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Capitolo Primo

La retribuzione ed i criteri della sua determinazione

di Enrico Gragnoli

Sommario: 1. Il problema della determinazione della retribuzione nel lavoro privato nella struttura economica contemporanea. – 2. Il confronto fra contratto individuale ed accordi sindacali in ordine alla determinazione della retribuzione. – 3. La retribuzione, il contratto collettivo nazionale ed il principio costituzionale di sufficienza. – 4. I frequenti insuccessi dei contratti collettivi territoriali e di quelli aziendali nella redistri-buzione del reddito delle imprese di maggiore successo. – 5. Il contratto individuale, la fidelizzazione dei lavoratori di maggiori capacità, i superminimi e l’inesistenza di qualunque principio di parità di trattamento in materia retributiva. – 6. La retribu-zione e l’incidenza degli oneri contributivi e fiscali.

Legislazione: art. 36 Cost.; artt. 2099-2102, 2109, 2110, 2120-2121 c.c.; art. 325 c. nav.; art. 5, l. 27.5.1949, n. 260; art. 45, d.lg. 30.3.2001, n. 165.

Bibliografia: AA.VV., La retribuzione, in Quad. dir. lav. e relaz. ind., 1988; AA.VV., Problemi giuridici della retribuzione. Atti delle giornate di studio di Riva del Garda 19-20 aprile 1980, Milano, 1981; Angiello, La retribuzione, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano, 1990 e 2003; Bellomo, Retribuzione sufficiente e autonomia collettiva, Torino, 2002; Bianchi D’Urso, Onnicomprensività e struttura della retribuzione, Napoli, 1984; Cassì, La retribuzione nel contratto di lavoro, Milano, 1954; Cinelli, Retribuzione dei dipendenti privati, in Noviss. Dig. it., App., IV, Torino, 1986, 652 ss.; D’Antona, Appunti sulle fonti di determinazione della retribuzione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1986, 3 ss.; Id., Le nozioni giuridiche della retribuzione, in Giorn. dir. lav. e relazioni ind., 1984, 269 ss.; De Felice, La retribuzione e il trattamento di fine rapporto, in AA.VV., Il rapporto individuale di lavoro. Costituzione e svolgimento, in Perulli (a cura di), Il lavoro subordinato, tomo II, opera coordinata da F. Carinci, Torino, 2007, 395 ss.; Dell’Olio, La retribuzione, in Tratt. Rescigno, vol. 15, tomo I, 1a ed., Torino, 1986, 467 ss.; Id., La retribuzione tra legge, contrattazione collettiva e giurisprudenza, in Industria e sindacato, 1980, fasc. 38, 6 ss.; Fargnoli, La retribuzione, Milano, 2002; Ghera, Nozione di retribuzione ed elementi retributivi, in Giur. it., IV, 1984, 9 ss.; Giugni, De Luca Tamajo, Ferraro, Il trattamento di fine rapporto, Padova, 1984; Guidotti, La retribuzione nel rapporto di lavoro, Milano, 1956; Id., La retribuzione, in Riva Sanseverino-Mazzoni (a cura di), Nuovo trattato di diritto del lavoro, Il rapporto di lavoro, Padova, 1971, 283 ss.; Mortillaro, La retribuzione. Principi generali, Roma 1979; Id., Retribuzione. Rapporto di lavoro privato, in Enc. Giur., XXVII, Roma, 1991; Napoli, Il trattamento di fine rapporto nella nuova legge di riforma, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1983, 78 ss.; Nogler, Il contratto collettivo quale fonte di regolazione

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della retribuzione-parametro, in Lavoro e dir., 1994, 375 ss.; Pera, Trattamento di fine rapporto (lavoro privato), in Noviss. Dig. it., App. VII, Torino, 2009, 836 ss.; Perone, Retribuzione, in Enc. Dir., XL, Milano, 2005; Persiani, I nuovi problemi della retribuzione (saggi), Padova, 1982; Pessi, Contributo allo studio della fattispecie lavoro subordinato, Milano, 1989; Roccella, I salari, Bologna, 1986; Roma, La retribuzione, in Giugni (a cura di), Dottrina e giurisprudenza di dirit-to del lavoro, Torino, 1993; Id., Le funzioni della retribuzione, Bari, 1997; Santoro Passarelli G., Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto, Milano, 1984; Id., Il trattamento di fine rapporto, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2009; Spagnuolo Vigorita L., Forme di retribuzione. L’incidenza delle voci indennitarie sugli istituti contrattuali e di legge, in Mass. giur. lav., 1983, 187 ss.; Tosi, La retribuzione nel diritto del lavoro dell’emergenza, in Giorn. dir. lav. e rela-zioni ind., 1979, 511 ss.; Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, 1968; Treu, Commento all’art. 36 Cost., in Comm. Cost. Branca, Roma-Bologna, 1979, 72 ss.; Vallebona, Il trattamento di fine rapporto di lavoro, Milano, 1984; Zangari, Retribuzione e trattamento retributi-vo: spunti di diritto comparato, in Mass. giur. lav., 1985, 263 ss.; Zilio Grandi, La retribuzione. Fonti, struttura, funzioni, Napoli, 1996; Zoli, Il principio di onnicomprensività della retribuzione fra legge e contratto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1983, 326; Zoli, Retribuzione (impiego privato), in Digesto comm., XII, Torino, 1996, 418 ss.; L. Zoppoli, La corrispettività nel contratto di lavoro, Napoli, 1991.

1. Il problema della determinazione della retribuzione nel lavoro privato nella struttura economica contemporanea.

Il tema della retribuzione ha un grande fascino, poiché mette a confronto in modo evidente e, spesso, brutale l’interesse del prestatore di opere a ricavare la massima remunerazione del suo fare e quello dell’impresa all’incremento del profitto o, comunque, ad evitare l’aumento delle spese e, pertanto, a concedere la retribuzione minore purché funzionale al raggiungimento del suo disegno produttivo ed organizzativo. Molti anni fa, forse in modo profetico, di fronte ad una struttura aziendale meccanizzata e non dominata dall’informatica e, quin-di, molto diversa da quella attuale, si avvertiva che, “prima dell’avvento della odierna civiltà industriale a tipo di produzione accentrata, la maggiore parte delle forme del lavoro erano l’opposto dell’automatismo, e permettevano all’in-dividuo di vivere ed esplicare le proprie capacità e trovare appagamento pro-prio nell’atto di lavorare. Fare che questi casi si estendano; fare che il lavoratore nell’atto del lavoro realizzi il suo vivere con il pieno esercizio delle sue capacità e sia presente con tutto se stesso nell’atto del lavoro e non una pura quantità di forza o di attenzione, è l’esigenza che nasce da questa scoperta che il lavo-ratore è insomma un momento ed un modo di vivere del soggetto, e non deve nell’atto stesso del suo realizzarsi trasformarsi nella negazione di se stesso”1.

1 V.: Capograssi, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in La crisi del diritto, Padova, 1953, 13 ss.; ora in La vita etica, Milano, 2008, 623 ss.

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A fronte delle grandi modificazioni tecnologiche degli ultimi anni, tale criterio mantiene pieno valore in relazione a taluni segmenti della struttura produttiva, quelli ancora imperniati su logiche di massa e su tecniche di organizzazione di matrice capitalistica, con la piena fungibilità fra le pre-stazioni di buona parte dei dipendenti, il carattere semplice e ripetitivo dei compiti affidati, la relativa facilità di reperire manodopera con adeguata qualificazione e la disponibilità diffusa di molte persone all’assunzione, sen-za che la scelta a favore dell’una o dell’altra alteri in modo percepibile dal punto di vista economico i risultati dell’attività. Se, in buona parte, simili contesti organizzativi si sono trasferiti dal mondo industriale a quello com-merciale e, in particolare, della grande distribuzione, essi mantengono pieno risalto e, ad esempio, possono essere così viste le posizioni dei commessi nei negozi di maggiori dimensioni, dei facchini, degli addetti a funzioni elemen-tari e ripetitive, con lo scarso interesse dell’impresa a valorizzare le capacità individuali ed a motivare il merito e l’impegno.

In simili situazioni, la determinazione della retribuzione rimane affi-data in larga parte, se non in via esclusiva, al negoziato collettivo, l’unico strumento di imposizione al datore di lavoro di obblighi di attribuzione di una retribuzione minima, la quale è identificata in sede sindacale ed incide sul rapporto individuale per la natura inderogabile e l’efficacia reale delle intese sindacali, in primo luogo di quelle stipulate a livello nazionale. Ci si chiede se, in tale ambito, dovrebbero essere sancite differenze di regime a seconda delle aree geografiche e, quindi, del livello dei prezzi, ma, prima di tutto, si dovrebbe verificare se ed in quale misura tale inderogabilità rag-giunga una reale effettività. Se ciò non vale per le attività commerciali della grande distribuzione, in altri settori proprio in queste funzioni economiche elementari si annidano le forme più capillari e radicate di lavoro irregolare, con la violazione sistematica delle indicazioni dei contratti collettivi, accom-pagnata a trasgressioni di natura previdenziale ed assicurativa.

Simili scenari restano attuali e mostrano come le strategie di tutela del diritto del lavoro classico mantengano pieno valore, a presidio in chiave col-lettiva dell’interesse di quei lavoratori i quali si presentano inermi sul mer-cato ed incapaci di offrire, per loro limiti di varia derivazione, prestazioni che si possano imporre per specifici tratti qualitativi. Sul fronte retributivo, per queste legioni di prestatori di opere in oggettiva difficoltà nell’afferma-zione della loro individualità e nella ricerca di collocazioni professionali sta-bili e remunerative, l’unica protezione è affidata, per un verso, alle clausole dei contratti collettivi, con la precisazione della retribuzione minima, e, per

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altro verso, non solo all’inderogabilità di tali clausole, ma alla possibilità di ottenerne l’effettivo rispetto, in tempi ragionevoli, anche in sede giudizia-le, senza che la relativa azione porti o al licenziamento o al fallimento del datore di lavoro.

Tuttavia, dal punto di vista quantitativo, rispetto alla situazione degli anni ’50, tenuta presente dal brano sopra riportato, si è invertito il rapporto fra simili prestazioni di fare fungibili e di scarso pregio qualitativo e quel-le che, all’opposto, si impongono per le distintive capacità del dipendente. Sia nelle imprese industriali di maggiore livello tecnologico e di più elevata automazione, sia nelle funzioni di vendita e di rapporto con clienti e forni-tori, sia nell’area amministrativa, direttiva e di coordinamento, è cresciuto in modo consistente e si estende ancora il numero di lavoratori apprezzati per le loro capacità ed in grado di chiedere la corrispondente remunera-zione. Molto spesso ciò accade nel lavoro industriale, poiché, per la grande complessità dei beni strumentali, l’apporto individuale vede accresciuta la sua importanza e le competenze messe in campo hanno impatti diretti e rilevanti sulla qualità della produzione.

In questo scenario, frutto del ricorso a tecnologie informatiche, telema-tiche ed automatiche nell’impostazione di un numero crescente di iniziative economiche2, la retribuzione non è più determinata solo in sede collettiva, ma il negoziato individuale ha acquisito uno spazio significativo, se non pre-ponderante, in molte aree e per numerosi dipendenti. Del resto, se “prima dell’avvento della odierna civiltà industriale a tipo di produzione accentra-ta, la maggiore parte delle forme del lavoro erano l’opposto dell’automati-smo, e permettevano all’individuo di vivere ed esplicare le proprie capacità e trovare appagamento proprio nell’atto di lavorare”3, lo stesso fenomeno si è riproposto quando la società capitalistica ha assistito ad una imponente modificazione delle risorse tecniche e la loro complessità ha reso non più fungibili le prestazioni, anche in contesti industriali. Al contrario, proprio in tali ambiti, le competenze individuali si impongono, poiché solo le persone

2 Sull’influenza dell’evoluzione tecnologica sulle trasformazioni del diritto del lavoro, v. Carinci F., Diritto privato e diritto del lavoro: uno sguardo dal ponte, in Carinci F. (a cura di), Il lavoro subordinato, tomo I, Il diritto sindacale, coordinato da Proia, Torino, 2007, LXXIII ss.

3 V.: Capograssi, L’ambiguità del diritto contemporaneo, cit., 623 ss.

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competenti possono dare un contributo in linea con le attese del datore di lavoro e con quanto richiesto da una competizione sempre più frenetica.

L’affidamento al contratto individuale della determinazione della retri-buzione permette a molti dipendenti di scegliere l’impresa che più remuneri le loro capacità, con una più equilibrata configurazione del mercato, sep-pure con molti rischi indotti dall’età, da difficoltà personali, da condizioni fisiche. In qualche modo, per i livelli più elevati di competenze individuali, si afferma una concorrenza fra gli stessi prestatori di opere nella ricerca delle opportunità più stimolanti e promettenti, con il pericolo della rapida obsolescenza delle cognizioni di chi non sia lesto ad aggiornarle od in gra-do di adeguarsi agli incessanti mutamenti delle dinamiche tecnologiche ed organizzative.

Anche per il progressivo trasferimento in Paesi lontani, con sistemi di protezione sociali e di difesa del reddito più scadenti del nostro, il tema della retribuzione è oggi al centro di una crescente tensione fra le categorie del diritto del lavoro classico e quelle di un nuovo modello, che sostituisce all’accordo collettivo quello individuale ed alla remunerazione egualitaria il premio per le capacità, ma anche il rischio dell’obsolescenza delle compe-tenze l’impossibilità di reperire una collocazione conforme alle aspirazio-ni. Per quanto possa essere inopportuna una semplificazione schematica, proprio a proposito della retribuzione tali orizzonti del diritto del lavoro italiano sono in reciproca contrapposizione e riguardano gruppi sociali con scarsa coesione e con problemi in rapida divaricazione.

Più di altri aspetti, quello della retribuzione sottolinea la diversità di condizione esistenziale e professionale fra chi aspira a negoziare la remune-razione della sua attività per ottenere il riconoscimento del merito e chi affi-da al contratto collettivo e, pertanto, ad una dimensione di socialità la tutela solidarista della sua debolezza. Le accese battaglie sindacali sul rinnovo dei contratti nazionali o di quelli aziendali dovrebbero essere combattute nella consapevolezza del fatto che, per molti lavoratori, esse sono irrilevanti, in quanto percepiscono compensi molto superiori ai minimi e l’innalzamento di questi ultimi non altera quanto da loro ricevuto, in virtù del principio dell’assorbimento.

Ci si può chiedere se, dalla crisi globale di questi mesi e dalla grave sfida rivolta al sistema delle imprese, non solo nei Paesi di capitalismo più evoluto, possa risultare ridimensionata tale contrapposizione fra i lavoratori che cer-cano solidarietà collettiva e quelli i quali invocano la remunerazione del merito. Per ora, non pare sia così e, seppure di fronte ad una situazione di

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enorme difficoltà ed alla contrazione delle opportunità di crescita retributiva, con seri rischi in ordine alla problematica conservazione della precedente collocazione professionale, i due gruppi continuano ad avere aspettative e strategie molto lontane le une dalle altre. Sorto in nome della risposta col-lettiva alle trasformazioni di massa indotte da una logica protocapitalistica, il diritto del lavoro ha subìto negli ultimi venti anni la modificazione del contesto sociale e, ora, proprio sul tema della retribuzione, deve considerare gli interessi disomogenei di chi cerca solidarietà e di chi rivendica meriti.

2. Il confronto fra contratto individuale ed accordi sindacali in ordine alla determinazione della retribuzione.

Uno degli obiettivi di questo volume è di riflettere sulle questioni attuali, per studiare se la divaricazione di interessi e di scopi dei dipendenti e delle imprese trovi riscontro nelle indicazioni del nostro diritto ed abbia risposte accettabili nella costruzione degli istituti attinenti alla retribuzione. Una si-mile analisi non può essere completa, se non altro per le continue trasfor-mazioni del contesto produttivo e dei comportamenti dei suoi protagonisti. Quanto meno, si spera di dare indicazioni accettabili su una parte delle que-stioni al centro del dibattito di questi anni.

Il confronto fra il contratto collettivo e quello individuale nella deter-minazione della retribuzione può assurgere a simbolo di una contrapposi-zione fra due concezioni e due dimensioni del lavoro, l’una imperniata sulle logiche del capitalismo classico e, quindi, sulla fungibilità della prestazione, l’altra sulla valorizzazione delle competenze e della professionalità. Come dimostrano le implicazioni talora drammatiche della crisi di questi mesi, i lavoratori che vogliono e possono mettere in risalto le loro capacità ed in-vocare una corrispondente remunerazione sono talora in condizioni di dif-ficoltà esistenziale non meno grave di quella dei dipendenti con prestazioni di minore livello. Anche per inquadramenti elevati, vi è un forte rischio di inoccupazione e, comunque, si registra una marcata competizione per l’ac-quisizione della fiducia delle imprese e delle posizioni più promettenti e solide. Pertanto, la dialettica fra determinazione individuale o collettiva del-la retribuzione non impedisce che vi siano enormi problemi trasversali di stabilità del rapporto e di sufficiente prosperità delle imprese, a maggiore ragione in un quadro di accentuato dissesto di molte fra esse, come quello attuale.

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Tuttavia, i due descritti segmenti del mercato del lavoro non comunicano fra loro, poiché non vi sono solo diverse aspettative, ma una differente con-figurazione della prestazione che ciascun dipendente vuole e crede di essere in grado di rendere. Chi punta alla valorizzazione del suo sapere fare rifiuta in modo quasi completo attività ripetitive e fungibili e, per altro verso, non è nelle condizioni psicologiche per eseguirle, né esse gli sono offerte. Chi cerca un lavoro di modesto contenuto tecnologico, culturale e professiona-le ed invoca la tutela solidarista del contratto collettivo, non compete per posizioni in cui si discuta di spiccate capacità, ma è vero anche il contrario, con una radicale frammentazione delle prospettive di vita e di lavoro ed una scomposizione del mercato in senso verticale ed in modo non molto ricom-ponibile, almeno nel medio periodo.

Sono sempre più chiare le scarse possibilità di successo delle imprese manifatturiere che non offrano prodotti di elevata sofisticazione o non uti-lizzino processi complessi o non siano votate ad una strutturale innovazio-ne, quale componente costitutiva del loro fine aziendale. È assai intensa e coronata da successo la concorrenza di Paesi con una minore tutela del lavoro e, quindi, con costi di produzione più contenuti. A tacere di beni che, per loro connotazioni intrinseche, devono essere realizzati nel mercato na-zionale, in molti settori la riallocazione geografica delle imprese riserva al nostro Paese quelle in cui predominano elementi di difficoltà concettuale, con l’imporsi del lavoro intellettuale su quello manuale.

Se l’economia dei servizi e, in specie, della distribuzione, del turismo, delle prestazioni alla persona risente in misura minore o quasi non avverte l’impatto della “globalizzazione”, l’industria assiste ad una trasformazione progressiva dei metodi e delle tecniche di produzione. Ne deriva una conti-nua selezione qualitativa del personale, chiamato a cimentarsi con compiti di maggiore impegno e che richiedono disponibilità allo studio, al sacrificio, al perfezionamento delle competenze.

Oltre a spiegare molti e concomitanti sforzi di “fidelizzazione” dei dipendenti con migliori capacità, questa svolta mette il diritto del lavoro europeo di fronte ad una frattura nella concezione protocapitalistica del lavoro, di scarso significato nella moderna azienda manifatturiera, dove la valutazione delle competenze rende sempre meno promettente la difesa collettiva degli interessi e dove la retribuzione è stabilita dal contratto individuale. Molto spesso, i miglioramenti apportati dagli accordi sindacali sono di scarso significato e portano ad una lineare applicazione dell’istituto dell’assorbimento. Possessore di competenze specialistiche, il prestatore di

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opere subordinato con elevate capacità tecniche assomiglia in Europa dal punto di vista sociale più al libero professionista (o, se si vuole, all’artigia-no della società precapistalistica) che al dipendente inserito in strutture di massa. A differenza del secondo, il primo accetta e chiede di essere giudi-cato per il suo “sapere fare”, secondo le logiche dell’autonomia negoziale individuale4.

Questo spiazzamento progressivo del contratto collettivo ad opera di quello individuale spiega il carattere frammentario del diritto del lavoro contemporaneo5, con il coesistere di forme di organizzazione delle imprese di tipo protocapitalistico e con il prorompere in molte aree di logiche nelle quali il “sapere fare” si sostituisce alla produzione di massa, l’intraprenden-za prende il posto della disciplina gerarchica, l’innovazione soppianta le vi-sioni più tradizionali della diligenza. Però, almeno in Italia, le opportunità occupazionali offerte dalle imprese di maggiore complessità intellettuale e tecnica non sono per tutti. Proprio per la rigorosa selezione imperniata sul “sapere fare” e per la crisi profonda ed irrimediabile del sistema scolasti-co, si distinguono vari livelli di capacità e di propensione al sacrificio, con l’inevitabile esclusione di una vasta area di persone, sulla base delle qualità, anche per i limiti oggettivi e drammatici della scuola pubblica.

La risposta a questo fenomeno non è la “flessibilità” degli strumenti negoziali offerti dal diritto degli Stati europei; per un verso, nelle imprese votate all’innovazione, il problema si supera da sé e non si pone neppure, in quanto la sfrenata competizione presuppone l’accettazione di ritmi e di orari severi. Per altro verso, nei settori dominati da logiche capitalistiche e di produzione di massa, ad esempio nelle imprese della grande distribu-zione, la “flessibilità” dovrebbe favorire improbabili incrementi della base occupazionale, ma non raggiunge il suo obiettivo, poiché, se mai, l’espansio-ne economica dipende dalle congiunture del sistema “globale”. In nessun modo la “flessibilità” può attenuare il divario di costi di produzione fra i Paesi di capitalismo maturo e quelli in via di sviluppo, così che non si arresta

4 V.: Mazzotta, Autonomia individuale e sistema del diritto del lavoro, in Giorn. dir. lav. e relazioni ind., 1991, 489 ss., e, dello stesso A., Il diritto del lavoro e le sue fonti, in Riv. it. dir. lav., I, 2001, 219 ss.

5 V. già D’Antona, Contrattazione collettiva e autonomia individuale nei rapporti di lavoro atipici, in Giorn. dir. lav. e relazioni ind., 1990, 540 ss.

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la riallocazione delle iniziative che, per ragioni tecniche, non debbano essere conservate nell’Europa occidentale.

Almeno in ordine ai temi retributivi, vi è una crisi profonda della con-trattazione collettiva, per l’incapacità delle organizzazioni sindacali di rap-presentare le fasce dinamiche del mercato e, comunque, perché i tentativi di redistribuzione del reddito hanno luogo senza adeguata considerazione per lo sforzo richiesto, in misura crescente, a chi, impegnato nella compe-tizione sfrenata e desideroso di vincerla, subisce nella vita familiare e per-sonale l’impatto oppressivo delle esigenze delle imprese. I moderni mezzi di comunicazione e la selezione basata sul “sapere fare” impongono ritmi e sacrifici spesso insostenibili, a fronte di vantaggi patrimoniali talora limitati, a paragone della maggiore sicurezza di chi, schivando queste sfide, trova collocazioni più comode nelle pubbliche amministrazioni o nelle imprese di massa, organizzate secondo le vecchie categorie capitalistiche.

Peraltro, tali ultime occasioni di lavoro decrescono, né possono essere alimentate in modo significativo dalle politiche di “flessibilità” o dal soste-gno pubblico. Lo spiazzamento del nostro mercato del lavoro si acuisce, con l’accoglienza riservata a legioni di lavoratori stranieri, l’impossibilità di soddisfare le pretese di tutti coloro che ambiscono ad ottenere mansioni intellettuali, il divario crescente di responsabilità e di difficoltà esistenziali fra quelli che percorrono l’impervia strada della partecipazione con il loro “sapere fare” alle imprese di alto livello tecnico e dei prestatori di opere che non vogliono o non possono accettare simili sfide e restano segregati nell’esecuzione di compiti ripetitivi e dallo scarso spessore culturale.

Vi è da chiedersi fino a che punto le capacità di innovazione di una ridotta aliquota di lavoratori riuscirà a sopperire alle difficoltà degli altri ed a garantire occasioni di occupazione e, quindi, di benessere a chi non può o non vuole prendere parte attiva alla competizione mondiale. Però, i tan-ti licenziamenti collettivi dovuti alla riallocazione geografica delle imprese manifatturiere dimostrano che le occasioni di lavoro semplice si riducono e quelle di funzioni difficili si moltiplicano, in specie se i cittadini italiani rifiutano di dedicarsi ai servizi alla persona e favoriscono l’accesso di gruppi compatti di prestatori di opere extracomunitari.

L’idea tradizionale dell’industria di massa, caratterizzata dal dominio del contratto collettivo, dalla facilità relativa dei compiti, dalla rigida gerarchia interna e dall’impegno di numerosi dipendenti è di grande attualità, ma in Paesi sempre più lontani dall’Italia. In specie nel mondo della produzione di beni, si riduce di mese in mese la quantità di mansioni semplici e si richiede

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agli addetti di dimostrare quel “sapere fare” che trasforma il loro impegno in una dimensione intellettuale e, per converso, li costringe a cimentarsi con un impressionante progresso tecnologico ed una drastica accelerazione dei tempi di risposta, nella civiltà della comunicazione e dei contatti immediati in ambito planetario.

3. La retribuzione, il contratto collettivo nazionale ed il principio costituzionale di sufficienza.

Per i lavoratori che non riescono ad ottenere la remunerazione indivi-duale delle loro capacità ed i quali non possono aspirare al riconoscimento delle loro competenze, seppure con i rischi di appartenenza ai segmenti più elevati del mercato del lavoro e, quindi, di più accentuata e, talora, sfrenata competizione fra gli stessi prestatori di opere, il principale e, molto spes-so, l’esclusivo strumento di determinazione della retribuzione è dato dal contratto collettivo di categoria, con una imponente tradizione e con una posizione centrale nell’identificazione dei minimi di trattamento sull’intero territorio nazionale. Del resto, la costante giurisprudenza di legittimità, sul fatto che i corrispondenti minimi tabellari devono essere utilizzati dai giu-dici ai fini dell’applicazione del criterio costituzionale di sufficienza della retribuzione, ha avuto un ruolo fondamentale nel consolidare lo spazio dell’accordo di categoria. Né tali indicazioni accennano ad essere messe in discussione.

Questa nota e radicata posizione ha alcuni meriti storici, in primo luogo, perché, in materia salariale, ha superato qualunque difficoltà indotta dalla mancata attuazione dell’art. 39 Cost. ed ha consentito ad ogni dipendente, anche se parte di un rapporto irregolare, di potere invocare la tutela giu-diziale in ordine al suo trattamento economico, con una azione che non rimette alla discrezionalità del giudice l’impervio compito di stabilire in via equitativa quale sia la remunerazione sufficiente, ma àncora questa ulti-ma ad un parametro oggettivo, di agevole prova nel processo. Per la grave, ma pervasiva diffusione di rapporti irregolari, una simile azione attribuita al prestatore di opere, a prescindere dalla sua collocazione professionale o geografica, comporta l’esistenza di uno strumento diretto ed incisivo di protezione delle minime condizioni patrimoniali, per qualunque persona impegnata in una collaborazione di natura subordinata. Proprio per que-ste benefiche implicazioni, la tradizionale tesi della giurisprudenza può

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essere considerata irrinunciabile, in un sistema che non riconosce l’efficacia soggettiva generale dei contratti collettivi, né può farlo, vista la mancata realizzazione dei principi dell’art. 39 Cost., soprattutto se si considera come tale disposizione non sia mai stata modificata, come sarebbe stato neces-sario, in considerazione della sua irragionevolezza e delle sue inquietanti ascendenze illiberali, se non corporative.

Peraltro, l’attuazione giurisprudenziale dell’art. 36, 1° co., Cost. pone forti perplessità, su vari fronti. In primo luogo, almeno nell’esperienza giu-diziale, i due canoni della sufficienza e della proporzione del trattamento retributivo finiscono per coincidere. La tutela giudiziale del diritto alla retribuzione calcolata sulla scorta dei livelli minimi stabiliti dal contratto di categoria per la corrispondente posizione di inquadramento professionale fa sì che il singolo trovi protezione per un trattamento economico che, sep-pure ai livelli minimi, considera la natura e l’impegno delle sue mansioni. Fuori da tale salvaguardia, resta solo il diritto all’applicazione delle migliori clausole degli accordi individuali, aziendali o territoriali ed anche di quelle del contratto nazionale, nelle parti non rientranti nell’oggetto della tutela dell’art. 36, 1° co., Cost.

In secondo luogo, la mancata identificazione legale della retribuzione sufficiente fa sì che essa sia diversa per le varie categorie. Quindi, per fun-zioni omogenee, in differenti settori produttivi, il compenso idoneo a tute-lare la dignità del dipendente e la stessa libera esistenza della sua famiglia è disomogeneo, a seconda della natura merceologica del datore di lavoro. I medesimi compiti di segreteria possono comportare livelli di retribuzione sufficiente assai vari, con discrepanze salariali marcate, a seconda del fatto che tali attività siano svolte in uno studio professionale od in una impresa elettrica, in una azienda commerciale od in una bancaria. Pertanto, viene meno la naturale dimensione universalistica della retribuzione sufficiente, ed essa è ancorata alle condizioni negoziali che portano alla conclusione dei contratti nazionali. Nel suo connettersi con l’art. 36, 1° co., Cost., il contrat-to di categoria non è portatore di un principio di uguaglianza, ma, se mai, rende più radicali e solide le diversità di trattamento, tanto che esse trovano una sorta di avallo costituzionale.

Ciò pone forti dubbi sul versante morale, in quanto dall’art. 36 Cost. e dalla sua concezione della remunerazione quale strumento di realizzazio-ne della libertà e della dignità dei familiari deriva la consacrazione delle differenze di trattamento proprie di ciascuna categoria e, quindi, del pun-to di equilibrio raggiunto in ogni area economica, sulla scorta delle scelte

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negoziali delle contrapposte associazioni sindacali e delle loro strategie nella conduzione delle trattative. Si può pensare che la dignità e la libertà siano protette in modo diverso, non solo a seconda della complessità e del valore professionale dei compiti, ma persino dell’ambiente organizzativo ed economico nel quale essi sono svolti? L’idea della retribuzione come meccanismo di garanzia della dignità e della libertà avrebbe presupposto una determinazione universalistica, in quanto la categoria della dignità (da cogliere in una proiezione etica e non solo giuridica) sfugge alle dina-miche rivendicative di ciascuna organizzazione nazionale e, per altro verso, alla stessa posizione di inquadramento del dipendente ed ai suoi riflessi sul calcolo del compenso dovuto.

Questi sacrifici ad una valorizzazione dell’eguaglianza sono un tributo molto alto, ma inevitabile alla necessità di conferire a ciascun dipendente una azione dall’agevole espletamento, in supplenza di un regime di attri-buzione dell’efficacia soggettiva generale ai contratti collettivi. Tuttavia, nel suo incontro con l’art. 36 Cost., l’accordo di categoria risulta un istituto alquanto problematico, legato alla tradizione più che all’innovazione e, in particolare, alle logiche di ambiti negoziali consolidati e, quindi, ai rispet-tivi livelli di benessere dei corrispondenti datori di lavoro. Poi, in ciascuna categoria, le parti guardano o, almeno, dovrebbero considerare le possibi-lità delle imprese meno affermate e con maggiori problemi a resistere sul mercato. Pertanto, i livelli retributivi dovrebbero essere proporzionati alle risorse delle imprese più deboli, come accade molto spesso. Ciò è inevita-bile, poiché, in difetto, i miglioramenti dei contratti nazionali potrebbero espellere dal mercato alcuni competitori o allargare l’area già troppo estesa del lavoro irregolare.

Più sofisticati meccanismi di redistribuzione del reddito e, in primo luogo, di quello prodotto dai datori di lavoro più affermati e con mag-giori successi economici ed organizzativi dovrebbero essere rappresentati dai contratti territoriali, da quelli aziendali e, soprattutto, da quello indi-viduale. Tuttavia, tali strumenti di modulazione della retribuzione hanno un funzionamento parziale e, per varie ragioni, in alcune aree resta solo il contratto nazionale, con modeste possibilità di aggiustamento in sede lo-cale o nell’ambito del rapporto individuale. Ciò non accade solo nel lavoro pubblico, ma in quello privato con soggetti di tradizione o di capitale pub-blico, in tutto o in parte, od anche in situazioni nelle quali non vi è interesse del datore di lavoro a valorizzare le competenze od a rafforzare la fedeltà e la dedizione.

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Come è messo in luce in modo ripetuto nel dibattito politico, più che in quello sindacale, in simili condizioni, il potere di acquisto di retribuzioni determinate in modo identico dal contratto nazionale è diverso a seconda della zona geografica nella quale agisce il prestatore di opere, con ovvi benefici per quelli delle regioni meridionali e con evidenti svantaggi per quelli delle regioni settentrionali e, in primo luogo, delle grandi città, dove il livello dei prezzi è molto più elevato. A tali considerazioni non è persuasivo obiet-tare che il contratto nazionale è votato alla difesa dell’uguaglianza. Se ciò non avviene in modo trasversale, in relazione all’attività espletata da ciascun lavoratore, non si vede perché l’uguaglianza in senso geografico dovrebbe essere ritenuta un valore assoluto. Il problema dell’accordo nazionale e del suo incontro con l’art. 36, 1° co., Cost. è dato proprio dalla sua incapacità di determinare in modo universalistico la retribuzione sufficiente.

Se mai, la tradizione del nostro ordinamento ed i modelli organizza-tivi delle associazioni sindacali e di quelle rappresentative dei datori di lavoro rendono inevitabile la conclusione di contratti nazionali e simili fenomeni non possono essere modificati, nonostante possano portare a disequilibri ed a rilevanti svantaggi per gruppi significativi di prestatori di opere. Inoltre, per le imprese diffuse sull’intero territorio nazionale, la determinazione in modo omogeneo ed unitario della remunerazione minima conferisce grandi vantaggi nell’impostazione delle strategie di reclutamento del personale e di amministrazione dei rapporti, almeno in molti casi. Purtroppo, i pregiudizi retributivi colpiscono, nelle regioni settentrionali, una fascia spesso debole di persone, quelle che, ricevendo una remunerazione dovuta all’applicazione del solo contratto nazionale, non possono spostarsi in altre collocazioni professionali, più prometten-ti o per la presenza di miglioramenti attribuiti dagli accordi locali o da quelli aziendali, o per la possibilità di invocare l’intervento del contratto individuale.

Vincolato all’idea di trovare il punto di equilibrio fra le esigenze dei datori di lavoro e quelle dei prestatori di opere nell’ambito di segmenti mer-ceologici consolidati e sull’intero territorio nazionale, il contratto collettivo finisce per dare scarsa protezione a chi, confidando solo su di esso, vive [...] nella parte sbagliata dell’Italia e, nonostante le buone opportunità offerte dalle imprese nella sua città od in quelle vicine, non riesce ad accreditarsi verso un più remunerativo destino professionale. Questa disparità di trat-tamento si unisce alle molte altre che sono il frutto della struttura per cate-goria del nostro sistema di contrattazione e dell’adesione a tale orizzonte

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compiuta dalla giurisprudenza, sulla scorta dell’art. 36, 1° co., Cost. Pertanto, se non tutela in alcun modo l’uguaglianza, il contratto di categoria ha il più limitato obbiettivo di impedire che vi sia concorrenza al ribasso sulle condi-zioni patrimoniali dei prestatori di opere. In larga parte tale scopo sarebbe raggiunto, se non vi fosse la comoda ed illecita via di uscita del ricorso al lavoro irregolare.

Del resto, è difficile pensare alla rinuncia ad un meccanismo accen-trato nella determinazione dei trattamenti salariali minimi e, con tutti i suoi limiti, il contratto nazionale non ha nessun accettabile sostituto. Né è pensabile un negoziato condotto solo a livello territoriale o locale, se si riflette sull’estrema frammentazione delle imprese e, pertanto, sulla ne-cessità di regole concernenti i profili economici ed applicabili a tutti, a prescindere dalla stessa adesione ad una organizzazione di categoria dei datori di lavoro o dalla spontanea applicazione di un accordo collettivo. Se mai, il contratto nazionale dimostra scarsa capacità nel difendere i li-velli di reddito dei segmenti più deboli del mercato del lavoro. Quindi, si accresce in modo costante e preoccupante il divario rispetto ai lavoratori più forti, in grado di contare sulle risorse aggiuntive loro attribuite dal negozio individuale.

Se l’accordo interconfederale del luglio 1993 non aveva messo il contrat-to nazionale in una posizione adeguata per la difesa del potere di acquisto dei salari, vi è poco da confidare nella nuova intesa del gennaio 2009, che dovrebbe peggiorare le prospettive, come alcuni contributi di questa ricer-ca mettono in luce, seppure in una fase di valutazioni ancora incerte sugli scenari aperti dalle novità del 2009. Se queste preoccupazioni si dovessero rivelare fondate, come è probabile, il pregiudizio per i prestatori di opere sarebbe significativo, proprio perché il contratto nazionale è il principale e, spesso, l’unico strumento di difesa del reddito dei soggetti più deboli e con minori risorse professionali.

Se anche questo contratto si dimostra incapace di proteggere nel medio e nel lungo periodo le loro aspettative di vita, il peggioramento della loro condizione umana è inevitabile, con seri rischi per la loro dignità e per la loro libertà. Nonostante ciò possa spiacere, né oggi, né mai si può pensare che tutti i lavoratori subordinati abbiano capacità sufficienti perché possa-no invocare i trattamenti migliorativi assegnati dagli accordi individuali e, con tutti i suoi limiti, il contratto nazionale è una conquista di civiltà, ma, proprio per tale ragione, essa deve essere in grado di proteggere il potere di acquisto e, se mai, di migliorarlo.

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4. I frequenti insuccessi dei contratti collettivi territoriali e di quelli aziendali nella redistribuzione del reddito delle imprese di maggiore successo.

Nonostante i più recenti sforzi del legislatore, che ha previsto apposite forme di incentivazione e, in particolare, rilevanti sgravi contributivi, non ha avuto sempre successo l’idea dell’affidamento ai contratti collettivi azien-dali e territoriali di un ruolo di riequilibrio della retribuzione e del reddito in relazione al successo delle imprese, con un tendenziale spiazzamento di tali intese cosiddette di secondo livello, a paragone del risalto crescente as-segnato al negozio individuale. Per un verso, gli accordi di natura locale, per lo più provinciali, hanno gli stessi limiti di quelli nazionali, nonostante si ri-volgano ad un contesto più ristretto ed omogeneo e, in particolare, siano dif-fusi in ambiti di grande frammentazione delle imprese, ad esempio di quelle artigiane od agricole. Nonostante l’appartenenza alla stessa provincia possa rendere più compatte le condizioni organizzative e patrimoniali dei datori di lavoro, questi non sono mai in situazioni identiche e, pertanto, l’accordo riesce con difficoltà a trovare un punto di equilibrio fra esigenze differenti.

Se sono introdotti emolumenti aggiuntivi rispetto a quelli determinati in sede nazionale, essi sono di solito esigui e, comunque, calcolati con appros-simazione, sulla base di criteri che non possano mettere in crisi le imprese di minori risorse e di più incerto accreditamento sul mercato, se non altro perché non opera l’art. 36, 1° co., Cost. Se gli accordi territoriali fossero troppo ambiziosi e comportassero un forte incremento delle retribuzioni, a paragone di quelle calcolate sulla base del contratto nazionale, sarebbe age-vole per il datore di lavoro evitare la loro applicazione, recedendo dall’as-sociazione stipulante. Per converso, poiché non sono animate da strategie suicide, queste sono quanto mai prudenti nell’impostazione del negoziato; è loro prioritario obbiettivo evitare di creare tensioni con gli iscritti, nella consapevolezza dell’inesistenza di qualunque meccanismo di attribuzione di efficacia soggettiva generale alle intese.

Imperniate su un accentuato vincolo fiduciario fra l’impresa e la sua organizzazione, esse devono avere un taglio prudente e sono ispirate ad un modesto soddisfacimento delle rivendicazioni dei prestatori di opere, se non altro perché ciascun datore di lavoro, anche il più generoso nelle stra-tegie di remunerazione, preferisce fare ricorso all’accordo individuale, con la possibilità di valutare i meriti e di impostare percorsi di fidelizzazione. Pertanto, a fronte dei minimi stabiliti dai contratti nazionali, quelli territo-riali incidono poco. Per quelli aziendali vi sono migliori prospettive solo in

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linea teorica. Messo di fronte alle richieste del suo personale, a conoscenza dell’effettivo andamento aziendale, il datore di lavoro può essere più porta-to ad accettare logiche redistributive, in specie se esse sono coerenti con la creazione di buoni rapporti collettivi.

Peraltro, almeno negli ultimi due decenni, questa prospettiva tradizio-nale del contratto aziendale ha subìto un forte spiazzamento ad opera delle intese individuali, che coinvolgono una larga area di prestatori di opere, an-che a livelli medi o bassi di inquadramento, nelle imprese di più elevato con-tenuto tecnologico e di più accentuata organizzazione meritocratica. Per lo più nell’industria e nei settori più evoluti dell’offerta dei servizi, il numero di lavoratori in grado di accedere a meccanismi premianti individuali è così alto che il contratto aziendale corre il rischio di essere interessante solo per gli esclusi da queste più vantaggiose opportunità. In tale caso, come è inevi-tabile, la propensione del datore di lavoro verso le intese sindacali decresce qualora esse migliorino la retribuzione di coloro che non hanno competen-ze professionali che giustifichino incoraggiamenti e supporti individuali.

Se la tutela solidaristica dei segmenti più deboli del mercato è nelle fun-zioni del contratto collettivo ed anche di quello aziendale, le imprese non guardano con particolare favore a questi accordi, qualora essi siano destina-ti a proteggere i dipendenti considerati incapaci di arrivare all’attribuzione di un superminimo e, pertanto, al negoziato individuale. Diverso è nelle aree produttive nelle quali è meno radicato il ricorso ai miglioramenti indivi-duali e, quindi, nei contesti di organizzazione capitalistica più tradizionale, dove il dipendente non può rivendicare la remunerazione dei suoi meriti ed accampare o dimostrare le sue competenze. Ad esempio, è comprensibile la relativa diffusione degli accordi aziendali nelle imprese della grande distri-buzione, se si riflette sulla forte fungibilità ancora presente fra molte man-sioni, a livelli di inquadramento non troppo bassi. In tali sistemi, il premio individuale è meno ricorrente e, di conseguenza, è più forte l’interesse per le dinamiche collettive, con una inevitabile, maggiore attenzione dei datori di lavoro, se non altro timorosi per possibili azioni di autotutela sindacale.

Poiché le intese aziendali hanno una rilevante funzione sociale di redi-stribuzione del reddito, in specie in quegli ambiti geografici penalizzati dalle strategie nazionali alla base dei contratti di categoria e dal diverso livello dei prezzi, è meritorio il tentativo del legislatore di preordinare forme di incentivazione; a fronte di livelli retributivi abbastanza bassi per i segmenti più deboli del mercato, è più ragionevole dare impulso al negoziato azien-dale, a paragone di quello territoriale, comunque vincolato alla necessità

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di non mettere in crisi i datori di lavoro più deboli e meno consolidati, a maggiore ragione in questo momento di forte contrazione della domanda e di tensioni sui mercati finanziari.

Pertanto, è apprezzabile ed ispirato ad una realistica valutazione delle funzioni dei contratti aziendali il tentativo di collegare i relativi migliora-menti retributivi a meccanismi di incentivazione, con sgravi contributivi. Se mai, desta perplessità il ripetuto convincimento espresso dal legislato-re e dagli accordi interconfederali, i quali ritengono ragionevole imporre o sollecitare un irrealistico nesso fra i miglioramenti apportati dai contratti di secondo livello e recuperi di produttività o di efficienza dell’impianto aziendale. Di dichiarato taglio propagandistico, questa convinzione non ha riscontro nei fatti; per lo più, le intese aziendali hanno il non meno meri-torio e più realistico fine di giungere ad una redistribuzione del reddito, a beneficio dei lavoratori in condizioni di maggiore debolezza. L’incentiva-zione dell’efficienza e lo stimolo all’impegno hanno luogo con i contratti individuali e, quindi, con l’attribuzione di superminimi in grado di stimolare i dipendenti coinvolti.

È frequente il tentativo dei contratti aziendali di accreditare una prete-sa, ma inesistente connessione fra i trattamenti previsti e vaghi o velleitari obbiettivi di miglioramento della redditività o della produttività, in osse-quio più apparente che reale alle indicazioni delle intese interconfederali ed agli inviti del legislatore, questi ultimi collegati al riconoscimento di in-centivi. Essi dovrebbero essere rafforzati e dovrebbe essere eliminato qua-lunque vincolo, poiché è prioritario creare le premesse per un innalzamento della remunerazione. Poiché i contratti nazionali possono solo mirare alla definizione di minimi di rilievo generale e calcolati con la considerazione delle possibilità delle imprese più deboli, le altre dovrebbero essere spinte a rivedere al rialzo le loro politiche salariali. Poiché gli strumenti collettivi hanno una evidente vocazione solidaristica, questa ultima merita un inco-raggiamento, che stemperi i conflitti sociali.

5. Il contratto individuale, la fidelizzazione dei lavoratori di maggiori capacità, i superminimi e l’inesistenza di qualunque principio di parità di trattamento in materia retributiva.

Le scelte del datore di lavoro sulla determinazione dei superminimi si collocano ad un delicato punto di equilibrio fra esigenze di contenimento

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dei costi, a maggiore ragione nei periodi di più intense tensioni sui mercati, creazione di sentimenti di fedeltà e di dedizione nei collaboratori ed incen-tivazione del loro impegno e della loro diligenza. In particolare, per i dipen-denti con migliori prospettive e, quindi, destinatari di significative proposte di altre imprese, la remunerazione deve considerare la difesa della conti-nuità del rapporto, ma con oneri patrimoniali compatibili con strategie di più ampio respiro. Pertanto, se hanno ormai un forte connotato individuale, le politiche retributive presentano elementi opinabili e discrezionali, per contemperare interessi differenti e tensioni tipiche di qualunque organiz-zazione.

Per i lavoratori che accedono a queste opportunità, in modo percepibile, seppure con percorsi informali, la valutazione delle prestazioni prende il posto della tutela collettiva solidaristica, con tutti i rischi di insuccesso e, quindi, con la possibile precarietà delle prospettive di chi vuole competere e chiede ed ottiene la remunerazione di suoi pretesi meriti. Il frequente ricorso ad istituti volti a consolidare la fedeltà del dipendente (a partire dai patti di stabilità per arrivare a quelli di non concorrenza, a rapporto ormai concluso) si combina con non meno ripetuti licenziamenti o con risoluzioni consensuali che trovano la loro ragione nell’insuccesso, e non nell’inadem-pimento. Così, le dinamiche professionali si spingono più verso le logiche competitive del lavoro autonomo o di quello imprenditoriale di quanto non assomiglino alla concezione abituale del contratto individuale, come rinser-rato in un sistema di tutele collettive, legali o negoziali.

Ciò non toglie nulla alla posizione centrale del principio dell’inderoga-bilità, poiché esso accomuna l’intero diritto del lavoro e, quindi, è applica-bile ai prestatori di opere di qualunque livello e con qualsiasi aspettativa retributiva. L’inderogabilità della legge o dell’accordo sindacale protegge il lavoratore in quanto tale e definisce il rapporto fra l’autonomia individuale, quella collettiva e le indicazioni normative cogenti. Se mai, a fronte del radi-cale superamento dei livelli di retribuzione previsti dai contratti di catego-ria, l’inderogabilità cede il passo al principio dell’assorbimento. Tuttavia, ciò si verifica non per una revisione dei criteri ordinatori del diritto del lavoro, ma per contingenze empiriche.

Vi è da chiedersi fino a che punto i dipendenti debbano essere sereni nell’assistere al loro passaggio dal mondo della tutela collettiva a quello dei significativi superminimi, poiché al maggiore agio economico si uniscono pericoli consistenti. Lo dimostra l’esperienza talora drammatica di questi mesi, nei quali, a fronte dei gravi effetti della crisi mondiale, gli strumenti

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previdenziali ed assistenziali di tutela del reddito hanno comportato gravi turbative nella vita degli impiegati, molto più di quanto sia accaduto per gli operai di minore inquadramento, per i diversi livelli retributivi e per i meccanismi di calcolo delle prestazioni assistenziali, legati a logiche paupe-ristiche e non coerenti con l’abituale remunerazione delle persone adibite a funzioni direttive od a mansioni con componenti intellettuali e creative.

Il prorompere di un sistema di diffusa incentivazione individuale non si sarebbe potuto accompagnare con una idea di parità di trattamento fra i lavoratori e con una sostanziale restrizione di tali emolumenti a fattispecie limitate, in relazione a presupposti causativi tipici o, comunque, sottoposti a controllo giudiziale. In parte, l’idea della parità di trattamento come limi-te all’autonomia contrattuale apparteneva ad una diversa concezione del diritto del lavoro, nel segno del dominio della dimensione solidaristica su quella rivendicativa di ciascun prestatore di opere. Non a caso, con varie oscillazioni giurisprudenziali, il tema della parità ha perso negli ultimi anni gran parte della sua centralità.

Fermo il fatto che non esisteva alcuna base, né legale, né tanto meno costituzionale per dedurre dall’art. 3 Cost. l’idea dell’illegittimità di trat-tamenti retributivi individuali migliorativi rispetto a quanto risultante dall’applicazione dei contratti collettivi, l’organizzazione moderna valoriz-za le competenze e la dedizione personale e la competizione fra prestatori di opere appartiene alle dinamiche odierne. La ricerca dell’utile ha luogo con un dialogo fra dipendente e impresa nel quale i riferimenti dei contratti collettivi non sono spesso neppure il punto di partenza delle trattative, e le richieste dei lavoratori richiamano parametri di mercato molto lontani da quelli assunti dagli accordi nazionali.

Se le organizzazioni sindacali non sono il custode credibile della parità di trattamento, non si vede perché lo dovrebbe essere il giudice e da dove questi potrebbe derivare il potere di sancire l’illegittimità di clausole miglio-rative, sulla base di valutazioni soggettive. Poco importa il fatto che, in taluni casi, esse siano approssimative. È vero che, nel sistema dei superminimi, non tutti i bravi hanno successo e molte ingiustizie sono commesse in modo quo-tidiano, poiché sarebbe ingenuo pensare al mercato come ad uno strumen-to apportatore di inevitabile razionalità. Tuttavia, questa logica mercantile non ha nessuna credibile alternativa ed il corrispettivo del dipendente non è in funzione delle sue vere qualità, ma di quelle percepite e riconosciute dall’impresa. Il punto di equilibrio è raggiunto in uno spazio vuoto di diritto e tutti, i lavoratori e le imprese, vogliono che esso rimanga tale.

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Del resto, come limite all’autonomia privata, la parità di trattamento non avrebbe apportato giustizia, ma solo programmazione delle spese e pianifi-cazione dei meccanismi di remunerazione dell’impegno professionale, men-tre le parti del rapporto individuale vedono queste dinamiche come oggetto di loro prerogative decisionali libere. Lo spostamento della determinazione della retribuzione verso logiche non solidariste, ma di stampo egoistico e competitivo non deve sorprendere, in questa nostra società dell’ossessiva concorrenza globale. Né è una alternativa allettante per i lavoratori il resta-re confinati nei segmenti deboli del mercato, con una piena fungibilità fra le prestazioni e con nessun credito nei confronti dei datori di lavoro.

Nella più tradizionale impostazione delle associazioni sindacali il pas-saggio dalla dimensione solidarista a quella di valorizzazione del “sapere fare” dovrebbe essere guidato dalla formazione professionale, ma tale il-lusione non convince. Purtroppo, fuori da ogni convinzione nozionistica, le competenze individuali non sono il frutto di insegnamenti impartiti in modo più o meno adeguato, ma di capacità messe a frutto in molti anni di ad-destramento. Come Platone nel Simposio fa affermare a Socrate, “sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse qualcosa che può scorrere, al semplice contatto, dal più pieno al più vuoto di noi, come attraverso un filo di lana l’acqua scorre dalla tazza più piena a quella più vuota”.

Se questo non vale per la ricerca filosofica, non accade neppure per la formazione professionale e, con qualche angoscia, il nostro mondo, così pie-no di miseria e di sofferenza, vede allargarsi la distanza fra coloro che trat-tano per sé, in ragione dei loro meriti e delle loro conoscenze, e coloro che confidano solo nella tutela sindacale, perché sostituibili con facilità nei pro-cessi produttivi. Vi è da chiedersi fino a che punto si potrà spingere questa divaricazione, di fronte alla sostanziale inerzia dello Stato nazionale, troppo pigro per cercare di accorciare queste diversità, a prescindere dalle variabili maggioranze parlamentari.

6. La retribuzione e l’incidenza degli oneri contributivi e fiscali.

I meccanismi di determinazione della retribuzione non riescono ad evi-tare che, per una larga area di persone collocate nei segmenti più bassi del mercato, non solo di cittadinanza italiana, il livello della remunerazione sia molto contenuto, spesso in misura eccessiva, al punto che è messa a ri-schio la stessa dignità, seppure per prestatori di opere assunti con contratti

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l egittimi e parti di rapporti regolari. Agli altri va ancora peggio. Ci si può chiedere se ciò dipenda più dalla sfrenata competizione internazionale, che comprime oltre misura i salari, in specie per chi è impegnato in funzioni pro-duttive elementari, o da una oggettiva difficoltà delle associazioni sindacali di esercitare con successo il loro potere di rappresentanza. Esse dovrebbero raggiungere risultati meno insoddisfacenti nel riequilibrio delle opportunità di tutti i protagonisti del mercato, in qualunque suo segmento.

Per quanto il giudizio possa sembrare ingeneroso, qualche grave respon-sabilità strategica e culturale può essere ascritta alle associazioni sindacali, per la strenua difesa del sistema delle pensioni di anzianità e di un mec-canismo previdenziale che comporta rilevanti oneri sulle retribuzioni, in aggiunta ad un notevole peso fiscale. Da questo connubio perverso deriva una chiara differenza fra il complessivo costo sostenuto dalle imprese e le retribuzioni nette, spesso modeste e di scarsa coerenza sostanziale con il parametro dell’art. 36 Cost.

Non a caso, come mettono in luce numerosi contributi di questa ricerca, il dibattito giurisprudenziale più acceso attiene ai profili fiscali e previden-ziali della retribuzione, per il tentativo delle imprese di contenere le spese, a rischio di impostazioni discutibili e, talora, di evidente illegittimità. Ne derivano questioni complesse, che manifestano l’insofferenza dei datori di lavoro per il divario sensibile fra la remunerazione lorda e gli importi di fatto versati, all’interno di un sistema economico nel quale l’intensa com-petizione ad ogni livello crea comunque problemi di efficienza del sistema produttivo, a prescindere dalla crisi intensa di questi ultimi mesi.

Se si trascurano settori produttivi (come il lavoro domestico, quello agri-colo e quello turistico) ed aree geografiche nelle quali abbondano feno-meni capillari e preoccupanti di lavoro irregolare, anche dove le situazioni sono più orientate verso condizioni di legittimità non sempre le imprese ed i lavoratori sanno sfuggire alla tentazione di comportamenti di natura elusiva od evasiva, rispetto ai loro obblighi previdenziali. In qualche modo il problema non può essere affrontato solo in nome dell’illegittimità (vera) di molte decisioni delle imprese, se non si considerano le tensioni sociali indotte da retribuzioni nette troppo basse e dall’inesistenza dei margini per il solo incremento sostanziale.

L’ultimo ventennio ha visto l’affermarsi progressivo (e vi è da chiedersi se inarrestabile) di figure negoziali riconducibili al lavoro eterodiretto, ma contrassegnate da differenze prescrittive, per lo più tese alla valorizzazione di interessi delle imprese. Ad esempio, ciò è vero solo in parte per il rapporto

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a tempo parziale e non lo è quasi mai per quello ripartito, a volere concedere che tale istituto abbia un minimo di applicazione e non sia solo la materia per stucchevoli esercizi di scuola della legge e dei suoi commentatori.

Invece, la disciplina del rapporto a tempo determinato, dell’apprendista-to, del contratto di somministrazione e di inserimento proteggono esigenze dei datori di lavoro e cercano di soddisfare loro aspettative, per lo più per la diminuzione dei costi e, comunque, per una più agevole collocazione del pre-statore di opere nei meccanismi organizzativi. Questi bisogni di “flessibilità” (veri od immaginari) non sono creati dall’ordinamento, il quale, se mai, ha il compito di circoscriverli e di trovare una ragionevole mediazione fra oppo-ste valutazioni. Il mercato, la concorrenza internazionale, la ricerca di un pro-gressivo ed esasperato contenimento dei costi inducono sempre più i datori di lavoro a verificare se i loro obbiettivi produttivi possano essere raggiunti con figure diverse dal tradizionale rapporto a tempo pieno ed indeterminato.

Vi è da chiedersi fino a che punto siano lungimiranti e corrette le scel-te di chi rinuncia a contratti a tempo pieno ed indeterminato, in nome di vantaggi talora molto aleatori, con rischi sproporzionati rispetto ai benefici. Ad esempio, a fronte del progressivo ed inarrestabile innalzamento delle aliquote contributive della cosiddetta “gestione separata” dell’Inps, vi è da domandarsi se sia razionale la stipulazione di accordi a progetto, in specie se essi sono di incerta legittimità (o di certa illegittimità) a fronte di risparmi contenuti e decrescenti, con pericoli di contestazione. Tuttavia, tali osser-vazioni (a dire il vero non molto originali) non hanno alcun successo, se si riflette sull’affermarsi di tanti contratti a progetto, poco difendibili e per lo più incoerenti, con limitati contenimenti dei costi.

Il sistema delle imprese invoca in modo costante (e, a dire il vero, per lo più immotivato ed emotivo) la “flessibilità” quale risorsa per le sue strategie, in nome di una disarticolazione delle strutture aziendali e, quindi, dell’inse-guirsi fra tentativi di risparmio e ricerca della più razionale organizzazione. Per converso, la stessa “flessibilità” è avversata in modo talora non meno aprioristico, quale segno del moderno dispiegarsi del capitalismo aggressivo e della compressione delle ragioni personali dei prestatori di opere, senza che si consideri come i massimi creatori di “precarietà”, i meno controllati e, di fatto, i più protervi siano gli enti pubblici, i quali si trincerano (sovente in modo spregiudicato ed indifendibile, anche dal punto di vista morale) dietro una discutibile giurisprudenza e dietro l’art. 36 del d.lg. n. 165/2001 per conculcare basilari interessi dei lavoratori ed evitare l’applicazione di quelle sanzioni che intimoriscono le imprese.

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Del resto, vi è da chiedersi se sia persuasivo il collegamento tracciato di frequente in modo un po’ meccanico fra “flessibilità” e “precarietà” e se, invece, questa ultima non si colleghi in misura più grave e preoccupante all’apparire ed al naufragare di imprese di incerto futuro e di dubbia soli-dità, alla ricerca di una discutibile collocazione in un panorama economico nel quale l’assenza di un minimo di solidità e di prospettive di profitto a lungo termine lascia spazio a forme di spregiudicato sfruttamento della de-bolezza sociale dei prestatori di opere meno attrezzati dal punto di vista culturale e più indifesi, come emerge in molte aree del commercio, della cooperazione spuria, del facchinaggio di dubbia legittimità, delle prestazio-ni di servizi rese ai limiti della legalità, di iniziative industriali compiute in carenza di adeguate condizioni di sicurezza.

In tali contesti, purtroppo sempre più frequenti, la “precarietà” non è per nulla indotta dalla “flessibilità”, ma dalla stessa carenza di solidità delle imprese e dal loro proporsi e scomparire, in uno spazio tanto più vuoto di diritto quanto, con una scelta addirittura suicida per la tutela degli interes-si di molti dipendenti, il nostro ordinamento rende sempre più difficile la dichiarazione di fallimento e lascia legioni di prestatori di opere di pove-re prospettive professionali in balia delle imprese meno accreditate, senza neppure che esse debbano temere la comparsa di un curatore e le sue veri-fiche sulla gestione pregressa.

Se il tema della “flessibilità” è solo una parte del più ampio argomento della “precarietà” e, nel complesso, non il più delicato, come potrebbero confermare molti facchini, lavoratori del commercio o dipendenti di piccole imprese senza futuro e senza adeguate risorse, il dibattito di questi anni è stato caratterizzato dal contrapporsi, talora emozionale, fra concezioni favorevoli ed in radice contrarie alla nuova regolazione dei modelli nego-ziali. Vi è da chiedersi se la disciplina del contratto individuale possa esse-re piegata al perseguimento di scopi di governo del mercato, ad esempio per facilitare le assunzioni, aumentare il numero di dipendenti, diminuire il ricorso a discutibili negozi di lavoro autonomo.

Oggi, l’autonomia individuale si confronta con la pretesa della disciplina eteronoma e, dunque, in via esclusiva, del legislatore nazionale di gover-nare il mercato con la selezione di modelli negoziali, per sovvenire all’una od all’altra esigenza operativa (vera o pretesa) e, dunque, per incoraggia-re, qualificare o sorreggere l’occupazione complessiva. Per lo più, le figure negoziali “flessibili” soddisfano obbiettivi organizzativi, ma non permettono un incremento della complessiva occupazione, le cui dinamiche quantitative

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sono condizionate dai processi economici, e non dalle scelte prescrittive a favore dell’uno o dell’altro istituto.

L’aumento del loro numero rafforza l’autonomia individuale, poiché ciò conferisce maggiore libertà di scelta all’impresa. Lo stesso non si può dire per il prestatore di opere, sottoposto in modo costante al condizionamento del datore di lavoro, in virtù dell’ovvio potere economico di questo ultimo. A maggiore ragione, tale strategia del nostro ordinamento pone rilevan-ti problemi in tema di libertà, uguaglianza e promozione del lavoro. Se la disciplina di modelli “flessibili” segna un favore evidente per l’autonomia individuale (con strategie non così dissimili fra le diverse maggioranze par-lamentari), questo elemento si aggiunge al più generale confronto fra il contratto collettivo e quello individuale in tema di retribuzione, anche in questo caso con il progressivo affermarsi del secondo a scapito del primo. Vi è da chiedersi se questa linea di tendenza rimarrà stabile nel lungo periodo, come è probabile.

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