivo costituendo, invece, un fatto allorquando quando il legislatore prescinda dalla volontarietà dell’omissione»55; tale costruzione sull’omissione si fonda sull’avvenuta introduzione dell’istituto della restituzione in termini sancito nell’art. 175 c.p.p.56, il quale determina che la decadenza determinata da omissione si considera come non avvenuta ove risulti conseguenza di caso fortuito o forza maggiore57.

La dottrina contrapposta a tale tesi, sostiene che l’omissione non abbia in alcun modo rilevanza di actus processuale penale, poiché alla «fenomenologia giudiziaria manca la specie omissiva»58.

52 Cfr. L. CASTELLUCCI, L’atto processuale penale: profili strutturali e modalità realizzative, in G. Dean (a cura di), Trattato di procedura penale. Soggetti e atti, diretto da G. Spangher, vol. I, tomo II, Torino, 2009, pp. 1-2. 53 Cfr. G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2009, p. 153. 54 Cfr. G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2009, pp. 153 e ss. 55 G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2009, p. 153. 56 Art. 175, primo comma, c.p.p.: «Il pubblico ministero, le parti private e i difensori sono restituiti nel termine stabilito a pena di decadenza, se provano di non averlo potuto osservare per caso fortuito o per forza maggiore. La richiesta per la restituzione nel termine è presentata, a pena di decadenza, entro dieci giorni da quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore». 57 Tale orientamento è sostenuto da G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2009, p. 152 e da G. P. VOENA, L’atto processuale penale, in Compendio di procedura penale, diretto da G. Conso, V. Grevi, M. Bargis, Padova, 2012, p. 172. 58 F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 2004, p. 310.

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Il significato attribuibile al termine actus, nell’ambito del brocardo oggetto della nostra analisi, ha notevolmente impegnato la dottrina poiché è proprio da questa interpretazione che discendono i canoni applicativi principio.

Secondo un’analitica indagine, sono criticabili le costruzioni dottrinarie che non valutano l’atto processuale, autonomamente, ma lo agganciano a determinate fattispecie globalmente considerate. È evidente che il concetto di actus non deve in alcun modo essere identificato con l’intero procedimento59, poiché, se così fosse, tutto il processo continuerebbe ad essere sempre regolato dalle norme vigenti nel momento della sua instaurazione; inoltre, è ulteriormente erronea anche l’identificazione del concetto di actus riferito ai vari stati e gradi del processo considerandoli come un insieme unitario60 .

A tali teorie, si sono efficacemente opposte quelle che valutano l’atto processuale come scisso ed autonomo da tutto il contesto in cui si colloca e che «il principio del tempus regit actum, agli effetti delle leggi processuali penali, va applicato non all’intero procedimento o alle singole sue fasi considerate nella loro caratteristica di fattispecie complesse, ma ai singoli atti di dette fattispecie»61.

Basandoci su quanto detto, nell’applicazione concreta del principio del tempus regit actum riguardo all’actus propriamente processuale, osserviamo il generarsi di un doppio ordine di conseguenze: in presenza di atti processuali che siano già compiuti sotto l’impero di una legge ormai abrogata, questi mantengono in pieno la loro validità poiché la nuova legge processuale non può retroagire; invece, per gli atti ancora da compiere, si determina l’applicazione della nuova disciplina ancorché siano atti connessi a quelli compiuti in vigenza della precedente disciplina62.

2. Analisi dei limiti imposti alla retroattività della norma penale processuale. In via preliminare è opportuno specificare la mancanza effettiva di una nozione

di retroattività generalmente e universalmente condivisa; possibilmente, lo «sconfortate panorama offerto dalle elaborazioni dottrinali, alle quali corrispondono sostanzialmente gli orientamenti giurisprudenziali, è stato probabilmente determinato anche dalla mancanza di una chiara definizione legislativa del concetto a cui fare riferimento»63.

L’efficacia retroattiva della norma non deve assolutamente essere confusa con l’idea di una norma che «agisce nel passato», poiché appare del tutto logico ed evidente come il passato sia una realtà inevitabilmente immodificabile; la retroattività deve, 59 Teorie di tale portata furono sostenute da G. CONSO, La «doppia pronuncia» sulle garanzie della difesa nell’istruzione sommaria: struttura ed efficacia, in Giurisprudenza Costituzionale, 1965, pp. 1150 e ss.. 60 Cfr. O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Umbertis

e G.P. Voena, Milano, 1999, p. 120. 61 G. LOZZI, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, p. 159-160. 62 Cfr. G. TOSCANO, Successione di leggi penali e materia cautelare al vaglio della Suprema Corte in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2014, pp. 2006-2023. 63 O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Umbertis e G.P. Voena, Milano, 1999, p. 59.

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invece, essere valutata come possibilità di una norma che agisce «solo sul passato»64: la norma giuridica retroattiva si limita ad introdurre una valutazione giuridica di atti già compiuti anteriormente alla sua entrata in vigore.

Dal momento in cui escludiamo dalla parola “retroattività” il suo significato naturale di “agire indietro”, cioè di agire nel passato andando a distruggere ciò che è accaduto e creando ciò che non è mai esistito, dobbiamo valutare quali sono le possibili chiavi di lettura del principio intertemporale di retroattività.

La dottrina evidenzia genericamente, cioè senza riferibilità diretta alla materia penale, tre differenti nuclei di concetti che possiamo attribuire genericamente al principio di retroattività.

Il primo significato è riconducibile all’applicazione della legge nuova a fatti già compiuti ed esauriti sotto la vigenza della legge precedente, la retroattività della legge nuova comporterebbe la resolutio ex tunc di questi rapporti con l’eventuale scardinamento delle sentenze già passate in giudicato.

Il secondo significato di retroattività è riferito all’applicazione della legge nuova a tutte le controversie che sorgono o che sono ancora pendenti nel momento in cui essa entra in vigore anche se abbiano per oggetto dei fatti compiuti sotto la vigenza della legge abolita, in questo modo risulterebbero rispettate tutte le sentenze passate in giudicato prima della legge abolita.

In ultimo, la retroattività può essere applicata esclusivamente nel limite dei fatti nuovi ma che abbiamo una certa relazione con i fatti precedenti65.

A ben vedere, i limiti all’operabilità della retroattività sono molteplici e si pongono su prospettive differenti da analizzare.

Partiamo dal mettere in evidenza un limite che rispecchia il rapporto sinallagmatico tra Stato e cittadino e si basa sul c.d. dovere di fedeltà disciplinato dall’art. 54, primo comma, Cost. secondo cui «tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi»66.

Il dovere di fedeltà ha una doppia portata: oltre che ad avere una portata generale, viene specificato, in ambito costituzionale, in riferimento al dovere specifico del cittadino di osservare la Costituzione e le leggi della Repubblica; questo dovere, però, deve presupporre il reciproco dovere del legislatore di realizzare norme delle quali ne sia prevedibile l’osservanza.

L’art. 54 Cost. comporta, pertanto, «la fedeltà a norme e ad un assetto istituzionale espressivo, tra gli altri, dei principi di libertà, uguaglianza, responsabilità, autonomia, solidarietà. È conseguente, allora, ritenere che lo stesso dovere di fedeltà possa venire in discussione quando proprio le leggi, di cui si esige l’osservanza, violano i principi fondamentali ai quali devono necessariamente ispirarsi o quando le stesse istituzioni non conformano la loro azione al rispetto

64 La costruzione dottrinaria è stata elaborata da O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Umbertis e G.P. Voena, Milano, 1999, p. 6. 65 N. COVIELLO, Manuale di diritto civile italiano. Parte generale, Napoli, 1929, p. 98. 66 Il punto di partenza, fondato sul c.d. dovere di fedeltà, è suggerito da G. GROTTANELLI DE’ SANTI, Profili costituzionali della irretroattività delle leggi, Milano, 1970, p.22.

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di quei principi»67; con tale riflessione, è stata messa in evidenza l’aberrazione alla quale si giunge nel momento in cui uno dei due soggetti, del rapporto di fedeltà, viene meno al patto iniziale fondato sul do ut des.

I fondamentali argomenti contro la generale retroattività delle leggi trovano una sistematicità, già consapevolmente costruita, nell’«In Verrem» di Cicerone68 che si esprime in riferimento alla limitazione dell’applicazione retroattiva di una legge dettata dall’esigenza di tutelare la prevedibilità della norma al fine di poter orientare il proprio agire; viene inoltre richiamata l’esigenza di rispettare l’autonomia privata e la volontà di voler tutelare la sicurezza del diritto.

Nell’ordinamento italiano il divieto della retroattività ha assunto dignità costituzionale nell’art. 25, secondo comma, Cost., esclusivamente in riferimento alla materia penale mentre per le norme di natura extrapenale, la irretroattività viene generalmente connessa al principio sancito nell’art. 11 delle Disp. prel. c.c..

Riprendendo sinteticamente il ragionamento svolto nei paragrafi precedenti, vediamo il fondamento al divieto di retroattività della norma nell’ambito del processo penale.

L’intero svolgimento del processo penale è ricondotto dagli interpreti, sotto l’ombrello applicativo dell’art. 11 delle Disp. prel. c.c., il quale fonda il principio di irretroattività della norma da un punto di vista generale; tale passaggio si è reso necessario mancando una statuizione legislativa che specificatamente regolasse il processo penale dal punto di vita del diritto intertemporale.

Per tutta la serie di ragioni espresse dettagliatamente nel primo paragrafo di questo capitolo, è evidente come sia possibile, se non addirittura del tutto ragionevole, estendere l’applicabilità del dettato costituzionale espresso nell’art. 25, secondo comma, Cost. anche alle norme procedurali della materia penale e divenire, così, un principio di portata supernormativa che sia vincolante per il legislatore ordinario.

Il problema essenziale si riscontra nell’analisi del principio del tempus regit actum, in quanto nega e consente contestualmente due principi posti agli antipodi: pur affermando il principio d’irretroattività, secondo la quale gli atti processuali compiuti conservano validità anche sotto l’impero della legge successiva, prevede l’immediata efficacia ed applicabilità delle norme nel momento stesso in cui entrano in vigore in riferimento a quelli che sono gli atti da compiere.

Se non ci soffermiamo esclusivamente su di un aspetto meramente concettuale, vediamo come l’immediata efficacia delle norme e la retroattività siano, in effetti, due concetti contingenti e limitrofi sul piano applicativo poiché un atto processuale “nuovo” si ritrova ad essere regolato dalle norme vigenti esattamente nel momento della sua realizzazione ma tali novelle potrebbero essere completamente differenti rispetto a quelle in vigore nel momento in cui il soggetto abbia realizzato il reato (tempus commissi delicti), ovvero potrebbero essere norme discordanti rispetto a quelle vigenti nel momento in cui vi è stata l’instaurazione del processo.

67 S. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 2011, p. 238. 68 Cfr. CICERO, In Verrem, 2, 1.

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Vediamo che si creano delle inevitabili dinamiche di incongruenza interna tra le norme che si susseguono nel tempo, regolatrici dei vari atti del processo penale, che, seppur considerati autonomamente, sono comunque connessi perché appartenenti al medesimo processo: infatti, un atto processuale potrebbe essere disciplinato da una norma completamente differente rispetto sia a quella in vigore in precedenza e sia a quella disciplinante l’atto processuale antecedente ma comunque connesso al medesimo filo processuale.

In questo senso, viene definito il tempus regit actum come principio che sancisce l’irretroattività della norma sugli atti già compiuti ma che determina, al tempo stesso, l’immediata efficacia delle norme nuove che si innestano andando a regolare gli atti del processo nella fase in cui trova.

Parlando di immediata efficacia è sibillino il richiamo alla retroattività poiché sono norme che operano immediatamente su atti ancora da compiere ma che comunque si instaurano in un processo nel quale si decide su avvenimenti realizzatesi in un tempo passato.

L’imputato, valutato dal punto di vista di soggetto-agente che pone in essere il reato, si trova quindi ad essere giudicato in base alle norme vigenti nel momento in cui ogni singolo atto viene ad esistenza nel corso del processo: ma come si può escludere che l’agente nel momento in cui ha realizzato il delitto non abbia orientato la sua azione criminosa sulla base di calcoli di prevedibilità che coinvolgevano oltre che l’aspetto di diritto penale sostanziale anche la disciplina processuale?

Fondamentalmente è questo il fulcro del problema che da molti non viene preso in considerazione sulla base di giustificazioni che si fondano sul ritenere non pregiudicante per l’imputato un’eventuale modificazione legislativa di norme di carattere meramente processuale quando, in realtà, «il bene tutelato, cioè la libertà personale, può venire ugualmente aggredito tanto dalla legge penale sostanziale quanto da quella procedurale»69; inoltre, come viene evidenziato dai giudici a quibus innanzi alla Corte Cost., nella medesima sentenza, «l'attività giurisdizionale, valutata nel concreto, ha fondamentalmente funzione di garanzia, da cui deriva la logica conseguenza dell'assimilazione delle norme processuali penali alle norme sostanziali, quando si risolvano in danno dell'imputato»70.

La potenziale retroattività della norma si scontra inevitabilmente con la necessità di rispettare il carattere della prevedibilità delle statuizioni legislative ma, è bene notare che un’eventuale violazione viene percepita maggiormente sul piano sostanziale piuttosto che sul piano processuale; con questo non si vuole escludere, però, che anche un’applicazione retroattiva della norma processuale comporta un’incisiva violazione delle garanzie legate alla previa conoscibilità della norma.

Perché, allora, il legislatore ha ritenuto necessario dover esplicitare, a livello normativo, solo per la norma sostanziale, i limiti alla retroattività?

69 C. Cost., sent., 1° febbraio 1982, n. 15, in http://www.cortecostituzionale.it/. 70 C. Cost., sent., 1° febbraio 1982, n. 15, in http://www.cortecostituzionale.it/.

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Intendiamo riferirci al fatto che il legislatore ha ritenuto di dover dedicare una disciplina ad hoc in ambito sostanziale, contenuta nell’art. 2 c.p., che regolasse la successione delle norme nel tempo per evitare che il soggetto venisse pregiudicato da una norma successiva in peius ma che potesse beneficiare della norma successiva in mitus mentre nessuna previsione risulta essere determinata per le norme di carattere processuale.

Le norme sostanziali e le norme processuali sono due facce della stessa medaglia pertanto la piena tutela del soggetto prevista soltanto per le norme di natura materiale, non realizza fino in fondo l’obiettivo preposto poiché le norme sostanziali e le norme processuali, in ambito penale, sono complementari e non dovrebbero essere disciplinate disgiuntamente.

L’altro problema sostanziale, che nasce in riferimento all’immediata efficacia delle norme processuali, oltre ad al fatto che si attivano in itinere, è in riferimento alla incompletezza ed imprecisione delle disposizioni transitorie che vengono dettate di volta in volta dal legislatore71 rendendo di difficile applicazione la novella e non facilitando l’armonizzazione con la disciplina preesistente.

Non è trascurabile il particolare per cui, trovandoci nell’ambito della materia penale, ci troviamo in un campo in cui si incide sulla libertà del soggetto e quindi se davvero si volesse rispettare tale diritto fondamentale, proclamato con vigore in Carte e Costituzioni, si dovrebbe dover pensare ad una tutela del soggetto a tutto tondo.

Il soggetto dovrebbe essere visto da una duplice prospettiva: è l’autore del reato ma è al tempo stesso imputato, ed intendiamo riferirci a lui come reale protagonista del processo penale; voler puntare alla sua tutela soltanto dalla prospettiva del soggetto che commette il delitto e che deve essere messo al riparo da interventi legislativi più severi, non può essere considerata una vincente strategia d’azione per la tutela del favor libertatis che viene inevitabilmente depauperato.

2.1. Teoria dell’affidamento nel sistema processuale penale. «Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si riunirono in

società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri»72.

71 E. DOLCINI, G. MARINUCCI, Codice penale commentato, Ipsoa, 2006, vol. I, p. 53. 72 C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, in L. FIRPO (diretta da), Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, vol. I, Milano, 1984, p. 25-26.

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La riflessione iniziale mette in luce l’idea del c.d. contratto sociale73, elaborata dal punto di vista di Beccaria, considerato quale base del rapporto tra lo Stato e il cittadino: lo Stato come depositario della sovranità ma allo stessa tempo garante delle libertà dei singoli soggetti che hanno scelto di privarsi del loro assoluto libero arbitrio in favore della securitas sociale.

Il principio di determinatezza e di necessaria chiarezza delle leggi è già valutato come fondamentale da Beccaria74 anche se il suo «impeto generoso non è dunque bastato né poteva bastare»75.

Alla base del contratto sociale vi è un rapporto sinallagmatico che prevede il reciproco scambio di fiducia tra le parti, che si trovano alleate, al fine di perseguire il bene comune; questa reciprocità comporta una conseguente condizione di parità tra le parti poiché la legittimazione dello Stato deriva inevitabilmente dai singoli cittadini che sottostanno volontariamente alla legge: pensiamo paradossalmente dal limite estremo di tale costruzione secondo cui «la legge fa sapere a ciascuno ciò che egli può volere»76.

Questo “patto di alleanza”, se così può essere definito, è oggi sancito dalla Costituzione ai sensi primo comma dell’art. 5477, nel quale è consacrato un duplice dovere del cittadino di fedeltà alla Repubblica e di obbedienza alle leggi ed alla Costituzione.

Nell’interpretazione dell’articolo nascono delle difficoltà nel momento in cui si vogliano apporre i confini a tale dovere poiché il concetto di fedeltà si ritrova ad essere molto più vicino all’ambito della morale rispetto a quello del diritto richiamando concetti come lealtà, fiducia, correttezza78; d’altro canto non si può pensare che tale dovere da parte del cittadino sia sconfinato poiché, essendo il fondamento della limitazione di alcune libertà, pensarlo senza limitazioni sarebbe come privare il cittadino di qualsiasi spazio residuo di libertà e non sarebbe più un contratto sociale ma una forma di asservimento totale allo Stato che svilirebbe il concetto stesso di Repubblica, facendo venire meno una delle due parti.

Prospettando un’idea di sottomissione del cittadino, dovremmo pensare ad un assoggettamento esclusivamente alla legge stessa affinché si possa perseguire una comune libertà; quest’idea può sembrare paradossale o comunque riconducibile ad una riflessione prettamente filosofica ma è presente già sin dai tempi di Cicerone, secondo cui «legum omnes servi sumus, ut liberi esse possimus».

73 L’idea del «contratto sociale» è propria della teoria del giusnaturalismo che vede l’uscita degli uomini dallo stato di natura per fondare la società civile. 74 Cfr. A. CADOPPI, P. VENEZIANI, Manuale di diritto penale. Parte generale e Parte speciale, Padova, 2007, p. 49. 75 F. CARNELUTTI, Fondazioni della riforma penale, in Questioni sul processo penale, Bologna, 1950, p. 25. 76 F. LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, a cura di G. ASTUTI, in Civiltà del diritto, collana già diretta da F. Calasso e curata da F. Mercadante, Milano, 1968, p. 50. 77 Art. 54, primo comma, Cost.: «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi». 78 Cfr. G. M. SALERNO, sub Art. 54, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, , Torino, 2008, p. 1078.

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Il presupposto per il perseguimento concreto di questi obiettivi è contenuto nell’idea di certezza del diritto poiché una «legge incerta tradisce la sua missione di legge»79.

La certezza del diritto che spinge l’uomo a fidarsi ed affidarsi all’ordinamento non deve essere relazionata esclusivamente con il dato sostanziale poiché, anche tutte le norme che regolano l’aspetto processuale hanno un’incidenza equivalente sul soggetto che, se venisse privato di certezza nell’ambito processuale, sarebbe come se non vi fosse stata certezza anche sul piano sostanziale. Tale assunto risulta essere fondamentale in particolare modo «in un mondo come quello del processo, che è votato istituzionalmente all’incertezza»80.

Introdurre una nuova norma processuale ed attribuirle immediata efficacia non è forse violazione diretta del principio di certezza del diritto?

La domanda ci porta subito in media res, tantoché non possiamo parlare di affidamento nel sistema processuale senza riferirci al principio di certezza del diritto e senza notare, sin da principio, come siano due aspetti intrinsecamente connessi.

La riflessione sull’elaborazione della teoria dell’affidamento in ambito processuale, presume che «il processo, in cui la lite viene portata di fronte al giudice, e in cui per così dire tutta l’esperienza giuridica si rivela e si manifesta pienamente per quello che è e in cui l’azione è costretta a ripiegarsi su stessa per giustificarsi mentre chiede giustizia, è il risultato del diritto certo. E il soggetto è nel processo sempre presente, perché appunto difende se stesso e la sua aspirazione al certo, e invoca la difesa del diritto perché la sua propria aspirazione, che è anche quella del diritto, non sia delusa ma trovi integrale soddisfazione»81.

Che cosa intendiamo per affidamento nel sistema processuale? Sostanzialmente niente di differente rispetto a quello che si intende per

affidamento rispetto alle norme sostanziali; l’imputato si affida completamente al sistema processuale: nel senso di non voler essere pregiudicato da eventuali cambiamenti normativi che inevitabilmente assumono immediata efficacia con esclusivo riferimento ad atti futuri non ancora compiuti.

Il principio del tempus regit actum è verosimilmente incompatibile con la teoria dell’affidamento perché, se ci soffermiamo a riflettere, su cosa effettivamente potrebbe fare affidamento il soggetto?

L’affidamento presuppone la sicurezza nel diritto ma in una normativa vittima dei mutamenti legislativi la certezza non sembra essere tra i baluardi del sistema; sicuramente non ci può essere un reale affidamento in un processo regolato da logiche che prediligono la sistematicità e la razionalità piuttosto che la tutela del favor libertatis.

Il rapporto tra governati e governati, di cui abbiamo parlato nella parte iniziale, risulta essere inesistente poiché viene meno il sinallagma su cui si fonda, non c’è, infatti, reciprocità nell’instaurarsi di una sovranità che si fonda sulla rinuncia di una fetta di

79 F. LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, a cura di G. ASTUTI, in Civiltà del diritto, collana già diretta da F. CALASSO e curata da F. MERCADANTE, Milano, 1968, p. 53. 80 S. SATTA, Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968, p. 121. 81 F. LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, a cura di G. ASTUTI, in Civiltà del diritto, collana già diretta da F. CALASSO e curata da F. MERCADANTE, Milano, 1968, p. 123.

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libertà del soggetto, al fine di garantire la tutela della libertà stessa, ma senza restituire la promessa funzione regolatrice e diventando, essa stessa, entità da cui difendersi.

Per la soluzione del problema dobbiamo fissare un momento a partire dal quale venga a cristallizzarsi la normativa processuale per un determinato soggetto ed è proprio su questa sulla quale il soggetto farà affidamento: in questo modo, al fine di tutelare il singolo, si verrebbe a sancire l’ultrattività di ogni norma sulla quale possa ragionevolmente fare affidamento82.

In riferimento a questa potenziale soluzione parte della dottrina ha sollevato la problematica concreta di andare ad oggettivare dei criteri, validi erga omnes, per individuare un momento al quale riferirsi per fissare la normativa, poiché sarebbe ingestibile un approccio di natura meramente soggettiva che richiederebbe inevitabilmente di andare a «sondare l’atteggiamento psicologico di ogni imputato o parte processuale»83.

Probabilmente la possibilità che la disciplina successiva possa essere più favorevole per l’imputato rispetto a quella precedente, potrebbe essere una reale complicazione poiché se la norma precedente più sfavorevole venisse cristallizzata, in ragione della tutela dell’affidamento, si tutelerebbe l’affidamento del soggetto ma si pregiudicherebbero altre garanzie dell’imputato84: in questo modo verrebbe meno la funzione stessa della tutela del legittimo affidamento che è quella di garantire effettivamente le posizioni di vantaggio del soggetto.

La nostra Corte Cost. «si è fatta carico di portare avanti un processo di progressiva emersione del principio in parola sganciandolo da una sua esclusiva applicazione alla sola attività amministrativa per proiettarne la valenza garantista anche nei riguardi del legislatore»85, si è quindi ampliato l’orizzonte di tutela estendendolo funzionalmente al legislatore come primo garante di tale diritto.

Il giudice delle leggi, pur in mancanza di un richiamo esplicito a tale fattispecie nella Costituzione, ha svolto un ruolo sostanziale nella definizione dell’importanza di tutela del legittimo affidamento inquadrando l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica come «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto»86.

Con lo specifico riferimento all’eventualità di disposizioni con efficacia retroattiva, la Consulta ha ribadito che il legittimo affidamento «non può essere leso da

82 Cfr. O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Umbertis

e G.P. Voena, Milano, 1999, p. 234. 83 O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Umbertis e G.P. Voena, Milano, 1999, p. 235. 84 Cfr. O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Umbertis e G.P. Voena, Milano, 1999, p. 235. 85 F. F. PAGANO, Legittimo affidamento e attività legislativa nella giurisprudenza della Corte costituzionale e delle Corti sovranazionali, in Diritto pubblico, 2014, pp. 583-628. 86 C. Cost., sent., 17 dicembre 1985, n. 349, in http://www.cortecostituzionale.it/; in riferimento al legittimo affidamento, si esprime nella stessa direzione la C. Cost., sent., 2 luglio 1997, n. 211, in http://www.cortecostituzionale.it/ e la C. Cost., sent., 26 luglio 1995, n. 390, in http://www.cortecostituzionale.it/.

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disposizioni retroattive, le quali trasmodino in un regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti»87.

La cospicua e consolidata giurisprudenza della Corte Cost. si è riferita alla necessità di tutelare l’affidamento del soggetto su più fronti, inquadrandolo ripetutamente come elemento fondante del c.d. Stato di diritto ma capiamo l’importanza di tale tutela proprio nell’ambito penalistico poiché in gioco non ci sono interessi di natura patrimoniale ma interessi che riguardano la libertà del soggetto. Ledere la tutela dell’affidamento è riconducibile, in tal senso, ad uno svilimento della dignità del soggetto poiché è come se in una partita il giocatore in vantaggio si arroghi il potere di cambiare le regole del gioco in corso d’opera.

Con questa riflessione si è voluto mettere in luce un aspetto proprio del principio dell’affidamento che abbandona la sua tradizionale visione di mera staticità e conservazione ma lo incornicia in una garanzia effettiva in relazione alla salvaguardia delle situazioni giuridiche soggettive che si siano consolidate in capo al cittadino88. 3. Tentativo di mitigare la rigidità del principio del “tempus regit actum”: applicabilità dell’art. 2 c.p. alla materia processuale.

Arrivando al nocciolo duro della questione dobbiamo necessariamente

analizzare, in via preliminare, il rapporto sussistente tra la norma penale sostanziale e la norma penale processuale per fissare le ragioni sulle quali si fonderebbe il tentativo di estendere il principio di retroattività favorevole, disciplinato nell’art. 2 c.p., anche a norme di natura processuale; il motto di tale articolo può essere compendiato nella formula secondo cui «la legge è uguale per tutti»89.

La legge penale è indiscutibilmente una tipologia di norma che differisce completamente dalle altre e viene, da sempre, considerata come un’arma a doppio taglio poiché nel momento stesso in cui punisce un soggetto, che si sia reso autore di una fattispecie delittuosa, interviene incidendo sul suo diritto fondamentale alla libertà personale; per tali ragioni risulta sempre necessario realizzare una duplice attività di contemperamento tra i diversi interessi in gioco: la prima da parte del legislatore nella fase dell’elaborazione del dato normativo e la seconda ad opera del giudice nella fase applicativa.

Parlare di norma penale potrebbe, nell’immediato, far pensare esclusivamente all’ambito sostanziale poiché, definendo le differenti fattispecie delittuose e stabilendo il quantum della sanzione, sembra essere quello che maggiormente adempie lo scopo prefissato dall’ordinamento: l’esigenza di ripristinare la tranquillità sociale intervenendo con incisività per ripristinare la situazione lesa.

87 C. Cost., sent., 4 novembre 1999, n. 416, in http://www.cortecostituzionale.it/. 88 Cfr. F. F. PAGANO, Legittimo affidamento e attività legislativa nella giurisprudenza della Corte costituzionale e delle Corti sovranazionali, in Diritto pubblico, 2014, pp. 583-628. 89 F. CARNELUTTI, Riflessioni sulla successione di leggi penali processuali, in Questioni sul processo penale, Bologna, 1950, p. 194.

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In realtà, parte integrante della norma penale, oltre che al riferimento sostanziale, è l’aspetto procedurale poiché le modalità con cui una fattispecie viene accertata ed i criteri con cui viene irrogata la sanzione risultano essere risvolti differenti di una medesima circostanza ma comunque inscindibili tra loro.

La possibilità di poter considerare indipendentemente l’aspetto sostanziale e l’aspetto procedurale della norma penale è la ragione per cui si è pervenuti ad una disciplina codicistica separata che soddisfa esigenze di natura meramente didattica.

Per comprendere come, tra le due discipline, vi sia un rapporto di fusione concettuale dobbiamo, seppur in maniera succinta, far riferimento agli sviluppi storici dell’una e dell’altra disciplina; in particolare è da evidenziare che solo «ragioni di semplicità e comodità espositive fanno sì che i segmenti della prima categoria, quelli che riguardano fattispecie ed effetti, siano denominati diritto penale sostanziale» e «i segmenti della seconda categoria, che riguardano i modi di accertamento della fattispecie e di irrogazione ed esecuzione degli effetti, siano denominati diritto processuale penale, dando luogo a distinte fonti di cognizione (codici) ed a distinti insegnamenti»90.

La procedura penale, nei primi decenni del secolo scorso, era una disciplina insegnata congiuntamente al diritto penale ed ha acquisito autonomia didattica, negli ordinamenti istituzionali dei corsi di laurea in Giurisprudenza, solo nel 1938.

La separazione dell’insegnamento delle due discipline è stata dettata da esigenze meramente formative ma è l’unione originaria che deve farci riflettere: il processo penale non può essere considerato come una mera pratica causarum ma, anzi, lo spessore dei valori coinvolti risulta avere una portata paragonabile a quelli che vengono tutelati dalle norme di natura sostanziale91.

I due aspetti possono essere definiti come simbiotici poiché, per realizzare concretamente le finalità del sistema, devono essere considerati contestualmente senza lasciarsi tentare da idee di autonomia dell’uno o dell’altro aspetto; Carnellutti ci invita a non dimenticare che «del resto, anche il giudizio, come la pena, è un mezzo di repressione del reato, analogo alla medicina prescritta contro la malattia»92.

L’intero sistema penalistico deve essere considerato come la congiunzione, non trascurabile, tra l’anima sostanziale e l’anima processuale e, tra queste, risulta instaurarsi un rapporto di «reciproca implicazione»93; non può, quindi, essere considerato come erroneo, affermare che per norma penale, complessivamente intesa, debba intendersi sia l’aspetto sostanziale che l’aspetto processuale poiché sono regole che devono essere considerate nello stesso spazio, nello stesso tempo e verso i medesimi destinatari.

Le finalità della norma penale, per come la stiamo valutando, si dirigono su due direttive che pur essendo diametralmente opposte, realizzano la sintesi di un sistema

90 M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, Torino, 1999, p. 19. 91 Cfr. G. TRANCHINA, G. DI CHIARA, Sistema penale e diritto processuale penale, in G. Di Chiara, V. Patanè, F. Siracusano (a cura di), Diritto processuale penale, Milano, 2013, p. 6. 92 F. CARNELUTTI, Riflessioni sulla successione di leggi penali processuali, in Questioni sul processo penale, Bologna, 1950, p. 197. 93 G. TRANCHINA, G. DI CHIARA, Sistema penale e diritto processuale penale, in G. Di Chiara, V. Patanè, F. Siracusano (a cura di), Diritto processuale penale, Milano, 2013, p. 4.

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che possa ritenersi giusto: se da un lato si vuole tutelare la vittima di una fattispecie di reato, dall’altro si deve garantire che non venga usurpata la libertà dell’individuo.

Il principio del favor libertatis è alla base di un sistema penale che funzioni correttamente e di un ordinamento che possa essere definito civile; è il minimo che si possa fare per soddisfare il valore costituzionale della presunzione d’innocenza fino alla condanna definitiva.

La rotta da seguire per la tutela effettiva della libertà del soggetto è quella del principio del favor rei inteso come applicazione di una statuizione più favorevole nel caso di dubbio e quindi la determinazione del principio di irretroattività della norma, non in termini assoluti, ma relativi94.

Con quanto affermato non si vuole in alcun modo intendere che debba perdersi di vista l’obiettivo primario di tutela della vittima del reato ma si vuole specificare che non si deve sacrificare gratuitamente la libertà di un individuo per l’inutile smania di voler trovare a tutti i costi un colpevole e pervenire ad una verità processuale che soddisfi esclusivamente le pretese della pubblica opinione poiché, in conclusione, risulterebbero esserci non più una ma ben due vittime: la prima lesa dal reato, la seconda lesa dal sistema.

La dottrina più garantista, nello specifico Gallo, ha giustamente elaborato la teoria della «norma reale» che rende al meglio l’idea della fusione tra l’aspetto penale sostanziale e l’aspetto penale processuale poiché «consta di segmenti che delineano la fattispecie condizionante e le conseguenze condizionate e di segmenti che dispongono come deve essere accertata detta fattispecie e come vanno pronunciate (irrogate) ed eseguite le conseguenze sanzionatorie»95.

Tale ricostruzione parte del presupposto che a rilevare è la «condizione di assoggettamento alla possibilità di una sanzione, in conseguenza della commissione di un certo fatto» ed «altrettanto evidente è che il prodursi dell’effetto sanzionatorio non può fare a meno di regole che disciplinano l’accertamento del fatto che condiziona l’assoggettamento a sanzione e le modalità che contrassegnano l’irrogazione e l’eventuale esecuzione della sanzione stessa»96; si matura una consapevolezza secondo cui tutte le norme che regolano i diversi aspetti si influenzano ed interagiscono tra loro non potendosi più considerare in modo dissociato.

La necessità per cui è stata evidenziata tale interconnessione nasce dall’esigenza di mettere in luce come aspetti così contigui ed inscindibili sono in realtà governati da regole intertemporali differenti che creano una contraddizione insuperabile all’interno del sistema.

Il tentativo è di fondare un’estensione dell’applicazione del principio della retroattività favorevole, disciplinato nel quarto comma dell’art. 2 c.p., anche a norme di natura processuale.

Il processo penale, oltre che ad essere governato dal principio del tempus regit actum, dovrebbe essere presieduto da un’impostazione per la quale: se nel corso del

94 Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2013, p. 84. 95 M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, Torino, 1999, p. 18. 96 M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, Torino, 1999, p. 18.

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processo vi è l’introduzione di una nuova normativa prima che questa trovi immediata applicazione deve valutarsi in concreto quale sia quella più favorevole all’imputato.

La tutela del favor rei deve essere il fulcro anche delle dinamiche di natura processuale altrimenti si rischia di tutelare il soggetto soltanto sotto il profilo dell’essere il potenziale autore del reato ma non sotto il profilo dell’essere concretamente protagonista del processo.

Il punto di raccordo tra il diritto penale sostanziale ed il diritto penale processuale, deve essere rintracciato nella «teoria della pena» che «da ultimo capitolo del diritto penale materiale deve diventare il primo del diritto penale processuale», e paradossalmente «è probabile che il diritto penale materiale non si accorga nemmeno della perdita»97.

Per essere più precisi, nella dimostrazione di come anche aspetti di natura processuale possano incidere direttamente sulla libertà del soggetto, possiamo enucleare tre settori principali di ordine processuale che sono in stretta correlazione con aspetti sostanziali: il regime delle prove, il regime dell’esecuzione penale con specifico riferimento alla parte in cui si definiscono i contenuti della pena ed infine il regime delle misure cautelari98.

L’indirizzo che mostra tale prospettiva si basa sul presupposto che «i precetti che incidono su beni costituzionalmente tutelati, anche se contenuti nel codice di rito, soggiacciono alla stessa disciplina intertemporale delle norme di diritto sostanziale in applicazione analogica dell’art. 25, comma 2, Cost.», si intende sostenere, in particolare «che il legislatore costituzionale, parlando genericamente di «impossibilità di punire», avesse inteso estendere la regola dell’irretroattività della legge sfavorevole anche alla legge processuale. E siccome poi, malgrado la lettera della norma costituzionale, la irretroattività della legge penale più mite, non può essere negata neppure la retroattività delle leggi processuali ove esse siano più favorevoli per l’imputato»99.

Sulla base di simili rilievi è stata elaborata, da vari illustri giuristi quali Gallo, Siniscalco, la categoria delle c.d. norme processuali a rilevanza sostanziale100, riferita ad una categoria di norme che pur appartenendo alla normativa di carattere processuale dovrebbero godere delle medesime garanzie delle norme di natura sostanziali in quanto a queste equiparabili.

La dottrina più garantista ha realizzato una ricostruzione del tema evidenziando come la stessa analisi esegetica dell’art. 2 c.p. comproverebbe come tale articolo è solo

97 F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, Roma, 1946, p. 8. 98 Cfr. E. M. AMBROSETTI, La legge penale. Fonti, tempo, spazio, persone., in Commentario al Codice Penale, vol. I, opera diretta da M. Ronco, con la collaborazione di E. M. Ambrosetti, E. Mezzetti, Bologna, 2006, p. 225. 99 G. TOSCANO, Successione di leggi penali e materia cautelare al vaglio della Suprema Corte in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2014, p. 2010. 100 Cfr. M. GALLO, Interpretazione della Corte costituzionale e interpretazione giudiziaria (a proposito delle garanzie della difesa nell’istruzione sommaria), in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1965, pp. 215 e ss.; sulla stessa linea si mantiene M. SINISCALCO, Irretroattività delle leggi in materia penale. Disposizioni sostanziali e disposizioni processuali nella disciplina della successione di leggi, Milano, 1987, pp. 105 e ss.

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apparentemente riferito alle esclusive norme di carattere sostanziale mentre in realtà ricomprende anche l’applicabilità alle norme processuali penali101.

Una rapida ma necessaria panoramica dell’art. 2 del c.p. lo vede rubricato come «Successioni di leggi penali» e costituisce la disciplina ad hoc, dell’ambito sostanziale, volta a regolare la successione normativa delle norme penali sostanziali.

Nel primo comma dell’art. 2 c.p. viene ripreso il principio già sancito nella Carta Costituzionale nell’art. 25, secondo comma e si determina che nel rispetto del principio di legalità «nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato»102. Tale precetto costituzionale deve essere analizzato secondo una prospettiva che lo vede adempiere ad una duplice pretesa del sistema penale.

Nell’art. 2, primo comma, c.p. viene sancita esplicitamente la regola dell’irretroattività come regola fondamentale del diritto intertemporale nell’ambito penale sostanziale ed è subito evidente come vi sia un vulnus normativo nella disciplina processuale che non facendo alcun riferimento si è trovata vestita di un principio estraneo all’ambito penale, poiché di portata generale, sancito nell’art. 11 Disp. prel. c.c..

L’art. 11 Disp prel. c.c. riprende in via ordinaria il principio dell’irretroattività affermando che la legge «non dispone che per l‘avvenire: essa non ha effetto retroattivo» ma, in riferimento all’ambito processualistico, viene tradotto nella formula secondo cui «ogni atto viene posto in essere secondo la norma vigente al momento del suo compimento» pertanto saltano completamente tutte le aspirazioni di tutela dell’ordinamento.

Proseguendo nell’analisi dell’art. 2 c.p. possiamo sicuramente renderci conto di come il secondo, il terzo ed il quarto comma riguardano il principio della retroattività favorevole anche se declinati differentemente a seconda di esigenze di tutela diverse103. Mentre il principio di irretroattività si riferisce specificamente alle ipotesi di interventi legislativi innovativi rispetto alla disciplina vigente durante il tempus commissi delicti, al contrario, il secondo comma dell’art. 2 c.p. sancisce la piena retroattività favorevole di una norma che determina l’abolitio criminis. La portata innovativa di tale disciplina è riconducibile al suo potere di travolgere eventualmente il giudicato di condanna e determinando l’immediata cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali.

Il terzo comma dell’art. 2 c.p.104 non prevede l’abolizione del reato, infatti si presuppone che il fatto continui ad essere previsto come tale anche dalla legge posteriore, ma ciò che muta è la pena.

In tale previsione, è sancita la determinazione di sostituzione della pena nei casi in cui la norma successiva determini la previsione della pena pecuniaria rimpiazzando

101 Cfr. O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Umbertis

e G.P. Voena, Milano, 1999, p. 172. 102 Art. 2, primo comma, c.p. 103 Cfr. B. ROMANO, sub Art. 2, in T. Padovani (a cura di), Codice penale, vol. I, in Le fonti del diritto italiano. I testi fondamentali commentati con la dottrina e annotati con la giurisprudenza, Milano, 2014, p. 47. 104 Il secondo comma dell’art. 2 c.p. è stato inserito con l’art. 14 l. n. 85 del 2006; precedentemente tale disposizione si ricavava interpretativamente dal precedente terzo comma dell’art. 2 c.p. (attuale quarto comma).

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l’eventuale pena detentiva con la finalità di tutelare il principio di uguaglianza che persegue la garanzia del favor libertatis105.

Il riferimento testuale realizzato dalla norma, nel secondo e terzo comma, rimanda chiaramente alle sole ipotesi di abolizione successiva del reato e di sostituzione della pena detentiva circoscrivendo l’ambito di applicabilità e non rendendo suscettibile un’estensione interpretativa all’ambito processuale.

L’elemento essenziale per il nostro studio è evidenziato nel quarto comma dell’art. 2 c.p. che si riferisce alla retroattività favorevole di leggi modificative poiché risulta essere interpretativamente estensibile all’ambito processuale: non riguarda specificamente l’an della punibilità ovvero il quantum pertanto è suscettibile di essere esteso anche agli aspetti che riguardano il quomodo.

L’applicazione di tale strumento intertemporale trova però un limite insuperabile nella sentenza passata in giudicato poiché si determina testualmente «salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile»106.

Le ragioni dell’intangibilità del giudicato vengono messe in luce dal Giudice delle leggi e sono ricondotte all’«esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti ormai esauriti, perseguita statuendo l’intangibilità delle sentenze divenute irrevocabili»107.

Il concetto di favorevole è di difficile inquadramento e non trova alcun riscontro nell’ambito costituzionale se non per la materia penale, poiché essendo una materia particolarmente grave è bene porre l’individuo al riparo da qualsiasi arbitrio legislativo che leda il favor libertatis108;

L’orientamento dottrinario predominante «sostiene la necessità di un’indagine valutativa in concreto, che tenga conto dell’intera cornice normativa» inoltre, ci si deve muovere realizzando una «comparazione delle conseguenze effettivamente derivanti dall’applicazione dell’una o dell’altra norma»109.

Verosimilmente, la materia penale sembrerebbe essere l’unica materia nella quale la determinazione di cosa sia favorevole o no possa essere individuato secondo caratteri oggettivi che non sono in balìa della relatività poiché in gioco vi sono diritti fondamentali dell’individuo.

Certamente nella valutazione riguardo quale sia la norma più favorevole non è consentita la creazione di un mixtum compositum, ad opera esclusiva dell’interprete, che miri a realizzare una coesione dei vari aspetti favorevoli contenuti nelle singole norme in successione tra loro poiché si realizzerebbe una completa violazione dei principi di legalità e tassatività110, conducendo «soltanto alla applicazione di un diritto desiderato ma inesistente»111.

105 Art. 2, secondo e terzo comma, c.p. 106 Art. 2, quarto comma, c.p. 107 C. Cost., sent., 20 maggio 1980, n. 74, in http://www.cortecostituzionale.it/. 108 Cfr. G. GROTTANELLI DE’ SANTI, Profili costituzionali della irretroattività delle leggi, Milano, 1970, p.75. 109 R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Roma, 2012, pp. 242-243; nella stessa ottica si esprime G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2009, p. 93. 110 R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Roma, 2012, p. 243. 111 M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, Torino, 1999, p. 128.

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La creazione di una tertia lex, in via interpretativa, non è ammessa dal nostro ordinamento pertanto deve applicarsi «integralmente quella delle due che, nel suo complesso, risulti, in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, più vantaggiosa al reo»112.

L’unico limite, alla possibilità applicativa dei primi quattro commi dell’art. 2 c.p., è contenuto nel quinto comma il quale stabilisce che «se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti»113; tale previsione, alla retroattività prevista nel quarto comma precedente, determinando la c.d. ultrattività delle disposizioni114.

Per localizzare l’ambito di estensione di tale limite predisposto a livello codicistico, occorre, brevemente, stabilire cosa si intenda per leggi eccezionali o temporanee.

La definizione di leggi temporanee viene delimitata negli stessi Lavori preparatori del Codice Penale che parlano di leggi «che hanno vigore entro un limite di tempo da esse stesse determinato»115, ossia si tratta di leggi «la cui validità è, per regola espressa, limitata nel tempo»116.

Per leggi eccezionali ci si riferisce a quelle il cui ambito di operatività temporale è subordinato al perdurare di «uno stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori dall’ordinario»117; parte della dottrina li ha individuati in casi limite, ad esempio, in guerre, epidemie, terremoti118.

Le norme penali di natura processuale non rientrano, evidentemente, nella tipologia di norme descritte dal quinto comma dell’art. 2 c.p. poiché sono norme con un’efficacia stabile e duratura nel tempo e non adempiono a nessuna esigenza di eccezionalità; pertanto, realizzando la norma stessa una circoscrizione del limite applicativo della retroattività favorevole, non sembrano esserci giustificazioni normative per limitare l’estensione della retroattività favorevole anche alle norme di natura processuale.

La valutazione circa il potenziale beneficio apportato da una norma successiva, deve coinvolgere sia l’ambito sostanziale che l’ambito processuale così come illustrato magistralmente da Gallo che congiunge i due ambiti e non li contrappone affermando che «per ciò che concerne la vicenda temporale è disposizione più favorevole quella che sul piano del diritto sostanziale, comprensivo degli effetti penali e non penali ricollegati ad un reato, e sul

112 A. CADOPPI, S. CANESTRARI, A. MANNA, M. PAPA (diretto da), Trattato di diritto penale. Parte generale. Il diritto penale e la legge penale, vol. I, Torino, s.d., p. 249; nello stesso senso si esprime E. M. AMBROSETTI, La legge penale. Fonti, tempo, spazio, persone., in Commentario al Codice Penale, vol. I, opera diretta da M. Ronco, con la collaborazione di E. M. Ambrosetti, E. Mezzetti, Bologna, 2006, p. 265. 113 Art. 2, quinto comma, c.p. 114 Cfr. A. CADOPPI, P. VENEZIANI, Manuale di diritto penale. Parte generale e Parte speciale, Padova, 2007, p. 146. 115 Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, parte I, Roma, 1929, in http://www.senato.it/. 116 M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, Torino, 1999, p. 141. 117A. CADOPPI, S. CANESTRARI, A MANNA, M. PAPA (diretto da), Trattato di diritto penale. Parte generale. Il diritto penale e la legge penale, vol. I, Torino, s.d., p. 296. 118 Cfr. G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2009, p. 98.

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piano del diritto processuale assicura al soggetto che ne è destinatario un trattamento meno severo o, comunque, più corredato da garanzie»119.

Il processo penale deve, logicamente, essere visto secondo una prospettiva che lo inquadra come «complesso degli atti, in cui si risolve la punizione del reo», pertanto, consiste nell’essere «una fase, precisamente la seconda fase di ciò, che si può chiamare il fenomeno penale, il quale è costituito dalla combinazione del reato e della pena»120.

Proseguendo, fissiamo il punto di partenza nell’«indissolubile connessione o correlatività del reato e della pena, i quali costituiscono il diritto e il rovescio d’una medaglia» e concludiamo sostenendo che «il diritto penale materiale ha pertanto quale oggetto il reato; il diritto penale processuale, ha, invece, quale oggetto la pena. L’uno e l’altro insieme formano il diritto penale»121.

Prima di evidenziare con la riflessione finale è bene specificare che il processo penale, genericamente, può essere inteso come momento per verificare se una persona debba, o meno, essere punita, difatti «non sono ammessi l’assoggettamento spontaneo alla pena né una punizione infitta ex abrupto»122.

Tutto questo, non fa che confermare un dato che tornerà ad emergere nel nostro studio e che si rivelerà ancora più evidente a chiusura del medesimo: il trait d’union tra l’aspetto materiale e l’aspetto processuale può, senza dubbio, essere rintracciato nella pena.

La pena, è vero che viene ad essere specificata e stabilita nelle norme sostanziali ma, al contempo, è concretamente quantificata e soppesata in ambito processuale. Inoltre, proprio perché la pena è l’aspetto che incide effettivamente sulla libertà del soggetto, ha ispirato il brocardo secondo cui «nulla poena sine judicio»; tale espressione compendia l’idea di inscindibilità tra i due differenti ambiti. La conclusione è del tutto naturale e ci viene suggerita dalla serie di riflessioni sopra realizzate, inerenti il rapporto che sussiste tra processo penale e diritto penale sostanziale, secondo cui uno è “al servizio” dell’altro.

119 M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, Torino, 1999, p. 126. 120 F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, Roma, 1946, p. 33. 121 F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, Roma, 1946, p. 33. 122 F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1987, p.8.

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QUALE «STATUS» PER IL CONSULENTE TECNICO DEL PUBBLICO MINISTERO?

Appunti per una lettura «multifocale»

di Annalisa Gasparre

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’overturning della sentenza assolutoria al cospetto dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. – 3. I consulenti tecnici sono assimilabili ai testimoni? – 4. Un’immagine “sfocata” quella prodotta da una prospettiva ipermetrope: se destinatario di una condotta allettatrice, il consulente tecnico del p.m. è equiparato al testimone.

1. Premessa.

La “questione” di quale sia lo status del consulente del pubblico ministero ha un

doppio ambito di rilevanza: sul versante processuale riguarda le modalità di “assunzione” del contributo tecnico e solleva problematiche relative alla natura della prova formata attraverso la consulenza tecnica (ci si chiede se sia una prova dichiarativa assimilabile in toto a quella di un testimone); sul versante sostanziale, ci si interroga riguardo un obbligo o un onere di verità penalmente sanzionato. Sullo sfondo si stanzia la problematica più ampia di quale sia il contributo apportato dal consulente tecnico al processo teso all’accertamento di fatti di rilevanza penale, contributo sempre più fondamentale perché frutto di un sapere tecnico-scientifico, spesso decisivo nella dimensione rappresentativa del quadro scientifico vivente1.

1 DOMINIONI, L’esperienza italiana di impiego della prova scientifica nel processo penale, in Dir. pen. proc., 2015, p. 601 ss.

Abstract. L’interrogativo in merito a quale sia lo status del consulente del pubblico ministero ha un doppio ambito di rilevanza, processuale e sostanziale. Circa le modalità di assunzione del contributo tecnico vi è un’assimilazione totale alla prova dichiarativa del testimone? E, ancora, esiste un obbligo di verità passibile di sanzione penale oppure solo un onere ai fini dell’attendibilità? In breve: il consulente tecnico del pubblico ministero è sempre assimilabile al testimone? La possibile ricerca di risposte rinvia ad una (ormai) classica questione: la rilevanza della prova scientifica nel processo penale.

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Si anticipa che le problematiche emerse dall’indagine sulla “qualifica” del consulente tecnico del pubblico ministero sul piano processuale e su quello sostanziale sembrano autonome ma si intersecano per poi allontanarsi nella soluzione adottata confermando una natura ibrida ma “ipermetrope”, che non convince del tutto a seconda della prospettiva adottata.

2. L’overturning della sentenza assolutoria al cospetto dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.

In un recente caso deciso dalla Corte di cassazione (sez. V, 13 gennaio 2017, n.

1691)2, la Corte d’assise di Catanzaro aveva condannato l’imputato per il reato di lesioni gravi in danno della vittima, derubricando l’originaria imputazione di omicidio preterintenzionale e aveva assolto i medici dall’addebito di omicidio colposo “perché il fatto non sussiste”. La Corte d’assise d’appello di Catanzaro ha riformato la sentenza riconoscendo l’omicidio preterintenzionale per l’aggressore e l’omicidio colposo per i tre medici. In estrema sintesi la Corte d’appello ha ritenuto che i colpevoli errori diagnostici dei sanitari costituivano i presupposti per il ritardo nell’effettuazione dell’intervento chirurgico e che tra la condotta dell’aggressore e la morte della vittima non si erano inseriti fattori potenzialmente idonei ad esplicare efficacia causale esclusiva (art. 41 c.p.).

La Corte di cassazione ha rigettato i ricorsi proposti dagli imputati condannati dalla Corte d’assise d’appello – che avevano censurato la mancata nuova audizione dei consulenti del pubblico ministero – affermando che riguardo alle dichiarazioni del consulente tecnico o del perito non si impone la rinnovazione della prova in appello, data la “peculiarità” della prova dichiarativa di tali soggetti.

Nel caso deciso, tra i motivi del ricorso spicca quello in cui si lamenta la violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 533 c.p.p. nonché dell’art. 6 Convenzione EDU: secondo tale prospettiva la Corte d’assise d’appello avrebbe modificato la sentenza di assoluzione di primo grado dopo aver rigettato la richiesta di riapertura dell’istruttoria dibattimentale proposta dal pubblico ministero e finalizzata ad una nuova consulenza tecnica; inoltre, non si era proceduto alla nuova audizione dei consulenti del pubblico ministero dalle quali deposizioni dibattimentali la Corte si era discostata.

Adottando la prima prospettiva (processuale) che indaga sulla possibilità di

assimilare il consulente tecnico al testimone, occorre richiamare i principi che regolano l’istruzione dibattimentale, meglio la rinnovazione in appello della prova dichiarativa, giacché è su quest’ultima che si sono registrati contrasti applicativi.

2 Cass. pen., sez. V, 13 gennaio 2017, n. 1691, CED 269529. Nella fattispecie, a seguito di una lite, l’imputato aggrediva una donna che poi veniva ricoverata presso il Pronto Soccorso, di seguito dimessa e, qualche tempo dopo, nuovamente ricoverata per essere sottoposta ad un intervento chirurgico per una frattura non diagnosticata tempestivamente; la paziente era deceduta il giorno dopo l’operazione. Per una prima lettura, CORVI, Decisioni in contrasto, in Proc. pen. giust., 2017, n. 2, p. 246 s.

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Fermo il divieto di reformatio in peius nel caso di appello del solo imputato, il giudice d’appello può pronunciare sentenza di riforma della sentenza di primo grado (art. 605, co. 1 c.p.p.). La giurisprudenza ha però chiarito che il giudice d’appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio e di confutare specificamente gli argomenti rilevanti della motivazione della prima decisione, dando conto delle ragioni dell’incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento (la c.d. motivazione rafforzata)3. Ancora più chiaramente, nel 2013 la Corte di cassazione ha precisato che la riforma della sentenza assolutoria impone al giudice di argomentare circa la configurabilità del diverso apprezzamento come «l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio»4.

Se non ritiene di poter decidere allo stato degli atti (co. 1 dell’art. 603 c.p.p.) o se ritiene la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale assolutamente necessaria (co. 3 dell’art. 603 c.p.p.), il giudice dispone la rinnovazione5.

Riguardo alla rinnovazione della prova dichiarativa, lo scenario offerto dal formante giurisprudenziale si presenta omogeneo6.

Con la sentenza Dan c. Moldavia7, la Corte di Strasburgo ha affermato che per rovesciare il giudizio assolutorio basato sulla valutazione di prove dichiarative è necessaria la nuova assunzione diretta dei testimoni nel giudizio di impugnazione8.

3 S.U., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33748, CED 231679. 4 Cass. pen., sez. VI, 24 gennaio 2013, n. 8705, Farre e a., CED 254113. Conf. Sez. VI, 22 ottobre 2013, n. 45203, Paparo e a., CED 256869, Sez. II, 8 novembre 2012, n. 254725, Berlingeri, CED 254725. Per una critica all’obbligo di motivazione nel giudizio d’appello secondo il canone B.A.R.D. (behind any reasonable doubt) perché incidente sulla parità delle parti e sulla terzietà del giudice, CAPONE, Prova in appello: un difficile bilanciamento, in Proc. pen. giust., 2016, n. 6, p. 57, il quale osserva che «l’obbligo del giudice di appello di disporre la riassunzione delle testimonianze decisive ai fini di una sentenza di condanna, anche se viene incontro alle indicazioni di Strasburgo in tema di immediatezza, introduce un vistoso e ingiustificato squilibrio tra i poteri processuali delle parti». 5 Sul meccanismo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello disciplinato dall’art. 603 c.p.p., BARGIS, Impugnazioni, in CONSO-GREVI-BARGIS, Compendio di procedura penale, CEDAM, 2016, 8° ed., p. 865 ss. V. anche BELLUTA, sub art. 603, in CONSO-ILLUMINATI, cit., p. 2669 ss., il quale, sul presupposto secondo cui «l’appello conta sul principio di completezza del primo accertamento», in riferimento alla rinnovazione disposta d’ufficio di cui al co. 3 dell’art. 603 c.p.p., sottolinea la subordinazione dell’attività istruttoria al parametro della sua assoluta necessità, criterio di cui è stata affermata in giurisprudenza «l’equivalenza con l’impossibilità di decidere allo stato dagli atti». 6 Per un’indagine sullo statuto convenzionale della rinnovazione della prova in sede di impugnazione, TESORIERO, La rinnovazione della prova dichiarativa in appello alla luce della CEDU, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2014, 3-4, p. 239 ss. 7 Corte EDU, 5 luglio 2011. 8 Il principio è funzionale a consentire ai giudici d’appello di verificare la trustworthiness del dichiarante. RECCHIONE, La prova dichiarativa cartolare al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 7 maggio 2013, evoca la «tridimensionalità della prova dichiarativa» e la «valorizzazione dell’ “evento testimonianza” come fatto complesso, che si compone di comunicazione verbale e extraverbale», evento che «deve svilupparsi di fronte al giudice», un evento che «si compone non solo del “risultato” dell’intervista giudiziale, ma anche delle “modalità” con cui quell’intervista è realizzata» (cfr. anche Cass. pen., sez. III, 24 ottobre 2013, M., CED 258324). CISTERNA, Le Sezioni unite su principio di oralità ed overturning dell’assoluzione in grado d’appello fondato sulla rivalutazione della prova dichiarativa, in Arch. pen., 2016, 17 maggio 2016,

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Diversamente si violerebbe l’art. 6, par. 3 lett. d CEDU che assicura il diritto dell’imputato ad esaminare e a far esaminare i testimoni a carico e ad ottenere la convocazione dei testimoni a discarico. Tale linea interpretativa – che richiede la diretta audizione dei testi non ritenendo sufficiente la rivalutazione “cartolare” della testimonianza, pena l’iniquità del processo9 – è stata confermata successivamente dalla Corte EDU10.

Sul versante interno, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il giudice d’appello non può pervenire a condanna, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado, basandosi esclusivamente o in modo determinante su una diversa valutazione delle fonti dichiarative delle quali non abbia proceduto – anche d’ufficio – ad una rinnovata assunzione11.

Più precisamente, nella sentenza Dasgupta12 è stato chiarito che integra “vizio di motivazione” e non “violazione di legge processuale”13 il mancato rispetto, da parte del giudice d’appello, del dovere di procedere alla rinnovazione delle fonti dichiarative in vista di una reformatio in peius. I soggetti “destinatari” della rinnovazione per i quali la

sottolinea che «l’attenzione alla dimensione “comportamentale” e “fenomenica” della testimonianza che impone una valutazione della attendibilità intrinseca estesa ai contenuti extraverbali la cui percezione (e conseguente valutazione) costituisce una componente indefettibile del giudizio sul dichiarante» e ciò vale anche nel caso dei c.d. testimoni esperti. L’Autore, inoltre, osserva che il divieto di ribaltamento della sentenza assolutoria nel caso di mancata «rinnovazione della prova, si applica anche quando non è in gioco la lesione del diritto di difesa dell’imputato. Si tratta, infatti, di salvaguardare il principio di oralità». 9 Si tratta di una lettura del «diritto dell’imputato a confrontarsi con la fonte delle accuse» che viene inteso come «diritto a criticare il testimone d’accusa di fronte ad ogni giudice (dunque anche alle corti di secondo grado) che abbia il (pieno) potere di pronunciare una sentenza di condanna», di talché il diritto all’equo processo ex art. 6 CEDU «diventa (anche) diritto ad una affidabile valutazione della attendibilità, che può essere garantita solo dalla valutazione diretta della testimonianza fondamentale», così RECCHIONE, La prova dichiarativa cartolare, cit. 10 Corte EDU, 5 marzo 2013, Manolachi c. Romania e Corte EDU, 9 aprile 2013, FlueraÅŸ c. Romania, in questa Rivista, 7 maggio 2013, con nota di RECCHIONE. 11 APRATI, L’effettività della tutela dei diritti dell’uomo: le Sezioni unite aggiungono un tassello, in Arch. pen., 2016, p. 714, rintraccia nel co. 3 dell’art. 603 c.p.p. lo strumento attraverso cui la Corte di cassazione ha praticato un’interpretazione convenzionalmente orientata. Là dove la disposizione conferisce d’ufficio al giudice la possibilità di acquisire prove se risulti assolutamente necessario, secondo l’Autrice, può essere incluso il caso previsto dalla norma convenzionale: la «necessità” di riacquisire le prove ex art. 603, co. 3, c.p.p. […] comprende […] l’evenienza in cui il giudice ritenga di dover rivalutare le prove dichiarative decisive per la condanna». In dottrina, si veda anche BRONZO, Condanna in appello e rinnovazione della prova dichiarativa, in Arch. pen., 2015, n. 1, p. 233 ss. 12 S.U., 28 aprile 2016, n. 27620, CED 267488, nonché in Cass. pen., 2016, p. 3203, con nota di AIUTI, Poteri d’ufficio della Cassazione e diritto all’equo processo, p. 3214. Rilevano BELLUTA-LUPARIA, Ragionevole dubbio e prima condanna in appello: solo la rinnovazione ci salverà?, in questa Rivista, 8 maggio 2017, p. 7, che la posizione espressa dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite «conferma il costante bisogno di qualità metodologica nel momento di formazione della prova, avvalorando l’opzione di fondo del processo accusatorio, orale e immediato». 13 Non si configura violazione della legge processuale perché la mancata rinnovazione non rileva di per sé ma solo quando si accompagni ad altri elementi rivelatori di una motivazione viziata, così LORENZETTO, Reformatio in peius in appello e processo equo (art. 6 CEDU): fisiologia e patologia secondo le Sezioni Unite, in questa Rivista, 5 ottobre 2016.

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ri-assunzione della prova dichiarativa è doverosa sono i testimoni “puri”14, i testimoni “assistiti”, i coimputati di reato connesso. L’esigenza della rinnovazione si può prospettare anche nel contesto dell’impugnazione del pubblico ministero contro una pronuncia di assoluzione pronunciata nell’ambito del giudizio abbreviato15 o in caso di impugnazione ai soli effetti civili16. Si è inoltre precisato che il dovere di rinnovare gli apporti dichiarativi si configura rispetto a quelli decisivi17: non sono decisivi quei contributi dichiarativi il cui valore probatorio non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado di giudizio e che si combini con altre fonti di prova di natura diversa e non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o

14 RECCHIONE, La vittima cambia il volto del processo penale: le tre parti “eventuali”, la testimonianza dell’offeso vulnerabile, la mutazione del principio di oralità, in questa Rivista, 16 gennaio 2017, p. 21, avverte come il principio dell’oralità abbia assunto una nuova dimensione: in particolare, il contraddittorio anticipato è divenuto la “regola” «in tutti i casi in cui il dichiarante non abbia, presuntivamente, o in seguito a specifica valutazione, la capacità relazionale necessaria per affrontare il contraddittorio ordinario, sia cioè “vulnerabile”». Peraltro, l’Autrice ritiene distonico il quadro che, a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite nel caso Dasgupta, si è definito: con tale sentenza si è imposta la rinnovazione e, nel caso in cui il dichiarante sia una vittima vulnerabile, «è rimessa al giudice la valutazione circa l’indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le opportune cautele ad un ulteriore stress al fine di saggiare la fondatezza dell’impugnazione proposta avverso la sentenza assolutoria». 15 S.U., 14 aprile 2017, n. 18620, Patalano; in proposito si veda BELLUTA-LUPARIA, Ragionevole dubbio, cit. Per un commento sull’ordinanza di rimessione Cass. pen., sez. II, 9 novembre 2016, n. 47015, v. sempre BELLUTA-LUPARIA, Alla ricerca del vero volto della sentenza Dasgupta. Alle Sezioni unite il tema della rinnovazione probatoria in appello dopo l’assoluzione in abbreviato non condizionato, in questa Rivista, 9 gennaio 2017. 16 Anche in questo caso è «in gioco la garanzia del giusto processo a favore dell’imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica; tanto che anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione di ufficio ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.», S.U., 28 aprile 2016, n. 27620, CED 267488. 17 Osserva TESORIERO, cit., p. 244 che la prova dichiarativa decisiva è l’oggetto della rinnovazione e il parametro della decisività riflette il criterio della «prova determinante». V. anche LORENZETTO, cit., p. 3 ss., che evidenzia che il presupposto della decisività «andrebbe parametrato non tanto sulla prova “negata”, concetto rilevante in sede di legittimità (art. 606 comma 1 lett. d c.p.p.), bensì in relazione alla prova assunta e quindi da “ri-assumere”». L’Autrice rileva che il concetto di prova dichiarativa “decisiva” costituisce la trasposizione domestica della categoria delle prove “determinanti”, parametro presupposto al direct assessment of the evidence che si fonda sulla considerazione per cui il giudice d’appello non può esaminare e valutare un caso relativo alla colpevolezza o all’innocenza dell’imputato senza una diretta valutazione delle prove. Secondo l’Autrice il parametro si presta a letture restrittive, quale quella espressa dalle Sezioni Unite; rileva criticamente che si accredita solo la rivalutazione dell’attendibilità intrinseca senza tener conto che «il giudizio sulla credibilità “interna” del flusso comunicativo risente, inevitabilmente, anche del valore attribuito agli elementi “esterni” al dichiarato» nella misura in cui le dichiarazioni decisive sono quelle che traggono tale connotato dalla «combinazione con fonti di prova diverse da cui ricevono» un «significato risolutivo ai fini dell’affermazione della responsabilità». L’Autrice conclude che «il dovere di rinnovazione istruttoria dovrebbe sorgere ogni volta che le dichiarazioni risultino rilevanti ai fini dell’accertamento della responsabilità, nel senso che il giudice le abbia incluse tra le prove a fondamento della condanna». Sulla questione è destinata ad incidere il disposto del Disegno di legge S 2067, approvato dal Senato il 15 marzo 2017, che all’art. 22 co. 3 prevede che, dopo il co. 4 dell’art. 603 c.p.p., sia inserito il seguente: «4-bis. Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale»: alcun riferimento alla decisività è previsto.

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pretermesse dal giudice di primo grado, ricevendo solo da queste ultime un significato risolutivo ai fini dell’affermazione di responsabilità.

In sintesi: anche d’ufficio il giudice deve rinnovare l’istruzione attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado18.

3. I consulenti tecnici sono assimilabili ai testimoni? Ripercorso sommariamente l’itinerario giurisprudenziale nazionale e

sovranazionale che muove dai principi di oralità, immediatezza, contraddittorio nella formazione nella prova (non solo come diritto dell’imputato ma anche) come metodo per l’accertamento, deve ora guardarsi al caso di specie per verificare se – e in che misura – ci si trovi di fronte ad una pronuncia che si pone in contrasto con il solco tracciato.

Nel caso concreto si discute di mancata riassunzione delle dichiarazioni dei consulenti tecnici sentiti in primo grado e di mancato espletamento di una perizia medico-legale. Tali omissioni del giudice d’appello sarebbero destinate ad inficiare il provvedimento di condanna pronunciato in riforma della sentenza assolutoria.

Secondo la giurisprudenza, il perito e i consulenti tecnici sentiti in dibattimento hanno la veste di testimoni19, tuttavia la deposizione dibattimentale si integra con la relazione che ne forma parte integrante. Deve essere inoltre evidenziato che perito e consulenti tecnici sono chiamati a formulare un parere tecnico rispetto al quale il giudice può discostarsi purché argomenti la propria diversa opinione20. Nella sentenza in esame, la Corte ha affermato che la posizione del perito e dei consulenti tecnici non è assimilabile in toto a quella del testimone che produce una prova dichiarativa (situazione di cui si è occupata la citata sentenza Dasgupta), quindi non vi è violazione del dovere di rinnovare la prova dichiarativa. In altri termini, secondo il Collegio, la reformatio in peius della sentenza di primo grado malgrado la mancata rinnovazione dell’istruttoria

18 LORENZETTO, cit., p. 3. 19 Cass. pen., sez. I, 26 maggio 2002, n. 26845, CED 221737. Si tratta, tuttavia, di una veste – per così dire – solo processuale, meglio ancora, di una specifica attività processuale, quella del segmento in cui avviene l’esame del consulente tecnico (l’art. 501 c.p.p. estende ai consulenti tecnici le regole dell’esame dei testimoni «in quanto applicabili»). Lucidamente critico nei confronti di un’equiparazione tra la figura del consulente tecnico del pubblico ministero al testimone e, ancor prima in fase investigativa, KOSTORIS, La pretesa vocazione testimoniale del consulente tecnico investigativo dell’accusa, tra codice, Costituzione e diritto europeo, in Giur. cost., 2014, 2614 ss. 20 Costituisce ius receptum che il giudice, quale peritus peritorum, possa esprimere il proprio giudizio motivato, quale estrinsecazione del principio della libera valutazione della prova che si applica anche alla prova tecnica (Cass. pen., sez. II, 19 febbraio 2013, n. 12991, CED 255196). Tanto vale anche nei casi in cui manchi una perizia d’ufficio: il giudice può scegliere tra le tesi prospettate dai consulenti di parte purché argomenti le ragioni della scelta, nonché dia conto del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (Cass. pen., sez. IV, 13 febbraio 2015, n. 8527, CED 263435). Inoltre, sempre valorizzando l’elemento della discrezionalità del giudice, la rinnovazione di una perizia nel giudizio d’appello può essere disposta solo se il giudice ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (Cass. pen., sez. II, 15 maggio 2013, n. 36630, CED 257062).

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con nuova escussione dei consulenti o l’espletamento di una perizia medico-legale non viola l’art. 6 CEDU perché la “prova testimoniale” rappresentata dalla deposizione di tali soggetti qualificati è peculiare. Secondo la Corte «la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico non costituisce prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice d’appello ha la necessità di procedere alla rinnovazione dibattimentale nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa»21.

Nel panorama applicativo si registrano opinioni radicalmente difformi: se la dottrina difende l’alterità tra testimone e consulente tecnico, la giurisprudenza è meno convinta.

Per la dottrina maggioritaria il consulente del pubblico ministero è ausiliario della parte e non testimone22. Vero è che l’art. 501 c.p.p., nel disciplinare l’esame dei periti e dei consulenti tecnici, rinvia alle disposizioni sull’esame dei testimoni «in quanto applicabili», tuttavia, al co. 2° si affretta a precisare che il perito e il consulente tecnico «hanno in ogni caso facoltà di consultare documenti, note scritte e pubblicazioni, che possono essere acquisite anche di ufficio». Si è osservato anche che la facoltà di consultazione di documenti prescinde dalla finalità di «aiuto alla memoria» previsto dall’art. 499, co. 5°, c.p.p. per il testimone così come prescinde dall’autorizzazione del presidente23. Entrambe le precisazioni richiamate contribuiscono a sostenere la posizione favorevole a ravvisare «differenze tra la posizione del consulente tecnico (e del perito) e quella del testimone»24. Da quest’impostazione deriva altresì che il consulente tecnico 21 Inoltre, la reformatio in peius in concreto non si era fondata esclusivamente o in modo determinante sulla rilettura della prova dichiarativa: la Corte di secondo grado si era discostata dalla pronuncia assolutoria valutando elementi e circostanze già valutate dal primo giudice e argomentando in senso difforme rispetto a talune osservazioni dei consulenti in dibattimento, contraddittorie rispetto alle affermazioni contenute nelle relazioni (oltre che dei principi scientifici enunciati e dei riscontri ottenuti in sede di indagine medico-legale). 22 V. in proposito B. ROMANO, Istigare un consulente tecnico del pubblico ministero a predisporre una falsa consulenza costituisce reato? Alle Sezioni Unite vecchie certezze e nuovi dubbi, in Cass. pen., 2014, p. 1309 che evoca una figura mitologica, assumendo che quella del consulente del pubblico ministero sarebbe un «ircocervo penalistico», metà consulente e metà testimone. Anche KOSTORIS, La pretesa vocazione testimoniale del consulente tecnico investigativo dell’accusa, tra codice, Costituzione e diritto europeo, in Giur. cost., 2014, p. 2616, sottolinea che la figura del consulente tecnico del pubblico ministero è un soggetto gravato di un elemento assorbente nella logica della non assimilazione: il consulente dell’accusa «fornisce il suo contributo conoscitivo in adempimento ad un preciso incarico», è in «funzione di un obiettivo preordinato in anticipo» che percepisce e valuta i fatti. Si differenzia infatti dal “testimone tecnico” anche perché assolve ad una funzione pubblica «dovendo fornire all’accusa le coordinate tecnico-scientifiche necessarie per un proficuo svolgimento delle indagini». La rilevata carenza in ordine allo sviamento dal corretto svolgimento della funzione attribuita – nella misura in cui non è previsto un reato – secondo l’Autore «non autorizza per ciò stesso a “forzare” i confini che distinguono il consulente tecnico dell’accusa dalla persona informata dei fatti» e dal testimone. L’Autore, inoltre, avverte rispetto ai pericoli della trasformazione del consulente tecnico «in testimone in re propria» per la prassi «tutt’altro che innocente» di introdurre «attraverso il veicolo della testimonianza il contenuto di elementi raccolti senza contraddittorio in fase investigativa» che non dovrebbero entrare nel materiale probatorio utilizzato dal giudice del dibattimento, in conformità con il principio della formazione delle prove in contraddittorio tra le parti, di cui al co. 4° dell’art. 111 Cost. 23 GABRIELLI, sub art. 501, in CONSO-ILLUMINATI, cit., p. 2272. 24 KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, Giuffrè, 1993, p. 334.

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del pubblico ministero non può essere destinatario delle fattispecie incriminatrici che hanno quale soggetto attivo (art. 371-bis c.p. e 372 c.p.) o destinatario (art. 377 c.p.) il testimone.

Di contro, in giurisprudenza, si è affermato che «il giudice d’appello, per riformare in peius una sentenza assolutoria, non può basarsi sulla mera rivalutazione delle perizie e delle consulenze in atti, ma deve procedere al riascolto degli autori dei predetti elaborati già sentiti nel dibattimento di primo grado, altrimenti determinandosi una violazione del principio del giusto processo ai sensi dell’art. 6 C.e.d.u., così come interpretato dalla sentenza Dan c. Moldavia 5 luglio 2011 della Corte eur. dir. uomo»25; la Corte ha precisato che «la funzione svolta dal perito nel processo, e l’acquisizione dei risultati a cui l’esperto è giunto nello svolgimento dell’incarico peritale (omissis) impone che la rivalutazione della prova sia preceduta dal riascolto dello stesso» (nella fattispecie la Corte territoriale aveva ribaltato la sentenza assolutoria senza rinnovare l’istruzione dibattimentale e, in particolare, pervenendo ad una diversa valutazione degli elaborati peritali e dei documenti degli altrui medici, tutti già ascoltati in primo grado «nella qualità di testimoni») (v. anche, sempre in senso difforme, Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2017, n. 6366, Maggi e a., CED 269035).

4. Un’immagine “sfocata” quella prodotta da una prospettiva ipermetrope: se destinatario di una condotta allettatrice, il consulente tecnico del p.m. è equiparato al testimone

Senza alcun preteso tentativo di completezza bensì solo quale riflessione

embrionale sul tema, si rileva che lo status del consulente del pubblico ministero rileva anche in un altro “luogo” dell’ordinamento. Si allude alla posizione che riveste quale soggetto su cui si indirizza una offerta “corruttiva”26. L’interrogativo più remoto – lo si è anticipato – è se il consulente tecnico del pubblico ministero sia gravato da un obbligo di verità penalmente sanzionato.

Notorio è che nulla quaestio se a ricevere l’offerta sia il perito27 nominato dal giudice o il consulente tecnico d’ufficio nominato nel processo civile: in tali casi vi è la copertura fornita dall’art. 373 c.p. (falsa perizia o interpretazione), norma a cui rinvia

25 Cass. pen., sez. II, 1 luglio 2015, Sagone, CED 264542. 26 B. ROMANO, Istigare un consulente tecnico, cit., p. 1306, sottolinea le profonde interconnessioni tra diritto e processo penale dei delitti contro l’amministrazione della giustizia che risentono del cambiamento di modello processuale inaugurato con il codice di rito del 1988. 27 Sui caratteri della perizia quale mezzo di prova (e non quale mezzo di valutazione della prova) nonché sulla possibilità di nominare consulenti tecnici anche nell’ipotesi in cui non sia disposta perizia, quale estrinsecazione del diritto alla prova, GREVI, agg. ILLUMINATI, Prove, in CONSO-GREVI-BARGIS, cit., p. 324 ss. V., inoltre, VICOLI, sub art. 220, in CONSO-ILLUMINATI, Commentario breve al codice di procedura penale, CEDAM, 2015, 2° ed., p. 867 ss., nonché ID., sub art. 233, p. 903 ss., nonché DOMINIONI, L’esperienza italiana, cit., secondo il quale nel sistema attuale «il perito non è più un ausiliario del giudice».

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l’art. 377 c.p.28. Per vero, la fattispecie di cui all’art. 373 c.p. si pone in modo speculare alla disposizione contenente nell’art. 226 c.p.p. in base alla quale il perito, all’atto del conferimento dell’incarico, è avvertito degli obblighi e delle responsabilità previste dalla legge e deve rendere una dichiarazione di impegno di adempiere l’ufficio con il solo scopo di far conoscere la verità: consequenziale la possibilità configurare il delitto di intralcio alla giustizia.

Se invece protagonista della vicenda inerente alle “falsità giudiziarie” (spontanee o indotte) è il consulente del pubblico ministero29 si registra un vuoto di incriminazione, dovuto al «mancato adeguamento della disciplina sostanziale dei reati contro l’amministrazione della giustizia ai mutati assetti processuali del codice del 1988 e, soprattutto, alla controriforma del 1992, che ha introdotto il reato di false o reticenti dichiarazioni al pubblico ministero; riallineamento dal quale è sin qui rimasta estranea – omissis – la figura del consulente tecnico»30.

La fattispecie di intralcio alla giustizia31, sanzionando l’istigazione a commettere fattispecie di falso giudiziario, è influenzata dall’assetto “soggettivo” di tali reati. Esclusa l’estensione per mezzo dell’art. 373 c.p., la giurisprudenza si è indirizzata ad altri delitti di falso giudiziario: quelli commessi dalla persona informata dei fatti e dal testimone.

28 Il delitto di intralcio alla giustizia è stato introdotto dalla legge 16 marzo 2006, n. 46, di ratifica ed esecuzione della Convenzione ONU contro il crimine organizzato transnazionale (c.d. Convenzione di Palermo) che invita gli Stati aderenti a sanzionare penalmente la c.d. obstruction of justice, cioè le condotte di violenza, minaccia, intimidazione, promessa, offerta di vantaggi per indurre alla falsa testimonianza o comunque interferire nella produzione di prove anche testimoniali nei procedimenti relativi ai reati oggetto della Convenzione, oppure condotte consistenti nell’uso della violenza, minaccia, intimidazione per interferire con l’esercizio di doveri d’ufficio da parte di un magistrato o di un appartenente alle forze di polizia. Il legislatore ha rinominato la disposizione dell’art. 377 c.p. (rubricata “subornazione”), aggiungendo al tessuto normativo originario due ulteriori commi per punire le condotte di violenza e minaccia. Per una ricostruzione puntuale, v. S.U., 12 dicembre 2014, n. 51824, CED 261187. 29 Per un puntuale raffronto tra la figura del perito nominato dal giudice e del consulente tecnico del pubblico ministero, v. B. ROMANO, Istigare un consulente tecnico, cit., p. 1307-1309 che conclude nel senso che non potendosi configurare il reato di falsa perizia in capo al consulente tecnico del pubblico ministero non si dovrebbe integrare neppure il delitto di intralcio alla giustizia. 30 KOSTORIS, La pretesa vocazione testimoniale, cit., p. 2616. In termini analoghi, SCOLETTA, La legalità ‘corrotta’: la punibilità della subordinazione del consulente tecnico del pubblico ministero tra analogia e manipolazione delle norme incriminatrici, in Giur. cost., 2014, p. 2621. 31 Rileva, tra gli altri, BARTOLO, La ‘subornazione’ del consulente del pubblico ministero tra istigazione alla corruzione e intralcio alla giustizia, in Cass. pen., 2014, p. 901 s., che il rinvio dell’art. 377 c.p. alle altre fattispecie (artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373 c.p.) configura la fattispecie di intralcio alla giustizia come “complessa” «perché la condotta incriminata non è quella di chi fa una qualsiasi offerta volta ad ottenere un qualsiasi risultato, bensì solo quella di chi fa un’offerta, che non viene accolta e che è, comunque, volta ad ottenere» una falsa dichiarazione al difensore, una falsa testimonianza o una falsa perizia. L’Autore fa notare che il delitto di (patrocinio o) consulenza infedele (art. 380 c.p.) non rientra tra quelli cui l’art. 377 c.p. rinvia; ritiene, inoltre, che neppure possa «così e velocemente, equiparare il consulente del p.m. al perito», con il risultato che la subornazione del consulente del pubblico ministero «sembra sfuggire al rigore delle sanzioni penali».

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Componendo il contrasto interpretativo, nella passività del legislatore e nonostante l’intervento della Corte costituzionale32, le Sezioni Unite della Corte di cassazione33 hanno affermato che l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero, finalizzata ad influire sul contenuto della consulenza, integra il delitto di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 c.p.34, in relazione alle ipotesi di cui agli artt. 371-bis o 372 c.p. In altri termini, secondo le Sezioni Unite risponde di intralcio alla giustizia chi tenta di “corrompere” il consulente tecnico del pubblico ministero per indurlo a commettere i reati di false informazioni al pubblico ministero o al procuratore della Corte penale internazionale e di falsa testimonianza.

Tirando le somme: ad oggi manca un’espressa fattispecie penale contro il mendacio del consulente tecnico del pubblico ministero eppure la giurisprudenza maggioritaria riconosce un obbligo di verità penalmente sanzionato equiparando in parte qua il consulente tecnico del pubblico ministero a un soggetto qualunque chiamato a “collaborare” con la giustizia in veste di persona a conoscenza di fatti rilevanti per la decisione. Valorizzando il rinvio previsto dall’art. 501 c.p.p. alle norme sull’esame dei testimoni, la giurisprudenza ritiene che il consulente tecnico possa rispondere delle fattispecie previste per il soggetto (persona informata dei fatti o testimone) mendace (false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza).

Per arrivare a questa soluzione, supplendo alle assenze del legislatore, le Sezioni Unite fanno due ulteriori passi (ma si allontanano dalle opzioni critiche suggerite dalla dottrina). In primo luogo riconoscono che, per un gioco di rinvii, il consulente tecnico del pubblico ministero possa essere (non solo il soggetto attivo dei reati di false informazioni o di falsa testimonianza bensì anche) il soggetto destinatario della condotta allettatrice: implicitamente si afferma sussistere un obbligo di verità35 in capo al

32 C. cost., 21 maggio 2014, n. 163. La Corte ha pronunciato una sentenza di inammissibilità ma contenente un monito per il legislatore, rimasto inascoltato. Cfr. SCOLETTA, cit., p. 2621 ss. V., inoltre, PIOTTO, Il consulente tecnico del pubblico ministero tra intralcio alla giustizia ed istigazione alla corruzione. La Corte costituzionale “decide di non decidere”, in questa Rivista, 26 settembre 2014 che conclude con l’auspicio che vi sia un generale ripensamento dei delitti contro l’amministrazione della giustizia che renda compatibili tali delitti con il mutato assetto processuale, inserendo il delitto di “falsa consulenza”, «che include tra i soggetti attivi anche il consulente tecnico del P.M. nominato nella fase delle indagini preliminari». V. altresì, L. ROMANO, Condotta allettatrice del consulente tecnico del p.m.: la Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione sollevata dalle Sezioni Unite, in questa Rivista, 1 luglio 2014. 33 S.U., 12 dicembre 2014, n. 51824, Guidi e a., CED 261187. Le due fattispecie contrapposte erano l’istigazione alla corruzione propria e il delitto di intralcio alla giustizia. Per un commento “a caldo”, L. ROMANO, L’offerta “corruttiva” al consulente tecnico del p.m. intralcia la giustizia, in questa Rivista, 14 gennaio 2015. 34 Affinché la condotta subornatrice non accolta dal consulente tecnico del pubblico ministero integri il reato di intralcio alla giustizia si presuppone logicamente che tale soggetto sia possibile soggetto attivo del reato di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis c.p.) o di quello di falsa testimonianza (art. 372 c.p.): la condotta istigatrice deve essere indirizzata nei confronti di soggetti tassativamente previsti («persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete») e rivolta alla commissione di determinati reati («per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373»). 35 DOMINIONI, L’esperienza italiana, cit., nega che il consulente tecnico abbia un obbligo penalmente rilevante di dire la verità. Sebbene sia diffusa la prassi giudiziaria di chiedere ai consulenti tecnici «di assumere l’impegno di verità» ai sensi del rinvio dell’art. 501 co. 1 c.p.p. alla disciplina dell’esame dei testimoni, incluso, pertanto, l’art. 497 co. 2, seconda parte, c.p.p., l’Autore evidenzia che questa richiesta di impegno

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consulente, ma solo del consulente del pubblico ministero36. In secondo luogo, sconfessano l’indirizzo prevalente37, c.d. formalistico, che assume la necessità che i destinatari della condotta abbiano formalmente già assunto la qualifica processuale38 nel momento in cui viene realizzata la condotta39: in capo al consulente tecnico del pubblico ministero la qualità testimoniale sarebbe «immanente, in quanto prevedibile sviluppo processuale della funzione assegnata» allo stesso. In particolare, premessa la peculiarità della figura del consulente tecnico del pubblico ministero – che riveste la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio e ha il dovere di obiettività e imparzialità40, non potendo esimersi da dire la verità – le Sezioni Unite affermano che, attraverso la nomina da parte del pubblico ministero, il soggetto riveste già una precisa

di verità «non annovera il previo avvertimento dell’obbligo di verità e delle responsabilità previste dalla legge penale per la sua inadempienza» e conclude nel senso che il consulente tecnico del pubblico ministero «non è centro di imputazione di una situazione giuridica soggettiva di obbligo (di verità) l’inadempienza del quale comporti una sanzione penale, ma di un onere (di verità) il cui assolvimento condiziona il giudizio di attendibilità del suo operato». Punto di partenza dovrebbe essere la «disputa dialettica» attraverso cui far emergere «i differenti maggiori o minori pesi» delle figure di esperti. Sulla differenza evocata tra obbligo e onere, in generale, CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Giappichelli, 1956. KOSTORIS, La pretesa vocazione testimoniale, cit., p. 2618 ss., riguardo al preteso «ruolo probatorio» del consulente del pubblico ministero accorda preferenza alla logica della cross examination che dovrebbe prevalere rispetto agli “impegni di verità” tipici del vecchio sistema «espressione di un archetipo processuale potestativo-unilaterale di matrice inquisitoria». Valorizzando la tecnica dell’esame incrociato che porta «a scomporre le prospettive» l’Autore afferma che l’expertise è ben più autorevole se ha la capacità di «resistere alle confutazioni, alle ‘falsificazioni’ avversarie, che non per l’eventuale giuramento solenne di chi lo rende». Sempre KOSTORIS, I consulenti tecnici, cit., p. 319 ss., afferma che «anche, e forse soprattutto in campo tecnico-scientifico […] l’esame incrociato sembra presentarsi come un corollario della moderna epistemologia, che diffida delle verità unilaterali, pur quando provengano da chi abbia contratto un impegno solenne a rivelarle». In generale, nel senso dell’utilizzo dell’esame incrociato quale strumento di formazione e valutazione della prova tecnica, anche FOCARDI, La consulenza tecnica extraperitale delle parti private, CEDAM, 2003, p. 229 ss., che valorizza il rinvio che l’art. 501 c.p.p. fa alle modalità di formazione della prova dibattimentale, affermando, altresì che «non si chiede al giudice di ascoltare due monologhi, ma di assistere alla dialettica tra le parti presenti». L’Autore (p. 230-231) esprime consapevolezza del rischio che a prevalere sia la tesi del consulente che meglio riesca a sostenere la cross examination, rilevando che tale pericolo è connaturato all’adversary system of litigation ma ritiene che tale sistema garantisca «la attendibilità delle dichiarazioni del consulente in misura ben maggiore di quella derivante da un apodittico obbligo di verità rafforzato dalla norma penale» e conclude (p. 233) che «l’esame incrociato, anche nel campo tecnico-scientifico, è l’unico strumento che consente di prescindere da posizioni precostituite di fede privilegiata». 36 Cfr. SARTI, L’obbligo di verità del consulente tecnico del p.m., in Dir. pen. proc., 2017, p. 543 ss. L’Autore sottolinea che l’operazione ermeneutica rischia di attribuire un differente «peso probatorio» alle dichiarazioni dei consulenti e ciò in contrasto con il principio di parità delle parti. 37 Tra le molte, S.U., 30 ottobre 2002, n. 38503, Vanone, CED 222347. 38 La qualità di testimone è assunta nel momento dell’autorizzazione del giudice alla citazione del soggetto ai sensi dell’art. 468, co. 2 c.p.p. (cfr. S.U. Vanone, CED 22347). 39 B. ROMANO, Istigare un consulente tecnico, cit., p. 1310-1311. 40 E allora, se così è, non al testimone dovrebbe farsi riferimento bensì al perito. Tuttavia, come rileva B. ROMANO, La Corte costituzionale e la “subornazione” nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero: ancora in nuce il processo di parti?, in Cass. pen., 2014, p. 3231, le Sezioni Unite, «non riuscendo ad integrare l’intralcio alla giustizia lungo la via (normativamente preclusa, ma) lineare degli artt. 377 e 373 c.p.» hanno «“scoperto” la nuova frontiera del consulente tecnico del p.m. “immanentemente” testimone (o persona chiamata a rendere dichiarazioni al pubblico ministero)».

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veste processuale, benché non ancora formalmente assunta (con la citazione ex art. 468, co. 2 c.p.p.). Già la giurisprudenza di legittimità aveva affermato che gli enunciati valutativi, quando intervengono in contesti che implicano l’accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, assolvono una funzione informativa sicché possono dirsi “veri” o “falsi”41. Si è osservato che la valutazione, quando fa riferimento a criteri predeterminati, è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione, ma la qualificazione in termini di verità/falsità dipende dal grado di specificità e di elasticità dei criteri di riferimento. Muovendo da tali premesse, le S.U. Guidi e a. (n. 51824/14) affermano che «anche in relazione a giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità» con la conseguenza che «il consulente tecnico del pubblico ministero va equiparato al testimone anche quando formula giudizi tecnico-scientifici».

***** Da questi appunti non si delinea una visione nitida della figura del consulente

tecnico del pubblico ministero. Rimane offuscato lo sfondo del problema che solo in modo semplicistico può essere dibattuto nel senso dell’equiparazione o meno, processuale o anche sostanziale, del consulente tecnico del pubblico ministero al testimone.

La giurisprudenza è giunta a soluzioni opposte: se destinatario dell’obbligo di verità, è equiparato al testimone (in modo peraltro “immanente”), se si vuole riformare la sentenza di primo grado in peius, non è necessaria la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, perché si tratta di una prova dichiarativa “peculiare”. Più che una risposta, in conclusione, si pone una domanda: in che misura il consulente tecnico della parte pubblica ha un dovere di dire la verità? (pena una sanzione penale, come affermano le S.U. Guidi e a. o pena l’inattendibilità del dichiarante/esperto, come sostiene la dottrina maggioritaria?).

41 Cass. pen., sez. V, 9 dicembre 1999, n. 3552, Andronico, CED 213366; conf. sez. VI, 6 dicembre 2000, n. 8588, Ciarletta, CED 219039, sez. V, 24 gennaio 2007, n. 15773, Marigliano, CED 236550; sez. I, 10 giugno 2013, n. 45373, Capogrosso, CED 257895.

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IL CONTROVERSO RAPPORTO TRA DICHIARAZIONI SPONTANEE E DIRITTO DI DIFESA:

UNA QUESTIONE ANCORA IRRISOLTA

Nota a Cass., Sez. II, sent. 3 aprile 2017 (dep. 25 maggio 2017), n. 26246, Pres. Gallo, Rel. Recchione, Ric. Distefano

di Matteo Rampioni

SOMMARIO: 1. La questione. – 2. L’evoluzione normativa. – 3. La giurisprudenza e la soluzione adottata. – 4. Rilievi critici.

1. La questione.

Con la sentenza in commento, la seconda sezione penale della Corte di cassazione

si è pronunciata sull’utilizzabilità delle cd. spontanee dichiarazioni di cui all’art. 350, comma 7 c.p.p.1, ribadendo il principio di diritto secondo cui: «le dichiarazioni spontanee anche se rese in assenza del difensore e senza l’avviso di poter esercitare il diritto al silenzio siano utilizzabili nella fase procedimentale, nella misura in cui emerga con chiarezza che l’indagato abbia scelto di renderle liberamente, senza alcuna coercizione o sollecitazione. Si tratta di dichiarazioni che hanno un perimetro di utilizzabilità circoscritto alla fase procedimentale e dunque all’incidente cautelare, ed agli eventuali riti a prova contratta, ma che non hanno alcuna efficacia probatoria in dibattimento».

Al fine di stabilire se l’indirizzo esegetico sia condivisibile o meno, appare necessario dapprima ripercorrere il (seppur breve) iter evolutivo dell’istituto; quindi, analizzare i diversi orientamenti giurisprudenziali che si sono alternati nel corso del 1 L’articolo 350, comma 7 c.p.p. stabilisce: «La polizia giudiziaria può altresì ricevere dichiarazioni spontanee dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, ma di esse non è consentita l’utilizzazione nel dibattimento, salvo quanto previsto dall’art. 503, comma 3 c.p.p.».

Abstract. L’articolo 350, comma 7 c.p.p. disciplina l’istituto delle cd. spontanee dichiarazioni ed il loro regime di utilizzabilità. Tuttavia, così come congegnata, la disposizione presta il fianco a molteplici criticità, prima fra tutte il rapporto con il diritto di difesa e, conseguentemente, il regime di utilizzabilità delle dichiarazioni stesse.

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tempo; infine, verificare gli argomenti posti a fondamento della decisione oggetto di commento.

2. L’evoluzione normativa.

Come si afferma in letteratura «nella versione originaria del codice Rocco il problema dell’apprezzamento della spontaneità delle dichiarazioni rilasciate alla polizia giudiziaria neppure si poneva. L’impianto normativo non solo non si curava di assicurare all’indagato alcuna forma di diritto al silenzio, ma risultava al contrario chiaramente orientato a favorire l’acquisizione dei più importanti elementi incriminanti proprio dall’accusato, di fatto assoggettato all’obbligo di collaborazione con l’inquirente»2.

Le ragioni di tale lacuna vanno ricondotte essenzialmente alla natura inquisitoria del codice di rito previgente il quale, fondandosi sul c.d. principio di autorità3, nella fase delle indagini, da un lato, concedeva all’organo inquirente poteri pressoché illimitati, sia nella fase preliminare al processo, sia in quella relativa all’acquisizione probatoria; dall’altro, non assicurava alcuna garanzia sotto il profilo del diritto di difesa. Invero, in piena coerenza con le direttive del regime fascista4, esso non prevedeva – diversamente dal precedente codice del 1913 – né nella fase preistruttoria, né in quella istruttoria, alcuna

2 CERESA GASTALDO, Premesse allo studio delle dichiarazioni spontanee rese alla Polizia Giudiziaria dalla persona sottoposta alle indagini, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 552. 3 Tra i molti, TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2012, p. 5; A. Dalia - M. Ferraioli, Manuale di diritto processuale penale, Padova, 2010, p. 10. Le principali caratteristiche del sistema inquisitorio sono: iniziativa d’ufficio (l’iniziativa del processo penale spetta al giudice); iniziativa probatoria d’ufficio (la ricerca delle prove non spetta alle parti, bensì al giudice stesso, perché egli ha più poteri e, quindi, meglio può conoscere il vero e giusto); segretezza (non vi è alcuna contrapposizione dialettica); forma scritta (delle deposizioni raccolte viene redatto un verbale); nessun limite all’ammissibilità delle prove (ogni modalità di ricerca è ammessa); presunzione di reità (l’onere della prova è a carico dell’imputato); carcerazione preventiva (poiché l’imputato è presunto colpevole, in mancanza di prove di innocenza può essere sottoposto a custodia preventiva in carcere). 4 Per alcuni lineamenti dei regimi totalitari e, dunque, anche di quello fascista, MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2011, p. 43: «Nell’Europa occidentale il totalitarismo penale segna un drastico ritorno al diritto penale dell’oppressione, che ha trovato la sua esasperata e paradigmatica espressione nell’ambito del totalitarismo penale nazista. Muovendo da una concezione organicistica dei rapporti popoli-stato-individuo, il Nazionalsocialismo tedesco ravvisa nella Comunità Nazionale, razionalmente pura, l’unica originaria e suprema realtà politica: il supremo valore cui tutto deve essere rapportato e in cui tutto si dissolve. Non più persona giuridica sovrana, lo Stato degrada ad utile organizzazione secondaria al servizio del Popolo, strumento di cui la comunità originaria si serve per realizzare pienamente se stessa ed i propri fini. […]. In armonia con la concezione organicistica dei rapporti individuo-stato-popolo, il diritto penale non ha più di mira il risultato dell’agire umano, ma guarda alla volontà. Ed il reato non è concepito non più come offesa tipica di un bene giuridicamente protetto, ma come atto di infedeltà ella volontà individuale del Capo, indipendentemente dalla lesione effettiva di un interesse, che potrà aggravare ma non costituisce il reato. Drasticamente espressa con minacce particolarmente severe, la pena serve innanzitutto a scopi di prevenzione generale e, in fase applicativa, a eliminare fisicamente gli incorreggibili e a recuperare nell’interesse della comunità gli altri».

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garanzia difensiva5, optando per un sistema votato alla totale segretezza “esterna” (divieto di divulgazione delle risultanze processuali) e “interna” (esclusione delle parti e dei loro difensori dalla conoscenza degli atti di indagine), così da preservare il divenire della prova da possibili “inquinamenti”6. Ne derivava un vero e proprio sbarramento imposto alla difesa, cui era negata qualsiasi possibilità di contraddittorio.

Il percorso che conduce al riconoscimento del diritto di difesa è stato lungo e tortuoso. Il punto di svolta è segnato, oltre che dall’entrata in vigore della Carta costituzionale, da due momenti. Dalla promulgazione della Legge 18 giugno 1955, n. 5177 che aggiungeva all’impianto codicistico, tra gli altri, gli artt. 304-bis, ter, quater c.p.p. 1930 concernenti l’applicazione delle garanzie difensive durante lo svolgimento di importanti atti istruttori; ma, soprattutto, dall’emissione della sentenza della Corte costituzionale del 5 luglio 1968, n. 868. 5 TUOZZI, Il nuovo codice di procedura penale, Milano, 1914, p. 162 ss. L’art. 72 c.p.p. 1913 «consacra un principio nuovo, reclamato dalla coscienza pubblica per sentimento di umanità e di giustizia, e dietro anche l’esempio di qualche legislazione straniera, consacra cioè l’intervento della difesa nel periodo dell’istruzione, per cui resta squarciato in diversi punti quel segreto assoluto, nel quale il vecchio codice teneva avvolto tutto lo stadio inquisitorio. E dispone che durante l’istruzione l’imputato può farsi assistere dal difensore […]». L’autore, ancora, sull’importanza dell’assistenza difensiva affermava: «un’antica massima diceva che est res sacra reus, ed era intesa ad esprimere il concetto, accolto pienamente da tutti i popoli civili moderni, che se la società ha il diritto, per la sua conservazione, d’incalzare il reo, di giudicarlo e punirlo, non può mai permettere, in ossequio alla piena personalità giuridica dell’imputato, che questi venga vinto ed oppresso dalla forza sociale. Gli si deve perciò accordare il pieno svolgimento di ogni sua facoltà di diritto, e sopra tutto, e in ogni momento, quello della difesa. A complemento di questa difesa, sorge necessità di mettere accanto all’imputato un suo difensore, che è il suo patrono, il suo campione. Questi è di suprema importanza, e con leggerezza alcuni modernisti hanno creduto di proporne l’eliminazione, riducendo il dibattito penale alla semplice affermazione di giudici periti nelle discipline antropatologiche per l’assegnazione dell’imputato alla rispettiva categoria dei delinquenti […]. La presenza del difensore è indispensabile non solo perché questi, quale uomo di legge, possa e sappia contrapporsi validamente al pubblico accusatore, che è un magistrato, addottorato in legge, ma perché infonda in tutti il convincimento che le forme assegnate a garentia dell’innocenza e della libertà sono state rispettate». Sul punto anche TONINI, Manuale di procedura penale, cit. p. 25, «Il primo codice di procedura penale italiano vide la luce nel 1913. Pur conservando il sistema misto, esso innovava rispetto al modello napoleonico, in quanto riconosceva ampi diritti all’accusato già nel corso della fase istruttoria. […]. Al termine della prima guerra mondiale i disordini sociali ed il fermento rivoluzionario determinarono una profonda aspirazione all’ordine. Mussolini se ne rese interprete ed inizio la soppressione del sistema liberale. […]. In coerenza col nuovo regime, si procedette alla riforma dei codici; quello di procedura penale fu promulgato nel 1930 insieme al nuovo codice penale; essi entrarono in vigore nel 1931. Nella relazione al codice di procedura penale il ministro di Giustizia Alfredo Rocco dichiarava di porsi un giusto equilibrio tra gli interessi dello Stato e quelli dell’imputato. Però il diritto di difesa fu eliminato nella fase istruttoria, che tornò ad essere totalmente segreta; il pubblico ministero, dipendente dal potere esecutivo, ottiene i medesimi poteri coercitivi che erano esercitati dal giudice». 6 SANTINI, Istruzione nel processo penale, in Dig. pen., vol. IX, Torino, 1993, p. 303 ss. 7 L.18 giugno 1955, n. 517, in Suppl. ord. Gazz. uff., n. 148, 30 giugno 1955. 8 Come affermava il Senatore ZUCCALÀ, 213^ seduta pubblica del 27 novembre 1969, in www.senato.it, p. 1557 «la pronuncia segna l’estremo arroccamento dell’impostazione inquisitoria mantenuta dalla magistratura nei confronti del processo penale»; ancora, VASSALLI, Relazione alla IV Commissione permanente (giustizia) ai disegni di legge n. 238-228-243, presentata alla Presidenza della Camera dei Deputati il 17 giugno 1969, p. 6. «la sentenza della Corte costituzionale sottolinea quello che già in questi ultimi anni era stato rilevato da vari ambienti, ed era stato anche oggetto di ripetuti interventi da parte del senatore Leone: l’arretramento

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Con tale pronuncia, il Giudice delle leggi si esprimeva sulla questione di legittimità costituzionale degli artt. 225 e 232 c.p.p. 1930, nel senso che la mancata applicazione degli artt. 304-bis, ter, quater c.p.p. Rocco nella fase preistruttoria avrebbe leso il diritto di difesa ed il principio di uguaglianza. Facendo proprie le argomentazioni già proposte in precedenza9, si dichiarava l’illegittimità delle norme oggetto di sindacato «nella parte in cui rendono possibile, nelle indagini di polizia giudiziaria ivi previste, il compimento di atti istruttori senza l’applicazione degli artt. 390, 304-bis, ter, quater del codice di procedura penale»10.

La sentenza determinò immediati effetti in sede legislativa. Invero, già pochi giorni dopo la sua adozione furono presentati alla Camera tre diversi progetti di legge11 che, così come affermato dall’On. Vassalli nella relazione della IV Commissione Permanente presentata alla Presidenza il 17 giugno 1969, «nascevano dal lodevole intendimento del Governo, presieduto dal Senatore Leone, di dare immediata attuazione alle statuizioni contenute nella sentenza n. 86 del 1986»; proposte convertite in l. 5 dicembre 1969 n. 932 intitolata, per l’appunto, «Modificazioni al codice di procedura penale in merito alle indagini preliminari, al diritto di difesa, all’avviso di procedimento ed alla nomina del difensore», modificativa di ben otto articoli dell’allora vigente codice Rocco12.

Ulteriori rafforzamenti del diritto di difesa si hanno con le leggi, 18 marzo 1971, n. 62 (novella che garantiva l’assistenza difensiva durante lo svolgimento dell’interrogatorio davanti all’autorità giudiziaria13 e, dunque, per relatio, anche all’atto condotto dalla polizia giudiziaria) e 18 maggio 1978, n. 191 (che introduceva l’art. 225- del procedimento penale verso la roccaforte, verso il campo molto più trincerato, rispetto al diritto di difesa, rappresentato dalle indagini preliminari. Erano state introdotte garanzie di intervento della difesa, sia pure quelle limitate e ben note, proprie della novella del 1955; ed allora la magistratura, o una gran parte di essa, rilevò che tali garanzie si riferivano alla sola istruzione formale ed estendevano il campo dell’istruzione sommaria, proprio nell’intento di limitare quelle stesse garanzie che si ritenevano pregiudizievoli per uno svolgimento rapido e fecondo della giustizia e per un più sicuro accertamento della verità contro l’imputato». 9 C. cost., 20 gennaio 1965, n. 11 in www.cortecostituzionale.it; C. cost., 16 giugno 1965, n. 52, in www.cortecostituzionale.it. 10 Massima n. 2931, C. cost., 20 maggio 1968, n. 86, in www.cortecostituzionale.it 11 Il disegno di legge n. 238 d’iniziativa del Ministro Gonella; il disegno n. 228 d’iniziativa dei Deputati Riz, Mitterdorfer e Dietl, intitolato «modifica degli artt. 225 e 232 del codice di procedura penale»; e la proposta di legge n. 243 presentata dal Deputato Alessi intitolata, invece, «modificazioni e integrazioni agli artt. 304, 390, 398 e 506 del codice di procedura penale relativo all’avviso di procedimento e alla nomina del difensore». 12 L’art. 78 c.p.p. 1930 (assunzione della qualità di imputato); l’art. 134, comma 2 c.p.p. 1930 (in tema di infrazioni sulla scelta del difensore); l’art. 225 c.p.p. 1930 (sommarie informazioni); l’art. 231, comma 1 c.p.p. 1930 (in tema di reati attribuiti alla competenza del pretore); l’art. 232 c.p.p. 1930 (atti di Polizia giudiziaria del procuratore della Repubblica); l’art. 238, commi 1 e 4 c.p.p. 1930 (rispettivamente, da un lato in tema di pericolo di fuga dell’indiziato, dall’altro d’interrogatorio del soggetto fermato); l’art. 304 c.p.p. 1930 (avviso di procedimento, nomina del difensore); l’art. 390 c.p.p. 1930 (avviso di procedimento-nomina del difensore). La novella introduceva, infine, l’art. 249-bis c.p.p. 1930 (avviso dell’arresto o del fermo ai familiari). 13 Veniva, infatti, inserito un nuovo comma all’art. 304-bis c.p.p. Rocco, che statuiva «i difensori delle parti private hanno diritto di assistere all’interrogatorio dell’imputato».

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bis - «Sommarie informazioni dall’indiziato, dall’arrestato e dal fermato» - allo scopo di favorire le indagini per i reati di cui all’art. 165-ter c.p.p.)14.

Un simile quadro normativo, se da un lato rafforzava sensibilmente il diritto di difesa nella fase istruttoria, dall’altro limitava ampiamente l’area di “libertà” dell’organo inquirente, che si trovava costretto ad applicare le menzionate garanzie per svolgere determinati atti istruttori.

Per tali ragioni, l’apparato giudiziario avvertì la necessità di individuare una «nuova via» che consentisse di svolgere indagini senza l’applicazione delle garanzie di cui agli artt. 304-bis, ter, quater c.p.p. Rocco.

La soluzione fu l’istituto delle «spontanee dichiarazioni». Mediante tale strumento investigativo, infatti, si consentiva l’ingresso nel procedimento penale di qualsiasi dato (anche autoincriminante) ottenuto dall’indiziato, senza dover rispettare le garanzie difensive previste dal codice.

Sul punto la giurisprudenza del tempo si mostrò granitica: «le dichiarazioni (spontanee) rese in sede di indagini di polizia giudiziaria da colui che non sia ancora imputato, non sono equiparabili ad un interrogatorio, sia per la loro natura sia per i fini cui assolvono: dunque, non sarebbero ad esse riconducibili le norme dettate a garanzia del diritto di difesa»15.

Negli anni successivi «le decisioni della Cassazione volte ad assicurare la piena autonomia della figura delle “spontanee dichiarazioni”, sia rispetto all’istituto dell’interrogatorio disciplinato dall’art. 225 c.p.p. 1930, sia con riguardo al congegno delle sommarie informazioni di cui all’art. 225-bis c.p.p. 1930, subirono un effetto moltiplicatore. Si consolidava così un tertium genus16, dai confini ambigui e talvolta contraddittoriamente tracciati da quella stessa giurisprudenza che l’aveva forgiato, il cui unico, costante punto di riferimento sembrava essere quello della necessità di svincolare la polizia giudiziaria da formalismi inutili ed anzi controproducenti rispetto al fine primario dell’accertamento […]. Quanto al valore probatorio dell’atto non manifestavano in realtà apprezzabili scostamenti dall’univoca convinzione che le acquisizioni della polizia dovessero comunque essere sottoposte al prudente

14 Norma che ha visto il ripristino di una forma non garantita di interrogatorio di polizia per i delitti di cui all’art. 165-ter c.p.p. 1930. 15 Tra le molte, Cass., sez. I, 15 giugno 1973, in Cass. pen.,1975, p. 296; Cass., sez. III, 6 giugno 1977, in Riv. pen., 1978, p. 97; Cass., sez. I, 29 novembre 1978, in Riv. dir. proc. pen. 1979, p. 437; Cass., sez. I, 20 febbraio 1976, in Cass. pen., 1977, p. 1243; Cass., sez. II, 27 aprile 1977, in Riv. pen., 1978, p. 97. Ancora sul punto, SECHI, L’utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee fra vecchio e nuovo processo penale, in Cass. pen., 1989, p. 1520. 16 Tesi formulata da una parte della dottrina, MOSCARINI, Il fermo degli indiziati di reato, Milano, 1981, p. 174; TIRELLI, Le sommarie informazioni come mezzo di investigazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, p. 881 secondo cui tali dichiarazioni costituiscono un tertium genus rispetto all’interrogatorio ed alle sommarie informazioni ed hanno diverso esito, alla stessa stregua di deposizioni testimoniali che si risolvano, da parte di chi le renda, in dichiarazioni sulla propria posizione rispetto al reato. Esse, se favorevoli a chi le ha rese, devono ritenersi ammissibili senza limiti, mentre, nel caso in cui risultino contra se, potranno essere approfondite dalla p.g. ai sensi dell’art. 225-bis c.p.p. 1930 (e non avranno alcuno sbocco processuale), oppure dovranno essere applicate le garanzie dell’art. 225 c.p.p. Rocco.

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apprezzamento del giudice; parametro, questo, molto spesso impiegato proprio come formidabile mezzo eversivo dei divieti probatori»17.

Con l’introduzione della direttiva n. 31, art. 2 della L. 16 febbraio 1987, n. 81 si tentò di porre un freno a questa prassi. La novella, soffermandosi sul tema relativo ai rapporti tra indagato ed investigatori, stabilì l’espresso «divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese o dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini senza l’assistenza difensiva».

Nonostante gli intendimenti della direttiva n. 31, ed in pieno contrasto con la volontà del legislatore delegante, il codificatore si orientò diversamente, stabilendo che le dichiarazioni rese dall'indiziato alla polizia giudiziaria senza l'assistenza del difensore, contrariamente a quelle assunte, potessero essere utilizzate, ai sensi dell'art. 503, comma 3 c.p.p., ai fini delle eventuali contestazioni in giudizio18.

La pretesa distinzione tra dichiarazioni “spontaneamente rese” ed informazioni “assunte” passa immediatamente al vaglio della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 259 del 1991, afferma l’illegittimità della norma nella parte in cui consente l’utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni spontanee («il divieto di utilizzazione espressamente posto dal legislatore delegante si riferisce, infatti, secondo l'univoco significato letterale della direttiva in esame, tanto analitica da apparire norma di dettaglio, anche alle “dichiarazioni rese” dall'indiziato alla polizia giudiziaria senza l'assistenza del difensore, e non solo alle “informazioni assunte”, alle quali peraltro fa richiamo la stessa direttiva (sesta parte) là dove consente alla polizia giudiziaria “di assumere sul luogo e nell'immediatezza del fatto, anche senza l'assistenza del difensore, notizie ed indicazioni utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini”; ribadendo però anche in questa sede il divieto, già posto nella seconda parte, di ogni utilizzazione processuale»). L’intervento chiarificatore della Consulta non produsse, tuttavia, gli effetti sperati. Invero, con il d.l. 8 giugno 1992 (convertito in Legge 7 agosto 1992, n. 356) l’istituto oggetto di trattazione subisce l’ennesima rivoluzione. Mediante la decretazione d’urgenza si assiste ad una «cospicua riacquisizione (anzi, da qualche punto di vista, di una nuova e più ampia acquisizione) di poteri da parte della polizia giudiziaria e del pubblico ministero»19: all’indomani della novella legislativa, il divieto di utilizzazione previsto dall’art. 350, comma 7 c.p.p. fu limitato alla sola fase dibattimentale e non più all’intera fase processuale così come invece previsto dalla Corte costituzionale. Stabilisce, infatti, il “nuovo” articolo 350, comma 7 c.p.p. «La polizia giudiziaria può

17 CERESA GASTALDO, Premesse allo studio delle dichiarazioni spontanee rese alla Polizia Giudiziaria dalla persona sottoposta alle indagini, cit. p. 552 ss; CATALANO, Riflessione breve sul regime di utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee, in Cass. pen., 1996, p. 1231 «Il pericolo insito in tale ordo procedendi era quello di uno svuotamento della disciplina dell’interrogatorio, facendo apparire come spontaneo ciò che invece era stato estorto». 18 Così, Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U. 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, p. 85. 19 CHIAVARIO, Il processo penale dopo la nuova decretazione «d’emergenza»: ancora una volta alla ricerca di una bussola, in Legisl. Pen., 1993, p. 339.

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ricevere dichiarazioni spontanee dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, ma di esse non è consentita l’utilizzazione nel dibattimento, salvo quanto previsto dall’art. 503, comma 3 c.p.p.».

3. La giurisprudenza e la soluzione adottata.

Ad un quadro normativo così incerto corrisponde un altrettanto incerta prassi in tema di utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee.

Nel corso degli anni si sono alternate, senza mai riuscire a trovare un compromesso, diverse interpretazioni.

Da un lato, si individua l’orientamento (meno garantista), secondo cui le dichiarazioni spontanee possono essere utilizzate (purché trascritte in un verbale ai sensi dell’art. 357, comma 2 lett. b, c.p.p.),20 non solo ai sensi dell’art. 503, comma 3 c.p.p., ma anche ai fini della valutazione della gravità indiziaria per l’emissione di provvedimenti restrittivi della libertà personale, di un sequestro probatorio, ovvero in sede di udienza preliminare, di giudizio abbreviato21 ed altri riti alternativi al dibattimento

Tale impostazione si fonda sulla valorizzazione della “spontaneità” della dichiarazione, che, tuttavia, deve essere resa senza alcuna sollecitazione (pena l’inutilizzabilità assoluta della dichiarazione22) sulla base della libera scelta dell’indagato23.

20 CATALANO, Riflessione breve sul regime di utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee, cit., p. 1231. «L’obbligo di verbalizzazione, sancito espressamente dall’art. 357, comma 2 lett. b) cpp., ha posto termine alla prassi vigente sotto il codice abrogato di indicare come orali tali dichiarazioni nel rapporto di polizia giudiziaria. La norma è dettata proprio in vista dei possibili sviluppi dell’iter procedimentale e della possibile utilizzazione delle dichiarazioni. Si ritiene, infatti, che esse, se non sono state formalizzate in un verbale, non possano utilmente concorrere a formare il convincimento del giudice circa l’adozione di una misura cautelare, gli epiloghi dell’udienza preliminare o la decisione in sede di riti alternativi». 21 Cass., sez. V, 16 febbraio 2017 n. 13917, in www.iusexplorer.it «Nel giudizio abbreviato sono utilizzabili ai fini di prova le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziari, perché l’art. 350, comma 7 c.p.p. ne limita l’inutilizzabilità esclusivamente al dibattimento». Conformi: Cass., sez. I, 23 settembre 2008, n. 40050, in www.iusexplorer.it; Cass., sez. I, 4 luglio 2013, n. 35027, in www.iusexplorer.it; Cass., sez. V, 16 gennaio 2014, n. 6346, www.iusexplorer.it; Cass., sez. II, 23 settembre 2016, n. 47580, in www.iusexplorer.it. 22 Cass. pen., sez. VI, 25 marzo 2003, n. 13623, in CED Cass. n. 224741 «Sono inutilizzabili le dichiarazioni provocate da un operatore della polizia giudiziaria il quale, dissimulando tale sua qualifica e funzione, rivolga domande inerenti ai fatti criminosi oggetto di indagine a chi appaia fin dall’inizio in tali fatti coinvolto quale indiziato di reità, allo scopo di ottenere dalla persona, già colpita da indizi di un reato, dichiarazioni che possono servire alla prova di questo e della relativa responsabilità. Ne consegue che di tali dichiarazioni non può tenersi conto non solo nei confronti di chi le ha rilasciate, ma anche nei confronti degli indagati per il medesimo fatto ovvero per fatti connessi o collegati, secondo quanto dispone l’art. 63, secondo comma c.p.p. e neppure può avere rilevanza il fatto che tali dichiarazioni siano state acquisite a dibattimento con il consenso delle parti, non avendo queste la disponibilità di rinunziare ad eccepire la sanzione di inutilizzabilità». 23 Spetta comunque al giudice accertare l’effettiva natura spontanea delle dichiarazioni. Cass. pen. sez. III, 7 giugno 2012, 36596, in www.iusexplorer.it.

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Dall’altro, non sfugge un’interpretazione di più ampia portata, adottata anche dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che sancisce l’inutilizzabilità assoluta (e, dunque, anche nei confronti di terzi) delle dichiarazioni rese dalla persona che fin dall'inizio avrebbe dovuto essere sentita come indagata o imputata; ovvero dal soggetto a carico del quale esistono indizi in ordine al medesimo reato ovvero a reato connesso o collegato con quello attribuito al terzo, per cui egli avrebbe avuto il diritto di non rendere dette dichiarazioni se fosse stato sentito come indagato o imputato24.

Questo orientamento è connesso alla disciplina di cui all’art. 63, comma 2 c.p.p.; al riguardo, pertanto, non solo non distingue tra le dichiarazioni spontanee ed informazioni sollecitate; ma, ai fini dell’inutilizzabilità della dichiarazione contenuta nel verbale di cui all’art. 357, comma 2 lett. b), c.p.p., considera sufficiente che il soggetto, non ancora formalmente indagato, si trovi nella sostanziale condizione di indiziato.

L’ipotesi sottoposta alla decisione in commento riguardava una persona già sottoposta formalmente alle indagini e, pertanto, la Corte ha aderito alla prima impostazione secondo molteplici ragioni.

Innanzitutto, secondo il collegio, la lettera dell’art. 350, comma 7 c.p.p. prevede un’inutilizzabilità relativa25 delle dichiarazioni spontanee secondo cui, stando al contenuto letterale della norma, non possono essere utilizzate esclusivamente in dibattimento («Nel caso in cui le dichiarazioni spontanee siano rese senza garanzie alla polizia giudiziaria il legislatore ha precisato il regime di utilizzabilità limitando l’utilizzo

24 Cass., sez. un., 9 ottobre 1996, n. 1282, in Giust. pen., 1998, III, p. 65 «Nel giudizio abbreviato sono inutilizzabili le dichiarazioni rese da chi, sin dall’inizio, avrebbe dovuto essere sentito come persona indagata, a prescindere dalla circostanza che siano state rese spontaneamente ovvero sollecitate»; Cass., sez. III, 5 maggio 2015, n. 24944, in www.iusexplorer.it «Il divieto assoluto di utilizzazione delle dichiarazioni rese dalla persona che sin dall’inizio doveva essere sentita in qualità di imputato o di indagato, previsto dall’art. 63, comma 2 c.p.p., si applica anche alle dichiarazioni confessorie spontaneamente fornite dalla polizia giudiziaria da chi si trova oggettivamente nella condizione di indagato». 25 Può essere utile a tal proposito ricordare brevemente la differenza intercorrente tra inutilizzabilità assoluta e relativa. L’inutilizzabilità “assoluta” è assimilabile all’inammissibilità della prova, sia per il modo di operare, sia per le scelte di metodologia della prova che vi sono sottese. Con questa si rinuncia alla conoscenza per proteggere interessi non strettamente processuali eliminando pure, in certi casi, i mezzi inattendibili. La previsione di cui agli artt. 64, comma 2, e 188 c.p.p., ad esempio, esprime un rifiuto etico nei confronti di metodi e tecniche che esplorano la psiche dell’uomo per ricercarvi delle prove. Lo stesso si può dire, quanto ai modi di acquisizione, del procedimento previsto per le intercettazioni, che tutela essenzialmente la libertà e segretezza delle comunicazioni, ma tende pure ad assicurare la genuinità dei risultati. Se l’interesse protetto è particolarmente rilevante, poi, l’inutilizzabilità viene rafforzata da rimedi materiali, idonei a neutralizzare i possibili sviluppi di una prova vietata: ad esempio, la distruzione dei verbali e delle registrazioni formati con intercettazioni illegittime, oppure la restituzione all’avente diritto della corrispondenza non sequestrabile. L’inutilizzabilità “relativa”, invece, esclude determinati impieghi di alcuni elementi, così da graduarne l’efficacia sotto forma di regola di esclusione limitata; per tali ragioni si parla anche di inutilizzabilità “come regola d’uso”. La formula indica che il valore di una prova dipende dal contesto in cui viene acquisita e dall’uso al quale è rivolta. Sul punto GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 1 ss.; GRIFANTINI, voce Inutilizzabilità, in Dig. pen., 1996, p. 243; FASSONE, L’utilizzazione degli atti. Incontri di studio sul nuovo codice di procedura penale, I, Quad. C.S.M, 1989, n. 27, p. 527.

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delle dichiarazioni alla fase procedimentale, ovvero alla cognizione cautelare ed a quelle sulla responsabilità che si svolge nei riti a prova contratta»26).

Poi, la norma risulta compatibile con la direttiva 2012/13/UE in materia di informazione dell’indagato; la normativa europea derivata, infatti, si limita ad indicare la necessità di una tempestiva informazione lasciando agli Stati membri un margine di discrezionalità nell’apprezzamento della richiesta tempestività. Secondo il collegio, il legislatore italiano ha inteso lasciare all’indagato uno spazio libero da qualsivoglia vincolo normativo, al fine di concedergli la possibilità «di entrare in contatto con la polizia giudiziaria procedente in modo spontaneo e deformalizzato nel corso di tutta l’attività processuale. Si tratta di una scelta che trova la sua giustificazione nel fatto che le dichiarazioni spontanee non sono funzionali a raccogliere elementi di prova, ma piuttosto a consentire all’indagato di interagire con la polizia giudiziaria in qualunque momento egli lo ritenga, esercitando un suo diritto personalissimo».

Infine, la Sezione ritiene la norma compatibile con le indicazioni fornite dalla Corte EDU. Per vero, le sentenze indicate dal ricorrente nei relativi motivi non afferiscono al tema delle dichiarazioni spontanee. Da un lato, la sentenza Navone ed altri c. Monaco del 24 ottobre 2013 ha ad oggetto l’avvenuto interrogatorio di un detenuto senza la presenza del proprio difensore; dall’altro, la sentenza Stoycovic c. Francia e Belgio si riferisce a delle dichiarazioni “sollecitate”, richieste mediante rogatoria, assunte senza difensore in Belgio ed utilizzate come fonte di prova in Francia.

4. Rilievi critici.

L’impostazione adottata nella pronuncia in commento non convince pienamente. Se, invero, da un lato (relativamente ai temi della direttiva 2012/13/UE e delle

sentenze della Corte EDU) si ritengono condivisibili le affermazioni della Corte, dall’altro (rispetto al tema del cd. “diritto interno”) è più difficile aderire alla prospettiva esegetica in questione.

Innanzitutto, non pare né condivisibile l’affermazione secondo cui l’istituto delle dichiarazioni spontanee costituisce una deroga espressa alla disciplina generale dettata dall’art. 350 c.p.p., né tantomeno sembra possibile aderire all’assunto secondo cui la ragione della mancata applicazione delle garanzie difensive dettate dalla norma generale di riferimento (l’art. 350 c.p.p.) andrebbe individuata nella scelta personalissima dell’indagato di rendere volontariamente il proprio contributo conoscitivo.

Nonostante dopo la riforma del 1992 si sia consolidato tale orientamento giurisprudenziale27, sembra che l’odierna prassi giudiziaria approfitti di un (fortuito?) vuoto normativo. 26 Cass., sez. II, 3 aprile 2017, n. 26246, in www.iusexplorer.it. 27 Sul punto la Suprema Corte di Cassazione si è più volte pronunciata – oseremo dire graniticamente – stabilendo che «ai fini della utilizzabilità in dibattimento delle dichiarazioni in discorso, non solo non è necessario che le affermazioni spontanee dell’indagato alla polizia giudiziaria siano fornite in presenza del

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Con l’art. 350 c.p.p. il codificatore individua tre distinte modalità di acquisizione di informazioni da parte della polizia giudiziaria. In primo luogo, si rinvengono le cd. “sommarie informazioni” che la p.g. può assumere dall’indagato (non in stato di arresto o di fermo), previo invito a nominare un difensore e con la presenza obbligatoria dello stesso28. Le informazioni assunte nel rispetto delle garanzie difensive normativamente previste possono essere utilizzate sia in sede procedimentale, che dibattimentale ai sensi dell’art. 503, comma 4 c.p.p. In secondo luogo, gli ufficiali di p.g. possono assumere, questa volta senza la presenza del difensore, «notizie ed indicazioni utili assunte sul luogo e nell’immediatezza dei fatti ai fini dell’immediata prosecuzione delle indagini»; di tali notizie è vietata sia la documentazione che l’utilizzazione ai fini procedimentali e processuali. Infine si rinvengono le “spontanee dichiarazioni” per le quali non è dettata alcuna disciplina sul piano delle garanzie difensive.

La ragione di tale impostazione non è chiara. Certamente non appare pienamente convincente né la soluzione offerta dalla sentenza in esame, sostenuta peraltro da una parte della dottrina29, secondo cui la scelta personalissima dell’indagato di cooperare spontaneamente con l’autorità giudiziaria non comprime il diritto di difesa; né, tantomeno, appare persuasiva la teoria secondo cui alla materia de qua non sia applicabile la disciplina di cui all’art. 63 c.p.p.

Come è noto, il dettato costituzionale proclama la difesa come «diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». I presupposti storici e la ratio della norma emergono con chiarezza dagli atti dell’Assemblea Costituente, nei quali si affermava non soltanto che il principio «segnava una precisa direttiva al legislatore», garantendo «in termini lapidari e perentori la presenza e l’esperimento attivo» di tale istituto in qualsiasi stato del giudizio e dinanzi a qualsiasi magistratura; ma che esso recava in sé, come ulteriore intento, quello di cancellare gli abusi, le incertezze e le deficienze, che nel passato regime totalitario lo avevano «vulnerato»30. legale, ma non assumerebbero rilievo neppure le altre forme di tutela poste dall’art. 63 c.p.p.»: Cass., sez. III, 15 marzo 1996, in Cass. pen., 1998, p. 1413; Cass., sez. VI, 25 novembre 1994, in Arch. n. proc. pen.., 1995, p. 268; Cass., sez. VI, 30 aprile 1997, in CED Cass., n. 208842; Cass., sez. I, 10 agosto 1995, in Cass. pen. 1996, p. 2644. 28 TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p. 402 «Nel caso in cui l’indagato non abbia nominato un difensore di fiducia, la polizia avverte il difensore di ufficio di turno, individuato in base all’art. 97, comma 2 c.p.p. Se il difensore non è stato reperito o non è comparso, la polizia provvede a norma dell’art. 97, comma 4 c.p.p.» 29 TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p. 403. «La norma si ritiene espressione del generale diritto a discolparsi e del diritto ad essere ascoltato, che fondano anche la facoltà dell’imputato di rendere dichiarazioni spontanee in ogni stato del dibattimento. La carenza di garanzie si può spiegare col fatto che non si vuole limitare l’esplicazione di un diritto dell’indagato, anche in forza delle dichiarazioni rese. Questa dunque va intesa in senso rigoroso e deve essere esclusa non solo in caso di domande dirette, ma anche in presenza di una qualsiasi minima esortazione o prospettazione di conseguenze, favorevoli i sfavorevoli». 30 CAMOGLIO, sub art. 24, comma 2 Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca, Bologna, 1981, p. 53 ss. Su queste considerazioni insistono tutti gli interventi svolti nel dibattito assemblare sull’art. 19 del progetto (seduta del 17 settembre 1946, in La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, VI, p. 361 ss.). Può essere utile a tal proposito ricordare alcuni interventi: L’on Tupini, «la formula del progetto tiene conto degli abusi, delle incertezze e delle deficienze che hanno vulnerato nel passato l’istituto della difesa, specie per quanto attiene alla sua esclusione da vari stati e gradi del processo giurisdizionale. E con una formula chiara, precisa, abbiamo voluto garantire la presenza e l’esperimento attivo in tutti gli stati del giudizio e

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Come afferma l’On. Tupini nella seduta del 17 settembre 1946 «con una formula chiara, precisa, abbiamo voluto garantire la presenza e l’esperimento attivo in tutti gli stati del giudizio e davanti a qualsiasi magistratura. Questa esigenza è espressa in termini così lapidari e perentori che nessuna legge potrà mai e per nessuna ragione violarla»31

È su tali direttive che viene formulato l’odierno art. 63 c.p.p. La norma stabilisce che, qualora un soggetto renda all’autorità giudiziaria dichiarazione dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame, lo avverte che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e lo invita a nominare un difensore di fiducia. È prevista l’inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese antecedentemente alla formulazione dei suddetti avvisi.

La disposizione, non solo in omaggio al principio del nemo tenetur se detegere, può rappresentare un punto di riferimento interpretativo in tutti casi in cui l’indiziato si trovi dinanzi al potere giudiziario, precludendo in ogni caso sue dichiarazioni inconsapevoli e non pienamente consapevoli. Ed è proprio nell’ottica della piena coscienza difensiva dell’indiziato che appare preferibile l’orientamento minoritario secondo cui la norma avrebbe portata generale, di modo che le garanzie di cui all’art. 63 c.p.p.32 possono ritenersi applicabili anche alle dichiarazioni spontanee.

Tale prospettiva, basandosi sulla cd. interrelazione tra le norme, evidenzia come l’operare di un autonomo spazio applicativo di talune regole finirebbe, inevitabilmente, per svuotare di significato le altre33. Come è stato opportunamente osservato, nel caso di «dichiarazioni autoincriminanti rese alla polizia giudiziaria – non sul luogo o nell’immediatezza dei fatti – da persona già oggetto di indagini ma non ancora formalmente indagata: se nessuna relazione intercorresse tra l’art. 63, comma 2 e l’art. 350, comma 7 c.p.p. l’utilizzazione di quelle ammissioni – proprio perché

davanti a qualsiasi magistratura. Questa esigenza è espressa in termini così lapidari e perentori che nessuna legge potrà mai e per nessuna ragione violarla»; L’on. Mastrojanni ricordò che in tempo di guerra spesso venne inibita e chiese questa specificazione: «la difesa è garantita in ogni stato e grado processuale, in ogni tempo e davanti a qualsiasi giurisdizione. Essa è affidata solo agli avvocati»; e chiarì che «in ogni tempo» voleva significare anche in tempo di guerra. Ancora, VOENA, voce Difesa, in Enc. Giur., Roma, 1988, p. 1 ss. «la proclamazione della difesa come diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento si colloca nitidamente all’interno di un programma personalista per il quale il funzionamento delle istituzioni giudiziarie è posposto all’intangibilità dei valori dei quali è portatrice la persona umana così da rovesciare quella priorità che la teoria liberale ottocentesca aveva conferita allo Stato e che il regime totalitario aveva accolto e potenziato». 31 CAMOGLIO, sub art. 24, comma 2 Cost., cit., p. 53 ss. 32 Cass., sez. VI, 9 ottobre 1998, n. 10621, in www.iusexplorer.it «Dal tenore letterale e dalla ratio della norma del cpv. dell’art. 63 cpp., come dal suo necessario coordinamento con le disposizioni di cui agli artt. 62 e 350 c.p.p., si deve ritenere che la preclusione all’utilizzazione dibattimentale, diretta o indiretta, delle dichiarazioni rese senza assistenza difensiva dell’indagato alla polizia giudiziaria abbia carattere assoluto e generale». 33 CERESA GASTALDO, Le dichiarazioni spontanee dell’indagato alla polizia giudiziaria, Torino, 2002, p. 136 «l’asserito riconoscimento dell’appartenenza delle sommarie informazioni e di dichiarazioni spontanee alla stessa tipologia di atti – ancorché, ma non necessariamente, differenziate sul piano modale – impone dunque di riconoscere alla previsione dell’art. 350, comma 1 c.p.p. valenza inderogabile anche nella situazione prevista dall’ultimo comma».

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spontaneamente fornite in circostanze diverse da quelle indicate dall’art. 350 commi 5 e 6 c.p.p. – non risulterebbe affatto vietata, bensì solo soggetta al limite descritto dall’ultimo comma dell’art 350 c.p.p.»34.

Il risultato di tale indirizzo è la previsione dell’inutilizzabilità assoluta (e non, dunque, relativa, come ritenuto nella sentenza annotata) per le dichiarazioni rese in un momento antecedente alla formulazione degli avvisi difensivi; cosicché, tutto ciò che viene dichiarato prima di detti avvisi non potrà essere speso per alcuna pronuncia.

Del tutto anomalo, peraltro, il richiamo operato dalla sentenza all’art. 374 c.p.p. Se, da un lato, è vero che la norma disciplina i casi di “presentazione spontanea” al pubblico ministero e, dunque, prevede una vera e propria forma di collaborazione con l’organo inquirente, dall’altro, è altrettanto vero che la norma estende all’indagato precise garanzie difensive a seguito di contestazione del fatto. Inoltre, un conto è il rapporto spontaneo con un magistrato, per sua natura indipendente; altro è il rapporto, più problematico, che si instaura tra l’indiziato e la polizia giudiziaria.

L’art. 374 c.p.p. – a differenza dell’art. 350 comma 7 c.p.p. - postula la piena consapevolezza dell’esistenza di un procedimento penale a carico, offrendo all’indagato la possibilità di organizzare la proprie strategia difensiva incluso un eventuale “colloquio” con l’ufficio della procura.

Anche il richiamo alla pretesa distinzione tra dichiarazioni spontaneamente rese e quelle sollecitate non appare scevro da rilievi critici.

L’aspetto maggiormente problematico concerne, almeno ad avviso di chi scrive, la generale indeterminatezza che avvolge l’istituto (di creazione giurisprudenziale35) delle c.d. dichiarazioni sollecitate. Indeterminatezza data non solo dall’assenza di specifici richiami normativi, ma anche dall’inesistenza di specifiche indicazioni da parte del Giudice di legittimità.

In particolare, la genericità della norma si riflette: in prima battuta, nell’impossibilità di inquadrare semanticamente l’istituto, «è spontanea solo un’affermazione non preceduta da alcuna domanda, od assume gli stessi connotati anche quella resa d’iniziativa della persona al termine di una precedente risposta?36»; poi, non essendo prevista dall’art. 350, comma 7 c.p.p. alcuna partecipazione difensiva, nella impossibilità per l’indagato di provare al giudice che le dichiarazioni sono rese su

34 CERESA GASTALDO, Sulla non utilizzabilità (neppure) per le contestazioni dibattimentali delle dichiarazioni spontanee ex art. 350 comma 7 c.p.p. rese senza l’assistenza del difensore, in Cass. pen., 2000, p. 1704. 35 Tra le molte, Cass., sez. II, 12 gennaio 2017 n, 3930, in www.iusexplorer.it «deve distinguersi in tema si sommarie informazioni della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, deve distinguersi tra dichiarazioni spontanee e dichiarazioni sollecitate: mentre le prime, inutilizzabili in dibattimento, possono essere utilizzate nella fase procedimentale, ovvero possono essere poste a fondamento di misure cautelari ed essere utilizzate nei riti a prova contratta, le dichiarazioni sollecitate, apprese senza garanzia, violano lo statuto della prova dichiarativa in modo originario ed ineliminabile e sono del tutto inutilizzabili, se non ai fini della immediata prosecuzione delle indagini secondo quanto previsto dall’art. 350, commi 5 e 6 c.p.p.». Ancora, Cass., sez. VI, 24 febbraio 2003, n. 13623, in Cass. pen.., 2004, p. 3300; Cass., sez. II, 3 aprile 2017, 26246, in www.iusexplorer.it. 36 CERESA GASTALDO, Sulla non utilizzabilità (neppure) per le contestazioni dibattimentali delle dichiarazioni spontanee ex art. 350 comma 7 c.p.p. rese senza l’assistenza del difensore, cit., p. 1704

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sollecitazione o dietro coercizione (è del resto difficile pensare che nel verbale redatto dalla p.g. ai sensi dell’art. 357, comma 2 lett. b) siano indicate eventuali domande o sollecitazioni che, di fatto invaliderebbero l’atto anche ai fini procedimentali); infine, sul ruolo del giudicante che, contrariamente a quanto previsto dal principio di stretta legalità, è chiamato a pronunciarsi sull’utilizzabilità o meno delle dichiarazioni in base a criteri del tutto discrezionali (gli si affida, in sostanza, una funzione para-legislativa).

Pertanto, se per un verso appare lodevole il tentativo del giudice di legittimità di introdurre un meccanismo processuale volto a limitare in qualche misura i poteri dell’organo inquirente; dall’altro si ritiene che, così come congegnato, l’istituto allarghi ancor di più le maglie (già lente) di una materia già caratterizzata da numerose incertezze.

In definitiva, anche alla luce delle ragioni che spinsero la prassi giudiziaria, prima, e la giurisprudenza, poi, ad introdurre nel sistema processuale l’istituto delle dichiarazioni spontanee, appare che la ratio di tale scelta risieda nella volontà di riservare allo Stato, nella specie rappresentato dall’organo di polizia giudiziaria, uno spazio operativo libero da condizionamento (anche qualora si tratti di garanzie difensive), che possa essere considerato di ostacolo alle indagini. Come è stato acutamente sottolineato, «il richiamo alla spontaneità delle dichiarazioni può diventare il comodo espediente per giustificare a posteriori l’inosservanza delle garanzie difensive previste dalla legge per l’interrogatorio di polizia, per legalizzare un abuso delle indagini di polizia giudiziaria, presentando sotto una forma nuova, innocente e credibile un atto sostanzialmente illegittimo»37.

37 FERRUA, Dichiarazioni spontanee, nullità dell’interrogatorio di polizia ed invalidità derivata, in Cass. pen. 1984, p. 1982.

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LA RIFORMA DEL RICOVERO IN UN OSPEDALE PSICHIATRICO AI SENSI DEL § 63 STGB

di Laura Fierro

SOMMARIO: 1. Le misure di sicurezza e miglioramento nello StGB. – 2. I principi alla base delle misure di sicurezza e miglioramento. – 3. Il giudizio di pericolosità sociale. – 4. Il “caso Mollath. – 5. La riforma del § 63 StGB e del § 64 StGB e le ragioni economico-sociali. – 6. La riforma del § 63 StGB. – 7. La riforma del § 64 StGB. – 8. La modifica del § 67 d StGB e la durata delle misure di sicurezza. – 9. La modifica del § 463 StPO e la nomina di ‘esperti’. – 10. Brevi considerazioni sulla riforma del ricovero in ospedale psichiatrico nello StGB.

1. Le misure di sicurezza e miglioramento nello StGB.

Come è noto1, anche il sistema sanzionatorio tedesco, come quello italiano, si

articola in un “doppio binario” (System der Zweispurigkeit) ed è espressione, come in Italia, del dibattito tra la scuola classica del diritto penale e la scuola moderna di Franz von Lizst.

1 FORNASARI - MENGHINI, Percorsi europei di diritto penale, Padova, 2012, pag. 109 e ss. e MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale, Napoli, 1984, in cui l’Autore espone, tra l’altro, il sistema sanzionatorio del cd. Progetto alternativo, pag. 128 e ss.

Abstract. Il 1° agosto 2016 è entrata in vigore in Germania la riforma della disciplina del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, approvata il 28 aprile 2016. La riforma ha modificato i criteri per il giudizio di pericolosità sociale e per la nomina dei periti, nonché la durata dell'internamento. La ricostruzione della disciplina dello Strafgesetzbuch sulle misure di sicurezza e miglioramento permette di definire la reale necessità giuridica, economica e sociale della riforma, che il cd. caso Mollath ha portato anche all'attenzione dell'opinione pubblica. Anche nel sistema tedesco la nuova legge adegua la disciplina al principio di proporzione e introduce ulteriori garanzie nell'accertamento della pericolosità sociale e nella durata delle misure di sicurezza; la compromissione del rapporto diagnostico e terapeutico tra medico e paziente non trova, invece, alcun riscontro nelle riforme intervenute anche in Italia.

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Sono previste, infatti, pene (Strafe), da una parte, e misure di sicurezza e miglioramento, di carattere preventivo (Maßregeln der Besserung und Sicherung)2, dall’altra.

Il sistema considera la colpevolezza (Schuld), il presupposto della pena e la pericolosità sociale (Gefährlichkeit für die Allgemeinheit), il presupposto della misura di sicurezza; la pena e la misura di sicurezza possono sostenersi da sole o anche insieme3.

Le pene hanno una durata certa e determinata, si basano sulla colpevolezza e sulla gravità del fatto; le misure di sicurezza e miglioramento, invece, sono rapportate alla pericolosità dell’autore del fatto, ovvero alla probabilità di recidiva, e non hanno una durata massima determinata. La durata delle misure è legata al perdurare della pericolosità sociale, che dovrà essere esaminata periodicamente (§ 67 e ss. StGB).

Il legislatore tedesco, con la previsione delle misure di sicurezza e miglioramento, ha voluto soddisfare le esigenze di tutela della collettività contro gli autori di reato pericolosi. Si ritiene che nei confronti della persona che manifesta una tendenza a delinquere sia scientificamente formulabile un giudizio di pericolosità sociale e siano legittimamente applicabili misure tese a difendere la società con la terapia, l’educazione e la neutralizzazione del soggetto pericoloso4.

Il legislatore tedesco ha, così, introdotto uno strumento per proteggere la comunità dai soggetti potenzialmente recidivi, che rappresentano un pericolo per la collettività.

Il § 61 StGB elenca le misure di sicurezza e miglioramento: l’internamento in un ospedale psichiatrico (§ 63 StGB), l’internamento in un istituto di disintossicazione (§ 64 StGB), l’internamento in custodia di sicurezza (§ 66 StGB); la vigilanza sulla condotta (§ 68 StGB); il ritiro della patente di guida (§ 69 StGB); l’interdizione da una attività professionale (§ 70 StGB).

2 Le Maßregeln der Besserung und Sicherung sono individuate nel Titolo VI della Parte III del libro I dello StGB (§§ 61-72 StGB) e sono state introdotte nel codice penale tedesco con la “Legge contro i delinquenti abituali pericolosi e sulle misure di sicurezza e miglioramento” (Gesetz gegen gefährliche Gewohnheitsverbrecher und über Maßregeln der Sicherung und Besserung) emanata dal Deutsches Reicht il 24 novembre 1933 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1934. Sulla storia delle misure di sicurezza e miglioramento cfr. VAN GEMMEREN in Münchener Kommentar zum Strafrechtgesetzbuch, München, 2012, pag. 751 sotto il § 63 StGB. 3 ROXIN, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Band I, München, 2006, pag. 2. 4 Sulla originaria formulazione della teoria special-preventiva cfr. ROXIN, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Band I, München, 2006, pag. 74, in cui richiama Franz v. List, quale più significativo politico criminale tedesco della modernità, che ha concepito una triplice formulazione di special-prevenzione: 1. attraverso la protezione della comunità dal delinquente, rinchiudendolo; 2. intimidendo i rei attraverso la pena in caso di reiterazione di ulteriori delitti; 3. rendendo il reo innocuo attraverso la guarigione dalla recidiva. Ancora, in dottrina si è ampiamente affermato che la neutralizzazione, espressione estrema della prevenzione speciale negativa, non risulta compatibile con i principi fondamentali che reggono l’ordinamento, sul punto MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, Napoli 1992, pag. 97.

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2. I principi alla base delle misure di sicurezza e miglioramento. Le misure di sicurezza detentive, in tutti quei casi in cui gli interventi dello Stato

si riflettono sui diritti fondamentali del singolo cittadino5, non possono essere disposte se sono sproporzionate, in base alla gravità del fatto commesso e di ulteriori reati che ci si attende che l’autore commetterà.

In base al principio di proporzione6 (Verhältnismäßigkeitsgrundsatz), ai sensi del § 62 StGB, l’afflittività della misura di sicurezza e miglioramento, in un’ottica fortemente garantista, deve essere proporzionata alla gravità del fatto ed al grado di pericolosità della persona sottoposta alla misura7. Il principio di proporzione interviene anche sulla durata delle misure.

L’esame della proporzione, ai fini dell’applicazione della misura, necessita, però, di un preventivo accertamento del fatto antigiuridico e della relativa sua gravità, mediante un procedimento conforme ai canoni di uno stato di diritto. La gravità del fatto viene valutata in base ai beni giuridici, di cui si teme la violazione, alla loro importanza ed alla frequenza con cui si presume che avverrà la perpetrazione della loro violazione, così che potrà essere valutata la gravità del pericolo in proporzione alle libertà fondamentali dei cittadini su cui si intende incidere con la misura stessa8.

Secondo criteri di sussidiarietà, inoltre, la misura meno afflittiva va disposta se offre sufficiente tutela contro la pericolosità dell’autore9.

Tuttavia, se vi sono dubbi riguardo alla sussistenza della pericolosità, il giudice deve avvalersi del principio “in dubio pro reo” e non applicare affatto la misura10.

Inoltre, rispetto al nostro ordinamento giuridico, è sancita l’inversione nell’ordine di esecuzione tra pena e misura di sicurezza: ai sensi del § 67 StGB, la misura viene eseguita per prima. Sussiste, altresì, il principio di vicarietà, nel senso che la durata della misura eseguita viene scomputata dalla pena irrogata (§ 67, comma 4, StGB)11. 5 BVerfGE 16, 194, 202; ne deriva che il controllo di proporzionalità è escluso nel caso di ritiro della patente di guida. 6 Sul principio di proporzione, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 49, terzo comma, che stabilisce che l’intensità delle pene non deve essere sproporzionata rispetto al reato; il § 62 StGB prevede espressamente, in relazione alle Maßregeln der Besserung und Sicherung, il principio di proporzione, affermato nei seguenti termini: «Una misura di miglioramento e di sicurezza non può essere disposta se è sproporzionata rispetto al significato dei fatti che l’autore ha commesso o che ci si può attendere che commetterà o al grado del pericolo da lui originato»; FRISCH, Principio di colpevolezza e principio di proporzionalità, in Dir. pen. cont. – Riv. trim. 3-4/2014, pag. 164; sulla legittimità in generale si veda FRISCH, ZStW 102 (1990), 343. 7 Sul rapporto tra pericolosità e principio di proporzione cfr. DESSECKER, “Gefährlichkeit und Verhältnismäßigkeit. Eine Untersuchung zum Maßregelrecht”, Berlino 2004. 8 cfr. BGHSt (Bundesgerichtshofs in Strafsachen) 24, 134, 135. 9 BVerfGE 2, 243, 260. 10 Sul principio “in dubio pro reo” in giurisprudenza BGHSt 5, 350, 352 e BGHGA 1955, 149 151, in dottrina VOLCKART “Maßregelvollzug, Das Recht des Vollzuges der Unterbringung nach §§ 63, 64 StGB in einem psychiatrischen Krankrenhaus und in einer Entziehungsantalt”, Luchterhand, 1997, pag 7. 11 PALAZZO – PAPA, “Lezioni di diritto penale comparato”, Torino, 2000, pagg. 83-84 e MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale, op. cit. pagg. 135-136, in cui l’Autore rileva che ai sensi del § 67, comma 2, StGB il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena avvenga prima di quella della misura di sicurezza, se la

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3. Il giudizio di pericolosità sociale. Ai fini dell’applicazione delle misure di sicurezza e miglioramento, con

particolare riferimento all’internamento in ospedale psichiatrico (§ 63 StGB) e all’internamento in custodia di sicurezza (§ 66 StGB), si deve accertare, per dare priorità ad esigenze di sicurezza, la pericolosità della persona che ha commesso il fatto, in termini di elevata probabilità di recidiva.

La prognosi di pericolosità necessita l’accertamento di “un elevato grado di probabilità”12: non è sufficiente la mera possibilità di un futuro reato, ma deve sussistere un “pericolo della reiterazione” (Wiederholungsgefahr)13.

Tuttavia, sotto il profilo politico-criminale ed in riferimento ai principi fondamentali del diritto penale, sono discusse la opportunità e la legittimità dell’assunzione di valutazioni meramente probabilistiche quali presupposti dell’internamento14.

Mentre nell’ordinamento italiano, l’oggetto del giudizio probabilistico è normalmente riferito alla futura commissione di qualsiasi reato15, nel sistema tedesco deve esistere un rapporto di adeguatezza tra il sacrificio della libertà personale ed i beni personali e patrimoniali minacciati dall’individuo pericoloso. La prognosi di pericolosità non può basarsi solo su presupposizioni generali. Nell’analizzare il singolo caso concreto, il giudice, invece, deve avere dei punti di riferimento: la personalità del reo, il suo carattere, la gravità dei suoi difetti, i precedenti penali, il fatto commesso ed il suo comportamento dopo la commissione del fatto16.

In giurisprudenza si afferma la “pericolosità del reo per la comunità” (Gefährlichkeit des Täters für die Allgemeinheit), nel senso che un individuo è pericoloso per la comunità quando ci si aspetta, con alta probabilità, che commetterà rilevanti fatti antigiuridici contro una moltitudine di persone, contro una cerchia limitata di persone o anche contro una sola persona, tenuto conto che ogni singolo individuo è membro della collettività e che lo stesso è considerato un “rappresentante” della collettività. Il legislatore tedesco ha, così, voluto tutelare un interesse fondamentale della comunità, finalità della misura venga con ciò più facilmente raggiunta; tanto ha comportato dubbi circa le ragioni di prevenzione speciale di tale disposizione, tenuto conto che di fatto risulta difficile immaginare in quale caso l’esecuzione della pena debba avvenire prima, senza far aumentare le difficoltà del trattamento successivo. 12 In giurisprudenza, in relazione al § 63 StGB, si afferma l’“elevato grado di probabilità” (Wahrscheinlichkeit höheren Grades), ovvero il pericolo “latente”, cfr. VAN GEMMEREN, in Münchener Kommentar zum Strafrechtgesetzbuch, sotto il § 63 StGB, München, 2012, pag. 770. 13 VAN GEMMEREN in Münchener Kommentar zum Strafrechtgesetzbuch, München, sotto il § 63 StGB, 2012, pag. 769. 14 FORNARI, Misure di sicurezza e doppio binario: un declino inarrestabile, Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1993, pag. 583. 15 FORNARI, Misure di sicurezza e doppio binario: un declino inarrestabile, opera cit., pag. 580, il corsivo è dell’Autore. 16 VAN GEMMEREN in Münchener Kommentar zum Strafrechtgesetzbuch, sotto il § 63 StGB, München, 2012, pag. 770.

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affinché ai suoi membri non accada alcuna considerevole aggressione contro i beni giuridici penalmente protetti. In caso contrario, sarebbe minacciata la continuità dell’ordine pubblico e con esso la sicurezza pubblica.17

Nel sistema tedesco, però, mancano parametri certi di riferimento per l’accertamento processuale della pericolosità della persona e molte sono le difficoltà nel distinguere, ai fini dell’internamento in un ospedale psichiatrico, il disturbo puro dal pericolo per la collettività, poiché non ci sono regole solide: dipende dal singolo caso concreto, che dovrà essere valutato tenendo conto del principio di proporzione di cui al § 62 StGB.18

L’astrattezza e genericità del concetto di pericolosità sociale pone, quindi, un problema relativo alla modalità della prognosi, giuridica e psichiatrica, che spazia tra ciò che è meramente possibile e ciò che è invece (altamente) probabile.

Seppure la riforma del codice penale tedesco del 1975 si sia ispirata ad esigenze di umanizzazione della pena, volendo adeguarsi ai valori di dignità della persona umana consacrata dalla stessa Costituzione19, il sistema sanzionatorio delle misure di sicurezza e miglioramento ha, però, dovuto subire dei correttivi, in seguito al monito della CEDU e della Corte Costituzionale federale tedesca (BVerfG), in riferimento alla più grave misura dell’internamento in custodia di sicurezza ai sensi del § 66 StGB (Unterbringung in der Sicherungsverwahrung)20 e soprattutto a seguito della recente sentenza della Bundesverfassungsgericht, intervenuta in occasione del cd. “caso Mollath”, in riferimento all’internamento in un ospedale psichiatrico ai sensi del § 63 StGB 21.

17 HEINZ SCHÖCH in Leipziger Kommentar StGB, Band 3, sotto il § 63 StGB 2008, pag. 319. 18 cfr. SCHÖNBERGER, Zur justitiellen Handhabung der Voraussetzungen der Unterbringung gemäß §§ 63, 66 StGB, Berlin, 2002, pag. 19. 19 PALAZZO – PAPA, “Lezioni di diritto penale comparato”, Torino, 2000, pagg. 80-81 e MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale, op. cit. pagg. 2-3 e 72 – 73. 20 Sul punto FORNARI, Misure di sicurezza e doppio binario: un declino inarrestabile, opera cit., richiama il §66 StGB (Unterbringung in der Sicherungsverwahrung), che prescrive la commisurazione di una misura detentiva, custodia di sicurezza, solo se il fatto di reato, posto in essere da un soggetto imputabile, abbia arrecato gravi conseguenze “tali che da esse le vittime siano danneggiate psichicamente o fisicamente in modo grave, o venga arrecato un grave danno economico”. Si confronti anche PELISSERO, Il controllo dell’autore imputabile pericoloso nella prospettiva comparata. La rinascita delle misure di sicurezza custodiali., in questa Rivista, 26 luglio 2011, in riferimento all’'illegittimità costituzionale della disciplina della custodia di sicurezza ai sensi del § 66 StGB, con cui la BverfG ha indicato al legislatore come termine ultimo il 31 maggio 2013 per adeguare la disciplina interna ai principi direttivi, fissati dalle pronunce del 2009 e 2011, della Corte europea dei diritti dell'uomo, in riferimento al prolungamento, in senso retroattivo, della durata di una misura di sicurezza detentiva, oltre il termine massimo, prevedibile al momento della condanna, che costituisce una illegittima privazione della libertà personale; si cfr. anche ROCCHI, “La decisione della Corte di Strasburgo sulla misura di sicurezza detentiva tedesca della Sicherungsverwahrung ed i suoi riflessi sul sistema del “doppio binario” italiano.”, in Cassazione penale, 2010. 21 Beschluss vom 26. August 2013 – 2 BvR 371/2012, relativa all’accoglimento del ricorso costituzionale nel ‘caso Mollath’ contro la decisione della Landgerichts Bayreuth e della Oberlandesgerichts di Bamberg. Secondo la Corte costituzionale federale tedesca la decisione dell’anno 2011 in danno di Mollath ed i motivi in essa citati non solo non erano sufficienti a giustificare la durata dell’internamento, ma violava il diritto fondamentale della libertà della persona in combinato disposto con il principio di proporzione.

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4. Il “caso Mollath”.

Il caso di Gustl Mollath ha profondamente scosso l’opinione pubblica tedesca

circa la giustizia penale e la psichiatria forense22. La vicenda inizia nel 2003, quando Gustl Mollath riceve una denuncia per gravi

lesioni personali da parte della propria moglie Petra. Nell’anno 2005, Mollath era stato raggiunto da altre accuse, relative al periodo

dal 31 dicembre 2004 al 1 febbraio 2005, di aver forato pneumatici a diverse persone che fossero ritenute vicine alla moglie, da cui, intanto aveva divorziato, e tra le vittime dei danni patrimoniali vi era proprio l’avvocato della ex moglie costituito nel giudizio di divorzio.

Inoltre, Mollath, sin dall’inizio, aveva riferito di un coinvolgimento della moglie, dipendente della Hypovereinsbank, in uno scandalo di denaro sporco, e tali affermazioni sono state sin da subito considerate dal primo esperto, nominato dal Landgericht Nürnberg – Fürth, come espressione di un “sistema di pensieri paranoici” 23.

Tanto fu dimostrato proprio dalla moglie Petra, la quale si rivolse ad un medico, che, in base ai racconti della donna, stilò un rapporto medico che ipotizzava i disturbi psichici di Mollath.

Questo referto medico fu inviato a mezzo fax alla Amtsgericht di Straubing, che a sua volta inviò la documentazione alla Amtsgericht di Norimberga, al fine di procedere alla declaratoria di responsabilità di Mollath per aggressione. Il Landgericht Nürnberg – Fürth, pur avendo Mollath rifiutato di sottoporsi a perizia psichiatrica, non poté escludere che questi avesse agito in uno stato di incapacità ai sensi del § 20 StGB, a causa di una fissazione patologica.

A seguito di un complesso iter giudiziario, nel 2006, fu acclarata la pericolosità sociale di Mollath e, di conseguenza, disposto l’internamento in ospedale psichiatrico.

Dal 2006 Mollath è stato ricoverato nell’ospedale giudiziario di Straubing e dal 2009 nell’ospedale psichiatrico distrettuale di Bayereuth, da dove è uscito solo il 6.8.2013.

La sentenza del 2006 del Landgericht Nürnberg – Fürth, ha lasciato nella percezione sociale della vicenda giudiziaria il dubbio che Mollath sia stato internato in ospedale psichiatrico pur essendo imputabile.

Mollath, infatti, aveva rifiutato di sottoporsi a perizie psichiatriche24 ed aveva inviato alcune lettere, confuse, ai magistrati, in cui parlava di un sistema di riciclaggio

22 Sul caso Mollath cfr. DUDECK, KASPAR E LINDEMANN, “Verantwortung und Zurechnung im Spiegel von Strafrecht und Psychiatrie”, Nomos, 2014, pag. 103 e ss. 23 Il perito, dott. Klaus Leipziger da Bayreuth definì lo stato mentale di Mollath “einen paranoiden Gedankensystem”, un disturbo delirante legato alla fantasia di ‘riciclaggio di denaro sporco’. 24 Il primo a redigere un rapporto psichiatrico su Mollath, su richiesta della moglie, è stato Gabriele Krach, che non ha mai visto Gustl Mollath, ma si è basato sulle sole dichiarazioni della moglie Petra. Successivamente, il dr. Klaus Leipziger, nel 2005, ha effettuato una perizia psichiatrica su Mollath basandosi solo su documentazione giudiziaria. Il consulente Hans Simmerl, nominato dalla corte di Straubing, eseguì una perizia su Mollath nel 2007 dopo aver parlato con lui per alcune ore e non rinvenì disturbi psichici né deliri schizoidi, perciò prescrisse la cessazione di trattamenti psichiatrici. Nel 2008 il dr. Hans-Ludwig

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di denaro sporco, evasione fiscale ed insider trading all’interno della Hypovereinsbank, il tutto presumibilmente ordito dalla moglie Petra. Le dichiarazioni di Mollath erano così confuse che la Magistratura non ritenne opportuno aprire una indagine, ed egli restò chiuso in ospedale psichiatrico per 7 anni.

Il cd. ‘caso Mollath’ emerge di fatto quando viene resa pubblica un’indagine interna proprio della Hypovereinsbank risalente al 2003, che è sfociata nel licenziamento della moglie di Mollath, Petra. La stampa ed in particolare la Süddeutsche Zeitung collegarono immediatamente l’indagine con il racconto di Gustl Mollath25, che comportò la riapertura del caso.

Con il ricorso costituzionale diretto individuale (Verfassungsbeschwerde) a tutela dei diritti fondamentali nei confronti del pubblico potere, di cui all'art. 93, comma 1, n. 4a, GG (Grundgesetzt), proposto da Mollath ed avente ad oggetto la legittimità della continuazione dell’internamento in ospedale psichiatrico, la Bundesverfassungsgericht con la sentenza del 26 Agosto 2013 nel procedimento 271/2012, ha riconosciuto l’illegittimità dell’internamento di Gustl Mollath, nonché una concreta violazione del principio di proporzione.

5. La riforma del § 63 StGB e del § 64 StGB e le ragioni economico-sociali. Il Parlamento tedesco, il 28.04.2016, ha approvato la riforma del ricovero in un

ospedale psichiatrico giudiziario ai sensi del § 63 StGB e di altre disposizioni, quali il § 64 StGB, il § 67 StGB con l’aggiunta del comma 6, il § 67d, commi 2 e 6, StGB e la norma processuale di cui al § 463, commi 4 e 6, StPO26. La riforma è entrata in vigore il 01.08.2016.

La riflessione sulla necessità di una modifica ha trovato origine, oltre che dal “caso Mollath”, dal chiaro aumento della durata media del ricovero «senza che vi fosse una prova concreta di un parallelo aumento della pericolosità»27.

Era stato rilevato un aumento delle persone internate ai sensi del § 63 StGB e, di conseguenza, della durata media dell’esecuzione della misura, poiché nei Länder, nell’anno 2000 erano internate 4089 persone, ai sensi del § 63 StGB, mentre al 31.12.2010

Kröber, senza vedere mai il paziente, confermò la perizia di Krach e Leipziger. Nel 2010 fu effettuata un’altra perizia da Friedemann Pfäfflin che confermò la diagnosi di “delirio di tipo paranoide”, escludendo però la pericolosità di Mollath, fece venir meno le condizioni per l’internamento in ospedale psichiatrico. 25 Fu aperta una vera e propria inchiesta parlamentare ed il ministro della Giustizia, Beate Merk, respinse diverse richieste di dimissioni, dichiarando nel marzo 2012 “Le dichiarazioni di Mollath riguardo gli affari poco chiari della Hypovereinsbank non sono il motivo del suo ricovero in un ospedale psichiatrico, le motivazioni riguardano la pericolosità dell’uomo”. Il primo ministro della Baviera, invece, Horst Seehofer, appoggiò la riapertura del processo sostenendo che “forse si tratta di un clamoroso errore giudiziario”. 26 Sul punto cfr. Bundesgesetztblatt Jahrgang 2016 Teil I n. 34 ausgegeben zum Bonn am 14. Juli 2016 ed il Gesetzentwurf der Bundesregierung (progetto di legge del governo federale) in Bundestags - Drucksache 18/7244; v. questo link, dove è possibile rinvenire anche i problemi e lo scopo della riforma. 27 KRÖBER, Der Riformierte § 63, in Forensische Psychiatrie, Psychologie, Kriminologie, agosto 2016, pag. 212.

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vi erano 7752 pazienti. Nei centri di disintossicazione, ai sensi del § 64 StGB, si trovavano, al 31.12.2013, 3763 persone.

Sono stati, inoltre, considerati gli elevati costi dell’internamento, essendo la tariffa giornaliera media di €. 280,00 e solo i pazienti internati ai sensi del § 63 StGB costavano al giorno, nel 2010, 2,17 milioni di euro, ed in un anno 800 milioni di euro.

Parallelamente, la sentenza della Bundesverfassungsgericht in relazione al caso Mollath ha conferito una importanza pratica al principio di proporzione nella durata di internamento ed ha reso necessario l’intervento del legislatore in riferimento agli ospedali psichiatrici ed agli istituti di disintossicazione.

Già nel mese di dicembre 2014 era stato pubblicato un disegno di legge da parte della Bund – Länder – Arbeitsgruppe, con la costituzione di un gruppo di lavoro per la modifica della legge relativa al ricovero secondo il § 63 StGB28.

La novità legislativa ha interessato principalmente l’aspettativa di pericolosità sociale dell’individuo, la durata dell’internamento e la nomina di esperti per le perizie psichiatriche.

6. La riforma del § 63 StGB. Il legislatore tedesco ha modificato il § 63 StGB, aggiungendo alcuni dei

parametri in parte già individuati per l’internamento in custodia di sicurezza (Unterbringung in der Sicherungsverwahrung)29, prevista dal § 66 StGB,

Il § 63 StGB, prima della riforma, prevedeva che «se qualcuno commette un fatto antigiuridico in condizione di non imputabilità (§ 20 StGB) o di imputabilità diminuita (§ 21 StGB), il giudice dispone il ricovero in un ospedale psichiatrico se la valutazione complessiva dell’autore e del fatto dimostrano che ci sia da attendersi, in ragione della sua condizione, la commissione di rilevanti fatti antigiuridici e perciò è pericoloso per la collettività»30.

Il codice penale tedesco stabilisce una relazione tra disturbo psichico e pericolosità. Infatti, nel disporre l’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario, di cui al § 63, fonda la pericolosità del reo sulla sua condizione patologica (Gefärlichkeit des Täters “infolge seines Zustandes”) 31.

È decisivo, ai fini della misura dell’internamento in ospedale psichiatrico, che rispetto ai fatti commessi ricorrano le condizioni di cui ai §§ 20 e 21 StGB (rispettivamente ‘non imputabilità causata da disturbi psichici’ e ‘imputabilità

28 Sul punto cfr. SCHALAST E LINDEMANN, Recht und Psychiatrie, Anmerungen zu den Plänen einer Änderung des Rechts der Unterbringung im Psychiatrischen Krankenhaus, Psychiatrie Verlag, 2015. 29 cfr. nota 20. 30 cfr. VINCIGUERRA (a cura di), Il codice penale tedesco, introduzione di JESCHEK, traduzione di BONADIO, Padova, 2003, pag. 79. 31 SCHÖCH HEINZ in Leipziger Kommentar StGB, Band 3, 2008, sotto il § 63 StGB, pag. 320, in riferimento alla BGH NJW 1998 2986, 2987, ove si legge che è richiesta una sintomatica correlazione (symptomatischer Zusammenhang) tra la pericolosità del reo e la sua condizione patologica.

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diminuita’) ed esiste il pericolo di recidiva in correlazione con la rilevante condizione del reo32.

Il ricovero in ospedale psichiatrico, quindi, presuppone che l’autore del fatto abbia agito in una situazione di incapacità (Schuldunfähikeit) oppure in considerevole capacità diminuita, non temporanea. Il giudice dispone il ricovero quando, dalla valutazione complessiva del reo e del suo fatto, sussiste una probabilità di recidiva, che dalla giurisprudenza è definita elevato grado di probabilità di commissione di un nuovo fatto di reato, che, prima dell’intervento legislativo del 2016, non doveva essere necessariamente grave33.

I nuovi parametri, inseriti per il giudizio di pericolosità, in relazione al ricovero in un ospedale psichiatrico, sono volti ad aumentare la gravità dell’aspettativa che l’individuo commetta in futuro più gravi reati che abbiano arrecato gravi conseguenze alla vittima.

Il legislatore, così, modifica il § 63 StGB: «Se qualcuno ha commesso un fatto antigiuridico in condizione di non imputabilità (§ 20 StGB) o di imputabilità diminuita (§ 21 StGB), il Tribunale dispone l’internamento in un ospedale psichiatrico quando dalla valutazione complessiva dell’autore e del fatto risulta che, in ragione della sua condizione, da lui è possibile attendersi rilevanti fatti antigiuridici, dai quali le vittime sono psichicamente e fisicamente danneggiate in modo rilevante o messe in pericolo in modo rilevante, o venga arrecato un grave danno economico, e quindi è pericoloso per la collettività»34.

L’autore di reato non imputabile è socialmente pericoloso quando i fatti antigiuridici, che ci si aspetta che commetterà, sono fatti che possono provocare un danno psichico o fisico rilevante per la vittima, oppure può essere messa in pericolo o può essere provocato un grave danno economico.

Ed ancora, la riforma inserisce, nel secondo periodo del § 63 StGB, un ulteriore parametro per la decisione del giudice, il quale potrà applicare la misura dell’internamento in ospedale psichiatrico anche in forza di altre condizioni: «Se il fatto antigiuridico commesso non è un fatto rilevante nel senso del comma 1, il Tribunale adotta una simile disposizione, solo se particolari circostanze giustificano l’aspettativa che il reo, in ragione della sua condizione, commetterà simili fatti antigiuridici rilevanti»35.

Quindi, anche se la persona ha commesso un reato bagattellare, il Tribunale dovrà comunque valutare complessivamente la personalità del reo, il suo passato ed il

32 SCHÖCH HEINZ in Leipziger Kommentar StGB, Band 3, 2008, sotto il § 63 StGB, pag. 320. 33 DUDECK, KASPAR E LINDEMANN, “Verantwortung und Zurechnung im Spiegel von Strafrecht und Psychiatrie”, Nomos, 2014, pag. 29. 34 Il § 63 StGB, Parte 1 è stato così modificato dall’art. 1 n. 1 lettera a) della legge 8.7.2016 in Bundesgesetztblatt Jahrgang 2016 Teil I n. 34 ausgegeben zum Bonn am 14. Juli 2016. 35 Il secondo periodo del § 63 StGB è stato così riformato dall’art. 1 n. 1 lettera b) della legge 8.7.2016 in Bundesgesetztblatt Jahrgang 2016 Teil I n. 34 ausgegeben zum Bonn am 14. Juli 2016.

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fatto commesso; egli quindi sarà considerato socialmente pericoloso se ci si aspetta da lui la commissione di un fatto antigiuridico.36

In riferimento al grave danno economico, la dottrina rimanda all’interpretazione del concetto previsto nel § 66, comma 1, n. 3 StGB, secondo cui dovrà essere valutato il singolo caso concreto, poiché può essere sufficiente anche un valore minimo, se più alta è la sensibilità della vittima oppure è necessario un valore economico più elevato, se la vittima ha una scarsa sensibilità; ne deriva che sarà possibile disporre il ricovero in ospedale psichiatrico anche quando vi siano casi con un più scarso danno economico, ma con un più elevato danno morale.37

7. La riforma del § 64 StGB. Anche il § 64 StGB è stato oggetto di modifica. La norma che prevede il ricovero

in un istituto di disintossicazione, prima della riforma così disponeva: «Se taluno ha la tendenza ad assumere in quantità eccessive bevande alcoliche o altre sostanze inebrianti e viene condannato per un fatto antigiuridico, che ha commesso in stato di ebbrezza o riconducibile alla sua tendenza oppure non è condannato soltanto perché è provata o non può essere esclusa la sua inimputabilità, il giudice dispone il ricovero in un istituto di disintossicazione, quando sussiste il pericolo che egli, in ragione della sua tendenza, commetta rilevanti fatti antigiuridici. L’ordine è disposto solo quando sussiste una sufficiente concreta probabilità che la persona, attraverso la terapia in un centro di disintossicazione, guarisca oppure per un considerevole tempo è protetta dalla recidiva alla tendenza ed è tenuta lontano dalla commissione di un rilevante fatto di reato, riconducibile alla sua tendenza»38.

La legge dell’8.7.2016 ha modificato solo la seconda parte del § 64 StGB, stabilendo che l’ordine di ricovero in un istituto di disintossicazione è disposto solo quando vi è una sufficiente e concreta probabilità che la persona, attraverso la terapia ed entro il termine previsto dal § 67 d, comma 1, periodo 1 e 3, guarisca o, almeno per un considerevole lasso di tempo non sia recidivo alla tendenza ad assumere bevande alcoliche o altre sostanze inebrianti o comunque non commetta rilevanti fatti di reato, riconducibili alla sua tendenza.

Il legislatore ha voluto, così, riservare e limitare la disposizione delle misure ai soli casi più gravi di pericolosità, arginando con più dettagliati parametri, la clausola relativa all’aspettativa in futuro di un grave aumento della pericolosità, che è comunque subordinata agli strumenti di prognosi dei periti incaricati39.

36 PEGLAU, Das neue Recht der strafrechtlichen Unterbringung in einem psychiatrischen Krankenhaus, Neue JuristischeWochenschrift, C.H. Beck, 32/2016, pag. 2299. 37 PEGLAU, Das neue Recht der strafrechtlichen Unterbringung in einem psychiatrischen Krankenhaus, Neue JuristischeWochenschrift, C.H. Beck, 32/2016, pag. 2300. 38 Cfr. VINCIGUERRA (a cura di), Il codice penale tedesco, op cit., pag, 81. 39 KRÖBER, Der Riformierte § 63, opera cit., pag. 213.

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8. La modifica del § 67 d StGB e la durata delle misure di sicurezza.

In riferimento alla durata dell’internamento in un ospedale psichiatrico

giudiziario, il comma 2 del § 67 d, è stato così modificato: «Se non è previsto un termine massimo o il termine non è ancora trascorso, il giudice sospende condizionalmente l’ulteriore esecuzione dell’internamento, se è da attendersi che l’internato non commetterà alcun rilevante fatto antigiuridico. Lo stesso vale, quando il giudice verifica, dopo l’inizio dell’esecuzione dell’internamento in custodia di sicurezza, che l’ulteriore esecuzione sarebbe sproporzionata, perché all’internato, non oltre la scadenza di un termine prestabilito dal giudice, non superiore a 6 mesi, non è stata offerta una sufficiente assistenza ai sensi del § 66 c, comma 1, numero 140; quando non è stata offerta nessuna adeguata assistenza, il giudice deve determinare tale termine con l’indicazione delle misure da proporre in occasione dell’esame del rinvio dell’esecuzione. Con il differimento ai sensi del periodo 1 o 2, interviene la vigilanza sulla condotta».

Il legislatore tedesco ha inserito al comma 2 del § 67 d la parola ‘erheblichen’, così che ai fini dell’interruzione dell’esecuzione della misura, ci si aspetta che «nessun rilevante fatto antigiuridico è più commesso».41 In tal modo, sarebbe possibile disporre l’interruzione dell’esecuzione della misura nei casi meno gravi, ovvero nei casi in cui non ci si aspetta il futuro compimento di un rilevante fatto antigiuridico.

Ed ancora, è stato modificato parzialmente il comma 6, del § 67 d StGB, in cui si prevedeva: «Se il giudice constata all’inizio dell’esecuzione del ricovero in un ospedale psichiatrico, che i presupposti della misura non esistono più oppure che la continuazione dell’esecuzione sarebbe sproporzionata, la dichiara terminata. Con il rilascio dall’esecuzione dell’internamento inizia una vigilanza sulla condotta. Il giudice non dispone l’inizio della vigilanza sulla condotta se è probabile che l’internato anche senza essa non commetterà più nessun fatto di reato».42

Il legislatore ha così modificato il comma 6 del § 67 d StGB: «Se il giudice constata all’inizio dell’esecuzione dell’assegnazione in un ospedale psichiatrico, che i presupposti della misura non esistono più oppure che la continuazione dell’esecuzione sarebbe sproporzionata, la dichiara terminata. Se l’assegnazione dura 6 anni, la sua durata di regola non è più proporzionata quando non c’è il pericolo che all’interruzione siano commessi gravi fatti antigiuridici in ragione della sua condizione, attraverso i quali le vittime sono lese nella mente e nel corpo in modo rilevante o è messo in modo rilevante in pericolo il corpo, oppure sono arrecati danneggiamenti psichici. Se sono eseguiti 10 anni di internamento, trova applicazione il capoverso 3 parte 1. Con il rilascio

40 Ai sensi del § 66 c, comma 1, numero 1, l’internato in custodia di sicurezza necessita di un supporto durante l’esecuzione della misura, che, può consistere nella partecipazione a percorsi psichiatrici e psico – socio – terapeutici studiati su misura per l’internato e finalizzati alla riduzione della sua pericolosità per la collettività. 41 Il § 67 d StGB, è stato così riformato dall’art. 1, n. 4, lettera a, della legge 8.7.2016 in Bundesgesetztblatt Jahrgang 2016 Teil I n. 34 ausgegeben zum Bonn am 14. Juli 2016. 42 Cfr. VINCIGUERRA (a cura di), Il codice penale tedesco, op cit.

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dall’esecuzione dell’internamento inizia una vigilanza sulla condotta. Il giudice non dispone l’inizio della vigilanza se è probabile che l’internato anche senza essa non commetterà più nessun fatto di reato»43.

In particolare, il capoverso 3 parte 1, in riferimento alla Sicherungsverwahrung dispone che, se sono stati eseguiti 10 anni di internamento in custodia di sicurezza, il giudice dichiara la misura terminata, se non vi è pericolo che all’interruzione sia commesso un grave reato, che danneggia la vittima psichicamente o fisicamente in modo rilevante.

Ne deriva che, dopo 6 anni, si può anche verificare che l’internato sia trattenuto ancora in esecuzione, non solo quando vi sia il pericolo di una rilevante lesione, ma anche quando vi sia il pericolo che si mettano altri in pericolo: si tratta, come è stato opportunamente osservato, di un «pericolo della messa in pericolo», che deve essere effettuata dal giudice.44

Pertanto, posto che il § 67 d, comma 6, rinvia al capoverso 3 parte 1 dello stesso paragrafo, coloro che hanno commesso un fatto di reato e che presentano disturbi psichici, dopo 10 anni sono equiparati mutatis mutandis, nel diritto alla libertà, a coloro che sono sottoposti alla misura dell’internamento in custodia di sicurezza, di cui condividono, pertanto la disciplina.

Tale modifica è stata considerata un progresso nella misura in cui si ritiene che la continuazione della durata della misura dell’internamento dipenda solo dal pericolo di una più grave lesione fisica o psichica, eliminando il riferimento alle più gravi lesioni economiche. Pertanto ogni possibile lesione, non rilevante, alle persone non sarà più un sufficiente motivo per proseguire l’internamento45.

Sul punto, si precisa che resta discussa la valutazione giudiziale del pericolo in tutti quei reati, per esempio l’incendio o la trasgressione alle norme in materia di armi, per cui il danneggiamento alla persona, fisico o psichico, potrebbe verificarsi, ma non necessariamente; tuttavia stando alla lettera della legge sembra ipotizzabile la rilevanza di un grave pericolo psichico o fisico ad una potenziale vittima.46

9. La modifica del § 463 StPO e la nomina di ‘esperti’. Il problema della validità della perizia psichiatrica si pone in termini di

metodologia dell’indagine compiuta dai periti47 e, in assenza di procedure standardizzate, la perizia non può assurgere a prova scientifica. 43 Parte così aggiunta dall’art. 1, n. 4, lettera b, della legge 8.7.2016 in Bundesgesetztblatt Jahrgang 2016 Teil I n. 34 ausgegeben zum Bonn am 14. Juli 2016. 44 KRÖBER, Der Riformierte § 63, opera cit., pag. 213. 45 KRÖBER, Der Riformierte § 63, opera cit., pag. 213. 46 Cfr. PEGLAU, Das neue Recht der strafrechtlichen Unterbringung in einem psychiatrischen Krankenhaus, Neue Juristische Wochenschrift, C.H. Beck, 32/2016, pag. 2300. 47 In merito ROXIN afferma che il compito dell’esperto resta quello di accertare la condizione psichica del reo, problematica empirica e di principio, per cui la moderna psichiatria e psicologia possono assolutamente avere voce in capitolo. Certo esiste un margine di valutazione, ma resta comunque determinante la

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Proprio per tale motivo, il legislatore tedesco ha voluto modificare parzialmente anche il § 463, comma 4 e 6, StPO, prevedendo una maggiore frequenza del riesame della pericolosità sociale, affidato a periti esterni.

Il § 463, comma 4, StPO così enunciava: «Nell’ambito delle verifiche ai sensi del § 67e del codice penale, il giudice deve ogni 5 anni di internamento in un ospedale psichiatrico (§ 63) acquisire la perizia di un esperto. L’esperto non può né in ambito dell’esecuzione del ricovero essersi occupato del trattamento della persona internata, né lavorare nell’ospedale psichiatrico, in cui si trova la persona internata. All’esperto è concesso di prendere visione dei dati dei pazienti dell’ospedale dove la persona è internata. Si applica il § 454 comma 2. Alla persona ricoverata, che non ha difensore, il giudice nomina un difensore per il procedimento di cui al primo periodo».

Dopo la riforma, il § 463, comma 4, StPO così dispone: «Nell’ambito della verifica di ricovero in un ospedale psichiatrico (§ 63) ai sensi del § 67e del codice penale, deve essere acquisito un parere tecnico della istituzione per la esecuzione della misura, nella quale è internato il condannato. Il giudice deve ogni 3 anni e, dal sesto anno, ogni 2 anni di ricovero in un ospedale psichiatrico, acquisire la perizia di un esperto. L’esperto non può né in ambito dell’esecuzione dell’internamento essersi occupato del trattamento della persona ricoverata, né lavorare nell’ospedale psichiatrico, in cui si trova la persona ricoverata, né egli deve aver eseguito l’ultima perizia durante la precedente verifica. L’esperto che è chiamato per la prima perizia nell’ambito di una verifica dell’internamento, non deve aver eseguito la perizia nel procedimento in cui è stato disposto l’internamento o la sua successiva esecuzione. Devono essere incaricati della perizia solo esperti medici o psicologi, che dispongono di competenze ed esperienze psichiatrico-forensi. All’esperto è permesso di prendere visione dei dati dei pazienti dell’ospedale dove è ricoverata la persona. Si applica il § 454, comma 2. Alla persona internata che non ha un difensore, il giudice nomina un difensore, per la verifica dell’internamento, per il quale deve essere fatta una perizia di un esperto ai sensi del secondo periodo».48

D’ora in avanti, quindi, dovrà essere fatta una perizia esterna invece che a 5 anni, ogni 3 anni, mentre dal 6° anno di assegnazione ogni 2 anni (quindi al 3°, 6°, 8° e 10° anno). Inoltre, un perito non potrà vedersi rinnovato l’incarico due volte di seguito. Sul punto, tuttavia, va considerata la valutazione critica di chi, anche in sede istituzionale, ha ritenuto che l’aumento del numero delle perizie non riduce la durata del ricovero, ma la prolunga.49

convinzione del giudice, a cui l’esperto non può sostituirsi. Questo non cambia nella seconda parte del § 20 SGB, la cooperazione tra l’empirica dell’esperto ed il giudice confluiscono verso le medesime regole, in Strafrecht, Allgemeiner Teil, Band I, München, 2006, pag. 900. 48 Il comma 4 del § 463 StPO è stato così sostituito dall’art. 2, n. 2, della legge 8.7.2016 in Bundesgesetztblatt Jahrgang 2016 Teil I n. 34 ausgegeben zum Bonn am 14. Juli 2016. 49 PFÄFFLIN, 2014 e dalla commissione di riforma al § 63 StGB.

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Particolare è la definizione normativa che il perito deve essere esperto in relazione al futuro, rispetto a ciò che avverrà, difatti il giudice deve incaricare solo un medico e psicologo, che risponda di competenza ed esperienza psichiatrico-forense50.

Inoltre, attualmente, il § 463, comma 6, seconda parte, StPO, dispone l’ascolto dell’internato prima che sia decisa l’esecuzione della misura.

10. Brevi considerazioni sulla riforma del ricovero in ospedale psichiatrico nello StGB.

Le nuove condizioni previste dal § 63 StGB sono state ritenute un buon

compromesso tra il diritto alla libertà dell’autore di reato con patologie psichiche e la sicurezza della comunità.51

Sotto il profilo politico-criminale, la prognosi di comportamenti umani futuri non può mai raggiungere un risultato univoco, sia che «si segue una concezione oggettivistica della probabilità quanto se se ne adotta una di tipo soggettivistico»52, poiché in ogni caso il giudice non dispone di informazioni di tipo scientifico, né dal punto di vista contenutistico né di metodo.

Sicuramente le condizioni previste dalla riforma relativamente alla frequenza delle perizie, alla scelta ed alla necessaria alternanza dei periti, tende ad una oggettivizzazione del paziente internato in ospedale psichiatrico – e, quindi, della (improbabile) valutazione della sua pericolosità sociale – che appare del tutto conforme ai parametri della più rigorosa psichiatria organicista.

È noto, invece, che in una diversa prospettiva è decisivo il rapporto costante tra psichiatra e paziente per una valutazione che sia adeguata in termini sia diagnostici che terapeutici53.

Sebbene la nuova legge lascia intravedere nel sistema penale tedesco una più concreta applicazione del principio di proporzione, maggiori garanzie nell’accertamento del giudizio di pericolosità sociale e nella durata delle misure di sicurezza, si dovranno attendere, in ogni caso, le prime applicazioni pratiche della nuova disposizione

50 La modifica del § 463 StPO ha posto anche il problema della formazione professionale dei periti esperti in prognosi criminale. 51 PEGLAU, Das neue Recht der strafrechtlichen Unterbringung in einem psychiatrischen Krankenhaus, Neue Juristische Wochenschrift, C.H. Beck, 32/2016, pag. 2302. 52 COLLICA, La crisi del concetto di autore non imputabile “pericoloso”, cit., pag. 11 e 12, la quale, rispetto alla concezione oggettivistica, si riferisce alla probabilità intesa come realtà esterna all’osservatore, espressa da una serie di frequenze stabili ed eventi, perciò la pericolosità sociale indicherà il “grado di possibilità di un certo evento”, in termini di probabilità frequentista. Rispetto alla concezione soggettiva, invece, la probabilità rappresenta il grado personale di fiducia nella previsione dell’evento, esprimibile in una quota, cd. “quota di scommessa”, basata sul teorema di De Finetti. 53 JASPERS, Autobiografia filosofica (1956), Napoli, 1969, 29 e 32, dove l’Autore, in un’ottica di superamento del dualismo cartesiano anima e corpo, rileva che l’oggetto della psichiatria è l’uomo e non il suo corpo, l’uomo nella sua totalità al di fuori di ogni possibile oggettivizzazione; sul punto cfr. SCHIAFFO, La pericolosità sociale tra «sottigliezze empiriche» e ‘spessori normativi’: la riforma di cui alla legge n. 81/2014, in questa Rivista, 11 dicembre 2014, pag. 10.

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normativa, al fine di valutarne i suoi reali effetti nella fase dell’esecuzione delle misure di miglioramento e sicurezza. Il sistema tedesco, che, ad oggi, vede ancora attivi gli ospedali psichiatrici, appare, tuttavia, lontano dalla realtà italiana, che, invece, con la chiusura degli OPG e con la ridefinizione del giudizio di pericolosità sociale, sembra essere più vicina al superamento di un sistema, basato su una diversità di trattamento dei soggetti imputabili e non imputabili, che, di fatto, crea discriminazioni tra i primi, destinatari di pena ed i secondi, invece, destinatari della misura di sicurezza.

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LA TUTELA PENALE DEL SENTIMENTO RELIGIOSO NELL’ORDINAMENTO COSTITUZIONALE SPAGNOLO.

PROFILI COSTITUZIONALISTICI

di Ugo Adamo

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’art. 525 del código penal spagnolo e la configurazione del reato penale di escarnio publico – 3. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo su libertà di espressione e rispetto dei sentimenti religiosi. – 4. Il recente caso di J. Krahe e la ratio decidendi impiegata dall’autorità giudiziaria. – 5. Conclusioni.

1. Premessa.

I drammatici fatti accaduti il 7 gennaio del 2015 nella capitale francese, quando

un gruppo di terroristi nel nome della ‘propria fede’ ha tolto la vita a dieci lavoratori (componenti di redazione, vignettisti, collaboratori) del giornale satirico Charlie Hebdo1 perché ‘accusati’ di blasfemia2, hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica e – per quel che a noi precipuamente interessa – della comunità scientifica dei giuristi la contrapposizione tra due beni quali la libertà di espressione (finanche di blasfemia) e la libertà religiosa e, quindi, la questio dei limiti che legittimamente possono imporsi nell’opera di bilanciamento che spetta al legislatore, prima, e al giudice, poi.

Scopo del nostro intervento è quello di indagare lo spazio riconosciuto al diritto di espressione nell’ordinamento costituzionale spagnolo e di farlo in considerazione del materiale normativo e giurisprudenziale finora prodotto, anche alla luce di alcune rilevanti pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

1 E a due poliziotti che cercavano di tutelarne l’incolumità da attacchi di tal sorta, viste le ripetute minacce che i componenti della rivista satirica ricevevano ormai da anni da parte di fazioni islamico-integraliste. 2 Le accuse erano quelle di aver ridicolizzato il profeta Maometto, ma soprattutto di averlo raffigurato.

Abstract. A due anni di distanza dai tragici accadimenti che hanno colpiti la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, il saggio vuole cercare di dare una risposta ai limiti che si impongono alla libertà di manifestazione del pensiero quando essa si esprime in ambito religioso quando il suo esercizio determina un turbamento dei sentimenti religiosi, per l’appunto, in alcuni (molti o pochi) soggetti. Il saggio tende a dimostrare come il bilanciamento operato dalle Corti sia diseguale.

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Fin da subito pare quanto meno opportuno richiamare – seppur in modo essenziale – i fatti che hanno portato al consumarsi del doloroso accadimento richiamato nelle prime righe di questa premessa, per poter poi ragionare sui limiti della libertà di espressione.

Tutto ebbe inizio il 17 settembre del 20053, vale a dire il giorno in cui il giornale danese Politiken rese nota la difficoltà di commissionare a un disegnatore l’illustrazione di un libro per bambini sulla storia del profeta Maometto. L’impossibilità di trovare qualcuno in grado di tradurre in disegno la figura del profeta – a causa delle probabili ritorsioni che tale opera avrebbe procurato, essendo la raffigurazione di Maometto considerata atto blasfemo per la religione musulmana – ebbe un’eco tale4 che il maggior giornale danese (Jyllands Postent) decise di dar voce a questa ‘paura’ di esercitare la libertà di espressione in forma grafica. La rivista, quindi, decise di pubblicare (il successivo 30 settembre) dodici vignette raffiguranti Maometto, fra le quali quella (forse) più nota traeva il fondatore dell’Islam con in testa una bomba a mo’ di turbante.

Le accuse di blasfemia furono repentine e giunsero da quasi l’intero globo; insieme ad esse, però, arrivarono anche gesti di solidarietà accumunati dalla volontà di ‘protezione’ del principio della libertà di manifestazione del pensiero.

Fra i tanti gesti di solidarietà a cui si è appena accennato rientra la decisione da parte del giornale settimanale satirico Charlie Hebdo di pubblicare (l’8 febbraio del 2006) un numero monografico sulla vicenda, con le dodici vignette divenute ormai famose.

Si è davanti a casi di libertà di espressione? Si è oltrepassata l’asticella del dicibile? Esiste il diritto a non sentirsi offesi nel proprio credo religioso? Quali sono le

3 Un’ampia ricostruzione della vicenda è offerta da J. FERREIRO GALGUERA, Los límites a la libertad de expresión en la jurisprudencia del Tribunal Europeo de los Derechos Humanos: a propósito de las caricaturas sobre Mahoma, in Id. (a cura di), Jornadas Jurídicas sobre Libertad Religiosa en España, Madrid, 2008, pp. 693-701. V. anche L. CHRISTOFFERSEN, The Danish Cartoons Crisis Revisted, in W.C. Durham, D.M. Kirkham, T. Lindholm (a cura di), Islam and political-cultural Europe, Oxford, 2012, pp. 217-227; E. DERIEUX, Respect des croyances et la liberté d’expression, droit français et européen, actualité jurisprudentielle, in Annuaire de Droit et Religions, 6/2013, pp. 801 s. Sul tragico fatto di Charlie – e per ricordare la sola dottrina spagnola – si v. M.Á. PRESNO LINERA, El derecho a la blasfemia. Sobre la protección de la libertad para criticar, incluso para ofender, in www.ine.es; J. MARTÍNEZ

TORRÓN, ‘Charlie Hebdo’: una tragedia sin héroes, in www.iustel.com. 4 È resa evidente la dimensione internazionale del problema con conseguenze, come vedremo, anche sul concreto bilanciamento tra le due libertà (di informazione e religione). Per effetto della globalizzazione, un evento verificatosi in un luogo qualunque produce anche altrove effetti di elevatissimo rilievo sociale e dalle imprevedibili, ed anche pericolose, conseguenze politiche: queste sempre più spesso diventano oggetto di legislazione con conseguente discapito della libertà di espressione. Sulla relazione tra globalizzazione e libertà d’espressione (che produce una sorta di ciò che potremmo definire ‘effetto megafono’) si v. R. PALOMINO, Libertad de expresión y libertad religiosa: elementos para el análisis de un conflicto, in J. Martínez-Torrón, S. Cañamares Arribas (a cura di), Tensiones entre libertad de expresión y libertad religiosa, Valencia, 2014, pp. 38 ss. e già ID., Libertad religiosa y libertad de expresión, in Ius Canonicum, 98/2009, pp. 509 ss.; G. ZAGREBELSKY, Le risposte dell’Occidente oltre lo scontro di civiltà, in La Repubblica del 12 gennaio 2015. In S. NAÏR, G. SERRANO, Democracia y responsabilidad, Las caricaturas de Mahoma y libertad de expresión, Madrid, 2008, sono stati raccolti contributi di letterati, politologi ed intellettuali. Fra i libri italiani, che non hanno un ‘taglio’ giuridico, si v. per tutti il numero monografico di MicroMega intitolato Je suis Charlie? Je suis Charlie!, 5/2015. Si rinvia, altresì, a di N. Fiorita, D. Loprieno (a cura di), La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà religiosa nelle società multiculturali, Firenze, 2009.

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discipline costituzionali e normative che delimitano l’esercizio di tale libertà? Nelle pagine che seguono si cercherà di formulare delle risposte a tali questioni dando conto in primis della legislazione penale vigente nell’ordinamento spagnolo.

2. L’art. 525 del código penal spagnolo. Per cercare di rispondere agli interrogativi appena posti, si deve cercare di

stabilire quale sia, in un contesto caratterizzato da una società sempre più multiculturale5, il rapporto che può intercorrere tra libertà di espressione e tutela dei diritti degli altri e quale sia il fondamento della protezione del sentimento religioso di un credente, che vanta un diritto – quello di non sentirsi offeso – che deve essere tutelato.

I casi più problematici non sono tanto quelli inerenti l’espressione di posizione favorevole ad una determinata religione (chiaramente ammissibili) o quelli che riguardano l’esercizio della libertà di espressione quando si ha il fine di incitare alla violenza contro i credenti in una determinata fede con argomenti di odio discriminatorio (chiaramente illeciti)6, quanto piuttosto tutti quei casi che costituiscono la cosiddetta zona “grigia”7: “[s]i tratta di quei casi nei quali affermazioni, commenti o opinioni espresse in materia religiosa si oppongono direttamente a convinzioni, sentimenti, credenze o istituzioni di tale tipo, molte volte in termini offensivi, ma senza superare un

5 P.J. Tenorio Sánchez (diretto da), La libertad de expresión. Su posición preferente en un entorno multicultural, Madrid, 2014. 6 In dottrina si v. almeno M. REVENGA SÁNCHEZ, Discurso del odio y modelos de democracia, in El Cronista del Estado, 50/2015, 32-35. 7 Così da L. LÓPEZ GUERRA, Libertad de expresión y libertad de religión a la luz de la jurisprudencia del Tribunal Europeo de Derechos Humanos: blasfemia e insulto a la religión, in Revista de Derecho Europeo, 46/2013, p. 82.

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livello che permetta di qualificarli come discorso dell’odio8”9; si sta discorrendo, dunque, di blasfemia (espressioni contro Dio e contro i simboli religiosi)10 e di ingiuria (espressioni contro credenze e fedi religiose)11.

Prima di procedere con l’analisi della disposizione contenuta nel codice penale spagnolo12, dovendoci occupare di limiti ai diritti fondamentali, la fonte del diritto da cui prendere le mosse non può che essere il testo costituzionale.

8 Per la definizione di ‘discorso di odio’ si riporta il punto 33 del Rapporto sulle Relazioni tra libertà d’espressione e libertà di religione: regolamentazione e repressione della blasfemia, dell’ingiuria a carattere religioso e dell’incitazione all’odio religioso adottato dalla Commissione di Venezia (17-18 ottobre 2008): “[n]on esiste una definizione unanimemente riconosciuta di «incitazione all’odio» né di «discorso di odio». Nella sua Raccomandazione (97)20, il Comitato dei Ministri ha stabilito la seguente definizione: il termine «discorso di odio» deve essere inteso come riguardante tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza, compresa quella che si esprime sotto forma di nazionalismo aggressivo e di etnocentrismo, di discriminazione e di ostilità nei confronti delle minoranze, degli immigrati e discendenti da immigrati. La Corte europea dei diritti dell’uomo fa riferimento a «tutte le forme di espressione che diffondono, incitano a, promuovono o giustificano l’odio fondato sull’intolleranza (compresa quella religiosa)» (Gunduz c. Turquie, causa del 4 dicembre 2003, § 40). È opportuno distinguere il discorso di odio dal crimine di odio. I crimini di odio sono sempre costituiti da due elementi: 1) un reato; 2) un pregiudizio che lo motiva. Se non è motivato da un pregiudizio, un discorso non può costituire reato […]. Tuttavia, l’incitazione diretta a commettere dei reati è vietata in tutti gli Stati membri. Nei paesi dove ciò che è punito non è l’istigazione all’odio in quanto tale, ma l’istigazione a commettere atti di violenza […], questo può essere qualificato come crimine di odio”. Sull’incitazione all’odio religioso, più noto con il termine americano di hate speech, in dottrina cfr. F. PÉREZ-MADRID, Incitación al odio religioso o “hate speech” y libertad de expresión, in R. Navarro Valls, J. Mantecón Sancho, J. Martínez-Torrón (a cura di), La libertad religiosa y su regulación legal. La ley orgánica de Libertad Religiosa, Madrid, 2009, 491-520; R. ALCÁCER GUIRAO, Víctimas y disidentes. El «discurso del odio» en EE.UU. y Europa, in Rivista Española de Derecho Constitucional, 103/2015, 45-86; I. MARTÍN SÁNCHEZ, El discurso del odio en el ámbito del Consejo de Europa, in Revista General de Derecho Canónico y Derecho Eclesiástico del Estado, 28/2012, 1-33. 9 L. LÓPEZ GUERRA, Libertad de expresión y libertad de religión a la luz de la jurisprudencia del Tribunal Europeo de Derechos Humanos: blasfemia e insulto a la religión, cit., 82. 10 Per la definizione di blasfemia si riporta il punto 24 del Rapporto della Commissione di Venezia che così recita: “non esiste un’unica definizione di blasfemia. Il dizionario Merriam Webster definisce la blasfemia nel modo seguente: 1 – l’insulto, il disprezzo o la mancanza di rispetto verso un dio; 2 – l’atto di rivendicare gli attributi della divinità; 3 – la mancanza di rispetto verso ciò che è considerato come sacro o inviolabile. Secondo il Rapporto della Commissione per la cultura, la scienza e l’educazione intitolato «Blasfemia, insulti religiosi e incitazione all’odio contro le persone a causa della loro religione», la blasfemia può essere definita come il reato che costituisce l’insulto, il disprezzo o la mancanza di rispetto verso un dio e, per estensione, verso tutto ciò che è considerato sacro. La Commissione irlandese per le riforme legislative ha suggerito di formulare come segue la definizione ufficiale di blasfemia: «qualsiasi atto o parola che risulta oltraggioso per un numero considerevole di fedeli per il fatto di prendere di mira una o più questioni considerate sacre dalla loro religione»”. 11 Per la definizione di ingiuria si riporta il punto 28 della Rapporto della Commissione di Venezia, che così recita: “[n]on esiste una definizione generale di ingiuria religiosa, ma le disposizioni pertinenti delle legislazioni europee si riferiscono (spesso senza distinguerle) a due diverse nozioni di insulto, quella per appartenere ad una particolare religione e quella di insulto ai sentimenti religiosi”. 12 A tutela dei sentimenti religiosi indipendentemente da quanto predisposto dall’art. XIV dell’Accordo fra lo Stato spagnolo e la Santa Sede firmato il 28 luglio del 1976, che si limita a proteggere i soli sentimenti religiosi dei cattolici: “[s]alvaguardando i principi di libertà religiosa e di espressione, lo Stato vigilerà

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La disposizione a cui bisogna fare riferimento è l’art. 20 CE13– che è norma molto simile a quelle presenti nelle altre carte costituzionali europee14 – e, più precisamente, i suoi primo15 e quarto comma16. Il citato articolo costituzionale riconosce la libertà di espressione in tutte le sue forme e, al quarto comma, contiene una riserva di legge rinforzata nella tutela dei diritti all’onore, all’intimità, alla propria immagine e alla protezione dei minori. Quindi, la carta costituzionale spagnola riconosce e tutela il diritto di esprimere e diffondere liberamente il pensiero, le idee e le opinioni prevedendo come loro limiti il rispetto degli altri diritti riconosciuti nello stesso Titolo, che è rubricato Dei diritti e dei doveri fondamentali. Fra questi diritti, che si pongono in ‘naturale’ bilanciamento con la libertà di espressione al fine di evitarne la tirannia, vi sono quello all’onore, all’intimità, alla propria immagine e alla protezione della gioventù e dell’infanzia.

Come in tutte le carte costituzioni contemporanee, nella Costituzione spagnola – e proprio nel Titolo a cui si è appena fatto riferimento – si riconosce e tutela la libertà religiosa, pur precisando che nessuna confessione avrà il carattere di religione di Stato. Il riferimento – oltre che al principio di non discriminazione per ragioni di religione e di opinione ex art. 14 CE – va all’art. 16 CE17, con il quale, fra l’altro18, è sancito che: “è garantita la libertà ideologica, religiosa e di culto degli individui e delle comunità nelle proprie manifestazioni senza alcuna limitazione, se non quelle necessarie per il mantenimento dell’ordine pubblico19 garantito dalla legge”.

perché siano rispettati, nei propri mezzi di comunicazione sociale, i sentimenti dei cattolici e stipulerà i relativi accordi in materia con la Conferenza Episcopale Spagnola”. 13 La mole bibliografica è sterminata, si rinvia solo ad A. FERNÁNDEZ, MIRANDA, CAMPOAMOR, M. GARCÍA

SANZ, Artículo 20. Libertad de expresión y derecho de la informacion, in O. Alzaga Villaamil (a cura di), Comentarios a la Constitución Española de 1978, Madrid, 1997, pp. 505-554; M. REVENGA SÁNCHEZ, Trazando los límites de lo tolerable: Libertad de expresión y defensa del ethos democrático en la jurisprudencia constitucional española, in Cuadernos de Derecho Público, 21/2004, pp. 23-46. 14 Á. SÁNCHEZ NAVARRO, Libertad religiosa y libertad de expresión en España, in AA.VV., Tensiones entre libertad de expresión y libertad religiosa, cit., p. 194. 15 “Si riconoscono e tutelano i diritti: a) a esprimere e diffondere liberamente il pensiero, le idee e le opinioni per mezzo della parola, degli scritti o con qualunque altro mezzo di riproduzione; b) alla produzione e creazione letteraria, artistica, scientifica e tecnica; c) alla libertà di insegnamento; d) a comunicare o ricevere liberamente informazioni veritiere attraverso qualsiasi mezzo di diffusione. La legge regolerà il diritto alla clausola di coscienza e il segreto professionale nell’esercizio di tale libertà”. 16 “Queste libertà hanno i loro limiti nel rispetto dei diritti riconosciuti in questo titolo, nei precetti delle leggi che lo attuano, e specialmente nel diritto all’onore, all’intimità, alla propria immagine e alla protezione della gioventù e dell’infanzia”. Ampiamente su tali limiti: J. FERREIRO GALGUERA, Los límites de la libertad de expresión. La cuestión de los sentimientos religiosos, Madrid, 1996, pp. 45-191. 17 Ci si limita a rinviare a J.M. BENEYTO PÉREZ, Artículo 16. Libertad ideológica y religiosa, in AA.VV., Comentarios a la Constitución Española de 1978, cit., 303-338; R. PERALTA MARTÍNEZ, Libertad ideológica y libertad de expresión como garantías institucionales, in Anuario Iberoamericano de Justicia Constitucional, 16/2012, pp. 251-283. 18 “Nessuno potrà essere obbligato a dichiarare le proprie ideologie, religione o convinzioni” (secondo comma). “Nessuna confessione avrà carattere statale. I pubblici poteri terranno conto delle convinzioni religiose della società spagnola e manterranno le conseguenti relazioni di cooperazione con la Chiesa Cattolica e le altre confessioni” (terzo comma). 19 Inteso come ‘ordine pubblico costituzionale’, potendosi intendere il mero ordine pubblico come formula assai limitatrice della libertà individuale; in tal senso, convincentemente, F. Balaguer Callejón (coordinato da), Manual de derecho constitucional, II, Madrid, 2011, p. 127.

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Siamo, quindi, dinanzi a due libertà – di espressione20 da una parte e religiosa dall’altra – entrambe fondamentali e che rientrano nel nucleo essenziale della Costituzione per costituire, la prima, “uno dei fondamenti essenziali di una società democratica”21 e per garantire, la seconda, il diritto di esercitare e professare (o meno) liberamente una fede religiosa.

Attraverso la dimensione cosiddetta ‘interna’ della libertà religiosa, si garantisce la libertà piena di credere nella religione scelta, con la dimensione cosiddetta ‘esterna’, invece, si assicura che le proprie condotte possano essere adeguate agli imperativi discendenti dalle proprie convinzioni ed essere tutelate dalla legge22.

I “diritti fondamentali sanciti nell’art. 20 della Costituzione e anche, per la stessa ragione, le libertà garantite dall’art. 16, primo comma, eccedono dall’ambito personale per la propria dimensione istituzionale [, per il riconoscimento e per] la garanzia dell’opinione pubblica libera e […] del pluralismo politico propugnato dall’art. 1, primo comma della Costituzione come uno dei valori più elevati del nostro ordinamento giuridico”23.

Il bilanciamento tra diritti è operato, nella concretezza, attraverso la giurisprudenza del Tribunal Constitucional24 e, in maniera astratta e generale, dal legislatore attraverso la ley orgánica 10/1995, del 23 novembre (codice penale, definito anche come Código penal de la democracia per lo sforzo compiuto al fine di adeguarlo alla Costituzione ‘sopravvenuta’ e di “adattarlo ai nuovi valori costituzionali”25) e, più precisamente, attraverso la predisposizione di un Capo rubricato, per l’appunto, delitos relativos al ejercicio de los derechos y libertades públicas, nel quale si norma su quel particolare rapporto che intercorre tra libertà di espressione e sentimenti religiosi, che si è reputato di dover tutelare attraverso una specifica normativa penale.

Il codice penale spagnolo, fin dalla sua entrata in vigore, si è interessato alla tutela del fenomeno religioso in diverse sue disposizioni e – per quel che a noi maggiormente interessa – anche a seguito dell’approvazione della Carta costituzionale del 1978; l’ampia tutela alla libertà di espressione da questa assicurata ha determinato – seppur non con tempi celeri – l’adeguamento del codice penale, anche nella parte in cui si tipizza il delitto di escarnio e quindi l’art. 525 c.p.

Diverse sono state le modifiche apportate, ma la più importante e significativa è sicuramente quella dell’anno 1995, con la quale si revisionò in primis la rubrica del titolo

20 Che può altresì esercitarsi nelle forme del diritto di associazione e di riunione, per tale analisi e sempre con il riferimento alla tutela dei sentimenti religiosi, si rinvia a R. GARCÍA GARCÍA, La libertad de expresión ejercida desde los derechos de reunión y manifestación en colisión con la libertad religiosa, in Revista General de Derecho Canónico y Derecho Eclesiástico del Estado, 37/2015, pp. 13 ss. 21 Sentenza del Tribunal Constitucional (d’ora in poi STC) 62/1982, del 15 ottobre (Sala Primera, FJ 5). 22 Sulla teoria dell’accomodation, in dottrina si rinvia per tutti ad A. LOLLO, Dis-eguaglianze e pratiche religiose, in www.gruppodipisa.it; D. LOPRIENO, S. GAMBINO, L’obbligo di «accomodamento ragionevole» nel sistema multiculturale canadese, in G. Rolla (a cura di), L’apporto della Corte suprema alla determinazione di caratteri dell’ordinamento costituzionale canadese, Milano, 2008, pp. 217 ss. 23 STC 20/1990, del 15 febbraio (Sala Primera, FJ 4.c) 24 Á. SÁNCHEZ NAVARRO, Libertad religiosa y libertad de expresión en España, cit., p. 198. 25 Così come palesato fin dagli stessi Motivos che reggono la pubblicazione della legge.

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delle disposizioni che interessano la protezione della libertà religiosa. Se nel 1963 la rubrica era Delitos contra la libertad religiosa, la religión del Estado y las demás confesiones, con la ley orgánica 8/1983, del 25 giugno, la rubrica è modificata in Delitos contra la libertad de conciencia e in seguito, con la riforma del 1995, la Sezione 2 del Capitolo IV diventa De los delitos contra la libertad de conciencia, sentimientos religiosos y respeto a los defuntos. Fin dal Titolo si può notare che i beni giuridici protetti dalla norma penale sono la libertà di coscienza, i sentimenti religiosi e il rispetto dei defunti.

Con maggiore dettaglio, il codice penale spagnolo fa riferimento alla tutela dei sentimenti religiosi in ben due articoli: il 524 e il 525 c.p. Il primo tipizza il delitto di profanazione, punendo – con la reclusione per un periodo da sei mesi fino a un anno o con una multa pari all’importo da dodici a ventiquattro stipendi mensili – chi, “in una chiesa, in un luogo di culto o durante le cerimonie religiose, compia atti di profanazione, offendendo i sentimenti religiosi legalmente tutelati”26. Il secondo – che rappresenta quello che più di tutti inerisce la ‘zona grigia’ di cui ci si vuole occupare – prescrive che “sono puniti con una multa pari all’importo da otto a dieci stipendi mensili coloro che, per offendere i sentimenti dei membri di una confessione religiosa, compiano, pubblicamente, oralmente, per iscritto o mediante qualsiasi documento, escarnio ai loro dogmi, credenze, riti o cerimonie, o offendano, anche pubblicamente, chi li professa o pratica” (primo comma). Le stesse pene sono previste per coloro che “commetteranno pubblicamente escarnio, con la parola ovvero con la scrittura, verso chi non professa religione o credenza alcuna” (secondo comma)27.

La legge 5/1988, del 9 giugno, ha abrogato l’art. 239 del codice penale del 1963 che disponeva: “[c]hiunque compia atti di blasfemia in forma scritta o in pubblico o con parole o atti che hanno prodotto un grave scandalo pubblico, sarà punito con una pena di reclusione maggiore e con una ammenda da 30.000 a 50.000 pesetas”.

26 Cfr. infra nota 96. 27 Anche se la redazione del comma risulta quanto meno di problematica interpretazione, in quanto è paradossale pensare ad un individuo privo di qualsivoglia credenza; l’interpretazione sistematica del comma ci porta alla conclusione che il legislatore si riferisce solo ed esclusivamente alle credenze religiose e quindi alla tutela verso chi dovesse essere offeso per il fatto di non credere in alcuna religione. In tal senso almeno J.M. TAMARIT SUMALLA, Art. 525, in AA.VV., Comentarios a la Parte Especial del Derecho Penal, diretto da G. Quintero e coordinato da F. Morales Prats, Navarra, 2009, p. 2088. La modifica al c.p. posta in essere per superare la lesione del principio di eguaglianza, a ben vedere, non la supera del tutto visto che rimane la diversa tutela fra le persone che credono (o non credono) ad una religione e quelle che hanno altre credenze (ad esempio ideologiche) rispetto alla religione. Inoltre, pare davvero paradossale che qualcuno si possa sentire offeso per il fatto di non credere in nessuna religione, in dottrina J.L. SERRANO GONZÁLEZ DE

MURILLO, El delito de escarnio de creencias, in La Ley. Revista jurídica española de doctrina, jurisprudencia y bibliografía, Tomo 1996-V, p. 1382; F. SANTAMARÍA LAMBÁS, El proceso de secularización en la protección penal de la libertad de conciencia, cit., p. 365. Cfr. il noto caso Kokkinakis c. Grecia, del 25 maggio 1993, che è rilevate non solo per essere la prima decisione della Corte EDU in riferimento all’art. 9 CEDU, ma anche per il § 31 nel quale si legge che “[c]ome sancito dall’articolo 9, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione rappresenta uno dei fondamenti di una «società democratica» ai sensi della Convenzione. Si tratta, nella sua dimensione religiosa, di uno degli elementi essenziali dell’identità dei credenti e della loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici e gli indifferenti. C’è il pluralismo – preziosa conquista nel corso dei secoli – consustanziale con una tale società”.

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In un più ampio contesto di secolarizzazione28, con la modifica dell’art. 525 c.p. scompare il riferimento (ma solo formale) al reato di blasfemia, si elimina la distinzione, presente nel vecchio testo, tra escarnio e ultraje29 (oltraggio) e, con il precipuo fine di rispondere alle critiche sollevate dalla quasi unanimità della dottrina volte superare la diseguaglianza di protezione tra i credenti e i non credenti, si introduce un secondo comma che estende l’ambito meritevole di tutela penale anche all’escarnio contro persone non credenti.

Prima di rilevare che diverse e molteplici sono le difficoltà che la dottrina ha riscontrato nel qualificare il sentimento religioso come bene giuridico individuale meritevole di protezione penale30, pare opportuno definire il termine escarnio. Per il dizionario della Real Academia Española, l’escarnio è una Burla tenaz que se hace con el propósito de afrentar, che può essere tradotto nel seguente modo: presa in giro31 pungente che si fa con l’intenzione di offendere. La traduzione in lingua italiana del termine utilizzato nell’espressione ‘chi compie escarnio alle credenze’ può essere resa con ‘chi ridicolizza le credenze’.

L’escarnio, che può realizzarsi con qualunque forma espressiva (parola, scritto, gesta, …), deve prodursi con l’esteriorizzazione della condotta offensiva, in forma pubblica e senza che sia necessario che si giunga al risultato di offesa32. Il problema è comunque quello di rilevare dei criteri oggettivi atti a valutare il verificarsi dell’offesa, che sono difficili da individuare perché ciò che risulta offensivo per il singolo (che agisce in giudizio) dipende da diversi fattori anche legati al proprio stato d’animo, che è quanto meno difficile da oggettivizzare.

28 F. SANTAMARÍA LAMBÁS, El proceso de secularización en la protección penal de la libertad de conciencia, Valladolid, 2001, pp. 274 ss. 29 Considerate fattispecie legislativamente uguali, in tal senso F. SANTAMARÍA LAMBÁS, El proceso de secularización en la protección penal de la libertad de conciencia, cit., p. 371. 30 L. JERICÓ OJER CANDICORT, La relevancia penal de los sentimientos religiosos como límite a la libertad de expresión. Especial referencia al delito de escarnio (art. 525 c.p.), in M.D. Conlledo, J.A. García Amado, I.A. Junieles Acosta (a cura di), Libertad de expresión y sentimientos religiosos, Lisboa, 2012, pp. 117 s.; J.L. SERRANO GONZÁLEZ DE

MURILLO, El delito de escarnio de creencias, cit., 1382; A. FERNÁNDEZ, CORONADO GONZÁLEZ, El contenido de la tutela de la libertad de conciencia en el Código Penal de 1995, in Revista del Poder judicial, 52/1998, p. 174; I. MINTEGUÍA ARREGUI, Sentimientos religiosos, moral pública y libertad artística en la Constitución española de 1978, Madrid, 2006, p. 286; J.M. TAMARIT SUMALLA, Art. 525, cit., p. 2087. Quindi non si è dinanzi al sentimento religioso come bene giuridico collettivo. Le obiezioni a tale tesi sono numerose: non esiste una posizione comune nell’intera collettività sulla rilevanza e sulla posizione occupata dall’uomo nel mondo; l’esistenza di un sentimento religioso comune significherebbe tutelare solo i sentimenti maggioritari e non anche quelli minoritari; la nozione di sentimento religioso è estremamente vaga ed indeterminata. Si v. per tutti L. JERICÓ

OJER CANDICORT, La relevancia penal de los sentimientos religiosos como límite a la libertad de expresión, cit., pp. 115-118. Si v. anche Á. SÁNCHEZ NAVARRO, Libertad religiosa y libertad de expresión en España, cit., p. 200. 31 Si utilizza anche il termine befa che ha una accezione maggiormente negativa perché rappresenta una “rilevante ed insultante espressione di disprezzo”, in riferimento si v. F. SANTAMARÍA LAMBÁS, El proceso de secularización en la protección penal de la libertad de conciencia, cit., p. 371. 32 L. JERICÓ OJER CANDICORT, La relevancia penal de los sentimientos religiosos como límite a la libertad de expresión, cit., p. 130.

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La condotta del soggetto che fa pubblico escarnio deve tendere (con dolo)33 all’offesa (elemento soggettivo), al di là del fatto che si giunga o meno al risultato voluto. Da ciò deriva che quando la condotta del soggetto non è animata dall’intenzione di offendere (potrebbe essere il caso della critica storica, politica o di difesa di posizioni scientifiche), al di là del fatto che un soggetto terzo possa ritenersi offeso, non si è dinanzi a condotta illecita, ma piuttosto al libero esercizio della libertà d’espressione. Quindi – e a contrario – non si esercita legittima libertà di espressione quando si manifesta il proprio pensiero34 in tema di religione con animo volutamente offensivo, poiché tale comportamento determina una condotta illecita. Per quanto riguarda, invece, il soggetto (protetto) passivo, esso deve essere un membro di una confessione religiosa (contro la quale si è prodotto escarnio); in ogni caso, la norma penale non fa ricadere su nessuno in particolare (giudice o querelante) l’onere della prova di appartenenza di un fedele ad una determinata religione.

Per come tra poco si avrà modo di precisare, attraverso una rapida ricognizione della giurisprudenza ordinaria e di legittimità spagnola – e rinviando al paragrafo quarto la trattazione dell’ultimo (o almeno più noto) caso di processo penale avente ad oggetto il reato di escarnio celebratosi in Spagna – si può affermare fin da ora che essa abbia riconosciuto l’anacronismo di tale reato rilevandone di fatto l’‘inutilizzabilità’ stanti le più che considerevoli difficoltà nel sindacare come offensiva la condotta del soggetto accusato di avere offeso.

Molteplici sono i pronunciamenti assolutori35 decisi per la mancanza della prova di offesa, od anche per la difficoltà di determinare quale animus abbia concretamente prevalso in un determinato esercizio della libertà di espressione, che può sempre estrinsecarsi, contemporaneamente, attraverso una ‘pluralità’ di animi (jocandi, iniurandi, …).

Non vi è stata condanna, allora, per chi si era fatto fotografare in Israele con una corona di spine, perché tale ‘ornamento’ non era stato indossato con animo offensivo36; per chi aveva mandato in onda degli spezzoni di un video-tape nel quale era raffigurata una croce che mancava della parte superiore e sulla quale era crocifisso un corpo umano con la testa di animale, perché lo scopo del programma era quello di raccontare le nuove

33 I. MINTEGUÍA ARREGUI, El arte ante el debido respeto a los sentimientos religiosos, in Revista General de Derecho Canónico y Eclesiástico, 11/2006, p. 40. 34 La problematica si sposta quindi sulla prova (e, come si è detto, sulla difficoltà della configurazione della stessa) nel processo penale. 35 Un’ampia illustrazione in L. JERICÓ OJER CANDICORT, La relevancia penal de los sentimientos religiosos como límite a la libertad de expresión, cit., pp. 136-138, note da 115 a 120, e I. MINTEGUÍA ARREGUI, Religión, moral y expresión artística, in AA.VV., Libertad de expresión y sentimientos religiosos, cit., pp. 93-98; ID., El arte ante el debido respeto a los sentimientos religiosos, cit., 46 ss. dai quali sono prese alcune delle sentenze nelle prossime note riportate. Cfr., altresì, infra nota 96. 36 Denuncia presentata da un gruppo di giuristi contro alcuni politici catalani. Cfr. ATS 10 ottobre 2005.

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‘mode’ musicali37; per chi aveva prodotto critica contro il perbenismo38, i dogmi39 o ancora per chi, più semplicemente, era solo stato mosso dall’intenzione di suscitare ilarità40 e fare parodia delle figura del Papa41.

Pur rilevando la difficoltà a provare l’intenzione dell’animus iniurandi, è comunque utile interrogarsi sul bene che il legislatore intende tutelare, che è il sentimento religioso42. Il problema di considerare il sentimento religioso come bene giuridico – palesato dalla difficoltà che la giustizia ordinaria ha nel tutelarlo – deriva dal fatto che “la vaghezza e l’indeterminatezza che pertiene il concetto di sentimento […] e la dipendenza assoluta da considerazioni soggettive impediscono che esso rappresenti una condizione indispensabile per lo sviluppo dell’individuo nella società”43, la sola che può definire un bene come giuridico e quindi meritevole di protezione penale. Il problema nella tipizzazione di una tutela specifica e separata dei delitti contro l’offesa dei sentimenti religiosi è palesato, quindi, oltre che dalla circostanza (guardando 37 Un programma televisivo ha trasmesso uno speciale su alcune tendenze di avanguardia culturale e artistiche della metà degli anni ’80. Cfr. STS 668/93 del 25 marzo. 38 Un privato aveva postato su una pagina web un articolo in cui appariva l’immagine della Vergine Maria vicino ai genitali di un uomo con la frase: “ti avrebbe disturbato meno se avessi messo Monalisa con una gallina al suo lato anziché la statua della Madonna?”. La SAP Sevilla, n. 553/04 del 7 giugno, ha riconosciuto che l’autore dell’immagine e della scritta non voleva offendere alcuno, ma solo avanzare una critica verso la mancanza di logica di quei credenti che si sentono offesi solo dalla raffigurazione della Madonna vicino ad un sesso maschile e non anche dalla medesima raffigurazione in cui al posto della Vergine sia rappresentata una qualsiasi donna (che nel caso concreto è raffigurata con il volto della Monalisa): “questo modo di procedere per avanzare questa critica ci pare tanto grossolano quanto semplicistico e carente di qualunque virtù intellettuale apprezzabile, però né la fotografia né il testo interessano direttamente o indirettamente alcun dogma, credenza, rito o cerimonia della religione cattolica, ma utilizzano solo un’immagine conosciuta per scandalizzare e provocare una polemica che difficilmente sarebbe scaturita dall’uso di una immagine non religiosa o di scarsa devozione da parte della cittadinanza” (FJ 2). 39 È stato assolto un uomo che portava con sé un manifesto con la raffigurazione di Gesù e della Vergine Maria recante la scritta “Adultera con il suo bastardo”: AP Valladolid, n. 367/05 del 21 ottobre. Stessi dispositivi giudiziali hanno risolto i casi nati a seguito di una manifestazione in cui veniva mostrato in senso “satirico, critico e provocatorio” un cartello con delle immagini della Vergine durante una manifestazione dell’‘orgoglio gay’ (Juzgado de Instrucción 18 de Valencia, ordinanza del 30 giugno 2016), di una rappresentazione artistica in cui si recitava la ‘Madrenostra’ – ‘traduzione’ femminista del ‘Padrenostro’ da parte di una nota attrice – (sección décima de lo penal de la Audiencia de Barcelona, ordinanza del 20 febbraio 2017), e di una sfilata durante il carnevale svoltosi nella località di Las Palmas durante il quale una drag queen recitava “critiche acide” mentre indossava le vesti della Vergine e del Cristo crocifisso (il pubblico ministero ha disposto l’archiviazione del procedimento, 13 marzo 2017). 40 Durante una sfilata di carri, gli animatori di uno di questi, vestiti da papa e da cardinali, simulavano gesta erotiche. 41 Cfr. SAP Valladolid, n. 251/11 del 9 giugno. 42 F. MUÑOZ CONDE, Derecho penal, Valencia, 1990, 445. E non già, ad esempio, la dignità umana, che troverebbe nell’esercizio della libertà religiosa una delle sue plurime estrinsecazioni, in tal senso J. FERREIRO

GALGUERA, Libertad de expresión y sensibilidad religiosa: estudio legislativo y jurisprudencial, in Revista General de Derecho Canónico y Derecho Eclesiástico del Estado, 35/2014, p. 42; J.A. SOUTO PAZ, Comunidad política y libertades de creencias. Introducción a las Libertades Públicas en el Derecho Comparado, 3ª ed, Madrid-Barcellona-Buenos Aires, 2007, p. 361; F. SANTAMARÍA LAMBÁS, El proceso de secularización en la protección penal de la libertad de conciencia, cit., pp. 352 s. La dignità è invece – almeno per noi – protetta nell’onore. 43 L. JERICÓ OJER CANDICORT, La relevancia penal de los sentimientos religiosos como límite a la libertad de expresión, cit., p. 141.

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l’effettività della tutela specifica) di ridurne la previsione ad un effetto meramente illusorio, anche dall’assenza (giuridica) del fondamento della scelta legislativa di proteggere penalmente il sentimento religioso. E ciò non solo perché difficilmente la protezione del sentimento religioso può qualificarsi – per come detto – in un bene giuridico, ma anche perché le condotte incriminatrici ben possono già rientrare nei delitti che proteggono l’onore44. Ed infatti, la tutela del proprio onore nella previsione del delitto di ingiuria costituisce un bene giuridico da tutelare in quanto diritto costituzionale, il cui rispetto costituisce una condizione indispensabile per lo sviluppo dell’individuo in una società. Non si vuole sostenere che non sono da incriminare quelle condotte particolarmente gravi che con animo ingiurioso hanno l’intenzione di offendere, ma che non è richiesto farlo attraverso una norma penale ad hoc. Ciò anche perché, a ben vedere, l’art. 525 c.p. tutela il sentimento religioso (inteso come proiezione verso un essere superiore) e non già la libertà religiosa (che si può porre in bilanciamento con quelle d’espressione) in cui tale sentimento può essere fatto rientrare con una certa ed elevata dose di ‘elasticità’45.

Quindi, a giudizio di chi scrive, oltre al fatto che il bene protetto dalla norma penale non è tanto la libertà religiosa quanto piuttosto il sentimento religioso – così come appare chiaro già dalla rubrica –, rimane comunque difficile pensare alla previsione del delitto di escarnio come ad una protezione della libertà religiosa, in quanto questa non viene limitata né in astratto né in concreto (come suo libero esercizio) nel caso in cui dogmi, credenze, riti o cerimonie religiose siano oggetto di ironia e derisione, seppur in modo veemente (e in qualunque parte del mondo).

A questo punto, o la ‘presa in giro’ configura il reato di ‘discorso all’odio’ rientrando in questa determinata fattispecie penale posta a garanzia della sicurezza, dell’ordine pubblico46 e più in generale del principio di non discriminazione, o configura una offesa diretta ad un soggetto pregiudicandone la rispettabilità e richiedendo protezione e tutela dell’onore. Ed inoltre, mentre nel ‘classico’ delitto di ingiuria il bene giuridico protetto è la persona in quanto tale, che chiede tutela per il libero sviluppo nelle relazioni sociali, è difficilmente ipotizzabile che una condotta di escarnio, nella misura in cui essa si dirige verso i dogmi, le cerimonie religiose, le credenze od anche i

44 Ed infatti, l’A. che si cita, benché giunga a conclusioni diametralmente opposte alle nostre, radica il fondamento costituzionale della protezione penale dei sentimenti religiosi nell’art. 18 CE, che riconosce e tutela, appunto, il diritto fondamentale all’onore, all’intimità personale e alla propria immagine. Si v., quindi, I. MINTEGUÍA ARREGUI, El arte ante el debido respeto a los sentimientos religiosos, cit., pp. 22 ss. 45 Che la libertà religiosa includa la protezione dei sentimenti religiosi dei credenti crea più di un dubbio a R. PALOMINO, Libertad de expresión y libertad religiosa, cit., p. 53. Nessun dubbio a tal proposito è espresso da A. GARAY, Libertad de religión y libertad de expresión ante el Consejo de Europa, in AA.VV., Tensiones entre libertad de expresión y libertad religiosa, cit., p. 72; A. CARRETERO SÁNCHEZ, Teoría y práctica de los delitos contra los sentimientos religiosos y el respeto a los difuntos: el peso de una negativa influencia histórica, in La Ley. Revista jurídica española de doctrina, jurisprudencia y bibliografía, 1/2007, p. 5. La tutela del sentimento religioso tuttalpiù può costituire uno degli elementi “periferici” della libertà religiosa, in tal senso E.M. RUBIO

FERNANDEZ, Expresión frente a religión: un binomio necesitado de nuevas vías de entendimiento y de superación de sus interferencias, in Anales de derecho, 24/2006, p. 229, con chiare conseguenze nell’opera di bilanciamento. 46 L’ordine pubblico od ancora la pace sociale possono a loro volta costituire delle formule che non tutelano le minoranze che (in quanto tali) non riescono a perturbare la pace pubblica.

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riti, pur potendo ledere “i sentimenti religiosi dei membri di una determinata confessione, difficilmente [può pregiudicarne la] possibilità di intervento nella vita sociale”47.

Se questa è la normativa penale spagnola – il cui fondamento, per come si vedrà più avanti nel caso Krahe, si fa risalire all’art. 16 della Costituzione spagnola48 –, si nutre più di un dubbio sul fatto che la protezione dei sentimenti religiosi trovi il proprio fondamento nella libertà religiosa, e che pertanto si sia dinanzi al ‘diritto’ a non sentirsi offeso nei propri sentimenti religiosi a causa della derisione della propria fede. Se il dubbio è fondato ciò significa che non si è dinanzi ad alcun bilanciamento fra la libertà di espressione e la libertà religiosa49. Ci si potrebbe domandare, inoltre, perché mai tutelare la sola offesa al sentimento religioso50 e non anche quella rivolta al sentimento politico-ideologico o anche (il che per qualcuno è molto più grave) alla fede calcistica51.

La norma penale che tipizza l’escarnio, e nella quale il reato di blasfemia implicitamente rientra, dovrebbe quindi essere derubricata52, essendo meritevole di

47 Nella misura in cui ciò costituisce il bene giuridico da tutelare con la norma penale, in tal senso L. JERICÓ

OJER CANDICORT, La relevancia penal de los sentimientos religiosos como límite a la libertad de expresión, cit., p. 148. 48 Nello stesso senso, M. POLAINO NAVARRETTE, Delitos contra derechos individuales garantizados constitucionalmente, in AA.VV., Lecciones de derecho penal. Parte Especial, II, diretto da Id., Madrid, 2010, p. 510. Oltre che implicitamente nell’art. 16 (“in quanto una delle funzioni della libertà religiosa è servire da veicolo ai sentimenti religiosi; libertà religiosa come strumento necesario affinché i sentimenti religiosi possano uscire dall’ambito dell’intimità, possano cioè esteriorizzarsi”) anche nell’art. 10.1 CE (tutela della dignità umana come “fondamento dell’ordine pubblico e della pace sociale”, in quanto “quando una persona decide di professare alcuni sentimenti religiosi, o alcune credenze – esteriorizzandole o meno, realizzando o meno atti di culto –, esercita una opzione sul libero sviluppo della propria personalità)” per J. FERREIRO GALGUERA, Supuestos de colisión entre las libertades de expresión e informacion y otros derechos fundamentales. La creación artística y el respeto a los sentimientos religiosos, in Anuario da Facultade de Dereito da Universidade da Coruña, 3/1999, p. 215. Per l’A. la tutela contro l’offesa rivolta verso i sentimenti religiosi è un bene giuridico che gode di propria autonomia e, quindi, costituisce una fattispecie, che differisce da quella che tutela dall’ingiuria e dalla calunnia, cfr. J. FERREIRO GALGUERA, Los límites de la libertad de expresión, cit., p. 205. 49 Contra, nel considerare appropriato il solo riferimento al discorso d’odio e non anche alla blasfemia, in quanto “il discorso d’odio ben può avere la propria origine prossima in ciò che iniziò solo come burla o satira”, R. PALOMINO, Libertad de expresión y libertad religiosa, cit., p. 67. 50 Per alcuni, ad esempio e addirittura, non tutelata dalla messa in onda di un noto film del 2006: Il Codice da Vinci! 51 Provocazione già avanzata da M.P. GARCÍA RUBIO, Arte, religión y Derechos Fundamentales. La libertad de expresión artística ante la religión y los sentimientos religiosos (algunos apuntes al hilo del caso Javier Krahe), in Anuario de derecho civil, 67/2014, 437, nota 111. Meno provocatorio è J.L. SERRANO GONZÁLEZ DE MURILLO, El delito de escarnio de creencias, cit., 1381, per il quale sarebbe leso il principio di uguaglianza per la mancata tutela “delle altre credenze o visioni del mondo di ordine diverso da quello religioso”. 52 La norma penale non protegge “un bene imprescindibile per la convivenza ordinata dei cittadini (e i meri sentimenti non lo sono), né un bene senza la cui tutela non si può partecipare alla vita sociale”, così J.L. SERRANO GONZÁLEZ DE MURILLO, El delito de escarnio de creencias, cit., p. 1384, che afferma anche che in tal modo “si vìola il principio di intervento minimo del diritto penale. Ricorrere qui al Diritto penale (ma lo stesso mi pare che possa valere per quello civile) non solo non è necessario, ma sproporzionato”; nello stesso senso, L. JERICÓ OJER CANDICORT, La relevancia penal de los sentimientos religiosos como límite a la libertad de expresión, cit., p. 145. Fra la dottrina italiana cfr., almeno, N. COLAIANNI, Diritto di satira e libertà religiosa, in AA.VV., La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà religiosa nelle società multiculturali, cit., pp. 44 ss. Pare più che altro di essere dinanzi a quelle formule che richiamano la morale pubblica – (I. MINTEGUÍA ARREGUI,

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tutela penale non tanto il sentimento religioso, quanto piuttosto l’onore, che, appunto, costituisce un bene giuridico meritevole di tutela, in quanto fondamentale ai fini dello sviluppo dell’individuo nella società53 e la cui lesione è qualcosa di ben diverso54 da un mero danno emozionale.

Diverso è il caso in cui l’esercizio della manifestazione del pensiero ha il fine di incitare all’odio; la normativa penale da prendere in considerazione non sarà l’art. 525 c.p., ma l’art. 510, primo comma c.p., nella misura in cui quest’ultimo punisce “chiunque istighi alla discriminazione, all’odio o alla violenza verso gruppi o associazioni, per motivi razzisti, antisemiti o altri riferiti alla ideologia, alla religione o alle credenze [e che] è punito con la reclusione per un periodo da uno a quattro anni e con una multa per un importo da sei a dodici retribuzioni mensili”55.

Religión, moral y expresión artística, cit., p. 98) anche se questa non trova solidi riferimenti costituzionali visto che il Tribunal Constitucional l’ha richiamata una sola volta in una decisione ormai datata (si v. la STC 62/1982 e in dottrina M. BARCELÓ I SERRAMALERA, La libertades de expresión, in AA.VV., Derecho constitucional y cultura. Estudios en homenaje a Peter Häberle, coordinato da F. Balaguer Callejón, Madrid, 2004, p. 592) – e il buon costume che le Corti costituzionali nella loro giurisprudenza, alla luce di uno sviluppo sociale, dei costumi e della secolarizzazione della società hanno re-interpretato nei sistemi costituzionali più maturi; si pensi ad esempio, alla giurisprudenza costituzionale italiana sui limiti all’art. 21 Cost. proprio sulla libertà di manifestazione del pensiero. Cfr., altresì, R. GARCÍA GARCÍA, La libertad de expresión, cit., p. 45. 53 L. JERICÓ OJER CANDICORT, La relevancia penal de los sentimientos religiosos como límite a la libertad de expresión, cit., p. 147. 54 Quindi la norma penale incriminatrice dell’escarnio non è ridondante rispetto ad altre fattispecie di reato penale, perché la mera offesa ai sentimenti religiosi di per sé non è inglobata nel delitto contro l’onore, ma la tutela dell’onore può riguardare – in ipotesi, se ricorre la fattispecie concreta – anche i sentimenti religiosi. 55 Cfr. anche la sentencia del Juzgado n. 3 de Barcelona de 12 enero de 2004. L’art. 510 c.p. ha conosciuto una recente riforma (Ley Orgánica 1/2015, de 30 de marzo, por la que se modifica la Ley Orgánica 10/1995, de 23 de noviembre, del Código Penal) che ha ampliato le manifestazioni delittive ed ha aggravato la sanzione della reclusione prima prevista oltre la pena di reclusione che prima era da uno a tre anni; per un commento cfr. E. SOUTO GALVÁN, Discurso del odio: género y libertad religiosa, in Revista General de Derecho Penal, 23/2015, pp. 1-41. “1. Serán castigados con una pena de prisión de uno a cuatro años y multa de seis a doce meses: a) Quienes públicamente fomenten, promuevan o inciten directa o indirectamente al odio, hostilidad, discriminación o violencia contra un grupo, una parte del mismo o contra una persona determinada por razón de su pertenencia a aquél, por motivos racistas, antisemitas u otros referentes a la ideología, religión o creencias, situación familiar, la pertenencia de sus miembros a una etnia, raza o nación, su origen nacional, su sexo, orientación o identidad sexual, por razones de género, enfermedad o discapacidad. b) Quienes produzcan, elaboren, posean con la finalidad de distribuir, faciliten a terceras personas el acceso, distribuyan, difundan o vendan escritos o cualquier otra clase de material o soportes que por su contenido sean idóneos para fomentar, promover, o incitar directa o indirectamente al odio, hostilidad, discriminación o violencia contra un grupo, una parte del mismo, o contra una persona determinada por razón de su pertenencia a aquél, por motivos racistas, antisemitas u otros referentes a la ideología, religión o creencias, situación familiar, la pertenencia de sus miembros a una etnia, raza o nación, su origen nacional, su sexo, orientación o identidad sexual, por razones de género, enfermedad o discapacidad. c) Públicamente nieguen, trivialicen gravemente o enaltezcan los delitos de genocidio, de lesa humanidad o contra las personas y bienes protegidos en caso de conflicto armado, o enaltezcan a sus autores, cuando se hubieran cometido contra un grupo o una parte del mismo, o contra una persona determinada por razón de su pertenencia al mismo, por motivos racistas, antisemitas u otros referentes a la ideología, religión o creencias, la situación familiar o la pertenencia de sus miembros a una etnia, raza o nación, su origen nacional, su sexo, orientación o identidad sexual, por razones de género, enfermedad o discapacidad, cuando de este modo se promueva o favorezca un clima de violencia, hostilidad, odio o discriminación contra los mismos. 2. Serán castigados con la pena de prisión de seis meses a dos años y multa de seis a doce meses: a) Quienes lesionen la dignidad de las personas mediante acciones que entrañen humillación, menosprecio o descrédito de alguno de los grupos a que se refiere

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3. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo su libertà di espressione e rispetto dei sentimenti religiosi.

Per meglio inquadrare il panorama nel quale la norma oggetto della nostra

attenzione si incardina è più che opportuno delineare – seppur brevemente, ma non per questo acriticamente – il percorso giurisprudenziale finora compiuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo allorquando è stata chiamata a sindacare il livello di restrizione a cui era costretta la libertà (convenzionale) d’espressione da parte di alcune normative nazionali e domandarci se la previsione del delitto di escarnio sia conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Diverse e molteplici – anche se espressione di una giurisprudenza non del tutto lineare – sono le decisioni della CEDU56, che iniziò ad interessarsi al conflitto tra libertà di espressione e tutela del sentimento religioso nella prima metà degli anni Novanta. Più in particolare, la Corte è stata chiamata ad interrogarsi sui limiti alla libertà di espressione in relazione alla materia religiosa e quindi sulla tutela in difesa dei sentimenti religiosi delle persone che ‘appartengono’ ad una determinata fede: la Corte è stata sempre chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità alla CEDU di misure che – a dire del ricorrente – limitavano la propria libertà di espressione.

Come si vedrà da qui a poco, l’argomentazione giuridica ruota intorno alla portata del limite della libertà di espressione, così come positivizzato dall’art. 10 della Convenzione57, e quindi alla previsione per cui tale libertà può essere sottoposta a

el apartado anterior, o de una parte de los mismos, o de cualquier persona determinada por razón de su pertenencia a ellos por motivos racistas, antisemitas u otros referentes a la ideología, religión o creencias, situación familiar, la pertenencia de sus miembros a una etnia, raza o nación, su origen nacional, su sexo, orientación o identidad sexual, por razones de género, enfermedad o discapacidad, o produzcan, elaboren, posean con la finalidad de distribuir, faciliten a terceras personas el acceso, distribuyan, difundan o vendan escritos o cualquier otra clase de material o soportes que por su contenido sean idóneos para lesionar la dignidad de las personas por representar una grave humillación, menosprecio o descrédito de alguno de los grupos mencionados, de una parte de ellos, o de cualquier persona determinada por razón de su pertenencia a los mismos. b) Quienes enaltezcan o justifiquen por cualquier medio de expresión pública o de difusión los delitos que hubieran sido cometidos contra un grupo, una parte del mismo, o contra una persona determinada por razón de su pertenencia a aquél por motivos racistas, antisemitas u otros referentes a la ideología, religión o creencias, situación familiar, la pertenencia de sus miembros a una etnia, raza o nación, su origen nacional, su sexo, orientación o identidad sexual, por razones de género, enfermedad o discapacidad, o a quienes hayan participado en su ejecución”. 56 Ampiamente su tale giurisprudenza si v. M. OROFINO, La tutela del sentimento religioso altrui come limite alla libertà di espressione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rivista Aic, 2/2016. Cfr., anche, J. FERREIRO GALGUERA, Los límites a la libertad de expresión, cit., pp. 702-745; R. DIJOUX, La liberté d’expression face aux sentiments religieux, in Les Cahiers de droit, 53/2012, pp. 861-876; J. MARTÍNEZ-TORRÓN, Libertad de expresión y libertad de religión. Comentarios en torno a algunas recientes sentencias del Tribunal Europeo de Derechos Humanos, in Revista General de Derecho Canónico y Derecho Eclesiástico del Estado, 11/2006, pp. 1-19; M. CANDELA SORIANO, La liberté d’expression face à la morale et à la religión: analyse de la jurisprudence de la Cour Européenne des Droits de l’Homme, in Revue trimestrille des droits de l’homme, 68/2006, pp. 828-837. 57 Un commento all’articolo è in R. BUSTOS GISBERT, Los derechos de libre comunicación en una sociedad democrática, in J. García Roca, P. Santolaya (a cura di), La Europa de los Derechos. El Convenio Europeo de

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restrizioni, ritenute “necessarie in una società democratica”, per la protezione dei “diritti degli altri”.

Nell’analisi della giurisprudenza che si andrà ad esaminare, quindi, ci si deve domandare quale sia – secondo la Corte europea – il contenuto dei diritti degli altri e, quindi, quali siano i diritti che abbisognano di una protezione e che si ergono a limite della libertà di espressione ed ancora quale sia – e se rientri in bilanciamento con la libertà di espressione – la portata dell’art. 9 della Convenzione che protegge la libertà di religione58.

Il leading-case59 del filone giurisprudenziale di cui si tratteggeranno le fila è sicuramente costituito dalla decisione Otto-Preminger-Institut c. Austria del 24 dicembre 1994, che ha ad oggetto le offese verso sentimenti religiosi che sarebbero state procurate dalla eventuale proiezione di un film in luogo aperto al pubblico. Si è declinato il verbo al modo ipotetico perché la causa trae origine proprio dal divieto imposto ad una associazione (Istituto Otto Preminger) di proiettare presso la sua sede, nella città di Innsbruck, – previa pubblicizzazione dell’evento e, in conformità alla legislazione in materia, con divieto della visione ai minori di diciassette anni – il film Das Liebeskonzil (Il Concilio d’Amore) del regista Wemer Schroeter60.

Derechos Humanos, Madrid, 3a ed., 2014, pp. 473-509; M. REVENGA SÁNCHEZ, Algunos apuntes sobre la doctrina del Tribunal Europeo de Derechos Humanos en materia de libertad de expresión, in AA.VV., Tendencias Jurisprudenciales de la Corte Interamericana y el Tribunal Europeo de Derechos Humanos, Valencia, 2008, pp. 203-223; O. OETHEIMER, Art. 10, in S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, Milano, 2012, pp. 397-420. 58 Un ampio commento in A. TORRES GUTIÉRREZ, La libertad de pensamiento, conciencia y religión (art. 9 CEDH), in AA.VV., La Europa de los Derechos; A. GUAZZAROTTI, Art. 9, in AA.VV., Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, cit., pp. 370-397. Sui limiti alla libertà di religione cfr. J. MARTÍNEZ-TORRÓN, Los límites a la libertad de religión y de creencia en el Convenio Europeo de Derechos Humanos, in Revista General de Derecho Canónico y Derecho Eclesiástico del Estado, 2/2003, pp. 1-46. 59 Il primo caso in materia di blasfemia è – a dir il vero – quello che ha avuto ad oggetto un ricorso presentato da un cittadino britannico di fede musulmana che, sentendosi offeso dal noto scritto di Salam Rushdie I versi satanici, lamentava la mancanza nell’ordinamento britannico di una legge che gli consentisse di denunciare l’Autore dato che all’epoca, pur esistendo il reato di blasfemia, esso riguardava solo le offese al cristianesimo. Si v., quindi, la Decisione della Commissione europea dei diritti dell’uomo del 5 marzo 1991 Choudhury c. Regno Unito. In dottrina M. GATTI, Libertà di espressione e sentimento religioso, in P. Manzini, A. Lollini (a cura di), Diritti fondamentali in Europa. Un casebook, Bologna, 2015, 45. La Commissione decise per l’inammissibilità della domanda, perché l’articolo 9 della Cedu non garantisce un diritto ad agire in giudizio contro coloro che offendono la sensibilità religiosa di un individuo; per la Commissione, infatti, non esiste legame alcuno tra la libertà di religione e l’offesa ai sentimenti religiosi. Per come si vedrà, l’intero filone giurisprudenziale che si sta per trattare nel testo abbandona questa tesi e ne abbraccia un’altra ad essa diametralmente opposta. 60 La trama si basa sull’opera satirica di Oscar Panizza pubblicata nel 1894 che comportò all’autore la condanna di blasfemia. La proiezione si basa sull’assunto per cui la sifilide è il castigo di Dio per la fornicazione degli uomini e per le perversioni praticate durante il periodo rinascimentale. Il film si apre con la rappresentazione di Dio come un anziano prono dinanzi al diavolo, mentre Gesù è raffigurato come un ritardato mentale che bacia i seni della vergine Maria. Si rinvia all’ampio lavoro di M.P. GARCÍA RUBIO, Arte, religión y Derechos Fundamentales, cit., p. 420. Per la dottrina italiana si rinvia a D. LOPRIENO, La libertà religiosa, Milano, 2009, pp. 253 ss. e bibliografia ivi citata.

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La diocesi della Chiesa Cattolico-Romana della città austriaca avvia un procedimento penale per “disprezzo delle dottrine religiose” ex art. 188 c.p., lamentando che la libertà artistica del regista deve incontrare un limite dinanzi al diritto degli altri alla libertà religiosa e al dovere dello Stato di salvaguardare una società basata sull’ordine e sulla tolleranza. Si vieta così la proiezione del film.

La questione (deferita dalla Commissione europea) giunge fino alla Corte europea lamentandosi la violazione degli artt. 961 e 1062 CEDU. La Corte europea considera che il modo con il quale si decide di tutelare le dottrine religiose rientra tra i compiti (e nella responsabilità) dello Stato, che deve garantire il diritto riconosciuto dall’art. 9 CEDU, vale a dire garantire la libertà di religione.

La CorteEDU, se da una parte riconosce che il diritto alla libertà di espressione deve essere tutelato anche quando si manifesta con sentimenti di offesa o disturbo nei confronti dello Stato o di un settore della popolazione, dall’altra rileva il dovere di evitare espressioni che siano “gratuitamente offensive” per gli altri. Tale gratuità è dovuta al fatto – sempre a dire della Corte europea – che dal (tentato) esercizio della libertà di espressione (da cui è scaturito il giudizio) non si è contribuito al formarsi di un dibattito capace di “fare progredire l’umanità” (§ 49).

Nel caso concreto, la CorteEDU assume il conflitto tra libertà di espressione e libertà di religione e, riconosciuto il margine d’apprezzamento sull’estensione dell’interferenza che la manifestazione del pensiero può ricevere al fine di garantire la tutela dei sentimenti religiosi, accerta che il governo austriaco non ha oltrepassato tale margine nel determinare le misure adottate per limitare la libertà di espressione: il ritiro del film è, quindi, ritenuto legittimo63.

Le critiche all’impostazione portata avanti dalla Corte sono numerose e alcune di esse, che provengono dalle opinioni dissenzienti allegate alla sentenza medesima, sono

61 Libertà di pensiero, di coscienza e di religione: “[o]gni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti [c. 1]. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui [c. 2]”. 62 Libertà di espressione: “[o]gni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive [c. 1]. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario [c. 2]”. 63 In dottrina almeno J. MARTÍNEZ-TORRÓN, ¿La libertad de expresión amordazada? Libertad de expresión y libertad de religión en la jurisprudencia de Estrasburgo, in J. Martínez Torrón, S. Cañamares Arribas (a cura di), Tensiones entre libertad de expresión y libertad religiosa, Valencia, 2014, pp. 88-93.

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– per come si è già sottolineato con riguardo al (presunto) fondamento del reato di escarnio – assolutamente convincenti.

Per i giudici dissenzienti Palmet, Pekkanen e Makarczyk, l’art. 9 della Convenzione consacra la libertà religiosa, ma non anche il diritto alla protezione dei sentimenti religiosi, non potendosi far rientrare tale affermato diritto nella libertà suddetta e non potendolo elevare, quindi, in bilanciamento con l’art. 10 CEDU. D’altra parte, secondo tale articolo, non è legittimo proteggere i sentimenti religiosi di alcuni membri della società con la limitazione totale della libertà di espressione di altri, tenendo conto che – ritornando con più attenzione al caso concreto – è possibile perseguire il medesimo fine con mezzi meno restrittivi di quelli che la limitano in modo assoluto. In effetti, i mezzi predisposti dall’associazione (luogo chiuso, divieto di visione a minori di diciassette anni, pagamento di un biglietto di entrata, …) assicuravano una sufficiente protezione dei sentimenti religiosi degli altri, risultando per ciò sproporzionati, e quindi ingiustificati, al fine legittimo perseguito, la decisione del ritiro e del sequestro del film.

La dottrina maggioritaria64, seppur non in modo unanime65, ha sottolineato come la pronuncia legittimerebbe l’interferenza dello Stato nel giudicare ciò che è servente il progresso dell’umanità (e a contrario ciò che non lo è), fino a giungere a negare in radice il diritto di tutti i cittadini a partecipare in modo eguale a tale progresso, e determinerebbe anche la conseguenza di non tutelare le posizioni minoritarie, se giudicati non idonei a far progredire l’umanità.

La sentenza, al di là del caso concreto e al di là del fatto di non avere rilevato la peculiarità dell’espressione artistica66 oggetto del caso de quo, pare avere equivocato il bilanciamento (inesistente) tra diritti di pari ‘livello’. La CorteEDU, allorquando ammette che il diritto a non essere insultato (rectius a non sentirsi offeso) nei propri convincimenti religiosi rientra nella libertà religiosa, procede con un bilanciamento tra due libertà (religiosa e di espressione), ma equivocandone il contenuto. Infatti, il diritto a non sentirsi offeso nei propri sentimenti di credente a ben vedere non rientra nella libertà religiosa, così come il conflitto tra le due libertà che si dà per scontato. Nella ratio decidendi, inoltre, è inesistente l’argomentazione sul fondamento teorico di questo (nuovo?) diritto.

La conseguenza di tale modo di procedere è che la Corte ha bilanciato due beni – lo si ripete – di ‘valore’ differente, e, riconoscendo come legittima la proibizione completa di una produzione artistica, ha svilito in modo assoluto la libertà di espressione e non ha tutelato la ‘produzione’ di dissidenza che (questa sì) sta alla base di ogni società democratica. 64 L.Ma. DÍEZ-PICAZO, Sistema de derechos fundamentales, Pamplona, 2013, p. 333; E.M. RUBIO FERNANDEZ, Expresión frente a religión, cit., pp. 217 s.; M.P. GARCÍA RUBIO, Arte, religión y derechos fundamentales, cit., pp. 423-425. 65 Si v., almeno, L. MARTÍN-RETORTILLO BAQUER, Respeto a los sentimientos religiosos y libertad de expresión, in Anales Real Academia Jurisprudencia Legislación, 2006, p. 602; J. FERREIRO GALGUERA, Supuestos de colisión entre las libertades de expresión, cit., pp. 216-220. 66 M.P. GARCÍA RUBIO, Arte, religión y derechos fundamentales, cit., pp. 424-425. Con particolare riguardo al cinema, cfr. I.M. BRIONES MARTÍNEZ, Dignidad humana y libertad de expresión en una sociedad plural, in Revista General de Derecho Canónico y Derecho Eclesiástico del Estado, 32/2013, pp. 1-59.

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La sentenza Otto-Preminger-Institut fu richiamata e utilizzata come solido precedente nella (di poco successiva) sentenza Wingrove c. Reino Unido del 25 novembre 1996, che ha ad oggetto un video musicale in cui si ‘racconta’ di una santa in un contesto erotico67. Più precisamente, la Corte ha dovuto giudicare se la decisione di non concedere, da parte dell’organo amministrativo predisposto, la licenza necessaria per la commercializzazione del video di N. Wingrove intitolato Visions of Ecstasy fosse conforme o meno alla CEDU. È opportuno sottolineare che il mancato rilascio della licenza – da parte dell’autorità amministrativa inglese –, e quindi l’impossibilità della commercializzazione del video, fu fondato sulla motivazione per cui la diffusione dello stesso video avrebbe comportato l’imputazione di blasfemia al suo autore. La restrizione alla libertà di espressione appena riportata è conforme all’art. 10 § 2 della Convenzione? Per la Corte sì68, perché il rifiuto di concedere la licenza (si è dinanzi ad un caso di potenziale offesa, in quanto la diffusione non era ancora stata autorizzata)69 ha il fine di proteggere il diritto degli altri così come prescritto da tale articolo. Benché siano riproposti dalla Corte i due parametri convenzionali (sia il 9 che il 10: § 48), questa si sofferma in modo prevalente sui limiti della libertà di espressione (10 § 2) al fine di rispettare i sentimenti e le convinzioni degli altri. La Corte (ancora non in modo unanime)70 conclude che la decisione di non concedere la licenza non vìola l’art. 10 CEDU, ma sempre dopo aver ricordato il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati per il fatto che tra di essi non vi è una comune opinio nel considerare le norme sulla blasfemia come non necessarie in una società democratica e solo in tal caso contrarie a Convenzione (§ 57)71.

Altro caso – che riguarda la libertà di espressione letteraria – è quello di I.A. c. Turchia72, che ha ad oggetto un libro critico sull’Islam e su Maometto e che trae origine dalla condanna per il reato di blasfemia – così come tipizzato nell’art. 175 del codice penale turco – commesso dal direttore di una casa editrice che aveva pubblicato un libro contenente, fra l’altro, tesi atee. Come si può facilmente rilevare, anche in tale questione la Corte deve risolvere un caso che vedrebbe, da una parte, il diritto ad esprimere il

67 Decisione annotata da J.-M. LARRALDE, La liberté d’expression et le blasphème, in Revue trimestrille des droits de l’homme, 1997, pp. 725-732. 68 La Corte non si è interessata alla circostanza per cui la legge inglese sul reato di blasfemia proteggeva solo la religione cristiana, e più precisamente della Chiesa di Inghilterra, perché ciò non rientrava nel thema decidendum. 69 Inoltre l’opera sarebbe stata vendibile solo nei sexy shop, luoghi in cui sarebbe stato altamente improbabile trovare un cristiano praticante che avrebbe avuto l’occasione di imbattersi nel video, in tal senso M. GATTI, Libertà di espressione e sentimento religioso, cit., 56. 70 Dissente il giudice Meyer sulla necessità di una legislazione penale avente ad oggetto la blasfemia. Esprimono, invece, opinione concorrente il giudice Pettiti (per il quale l’art. 9, seppur incidentalmente, non veniva in rilievo e non doveva essere invocato) e il giudice Lohmus (che sottolineava che le espressioni artistiche ‘per loro stessa natura’ si comunicano attraverso immagini e parole che possono ferire una persona dalla media sensibilità). 71 “Les pays européens n’ont pas une conception uniforme des exigences afférentes à «la protection des droits d’autrui» s’agissant des attaques contre des convictions religieuses” (§ 58). 72 Caso I.A. c. Turchia, del 13 settembre 2005.

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proprio punto di vista in materia religiosa e dall’altra il ‘diritto’ a non sentirsi offeso nei sentimenti della fede professata.

Prima di risolvere il conflitto a favore della protezione dei sentimenti religiosi (diritto degli altri), in quanto valuta come ragionevoli e proporzionali le misure penali adottate dallo Stato, la Corte, pur richiamando i propri precedenti, sviluppa un ragionamento, in punto di motivazione, molto interessante ai nostri fini, vale a dire la specificazione che chi decide di manifestare il proprio credo religioso, non può, per ciò solo, sperare “ragionevolmente di non essere oggetto di critica alcuna”. Aggiunge – sempre il giudice europeo – che i credenti di una fede “devono accettare e tollerare che altri neghino le loro credenze religiose inclusa la propaganda fra gli altri di idee ostili alla propria fede”. Anche se afferma ciò, però, la Corte giudica particolarmente gravi gli attacchi contro il profeta dell’Islam tanto che i credenti di tale religione potevano legittimamente sentirsi offesi.

La ragionevolezza delle misure penali è stata giudicata tale alla luce di due considerazioni: che si era tenuta in conto una elevata pressione sociale e che non si ordinò il ritiro del libro irrogando solo una multa insignificante.

Anche in questo caso le critiche a tali affermazioni non tardarono a giungere da parte della dottrina, che sottolineò la fallacia dell’argomentazione della “pressione sociale” impiegata dalla Corte per legittimare il maggior intervento da parte dello Stato e ciò perché tale modo di procedere comporta la mancata tutela dei sentimenti religiosi degli appartenenti a religioni minoritarie che, per la loro stessa condizione di minorità, non riuscirebbero mai a produrre una pressione sociale tale da ottenere protezione. Inoltre, la sanzione o è ingiusta o non lo è, tertium non datur, o meglio, non dovrebbe darsi: la modestia della multa in sé non può ‘trasformare’ in pena giusta quella che non lo è. Nel caso giunto alla cognizione del giudice di Strasburgo – vale la pena non scordarlo – si è comunque dinanzi ad una sanzione penale, che, al pari di tutte le sanzioni, vige nell’ordinamento in primis al fine di procurare un effetto di disincentivo a praticare un determinato comportamento.

Anche questa decisione, come le altre, non è stata presa all’unanimità. Nelle opinioni dissenzienti scritte dai giudici Costa, Cabral Barreto e Jungwiert, si richiama la nota sentenza Handyside c. Regno Unito del 7 dicembre 1976, con la quale, al di là del dispositivo, nella parte motiva si afferma che la libertà di espressione “è applicabile non solo alle idee che sono condivisibili o che sono inoffensive, ma anche a quelle che offendono o disturbano lo Stato o un qualsiasi settore della popolazione” (§ 49); in tale ipotesi sarebbe dovuto rientrare il caso dell’autore ateo in una società, come quella turca, in cui la quasi totalità della popolazione è religiosa.

Il voto discrepante si sofferma anche sulla ratio decidendi impiegata dalla maggioranza (di soli quattro giudici) e quindi sulla “trascurata” 73 e finanche “assente”74 valutazione concreta dei fatti. Ed allora, non dovrebbe bastare il solo riferimento alla constatazione che si sia dinanzi ad idee che “scandalizzano, offendono o turbano lo Stato

73 Rilevata altresì da J. MARTÍNEZ-TORRÓN, ¿La libertad de expresión amordazada?, cit., p. 95. 74 Ibidem, p. 96.

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o una parte della popolazione [perché così procedendo si incorre nel rischio che l’uso di] queste parole [… diventino] una frase rituale o stereotipata [; … v’è quindi bisogno che esse siano] prese sul serio ed ispirare le soluzioni adottate dalla nostra Corte”75.

Si può al momento affermare che il filo che tiene insieme queste decisioni è il richiamo al precedente caso Otto-Preminger – le cui affermazioni di principio76 continueranno ad essere riproposte anche nella giurisprudenza seguente –; è, quindi, la ‘sovraprotezione’ della tutela del sentimento religioso degli altri che costituisce un solido limite alla libertà di espressione.

Possono ancora essere richiamate almeno altre due decisioni che comunemente vengono ricordate per delineare la giurisprudenza convenzionale che si è espressa nel bilanciamento tra libertà di espressione e protezione dei sentimenti religiosi e che, come in Wingrove attribuiscono un maggior ‘peso’ all’art. 10 § 2 anziché al 9 CEDU: Giniewsky c. Francia del 31 gennaio 2006 e Klein c. Slovacchia del 31 ottobre dello stesso anno.

Per motivare queste decisioni, la Corte ritorna sul riesame dei concetti di “offesa” e di “insulto”, che si pongono come giustificazioni per limitare la libertà di espressione.

Nella prima decisione del 1994, il ricorrente aveva scritto sul Quotidien de Paris un articolo nel quale esprimeva la tesi secondo la quale la visione che degli ebrei si rappresenta nel Nuovo Testamento e che è alla base dello sviluppo del sentimento antisemita, a sua volta, ha contribuito all’Olocausto. A seguito di una iniziativa da parte di una associazione cristiana francese, l’autore dell’articolo giornalistico fu condannato per diffamazione pubblica77 di un gruppo di persone per la loro appartenenza ad una confessione religiosa.

L’autore, allora, decise di ricorrere alla CorteEDU lamentando la violazione dell’art. 10 della Convenzione con l’argomento che la legge francese non persegue un fine legittimo e che neanche è necessaria per una società democratica: il ricorrente, cioè, rifiutava l’argomento che si fosse dinanzi ai limiti convenzionalmente previsti che soli possono comprimere il libero sviluppo della libertà di espressione.

La Corte, rispetto al primo punto, risponde che la protezione dalla diffamazione per essere membri di una certa religione corrisponde alla “protezione dei diritti degli altri” prevista dall’art. 10 § 2 CEDU e trova protezione altresì nell’art. 9 CEDU (libertà religiosa) così come statuito nei precedenti Otto-Preminger Institut e Wingrove.

Con riguardo al secondo punto (lo sviluppo di una società democratica), pur richiamando il margine d’apprezzamento che gli Stati hanno su tale materia e la statuizione che vuole che esso sia ancor più ampio quando vengono in rilievo le espressioni che hanno ad oggetto la sfera religiosa degli individui, la Corte pare fare un passo in avanti rispetto ai precedenti ma solo perché non reputa il contenuto del testo

75 Caso I.A., voto particolare, §§ 2, 3 e 5. 76 Le restrizioni alla libertà d’espressione devono essere previste dalla legge nazionale (per la tutela della certezza del diritto); esse devono perseguire un fine legittimo (la tutela dei sentimenti religiosi è parte integrante della libertà religiosa e può giustificare limitazioni alla libertà d’espressione ex art. 10 § 2 CEDU); nel rispetto del margine d’apprezzamento, sono, altresì, necessarie in una società democratica (non sono legittime le offese gratuite, vale a dire quelle che non perseguono lo sviluppo della società). 77 Art. 32 della Loi du 29 juillet 1881 sur la liberté de la presse.

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come “gratuitamente offensivo” (come nel caso Otto-Preminger Institut) ovvero “insultante” (come nel caso I.A. v. Turchia) e quindi – riducendo il margine d’apprezzamento – valuta la sanzione imposta come eccessiva.

I giudici di Strasburgo giungono a tale conclusione in quanto le argomentazioni sviluppate nel saggio, seppur potevano procurare un sentimento di offesa fra gli appartenenti ad una determinata religione, non erano state sviluppate per offendere, ma per avanzare una tesi che – nelle parole della Corte – risulta essere di “pubblico interesse”. Anche in questo caso, le critiche a tale modo di procedere sono duplici. Da una parte, l’aver di nuovo considerato come rientrante nella tutela della libertà religiosa la protezione dei sentimenti religiosi produce un bilanciamento tra due libertà che per la Corte hanno lo stesso ‘valore’; dall’altra, non solo la Corte si erge a giudice di ciò che è o non è di “pubblico interesse”, ma ammette che non riceverà la medesima tutela l’esercizio della libertà di espressione il cui contenuto non dovesse risultare di pubblico interesse78. Ciò che traspare dalla decisione, quindi, è che essendo “la ricerca della verità storica […] parte integrante della libertà di espressione”79, quando l’autore persegue tale ricerca i limiti alla libertà di espressione devono essere oggetto di interpretazione “particolarmente restrittiva”80, potendo, il rischio di subire una condanna, produrre un effetto dissuasivo tale da comprimere la libertà di espressione (ma anche l’editore che può decidere di non pubblicare) ad una ‘autocensura’81 che avrebbe (anche) l’effetto di non favorire il libero dibattito pubblico di diffusione di idee82.

La seconda decisione prima richiamata riguarda i giudizi avanzati da un noto critico, Martin Klein, sulle pagine di un settimanale cinematografico aventi ad oggetto le dichiarazioni pronunciate dall’arcivescovo cecoslovacco Ján Sokol al fine di far ritirare

78 E ciò è ancor più grave se a sostenerlo è un giudice: J. FERREIRO GALGUERA, Los límites a la libertad de expresión, cit., p. 740; M.P. GARCÍA RUBIO, Arte, religión y derechos fundamentales, cit., p. 430. 79 Giniewsky v. France, del 31 gennaio 2006, § 51. In dottrina almeno P.F. DOCQUIR, La Cour européenne des droits de l’homme sacrifie-t-elle la liberté d’expression pour protéger les sensibilités religieuses, in Revue trimestrille des droits de l’homme. 86/2006, pp. 839-849. 80 J. MARTÍNEZ-TORRÓN, ¿La libertad de expresión amordazada?, cit., p. 102. Tale A. cita, altresì, il caso Paturel c. Francia, del 22 dicembre 2005, v. quindi ibidem, pp. 96-99, che, a ben vedere, però, si differenzia da quelli di cui si sta discorrendo, in quanto riguarda non tanto la libertà di espressione e il rispetto dei sentimenti religiosi, quanto piuttosto la libertà di espressione e la diffamazione di un’istituzione (‘anti-setta’) ex art. 8 Cedu (protezione della reputazione delle persone). 81 Il rischio di ‘cadere’ nella norma penale produce l’effetto – che è proprio di tale norma – di dissuadere da alcuni comportamenti. Sul rischio dell’effetto desaliento si rinvia a L. JERICÓ OJER CANDICORT, La relevancia penal de los sentimientos religiosos como límite a la libertad de expresión, cit., p. 138. Per una prospettiva più generale cfr. M.L. CUERDA ARNAU, Proporcionalidad penal y libertad de expresión: la función dogmática del efecto de desaliento, in Revista General de Derecho Penal, 8/2007, pp. 1-43. 82 Si può richiamare anche il caso Aydin Tatlav c. Turchia, del 2 maggio 2006, con il quale la Corte europea all’unanimità giudica violata la libertà di espressione del ricorrente, che era stato condannato al pagamento di una multa molto modesta per diffamazione della religione dell’Islam per quanto scritto e sostenuto nel suo libro La realtà dell’Islam. Per la Corte, seppur i fedeli musulmani potevano sentirsi offesi per il contenuto critico del libro – ma non già per i “toni insultanti” così come avvenuto nel caso I.A. (§ 28) – non per ciò solo erano giustificabili le limitazioni alla libertà d’espressione del ricorrente, proprio per il rischio di pregiudicare la garanzia del pluralismo (nel caso di effetto intimidatorio della sanzione penale) che è indispensabile per la “sana evoluzione di una società democratica” (§ 30).

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(cosa che poi avvenne) il film The people v. Larry Flint (Oltre lo scandalo, film americano del 1996 diretto da Miloš Forman) e il cartellone che ne pubblicizzava l’uscita. La locandina ritraeva un uomo nudo coperto solo da una bandiera americana che lo cingeva lungo la vita e rappresentato in miniatura, come su una croce, all’altezza del pube. Le critiche di Klein, avanzate in una rivista orientata ad un pubblico di lettori culturalmente ristretto, venivano espresse con linguaggio dotto intorno ad un incesto tra un alto rappresentante della Chiesa cattolica e sua madre, alludendo, tra l’altro, alla cooperazione dell’arcivescovo con il passato regime comunista.

Due associazioni cristiane si rivolsero alla giustizia ordinaria slovacca, che condannò il signor Klein per aver diffamato il più alto rappresentante della chiesa cattolica slovacca e – per quel che a noi più interessa – per aver offeso i membri di tale religione.

I giudici di Strasburgo, ai quali il signor Klein aveva proposto ricorso, giudicarono che il ricorrente non aveva offeso né screditato alcun settore della popolazione per la propria fede cattolica e che le opinioni espresse erano rivolte contro l’arcivescovo e per tale semplice motivo le persone altre da questi non potevano sentirsi offese. Il giudice europeo concluse che la pubblicazione dell’articolo non ledeva la libertà religiosa degli altri e che la sanzione imposta dalla giustizia ordinaria non era convenzionalmente giustificata, perché non era da ritenersi “necessaria in una società democratica”.

La Corte non valutò come violato l’art. 10 per essere stato offeso alcun sentimento degli altri, e affermò, in riferimento all’art. 9 (libertà religiosa, vale a dire libera professione della propria fede), che le espressioni del ricorrente non “interferivano in maniera indebita con il diritto dei credenti di esprimere e praticare la propria religione”. Dunque, avendo a mente che in Giniewski il Tribunale non giustificò la sanzione imposta dalle autorità nazionali, in quanto il testo “non incitava né alla mancanza di rispetto né all’odio” (§ 52), si può affermare che per la CorteEDU il conflitto tra gli articoli 10 e 9 si ha se l’insulto alla religione costituisce un attacco alla libertà di religione, vale a dire quando l’espressione censurata contiene elementi di ‘incitazione all’odio’ e dunque quando le espressioni antireligiose costituiscono quello che nella giurisprudenza convenzionale (e non solo) costituiscono ‘discorso di odio’, che ha il fine ultimo di privare dei propri diritti gli individui contro i quali il discorso è rivolto83. Se non si è dinanzi a tale contenuto, ma dinanzi ad una mera espressione offensiva in materia religiosa non si attiverà la protezione della libertà religiosa (ex art. 9) con conseguente conflitto tra due diritti (libertà religiosa e libertà di espressione), ma si sarà dinanzi ai limiti della libertà di espressione (limiti interni al diritto, che per definitionem non è mai assoluto).

83 Sul discorso d’odio in dottrina R. PALOMINO, Libertad de expresión y libertad religiosa: elementos para el análisis de un conflicto, in AA.VV., Tensiones entre libertad de expresión y libertad religiosa, cit., pp. 60 ss. Diverse sono le decisioni depositate dalla Corte EDU, su queste v. J. MARTÍNEZ-TORRÓN, ¿La libertad de expresión amordazada?, cit., pp. 104-107; K. BERGAMI, G.M. POLITO, Libertà di espressione e incitamento all’odio, in P. Manzini, A. Lollini (a cura di), Diritti fondamentali in Europa, cit., 71 ss.

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Dunque, per concludere il presente paragrafo e rinviando alle conclusioni di questo breve scritto sull’irragionevolezza nel proteggere il sentimento religioso con la norma penale, anche alla luce degli ‘orientamenti’ provenienti dalle istanze internazionali, si può affermare che per la giurisprudenza convenzionale l’insulto alla religione può rappresentare una offesa per i sentimenti dei credenti e per questo si può limitare legittimamente la libera manifestazione del pensiero ex art. 10 § 2 nella misura in cui le espressioni incriminate costituiscano un “attacco gratuito”84, virulento e non insignificante a ciò che è reputato dai credenti come ‘intoccabile’ (fede, riti, istituzioni, …) e che risultino sì in grado di produrre offesa verso i credenti, ma soprattutto di produrre un rischio per la loro incolumità, qualora su di essi si riversi violenza, odio, intolleranza. Le limitazioni alla libertà di espressione positivizzate nei testi di legge dei Paesi contraenti la CEDU, in tal caso, sono ritenute conformi al parametro convenzionale, riconoscendo la Corte di Strasburgo un ampio margine di apprezzamento85.

Detto questo, non ci si può esimere dall’affermare che sarebbe più opportuno abbandonare la nozione elastica dell’espressione “gratuitamente offensive”86 soprattutto se la stessa libertà di espressione può contenere legittimamente un linguaggio che “offende, scandalizza o infastidisce”87 e di utilizzare la più ‘sicura’88 giurisprudenza dell’incitazione all’odio89. Ciò anche perché si è comunque riusciti a dare (pur se con qualche difficoltà) una definizione dei discorsi d’odio90.

Lungo questa strada pare abbia deciso di procedere la Corte quando ha segnato una sorta di discontinuità (implicita e mai formale rispetto a quanto affermato nella nota sentenza Preminger, i cui principi91 continuano ad essere reiterati) facendo intendere che

84 L. LÓPEZ GUERRA, Libertad de expresión y libertad de religión a la luz de la jurisprudencia del Tribunal Europeo de Derechos Humanos: blasfemia e insulto a la religión, cit., p. 90. 85 Cfr. anche caso Murphy c. Irlanda del 10 luglio 2003, § 67. 86 In modo particolare in Í.A., Giniewsky, Aydin Tatlav. 87 Caso Handyside v. Regno Unito del 7 dicembre 1976; tale decisione è richiamata anche nelle sentenze riportate in nota precedente. 88 Il termine si mette tra virgoline, perché non è sempre detto che l’utilizzo della fattispecie non possa comunque essere problematico. Si pensi alla recentissima STC 177/2015, del 22 luglio (Pleno), con la quale il TC (con ben quattro votos particulares) non ha riconosciuto l’amparo ai ricorrenti contro la decisione giudiziale che li ha condannati per aver bruciato la foto del re durante una manifestazione antimonarchica, considerando tale gesto come espressione di ‘discorso d’odio’, a nostro avviso inopinatamente dal momento che esso si volgeva contro la figura rappresentativa del re, senza incitamento alla violenza contro la sua persona, ma con una ferma critica istituzionale espressa proprio durante una manifestazione guidata dallo slogan ‘300 años de Borbones, 300 años combatiendo la ocupación española’. 89 R. PALOMINO, Libertad religiosa y libertad de expresión, cit., p. 546. 90 V. retro nota 7. 91 Per la Corte europea la protezione dei sentimenti religiosi trova fondamento nella libertà religiosa, così come esplicitamente affermato nella decisione del 1994: “può legittimamente apprezzarsi che il rispetto dei sentimenti religiosi dei credenti garantito dall’art. 9 […] risulta violato da rappresentazioni provocatorie di oggetti di venerazione religiosa; tali rappresentazioni possono intendersi come una violazione maliziosa dello spirito di tolleranza, che è anche una delle caratteristiche di una società democratica” così nel caso Otto-Preminger-Institut c. Austria, § 47. La conseguenza è quindi che la tutela dei sentimenti religiosi può

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solo se le espressioni configurano un discorso d’odio allora, oltre che l’art. 10, verrà in rilievo anche il parametro convenzionale dell’art. 9.

4. Il recente caso di J. Krahe e la ratio decidendi impiegato dall’autorità giudiziaria. Riprendendo l’esame dell’ordinamento costituzionale spagnolo, fra le ultime

decisioni pronunciate in tema di protezione penale dei sentimenti religiosi vi è un’importante sentenza depositata dal giudice penale di Madrid, la n. 235 dell’8 giugno del 2012. L’imputato è un noto cantante spagnolo Javier Krahe. L’accusa è quella di aver violato l’art. 525, primo comma c.p.92, per un video tape musicale – registrato dallo stesso Krahe con il supporto di un amico nel 1997 – dal titolo Cómo cocinar a un Cristo, mandato in onda durante un programma televisivo nel 2004.

Il caso93, che si porta all’attenzione del lettore, pur se contiene una decisione assolutoria, è interessante per diversi ordini di motivi: dimostra come ancora, in una

giustificare l’imposizione di limiti alla libertà di espressione, in quanto, così come regola l’art. 10 § 2 CEDU, finalizzati alla protezione dei diritti degli altri. 92 Normativa che, alla luce della giurisprudenza convenzionale, deve essere valutata come conforme al parametro CEDU. 93 In dottrina S. CAÑAMARES ARRIBAS, La conciliación entre libertad de expresión y libertad religiosa, un “work in progress”, in AA.VV., Tensiones entre libertad de expresión y libertad religiosa, cit., pp. 18 ss. Lo scorso 18 febbraio, è iniziato un altro processo che ha avuto una certa risonanza, ci si riferisce a quello che ha visto comparire davanti al giudice penale la signora Rita Maestre, accusata di un delitto contro i sentimenti religiosi per aver manifestato nel 2011 nella cappella universitaria dell’Universidad Complutense; nell’atto di denudarsi, girando intorno all’altare aveva urlato slogan contro la chiesa cattolica con il fine di protestare contro la presenza di una cappella religiosa in una sede università pubblica e (soprattutto) rivendicare una maggiore libertà sessuale, anche omosessuale. Lo scorso 18 marzo è stata depositata la sentencia n. 69/2016, con la quale il Juzgado de lo Penal número 6 de Madrid ha condannato la Maestre – “como autora de un delito contra los sentimientos religiosos del artículo 524 del C. penal” – a pagare una multa di 4.320 euro, dopo che il pubblico ministero ne aveva chiesto la pena ad un anno di reclusione. Nella decisione citata, il riferimento non va all’art. 525 c.p. ma all’art. 524 c.p. e quindi alla violazione e alla mancanza di rispetto verso ciò che è sacro, mediante atto di profanazione di un luogo di culto (l’altare di una Cappella). Ricordando che ‘profanare’ – come si legge nella sentenza citata – vuol dire “trattare una cosa sacra senza il dovuto rispetto”, il giudice – con una decisone che sicuramente non condividiamo nel merito perché di nuovo si fa rientrare la tutela del sentimento religioso in quella della libertà religiosa – ha dimostrato (ma in modo non convincente) la presenza nell’atto soggetto a condanna non solo dell’elemento oggettivo ma anche di quello soggettivo, ovverosia ha riscontrato – e su questo si solleva più di un dubbio almeno a leggere gli hechos probados – che l’intenzione dell’accusata era per la maggior parte rivolta a irridere i sentimenti religiosi delle persone e non tanto a manifestare una critica politica. I dubbi appena prospettati trovano una conferma nella decisione di gravame depositata lo scorso 16 dicembre (anno 2016), con la quale, pur facendo nuovamente rientrare la tutela dei sentimenti religiosi nella protezione dell’art. 16 Cost. (Primero dei Fundamentos de derecho), si esclude (assolvendo, quindi, l’imputata) non solo l’offesa ai sentimenti religiosi, ma, altresì, il compimento di un atto di profanazione, in quanto si riconosce l’atto compiuto come una manifestazione di critica e protesta, senza “toccare il sacrario” o altri oggetti sacri e senza che l’imputata si sia resa partecipe di atti osceni. Sicuramente – sempre a dire dell’Audencia provincial de Madrid, Sección Decimosexta – non sono da considerarsi atti osceni (mancanza dell’elemento oggettivo del reato) il protestare a petto nudo e scambiarsi baci omosessuali, in quanto “in una società democratica avanzata come la nostra

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società secolarizzata, si chieda al giudice l’applicazione di una norma penale che sanzioni l’offesa pubblica contro i sentimenti religiosi; palesa l’estrema difficoltà di applicare la norma stante l’eccessiva vaghezza ed indeterminatezza della disposizione penale; mostra come sia elevata la possibilità di limitare l’esercizio di un diritto fondamentale (libertà di espressione e, più precisamente, di satira) per il rischio di essere soggetto a procedimento penale (c.d. effetto inibitore della norma penale); dimostra come la libertà di espressione può essere limitata dalla libertà di religione (nella quale si fa rientrare la tutela dei sentimenti religiosi).

Nel video si ritrae una persona che gesticola con un crocifisso mentre una voce fuori campo (quella di J. Krahe) illustra, a mo’ di ricetta culinaria, la preparazione di un Cristo, che si conclude con la cottura in forno con l’aggiunta di un pizzico di sale.

La difesa dell’imputato si è incentrata sulla tesi della prevalenza della libertà di espressione sull’offesa dei sentimenti religiosi.

Per il giudice penale spagnolo, l’art. 525 protegge un bene collettivo94 e – a differenza di quanto qui argomentato circa la difficoltà di includere nella libertà di religione il diritto a che i sentimenti religiosi di una persona non siano oggetto di escarnio, dovendo tale diritto (a non sentirsi offeso) rientrare nel generale divieto a non essere offeso o insultato – protegge la libertà religiosa consacrata nell’art. 16 della Costituzione95. “Nella tutela della libertà religiosa il Codice Penale vuole proteggere non

che due giovani si spoglino non deve scandalizzare nessuno, come neanche il fatto che alcuni di loro si bacino” (p.to tercero dei fundamentos de derecho). 94 Avverso tale interpretazione si v. retro nota 30. 95 Che ciò non sia scontato lo si rileva dalla mera lettura di una delle ultime decisioni del Tribunal Constitucional in tema di libertà religiosa, nella quale nulla si dice su tale contenuto: “[l]a nostra Costituzione riconosce la libertà religiosa, garantita sia agli individui che alle comunità, «senza altra restrizione, nelle loro manifestazioni, che quella necessaria per il mantenimento dell’ordine pubblico tutelato dalla legge» (art. 16, primo comma). Nella sua dimensione oggettiva, la libertà di religione comporta una duplice esigenza, alla quale si riferisce l’art. 16, terzo comma CE: in primo luogo, la neutralità dei pubblici poteri, insita nell’aconfessionalità dello Stato; in secondo luogo, come si è detto nella STC 46/2001, del 15 febbraio (FJ 4), «l’art. 16, terzo comma della Costituzione, dopo aver formulato una dichiarazione di neutralità, considera la componente religiosa percepibile nella società spagnola e ordina ai poteri pubblici di mantenere ‘le conseguenti relazioni di cooperazione con la Chiesa cattolica e le altre confessioni’, introducendo così un’idea di aconfessionalità o di laicità positiva che vieta qualsiasi confusione tra funzioni religiose e statali» (nello stesso senso, SSTC 177/1996, dell’11 novembre, FJ 9; 154/2002 del 18 luglio, FJ 6; e 101/2004, del 2 giugno, FJ 3). D’altra parte, in quanto diritto soggettivo, la libertà religiosa ha una doppia dimensione, interna ed esterna. Così, per come indicato nella STC 177/1996, dell’11 novembre (FJ 9), la libertà religiosa «garantisce l’esistenza di uno spazio intimo di credenze e, pertanto, uno spazio di autodeterminazione intellettuale dinanzi al fenomeno religioso, legato alla propria personalità e dignità individuale»; oltre che alla dimensione interna, questa libertà «comprende anche una dimensione esterna di agere licere» che consente ai cittadini di agire secondo le proprie convinzioni e di mantenerle anche nei confronti di terzi, il che si traduce «nella possibilità di esercizio, immuni dalla coercizione da parte delle autorità pubbliche, di quelle attività che sono manifestazioni o espressioni di fenomeno religioso» (STC 46/2001, del 15 febbraio, FJ 4), come quelle elencate nell’art. 2, primo comma, della legge organica 7/1980 sulla libertà religiosa, relative, fra l’altro, agli atti di culto, insegnamento religioso, riunione o manifestazione pubblica con fini religiosi, e l’associazione per lo sviluppo comunitario di questo tipo di attività. Si completa, nella sua dimensione negativa, con la prescrizione dell’art. 16, secondo comma CE, per il quale «nessuno può essere obbligato a dichiarare la propria ideologia, religione o convinzioni»”, così la STC 34/2011, del 28 marzo (Sala

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solo il suo esercizio materiale ma anche gli intimi sentimenti che alla stessa si associano. Non si tratta di difendere un particolare gruppo religioso, bensì di proteggere la libertà degli individui, religiosi o laici (v. art. 525, secondo comma), nell’esercizio dei loro diritti fondamentali. Si riconosce altresì che questa libertà religiosa si integra non solo con la realizzazione di atti materiali che la esteriorizzano, ma anche, e in particolar misura, con il rispetto dei sentimenti che conformano la sua sfera intima”96.

Dunque, in primo luogo si rileva il fondamento della norma penale, in secondo luogo (ai fini della risoluzione della controversia) si riconosce il verso satirico, provocatore ed anche critico, della manifestazione del pensiero (artistico) del querelato, ma non anche la volontà di offendere: “[c]’è nel corto trasmesso un inequivoco senso satirico, provocatore e critico, però non quello di offendere come pretende l’accusa. Non si nega che i denuncianti si siano sentiti sinceramente offesi. Tuttavia, ciò che si deve rifiutare qui, è che la condotta denunciata sia oggettivamente offensiva, almeno nel senso rafforzato che esige la fattispecie”97.

Segunda, FJ 3). La traduzione del lungo passaggio riportato, così come i diversi passi presenti nell’articolo, è da imputare esclusivamente allo scrivente. Si v. anche la legge attuativa del dettato costituzionale, vale a dire la Legge Organica sulla Libertà Religiosa (LOLR), la n. 7/1980, e, più precisamente, il suo art. 2, primo comma. Lo stesso Tribunal Constitucional, è meritevole ricordarlo, non ha escluso che l’aconfessionalità dello Stato non tiene in conto la protezione dei sentimenti religiosi: “el carácter aconfesional del Estado no implica que las creencias y sentimientos religiosos de la sociedad no puedan ser objeto de protección. El mismo art. 16.3 de la Constitución, que afirma que ninguna confesión tendrá carácter estatal, afirma también que los poderes públicos tendrán en cuenta las creencias religiosas de la sociedad española. Y, por otra parte, la pretensión individual o general de respeto a las convicciones religiosas pertenece a las bases de la convivencia democrática que, tal como declara el preámbulo de la Norma fundamental, debe ser garantizada”, così l’ATC 180/1986, del 21 febbraio (FJ 2). 96 Sentencia 235/2012 del Juzgado de lo Penal n. 8 de Madrid, de 8 de junio de 2012, punto 1 § 3. 97 Sentencia 235/2012, punto 1 § 4. Di recente è stata disposta l’archiviazione da parte del Juzgado número 10 di Siviglia della causa aperta nei confronti di tre donne che partecipavano il 1 maggio 2014 alla c.d. ‘processione’ del ‘Santìsimo Coño Insumiso’ nel corso della quale lanciavano slogan come “anche la Vergine Maria abortirebbe”. Non è stato rilevato alcun delitto contro i sentimenti religiosi neanche dal giudice di Pamplona che ha archiviato (il 10 novembre 2016, con auto 429/2016) la causa che vedeva imputato l’artista Abel Azcona per un’opera intitolata Desenterrados che rappresentava la parola ‘pederasta’ con un insieme di pietre bianche levigate che alludevano a delle ostie. Nell’ordinanza prima richiamata il giudice non riconosce l’esistenza di delitti contro i sentimenti religiosi e di odio, in quanto l’artista, seppur mosso da un intento di profanazione, non ha posto in essere una condotta criminosa dal momento che l’opera non fu realizzata né in un luogo destinato al culto – come possono essere un tempio o una chiesa – né durante una cerimonia religiosa. Quindi, il giudice ha archiviato la causa. Pare interessante riportare un passo della decisione (fundamentos de derecho quinto) nel quale è scritto che “[i]n nessun caso può considerarsi che l’opera prodotta dal querelato sia idonea a fomentare, promuovere, o incitare all’odio, ad ostilità, a discriminazione o violenza contro un gruppo – in questo caso la Chiesa cattolica o i suoi membri –; inoltre con la sua opera l’autore propone a chi la osserva non tanto un’azione contro la realtà che denuncia quanto una presa di coscienza o di posizione rispetto alla piaga della pederastia. Il giudice quindi ha dichiarato che la finalità dell’opera di Azcona è non quella di offendere bensì quella di criticare pubblicamente la pratica di abuso omosessuale sui minori esercitata da alcuni tra i membri della Chiesa cattolica, realtà questa, del resto, già a conoscenza delle alte gerarchie ecclesiastiche. Benché sia questa la conclusione a cui giunge il giudice penale, questi non si è sottratto dal prendere distanza dall’opera, sostenendo che “certamente il mezzo scelto dal querelato per denunciare la piaga della pedofilia potrà essere criticato e non giustificato, dal momento che è stato utilizzato uno dei segni più sacri della religione cattolica” (fundamentos de derecho quinto). Nel momento in cui si scrive si attende la decisione del Juzgado de Instrucción número 11 di Malaga, che lo scorso

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La norma penale, in effetti, tipizza anche “l’elemento soggettivo, visto che chiede che il soggetto attivo agisca «per offendere». Cioè, si chiede che la condotta degli accusati sia mossa dall’intenzione diretta di offendere un sentimento religioso collettivo”98.

Come si può ben notare, seppur nel dispositivo della decisione si legga un’assoluzione, per quello che si è fino a qui sostenuto, la ratio decidendi non convince, perché – come si è visto fare anche dal giudice europeo – il giudice penale fa rientrare la tutela del sentimento religioso nella libertà di religione99, pur senza argomentare a fondo, quasi fosse una acquisizione dogmatica data ormai per scontata.

Ciò che il giudice ‘omette di fare’ è di dubitare della conformità a Costituzione della normativa penale, per il fatto che essa costituisce un limite legale ad un diritto fondamentale, che viene compresso più di quello che il testo costituzionale consentirebbe. Non aver espresso alcun dubbio ha fatto sì che il Tribunal Constitucional continui a non interessarsi della questione.

Il (mancato) giudice a quo avrebbe potuto rilevare l’incompatibilità di tale disciplina penale con la tutela della libertà di espressione che – per come ha avuto modo di affermare lo stesso Tribunal Constitucional – costituisce “la garanzia di una istituzione politica fondamentale qual è la opinione pubblica libera, indissolubilmente legata con il pluralismo politico che è un valore e un requisito del funzionamento dello Sato democratico”100.

5. Conclusioni. Il fatto che la persona possa esprimere la propria opinione è una conquista del

costituzionalismo liberale e contemporaneo. La libertà d’espressione riconosce (rectius dovrebbe riconoscere) non tanto un diritto a blasfemar, quanto piuttosto quello di esprimere critiche anche in modo più che esacerbato senza per questo incorrere in un atto blasfemo, per il semplice fatto che questo non andrebbe considerato come reato. Punire la blasfemia (o l’escarnio) comporta il più delle volte una censura di film, foto, disegni, opere d’arte, arrivando fino al paradosso per cui anche solo una espressione di cauto dissenso nei confronti di una religione potrebbe generare una grave offesa per chi in essa crede101. Blasfemo è allora l’ateo che ‘semplicemente’ nega l’esistenza stessa della fede religiosa; ma certo egli non può essere indagato per il sol fatto che qualcuno dinanzi a sue prese di posizioni (finanche volutamente dispregiative ed offensive verso la religione) si senta offeso. E che dire di un religioso che in uno scontro di Verità nega l’altra per affermare quella in cui crede? Lo si potrebbe accusare di proselitismo di

10 giugno ha dato seguito alla richiesta del pubblico ministero e dell’associazione Avvocati Cristiani che condanna a pena pecuniaria (di 3.000 euro) una donna che ha promosso la marcia denominata ‘Procesión del Santo Chumino Rebelde’. 98 Sentencia 235/2012, punto 1 § 5. 99 Si v. anche retro nota 96. 100 STC 12/1982, del 31 marzo, FJ 3. 101 H. FAUNDEZ LEDESMA, Los límites de la libertad de expresión, México, 2004, p. 697.

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ateismo e quindi di recare offesa ai sentimenti di chi crede? In effetti, anche il religioso di una determinata fede è ateo nei confronti del Dio altrui.

Il materiale giurisprudenziale analizzato dimostra, in controtendenza alle scelte legislative compiute o da compiere, come il bene meritevole di protezione sia la persona considerata nella sua individualità e non già il sentimento religioso in se stesso, e come la norma penale produca un effetto di disincentivo (c.d. efecto desaliento)102 che risulta, del resto, deprecabile per un ordinamento costituzionale in quanto difficile è la valutazione reale del suo effetto, in quanto è impossibile determinarlo. Se il criterio dell’offesa può limitare la libertà di espressione, questa risulterà ostaggio della suscettibilità, vale a dire del facile risentimento a parole o atti altrui che sembrino comportare un giudizio negativo nei propri confronti. Un’espressione o una tesi può essere considerata offensiva per qualcuno o per qualcun altro rappresentare l’occasione per mettere in discussione il proprio punto di vista.

A noi pare che, a differenza di quanto previsto dai codici penali e argomentato da autorevole dottrina, non si sia dinanzi ad un vero e proprio conflitto tra diritti fondamentali, in quanto l’esercizio della libertà di espressione (se non incorre nella fattispecie penale del discorso di odio)103 non produce alcuna restrizione all’esercizio della libertà religiosa né nella sua dimensione interna che esterna, non costituendo limite alla libertà di fede e alla sua pratica libera nello spazio pubblico e privato. Se si riterrà, si potrà rispondere alle affermazioni ritenute infondate, il che, nelle società contemporanee, è la base della dialettica democratica. Così come si potrà scegliere di non pagare un biglietto per andare a vedere uno spettacolo che si crede possa produrre malessere, così come di cambiare programma e sintonizzarsi su un altro canale in un sistema televisivo che si regge sul principio del pluralismo. Il conflitto può manifestarsi tra libertà d’espressione e rispetto dell’onore e della reputazione di una persona quando, ad esempio, si usa la religione come stigma per utilizzarla contro la persona che si vuole stigmatizzare e colpire.

In fase di conclusione, allora, rifacendosi alle premesse di questo breve scritto e alle riflessioni finora compiute, ci si può domandare se le ‘caricature su Maometto’ rappresentino o meno legittimo esercizio della libertà d’espressione costituzionalmente tutelata. Certamente ed inequivocabilmente sì104. Raffigurare un ‘Alto rappresentante’ di una religione non significa andare al di là di una legittima espressione del proprio pensiero, anche se questo turba il sentimento di qualcuno (e nel caso di molti). L’arte del disegno, anzi, ha dimostrato come una ‘semplice’ raffigurazione (Maometto con una

102 Cfr. la STC 88/2003, del 19 maggio, FJ 8. 103 Cfr., ad esempio, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Quinta Sezione, Dieudonné M’Bala M’Bala C. Francia, ric. 25239/13, che qualifica i fatti portati alla sua cognizione come rientranti nella fattispecie dell’incitamento all’odio e quindi contrari a Convenzione. Si v. P. CAROLI, La Corte europea in tema di offese pubbliche contro gli ebrei, in questa Rivista, 21 dicembre 2015. 104 Ed in effetti, i giudici danesi giudicarono che non si era dinanzi ad alcun atto blasfemo, contando che in Danimarca il codice panale nel suo art. 267 condanna la blasfemia. In tema Z. COMBALÍA, Libertad de expresión de expresión y difamación de las religiones: el debate en Naciones Unidas a propósito del conflicto de las caricaturas de Mahoma, in AA.VV., La libertad religiosa y su regulación legal. La ley orgánica de Libertad Religiosa, cit., pp. 438 s.

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bomba al posto del turbante) possa lanciare in modo forte ed incisivo un messaggio105, nel caso de quo quello relativo alla distorsione della parola di Maometto operata da parte di una minoranza integralista che vuole utilizzare la violenza, legittimata in quanto perpetuata nel nome di chi è custode della Verità.

A medesima conclusione si sarebbe giunti anche se la finalità della raffigurazione fosse stata quella di ridicolizzare un ‘Alto rappresentante’ di una fede (e non già i fedeli singolarmente ed individualmente considerati) per il sol gusto di farlo, con la sola intenzione di irridere il Sacro, il che costituirebbe (tutt’al più) un fatto deprecabile politicamente106 o sociologicamente, ma non anche giuridicamente.

Quando l’offesa comporta una mancanza di rispetto verso i sentimenti religiosi, ma non per questo anche una incitazione all’odio verso determinate persone (di solito minoranze), pare del tutto sproporzionato l’impiego dello strumento penale per porsi in grave frizione con i testi costituzionali per i quali i limiti ai diritti fondamentali devono avere una sicura e fondata base nel medesimo testo; sproporzionato anche, per produrre un effetto disincentivante all’esercizio (legittimo) del diritto fondamentale della libertà d’espressione.

Che lo strumento penale (ma anche quello civile del risarcimento)107 costringa indebitamente la libertà di espressione pare sia tesi sostenuta anche dai più recenti atti politici prodotti sia a livello europeo che americano. Si possono quindi ricordare la Raccomandazione 1805 del 2007108 dell’Assemblea del Consiglio d’Europa che raccomanda, appunto, ai Parlamenti109 di “modificare il Diritto e la pratica nazionale per decriminalizzare la blasfemia e l’insulto alla religione”110, procedendo nella stessa strada 105 È stato autorevolmente ricordato che sia la libertà di manifestare il proprio pensiero che il diritto di professare una religione (o di non farlo) hanno entrambe la “naturale aspirazione […] a consentire tutela alla diversità: […] la circolazione del dissenso [… e] tutelare soprattutto i fedeli aderenti a religioni di minoranza, oltre a quanti non si riconoscono in alcuna confessione”, così C. SALAZAR, Le “relazioni pericolose” tra libertà di espressione e libertà di religione: riflessioni alla luce del principio di laicità, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, gennaio 2008, p. 5. 106 E politicamente andrebbe risolto, conformemente a quanto sostenuto da J. FERREIRO GALGUERA, Los límites a la libertad de expresión, cit., 743-745; E.M. RUBIO FERNANDEZ, Expresión frente a religión, cit., pp. 224 ss. 107 Nel senso indicato nel testo, anche E.M. RUBIO FERNANDEZ, Expresión frente a religión, cit., p. 222; R. GARCÍA

GARCÍA, La libertad de expresión, cit., p. 46. 108 Ed anche la n. 1510 del 2006, del 28 giugno. 109 Fra le legislazioni dei Paesi appartenenti al Consiglio d’Europa quelle che disciplinano il reato di blasfemia sono: Austria, Danimarca, Finlandia, Grecia, Italia, Irlanda, Liechtenstein, Olanda, San Marino. I Paesi appena citati – tranne che per l’Austria, il Liechtenstein, l’Irlanda, San Marino (uno dei pochissimi paesi a non aver normato sull’incitazione all’odio) – hanno una normativa ad hoc che tutela i sentimenti religiosi: Andorre, Cipro, Croazia, Germania, Islanda, Lituania, Norvegia, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Russia, Slovacchia, Spagna, Svizzera, Turchia, Ucraina. Si v. il Rapporto sulle Relazioni tra libertà d’espressione e libertà di religione, cit., in particolare le Tableu recapitulatif. 110 Raccomandazione 1805 del 2012, § 17.2.4. Su di essa e più in generale sulle carte internazionali intorno alla diffamazione religiosa vedi i vari contributi raccolti in R.M. Martínez de Codes, J. Contreras Contreras (a cura di), La difamación de las religiones y la libertad religiosa, Madrid, 2011; Z. COMBALÍA, Libertad de expresión de expresión y difamación de las religiones, cit., 440 ss.; E. SOUTO GALVÁN, La libertad religiosa en la Constitución y en la Declaración Universal de Derechos Humanos, in AA.VV., La libertad religiosa y su regulación legal. La ley orgánica de Libertad Religiosa, cit., pp. 467-490; B. CHELINI-PONT, La mobilization de l’organisation de la conference islamique mondiale contre la diffamation de l’Islam (1999-2009) et ses consequences en Europe, in Annuaire de Droit

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tracciata dalla Commissione di Venezia che propone che “sia abolito il delitto di blasfemia”111, con la conseguenza che la protezione della libertà religiosa costituisce una “questione separata e indipendente da qualsiasi possibile protezione dei sentimenti religiosi”112. In determinate occasioni, quali sono quelle in cui l’espressione impiegata da un soggetto individuale o collettivo può provocare violenza o indurre all’odio o alla discriminazione di altri individui, la libertà d’espressione deve essere limitata (e lo è già dalle norme penali) per il fine legittimo di evitare la violenza e la discriminazione e non già per la tutela dei sentimenti religiosi. Al contrario, il sarcasmo irriverente di cui si è fatto portatore Charlie Hebdo113 non incitava alla violenza, non conteneva alcun messaggio di discriminazione contro i musulmani e, pertanto, non si configurava come offesa in termini di istigazione all’odio e di pericolosità sociale; in tal senso, si trattava di legittima manifestazione della libertà di espressione114 riconosciuta dalla Costituzione francese115, così come da quella spagnola, italiana, dalla Convenzione Interamericana116, da quella Europea dei Diritti dell’Uomo,…117.

et Religions, 4/2009-2010, pp. 525-552; D. RAMÍREZ SALAZAR, Difamando a Dios? La libertad de expresión y el sistema internacional de derechos humanos, in El Cotidiano, 11/2009, pp. 51-66. Recente è anche l’Osservazione generale n. 34 del Comitato dei Diritti dell’Uomo dell’ONU, relativa all’art. 19 del Patto internazionale delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici, adottata a Ginevra nel 2011, durante la 102esima sessione del Comitato: “[i]l divieto delle dimostrazioni di mancanza di rispetto per una religione o un altro sistema di credenze, incluse le leggi sulla blasfemia, è incompatibile con il Patto, tranne per le circostanze previste esplicitamente nel § 2 dell’art. 20 [v. retro pagina 32]” § 48. Cfr. M. OLAYA GODOY, Límites a la libertad de expresión en una sociedad multicultural, in AA.VV., La libertad de expresión. Su posición preferente en un entorno multicultural, cit., pp. 147 s. 111 Rapporto sulle Relazioni tra libertà d’espressione e libertà di religione, cit., § 64. 112 L. LÓPEZ GUERRA, Libertad de expresión y libertad de religión a la luz de la jurisprudencia del Tribunal Europeo de Derechos Humanos: blasfemia e insulto a la religión, cit., p. 91. 113 Fra le ultime Risoluzioni adottate dal Parlamento europeo vi è la n. 2031 (2015) adottata proprio in risposta (democratica) agli attentati di Parigi. Nel punto 5 di detta Résolution si legge che “l’uso della satira, anche irriverente, e di informazioni o di idee «offensive, scioccanti o inquietanti», comprese le critiche alla religione, sono protette nell’ambito della libertà di espressione sancita nell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Sono là le condizioni del pluralismo, della tolleranza e dell’apertura di spirito, senza le quali non potrebbe esserci una società democratica”. 114 Più di un dubbio a tal proposito è avanzato da J. MARTÍNEZ TORRÓN, La tragedia de Charlie Hebdo: algunas claves para un análisis jurídico, in El Cronista, 50/2015, pp. 22-31. 115 Un’ampia analisi delle normative di molti ordinamenti continentali si trova in I. VLADISLAVOVIČ PONKIN, In merito alla tutela dei sentimenti religiosi e della dignità individuale dei credenti, in questa Rivista, 26 febbraio 2016, 1 ss. Tale A. giunge, però, a conclusioni diverse da quelle a cui si è qui pervenuti. 116 Per una seppur succinta analisi della Convenzione sudamericana, ci si permette di rinviare a Libertà di espressione e tutela dei sentimenti religiosi in Spagna e diverse opzioni in materia di alcuni Stati Latinoamericani, in corso di pubblicazione in un Volume collettaneo curato da A. Morelli e G. Poggeschi, Ridere dell’altro. Libertà di espressione e sacralità religiosa nella democrazia pluralista. 117 Si può ricordare l’Informe anual de la comisión interamericana de derechos humanos 2008, volumen III. Informe de la relatoría especial para la libertad de expresión secretaría general organización de los estados americanos, Washington, 2009, 266, nel quale è riportata la Dichiarazione congiunta sulla diffamazione delle religioni e sulla legislazione anti-terrorismo e anti-estremista. Questa si apre salutando con favore la circostanza che “un numero crescente di paesi ha abolito le limitazioni alla libertà di espressione per proteggere la religione (si v. le leggi sulla blasfemia), e osservando che tali leggi sono usate con frequenza per prevenire le critiche legittime

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contro leaders religiosi, e per sopprimere i punti di vista delle minoranze religiose, i credenti dissidenti e i non credenti, e che sono applicate in forma discriminatoria”. Il 10 dicembre 2008 si adotta la Dichiarazione che si apre affermando che “[i]l concetto di «diffamazione delle religioni» è incompatibile con gli standards internazionali in materia di diffamazione, che si riferiscono alla protezione della reputazione dei singoli e non delle religioni che, come tutte le credenze, non hanno il diritto di reputazione. Le restrizioni alla libertà di espressione devono limitarsi alla tutela degli interessi sociali e dei diritti individuali di primaria importanza, e non devono mai essere utilizzati per proteggere le istituzioni o le idee, concetti o credenze astratte, incluse quelle di indole religioso. Le restrizioni alla libertà di espressione per evitare l’intolleranza devono limitarsi all’apologia dell’odio nazionale, razziale o religioso che costituisce incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza. Le organizzazioni internazionali, tra cui l’Assemblea Generale dell’ONU e il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, dovrebbero desistere dall’adozione di dichiarazioni ulteriori che sostengono la nozione di «diffamazione delle religioni» [Il riferimento va alla criticata Risoluzione Diffamazione delle religioni adottata dalla Commissione dei Diritti Umani dell’ONU nel 1999 e riproposta fino al 2005]”.

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LE SORTI DEL PROCEDIMENTO DI PREVENZIONE NEL CASO DI INCAPACITÀ PROCESSUALE DEL SOGGETTO ‘PROPOSTO’

Nota a Corte cost., sent. 6 giugno 2017

(dep. 17 luglio 2017), n. 208, Pres. Grossi, Red. Lattanzi

di Dario Albanese

SOMMARIO: 1. In breve: la decisione. – 2. La vicenda processuale e la questione di legittimità costituzionale. – 3. Gli snodi motivazionali della sentenza. – 4. Alcuni spunti di riflessione. – 4.1. La rilevanza della particolare natura del procedimento di prevenzione patrimoniale. – 4.2. Se il soggetto incapace non può considerarsi pericoloso per la sicurezza pubblica… – 4.3. Se il soggetto incapace può considerarsi pericoloso per la sicurezza pubblica… – 5. Conclusione.

1. In breve: la decisione. Nell’approcciarsi a quel «terzo binario»1 delineato dalla materia delle misure di

prevenzione, l’interprete deve tenere in considerazione le profonde differenze che intercorrono tra le misure ‘personali’ e quelle ‘patrimoniali’, istituti fra di loro autonomi e che, limitando differenti diritti, possono dirsi rispondenti a differenti finalità. Una 1 L’espressione è di F. BASILE, Brevi considerazioni introduttive sulle misure di prevenzione, in AA. VV. Le misure di prevenzione dopo il c.d. codice antimafia. Aspetti sostanziali e aspetti procedurali, in Giur. It., 2015, 6, p. 1520.

Abstract. Nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Napoli, con la sentenza in commento la Corte costituzionale ha fornito le indicazioni necessarie per ricostruire la disciplina applicabile al procedimento di prevenzione nel caso di incapacità del soggtto ‘proposto’ di parteciparvi coscientemente. Due sono i pilastri che reggono il ragionamento seguito dal giudice delle leggi: da una parte la diversa rilevanza costituzionale della libertà personale e del patrimonio (rispettivamente incisi dalla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dalla confisca); dall’altra la particolare natura del procedimento di prevenzione per l’applicazione di una misura patrimoniale. Dopo aver ripercorso gli snodi motivazionali dell’arresto, il presente contributo si propone di mettere in luce alcuni spunti di riflessione che si possono trarre dall’incidente di costituzionalità.

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fisionomia tanto diversa che, inevitabilmente, non può non riflettersi sulla disciplina procedimentale che ne deve rispettivamente governare l’applicazione.

È sostanzialmente questa la cartina tornasole che la Corte costituzionale ha utilizzato per affrontare il nodo che faceva da sfondo alla questione di legittimità costituzionale di cui è stata investita, ovvero quale debba essere la sorte del procedimento di prevenzione allorché venga accertata l’incapacità del proposto di parteciparvi coscientemente.

Sull’individuazione della disciplina applicabile, secondo quanto indicato dalla Consulta, grava proprio il distinguo sopra richiamato.

Da una parte – con le misure di prevenzione personali – viene infatti in rilievo «il bene supremo della libertà della persona»2, sicché neppure le «profonde differenze»3 tra il procedimento di prevenzione ed il processo penale consentono di soprassedere ad un consapevole ed attivo esercizio del diritto di difesa. Conseguentemente, dovrà trovare applicazione la disciplina dettata dagli artt. 70 ss. c.p.p.: in caso di incapacità del proposto, il giudice dovrà disporre la sospensione del procedimento, che potrà essere revocata al fine di rigettare la proposta di applicazione di una misura di prevenzione personale una volta accertata l’assenza di pericolosità sociale.

Ben diverso scenario si presenta invece laddove si intenda incidere sul patrimonio, sulla «libera disponibilità dei beni»4. Il procedimento per l’applicazione della confisca, infatti, presenta una natura «tale da non comportare necessariamente l’autodifesa da parte del proposto», e pertanto potrà avere corso anche nel caso di provata incapacità dello stesso.

2. La vicenda processuale e la questione di legittimità costituzionale. Prima di esporre l’iter interpretativo che aveva indotto il Tribunale ordinario di

Napoli5 a sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 72 c.p.p., gioverà ripercorrere, brevemente, la vicenda processuale.

Nel maggio 2003 C.B. veniva colpito da arresto cardio-respiratorio da overdose di cocaina, precipitando in un gravissimo stato di salute, destinato ad aggravarsi negli anni successivi.

Nel giugno 2011 il Tribunale ordinario di Napoli, su proposta del Procuratore distrettuale antimafia e del Questore, aveva sottoposto a sequestro numerosi beni mobili e immobili intestati allo stesso C.B. – proposto anche per l’applicazione di una misura di prevenzione personale – ed ai suoi familiari.

Nel corso del procedimento era subito emerso che il grave deterioramento mentale in cui versava avrebbe impedito a C.B. di partecipare consapevolmente al

2 Cfr. §7 della sentenza. 3 Così, da ultimo, Corte Cost., 09.06.2015, n. 106, richiamata dalla sentenza in commento sub §7. 4 Cfr. §8 della sentenza. 5 Cfr. Trib. ord. Napoli, Sez. misure di prevenzione, ord. 29.09.2015, pubblicata in G.U., I Serie Speciale, n. 4, 2016.

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procedimento. Così, l’autorità giudiziaria procedente, osservando la norma di cui all’art. 71 c.p.p., ritenuta applicabile anche nel giudizio di prevenzione, aveva disposto la sospensione del procedimento.

Dai successivi accertamenti peritali sullo stato di mente del C.B., disposti ai sensi dell’art. 72, co. I, c.p.p., era emerso che l’incapacità del proposto era divenuta irreversibile.

Secondo i giudici partenopei, le condizioni di salute del proposto erano tali da escludere in radice che la sua pericolosità sociale fosse attuale, essendo egli del tutto privo della capacità di intendere e di volere. Così, insussistente uno dei presupposti essenziali6 (la pericolosità per la sicurezza pubblica), la richiesta di applicazione di una misura di prevenzione personale doveva necessariamente essere rigettata.

Tuttavia, ad avviso del giudice rimettente, l’irreversibile incapacità processuale di cui si è detto era tale da provocare una «permanente stasi processuale», che avrebbe costretto C.B. ad indossare le vesti dell’«eterno proposto»7.

A tale conclusione il Tribunale era giunto attraverso una stretta interpretazione dell’art. 72, co. II, del codice di rito. Secondo tale disposizione, perdurante l’impossibilità per l’imputato di partecipare coscientemente al procedimento, il giudice può revocare l’ordinanza di sospensione soltanto al fine di pronunciare una sentenza di proscioglimento (in giudizio) o di non luogo a procedere (in udienza preliminare). E, ad avviso del giudice, il rigetto della proposta di applicazione di una misura ‘personale’ non sarebbe in alcun modo riconducibile a tali provvedimenti, sconosciuti alla disciplina della materia de qua, e aventi «ragione di essere solo […] innanzi alla contestazione di ipotesi di reato»8.

Pertanto, al giudice della prevenzione sarebbe stata preclusa la possibilità di rifarsi al disposto dell’art. 72, co. II, c.p.p. e revocare l’ordinanza sospensiva precedentemente emessa.

Analoga stasi procedimentale avrebbe peraltro riguardato la (congiunta) richiesta di confisca dei numerosi beni già sottoposti a sequestro.

In questo ambito, tuttavia, l’irreversibile incapacità processuale del proposto, e la conseguente assenza di attualità della pericolosità, non avrebbero di per sé imposto ai giudici di rigettare la proposta. È infatti noto che, a seguito delle importanti modifiche normative introdotte, nella previgente disciplina (l. 575/1965), dal d.l. 92/2008, conv. dalla l. 125/2008, ed oggi recepite dal c.d. codice antimafia (d.lgs. 159/2011), le misure di prevenzione patrimoniali possono essere disposte anche disgiuntamente da quelle personali. La loro applicazione, inoltre, prescinde dall’attuale pericolosità del soggetto di cui intendono colpire il patrimonio, e addirittura il relativo procedimento può essere avviato successivamente al suo decesso.

Come si osserva nell’ordinanza di rimessione, la disciplina che governa la confisca di prevenzione è del resto coerente con la finalità che le si è voluto imprimere: 6 La «pericolosità sociale» richiesta – nella previgente disciplina – dall’art. 2-bis, co. VI-bis, l. 575/1965, oggi trasposta nella «pericolosità per la sicurezza pubblica» evocata dall’art. 6, co. I, d.lgs. 159/2011. 7 Cfr. Trib. Napoli, ord. 29.09.2015, cit. 8 Cfr. Trib. Napoli, ord. 29.09.2015, cit.

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trascurando il paradigma (più marcatamente preventivo) di neutralizzazione della pericolosità di un determinato soggetto, essa persegue l’obiettivo di contrastare l’illecita acquisizione ed accumulazione di patrimoni illeciti, e di «sottrarre definitivamente il bene al circuito economico di origine, per inserirlo in altro esente dai condizionamenti criminali che condizionano il primo»9.

Così, il giudice rimettente aveva evidenziato che tale finalità poteva – e doveva – essere perseguita anche nel caso sub judice. L’irreversibile incapacità di intendere e di volere del proposto, determinante l’assenza di pericolosità attuale, lasciava dunque inalterata l’esigenza di compiere gli opportuni accertamenti finalizzati – eventualmente – alla confisca dei beni già sequestrati. In particolare, il giudice avrebbe dovuto accertare la pericolosità del C.B. al momento dell’acquisto dei beni10, nonché la loro provenienza illecita o l’ingiustificata sproporzione rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta (come previsto, oggi, dall’art. 24, co. I, d.lgs. 159/2011).

Tuttavia, nella ricostruzione del giudice a quo, nessuna disposizione avrebbe consentito di revocare l’ordinanza di sospensione emessa ai sensi dell’art. 71, co. I, c.p.p., al fine di dare corso al procedimento di prevenzione patrimoniale pur in presenza di un’irreversibile incapacità del proposto. E ciò in quanto le sole ipotesi in cui detta sospensione deve essere revocata sono contemplate dall’art. 72, co. II, c.p.p., e consistono, da una parte, nel venir meno dello stato di incapacità processuale, e, dall’altra, nella necessità di pronunciare una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere.

Ricapitolando, secondo la ricostruzione che si ricava dalla lettura dell’ordinanza di rimessione, l’irreversibile stato di salute del C.B. aveva provocato una ‘stasi processuale’ dal duplice effetto: da un lato non consentiva al giudice di rigettare la richiesta di applicazione di una misura di prevenzione personale, pur nell’accertata assenza di attuale pericolosità del proposto; dall’altro non consentiva di ridare corso al procedimento, al fine di valutare la sussistenza dei presupposti per disporre la confisca dei beni.

Nella prospettazione del giudice rimettente, una siffatta impasse procedimentale sarebbe stata superabile soltanto attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 72, co. II, c.p.p., che avrebbe dovuto riguardare solo il procedimento relativo all’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale. In particolare, tale pronuncia avrebbe dovuto colpire quella parte della disposizione che non permette di revocare l’ordinanza di sospensione del procedimento di applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, ove sia accertata l’irreversibile incapacità processuale del proposto.

Due i parametri costituzionali asseritamente lesi da un siffatto quadro normativo.

9 Così Corte cost., 08.10.1886, n. 335, richiamata dall’ordinanza di rimessione. 10 Come ha ricordato Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2014 (dep. 2 febbraio 2015), n. 4880, ric. Spinelli, §8.5. Per un’attenta analisi della pronuncia cfr. F. MAZZACUVA, Le Sezioni Unite sulla natura della confisca di prevenzione: un’altra occasione persa per un chiarimento sulle reali finalità della misura, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 4/2015, pag. 231 ss.

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Da una parte veniva lamentata la lesione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.), in quanto l’imputato nel processo penale ed il proposto nel procedimento di prevenzione sarebbero stati soggetti ad una disciplina irragionevolmente differenziata.

Dall’altra, il vigente art. 72 c.p.p. avrebbe rappresentato un vulnus al diritto di difesa (art. 24 Cost.) del proposto incapace (nonché dei terzi intestatari dei beni), precludendogli ogni possibilità di far valere le proprie ragioni attraverso il curatore speciale per dimostrare la lecita provenienza dei beni già in sequestro.

3. Gli snodi motivazionali della sentenza. Nell’affrontare la questione sottopostagli, il giudice delle leggi prende le mosse

da quanto osservato dal Tribunale di Napoli in relazione all’impossibilità di revocare l’ordinanza di sospensione del procedimento per respingere la proposta di applicazione di una misura personale.

Come si è detto, secondo il rimettente non sarebbe stata possibile alcuna assimilazione tra il provvedimento con cui viene respinta la proposta nel procedimento di prevenzione e la sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, per emettere le quali il giudice è invece legittimato a revocare l’ordinanza di sospensione, secondo quanto disposto dall’art. 72, co. II, c.p.p.

Sul punto, la Corte costituzionale si limita ad osservare che, esclusa l’applicazione diretta della disposizione appena richiamata, proprio perché il procedimento di prevenzione non si conclude con sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere, «non c’è alcuna ragione per escluder[n]e anche l’applicazione analogica»11.

Il provvedimento con cui il giudice della prevenzione, riscontrata la non pericolosità del soggetto proposto, respinge l’istanza di applicazione di una misura ‘personale’, può infatti dirsi una «decisione sostanzialmente assolutoria»12. Pertanto, una volta emessa un’ordinanza di sospensione del procedimento ai sensi dell’art. 71 del codice di rito, non potrà non trovare applicazione altresì la disposizione successiva. Il giudice rimettente, dunque, una volta riscontrata l’insussistenza di uno dei presupposti indefettibili per l’applicazione di una misura di prevenzione personale, avrebbe dovuto revocare la sospensione del procedimento e rigettare la relativa proposta.

A ben diversa soluzione giunge la Corte costituzionale nell’indicare quale sorte sarebbe dovuta spettare alla proposta di applicazione della confisca di prevenzione.

Anzitutto, viene affermato che sarebbe un errore accostare su di un medesimo piano il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione personali e quello per l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, ritenendo per entrambi applicabile la disciplina prevista dagli artt. 70 ss. c.p.p.

11 Cfr. §4 della sentenza. 12 Cfr. §4 della sentenza.

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Se si guarda alle disposizioni specificamente dedicate al procedimento di prevenzione13, risulta centrale l’espresso rinvio alla disciplina che regola il procedimento di esecuzione, prevista all’art. 666 c.p.p., e applicabile anche nei procedimenti in materia di misure di sicurezza (cfr. art. 678, co. I, c.p.p.). L’art. 666 c.p.p., al comma VIII, stabilisce che, nel caso di infermità mentale del soggetto interessato, si procede nei confronti del tutore o del curatore (o del curatore provvisorio, appositamente nominato dal giudice in assenza dei primi). Tale schema procedimentale, dunque, esclude che l’incapacità della persona comporti la sospensione del procedimento.

Di fronte a questa specifica disposizione, è precipuo compito dell’interprete valutare se essa sia compatibile «con la natura e la struttura del procedimento di prevenzione»14, e tale valutazione deve essere condotta esaminando separatamente l’ipotesi in cui esso abbia ad oggetto misure di prevenzione personali, e quella in cui abbia ad oggetto misure di prevenzione patrimoniali.

Solo in caso di incompatibilità tra la disposizione dell’art. 666, co. VIII, c.p.p. e la struttura del procedimento di prevenzione dovrà trovare applicazione (in via analogica) la disciplina prevista, per il processo penale, dagli artt. 70 ss. c.p.p.

Muovendo da questa premessa, la Consulta arriva a concludere che la disciplina dettata per il procedimento di esecuzione può dirsi incompatibile con il procedimento di prevenzione soltanto laddove venga in rilievo l’applicazione di una misura di prevenzione personale, e dunque solo in questa ipotesi il giudice dovrà rifarsi alla disciplina prevista per il processo penale, emettendo un’ordinanza di sospensione. Ciò, come si è già accennato in premessa, deriva dalla «particolare rilevanza costituzionale» della libertà personale, che non può in alcun modo essere compressa senza che sia garantita al soggetto proposto un «consapevole ed attivo» esercizio del «diritto di difesa e di autodifesa»15, che verrebbe sacrificato se fosse possibile procedere nonostante lo stato di incapacità.

Al contrario, la disciplina dedicata all’applicazione della confisca di prevenzione mostra come la ‘presenza fisica’ del soggetto proposto non rappresenti una «condizione ineludibile» per l’instaurazione del relativo procedimento. Questo, una volta deceduto il soggetto ritenuto socialmente pericoloso, può infatti proseguire – o addirittura essere avviato – «nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare» (cfr. art. 18, co. II e III, d.lgs. 159/2011).

Un siffatto quadro normativo già in passato ha superato il vaglio della Corte costituzionale, venendo ritenuto legittimo proprio in ragione delle peculiarità del procedimento di prevenzione, che lo differenziano profondamente dal processo penale,

13 V., per il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione personali, l’art. 7, co. IX, d.lgs. 159/2011, richiamato a sua volta dall’art. 23, co. I, d.lgs. 159/2011 che disciplina il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali. Nella previgente disciplina, l’ultimo comma dell’art. 4 l. 1423/1956 faceva rinvio alle «norme del codice di procedura penale riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi all’applicazione delle misure di sicurezza». Con riferimento alle misure di sicurezza, l’art. 678 c.p.p. a sua volta rinvia all’art. 666 c.p.p., relativo al procedimento di esecuzione. 14 Cfr. §6 della sentenza. 15 Cfr. §7 della sentenza.

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e che risultano particolarmente significative allorché esso sia diretto ad incidere non sulla libertà personale, ma sul patrimonio16.

Tanto è risultato sufficiente, al giudice delle leggi, per concludere che, se «la natura del procedimento per l’applicazione della confisca è tale da non comportare necessariamente l’autodifesa del proposto», non vi è alcuna ragione per sospendere il procedimento in caso di incapacità dello stesso di parteciparvi in modo cosciente.

A rendere legittima una tutela ‘attenuata’ del diritto di difesa, che viene così ad essere esercitato dal tutore o dal curatore, è – conclude la Corte – proprio la natura del procedimento di confisca, che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha già avuto modo di qualificare in termini di «actio in rem»17.

4. Alcuni spunti di riflessione. Le indicazioni interpretative con cui la Corte costituzionale ha dichiarato

infondata la questione di legittimità costituzionale offrono, già ad una prima lettura, interessanti spunti di riflessione. Pur nell’economia di questa breve nota, di seguito si proverà ad evidenziarne alcuni.

4.1. La rilevanza della peculiare natura del procedimento di prevenzione patrimoniale. Come si è già detto, ad essere determinante per la soluzione della questione

sollevata dal Tribunale di Napoli è la differente rilevanza costituzionale dei diritti che vengono rispettivamente compressi dall’applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza (con o senza divieto di soggiorno in uno o più comuni, o obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora) e dalla confisca di prevenzione.

Il «bene supremo della libertà della persona, suscettibile di essere pesantemente inciso da una misura di prevenzione personale»18, è stato infatti ritenuto tale da richiedere necessariamente un consapevole esercizio del diritto di autodifesa19.

Tuttavia, non si deve trascurare che, nelle fondamenta della motivazione, a tale bilanciamento si affianca con forza un altro elemento, ovvero la particolare natura del procedimento di prevenzione patrimoniale20.

16 Cfr. Corte cost., 09.02.2012, n. 21, richiamata sub §8 della sentenza. 17 Cfr. §8 della sentenza, che rinvia a C.edu, 12.08.2015, Gogitidze e altri c. Georgia. Per una breve sintesi della pronuncia cfr. S. ZIRULIA – P. CONCOLINO, Monitoraggio Corte edu maggio 2015, sub g), in questa Rivista, 25 luglio 2015. 18 Cfr. §7 della sentenza. 19 Un’affermazione di principio di così ampia portata è idonea a riverberarsi anche nel procedimento per l’applicazione di una misura di sicurezza personale, in caso di infermità di mente sopravvenuta, come peraltro già da tempo suggerito in dottrina, cfr. L. DE MAESTRI, Il processo delle misure di sicurezza, Giuffrè, Milano, 1983, pag. 46. 20 Cfr. §8 della sentenza: «la natura del procedimento per l’applicazione della confisca è tale da non comportare necessariamente l’autodifesa da parte del proposto».

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Del resto, gli artt. 70 ss. c.p.p. trovano applicazione (e dunque viene garantito il diritto di autodifesa) anche laddove un processo penale sia instaurato per accertare la commissione di un reato punito con la sola pena pecuniaria, e dunque sia insuscettibile di colpire la libertà personale dell’imputato.

Ecco allora che la sentenza in commento si pone, in maniera decisa, in continuità con quella tradizione giurisprudenziale che da tempo mette in luce le importanti differenze che intercorrono tra la natura del processo penale e quella del procedimento di prevenzione, e tra le finalità della pena (anche pecuniaria) e quelle della confisca. A ben vedere, le coordinate interpretative indicate dalla Consulta – che, nel procedimento di prevenzione patrimoniale, consentono di sacrificare il diritto di autodifesa – restituiscono una disciplina che per certi versi rievoca il paradigma di un processo civile, piuttosto che quello di un processo penale.

Si pensi al caso in caso in cui la vittima di un reato decidesse di agire in sede civile al fine di ottenere il risarcimento del danno subito: anche in tale sede, ove il convenuto fosse incapace di intendere e di volere, il giudizio verrebbe instaurato nei confronti di chi lo rappresenta (cfr. art. 75 c.p.c. e artt. 414 ss. c.c.).

Proprio come il giudice civile chiamato a verificare la ricorrenza dei presupposti della responsabilità aquiliana, anche il giudice della prevenzione, investito della proposta per l’applicazione di una misura patrimoniale, potrebbe finire (e normalmente finisce21) per accertare la commissione di fatti penalmente rilevanti. Ciononostante, non trovano applicazione le garanzie previste per il processo penale, e a nulla rileva che il soggetto interessato non sia in grado di ‘autodifendersi’. E la ragione di un simile assetto pare risiedere esclusivamente nella natura delle conseguenze di tale accertamento (condanna al risarcimento del danno in sede civile; confisca dei beni di provenienza illecita o ingiustificatamente sproporzionati in sede di prevenzione), che non è diretto all’applicazione di una pena.

4.2. Se il soggetto incapace non può considerarsi pericoloso per la sicurezza pubblica… Allontanandosi dal cuore della decisione, ad avviso di chi scrive è di grande

interesse l’affermazione, più volte ricorrente nell’ordinanza di rimessione, secondo cui la pericolosità del soggetto proposto doveva essere esclusa in radice proprio in virtù della sua incapacità di intendere e di volere22.

21 E ciò in quanto il tentativo di costruire una disciplina rispettosa del principio di determinatezza (valorizzato con forza, nella materia de qua, in particolare dalla nota sentenza della Corte costituzionale n. 177 del 1980), ha fatto registrare una progressiva trasformazione delle categorie dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione, che, abbandonate le «fattispecie tipologiche d’autore», hanno sempre più ricalcato il «modello della fattispecie indiziaria», con un’evidente accentuazione del giudizio retrospettivo – volto ad accertare la commissione di fatti illeciti. Sul tema cfr. F. MAZZACUVA, Le persone pericolose e le classi pericolose, in AA. VV., Misure di prevenzione, S. FURFARO (a cura di), Utet, Milano, 2013, p. 479. 22 Cfr. Trib. Napoli, ord. 29.09.2015, cit.: «Quindi la sua eventuale pericolosità, così come prospettata nelle proposte in esame, non può più configurarsi in un soggetto del tutto privo della capacità di intendere e di volere, e dunque di

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L’assunto non può certo dirsi temerario o privo di fondamento, e sembra poter contare su almeno due argomenti.

In primo luogo, potrebbe sostenersi che le fattispecie soggettive previste dall’art. 4, d.lgs. 159/2011, sembrano tutte richiedere ed implicare una piena capacità di governo delle proprie azioni23, e pertanto si dovrebbe automaticamente escluderne la ricorrenza (che, nel caso di applicazione di una misura di prevenzione personale, deve essere verificata al momento della decisione) ogni qualvolta il soggetto proposto sia incapace di intendere e di volere.

D’altra parte, si potrebbe affermare che l’assenza di qualsiasi potestà cognitiva mal si concilia con lo stesso contenuto della sorveglianza speciale (con o senza divieto o obbligo di soggiorno), consistente in una serie di prescrizioni determinate dal giudice al momento della decisione (cfr. art. 8, co. II, d.lgs. 159/2011), difficilmente osservabili da un soggetto completamente incapace, e che pertanto si rivelerebbero prive di qualsiasi efficacia specialpreventiva.

Ma se così è, se dunque la «pericolosità per la sicurezza pubblica» (art. 6, co. I, d.lgs. 159/2011) che le misure di prevenzione personali mirano a neutralizzare corrisponde ad una pericolosità ‘cosciente’, ad avviso di chi scrive sarebbe sistematicamente più coerente ritenere che l’irreversibilità dell’incapacità processuale sia del tutto ininfluente rispetto alla disciplina procedimentale applicabile.

In altre parole, il giudice, una volta riscontrata l’incapacità di intendere e di volere del proposto (e dunque, nella chiave interpretativa che si sta seguendo, anche l’assenza di uno dei presupposti essenziali per l’applicazione di una misura di prevenzione personale, i.e. la pericolosità, generica o qualificata), con una valutazione rebus sic stantibus dovrebbe immediatamente rigettare la proposta, senza sospendere il procedimento in applicazione degli artt. 70 ss. c.p.p.

Una volta ‘smentito’ quanto affermato nella proposta avanzata dal questore o dal P.M., non vi sarebbe infatti alcuna ragione per ‘rinviare’ tale decisione «sostanzialmente assolutoria»24. Solo in questo modo il giudice della prevenzione si comporterebbe davvero come il giudice penale, il quale, una volta esclusa – per qualsiasi motivo – la possibilità di condannare l’imputato in relazione a quanto addebitatogli nel capo di imputazione, deve immediatamente pronunciare una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, anche in presenza di uno stato di incapacità processuale.

Ciò non toglie, tuttavia, che, una volta venuta meno l’incapacità del soggetto, ed emersa (o riemersa) una sua pericolosità attuale, una nuova proposta potrebbe essere successivamente avanzata nei confronti dello stesso.

ogni potestà cognitiva e volitiva. Perciò deve certamente escludersi uno dei requisiti essenziali per l'applicazione della misura di prevenzione personale ex art. 2 legge 575/65». 23 Si pensi, ad esempio, all’appartenenza ad associazioni mafiose, di cui alla lett. a, o al compimento di atti preparatori diretti alla ricostituzione del partito fascista, di cui alla lett. b. 24 Cfr. §4 della sentenza.

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4.3. Se il soggetto incapace può considerarsi pericoloso per la sicurezza pubblica… Se, invece, seguendo una diversa impostazione (invero meno convincente), si

ritenesse che lo stato di incapacità di intendere e di volere del soggetto proposto non sia di per sé incompatibile con la fisionomia delle misure di prevenzione personali, allora non vi sarebbe alternativa alla sospensione del procedimento, che si rende necessaria e si giustifica al solo fine di garantire al proposto il diritto di autodifesa.

In quest’ottica, però, l’accertata irreversibilità di tale incapacità non dovrebbe bastare, da sola, a far venir meno la possibilità di un’astratta sussistenza dei presupposti necessari per l’applicazione di una misura di prevenzione. Non si vede, cioè, per quale motivo un soggetto temporaneamente incapace potrebbe essere ritenuto attualmente pericoloso, mentre un incapace irreversibile sarebbe insuscettibile ad una valutazione di pericolosità attuale. In altre parole, se l’incapacità di intendere e di volere è compatibile con una valutazione di pericolosità attuale del proposto, l’irreversibilità di tale condizione non dovrebbe essere di per sé sufficiente a supportare una decisione di ‘sostanziale assoluzione’.

Tuttavia, pur ritenendo l’irreversibilità dell’incapacità processuale inidonea a giustificare una pronuncia di rigetto in chiave ‘assolutoria’, tale condizione non potrebbe comunque essere considerata ininfluente rispetto alle sorti del procedimento.

Sul tema, deve segnalarsi che il quadro normativo di riferimento – a seguito dell’entrata in vigore della c.d. Riforma Orlando25 – è mutato rispetto a quello vigente al momento in cui si è concluso l’incidente di costituzionalità qui esaminato.

Con la novella, il legislatore ha infatti inteso risolvere la spinosa questione dei c.d. ‘eterni giudicabili’. Per quanto qui interessa, ci si limita brevemente a segnalare che, nel corpo della disciplina codicistica relativa all’incapacità processuale dell’imputato, è stato introdotto il nuovo art. 72-bis c.p.p., rubricato «definizione del procedimento per incapacità irreversibile dell’imputato»26. Secondo la nuova disposizione, «se risulta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedire la cosciente partecipazione al procedimento e che tale stato è irreversibile», il giudice deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere (in udienza preliminare) o sentenza di non doversi procedere (in giudizio).

Superando la previgente disciplina, si è così abbandonata la logica della «sospensione protratta»27 (con parallelo decorso dei termini di prescrizione28), e si è optato per un’impostazione che ravvisa nell’incapacità irreversibile l’assenza di una condizione di procedibilità.

25 Per la consultazione del testo della riforma, corredata da una breve scheda di sintesi, si rinvia a A. GALLUCCIO, Pubblicata in Gazzetta Ufficiale la riforma Orlando, in questa Rivista, 06 luglio 2017. 26 Per una prima analisi del nuovo art. 72-bis c.p.p. cfr. M. GIALUZ-A. CABIALE- J. DELLA TORRE, Riforma Orlando: le modifiche attinenti al processo penale, tra codificazione della giurisprudenza, riforme attese da tempo e confuse innovazioni, in questa Rivista, 20 giugno 2017, §2. 27 Cfr. M. GIALUZ-A. CABIALE-J. DELLA TORRE, Riforma Orlando…, cit., pag. 3. 28 Meccanismo introdotto dalla nota pronuncia Corte cost., 14 gennaio 2015, n. 45, su cui cfr. M. DANIELE, Il proscioglimento per prescrizione dei non più ‘eterni giudicabili’, in questa Rivista, 20 aprile 2015.

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Sebbene la disciplina del procedimento di prevenzione non conosca (neppure) i provvedimenti contemplati dall’art. 72-bis c.p.p., anche in questo caso non si vede ragione che ostacoli un’applicazione analogica della norma.

Il giudice della prevenzione, così, se ha proceduto alla sospensione del procedimento di prevenzione (ritenendo potenzialmente applicabile una misura di prevenzione personale al soggetto interessato), una volta accertata l’irreversibilità dell’incapacità processuale dovrebbe sì porre fine al procedimento, ma il relativo provvedimento sarebbe sorretto non da una ratio ‘sostanzialmente assolutoria’, ma dall’impossibilità di assicurargli, anche in futuro, il diritto di autodifesa che gli spetta, condizione ineludibile per la proseguibilità del procedimento.

5. Conclusione. Per concludere con una considerazione di carattere generale, ad avviso di chi

scrive l’incidente di costituzionalità appena esaminato è rappresentativo di una delle più evidenti pecche della legislazione riguardante la prevenzione ante delictum, ovvero l’assenza di una disciplina procedimentale organica ed esaustiva, che pone frequenti dubbi interpretativi.

Troppo scarne le disposizioni contenute, oggi, nel c.d. codice antimafia; troppo impegnativo il ruolo demandato all’interprete, costretto a destreggiarsi tra lacune normative e rinvii a disposizioni del codice di rito, peraltro non sempre applicabili in virtù delle (per usare un’espressione forse abusata) ‘peculiarità’ del procedimento di prevenzione, che lo differenziano dal processo penale.

Si è di fronte ad un procedimento che dovrebbe essere «in linea con i principi del ‘giusto processo’»29, e che tuttavia risulta carente già se confrontato con il primo di essi: la legalità processuale (art. 111, co. I, Cost.).

Calata in questo quadro, la decisione appena commentata non può che essere apprezzata, in quanto, pur sviluppandosi lungo un percorso argomentativo contenuto, giunge a conclusioni condivisibili, traendole da una lettura delle disposizioni sistematica ed attenta alla ratio che le ispira.

L’augurio è che il legislatore non tardi a farsi carico del compito di fornire alle misure di prevenzione una disciplina procedimentale all’altezza della larga applicazione che questi istituti conoscono nella prassi. Intanto, dalla decisione in esame l’interprete potrà trarre un’importante linea guida: il procedimento di prevenzione è certamente cosa diversa rispetto al processo penale; tuttavia, laddove venga in rilievo il bene supremo della libertà personale, ogni sforzo ermeneutico dovrà essere guidato da una bussola il più possibile orientata verso il quadro delle garanzie riconosciute dal codice di rito.

29 Così si legge nella nota sentenza Cass. pen. Sez. Un., 25.03.2010, n. 13426, Cagnazzo.

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NOVITÀ LEGISLATIVE – LEGGI APPROVATE

La revisione del modello definitorio dell’infermità mentale prevista dalla riforma Orlando

di Pierpaolo Rivello 1. Anche se taluno potrebbe sostenere che qualunque tentativo riformatore su un tema così delicato, costituente oggetto di visioni talora contrapposte, rischia di produrre esiti non appaganti, e di causare danni maggiori rispetto ai vantaggi arrecati, riteniamo invece che debba essere espresso un giudizio ampiamente positivo sulla volontà, espressa dalla riforma Orlando, di pervenire ad una rivisitazione della materia. Partendo dal dato testuale, osserviamo come l’art. 16 abbia delegato il Governo ad adottare, nel termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, una serie di decreti legislativi, delineando al contempo i principi e criteri direttivi ai quali essi dovranno risultare ispirati. In particolare, alla lettera c) viene menzionata la revisione del modello definitorio dell’infermità mentale «mediante la previsione di clausole in grado di attribuire rilevanza, in conformità a consolidate posizioni scientifiche, ai disturbi della personalità». Questa indicazione appare estremamente importante e significativa, stante il carattere del tutto insoddisfacente dell’attuale assetto normativo. Deve peraltro essere posta in luce l’estrema complessità di questa tematica [1], essendo incerti i parametri per differenziare, dal punto di vista psichico, la “sanità” dalla “malattia”, la “normalità” (adottando così, per comodità espositiva, un termine che in realtà ha ben poco senso in tale settore) dall’ “anormalità”, la semplice anomalia caratteriale dall’infermità mentale. Non vi è nulla di “scontato” in un simile contesto, non essendo certo agevole apprezzare se vi è stata o meno la compromissione dell’Io di un determinato soggetto e verificarne il grado di intensità, onde comprendere, tra l’altro, quale possa essere il livello di alterazione del rapporto con la realtà. Fissare le coordinate di fondo, i parametri normativi a cui dovranno adeguarsi gli operatori appare dunque un’impresa particolarmente ardua. Oltretutto, non va dimenticato che una parte della dottrina, in considerazione di tali difficoltà, ha osservato che sarebbe addirittura preferibile pervenire a soluzioni legislative tendenti ad astenersi, quanto più possibile, dal fornire “definizioni” al riguardo [2]. Risulta peraltro difficilmente controvertibile l’opportunità di un intervento di riforma sul punto, proprio in considerazione del fatto che l’attuale schema, ricavabile dal dettato codicistico, appare ormai del tutto inaccettabile e non più compatibile con l’evoluzione che ha interessato la psichiatria, tanto che deve ormai darsi atto della sussistenza di un clima «conflittuale» intercorrente «tra giustizia penale e scienze empirico-sociali» [3], in quanto il mondo del diritto è ancorato a impostazioni da tempo sconfessate nei settori scientifici che dovrebbero costituire il necessitato punto di riferimento al riguardo. Si assiste infatti ad un incredibile “ritardo” in tal senso, giacché i parametri che avevano a suo tempo costituito il punto di riferimento del legislatore non sono assolutamente più attuali. La stessa impostazione sulla quale appare basato il concetto di imputabilità, ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p., viene giudicata priva di significato dalla prevalente scienza psichiatrica, che vorrebbe una modifica radicale dei suoi paradigmi [4].

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2. Sarebbe sicuramente fuorviante cercare di individuare quale l’orientamento “dominante” in ambito psichiatrico in relazione alla tematica dell’imputabilità. Bisogna infatti riconoscere come, a causa del processo di revisione operato dalla psichiatria in relazione ad una serie di concetti e di metodologie “tradizionali”, risulti estremamente accentuata la tendenza verso una diversificazione di “scuole”, che forniscono pertanto indicazioni assai differenti fra loro, finendo conseguentemente col disorientare chi, come il giudice, in quanto mero “fruitore” del sapere scientifico, si trova nella difficile situazione di dover scegliere tra orientamenti contrapposti senza possedere gli strumenti cognitivi per effettuare una simile opzione [5]. In passato, indubbiamente, la situazione era assai meno “problematica”. Infatti negli anni meno recenti la scienza psichiatrica, nella sua quasi totalità, accoglieva il modello “nosografico-clinico”, volto a sostenere che le infermità psichiche dovevano essere considerate come vere e proprie “malattie” del cervello; il disposto degli artt. 88 e 89 c.p. appare sostanzialmente strutturato in modo da permettere la fruizione di detti criteri nosografici. A sua volta la giurisprudenza, alla luce di questa impostazione tradizionale, riteneva che in tema di vizio di mente le anomalie incidenti sulla capacità di intendere e di volere erano solo le malattie mentali in senso stretto, nosograficamente delineate. Appariva infatti incontrastata la tesi in base alla quale la capacità di intendere e di volere andava ricollegata necessariamente alle alterazioni anatomo-funzionali della sfera psichica, clinicamente accertabili, o alle psicosi acute o croniche, atte a determinare un obnubilamento dei confini dell’Io, aventi parimenti un’origine organica, e doveva invece essere esclusa in presenza delle cosiddette abnormità psichiche, e pertanto non solo delle varie anomalie comportamentali ma anche dei disturbi della personalità, tra cui le psicopatie, che venivano qualificate come mere “caratteropatie”, essendo intese come anomalie del carattere inidonee ad influire sull’imputabilità di un soggetto, in quanto non indicative di uno stato morboso fondato su un substrato organico e basi anatomiche, e dunque non corrispondenti al quadro clinico di una malattia. Oggi peraltro, come già detto, la situazione appare indubbiamente modificata. Si è infatti assistito alla messa in crisi dello stesso concetto di malattia mentale ed è andata progressivamente delineandosi la consapevolezza della pluralità di fattori, non solo endogeni ma anche esogeni, che possono determinare l’insorgenza dei disturbi mentali; ciò ha comportato il ripudio di una visione eziologica monocausale, facendo comprendere che il concetto di “infermità mentale” è più ampio di quello della “malattia mentale”. A dire il vero, negli ultimissimi anni il paradigma organicistico, che sembrava ormai abbandonato, in qualche modo ha avuto una parziale rivalutazione a seguito degli studi nel campo delle neuroscienze [6], che hanno messo in luce la sussistenza di “risposte” neuronali diverse in soggetti affetti da determinate patologie. Questo risultato, tuttavia, può ritenersi pienamente compatibile con la considerazione in base alla quale tali “diversità” non derivano necessariamente da una “malattia”, ma discendono talora anche da fattori esogeni incidenti sul processo evolutivo del soggetto e sulla sua visione e percezione della realtà. Siamo comunque in un quadro caratterizzato dalla consapevolezza della pluralità dei fattori incidenti su simili tematiche, in una prospettiva incomparabilmente più ampia rispetto all’approccio limitato e tradizionale di alcuni decenni or sono.

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3. La riforma Orlando è giunta alla formulazione di un progetto di revisione in materia sulla base di premesse teoriche, indubbiamente assai significative, che dovranno essere poste a base del lavoro affidato al legislatore delegato. In primo luogo, si è ovviamente tenuto conto delle indicazioni provenienti dal campo psichiatrico, volte a considerare riconducibili alla nozione di vizio di mente anche i gravi disturbi della personalità [7] e le stesse nevrosi e psicopatie, purché esse si manifestino con un elevato grado di intensità e siano dunque tali da incidere significativamente, stante la loro rilevanza, sul funzionamento dei meccanismi intellettivi e volitivi dell’individuo. Sono parimenti state riprese le indicazioni emergenti, ad esempio, dal progetto Grosso in ordine a detta tematica [8]. Forse, peraltro, hanno pesato ancor più le conclusioni accolte dalla giurisprudenza ed in particolare dalla Cassazione a Sezioni Unite [9], con una sentenza indubbiamente innovativa e ricca di spunti rilevanti, molti dei quali hanno sicuramente rappresentato l’humus ideale di questa volontà di modifica [10]. Detta pronuncia in effetti permette di porre le premesse per un’opera di “rivisitazione” del concetto di infermità mentale, nell’ottica perseguita dalla riforma Orlando. Da un lato, in aderenza ad un’impostazione costante nel tempo, è stato negato che possano assumere rilievo, ai fini dell’imputabilità, sia le mere alterazioni e deviazioni di tipo caratteriale, legate all’indole del soggetto e tali da non influire sulla sua capacità di autodeterminazione, sia gli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, per le loro peculiarità specifiche, in un quadro più ampio di infermità. D’altro canto si è però affermato, come principio di diritto, che «ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di ‘infermità’ anche i ‘gravi disturbi della personalità’, a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale» [11]. Occorre prendere atto del fatto che l’intervento a cui è chiamato il legislatore delegato a seguito della riforma Orlando non potrà non tener conto del fatto che il termine di “infermità mentale” deve ormai essere accolto in un’accezione volta a trascendere l’ambito della “malattia mentale” [12], essendo attualmente ritenuta inaccettabile la tesi volta a considerare totalmente sovrapponibili le due nozioni ed in base alla quale dovrebbero essere ricomprese tra le “infermità mentali” le sole alterazioni patologiche clinicamente accertabili, e cioè unicamente le manifestazioni morbose aventi basi anatomiche e substrato organico. Il punto di partenza della riforma deve dunque essere rappresentato da quello che costituisce invece il punto d’arrivo dell’analisi a suo tempo condotta dalle Sezioni unite, con cui venne fatto riferimento a «una nozione più ampia di infermità rispetto a quella di malattia psichica», ed in base alla quale anche i disturbi della personalità appaiono idonei ad escludere o a scemare grandemente la capacità di intendere e di volere, in quanto detti disturbi, come in genere quelli da nevrosi e psicopatie, sebbene non riconducibili, dal punto di vista nosografico, entro il ristretto ambito delle “malattie” mentali, possono costituire delle “infermità”, magari transeunti, qualora determinino il risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive [13]. Ovviamente, spetterà al legislatore delegante aver cura di evitare che finiscano con l’essere confuse con i disturbi della personalità le semplici anomalie o “stranezze” comportamentali, ma, soprattutto, di chiarire, mediante idonee indicazioni, verosimilmente ancorate alla significativa gravità di tali disturbi, entro quali limiti essi possano incidere sull’imputabilità.

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[1] Per un approfondimento al riguardo v., volendo, P. Rivello, Libero arbitrio, responsabilità e imputabilità, in E. Casiglia (a cura di), Decisione, volizione, libero arbitrio, Padova, 2011, p. 212 ss. [2] M. Bertolino, Fughe in avanti e spinte regressive in tema di imputabilità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 850. [3] G. Fiandaca, Osservazioni sulla disciplina dell’imputabilità nel progetto Grosso, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 868. [4] V. le considerazioni al riguardo di F. Introna, Se e come siano da modificare le vigenti norme sull’imputabilità, in Riv. it. med. lgs., 1999, p. 657 ss. [5] M. Bertolino, Il nuovo volto del’imputabilità penale. Dal modello positivistico del controllo sociale a quello funzionale-garantista, in Ind. pen., 1998, p. 376 ss.; P. Rivello, La prova scientifica, Milano, 2014, p. 312 ss. [6] Cfr. S. Celestino, Imputabilità e sofferenza psichica, in A. Belvedere – S. Riondato (a cura di), La responsabilità in medicina. Trattato di biodiritto, Milano, 2011, p. 1064 ss.; I. Merzagora Betsos, Il colpevole è il cervello: imputabilità, neuroscienze, libero arbitrio: dalla teorizzazione alla realtà, in Riv. it. med. lgs., 2011, p. 180 ss. [7] Per un’individuazione di tale concetto in campo medico-psicanalitico v. O.F. Kernberg, Teoria psicanalitica dei disturbi di personalità, in J.F. Clarkin-M.F. Lenzenweger (a cura di), Milano, 1996, p. 107 ss. [8] In ordine alle specifiche indicazioni ricavabili da detto progetto v. M.T. Collica, Prospettive di riforma dell’imputabilità nel “Progetto Grosso”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 880 ss.; G. Fiandaca, Osservazioni, cit., p. 868. [9] Cass., sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, in Cass. pen., 2005, p. 1851, con nota di G. Fidelbo, Le Sezioni unite riconoscono rilevanza ai disturbi della personalità. [10] Per una lucida sottolineatura di questo aspetto v. in particolare G.L. Gatta, Riforma Orlando: la delega in materia di misure di sicurezza personali. Verso un ridimensionamento del sistema del doppio binario, in questa Rivista, 20 giugno 2017. [11] Cass., sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, cit., p. 1873. [12] V. in tal senso U. Fornari, I disturbi gravi di personalità rientrano nel concetto di infermità, in Cass. pen., 2006, p. 275 ss. [13] Sul punto v. anche M.T. Collica, Il giudizio di imputabilità tra complessità fenomenica ed esigenze di rigore scientifico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, p. 1170.

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NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI – GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE

Ancora un episodio nella storia dei conflitti tra poteri riguardo al sequestro di Abu Omar ed alle indagini collegate

Corte cost., sent. 13 luglio 2017, n. 183, Pres. Grossi, Rel. Modugno

di Guglielmo Leo

1. La sentenza qui pubblicata definisce un passaggio – non è dato sapere se definitivo – della lunghissima storia dei conflitti tra poteri dello Stato occasionati dalle indagini sul noto episodio di sequestro in danno di Abu Omar. La vicenda è ben conosciuta, e può essere comunque approfondita attraverso i contributi elencati al margine di queste brevi note. Il citato Abu Omar era stato sequestrato a Milano, per quanto poi accertato con sentenza definitiva, nel contesto delle cd. extraordinary renditions. Durante le indagini conseguenti, la Procura milanese aveva ritenuto di individuare, presso un appartamento sito a Roma, in via Nazionale, una sede non ufficiale dei Servizi di sicurezza militari, e ne aveva disposta la perquisizione (estate del 2006). Tra il materiale sequestrato, le ritenute prove documentali d’una indebita attività di dossieraggio a carico di esponenti delle Istituzioni italiane, tra i quali erano compresi anche alcuni magistrati. L’Autorità politica aveva apposto il segreto di Stato, relativamente a singole parti di alcuni documenti, solo successivamente all'intervenuto sequestro giudiziario, ed era nata una contesa (articolata in alcuni procedimenti di conflitto tra poteri) al fine di stabilire se l'Autorità giudiziaria fosse tenuta ad espungere dal fascicolo processuale quegli stessi documenti (come in effetti ha poi ritenuto la Corte costituzionale con la sentenza n. 106 del 2009). Nel frattempo, la Procura di Perugia (competente per i reati commessi in danno di magistrati operanti nel distretto romano), sul presupposto che la citata attività di dossieraggio fosse mirata a consentire campagne di discredito, e sul presupposto inoltre che un'attività del genere fosse estranea ai compiti istituzionali dei Servizi informativi, aveva proceduto nei confronti delle persone che operavano nella sede di via Nazionale (ipotizzando i reati di peculato, violazione di corrispondenza, rivelazione di segreto d’ufficio). Le accuse erano state estese a superiori gerarchici dei funzionari in questione. E parte degli indagati, nel corso dell'interrogatorio assunto dal Pubblico ministero, pur negando la sussistenza dei fatti, aveva dichiarato che in propria difesa avrebbe dovuto rivelare circostanze coperte dal segreto di Stato. Su richiesta dei magistrati procedenti, il Presidente del Consiglio dei ministri aveva confermato l'esistenza del segreto riguardo a quattro circostanze, argomentando sulla necessaria tutela degli «interna corporis» del Servizio interessato, nell'ottica di non rendere di pubblico dominio le modalità di organizzazione e le tecniche operative del Servizio medesimo. Il ricorso per conflitto sollevato in proposito dalla Procura era stato poi dichiarato infondato dalla Consulta (sentenza n. 40 del 2010). Tra l’altro, la Corte aveva chiarito che l’esercizio del diritto di difesa non può legittimare la rivelazione del segreto; che non rilevano eventuali difformità tra l’oggetto del quesito rivolto al Capo del Governo per la conferma del segreto e la risposta dello stesso Presidente del Consiglio; che il giudizio di quest’ultimo «in ordine ai mezzi necessari o utili al fine di garantire la sicurezza della Repubblica, per il suo carattere squisitamente politico e

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ampiamente discrezionale, resta soggetto a un sindacato di tipo esclusivamente parlamentare, essendo quella parlamentare la sede istituzionale “di controllo nel merito delle più alte e gravi decisioni dell'Esecutivo”»; che il giudice del conflitto ha il solo compito di verificare se l’Autorità politica, pur dovendo evitare lo svelamento dei dati segreti, abbia adempiuto all’obbligo di «giustificare, in termini congruenti e plausibili – nei rapporti tra poteri – lo “sbarramento” all'esercizio della funzione giurisdizionale conseguente alla conferma del segreto, dando atto delle considerazioni che consentono di ricondurre le notizie segretate agli interessi fondamentali riassumibili nella formula della sicurezza nazionale». 2. Naturalmente, occorre almeno una citazione generale per la parallela sequenza di conflitti che aveva coinvolto l’Autorità giudiziaria milanese ed i procedimenti relativi alle responsabilità per il delitto di sequestro in danno di Abu Omar e per i reati collegati. Qui tuttavia interessa seguire gli sviluppi del procedimento di Perugia nei confronti di coloro che avrebbero utilizzato le risorse conferite al Sismi per fini non istituzionali (ed oltretutto gravemente lesivi di libertà fondamentali). È la stessa sentenza in commento a riassumere gli avvenimenti più recenti, ricordando anzitutto come la platea degli accusati si fosse ridotta in fine a Pio Pompa (asserito gestore delle attività di via Nazionale) e Nicolò Pollari (in allora direttore del Servizio militare), e come l’unica imputazione ancora attuale, al momento dell’ultimo ricorso governativo, si riferisse al delitto di peculato. Dopo la sentenza n. 40 del 2012, il Giudice per l’udienza preliminare di Perugia aveva infatti dichiarato il non luogo a procedere, sia per prescrizione (relativamente a reati minori) sia per l’esistenza del segreto di Stato (quanto appunto al peculato). Tale ultimo provvedimento era stato tuttavia annullato dalla Corte di cassazione, su ricorso del Pubblico ministero, dovendosi chiarire se non bastasse l’accertamento della provenienza pubblica dei fondi utilizzati per il dossieraggio, pur nell’assenza delle notizie (segrete) sulle ipotetiche erogazioni del Sismi. Nel giudizio di rinvio (e dunque nella nuova udienza preliminare), ottenuta la parola, l’imputato Pollari ha elencato una serie di fatti asseritamente utili per la sua difesa, e tuttavia coperti, a suo dire, dal segreto di Stato. Il segreto, su richiesta del magistrato procedente, è stato sostanzialmente confermato dal Presidente del Consiglio in carica nel giugno del 2015. Nondimeno, in esito all’udienza preliminare in corso, il rappresentante del Pubblico ministero ha insistito per il rinvio a giudizio degli imputati in ordine al delitto di peculato aggravato e continuato. Il fatto ha scatenato una nuova reazione della Presidenza del Consiglio, la quale, con ricorso per conflitto (dichiarato ammissibile con ordinanza della Corte n. 217 del 2016), ha sollecitato l’annullamento della “richiesta di rinvio a giudizio”, che sarebbe stata formulata in violazione della disciplina del segreto di Stato. In verità l’oggetto del ricorso – come dimostrano le riflessioni svolte dalla Consulta con la sentenza in commento – non era affatto ben chiaro, e non risultava particolarmente improntato ad una considerazione precisa e tecnica degli atti processuali penali. Si consideri che la richiesta di rinvio a giudizio – mai prima impugnata dall’Autorità politica – risaliva nella specie al 2009, concretando le determinazioni del Pubblico ministero a norma dell’art. 405 c.p.p. e, in particolare, un atto di esercizio dell’azione penale a norma dell’art. 416 c.p.p. Nell’udienza preliminare di rinvio (16 luglio 2015) il rappresentante della Pubblica accusa si è limitato, ovviamente, a presentare le proprie conclusioni in favore del giudizio dibattimentale per la residua imputazione di peculato. Ad ogni modo, in esito ad una accurata analisi logica e testuale, la Corte ha ritenuto che l’Avvocatura erariale, su mandato del Presidente del consiglio, avesse inteso impugnare l’atto

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orale compiuto in udienza dal Pubblico ministero, impropriamente definito quale richiesta di rinvio a giudizio, e su questo presupposto ha vagliato (negativamente) l’ammissibilità del ricorso. Si può aggiungere, per completezza di informazione, che (in ossequio alla stessa giurisprudenza costituzionale) il procedimento penale è proseguito nelle more del giudizio per conflitto, e si è chiuso comunque con una sentenza definitiva di non luogo a procedere (la Procura di Perugia ha infatti rinunciato all’impugnazione inizialmente proposta). In sintesi, il Giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto che parte dei fatti confluiti nella contestazione di peculato andassero in realtà qualificati ex art. 323 c.p., e fossero quindi ormai estinti per decorso del termine prescrizionale. Quanto alle condotte residue, per quel che risulta dalla sintesi in proposito offerta dalla sentenza qui in commento, si è ritenuto che ostasse al loro perseguimento non direttamente il segreto di Stato, ma l’impossibilità per gli imputati di esercitare il proprio diritto di difesa in ordine al tema probatorio della provenienza dei fondi utilizzati per l’attività di dossieraggio. 3. Venendo alla decisione che la Consulta ha deliberato nella fase di merito del conflitto, non può stupire, dopo quanto si è detto, che sia stata dichiarata l’inammissibilità del ricorso, senza minimamente entrare nel merito delle questioni concernenti il segreto di Stato. Non rileva in tal senso la cessazione della materia del contendere nel procedimento posto all’origine del conflitto (giurisprudenza risalente, qui ribadita). Rileva, piuttosto, che non è stata impugnata la “richiesta di rinvio a giudizio”, come sarebbe stato ben possibile ancor oggi (non essendovi termini per la denuncia di una ipotetica violazione delle attribuzioni costituzionali del potere ricorrente), quanto piuttosto la “insistenza” del pubblico ministero, come manifestata mediante le conclusioni orali in chiusura dell’udienza preliminare. Ebbene, qui la Corte ha impartito al ricorrente una chiara lezione sulla “procedura” per conflitto di attribuzione che coinvolga il pubblico ministero. Quest’ultimo, sul piano soggettivo, è certamente un organo della Stato suscettibile di entrare in conflitto con organi non inseriti nell’amministrazione giudiziaria, perché abilitato ad esprimere in via definitiva le determinazioni del potere di appartenenza, riguardo ad attribuzioni conferite sul piano costituzionale, nella specie riferibili al dovere di esercizio dell’azione penale. Possono essere impugnate, di conseguenza, le determinazioni assunte in esito alle indagini preliminari, cioè la richiesta di archiviazione o gli atti di esercizio dell’azione penale, quali che siano. Possono certamente essere censurati anche atti di compimento dell’indagine preliminare, dei quali è storicamente riconosciuta la strumentalità all’esercizio dell’attribuzione conferita dall’art. 112 Cost. Ed invece, per quanto riguarda gli atti interni al processo posti in essere dal Pubblico ministero dopo l’esercizio dell’azione, la soluzione deve essere opposta, una volta considerato come dette attività non «ricadano sotto il cono della previsione dell’art. 112 Cost. […] non potendo essere configurate come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale». In particolare, «la formulazione delle conclusioni nell’udienza preliminare è atto espressivo, non dell’attribuzione costituzionale prevista dall’art. 112 Cost., ma delle tesi dell’organo dell’accusa in ordine alla regiudicanda (nella specie, riguardo al fatto che, anche dopo la nuova opposizione del segreto di Stato da parte di uno degli imputati e la sua conferma da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, sussistessero i presupposti per il rinvio a giudizio); tesi, come tali, carenti anche del connotato dell’idoneità lesiva, che pure condiziona, sul piano oggettivo, l’ammissibilità del conflitto tra poteri». Tanto che – la Corte ha aggiunto – eventuali conclusioni in favore del proscioglimento dell’accusato non varrebbero certo come revoca dell’azione penale, che per definizione è irretrattabile. In sostanza, l’agire del Pubblico ministero nell’ambito del processo incardinato dopo il rinvio a giudizio (o comunque dopo l’apertura del giudizio di merito), «è privo di qualsiasi portata

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“esterna” rispetto allo specifico alveo processuale in cui si iscrive». Può quindi affermarsi con una certa sicurezza che, per la giurisprudenza costituzionale, vanno considerati inammissibili tutti i ricorsi per conflitto concernenti atti interni al processo penale, tecnicamente inteso come procedura finalizzata alla verifica di merito dell’imputazione elevata dal Pubblico Ministero, comprese le fasi di grado successivo al primo e, con esse, compresi gli atti di impugnazioni. Non risulta che il principio fosse stato formalizzato in precedenza, ma la Corte, nella parte finale della propria sentenza, ha ricordato quanto già stabilito in un giudizio per conflitto tra enti (sentenza n. 163 del 2001): l’atto di appello «è privo di qualsiasi portata “esterna” rispetto allo specifico alveo processuale in cui si iscrive; esso esprime soltanto l’esercizio del diritto di reclamo che l’ordinamento assicura, “nel” e “per” il processo, a tutte le parti, pubbliche o private che siano. L’impugnazione, infatti, qualunque sia il soggetto legittimato a proporla, ha come termine oggettivo di riferimento, non la posizione delle parti in quanto tali, ma unicamente la statuizione giurisdizionale avverso la quale si reclama. Sicché, è la statuizione in sé – e non certo l’atto di gravame – ad essere se mai potenzialmente suscettibile di assumere quella rilevanza esterna al processo, idonea a perturbare la sfera delle attribuzioni costituzionalmente riservate ad enti o poteri dello Stato».

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Un nuovo profilo di illegittimità nella disciplina della recidiva e dei suoi effetti indiretti

Corte cost., sent. 17 luglio 2017, n. 205, Pres. Grossi, Rel. Lattanzi

di Guglielmo Leo 1. Con la sentenza n. 205, del 17 luglio 2017, la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità del quarto comma dell’art. 69 c.p., avuto ovviamente riguardo al testo introdotto con la cosiddetta legge ex Cirielli. La norma censurata dispone, com’è noto, che la recidiva reiterata non possa essere dichiarata subvalente rispetto a circostanze concorrenti di segno attenuante, con ciò provocando, specie in alcuni casi particolari, gravissimi squilibri sanzionatori. A partire dal 2012, la Consulta ha sindacato negativamente la scelta operata dal legislatore, senza tuttavia pervenire all’eliminazione in toto del meccanismo che deroga alla disciplina comune della comparazione tra circostanze di segno opposto. Si è preferito operare, piuttosto, mediante singole incisioni sul meccanismo, tali da riespandere l’ipotesi della soccombenza della recidiva rispetto a particolari ipotesi di attenuazione del trattamento sanzionatorio. Nel caso di specie - l’ultimo al momento - la norma derogatrice è stata dichiarata illegittima nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, della c.d. legge fallimentare (r.d.16 marzo 1942, n. 267), per effetto della quale sono ridotte fino ad un terzo le pene previste per la bancarotta (semplice o fraudolenta) e per il ricorso abusivo al credito, quando le relative condotte abbiano «cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità». La conseguenza, ovvia, è che nei singoli casi concreti il giudice, attraverso un giudizio di prevalenza dell’attenuante sulla recidiva reiterata, potrà irrogare sanzioni effettivamente inferiori al minimo edittale che segna le varie fattispecie incriminatrici.

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2. Non può certo dirsi che la riforma della recidiva, attuata con la legge n. 251 del 2005, fosse adeguatamente ispirata ai principi costituzionali. A circa dodici anni dalla sua attuazione, la logica della novella è risultata inaccettabile soprattutto nella sua funzione limitatrice della discrezionalità giudiziale: attraverso l’istituzione di “automatismi”, cioè di meccanismi di inasprimento del trattamento sanzionatorio legati al mero dato obiettivo dell’esistenza di precedenti a carico del reo, il sistema era stato orientato decisamente verso il tipo d’autore, sancendo uno squilibrio tra ruolo dell’offesa e ruolo della (presunta) pericolosità nella determinazione della pena. E ciò sebbene la valutazione del caso concreto, cioè dell’incidenza effettiva della recidiva sul piano della pericolosità e su quello della capacità a delinquere, costituisse ormai da tempo il perno della relativa disciplina. Nel contesto di una più generale ripulsa degli “automatismi” – quando non fondati su leggi di copertura ad affidabilità molto elevata – la giurisprudenza aveva reagito alla riforma contestando, tra l’altro, proprio la regola sancita al quarto comma dell’art. 69 c.p., nella parte in cui escludeva (ed ancora in parte esclude) la possibile subvalenza della recidiva reiterata rispetto a circostanze attenuanti di qualunque genere. Una regola che, come i fatti hanno poi dimostrato, comportava spesso conseguenze gravissime sul trattamento sanzionatorio (specie riguardo a fattispecie diminuenti con valori edittali propri), senza alcuna possibilità per il giudice di verificare se, nel caso concreto, quelle conseguenze fossero realmente giustificate dal disvalore connesso alla recidiva. Va ricordato, in breve, come la Consulta avesse inizialmente assunto un atteggiamento di grande prudenza, ed in particolare avesse valorizzato una sorta di commodus discessus per il giudice che trovasse troppo aspre le conseguenze della comparazione “vincolata” tra attenuanti e recidiva. Con la sentenza n. 192 del 2007, in particolare, la Corte aveva “suggerito” con forza (sia pure attraverso il metodo della dichiarazione di inammissibilità per omessa motivazione riguardo sui presupposti interpretativi della questione) soluzioni idonee a ridurre l’area di applicazione obbligatoria della recidiva, in particolare escludendone i casi regolati dal quarto comma dell’art. 99 c.p. (recidiva reiterata non qualificata). Si trattava di un metodo indiretto di soluzione del problema, non immune da critiche sul piano della coerenza di sistema. Certo, “disapplicando” la recidiva, il giudice poteva escludere uno dei presupposti per l’applicazione del criterio anomalo di comparazione con le attenuanti (cioè del quarto comma dell’art. 69), e quindi evitare le conseguenze sanzionatorie ritenute irragionevoli. Nondimeno, il ragionamento scontava una contaminazione tra discipline diverse: l’una fondata sul concreto rilievo dei precedenti in punto di pericolosità e capacità a delinquere, e l’altra sull’idoneità dei precedenti medesimi a giustificare sul piano razionale non soltanto l’applicazione dell’aggravante, ma la necessaria sua equivalenza (se non addirittura la prevalenza) su qualunque quadro attenuante, indipendentemente dalla ratio, dal numero e dall’incidenza concreta dei fattori diminuenti. Sono ben concepibili, per vero, casi nei quali non ha senso negare il rilievo dei precedenti, ma non ha senso neppure che gli stessi debbano privare di rilevanza le fattispecie di segno contrario, anche se molto significative sul piano dell’offesa o della stessa capacità criminale. Tutto ciò senza dire che la regola sulla comparazione non poteva essere elusa riguardo ai casi di recidiva obbligatoria, che certamente residuavano oltre ogni sforzo ermeneutico (comma quinto dell’art. 99 c.p.). Va subito aggiunto, per altro, come sia stata la stessa Corte costituzionale a mutare in seguito l’assetto della disciplina. Già con la sentenza n. 183 del 2011 era stato colpito un automatico effetto “indiretto” della recidiva reiterata, e cioè il divieto di fondare l’applicazione delle attenuanti generiche sulla condotta tenuta dal reo successivamente alla commissione del reato. Più recentemente, la Corte ha poi direttamente affrontato la “madre” di tutti gli automatismi

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concepiti per vincolare le discrezionalità del giudice nei confronti dei recidivi, cioè la previsione di applicazione obbligatoria della circostanza, capace appunto di provocare la proliferazione degli effetti indiretti, anch’essi talvolta obbligatori, connessi da singole norme alla condizione di recidiva. In particolare, con la sentenza n. 187 del 2015, il quinto comma dell’art. 99 c.p. è stato dichiarato illegittimo limitatamente alle parole «è obbligatorio e,»: una classica manipolazione, che ha reintrodotto la valutazione discrezionale del giudice anche per i gravi casi previsti dalla norma, riducendone la funzione alla sola previsione di un incremento di pena particolarmente severo, qualora la circostanza venga applicata, e non venga neutralizzata, in tutto od in parte, da attenuanti prevalenti od equivalenti. Oggi dunque, per tornare alla disciplina della comparazione tra circostanze, la possibilità di evitare effetti indiretti non ragionevoli della recidiva, mediante una scelta giudiziale di “disapplicazione” dell’aggravante, può considerarsi estesa ad ogni possibile fattispecie. E la Corte costituzionale resta dell’idea che la necessità concreta di applicare la circostanza (per quanto non più dovuta ad un regime obbligatorio) costituisce una condizione di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale riguardanti norme sugli effetti indiretti della recidiva. L’ha dimostrato nel corso degli anni (si vedano le ordinanze n. 409 del 2007, n. 33, 90, 193 e 257 del 2008, n. 171 del 2009) ed anche in tempi recentissimi. Con la sentenza n. 120 del 2017, infatti, è stata dichiarata inammissibile l’ennesima questione sollevata in rapporto all’art. 69, quarto comma, c.p., proprio perché, a giudizio della Consulta, il giudice rimettente non ha dimostrato a sufficienza la rilevanza della questione, non avendo argomentato compiutamente sulla necessità di fare applicazione dell’aggravante nel caso sottoposto al suo giudizio (caso nel quale il fattore di attenuazione contrapposto era costituito dall’imputabilità parziale per malattia di mente, ex art. 89 c.p.). Evidentemente, le critiche sulla contaminazione tra i diversi piani del ragionamento richiesto al giudice (se applicare la recidiva e, solo nel caso affermativo, come chiudere il giudizio di comparazione) non hanno convinto la Corte ad abbandonare la pretesa che l’applicazione dell’art. 69 c.p. costituisca, nel giudizio principale, un adempimento ineluttabile. 3. Si deve notare del resto come, dopo il cauto atteggiamento iniziale, la Consulta non abbia poi eluso il compito di vagliare direttamente la disciplina del concorso di circostanze, sia pur senza rinunciare, come appena si è visto, ad un sindacato sulla motivazione offerta, dal giudice rimettente, riguardo alla necessità di applicare la recidiva nel caso concreto. Già si è detto in apertura. Non v’è stata una valutazione sfavorevole a carattere generale del quarto comma dell’art. 69 c.p., cioè una stima negativa circa la tollerabilità costituzionale della regola che esclude la subvalenza della recidiva reiterata. Si è seguito piuttosto un metodo casistico, valutando l’accettabilità dell’automatismo in rapporto a singole fattispecie attenuanti, e giungendo ad esiti demolitori soprattutto in base alle caratteristiche precipue della fattispecie di volta in volta considerata. Una prima pronuncia in tal senso fu costituita dalla sentenza n. 251 del 2012, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui stabiliva il divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, cioè della disposizione concernente i fatti di lieve entità in materia di produzione, detenzione e cessione di sostanze stupefacenti. L’intervento della Corte era valso ad evitare che il giudice fosse costretto ad infliggere la pena minima di sei anni (art. 73, comma 1, del Testo unico), per fatti di entità anche ridottissima, in tutti i casi nei quali l'agente risultasse già condannato per un qualunque delitto non colposo, dopo averne commesso uno dello stesso genere. È noto che negli anni successivi alla decisione sono intervenute sostanziose modifiche del quadro normativo, tali che, ormai, la norma sul fatto lieve di narcotraffico è considerata generalmente

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espressiva di una fattispecie autonoma (tra le prime, ex multis, Cass., 15 ottobre 2013, n. 2295/14). La valenza dei principi affermati nella sentenza della Consulta, per altro, era e resta decisiva. Spetta certamente al legislatore la possibilità di alterare l’ordinario meccanismo di comparazione tra le circostanze, ma occorre che una siffatta discrezionalità sia esercitata in modo non manifestamente irragionevole, ciò che va escluso quando la recidiva può neutralizzare, in via “automatica” e non derogabile, fattispecie attenuanti concepite per fatti di rilevanza particolarmente modesta, e dunque segnate da valori edittali di pena assai ridotti rispetto alla figura principale del reato. Un meccanismo del genere, all’epoca molto evidente per i “fatti lievi” di narcotraffico, produce violazioni dei principi di ragionevolezza, di uguaglianza formale, di proporzionalità della pena; altera, in particolare, l’equilibrio imposto a livello costituzionale, dai principi di offensività e colpevolezza, tra dimensione oggettiva del fatto di reato e dimensione soggettiva, orientando il sistema verso una valorizzazione eccessiva del tipo d’autore. Il ragionamento fu ripreso dalla Corte un paio d’anni dopo, con una coppia di decisioni riguardanti, ancora una volta, il quarto comma dell’art. 69 c.p. Con la sentenza n. 105 del 2014 era maturata la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma, relativamente alla parte in cui escludeva la possibilità di prevalenza sulla recidiva reiterata della circostanza attenuante di cui all’art. 648, secondo comma, c.p. (si tratta, com’è noto, della ipotesi di particolare tenuità del delitto di ricettazione). Dalla sentenza n. 106 del 2014 era invece derivata l’espunzione dall’ordinamento della regola di non soccombenza della recidiva rispetto alla circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis, terzo comma, c.p. Nel primo caso si era notato tra l’altro come, per effetto della sola condizione di recidiva reiterata, il minimo edittale per la ricettazione “lieve” aumentasse di ben 48 volte, superando dunque di gran lunga lo stesso incremento di pena connesso, in linea generale, all’aggravante della recidiva: ciò che vanificava ogni criterio di proporzionalità ed implicava l’irragionevole equiparazione, nel medesimo contesto edittale, di situazioni illecite fortemente differenziate sul piano dell’offesa. Quanto al delitto di violenza sessuale, a ragionamenti in tutto analoghi s’era aggiunto il rilievo della particolare conformazione assunta dalla disciplina dopo la riforma del 1996. La concentrazione nell’unico tipo legale delle vecchie figure di violenza carnale e atti di libidine violenti, fino all’adozione di una nozione assai comprensiva di “atto sessuale”, aveva indotto la confluenza nella medesima cornice di pena di comportamenti davvero molto diversi tra loro, sul piano dell’offesa, della sofferenza della vittima, della capacità criminale dell’autore. Proprio la Consulta aveva avuto modo di notare come la creazione di un’ipotesi di “minore gravità”, segnata da un massimo di pena inferiore al minimo della sanzione comminata dalla fattispecie principale, valesse a compensare l’estrema dilatazione del tipo (sentenza n. 325 del 2005). E dunque, una volta introdotta la regola di non prevalenza dell’attenuante rispetto alla recidiva reiterata, era stato eliminato uno strumento essenziale per l’equilibrio complessivo della disciplina, con esiti del tutto irragionevoli, e contrari ai principi di uguaglianza e proporzionalità. 4. La sequenza degli interventi della Corte sul quarto comma dell’art. 69 c.p. è proseguita anche in tempi recenti. Con la sentenza n. 74 del 2016 la norma è stata dichiarata illegittima anche nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata dell’attenuante di cui all'art. 73, comma 7, del d.P.R. n. 309 del 1990. Si tratta della previsione per la quale tutte le pene previste nello stesso art. 73, che sanziona la detenzione illegale di stupefacenti e le connesse fattispecie di cessione e traffico, sono sensibilmente diminuite (dalla metà a due terzi) nei confronti di chi assume atteggiamenti collaborativi, ed in particolare «si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti».

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Come si vede, a differenza che nei casi precedenti, il meccanismo di comparazione tra circostanze non risultava alterato con riguardo ad un profilo del fatto delittuoso, ma relativamente ad un comportamento successivo al reato da parte del recidivo. Di qui la parziale originalità del percorso seguito dalla Corte, a partire dal rilievo che la previsione attenuante mira ad «incentivare il ravvedimento post-delittuoso del reo, rispondendo, sia all'esigenza di tutela del bene giuridico, sia a quella di prevenzione e repressione dei reati in materia di stupefacenti». È contraddittorio che il legislatore, nel caso dei recidivi, neutralizzi la spinta incentivante con la prescrizione che, anche nel caso di collaborazione, le pene dell'art. 73 (notoriamente molto elevate) non possano essere diminuite. La giurisprudenza costituzionale, del resto, aveva già censurato norme che svilivano su base presuntiva il significato della condotta susseguente al reato. Con la sentenza n. 183 del 2011 (dichiarativa della parziale illegittimità dall'art. 62-bis c.p.) s’era rilevato come la rigida presunzione d'una elevata capacità a delinquere - fondata sulla condizione di recidiva reiterata e tale da precludere l'applicazione di attenuanti generiche - fosse «inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento. Mentre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali», così da privare di ogni giustificazione razionale l’effetto preclusivo introdotto dal legislatore. Lo stesso ragionamento ovviamente s’è imposto, mutatis mutandis, di fronte alla pretesa che una condotta susseguente di particolare significato, come la collaborazione con gli inquirenti, restasse sempre inidonea, per il sol fatto della recidiva, ad indurre un effettivo contenimento dei valori di pena previsti per i fatti di narcotraffico. V'erano dunque ragioni congruenti e specifiche per pervenire, in quel contesto, ad una nuova dichiarazione di illegittimità. 5. In questo quadro, complesso ma piuttosto univoco, è maturata la decisione qui in commento, cioè la sentenza n. 205 del 2017, per effetto della quale, come detto in apertura, è stata restituita al giudice la possibilità di stabilire la soccombenza della recidiva reiterata rispetto alla diminuente speciale prevista per i fatti di bancarotta che abbiano «cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità». Alla luce dei precedenti, l’approdo della Corte appare frutto di un percorso logico e consolidato. Nella specie non s’è fatta questione della reale necessità di applicare la recidiva (il rimettente era del resto giudice del rinvio dopo un annullamento parziale in Cassazione, con il compito esclusivo di rideterminare il trattamento sanzionatorio in base ad un quadro circostanziale ormai consolidato). Subito piuttosto, nel merito, la Consulta ha confermato la premessa ormai rituale, che sembra vanificare la prospettiva di un “annullamento” radicale del quarto comma dell’art. 69 c.p.: il legislatore è libero di alterare il normale meccanismo di comparazione tra circostanze, anche riguardo allo specifico caso della recidiva reiterata, purché la scelta non produca esiti di manifesta irragionevolezza. Come nei casi precedenti, per altro, il vaglio dei Giudici costituzionali ha condotto ad un esito di incompatibilità con i principi di ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalità. E, come nei casi precedenti, l’analisi è stata prevalentemente incentrata sulle peculiari caratteristiche della circostanza chiamata alla comparazione con la recidiva. La Corte ha osservato preliminarmente come si tratti di una ipotesi ad effetto speciale, dovendo la formula della legge (pena ridotta «fino al terzo») essere intesa nel senso che i valori edittali sono potenzialmente ridotti di due terzi rispetto a quelli delle fattispecie incriminatrici interessate. Dunque, un fenomeno di forte divaricazione tra le cornici edittali, già riscontrato

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rispetto ad altre delle attenuanti “sottratte” alla regola del quarto comma dell’art. 69, ed in particolare segnato da sostanziale coincidenza tra massimo della pena prevista per l’ipotesi attenuata e minimo della pena applicabile nel caso di neutralizzazione della diminuente. In sostanza, un aumento di pena inevitabilmente ed irrazionalmente superiore finanche rispetto a quello che la recidiva reiterata imporrebbe una volta applicata ai valori di un’autonoma fattispecie di minor gravità. Di nuovo, citando sé stessa (sentenza n. 251 del 2012) e valorizzando la pertinenza dell’attenuante ad un forte scarto nell’offensività della condotta criminale, la Corte ha sanzionato la «abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato», così da sfigurare quel “diritto penale del fatto” che l’art. 25 della Costituzione, comma secondo, incardina quale modello essenziale del sistema criminale. Restano fondamentali le notazioni compiute nella già richiamata sentenza n. 251 del 2012 e nei seguiti pure già illustrati: «la recidiva reiterata “riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità”». E si protrarrebbe, dunque, uno strappo palese rispetto ai criteri dell’uguaglianza e della offensività. Ancora una volta, d’altra parte, la Consulta ha voluto espressamente riconoscere anche la violazione del principio di proporzionalità, ancorato nella specie, e secondo tradizione, al terzo comma dell’art. 27 Cost.: «la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica “un costante ‘principio di proporzione’ tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (sentenza n. 341 del 1994)». 6. Insomma, la giurisprudenza costituzionale ha certamente voluto prevenire una caduta radicale della scelta legislativa di vincolare, pur parzialmente, il giudizio di comparazione che coinvolga la recidiva reiterata. Probabilmente ha prevalso, accanto ad esigenze di coerenza rispetto ad assunti espressi riguardo ad altri meccanismi presuntivi dello stesso genere, qualche preoccupazione per la possibile prevalenza di attenuanti poco significative (o troppo discrezionali), a cominciare dalle attenuanti generiche. Non v’è dubbio comunque che, rispetto ad attenuanti ad effetto speciale, con funzioni precise ed essenziali (contenere gli scarti edittali, e mitigare i livelli di pena, per fattispecie di grande ampiezza, oppure incentivare comportamenti virtuosi dopo il reato), il giudizio della Consulta sia risultato fino ad oggi sempre negativo. V’è da chiedersi però, ancora una volta, se abbia senso un sistema che mira a vincolare la comparazione contra reum in un quadro ove il giudice può eludere comunque il vincolo medesimo, attraverso la recuperata e piena discrezionalità in punto di applicazione della recidiva (e dunque riguardo alla condizione che impone la valutazione comparativa ad esito parzialmente vincolato). Il tutto, col paradosso aggiuntivo di un depotenziamento della recidiva anche quando, secondo le regole proprie della sua applicazione, la stessa recidiva potrebbe ben trovare riconoscimento ad opera del giudice, e viene invece esclusa in base a regole non pertinenti, perché relative al diverso terreno della comparazione tra circostanze.

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Mancata estensione della non punibilità per particolare tenuità del fatto alla ricettazione di particolare tenuità: infondata (ma non troppo) la relativa questione di legittimità

Corte Cost., sent. 24 maggio 2017 (dep. 17 luglio 2017), n. 207, pres. Grossi, rel. Lattanzi

di Serena Santini

1. La mancata estensione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. alle ipotesi di ricettazione di particolare tenuità di cui all’art. 648, co. 2, c.p. è o non è irragionevole al cospetto dei principi costituzionali? Questo, in estrema sintesi, il quesito sollevato dal Tribunale di Nola con ordinanza del 14 gennaio 2016 (già pubblicata in questa Rivista con nota della sottoscritta: clicca qui per accedervi). Quesito al quale – lo anticipiamo – la Corte Costituzionale fornisce risposta negativa con la sentenza in commento, pur con alcuni distinguo che contengono utili indicazioni per il legislatore futuro. 2. Ma procediamo con ordine. Innanzitutto ricapitoliamo il caso che ha dato adito al giudizio di legittimità costituzionale. La vicenda trae origine da un processo penale a carico di un imputato, accusato di aver ricettato trentuno astucci di certa provenienza illecita in quanto muniti di marchi e segni distintivi contraffatti. A fronte di tale addebito, ritenuto fondato in punto di fatto, il Tribunale di Nola rileva che – in considerazione di una pluralità di indici, quali: la qualità, quantità e valore economico della merce ricettata, le modalità di vendita degli astucci in un mercatino rionale, lo stato di incensuratezza dell’imputato nonché la sua condotta complessiva – il fatto possa essere sussunto nella fattispecie attenuata della ricettazione di particolare tenuità di cui all’art. 648, co 2, c.p. Il Tribunale di Nola, tuttavia, osserva ulteriormente che – alla luce dei medesimi elementi valorizzati ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante – il caso di specie sarebbe astrattamente riconducibile ai casi di particolare tenuità di cui all’art. 131-bis c.p., se non fosse per l’insuperabile sbarramento normativo fissato dallo stesso art. 131-bis c.p.: la ricettazione, ancorché attenuata ai sensi del comma 2 dell’art. 648 c.p. ha, infatti, massimo edittale pari a sei anni, superiore, quindi, al limite inderogabile di cinque anni fissato dal primo comma dell’art. 131-bis c.p. 3. Siffatta impossibilità di applicare l’art. 131-bis c.p. nelle ipotesi di ricettazione di particolare tenuità, tuttavia, appare irragionevole agli occhi del giudice remittente. Tale irragionevolezza discenderebbe in particolare: a) in primo luogo, dalla disparità di trattamento tra le ipotesi di ricettazione attenuata, astrattamente gravi in quanto il relativo massimo edittale arriva a 6 anni di reclusione, che tuttavia in concreto si manifestano spesso come scarsamente offensive, e fattispecie di reato astrattamente meno gravi in quanto il relativo massimo edittale non supera i 5 anni – e che dunque rientrano del campo di applicazione dell’art. 131-bis c.p. –, ma che in concreto possono manifestarsi come assai lesive del bene giuridico tutelato. A tal proposito il Tribunale di Nola menziona – nel ruolo di tertia comparationis – sia delitti contro il patrimonio (caratterizzati dunque da una parziale omogeneità dei beni giuridici tutelati), sia una gamma eterogenea di altre fattispecie di reato caratterizzate da una diversità di bene giuridico. Tale disparità di trattamento

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non sarebbe sorretta «da valori rispondenti ad un principio di ragionevolezza» così traducendosi, in definitiva, in una lesione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; b) in secondo luogo, da considerazioni sistematiche: la scelta del legislatore di ancorare l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. al limite edittale massimo di cinque anni senza tenere in debita considerazione l’assetto complessivo delle singole fattispecie e del relativo trattamento sanzionatorio sarebbe «arbitraria» – e dunque sindacabile da parte della Corte Costituzionale – oltreché foriera di «difficoltà e storture nell’applicazione pratica». Da ciò il sospettato contrasto dell’art. 131-bis c.p. con l’art. 3 Cost sub specie di principio di uguaglianza e ragionevolezza «laddove, stabilendo che la disposizione del primo comma si applica anche quando la legge preveda la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante, non estende l’applicabilità della norma all’ipotesi attenuata di cui all’art. 648, comma 2, c.p., fattispecie [per l’appunto] irragionevolmente esclusa dall’ambito applicativo dell’art. 131-bis c.p. in ragione del limite massimo della pena astrattamente superiore ad anni cinque». A tale censura si aggiunge poi, nella prospettazione del giudice remittente, quella relativa alla violazione del principio di offensività, ricavabile dagli artt. 13, 25 e 27 Cost. 4. Come anticipato, la Corte ritiene, nel merito, non fondate le censure formulate dal giudice remittente. In particolare, circa la prospettata violazione dell’art. 3 Cost., la Corte esordisce sgombrando il campo da ogni equivoco quanto al fatto che l’esistenza di un’attenuante che preveda quali elementi costitutivi la particolare tenuità del danno o del pericolo possa comportare automaticamente l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. Se è vero, infatti, che la sussistenza di un’attenuante che valorizzi la tenuità di alcuni elementi costitutivi del fatto in sé non osta all’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto – e ciò ai sensi del disposto del quinto comma dell’art. 131-bis c.p. – nondimeno le considerazioni che soggiacciono alla valutazione in termini di tenuità variano a seconda che si sia in presenza di un’attenuante o della causa di esclusione della punibilità di cui al 131-bis c.p. [1], sì che «tra l’attenuante del fatto di particolare tenuità, prevista per il reato di ricettazione, e la causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen. non può stabilirsi alcun collegamento che possa comportarne l’applicabilità». 5. Svolta questa preliminare considerazione, la Corte dichiara non fondata la violazione dell’art. 3 Cost. attesa l’assenza, nel caso di specie, di limiti costituzionalmente vincolanti alla discrezionalità legislativa. In particolare, la Consulta sottolinea l’inidoneità dei tertia comparationis indicati dal giudice remittente a fungere da parametro di riferimento ai fini della verifica della lesione del principio di ragionevolezza. Nessuna delle fattispecie di reato proposte dal Tribunale di Nola costituisce – a parere della Corte – un valido «modello comparativo, al quale fare riferimento per individuare una soluzione costituzionalmente obbligata». Le figure di reato proposte dal giudice a quo, infatti, sono ritenute incomparabili con la ricettazione «sia per quanto attiene alla loro struttura, sia anche, per la maggior parte di esse, per quanto attiene ai beni tutelati». Sintomatico di tale inidoneità sarebbe proprio il fatto che il giudice remittente abbia indicato quale termine di paragone un elenco molto nutrito di reati e non uno solo o alcuni di essi. Così, richiamando la propria giurisprudenza sul punto [2], la Corte ribadisce che «anche in presenza di norme manifestamente arbitrarie o irragionevoli, solo l’indicazione di un tertium comparationis idoneo, o comunque di specifici cogenti punti di riferimento, può legittimare l’intervento della Corte in materia penale, poiché non spetta ad essa assumere autonome determinazioni in sostituzione delle valutazioni

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riservate al legislatore. Se così non fosse, l’intervento, essendo creativo, interferirebbe indebitamente nella sfera delle scelte di politica sanzionatoria rimesse al legislatore». 6. Anche la questione relativa alla scelta di ancorare l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. al solo massimo edittale viene ritenuta dalla Corte infondata. E ciò in quanto il giudizio di ponderazione che soggiace alla scelta di estendere o meno a determinate fattispecie una causa di esclusione della punibilità appartiene – in prima battuta – al legislatore [3] ed è pertanto sindacabile dal giudice costituzionale nelle sole ipotesi di manifesta irragionevolezza; ciò che a parere della Consulta non è ravvisabile nel caso di specie. 7. Una volta esclusa la violazione dell’art. 3 Cost. sub specie di principio di ragionevolezza e uguaglianza, molto sinteticamente la Corte rigetta anche le ulteriori censure prospettate dal giudice remittente poiché fondate sull’erroneo presupposto che l’ambito di applicazione della causa di esclusione della punibilità in parola comprenda fatti in concreto inoffensivi, mentre – come noto [4] – il beneficio di cui all’art. 131-bis c.p. entra in gioco solo in presenza di fatti caratterizzati da una certa, seppur minima, offensività. 8. Nonostante la declaratoria di non fondatezza delle censure prospettate dal giudice remittente, la Corte riconosce tuttavia il carattere insoddisfacente della situazione normativa attuale in materia di ricettazione, e le conseguenze che da essa discendono in relazione alla causa di non punibilità in questione. Due, in particolare, i profili che la Corte sottolinea: a) anzitutto, «l’anomalia» della cornice edittale della ricettazione di particolare tenuità, anomalia risultante dall’ampia forbice edittale tra il minimo e il massimo (quindici giorni – sei anni) e dalla «ampia sovrapposizione» con il quadro edittale previsto per l’ipotesi base della ricettazione (due anni – otto anni); b) inoltre, poi, il fatto che è ben possibile immaginare che possano presentarsi casi concreti – punibili con la pena minima di soli quindici giorni di reclusione – in cui sussistano tutti gli altri requisiti richiesti per dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, soprattutto ove si consideri che «invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei mesi di reclusione. Pena che, secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di ben maggiore offensività». E la via per ovviare a «situazioni di questo tipo» viene individuata dalla Corte proprio nella discussa possibilità di introdurre [5], all’interno dell’art. 131 bis c.p., «oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale la causa di non punibilità non possa operare, […] anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità», intervento che tuttavia non può che spettare al legislatore.

*** 9. In attesa di più autorevoli e meditati commenti alla pronuncia della Corte, siano consentite alcune riflessioni di prima lettura sulla sentenza in parola. Invero, chi scrive aveva già avuto modo di esprimere la propria opinione sul punto, in sede di commento della relativa ordinanza di rimessione (cfr. S. Santini, L’articolo 131-bis c.p. al vaglio della Corte Costituzionale: irragionevole la sua mancata estensione alla ricettazione di particolare tenuità ex art. 648, comma 2, c.p.?, in questa Rivista, 22 dicembre 2016). In quell’occasione, avevamo cercato di proporre alcuni argomenti, parzialmente distinti rispetto a quelli valorizzati dal giudice remittente e ai quali semplicemente rinviamo, a sostegno della violazione dell’art. 3 Cost. all’esito di un sindacato di (ir-

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)ragionevolezza della fattispecie impugnata che fosse svincolato dalla necessaria individuazione di un valido tertium comparationis. A sostegno di un sindacato fondato sull’irragionevolezza intrinseca della fattispecie impugnata indicavamo in particolare l’orientamento espresso dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza 236/2017 in tema di proporzionalità della pena, nella quale la Corte ha «strutturato il cuore della motivazione non già attorno alla disparità di trattamento tra la disposizione censurata [alterazione dello stato civile di un neonato realizzata mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità] e altra disposizione assunta come tertium comparationis, quanto piuttosto attorno all’irragionevolezza intrinseca del trattamento sanzionatorio previsto dalla disposizione oggetto di scrutinio» [6]. Tale orientamento, tuttavia, non è stato ripreso nella presente occasione; e, anzi, proprio l’assenza di un valido tertium comparationis – effettivamente non individuabile –, e più in generale l’assenza di limiti costituzionalmente vincolanti della discrezionalità legislativa in base ai quali intervenire “a rime obbligate”, è stato l’argomento centrale della declaratoria di non fondatezza della questione di legittimità sollevata. 10. É però nello spiraglio finale lasciato aperto dalla Corte Costituzionale che forse risiede l’aspetto più significativo della pronuncia in commento. Il fatto che la Corte abbia ritenuto di non poter sindacare la scelta operata dal legislatore, non le ha però impedito di evidenziare quei profili di stortura di cui sopra abbiamo dato conto. Storture alle quali è la stessa Corte a proporre un possibile rimedio: introdurre, nella disciplina della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, il criterio del minimo edittale, al di sotto del quale – seppur superato il limite massimo dei cinque anni – lasciare la facoltà al giudice del caso concreto di vagliare l’applicabilità della causa di esclusione della punibilità. Insomma, a buon intenditore poche parole: giacché «di tali interventi […], una volta che ne sia stata rilevata l’esigenza, non può non farsi carico il legislatore, per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui» [7]. [1] Al riguardo la Corte Costituzionale richiama la sentenza Corte di cassazione, Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 13681. [2] In particolare il riferimento è alle sentenze nn. 236 e 148 del 2016. [3] A tal proposito la Corte richiama la propria precedente sentenza n. 140/2009. [4] In tal senso v. Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 13681. [5] Sul punto, cfr. T. Padovani, Un intento deflattivo dal possibile effetto boomerang, in Guid. dir., 2015, n. 15, p. 20 [6] Così F. Viganò, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim, 2/2017, pp. 61-66. [7] Così la Corte Costituzionale nella sentenza in oggetto, p. 9.

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NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI – SEZIONI UNITE

Le Sezioni Unite ridisegnano i confini del delitto di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione alla luce della sentenza De Tommaso:

un rimarchevole esempio di interpretazione conforme alla CEDU di una fattispecie di reato

Cass., Sez. Un. Pen., sent. 27 aprile 2017, n. 40076, Pres. Canzio, Rel. Fidelbo, Ric. Paternò

di Francesco Viganò 1. Le onde telluriche innescate dalla sentenza De Tommaso [1] al sistema delle misure di prevenzione disegnato dal codice antimafia cominciano a farsi sentire anche ai piani… più alti del nostro ordinamento, rappresentati qui dalle Sezioni Unite. Le quali, con una perspicua e coraggiosa sentenza, dichiarano inapplicabile il delitto di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui all’art. 75 co. 2 del d.lgs. n. 159/2011 (c.d. codice antimafia) rispetto all’ipotesi delle violazioni delle generiche prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, già censurate dalla Corte EDU nella sentenza di De Tommaso in quanto del tutto indeterminate. In un momento storico in cui sembrano dominare le spinte centripete ostili al progetto di europeizzazione del sistema penale italiano, in nome della tutela dell’‘identità costituzionale’ e delle specificità della nostra tradizione, la Cassazione nella sua massima composizione riconosce la vincolatività – e assieme la piena condivisibilità nel merito – di una importante pronuncia di Strasburgo resa dalla Grande Camera nei confronti del nostro paese, procedendo direttamente a correggere l’antinomia tra il diritto interno e il diritto convenzionale attraverso il duttile strumento dell’interpretazione conforme: strumento con il quale le Sezioni Unite superano ancora una volta le resistenze e le timidezze della Corte costituzionale, raggiungendo esse stesse in via ermeneutica un risultato al quale i nostri giudici costituzionali si erano sinora sempre rifiutati di pervenire. 2. Anzitutto, il caso di specie. Il ricorrente era stato condannato dalla Corte d’appello di Caltanissetta alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione per i delitti di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale e di lesioni personali aggravate, tra loro in continuazione. In particolare, quanto al primo titolo delittuoso, all’imputato era stato contestato di avere contravvenuto “alla prescrizione impostagli di vivere onestamente, commettendo il reato di lesioni” mentre si trovava sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. Il suo ricorso in cassazione veniva nel marzo scorso assegnato alle Sezioni Unite, essendo nel frattempo intervenuta la citata sentenza De Tommaso della Corte EDU, che – come noto – aveva censurato tra l’altro il deficit di precisione e prevedibilità di talune prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, tra le quali, appunto, quella di “vivere onestamente e di rispettare le leggi”.

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3. Il Collegio formula nel modo seguente il thema decidendum: “se la norma incriminatrice di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. cit., abbia ad oggetto anche la violazione delle prescrizioni di ‘vivere onestamente’ e ‘rispettare le leggi’”; e chiarisce subito di voler affrontare il quesito alla luce dei principi di tipicità, precisione, determinatezza e tassatività delle norme incriminatrici, che impongono all’interprete di individuare “opzioni ermeneutiche costituzionalmente e convenzionalmente orientate” (p. 3). 4. Dopo una puntuale ricostruzione della genesi storica del delitto in parola (p. 4-5), il Collegio rileva come il secondo comma dell’art. 75 punisca oggi come delitto ogni tipo di inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale c.d. qualificata (ossia con obbligo di soggiorno), con una conseguente equiparazione sanzionatoria – già ritenuta legittima dalla Corte costituzionale (sent. n. 161/2009) – di condotte che ben possono presentarsi in concreto, con un diverso grado di offensività. Tra tali condotte parrebbero rientrare, osserva la S.C., anche le prescrizioni “di genere” relative al “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, che si distinguono rispetto alle prescrizioni “specifiche” riferite a un facere individuato dalla legge, come il divieto di allontanarsi dalla dimora, di detenere e portare armi, etc. Rammenta il Collegio come il possibile contrasto di tali prescrizioni – nella misura in cui la violazione delle stesse sia costitutiva di reato – con il principio di determinatezza sia stato più volte sottoposto all’attenzione della Corte costituzionale, ma sia sempre stato da essa escluso (sent. n. 27/1959, ord. n. 354/2003, e da ultimo sent. n. 282/2010, ove si afferma che tali prescrizioni si risolvono “nel dovere imposto [al soggetto sottoposto alla misura] di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di ‘vivere onestamente’ si concretizza e si individualizza”, e che la prescrizione di “rispettare le leggi” si riferisca al dovere di rispettare “tutte le norme a contenuto precettivo […]: non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia indice della già accertata pericolosità”). Analoghi orientamenti sono stati manifestati sinora dalla giurisprudenza di legittimità, che ha costantemente escluso il contrasto dell’incriminazione delle violazioni dei precetti ‘generici’ in parola, concludendo anzi nel senso del concorso formale tra il delitto di cui all’art. 75 co. 2 e i reati comuni commessi dal sorvegliato speciale, nella logica di inasprimento sanzionatorio che ispira il complessivo impianto normativo; nonché, addirittura, ammettendo che il reato de quo sia integrato dalla consumazione di un illecito amministrativo, come la guida di un motociclo senza casco, la guida di autovettura priva di targa, etc. Non si registrano, invece, decisioni di legittimità che ravvisano la sola prescrizione di “vivere onestamente”, evocata di regola unitamente a quella di “rispettare di leggi” in caso di commissione di qualsiasi condotta illecita (di rilevanza penale o, per l’appunto, anche solo amministrativo (p. 8-10). 5. Il rigore di questa giurisprudenza era stato, peraltro, parzialmente temperato dalla recente sentenza Sinigaglia delle Sezioni Unite (sent. n. 32923/2014), che – riprendendo risalenti spunti presenti nella stessa giurisprudenza di legittimità – aveva limitato l’area delle violazioni rilevanti ai fini del delitto de quo a quelle che si risolvono “nella vanificazione sostanziale della misura imposta”, risultando espressive di una “effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno”: e ciò in omaggio ai principi di offensività e proporzionalità, che escludono la possibilità di “equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a un soggetto qualitativamente pericoloso” – come nel caso, oggetto della pronuncia, della mancata esibizione della carta precettiva.

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Richiamando tale precedente, ampiamente valorizzato anche dalla Procura generale nella propria memoria, la Suprema Corte si chiede ora se la strada di una interpretazione conforme ai principi di offensività e proporzionalità, mirante a circoscrivere in via ermeneutica l’area delle violazioni la cui trasgressione configurerebbe il delitto in parola, sia sufficiente a porre al riparo la norma dalle possibili obiezioni sul diverso fronte della sufficiente determinatezza/precisione, oggetto specifico delle censure della Corte europea. La risposta è, tuttavia, negativa: una simile strada rende, in effetti, ancora più incerta e imprevedibile la condotta contemplata dalla norma incriminatrice, aprendo spazi di discrezionalità al giudice difficilmente compatibili con il principio di legalità, senza risolvere dunque il deficit di determinatezza di un delitto imperniato sulla violazione della prescrizione di honeste vivere (p. 13). 6. Le Sezioni Unite sono dunque chiamate ora – prosegue il Collegio – a una lettura del diritto interno conforme alla CEDU e al tempo stesso (ed anzi in via prioritaria) alla Costituzione; e in particolare a una “lettura ‘tassativizzante’ e tipizzante della fattispecie”, anche a costo di superare “una giurisprudenza di legittimità che, fino ad oggi, non mostra di essersi confrontata adeguatamente con tali problematiche” (p. 15). La noma penale in questione utilizza la tecnica del rinvio, richiamando in modo indistinto le prescrizioni e gli obblighi indicati in una diversa disposizione (l’art. 8 del codice antimafia); ma il richiamo agli obblighi e alle prescrizioni in parola non può che essere riferito, secondo la S.C., “soltanto a quegli obblighi e a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo”: caratteri, questi, che evidentemente difettano nelle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”. Anzi, osserva perspicuamente il Collegio, “è dubbio che [esse] possano considerarsi vere e proprie prescrizioni […], dal momento che non impongono comportamenti specifici, ma contengono un mero ammonimento ‘morale’, la cui genericità e indeterminatezza dimostra l’assoluta inidoneità ad integrare il nucleo di una norma penale incriminatrice” (p. 15). D’altra parte, l’obbligo di rispettare le leggi è formulato dalla disposizione in parola in termini talmente vaghi e generici da risultare, in effetti, privo di qualsiasi contenuto precettivo, risolvendosi – come osservato dalla Corte di Strasburgo – in un riferimento indistinto a tutte le leggi dello Stato, non consentendo di individuare la condotta o le condotte dal cui accertamento derivi una responsabilità penale, e per converso attribuendo uno spazio di incontrollabile discrezionalità al giudice nel momento in cui dovesse procedere a siffatta determinazione. Il che produce, a sua volta, un inammissibile deficit di conoscibilità del precetto penale da parte del destinatario della norma penale, e – conseguentemente – l’assoluta inidoneità della norma a orientare il suo comportamento, con connesso vulnus allo stesso principio di colpevolezza (p. 16-17). La Corte conclude, dunque, nel senso che “in presenza di un precetto indefinito l’ordinamento non può neppure pretenderne l’osservanza”: osservazione da cui deriva, logicamente, la conseguenza che il delitto in esame dovrà essere ritenuto integrato unicamente dalla violazione delle prescrizioni specifiche inerenti all’obbligo di soggiorno con sorveglianza speciale, aventi autonomo contenuto precettivo. Tale rilettura restrittiva della fattispecie – chiosa, sorniona e quasi en passant, la S.C. – dispensa da ogni valutazione circa la necessità di sollevare incidente di costituzionalità della fattispecie penale per difetto di determinatezza. 7. In applicazione del principio enunciato, il soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, il quale violi una legge penale o commetta un illecito amministrativo

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durante l’applicazione della misura, dovrà essere sanzionato solo per il reato o l’illecito amministrativo commesso; ferma restando la possibilità di valorizzare tali violazioni ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione, ai sensi dell’art. 11 del codice antimafia, ben potendo le condotte in parola costituire indizio di una maggiore pericolosità del soggetto. Ovvie le conseguenze nel caso di specie: la sentenza viene annullata nel solo capo relativo alla sussistenza del delitto di cui all’art. 75 co. 2, con conseguente rinvio alla corte territoriale per la rideterminazione della pena in relazione al solo delitto di lesioni personali aggravate.

*** 8. Come dovrebbe essere risultato evidente dalla sintesi che precede, il significato di questa sentenza eccede, e di molto, lo specifico thema decidendum, coinvolgendo – ancora una volta – il tema dell’adeguamento del nostro ordinamento agli obblighi di tutela dei diritti fondamentali nella loro dimensione europea, e degli strumenti per assicurare tale obiettivo. Il dato di partenza da cui muovevano le Sezioni Unite erano, da un lato, una serie di sentenze della Corte costituzionale – da ultima, l’incredibile sentenza n. 282/2010 – che avevano ritenuto compatibile con il principio di precisione/sufficiente determinatezza della legge penale una norma incriminatrice che sanzionava, tra l’altro, la violazione dei precetti di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”; e dall’altro la recentissima sentenza della Corte EDU che, nella sua massima composizione, aveva invece ritenuto – in diametrale contrasto con le valutazioni della Consulta – una simile norma del tutto incompatibile con il principio di legalità nella sua dimensione europea. In una simile situazione, la soluzione più ovvia – e che probabilmente qualsiasi professore di diritto costituzionale avrebbe indicato come obbligata – sarebbe stata quella della proposizione di una nuova questione di legittimità costituzionale, questa volta per contrasto – oltre che con l’art. 25 co. 2 Cost. – anche con l’art. 117 co. 1 Cost., in riferimento all’art. 7 CEDU così come interpretato dalla Corte europea nella sentenza De Tommaso. Soluzione che avrebbe, di fatto, sollecitato la Consulta ad una rimeditazione della propria precedente giurisprudenza, alla luce delle sensatissime osservazioni dei colleghi di Strasburgo. Le Sezioni Unite evitano però di percorrere questa strada, del resto gravida di incognite sulla possibile risposta della Corte costituzionale; e decidono invece di ricorrere allo strumento dell’interpretazione conforme, cancellando in via ermeneutica dall’area della fattispecie penalmente rilevante due ipotesi – la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” – pure ricomprese inequivocabilmente dal tenore letterale della disposizione di cui all’art. 75 co. 2 del codice antimafia, che rinvia a tutte le prescrizioni inerenti alla misura di sicurezza della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. Operazione ermeneutica che costituisce un rimarchevole esempio di quella che Larenz chiamava “riduzione teleologica della fattispecie” – basata sul presupposto, esattamente contrario a quello caratteristico dell’estensione analogica della fattispecie, che la disposizione plus dixit quam voluit –; anche se il telos viene qui identificato non già nello scopo della singola disposizione, bensì nei principi che l’ordinamento nel suo complesso (anche nella sua dimensione ‘integrata’ europea) indica come immanenti all’intero sistema penale. E tra tali principi – anche questo è un profilo di grande interesse, peraltro sempre più valorizzato nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite – si annovera lo stesso principio di precisione/sufficiente determinatezza (o ancora, secondo altra terminologia, di tassatività) della norma penale, utilizzato qui non già come canone di legittimità costituzionale (come usualmente viene presentato nella manualistica), bensì come canone ermeneutico a disposizione del giudice

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comune per ridurre l’area delle fattispecie criminose rispetto al loro tenore letterale, attraverso l’esclusione dal loro ambito applicativo di quelle sottofattispecie i cui confini non si lascino chiaramente definire e circoscrivere in astratto, e che conseguentemente spalancano spazi di discrezionalità giudiziaria incompatibili con lo stesso principio di soggezione del giudice alla legge, particolarmente stringente proprio nella materia criminale. Un’operazione, quella compiuta dalla Cassazione, che mi pare del tutto conforme alla ratio, o meglio alle rationes, del principio di legalità in materia penale: il quale non impone, come a volte si mostra di ritenere, una cieca fedeltà alla lettera della legge, bensì esprime esigenze di garanzia per l’individuo, che ben possono imporre una deviazione dai canoni dell’interpretazione puramente letterale, allorché ciò sia necessario per assicurare che l’applicazione della legge penale sia prevedibile da parte del suo destinatario, e non condizionata a troppo ampie valutazioni discrezionali da parte del giudice incompatibili. 9. Sotto un punto di vista – diremmo – di politica giudiziaria, il messaggio lanciato dalla Cassazione è assai chiaro. Ancora una volta, la Cassazione fa sapere alla Corte costituzionale di essere determinata a proseguire sulla strada dell’adeguamento del nostro sistema penale ai diritti fondamentali nella loro dimensione integrata (costituzionale ed ‘europea’): se necessario, procedendo anche da sola su questo cammino. Senza far ricorso, almeno per ora, alla diretta applicazione delle norme europee – quanto meno sino a che non si porrà una questione che coinvolge la possibile diretta applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea –; ma utilizzando fino in fondo lo strumento dell’interpretazione conforme, che le stesse sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007 avevano indicato come compito essenziale della giurisdizione comune, ed anzi come condizione di ammissibilità dello stesso incidente di costituzionalità, che presuppone – come è noto – l’impossibilità di pervenire ad un’interpretazione conforme della norma impugnata. L’obiezione consueta contro l’ampio uso dell’interpretazione conforme da parte della giurisprudenza comune rispetto all’incidente di costituzionalità è, naturalmente, quella che sottolinea come le sentenze dei giudici comuni, a differenza di quelle della Corte costituzionale, non abbiano effetto erga omnes, e non modifichino il dettato normativo, lasciando così aperta la possibilità di future pronunce difformi: in netto contrasto con la filosofia di fondo del sistema di controllo di costituzionalità accentrato disegnato dal costituente, ideato in consapevole contrapposizione al sistema di controllo diffuso caratteristico del sistema statunitense, dove la prospettiva stessa di un judicial scrutiny delle decisioni del legislatore fu per la prima volta concepita. Proprio per schermare il più possibile un simile rischio, con le connesse prospettive di incertezza delle future decisioni giudiziali, la Cassazione – e in particolare il suo Primo Presidente, al quale spetta istituzionalmente la decisione relativa – ha ritenuto di investire da subito le Sezioni Unite, giusto all’indomani della pronuncia De Tommaso e senza attendere che sul punto in discussione si pronunciassero, magari in modo tra loro difforme, le sezioni semplici o i diversi collegi in seno alle stesse. Il che mostra, da un punto di vista – ancora – di politica giudiziaria (e di diritto in action), un modo di intendere la giurisprudenza delle Sezioni Unite, da parte della Cassazione nel suo complesso, come formante tendenzialmente vincolante per le decisioni future, a garanzia della prevedibilità e della certezza del diritto per i consociati: un formante dotato di un'autorità analoga – almeno dal punto di vista funzionale – a quello delle pronunce della Corte costituzionale, e tale comunque da modificare de facto il diritto vigente attraverso la formazione di un diritto vivente dotato del massimo grado possibile di autorevolezza. Anche a costo – come

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è avvenuto in questo caso – di modificare di fatto l’estensione applicativa di una norma incriminatrice, rispetto a quanto desumibile dal suo tenore letterale. 10. Rispetto, infine, ai più vasti interrogativi sollevati dalla sentenza De Tommaso in merito alla disciplina delle nostre misure di prevenzione, tutto resta ancora da scrivere. Il nodo davvero problematico emerso dalla sentenza della Grande Camera concerne, infatti, l’imprecisione delle fattispecie di pericolosità generica di cui all’art. 1 lett. a) e b) del codice antimafia, che sono il presupposto al tempo stesso di misure di prevenzione personali e patrimoniali: profilo su cui la sentenza delle Sezioni Unite qui all’esame, giustamente, si astiene dall’intervenire, e che peraltro è stato già sottoposto alla Corte costituzionale dai giudici della prevenzione alla luce di De Tommaso [2]. Nuovi, intriganti scenari si profilano dunque all’orizzonte. [1] Corte Edu, Grande Camera, sent. 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia, in questa Rivista, 3 marzo 2017, con nota del sottoscritto, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali. Sulla sentenza, cfr. anche gli ulteriori contributi che appaiono nella colonna a sinistra del presente documento. [2] Cfr. Corte d’appello di Napoli, VIII Sez. pen. – misure di prevenzione, ord. 14 marzo 2017, Pres. Grasso, Est. Cioffi, in questa Rivista, 31 marzo 2017, con nota del sottoscritto, Illegittime le misure di prevenzione personali e patrimoniali fondate su fattispecie di pericolosità generica? Una prima ricaduta interna della sentenza De Tommaso.

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Furto con destrezza e distrazione del proprietario: le Sezioni Unite scelgono la via più restrittiva

Cass., SSUU, sent. 27 aprile 2017 (dep. 12 luglio 2017), n. 34090,

Pres. Canzio, Rel. Boni, Ric. Quarticelli

di Andrea Giudici 1. Con la sentenza che qui pubblichiamo, le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno composto il contrasto giurisprudenziale sorto intorno all’ambito applicativo dell’aggravante della destrezza prevista per il delitto di furto, stabilendo che essa “richiede un comportamento dell’agente, posto in essere prima o durante l’impossessamento del bene mobile altrui, caratterizzato da particolare abilità, astuzia o avvedutezza, idoneo a sorprendere, attenuare o eludere la sorveglianza sul bene stesso”. 2. L’ordinanza di rimessione emessa dalla Quarta sezione è stata pubblicata a suo tempo ed è disponibile qui. Come si ricorderà, la questione riguardava il significato da ascrivere al termine “destrezza” impiegato dall’art. 625 primo comma n. 4 c.p., in particolare la possibilità di interpretarlo estensivamente fino a ricomprendervi anche ipotesi in cui l’agente in concreto non avesse eluso la sorveglianza della persona offesa ma si fosse limitato ad approfittare di un momento di disattenzione o di allontanamento del derubato. Nel caso oggetto del giudizio,

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l’imputato aveva sfruttato la distrazione della titolare di un bar per impossessarsi del computer che la stessa aveva lasciato incustodito sul bancone ed era stato condannato per il delitto di furto aggravato all’esito di entrambi i giudizi di merito La soluzione adottata dalla Suprema Corte, viceversa, è negativa e privilegia un’accezione più restrittiva di “destrezza”; ma, prima di illustrarne le ragioni, gioverà riepilogare i termini del dibattito. 3. Secondo l’orientamento probabilmente più risalente, ma certo non privo di recenti conferme, la circostanza della destrezza sarebbe configurabile quale che sia l’occasione favorevole che l’agente coglie per commettere il furto, posto che il laconico tenore letterale della disposizione in parola “non pretende necessariamente l’impiego di doti eccezionali”, tali da impedire alla vittima di accorgersi della sottrazione; l’aggravante, cioè, valorizzerebbe quella particolarissima ‘abilità’ dell’agente che consiste nella comprensione delle dinamiche fattuali e del contesto in cui egli si trova e nello sfruttamento degli stessi a suo vantaggio al fine di commettere il furto. Secondo un diverso orientamento, viceversa, la condotta di chi si limiti ad approfittare di contingenti circostanze favorevoli “non presenta alcun tratto di abilità esecutiva o di scaltrezza nell’elusione del controllo dell’avente diritto” e per tale ragione non meriterebbe di essere trattata più severamente rispetto a un furto semplice. Come si è anticipato, le Sezioni unite aderiscono a tale ultima opzione, più restrittiva, accogliendo il ricorso e annullando senza rinvio la decisione impugnata per difetto di querela. In ciò, peraltro, sottolineano, come già a suo tempo si era evidenziato, l’evidente rilevanza pratica della questione: dalla conseguente qualificazione del fatto quale furto semplice anziché aggravato, infatti, discendono significative conseguenze sia in tema di procedibilità – appunto, a querela di parte e non d’ufficio – sia in ordine all’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.). 4. Questi, in sintesi, gli argomenti su cui la decisione si fonda e che in parte si erano anticipati presentando l’ordinanza di rimessione. (i) In primo luogo, entra in gioco un criterio che la Corte definisce ‘sistematico’: il furto aggravato per definizione richiede che la condotta realizzi qualcosa in più di quanto ordinariamente richiesto per il furto semplice, e cioè la sottrazione e l’impossessamento del bene altrui. Tale quid pluris è individuato dalle Sezioni unite proprio nell’abilità che elude la sorveglianza della vittima, e che esprime “la maggior capacità criminale [dell’agente] e la più efficace attitudine a ledere il bene giuridico protetto”. Al contrario, approfittare di una circostanza propizia non presuppone alcuna particolare capacità operativa, superiore a quella del ladro comune, e non merita un aggravamento di pena. (ii) Il secondo argomento, anch’esso di natura sistematica e strettamente connesso al primo, è derivato dal raffronto tra l’aggravante della destrezza e quella di cui all’art. 625 primo comma n. 6 c.p., che aumenta la pena qualora il furto sia commesso “sul bagaglio dei viaggiatori in ogni specie di veicoli, nelle stazioni, negli scali o banchine, negli alberghi o in altri esercizi ove si somministrano cibi o bevande”. Ad avviso della Cassazione, infatti, tale circostanza prende espressamente in considerazione specifiche ipotesi di furto commesso in danno di soggetti distratti, o comunque impegnati con minor efficacia alla sorveglianza sui propri beni in ragione vuoi della confusione che spesso si verifica nei luoghi enunciati, vuoi dell’attenzione che la vittima ripone sul proprio viaggio o sulle proprie occupazioni. È del tutto evidente, rileva la Corte, che qualora la destrezza ricomprendesse già il mero approfittamento della disattenzione del derubato la disposizione in esame risulterebbe superflua: perciò, deve ritenersi che la scelta del legislatore di assegnare rilievo alla distrazione maturata in specifiche circostanze di luogo valga a confermare l’idea che

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in contesti differenti tale elemento assuma una connotazione neutra e non comporti per sé solo alcun aggravamento di pena. (iii) Su un piano teleologico, infine, la Cassazione richiama la giurisprudenza costituzionale secondo cui il principio di offensività trova applicazione, in linea di principio, anche in relazione alle aggravanti, sicché la ratio dell’aumento di pena previsto per un dato elemento si rinviene nella sua accentuata attitudine lesiva del bene giuridico (cfr. Corte cost., sent. 8 luglio 2010 n. 249). Ed è su questa linea che si colloca la precedente decisione con cui le Sezioni unite avevano escluso che l’occultamento del bene sulla persona dell’agente potesse integrare l’aggravante del mezzo fraudolento, siccome insuscettibile di esprimere alcun maggior grado di capacità appropriativa (Cass., sez. un, sent. 18 luglio 2013, n. 40354, Rv. 255974). In relazione alla destrezza, tale linea di pensiero impone che l’agente non si limiti ad approfittare dell’altrui distrazione, poiché ciò significherebbe “valorizzare la componente soggettiva del reato e la pericolosità individuale” a discapito del piano dell’offesa. Al contrario, un’offesa più grave potrà aversi soltanto allorché le modalità realizzative della condotta denotino una maggior capacità lesiva per il bene giuridico, che è integrata soltanto da una particolare abilità dell’agente.

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Non c’è due senza tre: torna alle Sezioni Unite la questione dei caratteri fondanti la connessione teleologica

Cass., Sez. I, ord. 17 luglio 2017 (dep. 21 luglio 2017), n. 36278,

Pres. Di Tommasi, Rel. Magi, conflitto di competenza in proc. Patroni Griffi ed altri

di Diana Poletti 1. Con l’ordinanza in commento, la prima sezione della Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione delle condizioni di operatività della connessione teleologica disciplinata dall’art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. Il contrasto giurisprudenziale circa l’interpretazione della norma che ci occupa non è nuovo al giudice remittente che, nel proprio provvedimento, non tarda a definirlo «risalente nel tempo», tanto da ritenere – sbilanciandosi non poco – superflua una «approfondita elaborazione» dei diversi orientamenti esegetici richiamati. 2. La contrapposizione tra le sezioni semplici della Suprema Corte concerne il dubbio se, ai fini della configurabilità della connessione teleologica – e, quindi, della produzione dei suoi effetti tipici sul piano dell’individuazione della competenza –, sia o meno richiesta coincidenza tra gli autori del reato fine e del reato mezzo. Pur tenuto conto dell’attuale formulazione dell’art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. [1], l’impostazione prevalente [2] fa dell’identità soggettiva il presupposto imprescindibile per la configurabilità del citato criterio. Ne consegue che, laddove i singoli reati siano stati commessi per eseguirne od occultarne altri, ma da persone diverse, non si determinerà alcuna attribuzione ai sensi degli artt. 15 e 16 c.p.p. La coincidenza soggettiva è stata variamente argomentata. Da un lato, si è posto in luce come – in caso di eterogeneità degli autori dei reati – verrebbe meno l'unità del processo volitivo tra il

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reato mezzo e il reato fine (che, come noto, è presupposto logico della connessione), potendosi tutt’al più ravvisare un’ipotesi di connessione di natura probatoria, inidonea a determinare una variazione nella competenza per territorio e/o materia. Dall’altro, non si è mancato di rilevare come l'interesse di un imputato alla trattazione unitaria dei reati connessi non possa pregiudicare quello degli altri coimputati a non essere sottratti al giudice naturale precostituito per legge ex art. 25, comma 1°, Cost.: circostanza che si verificherebbe laddove tutti gli illeciti venissero attribuiti, ai sensi dell’art. 16 c.p.p., al giudice competente a pronunciarsi per quello più grave. In altre parole, ravvisata un’ipotesi di connessione anche tra reati commessi da soggetti diversi, lo spostamento della competenza determinerebbe per taluni di essi la forzata preclusione ad essere giudicati dal giudice del locus commissi delicti, con buona pace delle regole di cui agli artt. 8 e s. del codice di rito. Escluso qualsivoglia rilievo all’eventuale ricorrere di una coincidenza soggettiva tra autori dei reati mezzo e fine, l’interpretazione minoritaria identifica invece la ragione del nesso teleologico in termini oggettivi [3]. Condizione necessaria, e al contempo sufficiente, affinché operi la connessione in commento è che i vari reati siano tra loro oggettivamente connessi: le condotte criminose, in altri termini, devono essere collegate ed animate dalla peculiare finalità di eseguirne od occultarne altre. L’impostazione, che valorizza la formulazione letterale dell’art. 12 c.p.p., trae spunto dall’evoluzione normativa dell’istituto, rilevando come a seguito delle modifiche apportate dal d.l. 20 novembre 1991, n. 367, convertito dalla l. 20 gennaio 1992, n. 8, l’attuale portato della disposizione differisca dalla sua versione originale, che – appunto – imponeva che tutti i reati fossero stati commessi dalla stessa persona [4]. Ed è proprio su tale variazione lessicale – mantenuta ferma anche dalla riforma apportata con l. 1 marzo 2001, n. 63 – che si fonda la richiamata lettura: subordinare l’operatività del nesso teleologico ad un requisito (l’identità soggettiva) non previsto dalla norma significherebbe non solo andare oltre il dettato normativo ma, soprattutto, considerare del tutto irrilevante la modifica apportata alla disposizione. Ancora, la “pretesa” di un quid pluris contrasterebbe con la volontà del legislatore che, modificando il testo della lettera c) dell’art. 12, comma 1, c.p.p., intendeva ampliare il perimetro operativo della connessione teleologica. 3. Il rinvio alle Sezioni Unite della questione circa la dimensione oggettiva ovvero soggettiva dell’ipotesi di connessione prevista dall’art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. non può dirsi (proprio del tutto) nuova. È la stessa ordinanza in oggetto a dare atto di come la tematica sia già approdata – per ben due volte – innanzi all’organo di composizione dei contrasti interpretativi. Le precedenti investiture, rispettivamente del 2011 e del 2014 [5], non hanno tuttavia portato all’auspicata risoluzione del conflitto esegetico, stante, nel primo caso, il preliminare rilievo della non rilevanza del tema di diritto evocato e, nel secondo, l’inammissibilità dell’impugnazione da cui originava il rinvio alle Sezioni Unite [6]. Che si tratti di un nodo interpretativo nevralgico pare in ogni caso indubitabile; e lo stesso dicasi per la sua soluzione, avvertita come urgente. Ne è esempio emblematico la rimessione al giudice delle leggi della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 12, comma 1, lett. c), e 16 c.p.p., in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., nella parte in cui è prevista, per tutti gli illeciti connessi e per tutti gli imputati, la competenza del giudice del luogo di commissione del reato più grave, a prescindere dalla comunanza dei relativi autori. Il tentativo, come noto, non è andato a buon fine. Con sentenza 11 febbraio 2013, n. 21 [7], la Corte costituzionale ha dichiarato la questione inammissibile, ravvisandovi «un improprio tentativo di ottenere dalla Corte un avallo a favore dell’una scelta interpretativa contro l’altra».

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4. Nell’attesa della risposta delle Sezioni Unite, parrebbe intravedersi qualche elemento a sostegno dell’indirizzo minoritario. Al riguardo, giova porre in luce come le Sezioni Unite [8] abbiano già chiarito che subordinare l’azione della connessione per materia e territorio ad un requisito non contemplato dal sistema (nel caso di specie: la necessaria pendenza dei procedimenti in pari stato e grado) «finisce per tradire il principio del giudice naturale precostituito per legge introducendo un requisito non previsto dal legislatore, non ricavabile dal tessuto normativo e tale da creare incertezza nella sua applicazione». Ancora, nella stessa pronuncia si è rilevato come, anche in tema di competenza per territorio determinata dalla connessione di cui all’art. 16 c.p.p., l’individuazione del giudice competente «riposi comunque sul collegamento tra uno dei fatti commessi – come noto il più grave – ed il locus commissi delicti». A ciò si aggiunga la condivisibile riflessione secondo cui «la nozione di giudice naturale – anche con riguardo alla competenza territoriale – non può che essere quella che emerge dal complesso della disciplina attributiva di competenza e dei valori tutelati dai singoli istituti, essi pure di pari rilievo costituzionale, quali quelli dell’imparzialità e della ragionevole durata del processo» [9]. Che il tempo per una possibile configurazione del nesso teleologico in chiave oggettiva sia arrivato? [1] L’art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p., nella sua versione attuale, statuisce che si ha connessione «se dei reati per cui si procede gli uni sono commessi per eseguire o per occultare gli altri». [2] In tal senso si rinvia a Cass., sez. I, 9 marzo 1995, Pischedda e altri, in C.E.D. Cass., 200701; Cass., sez. I, 18 dicembre 1996, Ietto e altri, in C.E.D. Cass., 206560; Cass., sez. I, 25 marzo 1998, Apreda, in C.E.D. Cass., 210417; Cass., sez. I, 8 giugno 1998, Sama e altri, in C.E.D. Cass., 210881; Cass., sez. II, 2 dicembre 1998, Archinà e altri, in C.E.D. Cass., 212270; Cass., sez. III, 26 novembre 1999, Bonassisa e altri, in C.E.D. Cass., 215762; Cass., sez. IV, 17 gennaio 2006, Hanid e altri, in C.E.D. Cass., 233714; Cass., sez. IV, 10 marzo 2009, Ruiu, in C.E.D. Cass., 244516; Cass., sez. III, 29 febbraio 2012, Lombardi, in C.E.D. Cass., 252761; Cass., sez. I, 2 marzo 2016, n. 5970, Squarcialupi e altri, in C.E.D. Cass., 269181. [3] Il rinvio è a Cass., sez. V, 13 giugno 1998, Altissimo e altri, in C.E.D. Cass., 211391; Cass., sez. VI, 10 luglio 1998, Pomicino, in C.E.D. Cass., 211737; Cass., sez. VI, 23 settembre 2010, Della Giovampaola e altri, in C.E.D. Cass., 248746; Cass., sez. III, 16 gennaio 2013, Erhan, in C.E.D. Cass., 257164. [4] Sul punto, giova ricordare come, prima delle modifiche (apportate dal d.l. 20 novembre 1991, n. 367, convertito dalla l. 20 gennaio 1992, n. 8, e poi dalla l. 1 marzo 2001, n. 63), l’art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. ravvisasse un caso di connessione laddove «una persona (fosse) imputata di più reati, quando gli uni (fossero) stati commessi per eseguire od occultare gli altri». [5] Al riguardo, cfr. l’ordinanza 18 marzo 2014, n. 14967 (in questa Rivista, 30 aprile 2014), con la quale la terza sezione penale della Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione in commento. [6] Sul punto, si rinvia a Cass., S.U., 17 luglio 2014, Basso e altri, in questa Rivista, 19 novembre 2014 (con nota di C. Bressanelli, Un’occasione mancata: le Sezioni Unite e i limiti soggettivi della connessione teleologica). [7] A commento della richiamata sentenza della Consulta v. A. Cabiale, La Corte costituzionale non prende posizione sui presupposti della connessione teleologica, in questa Rivista, 4 marzo 2013. [8] Cass., S.U., 28 febbraio 2013, Taricco, in questa Rivista, 28 giugno 2013, con nota di A. Cabiale, Le Sezioni Unite preparano il terreno per un ripensamento del rapporto fra competenza per connessione e principio del “giudice naturale precostituito per legge”. [9] Così, testualmente, C. Bressanelli, Un’occasione mancata, cit.

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NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI – GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

Una decisione della Cassazione che integra (e non contraddice) le conclusioni delle Sezioni Unite, in tema di priorità fra dichiarazione di estinzione del reato

e pronuncia di nullità della sentenza

Cass., Sez. III, sent. 31 maggio 2017 (dep. 2 agosto 2017), n. 38662, Pres. Cavalli, Rel. Socci, Ric. Lanzano

di Pierpaolo Rivello

1. L’annotata decisione della Terza sezione penale della Cassazione assume una valenza più pregnante di quanto potrebbe apparire ad una sua prima lettura qualora venga ricollegata ed analizzata congiuntamente alla decisione Iannelli, delle Sezioni unite [1], depositata meno di due mesi prima della data di deposito della pronuncia Socci. Le Sezioni unite, chiamate a valutare «se la Corte di cassazione debba dichiarare la nullità della sentenza predibattimentale di appello pronunciata in violazione del contraddittorio, con cui, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, è stata dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione o, invece, debba dare prevalenza alla causa estintiva del reato», hanno affermato che in tal caso la causa estintiva del reato deve prevalere sulla nullità assoluta ed insanabile della sentenza. A distanza, come abbiamo detto, di meno di due mesi la Terza sezione penale della cassazione, con riferimento ad una situazione processuale parimenti caratterizzata dalla sussistenza di una nullità assoluta ed insanabile della sentenza predibattimentale d’appello, derivante dall’inosservanza del principio del contraddittorio, ed ove ugualmente si doveva accertare se occorresse dare la priorità alla dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione o a quella di nullità della sentenza, ha invece ritenuto di considerare prioritaria la dichiarazione di nullità. In realtà non vi è alcun contrasto, dal punto di vista delle prospettive di fondo, tra le due decisioni, in quanto la pronuncia della Terza sezione penale ha dovuto prendere atto di una circostanza ulteriore rispetto alla vicenda posta all’esame delle Sezioni unite, e rappresentata dalla sussistenza di «questioni civili da definire e valutare». Cerchiamo di chiarire meglio il senso di queste affermazioni, andando subito al cuore del problema, raffrontando al riguardo il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite in c. Iannelli con quello elaborato dalla Terza sezione nell’annotata decisione. Le Sezioni unite hanno rilevato, in primo luogo, che «Nell’ipotesi di sentenza predibattimentale d’appello, pronunciata in violazione del contraddittorio, con la quale, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, è stata dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione, la causa estintiva del reato prevale sulla nullità assoluta ed insanabile della sentenza». Questa enunciazione generale, posta ad incipit del principio di diritto, è stata interamente riscritta dalla Terza sezione penale nella propria pronuncia (sebbene essa sia poi giunta ad una soluzione volta a far prevalere la dichiarazione di nullità). Vediamo dunque analiticamente quali siano gli elementi di diversificazione, che hanno condotto, in concreto, a conclusioni difformi.

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Le Sezioni unite hanno apposto la seguente deroga alle precedenti enunciazioni: «sempreché non risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo la Corte di cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all’art. 129, comma 2, cod. proc. pen.». In tal caso la pronuncia la sentenza di proscioglimento nel merito prevale infatti su quella di estinzione del reato, e la Cassazione può direttamente pervenire a tale conclusione del processo, con un annullamento senza rinvio ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. l) c.p.p. Occorre però che l’evidenza della prova «risulti dalla motivazione della sentenza impugnata e dagli atti del processo, specificamente indicati nei motivi di gravame, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. – come novellato dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46 – in conformità ai limiti di deducibilità del vizio di motivazione». Questa deroga, apposta dalle Sezioni unite al principio generale, tendente al riconoscimento della prevalenza della dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, è stata confermata e fatta propria anche dalla Terza sezione penale, che però ad essa ne ha aggiunta una ulteriore, in considerazione appunto delle connotazioni della vicenda ad essa sottoposta, non totalmente coincidente con quella che innescò la decisione delle Sezioni unite. Infatti la Terza sezione penale ha così formulato l’ultima parte terminale del principio di diritto: «sempreché non risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo la Corte di Cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. e sempreché non sussiste una questione civile da valutare». 2. Esaminiamo ora gli antefatti della pronuncia della Terza sezione della Cassazione. Una condanna in primo grado emessa dal Tribunale di Napoli era stata appellata innanzi alla locale Corte di appello, che aveva dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione, confermando peraltro le statuizioni civili adottate dal Tribunale di Napoli. Avverso detta sentenza veniva formulato ricorso per cassazione, volto a denunciare la sussistenza di plurime cause di nullità, tra cui la mancata celebrazione di un’udienza pubblica per discutere i motivi di impugnazione, la violazione del principio del contraddittorio e la carenza di motivazione. In effetti, appariva in tal caso evidente che l’applicazione dell’estinzione per prescrizione, a seguito di quella che veniva definita come “sentenza predibattimentale”, svoltasi in assenza di contraddittorio, avesse conculcato il diritto riconosciuto ad ogni imputato ad opporsi ad una decisione in iure ogni qualvolta egli «ritenga di poter ottenere una formula ampiamente liberatoria nel merito attraverso l’elaborazione dibattimentale della prova» [2]. Del resto, l’adozione di una pronuncia che prescindeva totalmente dal contributo dialettico delle parti costituiva una palese violazione del canone del previo contraddittorio tra le parti, inteso non solo come metodo di formazione della prova, ma anche come «diritto delle stesse all’ascolto» [3]. Si potrebbe poi aggiungere una considerazione che non ha invece costituito motivo di specifica doglianza da parte dell’imputata, né è stata menzionata nella parte motiva dell’annotata pronuncia, a differenza di quanto è avvenuto nella sentenza Iannelli delle Sezioni unite. Occorrerebbe cioè evidenziare come non sia stato rilevato che il legislatore non ha previsto la possibilità di adottare una “sentenza predibattimentale di appello”, ai sensi dell’art. 469 c.p.p., essendo detta norma riferibile esclusivamente al giudizio di primo grado. Sul punto le Sezioni unite avevano invece sviluppato una serie di puntuali considerazioni, volte ad affermare che la disciplina del proscioglimento predibattimentale di cui all’art. 469 c.p.p., dettata per il giudizio di primo grado «non può ritenersi applicabile nel giudizio di appello, in quanto ad essa non effettua alcun rinvio, esplicito o implicito, il combinato disposto degli artt.

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598, 599 e 601 cod. proc. pen.» [4]; era stato aggiunto che questa conclusione risultava condivisa da un consolidato orientamento giurisprudenziale [5]. Si era parimenti negato che comunque in tale fase potesse essere emessa de plano una pronuncia ai sensi dell’art. 129 c.p.p., «in quanto l’obbligo del giudice di dichiarare immediatamente la sussistenza di una causa di non punibilità presuppone un esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio, per cui il richiamo contenuto in quest’ultima disposizione ad “ogni stato e grado del processo” deve essere riferito al giudizio in senso tecnico, ossia al dibattimento di primo grado o ai giudizi in appello e in cassazione, atteso che, solo in tali ambiti, venendosi a realizzare la piena dialettica processuale fra le parti, il giudice dispone di tutti gli elementi per la scelta della formula assolutoria più favorevole per l’imputato» [6]. Detto orientamento interpretativo era già stato delineato in giurisprudenza dalle stesse Sezioni unite, a partire dalla pronuncia Angelucci [7], che tra l’altro, con specifico riferimento alla tematica costituente oggetto di questa nota, aveva affermato che nel predibattimento «la fondamentale cesura tra fase dell’indagine e fase del dibattimento porta ad escludere che possa emettersi una sentenza allo stato degli atti ex art. 129 c.p.p.». A sua volta la successiva pronuncia De Rosa, parimenti a Sezioni unite [8], sottolineava con incisività che l’art. 129 c.p.p. non attribuisce al giudice «un potere di giudizio ulteriore, inteso quale occasione – per così dire – “atipica” di decidere la res iudicanda, rispetto a quello che gli deriva dalle specifiche norme che disciplinano i diversi segmenti processuali». Tale considerazioni, anche se non sono state espressamente ripetute nella decisione da noi esaminata, sono comunque state poste a base della conclusione volta a ravvisare la sussistenza di una nullità della pronuncia della Corte di appello, volta invece evidentemente a ritenere che l’art. 129 c.p.p. potesse essere configurato come fonte di un generale potere di proscioglimento, applicabile senza la necessità di osservare le normali cadenze e garanzie processuali. 3. Dobbiamo a questo punto notare, con riferimento alla parte motiva della decisione annotata, che non sono state affatto contraddette le conclusioni alle quali erano giunte le Sezioni Unite in c. Iannelli, tendenti a chiarire come, in linea di generalità, laddove già risulti una causa di estinzione del reato, la sussistenza di una nullità della sentenza, sia pur assoluta ed insanabile, non sia rilevabile nel giudizio di cassazione, dovendo in tal caso il processo concludersi con la dichiarazione di estinzione del reato. Va osservato, a soli fini di precisione espositiva, come in tal senso risultasse comunque già da tempo orientata la giurisprudenza maggioritaria, essendosi sottolineato come la tesi contraria, diretta a privilegiare la dichiarazione di nullità, determinasse un’inutile dilatazione dell’attività processuale, imponendo una regressione del processo che si sarebbe rivelata del tutto antieconomica, in quanto comunque destinata a sfociare nella rilevazione della causa estintiva, peraltro già immediatamente dichiarabile, senza dover procedere ad un annullamento con rinvio [9]. La prevalenza della dichiarazione di estinzione del reato sulla dichiarazione di nullità della sentenza non è peraltro mai stata considerata come un principio assoluto e privo di eccezioni. Si è infatti osservato che la prevalenza della causa estintiva deve essere esclusa nelle ipotesi in cui la rilevabilità della stessa non appaia “pacifica”, come ad esempio può accadere qualora sia necessario acquisire dati fattuali funzionali all’applicabilità della prescrizione, in quanto il presupposto per l’operatività della causa estintiva non emerga ictu oculi, ma implichi «accertamenti e valutazioni rientranti nelle prerogative esclusive del giudice di merito» [10]. In tal caso si ritiene necessario privilegiare la dichiarazione di nullità, funzionale alla necessaria rinnovazione del relativo giudizio.

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Riteniamo importante menzionare queste conclusioni interpretative, volte a delineare una simile eccezione, proprio perché esse appaiono ispirate al criterio volto ad ammettere una deroga al principio della normale priorità della dichiarazione di estinzione del reato, operante in tutte le ipotesi in cui emerga una reale necessità di pervenire ad un nuovo giudizio nel merito, onde affrontare questioni la cui possibilità di trattazione risulterebbe altrimenti preclusa. Ampliando la prospettiva, si può osservare come la giurisprudenza maggioritaria delineatasi nel corso degli anni su queste tematiche risponda ad una logica di fondo di assoluta coerenza, a cui si ispira anche la decisione annotata. Decisioni quali la pronuncia Iannelli e la pronuncia Conti mostrano di tener conto di due diverse considerazioni. Da un lato infatti è stata valorizzata la necessità di giungere all’eliminazione di passaggi procedimentali non necessari e che non contribuiscano ad accrescere le garanzie di cui devono godere le parti processuali, eliminazione che può essere realizzata disincentivando le opzioni esegetiche che conducano ad inutili rallentamenti temporali, quali la regressione del processo, a seguito della dichiarazione di nullità, anche qualora questo regresso sia comunque destinato a produrre la stessa soluzione che potrebbe essere raggiunta immediatamente, attribuendo priorità alla dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione rispetto all’eventuale pronuncia di nullità. D’altro canto, si è osservato come debba invece giungersi a diverse conclusioni qualora l’eventuale protrarsi del processo, dovuto alla dichiarazione di nullità e al conseguente regresso del procedimento, a seguito di un annullamento con rinvio, potrebbe condurre ad esiti maggiormente favorevoli per l’imputato, e comunque si tradurrebbe in un incremento reale dell’ambito di garanzie. 4. Una delle ipotesi di deroga al criterio di priorità della dichiarazione di estinzione del reato è rappresentata ovviamente dall’ipotesi in cui risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo in tal caso la Cassazione adottare la formula di merito ex art. 129, comma 2, c.p.p. Al riguardo occorre peraltro precisare come la giurisprudenza abbia reiteratamente ribadito che il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 129, comma 2, c.p.p. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato o la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo “assolutamente non contestabile”, e cioè qualora la valutazione sul punto «appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione ictu oculi, che a quello di “apprezzamento”, e non esiga dunque alcun particolare approfondimento» [11]. Accanto a tale eccezione l’annotata decisione ha collocato, come abbiamo visto, quella derivante dalla sussistenza di questioni civili da definire e valutare. Anch’essa appare pienamente coerente con la complessiva elaborazione giurisprudenziale volta a pervenire ad un equilibrato contemperamento fra esigenze di efficienza e tutela dei diritti. Va comunque osservato che la pronuncia annotata trova un significativo punto di riferimento (peraltro non espressamente menzionato dai giudici della Terza sezione) nella già citata pronuncia Conti a Sezioni unite. In tal caso i giudichi della nomofilachia, affrontando la questione, definita «del tutto peculiare», rappresentata dalla sussistenza di una «sentenza di merito, afflitta da nullità processuale assoluta ed insanabile, che ha deciso non solo in ordine al reato, per il quale è sopravvenuta la prescrizione, ma anche in ordine alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato», affermarono infatti che in una simile contesto «la nullità, anche se non funzionale alla operatività della prescrizione, deve essere comunque rilevata e dichiarata in sede di legittimità, perché si riverbera sulla validità delle statuizioni civili».

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Possono essere svolte ulteriori considerazioni che permettono di ricollegare idealmente in maniera ancora più nitida le varie pronunce in materia. Occorre partire dal rilievo che in presenza di una causa estintiva del reato, quale la prescrizione, e, contestualmente, di una nullità processuale assoluta ed insanabile, i giudici di legittimità devono dare, di norma, prevalenza alla prima. Tale conclusione non vale peraltro se la dichiarazione di nullità risulta funzionale alla rinnovazione del giudizio tendente ad un nuovo accertamento di dati fattuali, come appunto avviene qualora occorra valutare la possibilità di accogliere la domanda risarcitoria avanzata dalla parte civile. Nella pronuncia in commento, osservandosi come i giudici di appello avessero «confermate le statuizioni civili, il risarcimento del danno, senza nessuna valutazione nel contraddittorio delle parti dei motivi dell’appello» si afferma, del tutto correttamente, che in tal caso le esigenze di rapida definizione del processo, tante volte messe in luce dalla giurisprudenza con riferimento a detta tematica e poste a base, tra l’altro, dell’orientamento esegetico maggioritario, non possono prevalere sulla necessità di dichiarare la nullità della sentenza per violazione del contraddittorio, poiché una diversa soluzione, volta a privilegiare la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, pregiudicherebbe inevitabilmente gli interessi dell’impugnante, che, già privato in sede di appello della possibilità di confutare le ragioni poste a base della statuizione sul risarcimento del danno, vedrebbe definitivamente preclusa detta possibilità, a differenza di quanto avverrebbe qualora fosse emessa una decisione di annullamento con rinvio. [1] Cass., sez. un., 27 aprile 2017, n. 28954, Iannelli, in Ced. Cass., Rv. 269810. [2] A. M. Capitta, La declaratoria immediata delle cause di non punibilità, Milano, 2010, p. 94. [3] Cfr. al riguardo G. Varraso, Richiesta di rinvio a giudizio, proscioglimento immediato e «diritto delle parti all’ascolto», in Cass. pen., 2005, p. 1843 ss. [4] Cass., sez. un., 27 aprile 2017, n. 28954, Iannelli, cit., § 2. [5] Sono state indicate, in tal senso, Cass., sez. II, 4 maggio 2016, n. 33741, Ventrella, in Ced. Cass., Rv. 267498; Cass., sez. VI, 24 novembre 2015, n. 50013, Capodicasa, in Ced. Cass., Rv. 265700; Cass., sez. VI, 27 giugno 2013, n. 28478, Corsaro, in Ced. Cass., Rv. 255862. [6] Cass., sez. un., 27 aprile 2017, n. 28954, Iannelli, cit., § 2. [7] Cass., sez. un., 19 dicembre 2001, n. 41, Angelucci, in Cass. pen., 2002, p. 1618, con nota di A. Marandola, Mancata opposizione delle parti e appellabilità delle sentenze di proscioglimento predibattimentale. [8] Cass., sez. un. 25 gennaio 2005, De Rosa, in Cass. pen., 2005, p. 1835 ss. [9] Cass., sez. un., 27 febbraio 2002, n. 17179, Conti, in Giust. pen., 2003, III, c. 129 ss. [10] Cass., sez. un., 27 febbraio 2002, n. 17179, Conti, cit. [11] Cass., sez. I, 22 febbraio 2011, Posti, in Foro it., 2011, II, c. 581 ss.; Cass., Sez. un., 28 maggio 2009, Tettamanti, cit.; Cass., sez. V, 11 novembre 2008, Mazzamuto, in Cass. pen., 2010, p. 1564 ss.

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Richiesta di messa alla prova in seguito a opposizione a decreto penale: la competenza è del giudice per le indagini preliminari

Cass. pen., Sez. I, sent. 2 febbraio 2017 (dep. 4 maggio 2017), n. 21324,

Pres. Di Tomassi, Rel. Talerico, Ric. Pini

di Emanuele Sylos Labini 1. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha stabilito che è del giudice per le indagini preliminari la competenza a decidere sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, presentata contestualmente all’opposizione ad un decreto penale di condanna. La pronuncia risulta di particolare interesse, poiché si pone in consapevole contrasto con quanto stabilito in una precedente decisione della stessa sezione, secondo cui, al contrario, sarebbe competente il giudice del dibattimento [1]. 2. Nel caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità, l'imputata proponeva opposizione al decreto penale di condanna, emesso dal giudice per le indagini preliminari di Milano, presentando contestualmente richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova ai sensi dell'art. 464-bis, comma 2, ultima parte, c.p.p. e, in subordine, di giudizio abbreviato. Il giudice dichiarava inammissibile l'istanza avanzata dalla suddetta ritenendo che in sede di opposizione non possa essere proposta richiesta di messa alla prova, poiché il suo eventuale fallimento determinerebbe una stasi processuale non rimediabile. Avverso tale decisione, dunque, proponeva ricorso per Cassazione l'imputata denunciando l'inosservanza di norme processuali, nonché l'abnormità della decisione stessa, atteso che la norma sopra menzionata prevede espressamente che, nel procedimento per decreto, la richiesta di accesso alla messa alla prova deve essere presentata con l'atto di opposizione; di conseguenza, la decisione impugnata, in violazione del dettato normativo, avrebbe comportato una lesione dei diritti dell'imputata nei confronti della quale era stato immotivatamente precluso l'accesso al probation. La Suprema Corte ritiene fondato il ricorso, individuando nel giudice per le indagini preliminari l'autorità giudiziaria competente a decidere sull'istanza di richiesta della messa alla prova, presentata con l'atto di opposizione a decreto penale di condanna. A tale conclusione, il Supremo Collegio giunge attraverso un percorso argomentativo che tocca innanzitutto l'ammissibilità del ricorso stesso. Sicché, richiamando la consolidata giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite sussistente sul punto, la Corte rammenta come il rigetto della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova non sia immediatamente ricorribile [2]. Tuttavia, pur condividendo l'orientamento sopra richiamato, a parere della Corte stessa, tale principio non s'attaglia alla fattispecie in esame, atteso che la richiesta è stata dichiarata inammissibile con provvedimento che, presentando i caratteri dell'abnormità, deve ritenersi ricorribile in Cassazione. Com'è noto, la categoria processuale dell'abnormità [3] è stata creata pretoriamente; il provvedimento, per essere abnorme, deve integrare non un semplice vizio dell'atto in sé, da cui scaturiscono determinate patologie dal punto di vista processuale, bensì – sempre e comunque –

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uno sviamento della funzione giurisdizionale, la quale non risponde più al modello previsto dalla legge, ma si colloca al di là del perimetro entro il quale è riconosciuta dall'ordinamento [4]. Orbene, l'abnormità dell'atto processuale può presentarsi tanto sotto il “profilo strutturale”, allorché l'atto, per la sua singolarità, risulti avulso dall'interno ordinamento processuale, quanto sotto “l'aspetto funzionale”, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo, nonché una nullità rilevabile nel futuro corso del processo, idonea, perciò, a determinare una “crisi” irreparabile della sua evoluzione. Nel caso di specie, rileva la Cassazione, appare di tutta evidenza come l'ordinanza impugnata sia stata emessa in violazione di legge, in quanto l'art. 464-bis, comma 2, c.p.p. espressamente prevede che con l'opposizione a decreto penale di condanna possa essere fatta richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Ne consegue che l'atto, abnorme sotto il profilo funzionale, determina un decisivo e verosimilmente non rimediabile nocumento al diritto di difesa, posto che il giudice, dichiarando inammissibile la richiesta principale di accesso al probation e fissando l'udienza in ordine alla sola istanza subordinata di rito abbreviato, ha, di fatto, precluso al ricorrente la possibilità di beneficiare della misura della messa alla prova, non più formulabile in limine al giudizio abbreviato. Per tali motivi, conclude il Supremo Collegio, si deve procedere all'annullamento senza rinvio del provvedimento con la conseguente restituzione degli atti al giudice che lo ha emesso, per quanto di competenza in ordine all'ulteriore corso. 3. Fatta questa premessa, i giudici di legittimità passano all'analisi del punto focale del ricorso, chiarendo quale avrebbe dovuto essere il corretto sviluppo della domanda di sospensione del procedimento con messa alla prova, ineccepibilmente formulata dalla ricorrente in via principale con l'opposizione a decreto penale di condanna ex art. 464-bis, comma 2, ultimo periodo, c.p.p. Per far ciò, la Corte procede in primo luogo ad un breve riepilogo delle peculiarità che caratterizzano l'intera disciplina che regola la messa alla prova per gli adulti, istituita con l. 28 aprile 2014, n. 67 [5]. A tal proposito, giova ricordare che la misura in esame costituisce un probation giudiziale che si caratterizza per la realizzazione della rinuncia statale alla potestà punitiva [6] condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata ed assistita dall'autorità giudiziaria. Invero, l'istituto de quo è espressione di un modello di diversion [7], all'interno del quale le tecniche di giustizia riparativa (c.d. restorative justice) [8] consentono la piena responsabilizzazione dell'autore del reato e la conseguente ricomposizione tra il suddetto e la vittima del reato stesso. La misura così introdotta risulta caratterizzata da un doppio profilo, sostanziale e processuale: da un lato, la collocazione sistematica degli artt. 168-bis, ter e quater c.p., inseriti nel capo I del Titolo VI del codice penale subito dopo la disciplina della sospensione condizionale della pena, consente di ritenere l'istituto come una causa di estinzione del reato; dall'altro, l'inserimento degli artt. 464-bis, ter, quater, quinquies, sexies, septies, octies e novies c.p.p. nell'apposito titolo V-bis del Libro VI del codice di rito, ne conferma la natura di procedimento speciale. La novità più interessante, però, è sancita nell'art. 464-ter c.p.p. e riguarda la possibilità che la richiesta venga formulata anche durante le indagini preliminari, in perfetta assonanza con quanto previsto per l'oblazione e per l'applicazione della pena su richiesta delle parti. L'art. 464-quater c.p.p., individua, invece, i criteri della decisione giudiziale sull'ammissione del probation; la norma dispone che il giudice, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., decide con ordinanza la sospensione del procedimento con messa alla prova allorquando, alla luce dei parametri indicati all'art. 133 c.p., reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l'imputato si asterrà dalla commissione di ulteriori reati, sulla

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base di un giudizio prognostico simile a quello previsto per l'applicazione della sospensione condizionale della pena o del perdono giudiziale previsto per i minorenni. I successivi articoli del codice di rito disciplinano l'esecuzione dell'ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova, l'acquisizione di prove («non rinviabili» o di quelle che «possono condurre al proscioglimento dell'imputato») durante la sospensione del procedimento («con le modalità stabilite per il dibattimento»), gli esiti della messa alla prova (l'estinzione del reato, che ne costituisce l'epilogo naturale; la ripresa del processo, in caso di esito negativo della prova) e la revoca dell'ordinanza di sospensione. Ora, la ripresa del processo viene determinata dal momento in cui lo stesso è stato interrotto, ossia: gli incombenti conclusivi delle indagini preliminari, nel caso previsto dall'art. 464-ter c.p.p.; l'udienza preliminare, allorquando la richiesta sia stata presentata in detta fase del procedimento ordinario; la dichiarazione di apertura del dibattimento, nell'ipotesi di richiesta presentata nel giudizio direttissimo e nel procedimento per citazione diretta, o nel caso di sospensione “recuperata” a seguito di primitivo rigetto o del dissenso del Pubblico Ministero, ai sensi degli artt. 464-ter, comma 4, e 464-quater, comma 9, c.p.p.; la costituzione delle parti nel dibattimento nel caso di richiesta presentata dopo l'emissione del decreto di giudizio immediato. Ebbene, da siffatto excursus risulta di palmare evidenza che ai fini dell'accesso alla misura della messa alla prova il sistema individua sedi, limiti temporali e scansioni del tutto analoghi a quanto previsto per il giudizio abbreviato e per l'applicazione della pena su richiesta delle parti. Ben si comprende, pertanto, che a decidere sulla richiesta formulata dall'imputata debba essere l'autorità giudiziaria che in ciascuna delle sedi individuate, “procede”. Di conseguenza, prosegue la Suprema Corte, nel caso in cui detta richiesta provenga con l'atto di opposizione a decreto penale di condanna, tale autorità giudiziaria va individuata nel giudice per le indagini preliminari, il quale avendo la disponibilità del fascicolo è da considerare il giudice che (ancora) procede. 4. Da tale percorso argomentativo si evince come la Suprema Corte si schieri apertamente contro l'asistematica soluzione precedentemente prospettata dalla stessa sezione, secondo cui spetterebbe invece al giudice del dibattimento, e non al giudice per le indagini preliminari, la competenza a decidere sulla questione in esame [9]. Non convince, in particolar modo, l'affermazione secondo cui militerebbe in favore della soluzione dibattimentale l'obiettiva diversità della richiesta di messa alla prova rispetto a quella di ammissione ad un rito alternativo, atteso che, com'è noto, la disciplina del probation, invece, è proprio collocata all'interno del Titolo V-bis del Libro VI del codice di rito che regola, appunto, i procedimenti speciali. A fortiori, sottolineano i giudici di legittimità, non appare convincente neppure l'affermazione – contenuta sempre nella citata precedente pronuncia – secondo cui, se dovesse essere ritenuto competente il giudice per le indagini preliminari, quest'ultimo, del tutto incongruamente, dovrebbe acquisire delle prove relativamente al giudizio che, in caso di revoca dell'ordinanza di messa alla prova, verrebbe poi celebrato, per la restante parte, dal giudice del dibattimento, con la conseguenza che, in tal modo, il legislatore avrebbe introdotto una nuova ipotesi di incidente probatorio, con ulteriore deroga rispetto al principio di oralità della prova. A riprova di ciò, vale la pena rammentare quanto disposto all'art. 464-sexies c.p.p., il quale stabilisce che durante la sospensione del procedimento con messa alla prova il giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, acquisisce, a richiesta di parte, le prove non rinviabili e quelle che possono condurre al proscioglimento dell'imputato. Cosicché, conclude la Suprema Corte, è proprio l'uso dell'espressione “con le modalità stabilite per il dibattimento”, utilizzata nel suddetto articolo e citata nella sentenza richiamata, che vale a dimostrare, invece, l'esatto opposto della soluzione adottata in quella sede: se la competenza fosse

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– sempre – riservata al giudice del dibattimento, non vi sarebbe ragione alcuna per tale precisione, riservata alle forme da adottare. Del resto, l'intenzione del legislatore è proprio quella di consentire che le prove “non rinviabili” raccolte ai sensi dell'art. 464-sexies c.p., possano essere utilizzate “anche” dal giudice del dibattimento, in perfetta assonanza con quanto accade per quelle raccolte nell'incidente probatorio ex art. 392 c.p.p., sia nel corso delle indagini preliminari, sia nella fase dell'udienza preliminare. 5. Alla luce di quanto sopra esposto, non si può che condividere il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte, in forza del quale sulla richiesta di sospensione del procedimento e di messa alla prova ex art. 464-bis c.p.p., avanzata in sede di opposizione a decreto penale di condanna, è competente a decidere il giudice per le indagini preliminari e non il giudice del dibattimento. A parere di chi scrive, tale conclusione risulta di notevole interesse, poiché foriera di importanti conseguenze applicative in materia di messa alla prova per gli adulti. D'altronde, come ampiamente suggerito dagli stessi giudici di legittimità, non si può ritenere che il dibattimento sia la sede “naturale” per la decisione sulla richiesta di probation; se così fosse, si andrebbe a ledere il diritto di difesa dell'imputato, privandolo della possibilità di eventualmente richiedere, in via subordinata – come accaduto nel caso in esame ovvero in caso di rigetto –, la definizione mediante altri riti alternativi la cui richiesta non risulti ancora preclusa. [1] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 3 febbraio 2016, n. 25867, in CED, Rv. 267062, ove si precisa che l'art. 461, comma 3, c.p.p., ossia la norma che individua nel giudice che ha emesso il decreto penale di condanna l'autorità giudiziaria destinataria della richiesta dell'imputato di ammissione al giudizio abbreviato ovvero di applicazione della pena a norma dell'art. 444 c.p.p., non è applicabile, in via analogica, alla diversa ipotesi in cui con l'opposizione al decreto penale sia stata invece formulata una richiesta di messa alla prova ex art. 464-bis c.p.p.. In favore di tale soluzione militano sia l'obiettiva diversità della richiesta di messa alla prova rispetto a quella di ammissione ad un rito alternativo, resa evidente anche dal dato testuale della mancanza di una espressa previsione in tal senso, da ritenersi indicativa di una volontà del legislatore di attribuire, in tal caso, la competenza al giudice chiamato a definire il giudizio conseguente all'opposizione, sia anche la previsione dell'art. 464-sexies c.p.p., secondo cui “durante la sospensione del procedimento con messa alla prova il giudice con le modalità stabilite per il dibattimento, acquisisce, a richiesta di parte, le prove non rinviabili e quelle che possono condurre al proscioglimento dell'imputato. Per tali motivi, aggiunge la Suprema Corte, se dovesse essere ritenuto competente il giudice delle indagini preliminari, quest'ultimo, del tutto incongruamente, dovrebbe acquisire delle prove relativamente al giudizio che, in caso di revoca dell'ordinanza di sospensione con messa alla prova, verrebbe poi ad essere celebrato, per la restante parte, dal giudice del dibattimento, con la diretta conseguenza che, in tal modo, il legislatore avrebbe introdotto una nuova ipotesi di “incidente probatorio”, ulteriormente derogando in maniera tra l'altro non espressa al principio di oralità della prova. [2] V. Cass. pen., SS. UU., 31 marzo 2016, n. 33216, in CED, Rv. 267234. [3] Per ulteriori approfondimenti riguardanti la categoria dell'abnormità, cfr.: Bellocchi, L'atto abnorme nel processo penale, Utet, Torino, 2012; Nevoli, voce Abnormità, in Dig. disc. pen., Agg. VI, Utet, Torino, 2011; Santalucia, L'abnormità dell'atto processuale penale, Cedam, Padova, 2003. [4] V. Cass. pen., SS. UU., 26 marzo 2009, n. 25957, in CED, Rv. 243590. [5] Per un'ampia disamina dell'istituto in questione, cfr.: Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. proc., 2014; Bove, Messa alla prova per gli adulti: una prima lettura della L. 67/14, Atti del convegno della Scuola Superiore della Magistratura (Scandicci, 9-11 giugno 2014), in questa Rivista, 25 giugno 2014; Fiorentin, Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, in Guida dir., 2014, 21, 67; Marandola, La messa alla prova dell'imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Dir. pen. proc., 2014; Muzzica, La sospensione del processo con messa alla prova per gli adulti: un primo passo verso un modello di giustizia riparativa?, in Proc. pen. giust., vol. III, 2015; Piccirillo, Prime riflessioni sulle nuove disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova

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e nei confronti degli irreperibili, Relazione nr. III/7/2014 del 5 maggio 2014 a cura dell'Ufficio del Massimario, in www.cortedicassazione.it; Pulito, Messa alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale, in Proc. pen. giust., vol. I, 2015; Tabasco, La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti, in Arch. Pen., I, 2015; Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria. Messa alla prova degli adulti e proscioglimento per tenuità del fatto, Giappichelli, Torino, 2014; Zaccaro, La messa alla prova per adulti. Prime considerazioni, in Questione Giustizia, 29 aprile 2014. [6] In argomento cfr.: Bartoli, op. cit., p. 676; Tabasco, op. cit., p. 1 s.. [7] Per un'analisi più approfondita della diversion cfr., in particolare: BURGSTALLER, Perspektiven der Diversion in Österreich aus der Sicht der Strafreschtwissenschaft, in Perspektiven der Diversion in Österreich, Interdisziplinare Tagung vom 27 bis 29 April 1994 in Innsbruck, Schriftreihe des Bundesministeriums fůr Justiz, 1995, p. 126; Ceretti-Merzagora, Alcune soluzioni straniere di politica penale minorile: tra «espansionismo» e «minimalismo», in Giovani responsabilità e giustizia, Ponti (a cura di), Giuffrè, Milano, 1985, p. 109 ss.; Nicoli, L'alternativa tra azione penale e diversion nei sistemi di giustizia minorile, in Crit. pen., vol. I-II, p. 1997, p. 83 ss.; Ruggieri, Diversion: dall'utopia sociologica al pragmatismo processuale, in Cass. pen., 1985, p. 538 ss.. [8] Per un inquadramento generale della giustizia riparativa cfr.: Herrera, Rehabilitación y restablecimiento social. Valoración del potencial rehabilitador de la justicia restauradora desde planteamientos de teoría jurídica terapéutica, in Cuadernos de derecho judicial, 2006; Zehr, Changing lenses. A new focus on crime and justice, Herald Press, Scottsdale, 1990, p. 181. Tra le opere principali italiane, cfr.: Bouchard-Mierolo, Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia attraverso la riparazione, Milano, Mondadori, 2005; Castelli, La mediazione. Teorie e tecniche, Cortina, Milano, 1996; Ciavola, Il contributo della giustizia penale consensuale e riparativa alla giustizia dei modelli di giurisdizione, Giappichelli, Torino, 2009; Fiandaca-Visconti, Punire, mediare, riconciliare, Giappichelli, Torino, 2009; Mannozzi, La giustizia senza spada, Giuffrè, Milano, 2003; Mestitz, Mediazione penale: chi, dove, come e quando, Carocci, Roma, 2004; Scarpario, Il coraggio di mediare, Guerini e Associati, Milano, 2001; Tigano, Giustizia riparativa e mediazione penale, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2006. [9] V. Cass. pen., Sez. I, 3 febbraio 2016, n. 25867, in CED, Rv. 267062.

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Aggravante del metodo mafioso: la Suprema Corte propone una sintesi degli elementi probatori rilevanti per l’integrazione della circostanza di cui all’art. 7 d.l. 152/1991

Cass., Sez. VI, sent. 1 marzo 2017 (dep. 23 marzo 2017), n. 14249,

Pres. Ippolito, Rel. Bassi, Imp. Barbieri

di Laura Ninni 1. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione torna [1] commendevolmente a riaffermare la necessità di un solido impianto motivazionale alla base della contestazione della circostanza aggravante “del metodo mafioso” di cui all’art. 7 d.l. 152/1991, conv. in l. 201/1991 [2], ed opera un’importante ricognizione delle evidenze oggettive da porsi alla base della stessa. Nonostante tale sforzo, tuttavia, come vedremo la circostanza in parola continua a risultare intrisa di ambiguità. Nel presente caso la Cassazione è chiamata a decidere sul ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria, con la quale si confermava un provvedimento applicativo di misura cautelare pronunciato dal GIP del Tribunale della medesima città, in relazione ad una tentata estorsione continuata, aggravata ai sensi dell’art. 629 c. 2 c.p. nonché, per l’appunto, ai sensi dell’art. 7 l. 12 luglio 1991, n. 203.

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2. Secondo la prima ricostruzione del fatto, il ricorrente, un imprenditore reggino, avrebbe posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere con la minaccia un dipendente del comune di Reggio Calabria, nella specie, Responsabile Unico del Procedimento in relazione all’esecuzione di un appalto di lavori per la riduzione del rischio idrogeologico del bacino della fiumara di Gallico, ed il direttore dei lavori sul cantiere per l’esecuzione del predetto appalto a non provvedere alla risoluzione del contratto di appalto. Quest’ultima, viceversa, sarebbe dovuta essere disposta dai suddetti soggetti, stante il permanere di informative antimafia ostative alla continuazione dell’opera nei confronti dell’impresa appaltatrice facente capo al ricorrente. L’ordinanza di cui sopra era stata impugnata dal ricorrente – peraltro fratello di un noto esponente di un clan ’ndranghetista –, tra gli altri motivi, per “violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’art. 7 l. 12 luglio 1991, n. 203, per avere il Tribunale omesso di motivare in modo adeguato in merito alla sussistenza del metodo mafioso”. 3. Nell’accogliere tale motivo di doglianza, la Corte cerca di fare chiarezza sui presupposti applicativi dell’aggravante in esame. Essa rammenta in primis che la circostanza è configurabile anche a carico di soggetto estraneo all’associazione di tipo mafioso, purché costui delinqua ponendo in essere un “comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale evocata”. In secondo luogo, e conseguenzialmente, la Cassazione sottolinea come il “carattere mafioso” del comportamento del soggetto agente non possa essere desunto dalla mera reazione della vittima. Ebbene, secondo la Cassazione, il Tribunale del Riesame non avrebbe rispettato tali parametri ermeneutici. La Cassazione, a differenza di quanto considerato dal Collegio cautelare, ritiene infatti che il comportamento posto in essere dal ricorrente, ed in particolar la minaccia, rivolta nei confronti del dipendente comunale e del direttore dei lavori (“stu lavuru si mu cacciati a mia non facciu cchiù nuddu” ossia “se mi cacciate, questo lavoro non lo fa più nessuno”), non integri di per sé gli estremi della minaccia “di tipo mafioso”. La condotta incriminata, ed in particolar modo l’espressione poc’anzi richiamata, è sì elemento costitutivo del delitto di estorsione, integrando quindi a tutti gli effetti la minaccia-mezzo penalmente rilevante ai sensi dell’art. 629 c.p., ma non costituisce, secondo la Corte, minaccia contraddistinta dall’utilizzo del metodo mafioso. Pertanto, la Cassazione annulla l’ordinanza impugnata limitatamente, per quanto qui rileva, all’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/1991, e rinvia al Tribunale di Reggio Calabria per nuovo esame sul punto. 4. Il tema affrontato dalla Corte concerne, come evidente, la questione della c.d. “minaccia mafiosa” che, secondo i giudici reggini, si sarebbe sostanziata nell’avere il ricorrente fatto intendere ai due pubblici ufficiali che, qualora essi avessero disposto, nei confronti della sua impresa, la risoluzione del contratto, nessun’altra avrebbe completato l’opera, così implicitamente prospettando alle persone offese la vasta gamma di ritorsioni tipicamente legate al controllo sul territorio operato delle organizzazioni di stampo mafioso. Della completa ricostruzione del fatto ascritto all’agente e della sua qualificazione sarà onerato il giudice al cui vaglio sarà sottoposto, nel merito, il procedimento in esame [3]; in questa sede preme, invece, sottolineare quanto segue. La Cassazione rileva come, nonostante l’innegabile carattere intimidatorio che contraddistingue l’espressione appena ricordata, essa, di per sé, non possa fondare la contestazione dell’aggravante in esame, dal momento che, non suffragata da “ulteriori evidenze

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oggettive”, non può dirsi “oggettivamente idonea ad esercitare una coartazione psicologica sulle persone, avente i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale”. La Cassazione sposa qui una lettura garantista della norma, già in talune occasioni privilegiata dalla giurisprudenza (si veda ad esempio una recentissima Cass. Pen., sez. II, sent. n. 20197 del 09.02.2017, dep. 27.04.2017, in DeJure), che insiste sulla necessità di verificare che la condotta intimidatoria sia oggettivamente idonea ad ingenerare nella vittima la percezione che l’agente goda di legami con la criminalità organizzata di tipo mafioso. Una tale interpretazione della disposizione di cui all’art. 7 d.l. 152/1991 appare rispettosa del principio di offensività, in quanto permette di punire più severamente – rispetto alla minaccia tout court, sia essa fine o mezzo, già “coperta” dalle disposizioni incriminatrici presenti nel nostro codice penale – quelle condotte che presentano un maggior grado di offensività, perché idonee ad esercitare una più forte pressione psicologica sulla vittima. Quest’ultima, infatti, per effetto della “minaccia mafiosa”, vede prospettarsi un danno futuro ed ingiusto di maggior entità e/o più probabile verificazione, proprio in quanto la minaccia proverrebbe da soggetto che gravita nella sfera di associazioni di tipo mafioso. La percezione che si instaura nella mente della vittima, generata dalla comprensione del messaggio, anche implicito, veicolato dall’autore della minaccia, deriva dalla consapevolezza delle ampie possibilità di ritorsione che l’associazione mafiosa è in grado di attivare in danno all’offeso. 5. Rimane, a questo punto, il problema di verificare quando una condotta risulti “oggettivamente idonea ad esercitare una coartazione psicologica sulle persone, avente i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale”. A tal fine non può certo darsi rilievo unico o principale alla percezione dell’offeso [4]: in tal modo, infatti, si relegherebbe inaccettabilmente in secondo piano proprio l’indagine sul comportamento oggettivo tenuto dal soggetto agente. Ecco allora che la sentenza in esame, raccogliendo e ricomponendo alcuni precedenti giurisprudenziali, cerca di elaborare, per lo meno in relazione ai reati in cui la minaccia sia elemento costitutivo, un compiuto “catalogo” di indicatori oggettivi, da cui possa desumersi il “carattere mafioso” della minaccia stessa. Alla sentenza in epigrafe deve pertanto riconoscersi il merito di aver raccolto e ricondotto a sistema molteplici elementi che la giurisprudenza precedente aveva di volta in volta indicato come gli “indicatori oggettivi” – in quanto esteriorizzati o comunque in linea di massima verificabili – validi ad attestare l’utilizzo del metodo mafioso da parte dell’autore della minaccia. Tali indicatori possono essere suddivisi in due categorie, a seconda che attengano al contenuto della minaccia oppure alle modalità della condotta dell’agente e alle peculiarità del contesto in cui tali manifestazioni minacciose vengono poste in essere. Nell’ambito della prima categoria, quella attinente al contenuto della minaccia, la Corte non ha in realtà enucleato elementi utili all’identificazione della stessa. Nella seconda, invero ampia, categoria, la Corte ha viceversa indicato elementi eterogenei che a loro volta possono essere raggruppati per soggetto o entità a cui afferiscono: l’autore della minaccia, la vittima della stessa, l’ambiente in cui l’intimidazione si consuma. In primo luogo vengono quindi in rilievo le qualità soggettive del reo: l’atteggiamento e la gestualità dell’agente durante la consumazione del reato [5] o il coinvolgimento di questi in un procedimento per fatti di criminalità organizzata [6]; la sua vicinanza ad ambienti criminali ed in particolare i rapporti con esponenti della consorteria criminale. In secondo luogo, la Corte dà rilievo ad un dato afferente alla vittima della minaccia, ossia al fatto che questa sia a conoscenza della vicinanza dell’agente a clan mafiosi locali, o ne abbia anche solo il “sentore” [7].

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In terzo luogo la Corte indica, come ulteriore elemento di prova alla base della contestazione dell’aggravante del metodo mafioso, il “contesto ambientale” in cui sono occorsi i fatti di intimidazione, e le “infiltrazioni mafiose nel tessuto economico sociale” [8]. Essa conclude, infine, con un’amplissima formula, che lascia aperto il quadro degli elementi probatori sopra delineato, conferendo rilevanza ad ogni altra evidenza, afferente alla condotta del reo, idonea ed evocare, con efficienza causale, l’esistenza di un sodalizio e, quindi, idonea ad incutere il timore “aggiuntivo” della ritorsione da parte dello stesso. Con tale formula conclusiva, la Cassazione non solo fa intendere che gli elementi probatori sui quali validamente fondare la contestazione dell’aggravante sono potenzialmente infiniti, ma fornisce anche una chiave di lettura per tutti gli altri indicatori enumerati, sottolineando come la ratio sottesa alla circostanza di cui all’art. 7 consista nella maggiore incisività che la condotta intimidatoria, posta in essere con metodo mafioso, ha nei confronti della libera determinazione della vittima. 6. In definitiva, la Suprema Corte, nel provvedimento in commento, pare essersi mossa in una direzione “oggettivistica”, indicando parametri che, per lo meno in taluni casi, sono riscontrabili nella realtà fenomenica. In questo senso, la Cassazione sposa un orientamento garantista già affermato in talune, precedenti pronunce di legittimità (si vedano, ad esempio, Cass. pen. Sez. II, sent. n. 45321 del 14.10.2015, in Leggi d’Italia, e Cass. pen. Sez. VI, sent. n. 28017 del 26.05.2011, ivi). La sentenza in esame ha, come sopra esposto, pregevolmente costruito un elenco di parametri dei quali il Giudice deve tenere conto ai fini della contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7. Nonostante – e, forse, proprio in virtù di – tale operazione, alcuni interrogativi rimangono, tuttavia, aperti. In primis: dal momento che la Corte non esplicita alcuna gerarchia nell’ambito dei parametri sopra individuati, si deve ritenere che gli stessi godano di pari importanza nell’ambito della valutazione operata dal giudice, oppure si può ipotizzare un maggior rilievo degli uni rispetto agli altri? In altre parole: è legittimo considerare dirimente la presenza di uno o più elementi, al punto da poter considerare la sussistenza degli stessi come di per sé idonea a contestare l’aggravante del metodo? E, ancora: ipotizzando che essi godano di pari rilevanza, quanti sono gli elementi probatori da porre alla base della contestazione del metodo, tra quelli elencati? Considerando che, nella sentenza in commento, la Cassazione, pur riconoscendo la valenza intimidatoria della minaccia posta in essere dal ricorrente, non la considera sufficiente per l’affermazione della sussistenza del metodo, e viceversa richiede ulteriori evidenze, sorge spontaneo chiedersi fino a che punto la Pubblica Accusa debba spingersi a fornire la prova del metodo mafioso e, viceversa, il Giudice debba considerarla necessaria ai fini della contestazione. In terzo, e ultimo luogo, vi è una questione strettamente legata all’interrogativo appena sopra posto: le indicazioni espresse dalla sentenza in commento in quale rapporto si collocano con le numerose pronunce di legittimità [9] le quali in passato hanno negato che la circostanza aggravante in parola possa risultare integrata in presenza di uno solo tra gli elementi sopra indicati? A tali importanti quesiti la Corte non pare fornire soluzione. La pronuncia de qua, pur collocandosi in un’ottica garantista e pur compiendo un passo avanti nella ricostruzione della base probatoria della circostanza del metodo mafioso, non sembra, pertanto, sopire tutti i dubbi – dubbi imposti, a prescindere da ogni altra considerazione, dalla gravità delle conseguenze scaturenti già dalla sola contestazione dell’aggravante in parola. Conseguenze sulle quali la stessa sentenza in esame giustamente richiama l’attenzione, sottolineando gli effetti che l’aggravante di cui all’art. 7 cit. è in grado di esplicare, non solo – a responsabilità penale accertata – in punto di

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aumento di pena, ma, altresì ed ancora prima, sulla disciplina processuale del reato in relazione al quale l’aggravante è contestata [10], ed in particolare sui profili cautelari come, in primis, l’applicazione della presunzione – se pur relativa – di pericolosità sociale e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere di cui all’art. 275 c. 3 c.p.p. [1] Principio già espresso da Cass. Sez. 6, n. 21342 del 02/04/2007, Mauro, Rv. 236628. [2] Si riporta, per comodità del lettore, il testo dell’art. 7 cit.: c.1. Per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà . c.2 Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l'aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante. [3] Sia consentito segnalare che, a parere di chi scrive, nel caso di specie sembra in realtà ricorrere una minaccia “mafiosa”, e ciò nonostante il fatto che il ricorrente sia incensurato e i due procedimenti avviati dalla DDA a suo carico siano stati archiviati. La suddetta minaccia pare, infatti, essere stata idonea ad esercitare una pressione psicologica nei confronti delle vittime avente i caratteri propri dell’intimidazione mafiosa, come peraltro da queste ultime confermato, e come potrebbe risultare non solo dal fatto di essere il ricorrente fratello di un noto boss ‘ndranghetista, ma soprattutto dalla circostanza che l’impresa del ricorrente era stata oggetto di un’informativa antimafia di segno negativo. [4] Così, invece, un’opinione diffusa in giurisprudenza: si veda ad esempio Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16053 del 25/03/2015 Cc. (dep. 17/04/2015), in DeJure. [5] Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 42818 del 19.06.2014, in DeJure, che ha ritenuto necessarie “condotte specificamente evocative di forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo” nell’ambito della consumazione del reato aggravato. [6] Così Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 37516 del 11.06.2013, in DeJure, nella quale l’applicazione della circostanza viene automaticamente legata alla partecipazione, da parte dell’agente, a sodalizio di tipo mafioso. [7] Si veda, ad esempio, Cass. Pen., Sez. 2, sent. n. 10467 del 10.02.2016, in Leggi d’Italia, che ha dato rilievo alla “pur confusa percezione [da parte della vittima] dello spessore criminale” dell’agente. [8] Ad esempio Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 32 del 30.11.2016 (dep. 2 gennaio 2017), in Leggi d’Italia, recente pronuncia che ha dato importanza decisiva alla collocazione ambientale nella quale si esplica la condotta intimidatoria. [9] Ex multis: Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 24992 del 24.05.2013, in Leggi d’Italia; Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 27666, del 4.07.2011, in Leggi d’Italia. [10] Sulla capacità di talune circostanze di incidere, anche significativamente, sulla disciplina processuale, e non solo sostanziale, dei reati cui si riferiscono, cfr. amplius F. Basile, L’enorme potere delle circostanze sul reato; l’enorme potere dei giudici sulle circostanze, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 4, 2015, 1743.

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È applicabile l'aggravante ex art. 80, comma 1, lett. G), d.p.r. 309/1990 al traffico di sostanze stupefacenti nei pressi dell'università?

Cass., Sez. VI, sent. 14 febbraio 2017 (dep. 1 giugno 2017), n. 27458,

Pres. Rotundo, Rel. Fidelbo, Ric. P.M. in proc. Maarafi

di Lorenzo Rovini 1. Con la sentenza in commento, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione esclude la configurabilità dell'aggravante ad effetto speciale ex art. 80, comma 1, lett. g), d.P.R. 309/1990 [1] al traffico di sostanze stupefacenti avvenuto nei pressi dell'Università. Più nello specifico, la Suprema Corte rigetta il ricorso promosso dal pubblico ministero avverso l'ordinanza del G.I.P. di Bologna con cui veniva respinta la richiesta di convalida dell'arresto e di applicazione di una misura cautelare custodiale a carico dell'imputato perché ritenuti infondati entrambi i motivi dedotti. 2. Nella vicenda sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità, l'imputato veniva tratto in arresto dalla polizia giudiziaria perché colto nell'atto di vendita di un modesto quantitativo di cocaina dal peso lordo di 1.73 grammi verso un corrispettivo di denaro non identificato, nei pressi dell'area universitaria. Il reato, correttamente ipotizzato nell'ipotesi lieve di cui all'articolo 73, comma 5, d.P.R. 309/1990, in ragione della modesta entità della sostanza stupefacente rinvenuta e delle modalità dell'avvenuta cessione [2], veniva, secondo il primo giudice, erroneamente contestato con l'aggravante di cui sopra in quanto non riconducibile l'università né alla categoria di “scuole di ogni ordine e grado” né a quella “delle comunità giovanili”. 3. Avverso tale ordinanza ricorreva il Pubblico Ministero deducendo l'erronea applicazione dell'art. 80, comma 1, lett. g) d.P.R. 309/1990 laddove si esclude che l'aggravante in questione possa essere contestata anche con riferimento alle aree universitarie, visto che la norma sarebbe applicabile al traffico di sostanze stupefacenti avvenuto nei pressi di “scuole di ogni ordine e grado” ed, eventualmente, anche nelle zone identificabili come “comunità giovanili”, nonché la mancata convalida dell'arresto per non aver considerato la pericolosità dell'imputato, desumibile dalla circostanza che a carico dello stesso risultava già un arresto in flagranza di reato per un'identica condotta commessa negli stessi luoghi. 4. Nell'analizzare il primo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione, ripercorre le motivazioni che hanno portato il G.I.P. di Bologna ad escludere l'applicazione della suddetta aggravante all'ipotesi in questione. In primo luogo, si afferma nel provvedimento impugnato, i principi di tassatività e di legalità in materia penale non consentono di sanzionare una condotta o ritenere sussistente una circostanza che aggravi la pena attraverso un'interpretazione di tipo analogico in malam partem, spettando al legislatore le scelte di natura sanzionatoria. Da ciò evidentemente deve ricavarsi che i luoghi presi in considerazione dall'aggravante in questione (“scuole di ogni ordine e grado” e “comunità giovanili”) siano da interpretarsi strictu sensu, dovendosi evitare applicazioni estensive della norma ancorché ispirate all'ottenimento di un più efficace contrasto alla diffusione delle droghe in situazioni di particolare vulnerabilità sociale.

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In secondo luogo, prosegue l'ordinanza, nonostante la ratio dell'aggravante in questione consista nel rafforzare la tutela penale nei confronti di quelle condotte illecite poste in essere proprio in presenza di collettività ritenute particolarmente vulnerabili perché maggiormente esposte alle insidie dello spaccio di droga a causa della giovane età ovvero dei luoghi frequentati, in cui è più facile la diffusione degli stupefacenti (scuole, comunità giovanili, caserme, ospedali e strutture per la cura dei tossicodipendenti), il dovere di interpretazione restrittiva della circostanza aggravante, nonché il rispetto del divieto di analogia in malam partem, impongono di escludere che l'area universitaria possa essere ricompresa nelle categorie, ancorché generiche, dalla norma menzionate. A tal fine, si cerca di corroborare la suddetta tesi attraverso la valorizzazione del disposto dell'art. 33 della Costituzione nel quale si distingue in maniera netta la scuola dall'istruzione universitaria. Conformemente al dettato costituzionale, si sostiene che l’ordinamento delle scuole e quello delle università costituirebbero sistemi del tutto distinti e ispirati a principi in parte antitetici: basti considerare che il ciclo di studi scolastico è vincolato al rispetto di programmi predisposti dal competente Ministero, laddove l’insegnamento universitario è libero (ragione per cui i docenti universitari non sono sottoposti a giuramento), nonché al fatto che il ciclo scolastico si conclude con un esame di Stato (art. 33 comma 5° Cost.), anziché con un diploma di laurea conferito da una commissione interna, come nel caso dell'istruzione universitaria. Ulteriormente, il G.I.P. di Bologna esclude che l'università possa essere ricompresa nella categoria delle “comunità giovanili”, ritenendo quest'ultimo che il legislatore, con la suddetta espressione, abbia voluto intendere “contesti collettivi omogenei i cui componenti siano presenti in forma non occasionale in determinati luoghi”. Riconoscendo in primo luogo la indeterminatezza della suddetta locuzione, nondimeno anche in questo caso se ne esclude l'applicazione al caso concreto sulla base di una lettura testuale del dato normativo, dove non si richiama né la scuola, né tanto meno l'università [3]. Secondo l'ordinanza, a tal fine, non sarebbero ravvisabili nell'università i caratteri propri della comunità giovanile, intesa quale entità collettiva presente in modo stabile, residenziale o comunque non estemporaneo in un luogo ad essa esclusivamente dedicato. L'università si distingue per la presenza di una complessità e di un'articolazione di compiti e di sedi che non possono farla ritenere una comunità giovanile, anche perché le varie attività didattiche sono normalmente suddivise in vari luoghi, anche distanti fra loro, e i tempi del giorno e dell'anno, ovvero la presenza di diverse attività di tipo amministrativo, altrettanto coessenziali all'esistenza dell'istituzione, richiedono l'impiego di persone di svariate età e non soltanto giovani. 5. In verità, osserva la Suprema Corte, contrariamente a quanto in precedenza affermato dal primo giudice, l'estrema genericità dell'espressione “comunità giovanili” potrebbe giustificare il riferimento anche all'università, così come sostenuto dal pubblico ministero ricorrente, senza per questo ricorrere al ragionamento analogico. Ciononostante, nel caso in questione, ciò che impedisce l'applicazione all'imputato dell'aggravante in commento è costituito, essenzialmente, dalla nozione di “prossimità” contenuta nel testo dell'art. 80. Si sostiene, conseguentemente, che l'espressione designi quelle aree esterne rispetto alle strutture tipizzate, che devono essere ubicate nelle immediate vicinanze e, proprio per questo, abitualmente frequentate dagli utenti istituzionali, siano essi studenti, militari o pazienti: in altri termini, tra i luoghi indicati e le aree di prossimità deve sussistere un rapporto di relazione immediata, altrimenti non si giustificherebbe nemmeno la previsione dell'aggravante, riferita, appunto, alla oggettiva localizzazione della cessione o dell'offerta dello stupefacente alle persone che frequentano tali luoghi. Sotto questo profilo, a giudizio dei giudici di legittimità, i fatti contestati all'imputato dalla pubblica accusa non sarebbero sufficienti ad integrare tali caratteri, atteso che l'imputazione si riferisce genericamente alla cessione di cocaina “commessa in via [...], angolo [...], in prossimità dell'area universitaria”, mentre il

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verbale di arresto riferisce semplicemente che il fatto è avvenuto nei pressi dell'ingresso dei […]. Tali considerazioni portano a ritenere evidente che il concetto di prossimità sia stato inteso in senso molto ampio, facendosi generale riferimento alla zona universitaria che nel centro di Bologna occupa interi quartieri, laddove invece si è sostenuto che la nozione di prossimità va intesa, rigorosamente, come contiguità fisica e posizionamento topografico dell'agente dedito allo spaccio (o all'offerta) in un luogo che consente l'immediato accesso alle droghe per le persone che lo frequentano [4]. Concludendo sul punto, la Suprema Corte ritiene che il riferimento del tutto vago alla “zona universitaria”, accompagnata dalla puntualizzazione che i fatti si sono svolti all'ingresso di giardini pubblici, non consente di ritenere concretamente che la cessione dello stupefacente da parte dell'imputato sia avvenuta “in prossimità” di una “comunità giovanile”, anche a voler intendere come tale un'area universitaria.

*** 7. Volendo formulare qualche breve considerazione sulla pronuncia in esame, appare necessario sottolineare come la Suprema Corte, contraddicendo quanto affermato dal G.I.P. di Bologna, ammetta la possibilità di ricomprendere l'istruzione universitaria nell'ampio concetto di comunità giovanile tipizzato all'art. 80, comma 1, lett. g), d.P.R. 309/1990. A parere di chi scrive, questo mutamento di prospettiva rispetto al precedente grado di giudizio si mostra decisamente condivisibile. In primo luogo, l'esclusione delle zone universitarie dalle aree tipizzate nell'articolo in questione, sulla base di un'argomentazione per lo più letterale, appare eccessivamente restrittiva, alla luce in particolare della ratio dell'aggravante in commento, che mira a rafforzare la tutela penale nei confronti di quelle condotte illecite poste in essere proprio in presenza di collettività ritenute particolarmente vulnerabili perché maggiormente esposte alle insidie dello spaccio anche in ragione della giovane età. In secondo luogo, la stessa si presenta convincente anche alla luce delle intenzioni del legislatore, il quale ha inteso delineare, con il termine comunità giovanile, semplicemente un contesto collettivo omogeneo in cui i componenti siano presenti in forma non occasionale in determinati luoghi (nozione che sembra dunque ricomprendere anche l'ambiente universitario). La lettura portata avanti dal primo giudice, infatti, poneva anche in questo caso alla base del proprio ragionamento una sterile interpretazione letterale del testo della norma che, appunto, non richiama direttamente l'istruzione universitaria: convalidare una siffatta impostazione comporterebbe un sensibile restringimento della portata della fattispecie nonché l'esclusione anche di altri contesti giovanili di vario tipo, frequentati da ragazzi potenzialmente inclini a cadere nell'uso di sostanze stupefacenti che, altresì, non siano letteralmente ricompresi nel testo dell'art. 80. 8. Tuttavia, i giudici di legittimità rigettano il ricorso promosso dal Pubblico Ministero escludendo l'applicabilità dell'aggravante al fatto in questione in quanto non ritenuto integrato il concetto di “prossimità” ai luoghi indicati dalla norma. Nell'ordinanza si legge chiaramente che l'imputazione si riferisce genericamente alla cessione di cocaina commessa in via […], angolo […], in prossimità dell'area universitaria. Secondo la Suprema Corte, da tale provvedimento appare che il concetto di “prossimità” sia stato inteso in senso notevolmente ampio, facendo riferimento in via generale ed aspecifica alla zona universitaria, che nel centro di Bologna occupa interi quartieri, laddove, si sottolinea, la nozione di prossimità sia da intendere come contiguità fisica e posizionamento topografico dell'agente dedito allo spaccio (o all'offerta) in un luogo che consente l'immediato accesso alle droghe alle persone che lo frequentano. Nell'analizzare il concetto di prossimità ai luoghi tipizzati dalla norma, la Corte sembra dunque promuovere una lettura molto rigorosa del termine, escludendo ragionevolmente che lo stesso

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possa essere integrato da colui che casualmente venga colto, nei pressi dell'area universitaria, nell'attività di offerta di sostante stupefacenti ai passanti, richiedendo invece il posizionamento strategico dell'autore in quei luoghi. 9. In definitiva, le conclusioni ermeneutiche alle quali giunge la sentenza in commento appaiono condivisibili. Risulta senza dubbio apprezzabile la possibilità di ricomprendere l'area universitaria nell'ampio concetto di comunità giovanile ed, allo stesso stesso tempo, condivisibile la necessità di interpretare il concetto di “prossimità” in modo rigoroso, onde evitare una dilatazione sensibile della portata della norma. La Corte di Cassazione accantona così l'impostazione indebitamente restrittiva che il G.I.P. di Bologna ha posto alla base del proprio ragionamento, per convalidare una ragionevole chiave di lettura più in linea con le finalità che l'aggravante stessa si pone di raggiungere. [1] “Se l'offerta o la cessione è effettuata all'interno o in prossimità di scuole di ogni ordine o grado, comunità giovanili, caserme, carceri, ospedali, strutture per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti”. [2] Nell'ordinanza del G.I.P. di Bologna del 17 novembre 2016 si afferma “quanto alle modalità del fatto, si rileva che si è in presenza non soltanto di una cessione di un'unica dose di sostanza stupefacente, ma anche di una dose per un quantitativo lordo modesto, effettuata secondo le tipiche modalità di cessione utilizzate da parte dei soggetti che, nella catena criminale del commercio illecito di sostanze stupefacenti, si trovano nella posizione marginale di cessionari di singole dosi ad acquirenti contattati anche sulla pubblica via. Tali circostanze dimostrano la lontananza di tali soggetti, come l'odierno arrestato, dai livelli più alti della piramide criminale che si occupa del commercio illegale di droghe, e quindi la loro limitata pericolosità in relazione alla capacità di movimentazione di rilevanti quantitativi di sostanze stupefacente”. [3] Si sostiene “Con tale dizione, all'evidenza, non possono intendersi, né gli istituti scolastici, perché oggetto di specifica previsione, né l'Università perché non esplicitamente richiamata”. [4] Vedi Cass., IV Sez. Pen., n. 51957, 24 novembre 2016.

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Strasburgo ha deciso, la causa è finita: la Cassazione chiude il caso Contrada

Cass. pen., sez. I, sent. 6 luglio 2017 (dep. 20 settembre 2017), n. 43112, Pres. Di Tomassi, Est. Centonze, Ric. Contrada

di Francesco Viganò

1. Poco più di due anni dopo l’ormai celeberrima con cui la Corte EDU, il 14 aprile 2015, aveva dichiarato la violazione da parte dello Stato italiano del principio di legalità penale in relazione alla sua condanna per concorso esterno in associazione mafiosa [1], la sentenza di condanna di Bruno Contrada viene ora “annullata” e dichiarata “ineseguibile e improduttiva di effetti penali” dalla prima sezione della Cassazione. L’Italia dà così esecuzione a un giudicato europeo vincolante per lo Stato soccombente ex art. 46 CEDU, grazie a una doverosa ma – nell’attuale momento spirituale della magistratura italiana rispetto al diritto europeo – nient’affatto scontata pronuncia della nostra Suprema Corte. E assieme, la Cassazione coglie l’occasione per riaffermare a chiare lettere, a chi se la fosse

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dimenticata, la propria consolidata giurisprudenza sull’efficacia immediatamente precettiva delle norme convenzionali, tra cui si iscrive lo stesso art. 46 CEDU. 2. La sentenza della Corte EDU può qui essere data per nota, tanto se ne è discusso in questi due anni in ogni sede possibile. Meno scontato è, invece, che il lettore si rammenti le tappe percorse dalla difesa di Contrada in questi due anni per ottenere l’esecuzione della sentenza medesima in Italia. Come la Cassazione puntualmente ricostruisce nella pronuncia ora pubblicata, Contrada aveva avviato anzitutto un giudizio di revisione davanti alla Corte d’appello di Caltanissetta, la quale aveva tuttavia rigettato la relativa istanza, ritenendo in sostanza – contro quanto deciso dalla Corte EDU – che Contrada fosse ben in condizione di prevedere una propria futura condanna a titolo di concorso esterno: e ciò anche in considerazione del particolare ruolo professionale da lui svolto all’epoca dei fatti, che lo rendeva certamente consapevole della possibilità di una simile qualificazione giuridica della propria condotta [2]. Contro tale pronuncia, Contrada aveva proposta ricorso in cassazione, che era stato tuttavia dichiarato inammissibile il 20 gennaio 2017 a seguito di rinuncia al ricorso. Parallelamente, Contrada aveva altresì attivato un incidente di esecuzione innanzi alla Corte d’appello di Palermo, che si era concluso con ordinanza di rigetto emessa l’11 ottobre 2016 [3], avverso la quale Contrada proponeva il ricorso ora deciso dalla Cassazione. 3. La Corte riconosce, anzitutto, che sullo Stato italiano incombe l’obbligo, per i giudici italiani, di conformarsi alla sentenza della Corte EDU che concerne specificamente il ricorrente Bruno Contrada. Citando il precedente Dorigo (sent. n. 2800/2006), il Collegio riafferma qui la propria giurisprdudenza sull’“efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU”, e in particolare del suo art. 46, a tenore del quale “le Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti”, e rispetto alle quali l’art. 19 conferisce alla Corte il potere ultimo di decidere sulla “interpretazione” e “applicazione” (al caso concreto!) della Convenzione. Proprio sulla base dell’art. 46, del resto, nel caso Dorigo la Cassazione aveva dichiarato ineseguibile l’ordine di carcerazione del condannato, il cui processo era stato ritenuto dalla Corte di Strasburgo essersi svolto in maniera non conforme all’art. 6 CEDU: le sentenze di Strasbrugo, aveva ritenuto allora la Cassazione, devono in effetti essere ritenute “immediatamente produttive di diritti e obblighi nei confronti delle parti in causa, con la conseguenza che lo Stato è tenuto a condormarsi a tale pronunzie e a eliminare, fino dove è possibile, le conseguenze pregiudizievoli della violazione riscontrata”. 4. Ciò posto, la Cassazione si chiede quale sia lo strumento processuale attivabile per rimuovere le conseguenze pregiudizievoli, per Bruno Contrada, della sua sentenza di condanna, giudicata incompatibile con l’art. 7 CEDU dalla Corte europea. Tale rimedio è individuato nell’incidente di esecuzione, per l’appunto esperito nel caso concreto dalla difesa del condannato. A tale soluzione, osserva la S.C., non osta la circostanza che – a differenza di quanto era accaduto nel caso Dorigo, in cui i giudici europei avevano rilevato violazioni di natura processuale – in questo caso la violazione accertata a Strasburgo sia di natura sostanziale: la censura dei giudici europei concerne, qui, la base legale della condanna, ritenuta imprecisa e indeterminata; ciò che non può che determinare l’illegittimità della stessa condanna e della pena da essa stabilita, i cui perduranti effetti pregiudizievoli dovranno essere rimossi.

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Né, prosegue la S.C., sarà possibile ritenere non esperibile l’incidente di esecuzione invocando l’esaurimento del rapporto giurisdizionale, conseguente all’integrale espiazione della pena da parte del condannato. La giurisprudenza costituzionale e comune intervenuta nella nota vicenda dei “fratelli minori” di Scoppola (C. cost. sent. n. 210/2013 e Cass. sez. un., Ercolano, n. 34472/2013) [4] ha del resto già riconosciuto l’ampiezza degli ambiti di intervento del giudice dell’esecuzione indispensabili ad assicurare la dimensione di legalità della pena anche nella fase della sua esecuzione, se necessario oltre i confini segnati da specifiche norme di legge, nel quadro di un procedimento ritenuto idoneo a far valere non solo le questioni relative alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla “eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo”. Il rimedio della revisione “europea”, introdotto dalla sent. 113/2011 dalla Corte costituzionale, sarebbe d’altra parte non necessario rispetto al caso concreto, dove le ragioni della dichiarazione di illegittimità della condanna di Contrada da parte della Corte EDU non appaiono comunque superabili “da alcuna rinnovazione di attività processuale o probatoria”, essendo stata censurata alla Corte europea la stessa base legale della condanna dal punto di vista del diritto penale sostanziale. Né, ancora, potrebbe essere esperito nella specie il rimedio previsto dall’art. 673 c.p.p., finalizzato all’eliminazione mediante revoca della sentenza di condanna nei casi di abolitio criminis o di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice su cui la condanna si fonda: situazioni pacificamente insussistenti nella specie. La revoca della condanna – osserva la Corte – non è d’altra parte necessaria per assicurare l’esecuzione della sentenza europeo, risultando allo scopo sufficiente “l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna emessa dal giudice italiano in violazione di una norma della Convenzione EDU, dovendosi ribadire che garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell’esecuzione, cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni della legittimità (sez. U., n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, cit.)”.

*** 5. La stringata motivazione di questa sentenza merita di essere oggetto di approfondite analisi, soprattutto sotto il profilo del diritto processuale, che in questa sede non possono essere neppure tentate. Basti qui esprimere il plauso incondizionato di chi scrive a una decisione coraggiosa, e – diciamolo pure – destinata a risultare impopolare presso molti settori della magistratura italiana. Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni [5], personalmente non sono del tutto convinto che la sentenza della Corte EDU nel caso Contrada sia stata una buona sentenza: se non altro, lo standard utilizzato dalla Corte nei confronti del nostro paese è stato qui assai più severo di quello usato nei confronti di altri paesi in occasioni analoghe. Dopo tutto, la combinazione tra art. 416-bis e art. 110 c.p. era stata già sperimentata nel nostro paese in relazione alla criminalità terroristica, e cominciava ad essere largamente utilizzata nelle contestazioni della pubblica accusa proprio negli stessi anni in cui Contrada compiva le condotte a lui attribuitegli nelle sentenze di condanna. Dunque una condanna a titolo di concorso esterno non era per lui imprevedibile, ma – al più – incerta, stanti i perduranti contrasti giurisprudenziali (sincronici) tra le sentenze della Cassazione che si stavano occupando allora del tema. Ma, come pure ho scritto, il punto non è questo. Come ha giustamente ritenuto la Cassazione, si condividesse o meno la sentenza della Corte EDU, essa doveva essere eseguita dal giudice italiano. Lo imponevano le regole del gioco alle quali l’Italia si è volontariamente vincolata, sottoscrivendo e dando esecuzione, con la legge n. 848/1955, alla Convenzione europea, e in particolare al suo più volte citato art. 46. Avendo la Corte EDU, con sentenza divenuta definitiva

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a seguito del rigetto della richiesta di rinvio alla Grande Camera formulata dal governo italiano, deciso nel senso dell’illegittimità della condanna di Contrada al metro del diritto convenzionale, quella condanna doveva essere rimossa – o quanto meno, come ha ritenuto ora la Cassazione, ne dovevano cessare tutti gli effetti pregiudizievoli nei confronti del condannato. 6. In relazione invece a casi diversi da quello su cui è intervenuta la Corte EDU, a me pare che ci siano ottimi argomenti per sostenere che i vincoli discendenti dalla pronuncia europea per i giudici italiani siano meno stringenti [6]. Vero è che l’art. 46 CEDU è fatto oggetto di una (pacifica) interpretazione estensiva da parte della stessa Corte EDU, del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa e – ciò che ancora più rileva dal punto di vista del diritto internazionale – dalla stessa prassi degli Stati parte della Convenzione; interpretazione estensiva che riconosce un’“autorità di cosa giudicata interpretata” ai principi di diritto espressi nelle, o desumibili dalle, sentenze della Corte EDU su casi simili. Vero è altresì che, proprio sulla base di tale effetti per così dire estensivi delle sentenze della Corte EDU, la nostra Corte costituzionale e le Sezioni Unite della nostra Cassazione, all’unisono, hanno statuito il principio della modificabilità del giudicato, pur in assenza di base testuale nel codice di procedura penale, per consentire l’adeguamento della pena inflitta ai “fratelli minori” di Scoppola ai principi statuiti dalla Corte EDU in una sentenza concernente un diverso ricorrente. Ma il giudice italiano che non condividesse, oggi, lo specifico principio di diritto enunciato in Contrada dalla Corte EDU – l’inidoneità della base legale rappresentata dal combinato disposto degli artt. 416-bis e 110 c.p. a legittimare una condanna, al metro dell’art. 7 CEDU, per fatti commessi prima della sentenza Demitry delle Sezioni Unite, pronunciata nel 1994 – ben potrebbe, a mio giudizio, argomentare distesamente il proprio dissenso, lavorando sullo stesso terreno del diritto convenzionale; mostrando, se possibile, come la sentenza Contrada sia anomala nello stesso panorama della giurisprudenza di Strasburgo, e meriti pertanto un ripensamento da parte degli stessi giudici europei, magari nel contesto di una pronuncia resa dalla Grande Camera. Nella chiara consapevolezza che tali argomenti saranno poi presi in considerazione e vagliati dalla Corte europea, in risposta al – prevedibilissimo – ricorso che sarà proposto dal condannato contro una simile sentenza. Un simile modus procedendi non potrebbe essere scambiato per una violazione degli obblighi convenzionali; ma sarebbe piuttosto considerato, anche nella prospettiva del giudice europeo, come un prezioso invito a far maggiore luce sui criteri di interpretazione dello stesso art. 7 CEDU, in modo da offrire una guida più sicura alle legislazioni nazionali su un problema così delicato. 7. La sentenza qui segnalata, d’altra parte, dovrà essere ricordata in futuro per avere riproposto con forza, a undici anni di distanza da Dorigo, il tema dell’efficacia diretta delle norme convenzionali nell’ordinamento italiano: un tema che pareva ormai recessivo nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale dopo le sentenze gemelle n. 348 e 349/2007 della Corte costituzionale, le quali avevano piuttosto l’accento sulla funzione delle norme convenzionali medesime quali parametri interposti nel giudizio di legittimità costituzionale. La Cassazione insiste ora, e in modo assai netto, sulla possibilità – ed anzi sul dovere – per il giudice comune di applicare nel caso concreto le disposizioni della CEDU, così come declinate dalle sentenze di Strasburgo (alle quali spetta istituzionalmente il compito di dire l’ultima parola sulla loro interpretazione ed applicazione). La ragione di tale efficacia diretta non è esplicitata nel contesto della motivazione; ma la ragione è quella stessa che aveva indotto le Sezioni Unite già nel 1989, nella storica sentenza Polo Castro [7], a una tale conclusione: e cioè l’avvenuta incorporazione della Convenzione nell’ordinamento giuridico nazionale in forza della

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clausola di “piena e intera esecuzione” contenuta nella legge n. 848/1955 di autorizzazione alla ratifica. Altra questione – che la S.C. ora non affronta, non essendovi alcuna necessità di farlo rispetto al caso di specie sottoposto alla sua attenzione – è quella dei limiti di tale efficacia diretta, che restano a tutt’oggi quelli tracciati dalle sentenze gemelle della Corte costituzionale, e che si riassumono nella inidoneità delle norme convenzionali a determinare esse stesse l’inapplicabilità di eventuali disposizioni nazionali con esse contrastanti, in assenza di un intervento ablatorio del giudice delle leggi. Ma laddove, come nel caso di specie, nessun dato normativo nazionale osti alla possibile diretta applicazione di una norma convenzionale al caso concreto, essa dovrà senz’altro essere applicata dal giudice comune: si tratti dell’art. 46 CEDU, come nella specie, o di qualsiasi altra norma della Convenzione. Senza che, in tale ipotesi, debba ritenersi indispensabile alcun passaggio avanti alla Corte costituzionale per raggiungere tale obiettivo, che è direttamente alla portata del giudice comune: come l’epilogo di questa vicenda giudiziaria esemplarmente dimostra. [1] C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 14 aprile 2015, Contrada c. Italia (n. 3), in questa Rivista, 4 maggio 2014, con nota di Civello Conigliaro, La Corte EDU sul concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso: primissime osservazioni alla sentenza Contrada. Sulla sentenza, cfr. altresì i numerosi contributi elencati nella colonna di sinistra a fianco già pubblicati su questa rivista. [2] C. app. Caltanissetta, 18 novembre 2015 (dep. 17 marzo 2016), in questa Rivista, 16 aprile 2016, con nota di F. Viganò, Il caso Contrada e i tormenti dei giudici italiani: sulle prime ricadute interne di una scomoda sentenza della Corte EDU. [3] C. Appello Palermo, Sez. I, ord. 11 ottobre 2016 (dep. 24 ottobre 2016), in questa Rivista, 24 gennaio 2017, con nota di S. Bernardi, Continuano i ''tormenti'' dei giudici italiani sul caso Contrada: la Corte d’Appello di Palermo dichiara inammissibile l’incidente d’esecuzione proposto in attuazione del ''giudicato europeo''. [4] Su tale vicenda si consenta qui soltanto, per brevità, il rif. a E. Lamarque, F. Viganò, Sulle ricadute interne della sentenza Scoppola, in questa Rivista, 31 marzo 2014, e ivi per tutti gli indispensabili rif. giur. e dottr. [5] Cfr. F. Viganò, Il caso Contrada, cit., 7 ss. Sul punto, cfr. anche, ampiamente, S. Bernardi, I "fratelli minori" di Bruno Contrada davanti alla Corte di Cassazione, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 2/2017, p. 273 ss. [6] In questo senso cfr. anche S. Bernardi, I “fratelli minori”, cit., 272. [7] Sul punto, anche per gli indispensabili rif., cfr. più ampiamente F. Viganò, L’impatto della Cedu e dei suoi protocolli sul sistema penale italiano, in G. Ubertis, F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, 2016, p. 13 ss.

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La Suprema Corte torna sui limiti di operabilità dello strumento della “revisione europea”: esclusa l’estensibilità ai “fratelli minori” del ricorrente vittorioso a Strasburgo

Cass., Sez. II, sentenza 20 giugno 2017 (dep. 7 settembre 2017), n. 40889,

Pres. Fiandanese, Rel. Recchione, Ric. Cariolo

di Silvia Bernardi 1. Con la recentissima sentenza riportata in epigrafe, la Suprema Corte è tornata a parlare dell’istituto della “revisione europea” – introdotto dalla Corte costituzionale con la sentenza n.

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113 del 2011 – occupandosi, nello specifico, di chiarire se detto rimedio processuale possa essere utilizzato anche da coloro che, pur non essendo direttamente destinatari di una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, adducano di ritrovarsi nelle medesime condizioni sostanziali di un diverso ricorrente risultato vittorioso e chiedano quindi la riapertura del processo per rimuovere una violazione della Convenzione accertata dai giudici di Strasburgo in un caso distinto ma analogo. Mentre in una di poco precedente pronuncia (relativa alla vicenda giudiziale di Marcello Dell’Utri, già oggetto di approfondimento in questa Rivista [1]) la Cassazione sembrava aver aperto la strada a un possibile utilizzo dello strumento della revisione “europea” anche da parte dei c.d. “fratelli minori” del ricorrente vittorioso a Strasburgo, in questa occasione la Suprema Corte nega radicalmente che il rimedio delineato dalla Corte costituzionale possa essere applicato al di fuori del singolo caso oggetto di giudizio davanti i giudici europei, dichiarando pertanto inammissibile il ricorso avanzato nel caso di specie. 2. La vicenda che ha condotto alla pronuncia di legittimità in esame traeva origine dall’istanza di revisione “europea” proposta da un soggetto che, pur non avendo presentato nessun ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, chiedeva di applicare nei suoi confronti i principi di diritto sanciti dai giudici di Strasburgo nella sentenza Drassich c. Italia [2], in quanto sosteneva che anche il processo a suo carico si fosse svolto senza rispettare le garanzie previste in materia di contraddittorio dall’art. 6 CEDU. La Corte territoriale investita dall’istanza l’aveva tuttavia respinta, rilevando come in realtà il ricorrente non versasse nell’“identica condizione sostanziale del Drassich”, poiché nel suo caso “non vi era stata una modifica della qualifica giuridica del fatto, ma solo un arricchimento fattuale della condotta ascritta all’imputato”. Il difensore del condannato ricorreva dunque in Cassazione contro il provvedimento di rigetto, denunciando una scorretta applicazione da parte dei giudici della revisione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza Ercolano [3], e affermando la tesi per cui “la revisione europea sarebbe funzionale non solo a garantire l’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo nei confronti del ricorrente vittorioso in sede europea, ma anche a tutelare il diritto a un processo equo di persone già condannate con sentenze passate in giudicato e non ricorrenti a Strasburgo, che versano in situazioni analoghe a quelle decise con una sentenza ‘pilota’ (...)”. 3. La Corte di cassazione, come già anticipato, considera il ricorso inammissibile. Nel condividere la decisione assunta dai giudici della revisione, però, ritiene di doverne correggere le argomentazioni in diritto, al fine di fornire indicazioni più chiare e precise circa il reale ambito operativo del rimedio impugnatorio straordinario plasmato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 113 del 2011. Il meccanismo della revisione europea, riconosce la Corte di legittimità, è stato infatti introdotto per sopperire a una lacuna esistente nel nostro ordinamento, e più specificamente per garantire una effettiva restitutio in integrum alla persona condannata all’esito di un processo che la stessa Corte di Strasburgo abbia riconosciuto come iniquo. Si tratta, pertanto, di un rimedio prettamente “esecutivo”, espressamente finalizzato all’emenda di vizi procedurali che secondo la Corte europea contrastano con la Convenzione, i quali non potrebbero essere eliminati con un intervento “diretto” sul titolo esecutivo, ma solo mediante la riapertura o la rinnovazione del giudizio di merito. Tali caratteristiche, a giudizio della Suprema Corte, non sono compatibili con interpretazioni estensive dell’istituto finalizzate a consentirne l’applicazione in casi asseritamente analoghi, poiché connotati dal medesimo vizio procedurale: per questo motivo, i giudici di legittimità

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ritengono di doversi dissociare apertamente dagli approdi precedentemente raggiunti dalla medesima Corte nella già citata sentenza Dell’Utri, la quale aveva invece suggerito un utilizzo del procedimento di revisione in questione anche per la riapertura di processi coperti dal giudicato relativi a soggetti che non avessero proposto ricorso a Strasburgo. 4. Alla base dell’esigenza di una lettura restrittiva, che contenga l’operatività di tale strumento negli stretti limiti tracciati dalla Corte costituzionale, sta – si legge nella sentenza in esame – la “difesa delle situazioni processuali esaurite”, ovvero del giudicato, ancora oggi “presidio ineludibile della certezza del diritto”. Si tratta infatti di un valore che riceve “attuale ed incondizionata protezione” sia a opera della giurisprudenza interna, sia di quella di Strasburgo: e a dimostrazione di ciò viene richiamata, sul fronte interno, la pronuncia delle Sezioni Unite n. 27614 del 2007 [4], la quale ha chiarito che il giudicato non può essere scalfito neanche da una sopravvenuta pronuncia di illegittimità costituzionale (salvo che si traduca in un intervento abolitivo della fattispecie incriminatrice); sul fronte europeo, invece, l’interesse a una tutela integrale del giudicato si potrebbe ricavare dalle parole della Grande Camera nella sentenza Scoppola c. Italia, che rendono evidente come l’obbligo di applicazione retroattiva della legge penale sopravvenuta più favorevole trovi un limite nel carattere di definitività della sentenza [5]. A loro volta, pertanto, anche le pronunce di condanna della Corte di Strasburgo – le quali non posseggono nel nostro ordinamento alcuna “efficacia diretta”, ma impongono al giudice un obbligo di interpretazione conforme “nei termini chiariti dalla sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale”, ossia quando si riconosca loro il carattere di giurisprudenza consolidata, ovvero l’obbligo di sollevare questione di costituzionalità laddove una conformazione in via interpretativa non appaia possibile – non hanno per la Suprema Corte alcuna idoneità generale a incidere sulle situazioni processuali “esaurite”, al di fuori del caso concretamente deciso dai giudici europei. 5. Tale conclusione, sottolinea la Corte, non appare smentita, ma anzi confermata dalla decisione assunta dalle Sezioni Unite Ercolano. In quella pronuncia, che concludeva la tumultuosa saga dei c.d. “fratelli minori” di Scoppola [6], la Cassazione aveva infatti sì riscontrato la necessità di estendere l’efficacia della sentenza della Corte europea emessa nel caso Scoppola c. Italia a tutti i casi analoghi (ossia a tutti i soggetti condannati con sentenza passata in giudicato che si trovassero nelle medesime condizioni sostanziali del ricorrente), ma tale estensione era giustificata dal fatto che la sentenza europea aveva sancito l’illegittimità convenzionale (per contrasto con l’art. 7 CEDU) della pena, la quale, laddove sia ancora in esecuzione, non può mai considerarsi una situazione “esaurita” [7]. Oltre a ciò, osserva la Cassazione, non si può non tenere in considerazione il fatto che la vicenda Ercolano si fosse altresì caratterizzata per l’intervento della Corte costituzionale (con la sentenza n. 210 del 2013 [8]): e dunque “il doppio e coerente intervento delle Alte Corti (...) generava la necessità di riallineare ‘tutte’ le sanzioni in corso di esecuzione ai parametri di legalità convenzionale e costituzionale, anche se la loro violazione era stata accertata dopo la conclusione della progressione processuale, cioè dopo la formazione del c.d. ‘giudicato’ (...)”. Non a caso, riverberandosi la violazione accertata dalla Corte europea nel caso Scoppola sulla fase esecutiva della pena, lo strumento processuale che le Sezioni Unite Ercolano hanno considerato idoneo per rimuovere detta violazione nei confronti di tutti i soggetti lesi è l’incidente d’esecuzione, e non la revisione europea. Al di fuori di situazioni simili, tuttavia, secondo la Cassazione alle sentenze di Strasburgo non è riconoscibile, in via generale e astratta, alcuna capacità di incidere sulle situazioni “esaurite”,

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ovvero sui giudicati non sottoposti al suo diretto vaglio, e ciò a prescindere dalla ricognizione o meno della natura di sentenza “pilota” o “quasi pilota” della pronuncia di cui si chiede l’applicazione; l’aver la Corte di Strasburgo qualificato una sentenza come “pilota” in senso formale, o il dover comunque considerare una certa pronuncia come “pilota” in senso sostanziale (il che avviene, in base a quanto affermato sia dalla Corte cost. n. 210 del 2013, sia dalle Sezioni Unite Ercolano, allorché la condanna proveniente dalla Corte europea sia comunque rivelatrice di una violazione di tipo sistemico esistente all’interno dell’ordinamento) non attribuisce infatti alcun potere ai giudici interni sulle situazioni ormai interamente esaurite, ma può riverberarsi unicamente sulle violazioni della Convenzione ancora “attuali”. A giudizio della Suprema Corte, comunque, alla sentenza Drassich c. Italia non può essere riconosciuto il carattere di sentenza pilota, né in senso formale, né in senso sostanziale. Nell’accertare la violazione dell’art. 6 CEDU, derivante dall’impossibilità di attivare il contraddittorio sulla nuova qualificazione giuridica nel giudizio di legittimità, la Corte di Strasburgo non avrebbe infatti riscontrato nessuna violazione convenzionale sistemica all’interno del nostro ordinamento: al contrario, si rileva che nel determinarsi alla decisione di condanna essa ha vagliato lo specifico caso concreto alla luce della giurisprudenza europea, in considerazione delle specificità della situazione del singolo ricorrente. 6. In conclusione, per la Suprema Corte lo strumento della revisione “europea” può essere attivato solo allorché si tratti di eseguire la specifica decisione emessa dalla Corte europea nei confronti della medesima persona che ha ottenuto la condanna dello Stato italiano, e sempre che la restitutio in integrum sia effettuabile esclusivamente attraverso la riapertura e riedizione del processo. Nessuno spazio residuo di applicabilità di una riapertura del processo può rimanere, invece, in relazione a casi analoghi, relativi a situazioni processuali esaurite, né, tantomeno, per dare attuazione a “sentenze pilota” che non incidano su rapporti attualmente in corso (quale deve ritenersi, ad esempio, il rapporto che si instaura tra Stato e cittadino durante l’esecuzione della pena). Per questo motivo, tornando al caso di specie, la Cassazione ritiene necessario – prima ancora che negare l’analogia tra la situazione sostanziale del ricorrente e quella del Drassich, come ha fatto la Corte territoriale investita dal giudizio di revisione – riconoscere che i principi espressi dalle Sezioni Unite Ercolano sono in radice inapplicabili all’istanza proposta dal ricorrente, in quanto gli stessi possono operare esclusivamente al fine di riallineare le pene ancora in corso d’esecuzione ai parametri di legalità emersi da una pronuncia della Corte di Strasburgo, ma in nessun modo possono comportare un’incisione su situazioni processuali ormai interamente esaurite e coperte da giudicato.

*** 7. La pronuncia in esame appare, invero, in aperto contrasto con la di poco precedente sentenza Dell’Utri, che pure aveva cercato di stabilire un punto fermo con riguardo agli strumenti processuali attualmente più idonei a garantire l’attuazione delle sentenze europee anche nei confronti dei c.d. “fratelli minori” del ricorrente. In quell’occasione, infatti, la prima sezione della Suprema Corte aveva platealmente preso posizione in favore di un’applicazione generalizzata – tanto da parte del soggetto vincitore in sede europea, quanto in favore dei suoi “fratelli minori” – del meccanismo della revisione europea, che a suo giudizio costituiva il principale canale di adeguamento dell’ordinamento interno alle pronunce definitive di condanna della Corte di Strasburgo, non solo con riguardo ai casi di violazione delle garanzie di cui all’art. 6 CEDU, ma anche in rapporto all’accertamento di

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violazioni di carattere sostanziale. All’incidente d’esecuzione, al contrario, la pronuncia di legittimità riconosceva un ruolo esclusivamente residuale, limitato ai soli casi in cui la modifica o rimozione del giudicato costituisse l’esito obbligato di un intervento della Corte europea già interamente predeterminato nei suoi contenuti, e che, dunque, non lasciasse ulteriori margini di discrezionalità in capo ai giudici interni [9]. Ora la seconda sezione della Corte mostra invece di voler tornare a una lettura restrittiva della sentenza n. 113 del 2011 della Corte costituzionale, il cui dispositivo e iter motivazionale sembrano prendere in considerazione, in effetti, il solo singolo condannato risultato vittorioso a Strasburgo; e, ancora più in radice, pare volere offrire un’interpretazione restrittiva anche con riferimento agli obblighi di carattere generale che ai sensi dell’art. 46 CEDU (letto alla luce della consolidata giurisprudenza di Strasburgo e della prassi del Comitato dei Ministri) ricadono sullo Stato destinatario di una sentenza di condanna europea, imponendogli di eliminare le violazioni di carattere strutturale o sistemico ancora in essere, e le eventuali conseguenze dannose di violazioni già prodottesi, non solo nei confronti del ricorrente, ma di tutti i soggetti coinvolti. L’adempimento di tali obblighi – discendenti dal carattere “formalmente” o “sostanzialmente” pilota della pronuncia europea – a giudizio della Suprema Corte troverebbe infatti uno scoglio invalicabile nelle situazioni processualmente “esaurite”, quale sarebbe il giudicato in assenza di un rapporto esecutivo ancora “attuale” tra l’ordinamento interno e il condannato. 8. Nonostante le precauzioni della Suprema Corte nel limitare il più possibile l’ambito di applicabilità dello strumento della revisione europea, in nome di un’ampia tutela della stabilità del giudicato, un significativo argomento a supporto della sua estensione anche al di fuori della situazione del singolo ricorrente sembra rintracciarsi, in verità, nella pronuncia n. 210 del 2013 della Corte costituzionale stessa. Non sfugge, infatti, che è proprio il giudice delle leggi ad aver affermato che il valore del giudicato appare “recessivo” a fronte di più rilevanti valori costituzionali (tra quali spicca, indubbiamente, la libertà personale); né che, nell’interrogarsi sul procedimento più idoneo per permettere all’ordinamento interno di conformarsi alla sentenza Scoppola c. Italia nei confronti di tutti i “fratelli minori” del ricorrente, la sua scelta sia ricaduta sul rimedio esecutivo solo in quanto si riteneva il meccanismo della revisione europea non “adeguato al caso di specie”, nel quale una riapertura del processo non appariva necessaria, risultando anzi sufficiente un mero intervento sul titolo esecutivo [10]. Di conseguenza, potrebbe ritenersi che sia la stessa pronuncia di costituzionalità richiamata a voler lasciare aperta la possibilità che, nei casi in cui sia invece necessaria una riapertura del processo, anche i soggetti diversi dal ricorrente possano avvalersi dello strumento della revisione europea per ottenere l’adeguamento della propria condanna alle sentenze definitive del giudice di Strasburgo (il che potrebbe avvenire, come sostenuto dalla Cassazione Dell’Utri, allorché l’esecuzione della pronuncia della Corte europea lasci comunque spazio a scelte di contenuto discrezionale da parte dei giudici interni, tali da esigere ad esempio una complessiva rivalutazione della responsabilità penale del condannato). Il ragionamento della Suprema Corte appare maggiormente persuasivo laddove esclude che lo strumento della revisione europea possa essere utilizzato per far valere una violazione delle garanzie del “giusto processo” di cui all’art. 6 CEDU sulla base di un accertamento compiuto dai giudici di Strasburgo nei confronti di un soggetto diverso: e questo perché, come opportunamente riconosciuto anche dalla pronuncia in esame, solo violazioni di carattere sostanziale possono avere un effettivo carattere di sistematicità all’interno dell’ordinamento, mentre l’accertamento di violazioni di carattere processuale non può che dipendere, nel giudizio davanti alla Corte europea, dalle specificità della situazione concreta del ricorrente, sicché esso

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appare di per sé insuscettibile di estensione a soggetti che, pur lamentando una violazione dello stesso tipo, non abbiano personalmente adito il giudizio di Strasburgo [11]. [1] Il riferimento è a Cass. pen., sez. I, sent. 11 ottobre 2016 (dep. 18 ottobre 2016), n. 44193/16, Dell’Utri: per un commento a riguardo si può rimandare a S. Bernardi, I "fratelli minori" di Bruno Contrada davanti alla Corte di cassazione, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 2/2017, p. 257 ss. [2] Corte eur. dir. uomo, sentenza dell’11 dicembre 2007, Drassich c. Italia, ric. n. 25575/04. Nello specifico, il ricorrente Mauro Drassich era stato condannato dai giudici italiani di primo e secondo grado per una serie di reati uniti dal vincolo della continuazione, tra cui quello di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio; nel giudizio di cassazione, tuttavia, la Suprema Corte, al fine di evitare una declaratoria di estinzione per prescrizione, aveva riqualificato tale reato come corruzione in atti giudiziari. In tale fatto i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto una violazione dei principi di cui all’art. 6 § 1 e § 3, lett. a) e b) CEDU, ritenendo che il ricorrente avesse subito una lesione del proprio diritto a essere informato della natura e dei motivi dell’accusa e di disporre di un tempo adeguato per preparare la propria difesa. [3] Cass. pen., SS.UU., sentenza del 24 ottobre 2013 (dep. 7 maggio 2014), n. 18821, Ercolano. [4] Cass. pen., SS.UU., sentenza del 29 marzo 2007 (dep. 12 luglio 2007), n. 27614. [5] Cfr. Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza del 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia (n. 2), ric. n. 126/05, §§ 108-109. Si tratta, in verità, di un dato che la Suprema Corte ricava a contrario dalla lettura della sentenza europea, la quale afferma il principio per cui “se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato”. [6] A seguito della sentenza Scoppola c. Italia del 17 settembre 2009, in cui la Corte europea ha ritenuto che costituisse violazione dell’art. 7 CEDU l’aver condannato il ricorrente alla pena dell’ergastolo e non – sulla base della disciplina in materia di rito abbreviato più favorevole, vigente in un periodo intermedio – a quella più lieve di trent’anni di reclusione, il nostro ordinamento si è infatti ritrovato a dover far fronte alle istanze di tutela provenienti da una serie di soggetti che, condannati all’ergastolo benché avessero richiesto l’applicazione del rito abbreviato nel periodo di tempo in cui vigeva la disciplina più favorevole, chiedevano a loro volta una rideterminazione della propria pena. Per una trattazione approfondita della vicenda si può rimandare a F. Viganò - E. Lamarque, Sulle ricadute interne della sentenza Scoppola. Ovvero: sul gioco di squadra tra Cassazione e Corte costituzionale nell’adeguamento del nostro ordinamento alle sentenze di Strasburgo (Nota a C. Cost. n. 210/2013), in questa Rivista, 31 marzo 2014 (pubblicata anche su Giur. ita., n. 2/2014) e F. Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle Sezioni Unite che chiude la saga dei "fratelli minori" di Scoppola, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 1/2014, p. 250 ss. [7] Cfr. Cass. pen., SS.UU., sentenza del 24 ottobre 2013 (dep. 7 maggio 2014), n. 18821, Ercolano, § 7. Una conferma circa l’esclusione della fase esecutiva della pena dall’area dei rapporti “esauriti” si ritroverebbe, secondo la Suprema Corte, anche nella sentenza delle Sezioni Unite pronunciata nel caso Gatto, la quale ha affermato il potere del giudice dell’esecuzione di procedere alla rideterminazione della pena lato sensu illegittima a seguito di dichiarazione di incostituzionalità di una norma – diversa da quella incriminatrice – che abbia comunque influito sul trattamento sanzionatorio. Cfr. a proposito Cass. pen., Sez. Un., sentenza del 29 maggio 2014 (dep. 14 ottobre 2014), n. 42858, Gatto. [8] Le Sezioni Unite, chiamate a decidere dell’istanza di uno dei “fratelli” di Scoppola, ritennero infatti di non poter risolvere la questione in via d’interpretazione convenzionalmente orientata, ma di dover necessariamente investire del problema il giudice delle leggi. La Corte costituzionale, allora, con la sentenza del 3 luglio 2013 (dep. il 18 luglio 2013), n. 210, dichiarò costituzionalmente illegittima la norma che imponeva al giudice l’applicazione retroattiva della disciplina più sfavorevole (in specie: l’art. 7 d.l. 341/2000) per contrasto con gli artt. 117 Cost. e 7 CEDU; nel fare ciò, peraltro, la stessa forniva importanti indicazioni al giudice ordinario circa la corretta interpretazione dell’obbligo di conformazione alle sentenze definitive della Corte di Strasburgo discendente dall’art. 46 CEDU, poi ulteriormente ribadite e integrate dalle Sezioni Unite Ercolano. [9] Per più approfondite osservazioni a riguardo si può rimandare a S. Bernardi, I "fratelli minori" di Bruno Contrada davanti alla Corte di cassazione, cit., p. 265 ss. [10] Cfr. in particolare Corte cost., sentenza del 3 luglio 2013 (dep. il 18 luglio 2013), n. 210, § 8.

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[11] Questa è l’opinione espressa in particolare da F. Giuffrida - G. Grasso, L’incidenza sul giudicato interno delle sentenze della Corte europea che accertano violazioni attinenti al diritto penale sostanziale, in questa Rivista, 25 maggio 2015, p. 19. Deve tuttavia ritenersi, a parere di chi scrive, che ci si ritroverebbe ugualmente di fronte a una violazione della Convenzione di carattere strutturale allorché i giudici di Strasburgo si spingessero fino a contestare la compatibilità con l’art. 6 CEDU di una norma processuale astrattamente considerata, in ipotesi applicata al ricorrente: situazione che, peraltro, non potrebbe che richiedere un intervento abolitivo della Corte costituzionale.

* * * * *

La prima applicazione dei principi della sentenza "Scurato" nella giurisprudenza di legittimità

Cass., sez. VI, sent. 13 giugno 2017 (dep. 25 luglio 2017), n. 36874,

Pres. Paoloni, Rel. De Amicis, Imp. Romeo

di Luigi Giordano 1. Con sentenza del 13 giugno 2017, depositata il 25 luglio 2017, la Sesta sezione della Corte di Cassazione ha affrontato il tema dell’impiego nel corso delle indagini, al fine di compiere intercettazioni ambientali, del cd. “captatore informatico”. Com’è ormai noto, si tratta di un programma del tipo definito simbolicamente “trojan horse”, inoculato in genere da remoto in uno smartphone, in un tablet o in un computer. La decisione, che ha avuto un notevole risalto mediatico [1], si segnala perché costituisce la prima significativa applicazione da parte di una Sezione della Suprema Corte dei principi elaborati dalla sentenza “Scurato” dell’aprile del 2016 [2], oggetto di una notevole attenzione della dottrina [3]. Il giudizio riguarda l’impugnazione dell’ordinanza con la quale il Tribunale di Roma, sezione riesame, aveva confermato l’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere nei confronti di un imprenditore per il reato di corruzione propria. Secondo la prospettazione accusatoria, detto imprenditore ha corrotto un dirigente della società Consip S.p.a., il quale avrebbe ricevuto, dal 2014 al 2016, somme di denaro, con cadenze mensili e importo variabile, per il complessivo ammontare di euro 100.000,00, in cambio informazioni riservate e di consigli utili a favorire l'assegnazione di appalti pubblici nel settore del cd. facility management e, successivamente, a evitare l’irrogazione di penali o la risoluzione dei rapporti contrattuali. La difesa ha proposto un complesso ricorso per cassazione, sviluppato in ben 450 pagine, articolando sei motivi di doglianza. Per quello che qui interessa, con il terzo motivo, nel dedurre l’inutilizzabilità di tutte le intercettazioni telefoniche ed ambientali compiute nel corso delle indagini, i difensori hanno contestato specificamente l’uso del mezzo tecnologico dapprima indicato per svolgere investigazioni in merito ad un’ipotesi delittuosa che non permetteva il suo impiego. Al riguardo, hanno rilevato che “la maggior parte delle operazioni di intercettazione, …, è stata eseguita attraverso l'utilizzo di captatori informatici (cd. "software spia") all'interno di luoghi di privata dimora e al di là dell'effettivo svolgimento in essi di un'attività delittuosa …”. Hanno poi aggiunto che “la contestazione cautelare è stata formulata con riferimento ad un'ipotesi di corruzione semplice ed il P.M., …, ha avanzato in data 20 novembre 2015 una richiesta di intercettazioni, poi autorizzata dal G.i.p. presso il Tribunale di Napoli il 24 novembre 2015 limitatamente agli uffici personali in uso al Romeo …, senza

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che fossero emersi elementi indiziari circa l'esistenza di eventuali rapporti dell'indagato con la criminalità organizzata, in quanto tali propedeutici alla captazione delle conversazioni a mezzo dei cd. "virus spia". A sostegno della rilevanza della questione proposta nel giudizio cautelare hanno sostenuto che i principali riscontri alle dichiarazioni rese, nel corso di due interrogatori, dal dirigente pubblico che ha dichiarato di essere stato corrotto emergerebbero proprio dalle intercettazioni realizzate con il suddetto captatore. Sulla base di questi rilievi, il ricorrente, depositando una memoria, aveva chiesto al Tribunale del riesame di verificare i presupposti di utilizzabilità degli esiti delle operazioni di intercettazione ambientale con riferimento alle modalità di autorizzazione e all’equiparabilità degli uffici dell’imprenditore alla nozione di luogo di privata dimora. Con nuovi motivi, inoltre, i difensori hanno lamentato violazioni di legge in ordine all’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato, tema reputato strettamente connesso a quello dell’utilizzabilità del virus informatico per compiere intercettazioni ambientali. Sul punto hanno osservato che le iscrizioni operate con riferimento all’art. 7 della legge n. 203 del 1991 e all’art. 416-bis cod. pen, “che hanno determinato la concessione di autorizzazioni all'esecuzione di attività di intercettazione con mezzi particolarmente invasivi (ad es., con l'utilizzo del sistema cd. "trojan")”, non sarebbero state supportate da nuovi fatti emersi dalle attività d’indagine, né da precisi elementi di collegamento con vicende inerenti a fatti di criminalità organizzata. 2. La Corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso illustrato, ritenendo che nessun controllo fosse stato effettuato dal Tribunale “pur a fronte di eccezioni gravi e puntualmente formulate in sede di gravame cautelare, sulla sussistenza dei presupposti di legittimità delle operazioni di intercettazione ambientale, il cui esito documentava, come precisato nell'ordinanza genetica, l'esistenza di tredici incontri avvenuti tra il Gasparri (il dirigente pubblico, n.d.r.) ed il Romeo a partire dall'attivazione del su indicato mezzo di ricerca della prova …”. La premessa da cui si è sviluppato il ragionamento della Suprema Corte è costituita dal principale approdo interpretativo della giurisprudenza di legittimità sul tema della motivazione dei provvedimenti che autorizzano il compimento di intercettazioni. Secondo questo indirizzo, il decreto del Gip deve chiarire le ragioni della compressione della libertà di comunicare di cui all’art. 15 Cost. e della riservatezza della persona, in ordine sia al profilo dell’indispensabilità del mezzo probatorio ai fini della prosecuzione delle indagini, che a quello della sussistenza dei gravi indizi di un reato che rientra nel catalogo degli illeciti per i quali la legge consente l’impiego del mezzo di ricerca della prova. Ciò comporta la necessità di dare conto delle ragioni che impongono l’intercettazione di una determinata persona, indicando “il collegamento tra l’indagine in corso e la medesima, affinché possa esserne verificata, alla luce del complessivo contenuto informativo e argomentativo del provvedimento, l'adeguatezza rispetto alla funzione di garanzia prescritta dall'art. 15, comma 2, Cost.”. Nel caso di specie, l’applicazione di questo orientamento giurisprudenziale è complicata dal fatto che le intercettazioni sono state autorizzate in un procedimento diverso, per giunta trattato da altra Autorità Giudiziaria, rispetto a quello nel quale sono state utilizzate ai fini dell’applicazione della misura cautelare. Secondo la decisione in esame, tuttavia, l’uso delle intercettazioni in un procedimento diverso in forza delle previsioni dell’art. 270 cod. proc. pen., non può comportare una limitazione della tutela delle prerogative individuali. Le valutazioni circa l’utilizzabilità del materiale proveniente da intercettazioni effettuate nel procedimento in cui sono state disposte le relative operazioni, infatti, non vincolano il giudice del diverso procedimento, che deve procedere ad autonomo apprezzamento. Nel secondo procedimento penale, quando viene sollecitato ad operare il suo vaglio delibativo, il giudice deve rivendicare la propria autonomia di valutazione,

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essendo diversa la res iudicanda rappresentata dal diverso fatto di reato. Le risultanze delle attività d’intercettazione poste a base di una misura cautelare, pertanto, devono essere sottoposte ad uno specifico controllo, anche in sede di riesame, nel caso in cui sia eccepita l’insussistenza dei presupposti e delle condizioni di legittimità della loro autorizzazione. Queste affermazioni, sebbene possano apparire per certi versi scontate, hanno imposto un ulteriore passaggio interpretativo. La Corte, infatti, ha rilevato che, ai fini dell’utilizzazione delle captazioni realizzate aliunde, l’art. 270, comma 2, cod. proc. pen. non impone il deposito dei relativi decreti autorizzativi, né detto adempimento è richiesto dalla giurisprudenza [4]. Ciò nonostante la parte può chiedere l’espletamento di una verifica sull’utilizzabilità delle captazioni, cioè sulla legittimità dei decreti autorizzativi, i quali, peraltro, potrebbero non essere depositati. Il giudice di merito, in tale caso, “è tenuto ad effettuarla in via incidentale” [5]. Anzi egli non può esimersi dal compiere un autonomo apprezzamento sulla legittimità delle captazioni “ove la consistenza della stessa base indiziaria sulla quale si fonda il provvedimento impugnato, come avvenuto nel caso di specie, venga radicalmente posta in discussione attraverso la formulazione di eccezioni non pretestuose e seriamente prospettate”. 3. Affermati i principi in tema di motivazione del decreto che dispone intercettazioni e compiute le precisazioni illustrate sul controllo da parte del giudice ad quem delle captazioni realizzate in un diverso procedimento, la decisione in esame è passata ad analizzare lo specifico profilo relativo all’impiego del cd. captatore informatico. Al riguardo, la Corte ha richiamato i principi delineati dalle Sezioni Unite nella sentenza “Scurato”, in base alla quale: a) l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico in un dispositivo elettronico è consentita nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata per i quali trova applicazione la disciplina di cui all’art. 13 del decreto legge n. 151 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, che consente la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità di preventiva individuazione ed indicazione di tali luoghi e prescindendo dalla dimostrazione che siano sedi di attività criminosa in atto; b) ai fini dell’applicazione della disciplina derogatoria delle norme codicistiche prevista dall'art. 13 del predetto decreto legge, per procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata devono intendersi quelli elencati nell'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. nonché quelli comunque facenti capo ad un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato. In particolare, nella sentenza in esame è stato rimarcato un punto della motivazione delle Sezioni Unite, evidentemente ritenuto fondamentale: “In considerazione della forza intrusiva del mezzo usato, la qualificazione del fatto reato, ricompreso nella nozione di criminalità organizzata, deve risultare ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari, evidenziati nella motivazione del provvedimento di autorizzazione in modo rigoroso”. Nel caso di specie, secondo la decisione in commento, l’ordinanza impugnata ha affermato solo in modo apodittico il collegamento tra la genesi dell’attività d’indagine e l’acquisizione di elementi in merito ad un’ipotizzata infiltrazione camorristica nelle attività dei servizi di pulizia svolti dall’impresa del ricorrente presso un ospedale napoletano. Sebbene detti elementi siano decisivi ai fini della valutazione di utilizzabilità delle captazioni, essi non sono stati esplicitamente indicati, né posti in relazione con il compendio indiziario individuato a sostegno dell'imputazione provvisoriamente enucleata in sede cautelare. Il provvedimento impugnato, inoltre, è stato ritenuto viziato nella parte in cui ha affermato che gli uffici dell’imprenditore non potevano essere considerarsi luogo di privata dimora, “poiché l'indagato vi si recava "per svolgere i propri, non sempre leciti, affari una volta la settimana, senza neanche

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trascorrervi la notte”. In tema di intercettazioni ambientali, ai fini della verifica del presupposto dello svolgimento di attività criminosa in atto, infatti, la nozione di privata dimora non ricomprende solo i luoghi ove si svolge la vita domestica, e cioè la casa di abitazione, ma anche ogni altro luogo in cui il soggetto che ne dispone abbia la titolarità dello jus excludendi alios a tutela della riservatezza della vita privata. Anche l’ufficio privato, pertanto, è luogo di privata dimora poiché chi ne dispone svolge in esso la sua attività lavorativa, potendo inibire l’accesso ad altri [6]. Sulla base di tali coordinate ermeneutiche, pertanto, la Corte ha devoluto al Tribunale del riesame nel giudizio di rinvio una prima verifica sul materiale indiziario emerso dalle operazioni di intercettazione ambientale, che consiste nell’individuazione degli elementi di collegamento della condotta delittuosa oggetto del tema d’accusa cautelare con l’esistenza di associazioni criminali. Solo l’esistenza di detto collegamento, infatti, potrebbe giustificare l'utilizzazione del captatore informatico che è stato inserito in dispositivi elettronici portatili. 4. La Corte di Cassazione, inoltre, ha aggiunto un secondo accertamento a quello appena descritto. Il Tribunale, in particolare, dovrà verificare “la coincidenza tra le ipotesi delittuose oggetto delle iscrizioni effettuate nel registro delle notizie di reato ex art. 335 cod. proc. pen. e quelle poi indicate nelle richieste e nei correlativi decreti di autorizzazione e proroga delle intercettazioni utilizzate nel presente procedimento che si riferiscono alla configurazione dell'ipotesi delittuosa ivi provvisoriamente contestata (ex artt. 81 cpv., 110, 318, 319, 321 cod. pen.)”. Al riguardo, la sentenza in commento ha rilevato che nella provvisoria formulazione dell’accusa, in base alla quale è stata emessa la misura cautelare, manca un riferimento alla previsione di cui all’art. 7 della legge n. 203 del 1991, pur inizialmente prefigurata nel corso della prima parte delle indagini che è stata svolta dall’Autorità Giudiziaria di Napoli per un diverso reato (art. 353-bis cod. pen.); successivamente, come evidenziato dalla difesa, nel periodo antecedente alla formulazione della richiesta cautelare, sono stati compiuti due aggiornamenti delle iscrizioni disposte a carico del ricorrente dal P.M. presso il Tribunale di Napoli, rispettivamente per il reato di cui all’art. 416 cod. pen. finalizzato a commettere una serie indeterminata di reati contro la pubblica amministrazione aggravati anche dall’art. 7 della legge n. 203 del 1991, e per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1 e 3, cod. pen., con riferimento all'aggiudicazione del solo appalto avente ad oggetto il servizio di pulizia presso un ospedale napoletano. Tale accertamento è evidentemente finalizzato a verificare la sussistenza dei presupposti per l’utilizzazione del cd. captatore informatico al fine di compiere intercettazioni ambientali, dal momento che, come è stato evidenziato in precedenza, secondo la sentenza “Scurato”, in ragione della portata invasiva dello strumento tecnologico, esso deve essere riservato alle indagini relative ai soli reati di criminalità organizzata. Questo secondo profilo, invero, presenta implicazioni molto delicate, come peraltro rilevato nella stessa sentenza in esame. Per un verso, infatti, è stato precisato che la legittimità di un’intercettazione deve essere verificata al momento in cui la captazione è richiesta ed autorizzata, “non potendosi procedere ad una sorta di controllo diacronico della sua ritualità sulla base delle risultanze derivanti dal prosieguo delle captazioni e dalle altre acquisizioni” [7], con l’importante conseguenza che “nel caso in cui un'intercettazione di comunicazione sia disposta applicando la disciplina prevista dall'art. 13, comma 1, del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 … con riguardo ad una originaria prospettazione di reati di criminalità organizzata, le relative risultanze possono essere utilizzate anche quando il prosieguo delle indagini impone di qualificare i fatti come non ascrivibili alla suddetta area”. Per altro verso, la stessa decisione ha evidenziato che, in considerazione del mezzo tecnologico impiegato, occorre rispettare un onere motivazionale particolarmente intenso ai fini

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dell’emissione del provvedimento autorizzativo, “poiché la forza intrusiva del mezzo usato ed il potenziale vulnus all'esercizio delle libertà costituzionalmente tutelate devono essere prudentemente bilanciati con il rispetto dei canoni di proporzione e ragionevolezza, cosicché la qualificazione, pure provvisoria, del fatto come inquadrabile in un contesto di criminalità organizzata risulti ancorata a sufficienti, sicuri ed obiettivi elementi indiziari …”. 5. L’ultima considerazione illustrata ha portato la Corte a sviluppare quella che appare l’affermazione più rilevante della decisione in commento. Essa consiste nel dare risalto alla funzione di garanzia della motivazione del decreto autorizzativo delle intercettazioni: “Il bilanciamento tra i diritti costituzionali confliggenti, individuali e collettivi, deve intervenire proprio nella motivazione del provvedimento autorizzativo, che in tal senso viene ad assumere una fondamentale funzione di garanzia, spiegando le ragioni dell'assoluta indispensabilità dell'atto investigativo e indicando con precisione quale sia il criterio di collegamento tra l'indagine in corso e la persona da intercettare”. Il presupposto dei “gravi indizi di reato”, infatti, non ha una connotazione “probatoria”, in chiave di valutazione prognostica della colpevolezza, ma esige un vaglio di particolare serietà delle esigenze investigative, che vanno riferite ad uno specifico fatto costituente reato, in modo da circoscrivere l'ambito di possibile incidenza dell'interferenza nelle altrui comunicazioni private. In tale contesto, la funzione del giudice, cui è demandato lo scrutinio dei presupposti che permettono di ricorrere alle intercettazioni, è quella di affermare in ogni momento il rispetto della legalità del procedimento e non quella di prestarsi a “facili aggiramenti delle norme di legge per compiacere alle richieste del pubblico ministero o di chicchessia” [8]. In particolare, nel caso di richiesta di captazioni che contempli l’uso del programma del tipo “trojan horse”, l’invasività dello strumento tecnologico ha condotto le Sezioni Unite della Corte a riservarne l’impiego alle sole indagini di criminalità organizzata, potendo contare per tale genere di investigazioni sulla base normativa integrata dall’art. 13 del decreto legge citato. Questa disposizione, infatti, deroga al rigido presupposto per lo svolgimento di intercettazioni tra presenti in un domicilio di cui all’art. 268, comma 2, cod. proc. pen. S’impone, pertanto, il rigoroso apprezzamento, già nella fase della richiesta, ma soprattutto in quella della successiva autorizzazione giudiziale, della solidità della qualificazione dell’ipotesi associativa, dovendo verificarsi che non si risolva in una sorta di illecito “contenitore”, privo, ad esempio, della specifica individuazione delle condotte relative ai delitti scopo dell'associazione ipotizzata. Il reato associativo, dunque, non deve essere strumentalizzato al fine di ottenere l’autorizzazione di intercettazioni per mezzo del captatore informatico.

*** 6. Gli spunti offerti dalla sentenza in esame, ancorché la sua analisi sia stata limitata al solo motivo concernente l’utilizzabilità delle intercettazioni e l’impiego del cd. captatore informatico, sono molteplici. All’esito della sua prima lettura appare interessante soffermarsi su due aspetti che appaiono di peculiare rilievo. In primo luogo traspare dalla decisione in esame la consapevolezza che la forza intrusiva sulle prerogative individuali del mezzo tecnologico usato per compiere le intercettazioni riproponga con forza il tema fondamentale del recupero della funzione di garanzia del decreto che autorizza le intercettazioni [9]. L’uso di uno strumento sofisticato, infatti, non vale a mutare il problema principale della disciplina delle intercettazioni, semmai ne accentua il rilievo. Il bilanciamento tra i diritti costituzionali confliggenti, individuali e collettivi, deve essere compiuto dal giudice che ne deve dare atto nella motivazione del provvedimento autorizzativo. Sovente, invece, si lamenta il ricorso, da parte dei giudici delle indagini

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preliminari, a mere clausole di stile, se non a modelli o a stereotipi. Al riguardo, non assume alcun rilievo la considerazione delle “dimensioni” del provvedimento, che necessariamente devono essere minime e sobrie dal momento che l’atto interviene nel corso delle indagini; occorre invece che il supporto motivazionale abbia effettiva capacità di chiarire, anche in poche battute, anzi proprio in poche righe, il collegamento tra la persona intercettata e l’indagine in corso in modo da evidenziare l’assoluta indispensabilità (o la necessità nei casi previsti dall’art. 13 del decreto legge n. 151 del 1991) del mezzo di ricerca della prova. Quando poi la captazione è compiuta per mezzo del “trojan horse”, occorre che sia sufficientemente dimostrato che l’inchiesta verte in tema di criminalità organizzata o associativa e che la persona intercettata sia collegata ad un’ipotesi delittuosa di tale natura. Questo profilo è determinante perché consente di riportare il nuovo strumento tecnologico nell’ambito della disciplina normativa dell’art. 13 del decreto legge citato, rendendone legittimo l’impiego nelle indagini. La sentenza “Scurato”, infatti, ha voluto evitare alla radice il rischio di intercettazioni tra presenti in luoghi di privata dimora, dove di norma sono condotti gli strumenti tecnologici in cui può essere inserito il programma informatico in esame. In questa prospettiva, in particolare, le Sezioni unite hanno reputato insoddisfacente la tutela “postuma” delle prerogative individuali che sarebbe potuta derivare dall’applicazione della sanzione dell’inutilizzabilità eventualmente inflitta alle sole intercettazioni avvenute in luoghi di privata dimora. 7. La sentenza in esame, poi, ha riaffermato che, nel caso di utilizzo in un diverso procedimento di intercettazioni compiute aliunde, dinanzi alle eccezioni formulate dall’imputato o dall’indagato, il giudice è tenuto ad effettuare in via incidentale il controllo sulla legittimità delle captazioni [10]. Al riguardo, la Suprema Corte ha rilevato che l’art. 270, comma 2, cod. proc. pen. non impone il deposito dei decreti autorizzativi delle intercettazioni compiute aliunde ai fini della loro utilizzazione. Nondimeno, secondo la decisione in esame, tale previsione normativa non può determinare una limitazione della tutela delle prerogative fondamentali e, quindi, non impedisce di sollecitare l’espletamento di una verifica sull’utilizzabilità delle captazioni. Anzi, il giudice di merito non può esimersi dal compiere un autonomo apprezzamento sulla legittimità delle captazioni quando la base indiziaria sulla quale si fonda il provvedimento impugnato è rappresentata da captazioni di questo genere che siano poste in discussione dall’imputato. Nell’affermare questi principi, tuttavia, la Corte non ha esplicitamente ribadito che sulla parte interessata grava l’onere di acquisire nel diverso procedimento i decreti autorizzativi, qualora essi non fossero stati depositati in precedenza, producendoli a sostegno dell’eccezione formulata [11]. Secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, infatti, l’inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni per violazione degli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, cod. proc. pen., è rilevata dal giudice del procedimento diverso da quello nel quale sono state autorizzate solo quando essa risulti dagli atti di tale procedimento, non essendo tenuto detto giudice a ricercarne d'ufficio la prova. Grava sulla parte interessata a farla valere l’onere di allegare e provare il fatto dal quale dipende l'eccepita inutilizzabilità, sulla base di copia degli atti rilevanti del procedimento originario che la parte stessa ha diritto di ottenere, a tal fine, in applicazione dell'art. 116 cod. proc. pen. [12]. Il mancato deposito dei provvedimenti, consentito dall’art. 270 cod. proc. pen. [13], pertanto, non mette il giudicante nella condizione di compiere quell’apprezzamento sull’utilizzabilità delle intercettazioni che, secondo la decisione in esame, deve essere compiuto anche autonomamente qualora le eccezioni sollevate investono proprio vizi dei decreti autorizzativi. Si tratta di un profilo che può apparire eminentemente pratico, ma che incide sul controllo che il giudice ad quem può compiere sull’utilizzabilità delle intercettazioni realizzate in un diverso

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procedimento, a meno che non voglia sostenere che egli debba ricorrere all’esercizio di poteri di acquisizione officiosa. Si tratterebbe, in quest’ultimo caso, di estendere alla fattispecie in esame l’orientamento secondo cui la mancata allegazione, da parte del pubblico ministero, dei relativi decreti autorizzativi a corredo della richiesta di l’applicazione di misure cautelari e la successiva omessa trasmissione degli stessi al Tribunale del riesame a seguito di impugnazione del provvedimento coercitivo, non determina né l'inefficacia della misura né l'inutilizzabilità delle intercettazioni, ma obbliga il Tribunale ad acquisire d’ufficio tali decreti ove la parte ne faccia richiesta [14]. 8. Con riferimento all’ultimo aspetto analizzato, appare opportuno aggiungere che non è affatto agevole definire quando si è dinanzi ad un diverso procedimento penale. Secondo un orientamento giurisprudenziale, infatti, l’art. 270 cod. proc. pen. intende impedire soltanto il trasferimento dei risultati delle operazioni tecniche da uno ad un altro procedimento che abbiano avuto un’autonoma e distinta origine. I risultati delle intercettazioni legittimamente acquisiti nell’ambito di un procedimento penale inizialmente unitario, invece, sono sempre utilizzabili, ancorché lo stesso sia stato successivamente frazionato a causa della eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati, poiché in tal caso non trova applicazione l’art. 270 cod. proc. pen. che postula l’esistenza di più procedimenti ab origine distinti tra loro [15]. Il fatto che sia intervenuta una separazione perché le ipotesi di reato erano eterogenee e diversi erano i soggetti indagati (quindi, perché le ipotesi di reato non erano connesse, né collegate sul piano probatorio), in altri termini, non esclude l’utilizzo delle intercettazioni in ragione dell’origine unitaria. Alla stregua di quest’impostazione, l’equivoco in cui sarebbe incorsa anche parte della giurisprudenza di legittimità, “è stato quello di attribuire rilevanza preminente al dato formale della diversità dei procedimenti nella loro fase statica, senza invece considerarne la genesi” [16]. La disciplina di cui all’art. 270 cod. proc. pen., in conclusione, si applicherebbe solo nel caso in cui i risultati delle intercettazioni transitano tra procedimenti ab origine distinti e non quando il secondo procedimento costituisce una gemmazione del primo [17]. Seguendo questo indirizzo, potrebbe anche dubitarsi che nel caso di specie ci si trovi dinanzi ad un procedimento diverso nel senso indicato nell’art. 270 cod. proc. pen., con la conseguenza dell’inapplicabilità della relativa disciplina. [1] Tra gli articoli dedicati alla sentenza in esame sui principali giornali italiano si vedano “Consip: Cassazione, nessuna certezza sul "sistema" Romeo”, in La Repubblica - Napoli, 25 luglio 2017; Consip, la Cassazione: “Nessuna chiarezza sul metodo corruttivo di Alfredo Romeo. Verificare legittimità delle intercettazioni”, in Il Fatto Quotidiano 25 luglio 2017; “Consip, la sentenza della Cassazione: «Nessuna chiarezza sul metodo Romeo»”, in Il Mattino, 25 luglio 2017, tutti pubblicati sulla versione on line dei quotidiani. [2] Cass., Sez. un. 28 aprile 2016, n. 26889 (dep. 1 luglio 2016), Scurato, in CED Cass. n. 266905-266906. Dopo questa sentenza, invero, il tema è stato affrontato in altre pronunce di legittimità. Alcune sentenze della Sezione sesta, tutte nondimeno concernenti la medesima vicenda cautelare che ha dato l’occasione per l’intervento delle Sezioni unite, hanno ribadito che è ammissibile l’utilizzo del captatore informatico limitatamente ai procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica, a norma dell’art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991, intendendosi per tali quelli elencati nell’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. (Cass., Sez. VI, 3 maggio 2016, n. 27404, Marino; Cass., Sez. VI, 3 maggio 2016, n. 26054, Di Cara; Cass., Sez. VI, 3 maggio 2016, n. 26055, Bronte; Cass., Sez. VI, 3 maggio 2016, n. 26058, Lo Iacono). L’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni compiute per mezzo del software , inoltre, è stata formulata in un giudizio avente ad oggetto reati di corruzione, falso, turbativa d’asta, truffa ed altro (Cass., Sez. V, 4 marzo 2016, n. 26817, Iodice ed altri). In questo caso, la Corte ha rigettato l’eccezione ritenendo inadempiuto l’onere di indicare con precisione l’atto asseritamente affetto dal vizio denunciato, provvedendo anche a produrlo in copia nel giudizio di cassazione. Cass., Sez. IV, 28 giugno 2016, n. 40903,

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Grassi ed altri, in CED Cass. n. 268228, infine, ha reputato legittimo l’uso di programma informatico del tipo indicato per acquisire le credenziali di accesso ad una casella di posta elettronica [3] La sentenza delle Sezioni unite, in particolare, è stata commentata in Arch. nuova proc. pen. 2017, 76 e ss. da A. Camon, Cavalli di troia in Cassazione; in Cass. pen. 2016, p. 2274-2288, da A. Balsamo, Le intercettazioni mediante virus informatico tra processo penale italiano e Corte europea; in Il Diritto dell'informazione e dell'informatica, 2016, 88, da Corasaniti, Le intercettazioni "ubiquitarie" e digitali tra garanzia di riservatezza, esigenze di sicurezza collettiva e di funzionalità del sistema delle prove digitali; in Proc. pen. giust., 2016, fasc. 5, 21, da Felicioni, L'acquisizione da remoto di dati digitali nel procedimento penale: evoluzione giurisprudenziale e prospettive di riforma. Sulla sentenza si veda anche Gaito – Fùrfaro, Le nuove intercettazioni “ambulanti”: tra diritto dei cittadini alla riservatezza ed esigenze di sicurezza per la collettività, in Arch. pen. 2016, II, 309; Cisterna, Spazio ed intercettazioni, una liaison tormentata. Note ipogarantistiche a margine della sentenza Scurato delle Sezioni unite, in Arch. pen. 2016, II, 331; Filippi, L’ispe-perqui-intercettazione “itinerante”: le Sezioni unite azzeccano la diagnosi, ma sbagliano la terapia (a proposito del captatore informatico), in Arch. pen. 2016, II, 348; Picotti, Spunti di riflessione per il penalista dalla sentenza delle Sezioni unite relativa alle intercettazioni mediante captatore informatico, in Arch. pen. 2016, II, 354; Lasagni, L’uso di captatori informatici (trojans) nelle intercettazioni “fra presenti”, in questa Rivista, 7 ottobre 2016. [4] Cass., Sez. V, 10 luglio 2015, n. 4758, dep. 2016, Bagnato, in CED Cass. n. 265992. [5] Cass., Sez. II, 26 aprile 2012, n. 30815, Parise, in CED Cass. n. 253415. [6] Cass., Sez. VI, 29 settembre 2003, n. 49533, Giliberti, in CED Cass. n. 227835. [7] Cass., Sez. VI, 1 marzo 2016, n. 21740, Masciotta, in CED Cass. n. 266921. [8] Le espressioni citate sono tratte da Cass., Sez. VI, 20 ottobre 2009, n. 50072, Bassi, in CED Cass., n. 245699. [9] Su questo tema sia consentito il rinvio a L. Giordano, Dopo le Sezioni Unite sul "captatore informatico": avanzano nuove questioni, ritorna il tema della funzione di garanzia del decreto autorizzativo, in questa Rivista, 20 marzo 2017. [10] Cass., Sez. II, 26 aprile 2012, n. 30815, cit. Le valutazioni circa l’utilizzabilità delle intercettazioni effettuate nel procedimento in cui sono state disposte le relative operazioni non vincolano il giudice del diverso procedimento, che conserva piena autonomia decisoria e deve procedere ad autonomo apprezzamento. Così, tra le altre Cass., Sez. I, 28 ottobre 2010, n. 42006, in CED Cass. n. 249109. [11] Cass., Sez. VI, 18 settembre 2015, n. 41515, in CED Cass. n. 264741; Cass., Sez. VI, 15 gennaio 2009, n. 6875, in CED Cass. n. 243671. [12] Cass., Sez. U, 17 novembre 2004, n. 45189, in CED Cass. n. 229245. In sostanza, è devoluto alla parte interessata il compito non solo di dedurre il vizio, ma anche di allegare la documentazione necessaria per permettere al giudice di accertare se vi sia stato l'esercizio del potere di controllo giurisdizionale richiesto dall’art. 15 Cost. e riconoscere la sussistenza di una eventuale causa di illegittimità. Il giudizio sulla legalità del mezzo di prova, in altri termini, è subordinato ad un’eccezione ed ad una produzione documentale della parte. In dottrina (C. Conti, Intercettazioni ed inutilizzabilità: la giurisprudenza aspira al sistema, in Cass. pen. 2011, 3638 e ss.) è stato sottolineato come la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in forza di orientamenti come quello illustrato, abbia costruito una sorta di “inutilizzabilità ad ampiezza variabile” la cui portata dipende dal comportamento delle parti. Da un lato, gli attori del processo sono responsabilizzati nel senso che gravano sugli stessi oneri al fine di far valere l’invalidità della prova. Dall’altra, proprio detto onere, di fatto, rimette alla disponibilità dell’interessato l’allegazione dei fatti costitutivi dell’invalidità, determinando finanche, nel caso di inerzia dell’interessato, una sorta di quiescenza del vizio. [13] Ai fini dell'utilizzabilità dei risultati di intercettazioni legittimamente eseguite in altro procedimento non è richiesto il deposito dei decreti autorizzativi di esse nel procedimento originario, ma solo quello dei relativi verbali e registrazioni. Cfr., tra le altre, Cass., Sez. F, 31 luglio 2003, n. 38291, in CED Cass. n. 226166. [14] Cass., Sez. I, 11 ottobre 2016, n. 823, dep. 2017, in CED Cass. n. 269291. Secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, la mancata allegazione, da parte del P.M., dei relativi decreti autorizzativi a corredo della richiesta di l'applicazione di misure cautelari e la successiva omessa trasmissione degli stessi al Tribunale del riesame a seguito di impugnazione del provvedimento coercitivo, non determina né l'inefficacia della misura né l'inutilizzabilità delle intercettazioni. Cfr. Cass., Sez. III, 12 ottobre 2007, n. 42371, Gulisano, in CED Cass. n. 238059; Cass., Sez. I, 15 febbraio 2005, n. 8806, Ferrini, in CED Cass. n. 231083; Cass., Sez. IV, 1 dicembre 2004, n. 4631, dep. 2005, in CED Cass. n. 230685. [15] Cass., Sez. VI, 16 dicembre 2014 n. 6702 (dep. 16 febbraio 2015), La Volla, in CED Cass. n. 262496. [16] Cass., Sez. VI, 16 dicembre 2014 n. 6702, cit.

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[17] Cass., Sez. IV, 8 aprile 2015, n. 29907, Bono, in CED Cass. n. 244382.

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NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI – GIURISPRUDENZA DI MERITO

Revoca prefettizia della patente ex art. 120 codice della strada: una "sanzione" ragionevole?

Tribunale di Milano, sez. I civile, ord. 24 aprile 2017, R.G. 8663/2017

di Edoardo Zuffada 1. Con la decisione in commento, il Tribunale civile di Milano ha respinto un ricorso promosso ai sensi dell’art. 700 c.p.c., mediante il quale il ricorrente chiedeva l’adozione di un provvedimento cautelare d’urgenza di disapplicazione dell’ordinanza di revoca della patente di guida, adottata dal prefetto ai sensi dell’art. 120 d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (codice della strada, di seguito c.d.s.) in ragione della sopravvenuta perdita dei “requisiti morali” in seguito ad una condanna per il reato di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti di cui all’art. 73 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309. In particolare, il giudice civile, nel respingere il ricorso, ha ritenuto insussistenti tanto il fumus boni iuris (illegittimità dell’ordinanza prefettizia di revoca) quanto il periculum in mora (pregiudizio per il diritto di circolazione), posti dal ricorrente a fondamento della propria richiesta. 2. Brevemente, i fatti. Nel febbraio 2015, il Tribunale di Pavia aveva pronunciato, nei confronti del ricorrente, una sentenza di applicazione pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. per il reato di cui all’art. 73, commi 1-bis e 4, d.p.r. n. 309/1990, per avere lo stesso detenuto, a fini di spaccio, sostanza stupefacente del tipo marijuana, infliggendo la pena di un anno e mezzo di reclusione e concedendo – ex art. 163 c.p. – la sospensione condizionale della pena. Il “patteggiamento”, non impugnato dalle parti, diveniva irrevocabile nel successivo mese di marzo. Nel gennaio 2017, l’odierno ricorrente riceveva la notifica di un provvedimento del prefetto di Milano, con il quale veniva disposta la revoca della patente di guida in ragione della perdita dei “requisiti morali” richiesti dall’art. 120 c.d.s. per il conseguimento e per il mantenimento della stessa: in effetti, ai sensi del primo comma del citato articolo – così come integrato dalla l. 15 luglio 2009, n. 94, c.d. “Pacchetto sicurezza” – è precluso il conseguimento della patente, tra l’altro, alle “persone condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi, nonché i soggetti destinatari dei divieti di cui agli articoli 75, comma 1, lettera a), e 75-bis, comma 1, lettera f), del medesimo testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 per tutta la durata dei predetti divieti”; il secondo comma, poi, prevede che, nel caso in cui la perdita dei requisiti morali sia successiva al conseguimento della patente, il Prefetto ne disponga automaticamente la revoca. Il ricorrente – il quale sostiene di aver intrapreso, dopo la condanna del 2015, un positivo percorso di reinserimento sociale, in particolare mediante lo svolgimento di una regolare attività lavorativa presso un ufficio postale – temeva che tale provvedimento, precludendogli l’utilizzo di autoveicoli o motocicli, potesse irrimediabilmente pregiudicare il suo impiego, dal momento che l’adempimento delle sue mansioni prevede continui spostamenti su ciclomotore.

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3. Egli si rivolgeva, dunque, al giudice civile di Milano al fine di ottenere un provvedimento cautelare di urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c. che, di fatto, disapplicasse la revoca della patente disposta dal Prefetto. Quanto al fumus boni iuris, il ricorrente adduceva l’illegittimità del provvedimento prefettizio sotto diversi profili: innanzitutto, dopo aver evidenziato la natura “sostanzialmente penale” – ai sensi dell’art. 7 Cedu e della rilevante e consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo – della revoca della patente ex art. 120 c.d.s., sosteneva l’irragionevolezza della norma de qua con particolare riferimento al disposto dell’art. 85 d.p.r. n. 309/1990, che prevede la possibilità per il giudice penale di applicare, in caso di condanna per uno dei reati previsti dal t.u. stupefacenti, la pena accessoria del ritiro della patente fino a tre anni. In effetti, è appena il caso di ricordare che mentre il “ritiro” della patente ha carattere temporaneo e comporta la restituzione del titolo di circolazione una volta che siano state adempiute determinate prescrizioni (cfr. art. 216 c.d.s.) ovvero sia trascorso un determinato periodo di tempo (cfr. art. 85 d.p.r. n. 309/1990), la “revoca” della patente comporta, invece, la definitiva perdita del titolo di circolazione, obbligando dunque il soggetto – una volta che sia trascorso un certo periodo di tempo ovvero che siano stati riottenuti i requisiti di idoneità richiesti – a conseguire una nuova patente di guida (cfr. art. 219 c.d.s.). Inoltre, l’illegittimità del provvedimento veniva dedotta dall’automatismo applicativo della revoca, che prescinde da una sia pur minima valutazione delle circostanze del caso concreto; nonché dalla notevole distanza temporale del provvedimento prefettizio rispetto alla sentenza di “patteggiamento”, non rispondendo più la suddetta revoca ad alcuna finalità punitiva, preventiva o tanto meno rieducativa. Con riferimento al periculum in mora, il ricorrente sosteneva che l’illegittimo provvedimento del Prefetto comportasse un immediato ed irreparabile pregiudizio per il diritto di circolazione tutelato dall’art. 16 Cost. 4. Un non trascurabile riscontro alle ragioni avanzate dal ricorrente è offerto da una recente ordinanza del Tribunale civile di Genova con cui è stata sollevata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 120 c.d.s. in relazione agli artt. 3, 11, 16, 25, 111 e 117 Cost. [1]. Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici genovesi riguardava una giovane donna, condannata nel 2009 ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309/1990, per alcuni reati commessi tra il settembre e il novembre 2007, quando la stessa versava in condizioni di tossicodipendenza e di grave disagio familiare. Nel 2013, la sentenza di condanna diveniva irrevocabile. Nel giugno 2015 veniva notificato alla giovane donna il provvedimento prefettizio di revoca della patente in ragione della perdita dei “requisiti morali” ex art. 120 c.d.s. Allegando di aver ormai superato la sua condizione di tossicodipendente e di avere necessità di utilizzare l’autovettura per adempiere al meglio i propri doveri genitoriali verso le tre figlie minorenni, la donna si rivolgeva al Tribunale di Genova per ottenere la disapplicazione del provvedimento di revoca della patente di guida, con l’ulteriore richiesta di sollevare, se necessario, avanti la Corte costituzionale una questione di legittimità dell’art. 120 c.d.s. in relazione agli artt. 3, 16, 25 e 117 Cost. Il Tribunale di Genova accoglieva il ricorso ex art. 700 c.p.c., ritenendo inapplicabile la revoca della patente ai casi di reati commessi prima dell’entrata in vigore della modifica dell’art. 120 c.d.s. apportata dal c.d. “Pacchetto sicurezza” del 2009, sulla base dell’argomento per cui, trattandosi di sanzione sostanzialmente penale, anch’essa deve rispettare le garanzie e i limiti della matière pénale, e in particolare il divieto di applicazione retroattiva di norma penale in malam partem. In sede di reclamo contro il provvedimento cautelare, promosso dall’Avvocatura dello Stato, il Tribunale in composizione collegiale ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di

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costituzionalità proposta dalla ricorrente e, con ordinanza del 16 giugno 2016, ha rimesso il caso alla Corte costituzionale, motivando nei seguenti termini. Sotto un primo profilo i giudici rimettenti argomentano che la revoca della patente ex art. 120 c.d.s. costituisce una sanzione sostanzialmente penale alla luce dell’art. 7 Cedu e della giurisprudenza di Strasburgo che, già dagli anni Settanta, ha formulato sicuri criteri in base ai quali stabilire i confini della “materia penale” (c.d. criteri Engel). Fatta questa premessa, i giudici a quibus ritengono che i primi due commi dell’art. 120 c.d.s. non possano essere applicati retroattivamente ai reati commessi prima dell’entrata in vigore della l. n. 94/2009. Sotto un altro profilo – ancor più rilevante per il caso qui commentato – il Tribunale di Genova ha reputato irragionevole la previsione di una revoca della patente disposta in via amministrativa ed automatica per tutti i casi di condanna per i reati di cui agli artt. 73 e 74, laddove l’art. 85 d.p.r. n. 309/1990 prevede, invece, che sia il giudice penale a valutare se applicare o meno la più tenue pena accessoria del ritiro della patente, per un massimo di tre anni: per tale ragione, è chiesto ai giudici costituzionali di dichiarare anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 120 c.d.s., nella parte in cui è prevista la revoca della patente, ad opera del Prefetto, in ogni caso di condanna per i reati in materia di stupefacenti. 5. Prima di procedere all’analisi delle questioni sostanziali sottese alla decisione in commento, appare opportuno, per ragioni di chiarezza, spendere qualche parola sul tema della giurisdizione e della competenza, nel caso in cui si contesti – come nel caso di specie – la legittimità della revoca prefettizia della patente di guida ex art. 120 c.d.s. Sul tema sono intervenute – anche recentemente – le Sezioni Unite della Corte di Cassazione [2], affermando chiaramente che competente a conoscere della legittimità del provvedimento di revoca di cui all’art. 120 c.d.s. sia soltanto il giudice ordinario (e, in particolare, il giudice civile), e non già il giudice amministrativo. In particolare, quanto alla giurisdizione, i giudici di legittimità hanno stabilito che, trattandosi di provvedimento vincolato, “la domanda rivolta a denunciare l’illegittimità del provvedimento di revoca della patente di guida, reso dal prefetto […], si ricollega ad un diritto soggettivo, e di conseguenza, in difetto di deroghe ai comuni canoni sul riparto della giurisdizione, spetta alla cognizione del Giudice ordinario (al quale compete, nell'eventualità del fondamento della denuncia, di tutelare il diritto stesso disapplicando l'atto lesivo)” [3]. Con riferimento alla competenza, poi, la Corte di Cassazione ha precisato che l’opposizione al provvedimento prefettizio in esame, “non rientrando nella competenza per materia del giudice di pace, è devoluto alla competenza ordinaria del tribunale, ai sensi dell’art. 9 del codice di procedura civile” [4]. 6. Tornando al caso concreto cui si riferisce la decisione in commento, il Tribunale civile di Milano ha respinto il ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c., reputando infondata la domanda del ricorrente. In particolare, il giudice non ha condiviso la tesi proposta dal ricorrente, secondo cui la revoca prefettizia della patente sarebbe, per la sua gravità ed afflittività, una sanzione sostanzialmente penale: al contrario, si legge nell’ordinanza che “non appare contestabile la natura amministrativa della revoca della patente prevista dalla disposizione di cui all’art. 120 Codice della strada, revoca che consegue ad un provvedimento riservato all’autorità amministrativa e che il legislatore ha collegato al verificarsi di alcune fattispecie tipizzate connotate da un disvalore strettamente connesso alla possibilità di guidare più che alla gravità del comportamento in concreto posto in essere, prevedendo un giudizio a tutt’oggi caratterizzato da un vero e proprio automatismo”. Secondo il giudice, la revoca ex art. 120 c.d.s. non può essere qualificata come sanzione penale, in quanto si tratta di “una disposizione che, prima ancora che imporre una sanzione, regolamenta un aspetto strettamente amministrativo inerente alle qualità personali necessarie per ottenere o conservare la patente

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di guida”. Le condotte che fanno venir meno i “requisiti morali” necessari per la conservazione del titolo di circolazione stradale, dunque, “non sono richiamate per gravità della pena, ma per tipologia di fattispecie, evidenziandosi così una indicazione di valore da parte del legislatore avuto riguardo a determinate categorie di violazioni che si assumono particolarmente incisive sotto il profilo della sicurezza stradale piuttosto che all’entità della pena, sintomo della gravità del reato”. Tanto premesso, con riguardo alla tutela in caso di revoca della patente ex art. 120 c.d.s., il giudice ha osservato che “la forma di tutela prevista dal legislatore consiste nella valutazione – da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria – della corretta applicazione del provvedimento di revoca da parte del Prefetto, che si considera legittimamente emesso in presenza di uno dei presupposti indicati dalla norma”. Per quanto riguarda il caso di specie, “risulta pacifica la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 73 DPR 309/90, che costituisce elemento ostativo al mantenimento del titolo della patente di guida e in presenza della quale è legittima la revoca della patente di guida da parte dell’amministrazione”. Pertanto, “in difetto dei requisiti necessari prescritti ex art. 120 Cds, il ricorrente non ha, allo stato, diritto al mantenimento della patente di guida. Tale ostacolo potrà essere superato – nei tempi e nei modi previsti dalla legge – attraverso un eventuale provvedimento di riabilitazione”. Per questi motivi il Tribunale ha ritenuto non sussistente il fumus boni iuris e, senza procedere al vaglio del requisito del periculum in mora, ha rigettato il ricorso.

*** 7. Gli argomenti portati dal Tribunale civile di Milano a sostegno della propria decisione di rigetto non appaiono convincenti. Innanzitutto – pur non rappresentando una questione dirimente per il caso qui esaminato – merita una breve riflessione l’affermazione del giudice milanese secondo cui non sarebbe contestabile la natura amministrativa della revoca della patente ex art. 120 c.d.s. in quanto, da un lato, riservata alla autorità amministrativa e, dall’altro, priva di qualsivoglia connotazione punitiva o, comunque, sanzionatoria. In realtà, sotto la decisiva spinta della Corte di Strasburgo, il concetto di “materia penale” ha da tempo mutato pelle, per dare maggiore rilievo agli aspetti sostanziali di disciplina, rispetto al semplice dato delle qualificazioni formali offerte dagli ordinamenti dei singoli Stati [5]. A tal fine sono stati definiti dalla Corte europea alcuni parametri – i noti “criteri Engel”, ormai consolidati nella giurisprudenza di Strasburgo – che consentono di delineare i confini della materia penale: in particolare, accanto alla qualificazione formale della sanzione fornita dall’ordinamento nazionale, il vaglio si deve estendere anche alla natura sostanziale dell’illecito e al grado di severità della sanzione, tenuto conto della sua natura, durata o modalità di esecuzione [6]. Le conseguenze di una tale valutazione autonoma della “materia penale” sono – come è ben evidente – di non poco momento: in effetti, una volta riconosciuta la natura penale di un dato precetto o di una data sanzione, tale disciplina viene attratta nell’orbita del diritto penale, dovendo sottostare ai principi e alle garanzie che lo caratterizzano [7]. Per quanto qui di interesse, nella decisione Welch c. Regno Unito, la Corte europea ha dato rilievo al dato della pertinenzialità della sanzione rispetto ad un fatto di reato, affermando che “[t]he wording of Article 7 para. 1 (art. 7-1), second sentence, indicates that the starting-point in any assessment of the existence of a penalty is whether the measure in question is imposed following conviction for a ‘criminal offence’”; e che “[o]ther factors that may be taken into account as relevant in this connection are the nature and purpose of the measure in question; its characterisation under national law; the procedures involved in the making and implementation of the measure; and its severity” [8].

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Ebbene, nel caso in commento, la revoca della patente ex art. 120 c.d.s. accede senz’altro al reato di “produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope” di cui all’art. 73 d.p.r. n. 309/1990, dovendo l’autorità prefettizia adottarla in ogni caso in cui un soggetto sia stato condannato per tale reato: non pare dubbia, dunque, la natura penale della suddetta revoca. Peraltro, a conferma di tale assunto soccorrono due argomenti di diritto interno. In primo luogo, lo stesso art. 120 c.d.s. fa “salvi gli effetti dei provvedimenti riabilitativi”: l’inequivoco riferimento all’istituto della riabilitazione ex art. 178 c.p., quale strumento idoneo a conservare i “requisiti morali” necessari per conseguire ovvero per mantenere il titolo di circolazione stradale, suggerisce che, anche nell’ottica del legislatore del 2009, la revoca de qua ha una natura intrinsecamente sanzionatoria ed afflittiva, e non già preventiva; non si capirebbe, altrimenti, il motivo per cui le sorti di una misura preventiva – rispetto alla circolazione stradale – debbano dipendere da un provvedimento riabilitativo che ha l’effetto di estinguere “le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna” e che, quindi, esprime una valutazione di inopportunità circa la meritevolezza ed il bisogno di continuare a punire un soggetto, in presenza di particolari circostanze stabilite dalla legge. In secondo luogo, può essere utilmente speso anche un argomento di carattere sistematico: se, infatti, l’art. 85 d.p.r. n. 309/1990 prevede, quale pena accessoria rispetto al reato di cui all’art. 73, la meno grave sanzione del ritiro (discrezionale) della patente, a fortiori la più grave sanzione della revoca avrà anch’essa natura penale. 8. Soprattutto, però, desta perplessità la mancata valutazione del profilo di irragionevolezza dell’art. 120 c.d.s., a maggior ragione mentre è pendente questione di legittimità costituzionale proprio in relazione a questo specifico punto. In particolare, appare irragionevole la previsione di una revoca del titolo di circolazione stradale, disposta in maniera automatica dall’autorità amministrativa, quale necessaria conseguenza della condanna per i reati di cui agli artt. 73 e 74 d.p.r. n. 309/1990, laddove il medesimo d.p.r. prevede, all’art. 85, che sia il giudice penale a valutare se applicare, o meno, la pena accessoria del ritiro della patente. Tale pena accessoria, peraltro, oltre ad essere meno grave e a carattere discrezionale, richiede una puntuale motivazione del giudice che decide di applicarla [9], il quale – facendo ricorso ai criteri stabiliti dall’art. 133 c.p. – dovrà ritenerla particolarmente adeguata in tutti i casi in cui sia prevedibile una “specifica efficacia disincentivante” [10]. Né si può seriamente sostenere che l’art. 120 c.d.s. sia stato introdotto per il diverso fine di tutelare la circolazione stradale rispetto alle condotte di soggetti che, condannati per reati in materia di droga, potrebbero risultare pericolosi alla guida di autoveicoli: in effetti, per un verso non tutti i soggetti condannati ai sensi degli artt. 73 e 74 d.p.r. n. 309/1990 sono anche tossicodipendenti (e dunque pericolosi per la circolazione stradale); e, per altro verso, la frequente tardività dei provvedimenti prefettizi rispetto alla condanna penale vanifica, di fatto, qualsivoglia finalità preventiva. Pertanto, appare irragionevole che, nel caso in cui il giudice penale abbia deciso di non applicare la pena accessoria ex art. 85 d.p.r. n. 309/1990, la revoca della patente di cui all’art. 120 c.d.s. intervenga comunque [11]; così come risulta irragionevole la sovrapposizione di sanzioni che si verifica quando il giudice penale abbia già applicato la pena accessoria del ritiro della patente. 9. Per i motivi appena esposti, la decisione in commento desta più d’una perplessità: in considerazione dei seri dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 120 c.d.s. – del resto già rilevati nella citata ordinanza di remissione alla Corte costituzionale – il giudice avrebbe forse potuto seguire una diversa strada, idonea a scongiurare ogni pregiudizio per i diritti del ricorrente.

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In particolare, avrebbe potuto più prudentemente accogliere il ricorso d’urgenza, disponendo in via provvisoria la disapplicazione del provvedimento prefettizio di revoca della patente; e, una volta instaurato il giudizio di cognizione, sollevare una nuova questione di legittimità costituzionale per irragionevolezza dell’art. 120 c.d.s. rispetto al disposto dell’art. 85 d.p.r. n. 309/1990, sospendendo così il procedimento in attesa della decisione della Consulta. Tale scelta, peraltro, sarebbe in linea con quanto affermato dalla Corte di cassazione in tema di sospensione del processo durante la pendenza di una questione di costituzionalità sollevata da altro giudice: in un caso relativo al regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c., i giudici di legittimità hanno escluso che il giudice possa semplicemente sospendere il giudizio in relazione alla pendenza di una questione di costituzionalità sollevata in altro processo, dovendo egli, in tal caso, investire a sua volta la Corte costituzionale e successivamente procedere alla sospensione del giudizio [12]. Ora, per conoscere le sorti dell’art. 120 c.d.s. non resta che attendere la decisione della Corte costituzionale del prossimo ottobre. [1] Tribunale di Genova, ord. 16 giugno 2016, n. 210. Si segnala che l’udienza per la discussione della questione di costituzionalità dell’art. 120 c.d.s. è stata fissata il 10 ottobre 2017, giudice relatore M. R. Morelli. [2] Corte Cass., sez. un. civ., 19 gennaio 2006 (dep. 6 febbraio 2006), n. 2446; Corte Cass., sez. un. civ., 22 giugno 2010 (dep. 4 novembre 2010), n. 22491; Corte Cass., sez. un. civ., 12 novembre 2013 (dep. 14 maggio 2014), n. 10406. [3] Corte Cass., sez. un. civ., 19 gennaio 2006, n. 2446, cit. [4] Corte Cass., sez. un. civ., 22 giugno 2010, n. 22491, cit.; Corte Cass., sez. un. civ., 12 novembre 2013, n. 10406, cit. [5] V. Manes-E. Nicosia, 7. Nulla poena sine lege, in S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2012, p. 259 ss.; S. Buzzelli-R. Casiraghi-F. Cassibba-P. Concolino-L. Pressacco, Art. 6, in G. Ubertis-F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Torino, 2016, p. 132 ss. [6] Cfr. Corte edu, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, § 81 ss. [7] Per un’analisi in merito alle influenze della Cedu sul diritto penale sostanziale italiano, v. F. Viganò, Diritto penale e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 42 ss. [8] Corte edu, 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito, § 28. Proprio sulla base del criterio di pertinenzialità, i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto, in una successiva sentenza, la natura penale della sanzione della decurtazione di punti alla patente di guida a seguito della condanna per un reato in materia di circolazione stradale: v. Corte edu, 23 settembre 1998, Malige c. Francia. [9] Corte di cassazione, sez. III, 18 dicembre 2008 (dep. 17 aprile 2009), n. 16285, De Lisi; di recente, v. anche Corte di Cassazione, sez. III, 19 maggio 2017 (dep. 14 luglio 2017), n. 34542. [10] F. C. Palazzo, Consumo e traffico degli stupefacenti, II ed., Padova, 1994, p. 210; in giurisprudenza: Corte di Cassazione, sez. VI, 21 dicembre 1989 (dep., 19 aprile 1990), n. 5654, Giolli. [11] Il carattere automatico della revoca della patente ex art. 120 c.d.s. era stato invero già sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale da parte del T.A.R. dell’Umbria. Nell’ordinanza di rimessione, il Tribunale amministrativo umbro chiedeva alla Corte una pronuncia additiva a mezzo della quale superare l’irragionevole automatismo applicativo di cui all’art. 120 c.d.s. Con ordinanza n. 169 del 2013, la Corte Costituzionale dichiarava manifestamente inammissibile il ricorso. La questione, tuttavia, non può dirsi definitivamente risolta, dal momento che, nella citata ordinanza, i giudici costituzionali lamentavano il carattere “assolutamente indeterminato” del petitum ed evidenziavano un difetto di rilevanza della questione per il giudizio a quo: in altri termini, il merito della questione non è stato affrontato dalla Corte Costituzionale. [12] Corte di cassazione, sez. VI civ., 26 giugno 2013, ord. n. 16198; v. anche Corte di cassazione, sez. II civ., 24 novembre 2006, ord. n. 24946.

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Aspetti problematici delle nuove lesioni colpose stradali (art. 590-bis c.p.): alcuni primi nodi all’esame del GIP di Milano

GIP Milano, decr. arch. 4 maggio 2017, RGNR n. 15897/16, Giud. Gargiulo

di Matteo Aranci

1. Come noto, la legge 23 marzo 2016, n. 41 ha introdotto nell’ordinamento italiano le lesioni personali stradali gravi o gravissime, la cui disciplina trova spazio nel nuovo art. 590-bis c.p. Tale disposizione prevede un primo comma, in cui viene descritta la fattispecie («chiunque cagioni per colpa ad altri una lesione personale con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione da tre mesi a un anno per le lesioni gravi e da uno a tre anni per le lesioni gravissime»), ed un più ampio ventaglio di aggravanti, scandite dai commi seguenti (dal co. 2 al co. 6), in ossequio ai quali la pena può spingersi sino ai sette anni per le lesioni gravissime. Alle aporie legate alla ratio, agli scopi e alle modalità dell’intervento normativo in analisi, ben osservate da attenta dottrina [1], si giustappongono poi le evidenti difficoltà che sono state riscontrate, all’atto pratico, nell’applicazione delle nuove disposizioni normative. L’introduzione della nuova disciplina di cui agli artt. 589-bis e 590-bis c.p. ha infatti reso altrettanto necessari talune modifiche al codice di rito, in guisa tale da raccordare le novità di carattere sostanziale con le norme processuali. L’intervento novellistico su una o più fattispecie criminose comporta riverberi determinanti sullo sviluppo dei procedimenti che hanno ad oggetto la nuova disciplina e, di conseguenza, si determinano numerose questioni interpretative, specie ove – come in questo caso – l’apporto del legislatore non sia stato contraddistinto da particolare precisione nella declinazione di ogni aspetto processualmente rilevante [2]. Tra le disposizioni introdotte nel codice di rito, si segnalano, con riferimento al solo reato di cui all’art. 590-bis c.p.: (i) la possibilità di prelievo coattivo di capelli, peli e mucose anche in assenza del consenso del soggetto da sottoporre a perizia, previa ordinanza del giudice e solo ove ciò risulti indispensabile [3]; (ii) qualora il conducente rifiuti di sottoporsi agli accertamenti relativi allo stato di ebbrezza alcolica ovvero di alterazione per l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, se vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave o irreparabile pregiudizio alle indagini, il pubblico ministero può, ricorrendo l’urgenza, disporre in via orale – salvo successiva conferma con decreto scritto – l’accompagnamento coattivo al più vicino ospedale perché si provveda agli accertamenti opportuni [4]; (iii) è previsto l’arresto facoltativo in caso di flagranza (art. 381, co. 2, lett. m-quinquies c.p.p.) in caso di lesioni stradali gravi o gravissime aggravate ai sensi dei commi 2, 3, 4, 5 art. 590-bis c.p.; (iv) l’inserimento di termini acceleratori per la tempestiva definizione dei procedimenti [5]. Tuttavia, accanto a tali modifiche normative – su alcune delle quali sono state peraltro rilevate interessanti questioni [6] – giova osservare come, ad una prima applicazione della disciplina dettata dalla legge n. 41/2016, si sia presentato, con riferimento al solo reato di lesioni stradali gravi e gravissime, un nodo ermeneutico di una certa rilevanza, relativo alla procedibilità del reato. Quaestio che, a sua volta, postula una risposta ad un secondo quesito di fondamentale rilevanza, relativo alla esatta qualificazione giuridica dell’art. 590-bis, co. 1, c.p., che, come si osserverà

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infra, può integrare tanto un autonomo reato quanto una circostanza aggravante della più generale figura di cui all’art. 590 c.p. Su tali profili, si è pronunciato il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Milano: con decreto motivato del 4 maggio 2017. L’organo giudicante ha deciso l’archiviazione di un fascicolo iscritto per il reato previsto e punito dall’attuale art. 590-bis c.p. sulla base di un duplice convincimento. In primo luogo, il G.I.P. ha ritenuto di qualificare come circostanziale – e non autonoma – la fattispecie di nuovo conio e, in secondo luogo e di conseguenza, ha applicato, secondo l’iter argomentativo che si andrà ad analizzare, il regime di procedibilità a querela di parte. 2. Il fatto, costituente l’oggetto del pronunciamento sopra menzionato, era stato commesso pochi giorni dopo l’entrata in vigore della legge n. 41/2016 e si presentava nelle forme del classico episodio di investimento di un ciclista da parte di un autoveicolo, il cui conducente aveva omesso di dare la precedenza alla persona offesa. Il ciclista, rovinato al suolo a causa dell’impatto con l’auto del soggetto poi indagato, veniva immediatamente assistito dal conducente e trasferito in ospedale, ove il personale medico stilava una prognosi di sessanta giorni. La Procura di Milano, ricevuta la nota della Polizia Stradale intervenuta, iscriveva il conducente nel registro delle persone indagate ai sensi dell’art. 590-bis, co. 1, c.p. Gli atti d’indagine si presentavano invero assai scarni: la stessa Polizia Stradale dava conto di non aver potuto individuare alcun testimone né effettuare alcun utile rilievo in loco; tuttavia, la dinamica dell’accaduto risultava de plano dalle informazioni rese tanto dal ciclista quanto dal soggetto indagato. In assenza di alcuna forma di istanza punitiva depositata tempestivamente in Procura o presso la polizia giudiziaria, il PM, decorsi i termini sanciti dall’art. 124 c.p., aveva ritenuto di non poter procedere per difetto di querela ed il G.I.P. assegnatario del fascicolo ha ritenuto di accogliere la richiesta di archiviazione con decreto motivato nei termini che si analizzeranno di seguito. 3. Come puntualmente osservato nel decreto in esame, nessuna disposizione ad hoc è stata dettata dall’art. 590-bis c.p. – né, invero, da altri articoli della legge n. 41/2016 – in punto di procedibilità delle lesioni colpose stradali gravi o gravissime. Il silenzio normativo serbato sul punto dalla riforma indurrebbe pertanto a ritenere che si debba fare applicazione della ordinaria disciplina che si ricava dall’art. 120 c.p.: ove la legge non subordini la perseguibilità di un fatto criminoso all’istanza punitiva della persona offesa, si procede, nei confronti del soggetto indagato, ex officio. Tuttavia, come osserva limpidamente il Giudice, «la decisione sul regime di procedibilità relativo all’art. 590-bis c.p. dipende dalla soluzione della questione preliminare relativa alla natura di fattispecie di reato o di circostanza del reato introdotta dalla norma in analisi» [7]. Infatti, se ad una prima lettura la quaestio circa la procedibilità d’ufficio o a querela sembra quasi artificiosa, stante – appunto – il ricorso all’ordinario criterio enunciato, ad un più profondo esame si può dire che sussistano anche fondati e significativi elementi che militano in favore di una diversa impostazione, secondo cui la querela della parte offesa costituirebbe indefettibile condizione di procedibilità in caso di lesioni stradali gravi o gravissime: il discrimen tra le due impostazioni – da cui discende una congerie di conseguenze applicative di spiccato rilievo – sta nella natura giuridica dell’art. 590-bis c.p. Nell’ipotesi in cui il precetto fosse configurabile quale reato autonomo rispetto alla più generale fattispecie di lesioni personali colpose, considerata l’assenza di una norma che esiga la querela di parte, si dovrebbe poter procedere d’ufficio. In caso contrario – in caso quindi di inquadramento come elemento circostanziale dell’art. 590-bis c.p. – si dovrebbe continuare ad applicare il regime

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disposto dall’ultimo comma dell’art. 590 c.p., di talché sarebbe necessaria l’istanza punitiva della parte offesa. 4. Il nodo problematico relativo alla procedibilità delle lesioni personali stradali nasce, di fatto, dalla presenza di validi argomenti in grado di fondare tanto l’inquadramento come circostanza aggravante quanto quello esattamente opposto. La distinzione tra essentialia e accidentalia delicti – ovvero tra gli elementi costitutivi del reato e quelli che ne costituiscono una circostanza – è invero tematica approfonditamente affrontata dalla dottrina [8] e dalla giurisprudenza del Supremo Collegio [9], quest’ultima richiamata dal G.I.P., il quale, correttamente, sottolinea che «qualora occorra sciogliere il dubbio circa la natura autonoma o circostanziale di una norma, si deve fare riferimento – in un ordinamento sorretto dal principio di legalità formale – al dato positivo» [10]. La ricerca di criteri discretivi in grado di offrire una soluzione di fronte ad alcuni enunciati normativi che si prestano – come nel caso di specie – a diversa qualificazione è un’esigenza primaria e indefettibile. Né si tratta di una questione oziosa, poiché l’opzione prescelta produce riverberi fondamentali [11]: in primis, se una norma costituisce un’aggravante – e non, invece, un titolo di reato a sé – entra in gioco il bilanciamento ai sensi dell’art. 69 c.p. Ancora, è sicuramente diverso il criterio di imputazione: per le circostanze, infatti, si impiega il disposto dell’art. 59 c.p. (necessità almeno della colpa per l’aggravante, rilevanza oggettiva della attenuante), mentre per gli elementi costitutivi del reato vale il criterio di cui all’art. 42, co. 2, c.p. Sempre in tema di disciplina sostanziale, ben differenti sono le implicazioni in caso di concorso di più persone nel reato, essendo assai diverso il disposto dell’art. 118 c.p. (in tema di circostanze) rispetto a quello degli artt. 116 e 117 in punto di autonome fattispecie; merita attenzione anche l’impatto in riferimento alla prescrizione, poiché, ai sensi dell’attuale art. 157 c.p., incidono sul tempo necessario ad estinguere il reato tutte le «aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale». Sul piano processuale, basti menzionare, a titolo paradigmatico, la divergenza relativa alla contestazione (artt. 516-517 c.p.p.) La difficoltà che l’interprete – chiunque egli sia – può incontrare scaturisce dalla consapevolezza che «non esiste alcuna differenziazione ontologica tra elementi costitutivi (o essenziali) e elementi circostanziali (a accidentali) del reato, atteso che questi elementi si possono distinguere solo in base alla disciplina positiva» [12]. Il dato testuale di talune norme del codice penale – gli artt. 61, 62, 84 c.p. – ne dà conferma, poiché ammette che un elemento normativo possa, al tempo stesso, essere qualificato come costitutivo di una fattispecie ovvero circostanziale [13]. Peraltro, come osserva correttamente la dottrina [14], è ovvio che la norma circostanziata sta in rapporto di specialità [15] con quella primigenia, ma lo stesso rapporto si può osservare tra due figure di reato esattamente autonome: nel secondo caso, l’elemento specializzante farà in modo che si applichi, al caso di specie, soltanto la figura di reato speciale. I criteri discretivi, ben razionalizzati ed indagati dalla Suprema Corte, vengono brevemente ripercorsi dal decreto in esame, il quale li suddivide e sintetizza – accogliendo l’insegnamento della Corte di Cassazione – in tre marco-gruppi [16]. In primo luogo, vi sono quelli di ordine strettamente formale, ovvero quelli che pongono l’accento sulle risultanze immediate che si traggono dal dato testuale. Si guarda, in particolare, al nomen iuris della fattispecie, alla rubrica, alla collocazione topografica: si tratta, tuttavia, di discriminanti ritenute non risolutive né dalla giurisprudenza [17], né dalla dottrina [18]. Un secondo canone distintivo, definito «strutturale» dalla Cassazione, suggerisce invece di indagare la modalità con cui viene costruita la norma in esame [19]: se, infatti, si scandaglia il testo complessivo del precetto e gli elementi che lo costituiscono, si possono trarre importanti indicazioni quanto all’autonomia – o meno – della disposizione esaminanda. La presenza di un

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rinvio alla fattispecie più generale, nonché le modalità con cui viene definita la pena (ad esempio, con le espressioni classiche delle circostanze, quali “la pena è aumentata” o “la pena è diminuita”), possono costituire un valido aiuto per determinare la natura giuridica della regola in esame [20]. Infine, secondo la Suprema Corte, può venire in soccorso anche il criterio teleologico: mentre la circostanza esprime un diverso grado di disvalore con cui il medesimo bene giuridico viene aggredito, la presenza di una fattispecie autonoma di reato può presupporre l’identificazione di un diverso oggetto protetto dalla norma. Si tratta certo di un criterio che può agevolare la ricostruzione della natura della fattispecie in esame, ma non certo risolutivo, come correttamente osservato anche dalla dottrina [21]: di regola, infatti, è possibile affermare che due norme proteggono i medesimi o diversi beni giuridici soltanto dopo che si è condotto un ampio esame degli elementi che costituiscono i due precetti e, quindi, dopo aver accertato una disomogeneità tra i due. Vi sarebbe, quindi, una sorta di inversione logica che, evidentemente, inficia anche l’utilità del criterio. Tuttavia, al G.I.P., una volta condotta l’analisi di cui sopra, non resta che constatare la insussistenza di «criteri discretivi risolutivi»: perciò, «l’indagine della natura giuridica della norma in esame dev’essere condotta con scrupolosa osservanza della singola norma e del più ampio contesto legislativo in cui essa s’inserisce, in modo tale da addivenire all’esegesi più corretta possibile del dato positivo, specie ove l’intervento normativo non si contraddistingua per precisione e chiarezza. Può invero essere utile saggiare una pluralità di criteri, in modo tale da effettuare la scelta all’esito di un’analisi quanto più possibile accurata e scrupolosa» [22]. Non resta, infine, che ricorrere ad un’interpretazione di carattere sistematico: nella relazione con altri precetti o norme, infatti, si possono scorgere alcuni spunti utili a dirimere la questione e a trovare una risposta quanto più possibile convincente per uscire da quello che può apparire un vero e proprio cul-de-sac. Se, poi, si trattasse – come nel caso oggetto di odierna attenzione – di una riforma, l’indagine può assumere non soltanto un’impostazione sistematica, ma anche storica: ovvero, per accertare la intentio legis può essere proficuo esercizio l’analisi dell’intero complesso della novella e della ratio che vi sta alle spalle. Posto che, nei casi di maggiore incertezza – quelli in cui, a seconda del criterio impiegato, la risposta al quesito di partenza può mutare – è sempre necessario che il discernimento tra elemento costitutivo o circostanziale sia effettuato con riferimento ad una pluralità di indicatori (e non, invece, ad uno solo) [23], vi sono ipotesi in cui è pressoché impossibile approdare ad una decisione ultima e inequivocabile, poiché entrambe le vie risultano parimenti plausibili: si tratta di quelle fattispecie che la dottrina ha definito «ostinatamente dubbie» [24]. 5. Lo stesso G.I.P. di Milano ammette pacificamente come vi siano efficaci argomentazioni a fondamento di entrambe le tesi: il decreto le prospetta entrambe, prima di addivenire ad una conclusione. «Ad una prima lettura, il nuovo testo dell’art. 590 bis c.p. potrebbe costituire un’autonoma fattispecie» [25]. In tal senso, il nuovo testo dell’art. 590-bis c.p. sembra – con riferimento a criteri di ordine prettamente formale – costituire un’autonoma fattispecie, nella misura in cui disciplina compiutamente i casi di lesioni colpose gravi e gravissime commesse in violazione delle norme che regolano la circolazione stradale. La lettura del primo comma dell’articolo in parola suggerisce, per la compiutezza della definizione, che si tratti appunto di una figura di reato indipendente; ancora, la stessa legge n. 41/2016 si intitola “Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali” e condurrebbe, in via concludente, alla configurazione autonoma della fattispecie istituita nel 2016. La intentio legis, in questo caso, potrebbe ben essere

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evidenziata appunto dal titolo, in cui sarebbe esplicitata la natura autonoma – e non meramente circostanziale – delle due nuove figure criminose inserite. L’art. 590-bis, co. 1 c.p. sarebbe quindi norma in rapporto di specialità rispetto alla figura generale di lesioni colpose codificate all’art. 590 c.p., ma in ogni caso costituirebbe, secondo questo primo approccio esegetico, titolo autonomo di reato: l’elemento distintivo, appunto, sarebbe lo specifico riferimento alla violazione delle norme in materia di circolazione stradale. Senza questa peculiarità specializzante che, aggiungendosi alla norma base, connota in senso proprio l’art. 590-bis c.p., il medesimo fatto sarebbe ricompreso nel perimetro normativo delle lesioni colpose definite ai primi due commi dell’art. 590 c.p. Di conseguenza, ammessa l’autonoma natura delle lesioni personali stradali gravi o gravissime rispetto alla fattispecie base e stante l’assenza di qualsiasi specifica previsione che subordini la procedibilità del reato de quo all’istanza punitiva di parte, dovrebbe ritenersi applicabile al reato previsto e punito dall’art. 590-bis c.p. il regime officioso [26]. Con l’ovvia conseguenza che le Procure, ricevute le notizie di reato da fonti diverse dalla persona offesa (solitamente le annotazioni delle forze dell’ordine intervenute), potranno proficuamente esercitare l’azione penale nei confronti dell’autore del reato in parola senza che alcuna querela sia stata presentata. Questo orientamento, invero, ha trovato immediato seguito presso numerose Procure della penisola, le quali, in proprie disposizioni e circolari interne, hanno concluso per la procedibilità d’ufficio del nuovo reato. A titolo di esempio si osservino gli orientamenti segnalati dai seguenti uffici: i) Procura di S.M. Capua Vetere (pag. 6): «Mentre l'ipotesi di cui all'articolo 590 del c.p., tuttora persistentemente applicabile nei casi di lesioni non gravi, né gravissime, è procedibile a querela di parte, giusta il disposto dell'ultimo comma dello stesso articolo, la nuova fattispecie incriminatrice è procedibile d'ufficio»; ii) Procura di Sondrio (pag. 12): «Si rileva che la nuova fattispecie di lesioni stradali gravi o gravissime, a differenza di quanto era previsto per l'ipotesi abrogata di cui all'articolo 590 terzo comma C.P., è procedibile d'ufficio, ed è di competenza del Tribunale in composizione monocratica non essendo inserita nell'elencazione contenuta nell’articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 dei delitti di competenza per materia del Giudice di pace»; iii) Procura di Macerata (pag. 3): «Quando le lesioni si profilano come gravi o gravissime, e dunque almeno a partire dal caso in cui la guarigione non è stata raggiunta entro i 40 giorni: si applica il nuovo art. 590 bis c.p.: il reato è procedibile d'ufficio»; iv) Procura di Udine (pag. 2): «Quando [le lesioni] sono gravi o gravissime, sono sempre procedibili d'ufficio e vanno rimesse alla competenza del Tribunale in composizione monocratica»; v) Procura di Trento (pag. 10): «Mentre l’ipotesi di cui all’articolo 590 del Cp, tuttora persistentemente applicabile nei casi di lesioni non gravi, né gravissime, è procedibile a querela di parte, giusta il disposto dell’ultimo comma dello stesso articolo, la nuova fattispecie incriminatrice è procedibile d’ufficio». 6. Vi sono, come già anticipato ed osservato dal decreto in parola, anche «significativi elementi che militano a favore dell’inversa opzione ermeneutica» [27], in ossequio alla quale l’art. 590-bis c.p. non costituirebbe altro che un novero di circostanze che specificano il più generale disposto dell’art. 590 c.p. Il Giudice prende in esame alcuni aspetti che legittimano questa seconda impostazione. In primo luogo, si tratta di una norma che va ad innestarsi su un’altra più generale, rispetto alla quale si specificano soltanto due aspetti, ovvero la gravità delle lesioni patite e la specificazione

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della colpa dell'autore del reato, costituita dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale. La presenza di una cornice edittale autonoma non deve, inoltre, sorprendere: si può perfettamente trattare di una circostanza ad efficacia speciale o indipendente [28], scelta dal legislatore per modellare la pena in modo proporzionale al maggior disvalore che l’elemento circostanziale importa [29]. Invero, anche la rubrica della norma può portare a condividere questa seconda ipotesi: poiché, infatti, è stato omesso l’aggettivo “colpose”, viene naturale pensare che questa disciplina, aggiunta in calce al più generale reato delle lesioni colpose, non sia certo autonoma, ma collocata in posizione ancillare rispetto alla figura base di cui all’art. 590 c.p. Questi aspetti, quindi, potrebbero deporre per una qualificazione non autonoma della fattispecie in esame, «posto che l’art. 590 bis, co. 1 riproduce in sé tutti gli elementi propri della fattispecie base e vi aggiunge, soltanto in via di specificazione, gli accidentalia sopra indicati» [30]. Come osserva, poi, il Giudice, importante sostegno a questa impostazione può trarsi da una lettura in chiave sistematica della disposizione: in quanto esito di una riforma, è quanto mai opportuno, infatti, soffermare l’attenzione non solo sul singolo (e controverso) precetto, ma sull’intero tessuto normativo. La legge n. 41/2016, come ricordato supra (par. 1), ha legittimato l’arresto facoltativo in flagranza di reato anche per le lesioni stradali (art. 381, co. 2, lett. m-quinquies c.p.p.), purché commesse in presenza di una delle circostanze di cui ai commi 2, 3, 4, 5 e 6 dell’art. 590-bis c.p.; parimenti, è stato novellato il testo dell’art. 189, co. 8, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 [31], il quale oggi prevede che «Il conducente che si fermi e, occorrendo, presti assistenza a coloro che hanno subito danni alla persona, mettendosi immediatamente a disposizione degli organi di polizia giudiziaria, quando dall'incidente derivi il delitto di lesioni personali colpose, non è soggetto all'arresto stabilito per il caso di flagranza di reato». Se si considera attentamente tale norma, evidentemente riferita alle ipotesi di incidenti stradali, si può osservare come si menzionino le lesioni personali colpose e non si impiega, invece, la rubrica propria dell’art. 590-bis c.p. Ove le lesioni colpose stradali dovessero quindi configurarsi come titolo autonomo di reato, non vi si potrebbe applicare la norma che esclude l’arresto in flagranza del conducente collaborante (reso possibile, come già osservato, per i casi di cui ai commi 2, 3, 4, 5 e 6 dell’art. 590-bis c.p.), dal momento che l’art. 189, co. 8, c.d.s. menziona – come visto – i (soli) casi di lesioni personali colpose semplici, di cui all’art. 590 c.p. Perciò, se – alla luce di queste considerazioni – si deve intendere che «il delitto di lesioni personali colpose» di cui all’art. 189, co. 8, c.d.s. ricomprende in sé anche le ipotesi normative di nuovo conio, si approda al convincimento per cui le lesioni colpose stradali – in tutto il loro ventaglio di ipotesi circostanziate – altro non sono che fattispecie aggravate rispetto a quella prevista dall’art. 590 c.p. Il Decreto in esame offre poi un ulteriore spunto in chiave sistematica. Se si guarda al novero dei precetti che, nel codice penale italiano, sanzionano i casi di lesioni – siano esse dolose o colpose – si ha ictu oculi contezza di come tali norme si fondino su due fattispecie autonome (gli artt. 582 e 589 c.p., segnatamente per il delitto doloso e colposo) poi coronate da una congerie di circostanze che, sovente con efficacia speciale, mitigano o inaspriscono il trattamento sanzionatorio in presenza di ulteriori accidentalia delicti. Come correttamente osservato, la tecnica di redazione della norma in parola procede secondo lo schema della specialità “per specificazione”, con ciò suggerendo la natura aggravata – e non autonoma – del nuovo co. 1, art. 590-bis, c.p [32].

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Non si vede ragione, in chiave sistematica, di sottrarre le lesioni colpose stradali a questa medesima architettura, tenuto conto che l’art. 590-bis c.p., nella misura in cui restringe il proprio campo applicativo ai soli casi di lesioni “gravi o gravissime”, fa necessario – ma non esplicito – riferimento proprio alle nozioni scandite dall’art. 583 c.p., norma che è pacificamente configurata come aggravante rispetto all’art. 582 c.p. Per questi motivi, pare quindi parimenti fondata – e forse ancor più persuasiva – l’opzione qui in esame rispetto a quella esposta in precedenza. In questo modo, perciò, anche per le lesioni stradali di cui all’art. 590-bis c.p. il regime di procedibilità dovrebbe essere quello previsto, in via generale, all’art. 590, ultimo comma c.p., il quale permette di procedere senza istanza punitiva soltanto ai fatti commessi con violazione di norme in materia di lavoro. Invero, la procedibilità a querela di parte sembra, ad avviso del Giudice ed a sommesso parere di chi scrive, essere preferibile, ove si tenga debito conto delle ragioni che portano ordinariamente il legislatore ad introdurre questo specifico regime: si subordina l’esercizio dell’azione penale all’istanza punitiva della persona offesa nei casi in cui gli interessi privati risultino prevalenti rispetto a quello pubblico (alla querela segue – di regola – la costituzione di parte civile tesa al ristoro del danno economico patito) [33] ovvero nel caso in cui l’apprezzamento per l’aggressione inferto al bene giuridico protetto sia rimesso al soggetto leso [34]. Sulla base di queste premesse di ordine generale, pare quindi condivisibile subordinare l’avvio del processo penale alla istanza punitiva, proprio per lo specifico ambito in cui le lesioni ex art. 590-bis c.p. maturano: sarebbe attività processuale inutile quella volta ad accertare un reato per il quale il soggetto direttamente leso – e, magari, già risarcito dall’autore del danno o dall’impresa assicuratrice – non ha domandato la punizione. [1] Ex plurimis: Squillaci E., Ombre e (poche) luci nella introduzione dei reati di omicidio e lesioni personali stradali, in questa Rivista, 18 aprile 2016; Massaro A., Omicidio stradale e lesioni personali stradali gravi o gravissime: da un diritto penale "frammentario" a un diritto penale "frammentato", in questa Rivista, 20 maggio 2016; Losappio G., Dei nuovi delitti di omicidio e lesioni "stradali", in questa Rivista, 30 giugno 2016; Roiati A., L'introduzione dell'omicidio stradale e l'inarrestabile ascesa del diritto penale della differenziazione, in questa Rivista, 1 giugno 2016; Pavich G., Omicidio stradale e lesioni stradali: novità e possibili criticità della nuova legge, Cass. Pen., 2016, pp. 2309 e ss. [2] Massaro A., Omicidio stradale, a p. 2 parla di un legislatore «guidato dalle logiche della perenne emergenza o dalle priorità individuate dall’agenda setting mediatica, con il risultato per cui, pur in presenza di effettive esigenze di tutela, la sua penna finisce per restituire prodotti normativi frettolosi, imprecisi e, almeno in certi casi, avulsi dal più generale contesto». [3] È stato appositamente introdotto il riferimento all’art. 590-bis c.p. nel testo dell’art. 224-bis c.p.p. [4] Così il nuovo art. 359-bis, co. 3 bis c.p.p. [5] Ad esempio: l’art. 406, co. 2-ter, c.p.p. prevede che non possa essere prorogato il termine di chiusura delle indagini se non per una volta; ancora, ai sensi dell’art. 552, co. 1-bis c.p.p., non possono intercorrere più di trenta giorni tra la scadenza delle indagini preliminari e l’emissione del decreto di citazione a giudizio. [6] Si veda, sul punto, l’analisi condotta da D’Amato A. - Occhionero S., Primi approdi ermeneutici inerenti i profili processuali e sostanziali del reato di omicidio stradale (legge 23 marzo 2016, n. 41), in magistraturaindipendente.it, nello specifico i paragrafi 2 e ss. [7] Decreto G.I.P. Milano, p. 2. [8] Un’approfondita ed esauriente analisi del tema viene condotta, in tempi più recenti, da Basile F., Reato autonomo o circostanza? Punti fermi e questioni ancora aperte a dieci anni dall’intervento delle Sezioni unite sui “criteri di distinzione”, in AA.VV., Studi in onore di Franco Coppi, Torino, 2011, p. 11-46 (con ampia dottrina ivi richiamata), nonché da Amarelli G., Circostanze ed elementi essenziali del reato: il difficile distinguo si ripropone per il furto in abitazione, in Cass. Pen., 2007, p. 2815 e ss.; con più ampia trattazione, si veda anche Basile, Art. 59 sub B), in Codice penale commentato, a cura di Marinucci G., Dolcini E., IIª ed., 2006, p. 763 ss. Infine, per

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una ricostruzione che attesti la natura risalente del tema, cfr. anche Gallo M., Sulla distinzione tra figura autonoma e figura circostanziata, in Riv. it. dir. pen., 1949, p. 560 ss. [9] In particolare, Cass. Pen., Sez. Unite, sent. 26 giugno 2002, n. 26351, imp. Fedi, online in De Jure. [10] Decreto G.I.P. Milano, p. 2. [11] Su cui funditus Basile F., Reato autonomo o circostanza?, pp. 14 e ss., nonché il § 5 della summenzionata pronuncia della Cassazione. [12] Cass. Pen., n. 26351/2002, § 5. [13] Basile F., Reato autonomo o circostanza?, p. 14; Amarelli G., Circostanze, pp. 2817-2818. [14] Basile F., Reato autonomo o circostanza?, p. 24. [15] Sul rapporto di specialità sia consentito un rinvio alla manualistica tradizionale, ex multis Marinucci G., Dolcini E., Manuale di diritto penale, IV ed., 2012, pp. 489 ss. [16] Decreto G.I.P. Milano, pp. 2 e 3. [17] Cass. Pen., n. 26351/2002, § 7.1. [18] Basile F., Reato autonomo o circostanza?, pp. 30 e ss., nonché Amarelli G., Circostanze, l’intero § 4.1. [19] Amarelli G., Circostanze, § 4.2., sia pur con qualche divergenza qualificatoria. [20] La presenza di simili elementi costituisce, secondo Basile F., Reato autonomo o circostanza?, un criterio “forte” per dirimere la questione. [21] Basile F., Reato autonomo o circostanza?, nel definire “inutile” tale criterio, porta anche numerosi esempi che ne attestano la fallacia (pp. 33 e ss.) [22] Decreto G.I.P. Milano, p. 3. [23] Che la qualificazione di un elemento possa giungere solo all’esito dell’applicazione di una pluralità di criteri, è opinione diffusa in dottrina: ex plurimis, Guerrini R., Elementi costitutivi e circostanze del reato, Milano, 1988, p. 79. [24] Sempre Basile F., Reato autonomo o circostanza?, p. 46. [25] Decreto G.I.P. Milano, p. 3. [26] Conclude in questi termini Massaro A., Omicidio stradale, pp. 7-8. Analoga considerazione per D’Amato A. - Occhionero S., Primi approdi, par. 4; anche Tornatore M., Lesioni personali stradali: profili problematici in tema di procedibilità del reato, in AltaLex, 4.3.2016, nei primi paragrafi, giunge ad una medesima prospettazione. Allo stesso modo anche Pavich G., Omicidio stradale e lesioni stradali: novità e possibili criticità della nuova legge, Cass. Pen., 2016, pp. 2309 e ss., nello specifico par.3. [27] Decreto G.I.P Milano, p. 4. [28] Sul punto v. Marinucci G., Dolcini E., Manuale, cit., p. 496. [29] Si tratta di un’opzione assai praticata dal legislatore: si pensi, tra i numerosi esempi, all’art. 625 c.p. (aggravanti del reato di furto), all’art. 609-ter, co. 1 e 2 (in materia di violenza sessuale), alle lesioni dolose gravi o gravissime (art. 583, co. 1 e 2, c.p.). [30] Decreto G.I.P Milano, p. 4. [31] D’ora ed in avanti, per comodità di trattazione, indicato come “c.d.s.” (Codice della Strada). [32] D’Amato A. - Occhionero S., Primi approdi, § 4 in chiusura. [33] Pulitanò D., Diritto penale, V ed., 2013, p. 480. [34] Padovani T., Diritto penale, X ed., 2012, p. 364.

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OSSERVATORIO SOVRANAZIONALE – UNIONE EUROPEA: GIURISPRUDENZA Le conclusioni dell'Avvocato Generale nei procedimenti pendenti in materia di ne bis in idem

tra sanzioni penali e amministrative in materia di illeciti tributari e di abusi di mercato

Conclusioni dell'Avvocato generale M. Campos Sánchez-Bordona presentate il 12 settembre 2017 nelle cause C-524/15, Menci, C-537/16, Garisson Real Estate SA e a.,

e C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Zecca

di Francesco Viganò 1. L’Avvocato generale Campos Sánchez-Bordona ha presentato le proprie conclusioni nelle cause in epigrafe, tutte pendenti avanti alla Grande Sezione della Corte di giustizia dell’UE e aventi ad oggetto la compatibilità di sistemi di doppio binario sanzionatorio nell’ordinamento italiano con il diritto al ne bis in idem sancito, nell’ordinamento eurounitario, dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (CDFUE). Più in particolare, le cause originano: - da un rinvio pregiudiziale proveniente dal Tribunale di Bergamo (publicato in questa Rivista, 28 settembre 2015, con nota del sottoscritto, Ne bis in idem e omesso versamento dell’IVA: la parola alla Corte di giustizia) nell’ambito di un processo penale per il delitto di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74/2000 nei confronti di un imputato già sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 471/1997 per il medesimo importo IVA non pagato (causa Menci); - da un rinvio pregiudiziale proveniente dalla Sezione tributaria della Cassazione civile (pubblicato in questa Rivista, 17 ottobre 2016, con nota del sottoscritto, A Never-Ending Story? Alla Corte di giustizia dell’Unione europea la questione della compatibilità tra ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia, questa volta, di abusi di mercato) nell’ambito di un procedimento di opposizione contro un provvedimento sanzionatorio CONSOB per l’illecito amministrativo di manipolazione del mercato di cui all’art. 187-ter del d.lgs. n. 58/1998 (c.d. t.u.f.) nei confronti di due società e di una persona fisica (il noto immobiliarista Stefano Ricucci), i quali già avevano definito mediante sentenza di patteggiamento il procedimento penale aperto nei loro confronti per il medesimo fatto, qualificato in quella sede come delitto di manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 185 t.u.f. (causa Garlsson Real Estate e a.); - da due ulteriori rinvii pregiudiziali ‘gemelli’ provenienti dalla seconda sezione civile della Cassazione (uno dei quali pubblicato sulla nostra Rivista, 28 novembre 2016, pure con nota del sottoscritto, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio: nuovo rinvio pregiudiziale della Cassazione in materia di abuso di informazioni di privilegiate) nell’ambito di due paralleli procedimenti di opposizione contro provvedimenti sanzionatori CONSOB per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis t.u.f. nei confronti di due persone fisiche che erano state invece assolte in sede penale, in relazione al medesimo fatto storico, dall’imputazione relativa al corrispondente delitto di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 184 t.u.f. (cause Di Puma e Zecca). Anticipiamo subito il punto di approdo delle argomentazioni parallele dell’Avvocato generale: quanto alla materia degli abusi di mercato, l’art. 50 CDFUE osta senz’altro a una normativa

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nazionale che, come quella italiana, consente la celebrazione di un procedimento finalizzato all’irrogazione di sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale agli autori della condotta, quando vi sia già una sentenza penale definitiva che abbia avuto ad oggetto i medesimi fatti materiali, senza prevedere un meccanismo processuale che consenta di evitare la duplicità di repressione; quanto alla materia tributaria, il principio enunciato è il medesimo, salva la necessità per il giudice del rinvio di verificare egli stesso se la sanzione tributaria definitiva abbia natura penale secondo i noti criteri Engel. 2. Rinviando alla lettura delle tre conclusioni per ogni dettaglio, basti qui sinteticamente ricapitolare i passaggi essenziali dell’argomentazione dell’Avvocato generale nei tre procedimenti: - la giurisprudenza della Corte di giustizia UE in materia di ne bis in idem è ancora lungi dall’essere uniforme, risultando assai più restrittiva (e pertanto meno ‘garantistica’) in materia di tutela di libera concorrenza che non in materia di art. 54 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, dove come è noto è stata accolta in particolare la nozione puramente materiale di ‘stesso fatto’ elaborata dalla parallela giurisprudenza di Strasburgo; - nella specifica materia degli illeciti tributari, peraltro, la Corte di giustizia UE si è sostanzialmente allineata – nella sentenza Åkerberg Fransson del 2013 – alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul ne bis in idem di cui all’art. 4 prot. 7 Cedu, escludendo la possibilità di cumulo tra sanzione amministrativa e sanzione penale, allorché la prima abbia natura penale secondo i criteri Engel, circostanza – quest’ultima – che deve essere verificata volta a volta dal giudice nazionale; - la giurisprudenza della Corte Edu in materia di ne bis in idem si articola, dal canto suo, attorno ad un concetto di “idem” riferito ai medesimi fatti storici, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica, e a una valutazione relativa alla sussistenza del “bis” che tiene conto della natura sostanziale del procedimento e delle sanzioni irrogate al trasgressore più che alla loro qualificazione formale nell’ordinamento nazionale, alla luce appunto dei criteri Engel; criteri che hanno condotto la Corte di Strasburgo in molte recenti occasioni ad affermare la natura ‘sostanzialmente penale’ delle sanzioni tributarie e dei relativi procedimenti, con conseguente illegittimità dell’avvio o della prosecuzione di un procedimento penale avente ad oggetto il medesimo fatto materiale, rappresentato dal mancato pagamento dei medesimi tributi; - la recente sentenza della Grande Camera A e B c. Norvegia (pubblicata in questa Rivista, 18 novembre 2016, con nota del sottoscritto, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio) ha peraltro parzialmente modificato questo quadro giurisprudenziale, ammettendo che l’art. 4 prot. 7 Cedu possa non risultare violato dal cumulo di procedimenti penali e amministrativi per lo stesso fatto, purché esista tra essi una connessione sostanziale e temporale sufficiente stretta, enunciando una serie di criteri utilizzabili dal giudice nazionale per verificare quando una tale connessione sussista; - con la successiva sentenza Jóhannesson e a. c. Islanda, del maggio 2017 (pure pubblicata in questa Rivista, con nota del sottoscritto, Una nuova sentenza di Strasburgo su ne bis in idem e reati tributari) la Corte di Strasburgo ha poi nuovamente ritenuto la violazione convenzionale in un caso di doppio binario sanzionatorio penale e amministrativo in materia tributaria, facendo così sorgere secondo l’Avvocato generale “ostacoli quasi insormontabili che i giudici nazionali dovranno affrontare per chiarire a priori, con un minimo di certezza e prevedibilità, quando sussista tale nesso” tra i due procedimenti (conclusioni in causa Menci, par. 56); - la giurisprudenza della Corte Edu sull’art. 4 prot. 7 Cedu è di immediata rilevanza ai fini dell’interpretazione del diritto al ne bis in idem riconosciuto dall’art. 50 CDFUE, stante il disposto dell’art. 52 par. 3 CDFUE, a tenore del quale il significato e la portata dei diritti

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riconosciuti dalla Carta devono essere almeno pari a quelli conferiti alle corrispondenti garanzie sancite dalla Convenzione europea (e dai suoi protocolli), senza che rilevi in senso contrario – come aveva invece sostenuto l’Avvocato generale Cruz Villanón nelle proprie conclusioni in Fransson – la circostanza che la norma convenzionale in parola non sia stata ratificata da tutti gli Stati membri dell’UE (conclusioni in causa Menci, par. 58); - tuttavia, l’Avvocato generale non ritiene, contrariamente a quanto sostenuto a vari governi intervenuti, che la Corte di giustizia debba senz’altro allinearsi alla soluzione indicata dalla Grande Camera della Corte Edu in A e B: quest’ultima soluzione rappresenta, in effetti, soltanto il livello minimo di tutela che il diritto eurounitario è chiamato a garantire, restando impregiudicata la possibilità di offrire un livello di tutela più elevato nell’ambito dell’Unione, ove ne sussista l’opportunità (conclusioni in causa Menci, par. 76.77); - tale opportunità sussiste senz’altro, secondo l’Avvocato generale, anche perché il nuovo criterio introdotto in A e B dalla Corte di Strasburgo aggiunge “notevole incertezza e complessità al diritto delle persone di non essere giudicate né condannate due volte per gli stessi fatti”, mentre “i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta devono essere di facile comprensione per tutti”, e devono comunque poter essere applicati in modo prevedibile e certo (conclusioni in causa Menci, par. 73); - occorre dunque elaborare, a livello euronitario, una nozione autonoma di ne bis in idem, verificando in particolare se e in che misura tale diritto fondamentale possa essere compresso ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 52 par. 1 CDFUE, che ammette che i diritti della Carta possano essere limitati laddove la limitazione sia prevista dalla legge, rispetti il contenuto essenziale dei diritti in questione, e risulti altresì – nel quadro del principio di proporzionalità – necessaria rispetto a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui; - eventuali limitazioni del diritto a non essere giudicato o condannato penalmente due volte per la stessa limitazione non potrebbero tuttavia superare – a prescindere dagli altri requisiti – il test di necessità, già a fronte della circostanza che molti Stati dell’Unione garantiscono un’efficace tutela degli interessi protetti attraverso un sistema sanzionatorio dei medesimi illeciti a binario unico, che prevede in genere la possibilità di applicare sanzioni amministrative ovvero, nei casi più gravi determinati dalla legge, sanzioni penali, senza però consentirne il cumulo, e prevedendo comunque meccanismi processuali che evitino il doppio procedimento sanzionatorio: con conseguente piena garanzia del diritto individuale in parola, senza inutile pregiudizio per gli interessi di volta in volta tutelati (conclusioni in causa Menci, par. 78-94); - il diritto al ne bis in idem riconosciuto dall’art. 50 CDFUE non dovrebbe pertanto, ad avviso dell’Avvocato generale, subire alcuna limitazione rispetto al divieto di cumulo tra procedimento amministrativo (ma di natura sostanzialmente punitiva) e procedimento penale per gli stessi fatti materiali; - rispetto alla specifica materia delle violazioni tributarie, oggetto del procedimento Menci, l’Avvocato generale non ha dubbi – nonostante le obiezioni del governo italiano sul punto – relativi alla sussistenza di un idem, data l’identità della somma evasa oggetto dei paralleli procedimenti sanzionatori, tributario e penale (par. 99-108); e ritiene che spetti poi al giudice del rinvio valutare se la sanzione amministrativa già irrogata abbia natura sostanzialmente punitiva alla luce dei criteri Engel, con conseguente eventuale sussistenza di un bis. A tale cruciale quesito l’Avvocato generale suggerisce peraltro chiaramente una risposta positiva, in relazione alla natura repressivo/punitiva di una sanzione che non si limita al recupero della somma evasa e ai relativi interessi, ma che comporta altresì l’obbligo di pagamento di una sovrattassa; non rilevando in senso contrario né l’esiguità in termini assoluti dell’importo, né la possibilità di una sua riduzione in esito a un procedimento transattivo con l’amministrazione

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tributaria, simili procedimenti transattivi non essendo estranei neppure alla materia penale in senso stretto (par. 109-118); - rispetto poi alla materia degli abusi di mercato, l’Avvocato generale conclude senz’altro sia nel senso della sussistenza di un idem (conclusioni in causa Garlsson, par. 58-60), sia nel senso della sussistenza del bis (par. 61-81), non essendovi – nemmeno in questo caso – alcuna ragione per ammettere una limitazione del diritto convenzionale sulla base del principio di proporzionalità di cui all’art. 50 par. 1 CDFUE (cfr. in particolare, sul punto, le conclusioni in causa Di Puma e Zecca, par. 76-88). 3. Vedremo ora come deciderà la Grande Sezione, su una questione delicata su cui le sensibilità degli Stati membri profondamente divergono, e sulla quale l’Avvocato generale propone ora un approccio decisamente rigoroso, nonostante il recente revirement della Corte di Strasburgo in A e B; revirement che l’Avvocato generale critica, neppur troppo tra le righe (e certo non a torto), perché foriero di intollerabili incertezze applicative, in una materia – la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo – dove dovrebbe invece regnare il massimo di certezza e prevedibilità. 4. Prima di concludere, vale la pena però di sottolineare – a beneficio almeno dei lettori italiani più scettici sul punto – i passaggi in cui, in risposta al corrispondente quesito della Cassazione, l’Avvocato generale evidenzia a chiare lettere il carattere autoapplicativo, e la conseguente efficacia diretta per i giudici nazionali, dell’art. 50 CFDUE, definito “norma chiara, precisa e incondizionata, che conferisce direttamente a chiunque il diritto a non essere perseguito o condannato penalmente due volte per un medesimo fatto” (conclusioni in cause De Puma e Zecca, par. 83). L’art. 50, scrive l’Avvocato generale, “può essere di certo fatto valere direttamente dai singoli dinanzi ai giudici nazionali, che sono obbligati a tutelarlo. Inoltre, ai sensi dell’articolo 6 TUE, l’articolo 50 della Carta forma parte integrante del diritto primario dell’Unione e, in quanto tale, prevale sulle norme di diritto derivato dell’Unione medesima nonché sulle norme degli Stati membri. In caso di conflitto fra il proprio diritto interno e i diritti garantiti dalla Carta, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme. Pertanto, esso dovrà disapplicare all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. Infatti, sarebbe incompatibile con le esigenze inerenti alla natura del diritto dell’Unione qualsiasi disposizione facente parte di un ordinamento giuridico nazionale o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, che porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto dell’Unione per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare tale diritto, il potere di fare, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente siano d’ostacolo alla piena efficacia delle norme dell’Unione” (par. 83-86). E dunque: “In caso di norme incompatibili con il diritto al ne bis in idem tutelato dall’articolo 50 della Carta, il giudice nazionale o le autorità amministrative competenti dovrebbero, pertanto, archiviare i procedimenti pendenti, senza conseguenze negative per l’interessato che sia già stato perseguito o sanzionato in un altro procedimento penale o amministrativo avente natura penale” (par. 87). L’Avvocato generale conferma così che, laddove la Corte dovesse accogliere la prospettazione secondo cui il ne bis in idem eurounitario osta alla celebrazione e/o prosecuzione del secondo procedimento, il giudice comune – penale o civile – dovrebbe senz’altro dare diretta applicazione all’art. 50 CDFUE, dichiarando di non doversi procedere sulla base di quest’ultima norma,

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senza dovere né potere chiamare in causa la Corte costituzionale per ottenere la rimozione delle norme (come l’art. 649 c.p.p.) che ostacolino eventualmente tale obiettivo. In uno scenario, dunque, di controllo diffuso di compatibilità con i diritti fondamentali di fonte eurounitaria con la legislazione comune, con il quale la nostra dottrina e giurisprudenza faticano ancora a fare seriamente i conti.

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