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Le interrelazioni tra pianificazione territoriale e pianificazione locale provinciale e comunale a cura di Cinzia Bellone Saggi di Fernanda Avarini Cinzia Bellone Umberto De Martino Luigi Ferri Camillo Nucci Virginia Proverbio Francesca Stifano Roberta Strappini ARACNE

Le interrelazioni tra pianificazione territoriale e pianificazione locale provinciale e comunale

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a cura diCinzia BelloneSaggi diFernanda AvariniCinzia BelloneUmberto De MartinoLuigi FerriCamillo NucciVirginia ProverbioFrancesca StifanoRoberta Strappini

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Le interrelazionitra pianificazione territoriale

e pianificazione locale

provinciale e comunale

a cura diCinzia Bellone

Saggi diFernanda Avarini

Cinzia BelloneUmberto De Martino

Luigi FerriCamillo Nucci

Virginia ProverbioFrancesca StifanoRoberta Strappini

ARACNE

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00173 Romavia Raffaele Garofalo, 133 A/B

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ISBN 88–7999–761–0

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

I edizione: aprile 2004

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LE INTERRELAZIONI TRAPIANIFICAZIONE DI AREA VASTA EPIANIFICAZIONE LOCALE 7Cinzia Bellone

I soggetti della pianificazione territoriale 7Il rapporto tra la pianificazione territoriale regionale eprovinciale. 10Il Piano territoriale di coordinamento e le interrelazioni congli strumenti urbanistici locali 13

1 APPUNTI PER UNA STORIA DELLAPIANIFICAZIONE TERRITORIALE INITALIA 19Umberto De Martino

Le esperienze dalle origini agli anni ’70. 19Le esperienze degli anni ‘70-’90. 27Le più recenti esperienze, dagli anni ’90 ad oggi. 29

2 LE INNOVAZIONI NEL SISTEMA DIRIPARTO DELLE FUNZIONI LEGISLATIVAED AMMINISTRATIVA 37Virginia Proverbio

La transizione dal parallelismo alla sussidiarietà 37Ricadute della riforma del titolo V cost. sul sistema didisciplina giuridica del territorio. 45

ALCUNI CASI ESEMPLIFICATIVI 51

3 LA PIANIFICAZIONE TERRITORIALEPROVINCIALE: IL SUCCESSO DEL CASOMILANO. 53Roberta Strappini

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Indice6

Piani significativi 54Principi ispiratori di natura giuridica del Ptcp approvato 56Formazione, contenuti ed effetti del Ptcp. 58Elaborati costitutivi del Ptcp 59

4 IL PTCP DI FROSINONE ADOTTATO NEL2003: INQUADRAMENTO NORMATIVO 61Luigi Ferri

La pianificazione territoriale della Regione Lazio 63La Pianificazione Territoriale Provinciale 69Attività della Provincia di Frosinone nel campo dellaPianificazione territoriale 70

5 IL PTCP DI FROSINONE ADOTTATO NEL2003: SVILUPPO LOCALE E NUOVIMODELLI INSEDIATIVI 75Camillo Nucci

Il Documento Preliminare d’Indirizzi e il Rapporto sullo statodel territorio 75L’immagine programmatica dell’assetto strutturale delterritorio 78

6 IL PTCP DI ROMA ADOTTATO NEL 1998 83Umberto De Martino

Una premessa di carattere amministrativo 83La costruzione del PTCP di Roma 83Cenni descrittivi 86Evoluzione storica del territorio provinciale. 86I fattori di crisi nel modello di sviluppo tradizionale dell’area 89Le nuove centralità 90La riconversione del modello di sviluppo: diversificazione especializzazione funzionale. 93

7 IL PTCP DI ROMA ADOTTATO NEL 2003 95Fernanda Avarini

Riferimento agli aspetti normativi e procedurali: 95I contenuti e i principi del Piano 96La forma del piano 97

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Le interrelazioni tra pianificazione di area vasta e pianificazionelocale

Cinzia Bellone1

Tra i motivi conduttori delle politiche di riforma avviate nel nostroPaese a partire dai primi anni ’90 per modificare il sistema della piani-ficazione territoriale quello di un nuovo modello delle interrelazionitra i diversi livelli pianificatori ha acquisito una crescente centralitànei programmi governativi. Esso è divenuto uno dei paradigmi fon-damentali sulla base dei quali commisurare i processi di riorganizza-zione della Pubblica Amministrazione ed uno dei principali obiettivida seguire per competere a livello internazionale con gli altri Paesi.

Parlare, in questo particolare momento storico, delle interrelazioni trapianificazione territoriale e locale significa, sì, riprendere in esame lariforma delle autonomie locali, ma significa soprattutto riesaminare iproblemi della pianificazione istituzionale, cioè della formazione edell’attuazione dei piani finalizzati al governo del territorio da partedelle autorità istituzionalmente competenti, in un momento in cuisembra prevalere un modello culturale basato su una generica“deregulation” e sullo sviluppo della città e del territorio per parti eper settori, secondo la logica dell’emergenza permanente (MarcelloVittorini).

I soggetti della pianificazione territoriale

La pianificazione territoriale in Italia è abbastanza recente: nel 1942 lalegge 1150 la “introduce” nella normativa nazionale, dove, però,l’unico e principale attore è rappresentato dallo Stato (il Ministero deiLavori Pubblici).

Agli inizi degli anni ’50 i Provveditorati regionali alle opere pubbli-che, emanazione territoriale decentrata del Ministero dei lavori pub-blici, affrontano, per la prima volta, piani che non sono di tipo locale:

1 arch. Cinzia Bellone, professore a contratto della facoltà di Architettura LudovicoQuaroni dell’Università di Roma La Sapienza, consulente della Provincia di Roma perla redazione del PTCP (1998), consulente della Provincia di Frosinone per la redazio-ne del PTPG (2000-2004).

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l’esperienza non è tra le più brillanti. Molti gli studi, anche di elevataqualità, ma mai un vero strumento di pianificazione e programmazio-ne territoriale sia per il particolare momento politico, sia per la caren-za di organizzazione della struttura amministrativa.

Il DPR 15 gennaio 1972, n. 8, con il quale vengono trasferite alle re-gioni le funzioni amministrative statali in materia di urbanistica e diviabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale, finalmentesembra sancire un definitivo passo in avanti. Le Regioni realizzano iPTR. Ovviamente vengono alla luce le diverse capacità che differen-ziano le varie regioni. A fronte di alcuni casi di consolidata efficienza(per esempio della regione Emilia-Romagna) si manifestano casi dievidente incapacità di darsi uno strumento di assetto territoriale. Com-plessivamente si parla, però, dei PTR come di un mancato successo: ladifficoltà di trasferire le previsioni ed i vincoli della scala regionalealla scala comunale (le scelte di assetto e/o di sviluppo di un ambitoterritoriale vasto quanto una regione possono difficilmente tradursi invincoli diretti recepibili a livello comunale, non fosse altro che per lascala di definizione), l’impossibilità politica di democratizzare il pote-re pianificatorio regionale aprendolo alla partecipazione dei Comunidestinatari del Piano, e molte altre cause legate alla storia complessivadel nostro Paese, hanno fatto riemergere vecchi vizi, che si speravapotessero essere eliminati dal nuovo soggetto politico affidatario dellecompetenze relative alla programmazione economica ed alla pianifi-cazione territoriale. A meno di pochi casi esemplari, infatti, le regionihanno mancato nel fornirsi di uno strumento, preferendo la vecchiaprassi della “navigazione a vista”. Anche nei casi migliori, è mancatoquasi sempre un chiaro ed esplicito raccordo con la pianificazioneterritoriale (e viceversa) (Umberto De Martino).

Il dibattito disciplinare, fino agli anni’90, si è concentrato sulla ricercadi una nuova “dimensione” nella quale articolare le regioni e con laquale pianificare il territorio.La soluzione ottimale per il decentramento amministrativo sembra es-sere, allora, un ente intermedio tra comuni e regioni. Un livello sovra-comunale che funga da “cerniera” fra Regioni e Comuni capace, da unlato, di tradurre gli indirizzi, le direttive e gli standard del Piano Ter-ritoriale Regionale in vincoli e prescrizioni più facilmente recepibilinella pianificazione comunale e, dall’altro, di rappresentare alla Re-gione le necessità dei Comuni, specie di piccole dimensioni.

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Le province, istituzioni storiche nel nostro Paese, con limitati poteri(la viabilità provinciale, i manicomi, gli istituti di istruzione tecnica escientifica, alcune forme di assistenza) sembrano essere gli Enti am-ministrativi più idonei: hanno un governo elettivo (e quindi rappre-sentativo delle comunità locali) ed hanno una struttura di bilancio, siapure con gran parte delle finanze derivate ma anche con alcune fontidi finanziamento diretto; infine la loro dimensione è “giustamente”intermedia tra comune e regione.

Con la legge sulle autonomie locali (l. n.142/90) il processo di riformae di rivalutazione del ruolo degli enti locali porta la Provincia da entecon funzioni residuali ad ente di governo della propria Comunità;“ente locale intermedio tra Comune e Regione” che rappresenta lapropria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove e coordina losviluppo” (art. 2, legge n. 142/90, come sostituito dall’art. 2, co. 1della legge n. 265/1999, oggi trasfuso nell’art. 3 del T.U. n.267/2000).

In tale contesto di rivalutazione del ruolo istituzionale delle Province,la legge n.142/90 ha ridisegnato anche il sistema delle competenze inmateria di pianificazione assegnando i poteri di programmazione, in-dirizzo e coordinamento alla Regione mentre la Provincia provvede“per quanto di propria competenza, alla loro specificazione e attuazio-ne” (art. 15, comma 23 e art. 3, commi 4 e 5 legge n.142/90, ora tra-sfusi nell’art. 20, co. 3 e art. 5, commi 1 e 2 d.lgs. n.267/2000).Il ruolo di quest’ultima è stato, poi, ampliato in modo significativo –conformemente al principio di sussidiarietà - dal d.lgs. n.112/98, (diattuazione della legge n.59/97 cd.Bassanini) che le ha attribuito fun-zioni di coordinamento degli interessi presenti nel proprio territorio e,in particolare, di specifiche competenze in materia urbanistica e dipianificazione territoriale2.

Con la modifica del Titolo V della Costituzione ad opera della leggecost. n. 3/2001, la Provincia ha dignità costituzionale pari a quella deiComuni, delle Città Metropolitane, Regioni e Stato (art. 114, comma 1

2 In tale ottica già la legge n.142/90 ha conferito alla Provincia, quale ente di governolocale a fini generali, fra gli altri, il compito di raccogliere e coordinare le proposteavanzate dai Comuni ai fini della programmazione economica, territoriale e ambien-tale della Regione (ora art. 20, comma 1, lettera a) d.lgs. n.267/2000).

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Cost). Alla pari dignità costituzionale si accompagna la parità di regi-me giuridico di tutti gli enti del governo locale, ai quali viene ricono-sciuta autonomia organizzativa e funzionale (“sono enti autonomi conpropri statuti, poteri e funzioni”, art 114, co. 2 Cost.).

Lo strumento per la definizione e l’attuazione della politica provin-ciale di pianificazione del territorio viene individuato nel Piano Ter-ritoriale di Coordinamento (PTCP) che la Provincia “ferme restando lecompetenze dei Comuni ed in attuazione della legislazione e dei pro-grammi regionali, predispone ed adotta” (art. 20, co 2 d.lgs n.267/2000).Per consentire alla Provincia di espletare effettive azioni di governodel territorio il legislatore le ha attribuito anche specifiche funzioni diamministrazione attiva. L’art. 19 del d.lgs. n.267/2000 dispone, infatti,che “spettano alla Provincia le funzioni amministrative di interesseprovinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l’intero territo-rio provinciale” in una serie di settori, tra cui, per quanto riguardal’assetto territoriale, la difesa del suolo e la tutela e valorizzazionedell’ambiente (lett. a), la tutela e valorizzazione delle risorse idricheed energetiche (lett. b), la viabilità e i trasporti (lett. d). Il rafforza-mento delle attribuzioni pianificatorie attraverso attribuzioni gestionaliè reso ancora più evidente dalla corrispondenza oggettiva tra i settoriin cui la Provincia esercita funzioni amministrative e i settori-contenuto del Piano territoriale di coordinamento (art. 20, comma 2).

Il rapporto tra la pianificazione territoriale regionale e provinciale3.

In ordine al rapporto fra piano territoriale di coordinamento provin-ciale e gli atti di pianificazione regionale, l’art. 20 comma 3 d.lgs.267/2000 dispone che il piano territoriale di coordinamento provin-ciale venga trasmesso alla Regione per l’accertamento di conformitàagli indirizzi regionali di programmazione socio economica e territo-riale.Da tale disposizione, come evidenziato dalla Corte costituzionale(sentenza n.343 del 1991) - adita dalla Regione Toscana per pronun-

3 Questo paragrafo è stato curato dall’avv. Francesca Stifano, giurista esperto in di-ritto urbanistico-edilizio

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ciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’allora art. 15legge n.142/90 (oggi trasfuso nell’art. 20, co 3 citato) - si desume la“necessaria subordinazione” del piano territoriale di coordinamentoprovinciale a quello regionale.In particolare, si legge nella sentenza, “la subordinazione del PTCP, dicui al citato art. 15, a quello regionale, si evince dalla formulazionedel terzo comma dell’articolo stesso ed è confermata sia dal fatto chel’attribuzione della predetta funzione di pianificazione alla Provincia(…) opera ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost. e perciò potràmanifestarsi per aspetti di carattere locale, che presentino (rispetto alquadro generale cui ineriscono) specifiche peculiarità e per i quali siaperciò possibile inserirsi nelle maglie non coperte dal piano di coordi-namento regionale, sia dalla circostanza che ai sensi dell’art. 3, commiprimo e secondo, stessa legge, l’ambito di incidenza del PTCP saràsempre condizionato alla preventiva individuazione da parte delle Re-gioni, del “carattere unitario nei rispettivi territori” delle relative fun-zioni”.Il rapporto tra pianificazione regionale e provinciale è ricostruito daigiudici costituzionali, quindi, in termini di gerarchia (subordinazionedel secondo al primo) e di competenza (ambito di riferimento degliinteressi curati).Per quanto attiene, in particolare, al profilo della competenza secondola Corte, il piano territoriale di coordinamento provinciale deve curareinteressi di carattere esclusivamente locale con specifiche peculiaritàrispetto alla programmazione regionale. I due livelli di pianificazione(regionale e provinciale) pertanto non costituiscono un mero duplicatol’uno dell’altro, come pure si è sostenuto, attenendo ad interessi di di-versa natura.L’assunto, se da un lato è in linea con l’assetto della legge n.142/90,riconoscendo la Provincia quale titolare della cura di determinati inte-ressi, dall’altro, però, dà adito a perplessità. Ciò, in particolare, nellaparte in cui riduce gli interessi riferiti alla funzione di pianificazioneprovinciale a quelli per i quali sia “possibile inserirsi nelle maglie noncoperte dal piano di coordinamento regionale”. Sia che la Corte abbiavoluto definire il rapporto tra interessi locali (provinciali) e regionaliin termini di residualità (per cui la pianificazione provinciale potrebbeattenere solo a ciò che non sia “coperto” dalla pianificazione regiona-le) sia che l’abbia voluto definire in termini di eccezione a regola (percui la pianificazione provinciale costituirebbe eccezione mentre lapianificazione regionale la regola), in ogni caso, infatti, risulterebbe

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sminuito il nuovo ruolo riconosciuto alla Provincia, nonché violato ilprincipio di sussidiarietà.Sotto il profilo del contenuto e dell’efficacia del piano territoriale re-gionale la giurisprudenza costituzionale (Corte Costituzionale, sent.n.378/2000) ha affermato essere “ormai superata” la concezione deipiani territoriali imperniata sulla divisione delle funzioni di pianifica-zione tra Stato e Comuni, che configurava il piano territoriale di coor-dinamento come semplice piano di direttive, operante nei confrontidella pianificazione a livello comunale quale mero strumento di indi-rizzo e di orientamento generale ed avente funzione di esplicazionedel potere di controllo.Questo modello di regolazione del territorio – ha affermato la Corte –deve intendersi ormai sostituito da un sistema di pianificazione miratosoprattutto all’efficacia dei vincoli. Un sistema che, in attuazione delprincipio di sussidiarietà, privilegia il livello più idoneo di pianifica-zione nella protezione di alcuni assetti territoriali ed ambientali indi-viduati. In tale ottica la legislazione statale prevede una serie di istitutianticipatori e di salvaguardia delle prescrizioni programmatiche ri-spetto alla stessa pianificazione definitiva ed al perfezionamento deivincoli. Ciò è stato reso possibile anche dal conferimento alle Regionidi competenze legislative ed amministrative in materia urbanistica ga-rantite dall’art. 117 cost.Né la predisposizione di prescrizioni immediatamente vincolanti già insede di piano territoriale di coordinamento può ritenersi violarel’autonomia riconosciuta ai Comuni dall’art. 118 Cost. “L’autonomiacomunale non implica una riserva intangibile di funzioni e non esclu-de che il legislatore regionale possa, nell’esercizio della sua compe-tenza, individuare le dimensione della stessa autonomia, valutando lamaggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli inte-ressi coinvolti… In realtà, il rispetto delle autonomie comunali devearmonizzarsi con la verifica e la protezione di concorrenti interessigenerali, collegati ad una valutazione più ampia delle esigenze diffusenel territorio: ciò giustifica l’eventuale emanazione di disposizioni le-gislative (statali e regionali) che vengano ad incidere su funzioni giàassegnate agli enti locali (sent n.286 del 1997)”.

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Il Piano territoriale di coordinamento e le interrelazioni con gli stru-menti urbanistici locali

Il PTC introdotto dalla legge 142 (art. 15) è simile solo formalmente aquello della 1150/42: nella legge del ‘90 si richiama nominalmente lanatura e la finalità del PTC della L. 1150 di coordinamento d’area va-sta dei piani urbanistici locali (cioè quella natura che si può definire di“strumento indiretto” che produce effetti prevalentemente per succes-sivo adeguamento dei PRG).La legislazione statale (L. n.142/90 prima, e D.lgs. n.267/2000 poi)non è esaustiva della natura del “nuovo” strumento di pianificazione:deve essere puntualmente completata da leggi regionali che devonoentrare nel dettaglio delle funzioni e dei contenuti dei piani stessi.

Gli artt. 14 e 15 della L. 142/90 fanno avanzare l’ipotesi del PTC co-me un “quadro di riferimento” affermando che esso deve “indicare lelinee d’intervento per la sistemazione idrica , idrogeologica…” piutto-sto che un piano tradizionalmente inteso. Uno strumento flessibile chenon abbia il compito di definire i vari assetti territoriali generali.

Gli artt. 19 e 20 del T.U. 267/2000 sottolineano ancora i principi senzadare ulteriori indicazioni di contenuto: nel regolamentare rispettiva-mente le “funzioni” e i “compiti di programmazione” della Provincia,si limitano, infatti, ad individuare, solo in linea di massima, che cosa ilPiano territoriale di coordinamento dovrà contenere. Al comma se-condo dell’art. 20 citato viene enunciato che il PTC “determina gliindirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica:

a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla preva-lente vocazione delle sue parti;

b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture edelle principali linee di Comunicazione;

c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologicaed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento delsuolo e la regimazione delle acque;

d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve natu-rali”.

L’aspetto procedurale di formazione, adozione ed approvazione delPTCP è rimandato dalla legislazione statale, in linea di massima, alleRegioni, alle quali, però, si è imposto di assicurare il concorso dei

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Comuni in sede di formazione dei piani territoriali di coordinamento(art. 20, co 4 d.lgs. n.267/2000). Con l’uso del termine “concorso” inluogo di “partecipazione” si è voluto presumibilmente dare maggiorerisalto all’esigenza di promuovere intese, accordi, concertazioni etc. e,quindi, attraverso una consultazione preventiva delle varie ipotesi diassetto del territorio formulate dai Comuni che favoriscanol’operatività delle scelte del piano (relative, per esempio, agli impiantinon graditi).

A tal fine alcune Leggi Urbanistiche Regionali prevedono lo stru-mento della conferenza, dove partecipano gli enti locali, le organizza-zioni e le associazioni economico-sociali, alla quale sottoporre le lineefondamentali dello strumento.Nella legge regionale dell’Umbria n.28/1995, modificata dalla leggen.31/1997, agli artt. 15 e 15 bis si parla di conferenza partecipativa cuisono invitate le amministrazioni dello stato interessate al territorioprovinciale, la Regione, i Comuni, la Provincia confinante, i soggettititolari di pubblici servizi, i soggetti portatori di interessi collettivi.Nella legge regionale del Lazio n.38/1999 all’art. 21 si prevede unaconferenza alla quale partecipano gli enti locali, le organizzazioni so-ciali, culturali, ambientaliste, economico-professionali e sindacali ope-ranti a livello provinciale.Ed ancora la legge regionale dell’Emilia Romagna n.20/2000 all’art.27 dispone che per l’esame congiunto del documento preliminare ilPresidente della Provincia convoca una conferenza di pianificazione,chiamando a parteciparvi la Regione, le Province contermini nonché iComuni, le Comunità montane e gli enti di gestione delle aree naturaliprotette interessati.

I poteri decisionali della Provincia in sede di formazione del pianopossono essere di indirizzo o vincolanti. Sono scelte di indirizzo le co-sidette scelte per settori di intervento che lasciano al Comune marginidi decisione circa la collocazione territoriale-spaziale della scelta fattadalla Provincia. Sono, invece, scelte vincolanti le cosidette scelte perambiti territoriali, in cui è ridotto, se non in alcuni casi assente, il mar-gine di decisione del Comune in quanto la Provincia pone vincoli im-mediati nell’interesse generale; vincoli spesso prevalenti su eventualidifformi disposizioni degli strumenti urbanistico-territoriali del Co-mune.

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Dall’esame delle leggi regionali ad oggi emanate è possibile ricostrui-re, pur tenendo presente le peculiarità delle singole normative regio-nali, la regolamentazione della procedura di formazione dei piani ter-ritoriali di coordinamento provinciale.Così, la fase di formazione del piano territoriale di coordinamentoprovinciale generalmente inizia con una conferenza di programmazio-ne con i Comuni interessati, sulla base delle cui risultanze la Provinciaprocede alla redazione di un progetto preliminare da sottoporreall’esame di una nuova conferenza di programmazione in cui intervie-ne anche la Regione.Successivamente, anche in ragione dell’esito della conferenza, la Pro-vincia adotta il piano territoriale di coordinamento provinciale (fase diadozione) e lo deposita presso la sua sede onde consentire agli entiinteressati di formulare eventuali osservazioni entro i termini previsti.Il progetto del piano territoriale di coordinamento provinciale vieneesaminato dalla giunta regionale che si pronuncia sulla sua conformitàagli indirizzi o eventuali prescrizioni del piano territoriale di coordi-namento regionale. In caso di inerzia della Regione si configura unaipotesi di silenzio assenso.La chiusura dell’iter (fase di approvazione) in alcune Regioni è dicompetenza della giunta regionale mentre nella Regione Toscana, è dicompetenza delle Province.

In ogni caso il Piano deve essere conforme agli indirizzi regionalidella programmazione socio economica e territoriale. In tale ottica ilPTC è da un lato condizionato dalle scelte del piano regionale cui de-ve conformarsi, dall’altro è sovraordinato agli strumenti di pianifica-zione territoriale predisposti dai Comuni che devono, a loro volta,conformarsi ad esso.

Per quanto riguarda i rapporti tra la pianificazione territoriale provin-ciale e gli strumenti di pianificazione urbanistica si osserva in via ge-nerale, salvo poi riferirsi alla normativa specifica adottata dalle sin-gole Regioni, che il piano territoriale di coordinamento provinciale peralcuni versi contiene gli indirizzi, le direttive e il coordinamento, peraltri le previsioni e prescrizioni urbanistico-territoriali.Nella fase di formazione/redazione del Piano i poteri decisionalidell’Ente possono tradursi in scelte vincolanti o di indirizzo. Le sceltevincolanti, sono relative, per esempio, agli interessi pubblici di livellosovracomunale o di cui la Provincia, anche in ragione delle nuove

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funzioni di amministrazione attiva e di programmazione attribuitele, èportatrice. La Provincia pone vincoli immediati nell’interesse genera-le; vincoli spesso prevalenti su eventuali difformi disposizioni deglistrumenti urbanistico-territoriali del Comune. Sono scelte di indirizzole cosiddette scelte per settori di intervento che lasciano al Comunemargini di decisione circa la collocazione territoriale-spaziale dellascelta fatta dalla Provincia.

Per quanto detto il piano territoriale di coordinamento provinciale hauna doppia valenza: da un lato si configura quale piano quadro, e, co-me tale, necessita della pianificazione comunale per essere attuato (es.grandi infrastrutture non ancora progettate), dall’altro lato come pianogenerale, e, come tale, reca prescrizioni immediatamente prevalentisugli strumenti di pianificazione comunale ed immediatamente vin-colanti anche nei confronti dei privati (cosiddette “invarianti territo-riali” sulle quali i Comuni hanno, in sede di pianificazione, limitati oaddirittura inesistenti margini di discrezionalità).Così, per esempio, la Legge Regionale della Liguria del 4 settembre1997 n.36, all’articolo 17 afferma che il piano territoriale di coordi-namento provinciale “considerando la totalità del territorio provincia-le, è sede di esplicitazione e di raccordo delle politiche territoriali dipropria competenza, nonché sede di indirizzo e di coordinamento dellapianificazione urbanistica comunale in coerenza con gli atti di pro-grammazione”.La medesima legge specifica poi che il piano provinciale, nelle parti incui imponga vincoli preordinati alla realizzazione di opere pubblichedi interesse provinciale, prevale immediatamente sulle corrispondentiprevisioni e prescrizioni dei piani di livello comunale sostituendole edefinendo contestualmente le utilizzazioni e le trasformazioni del ter-ritorio consentite in attesa dell’attuazione delle opere stesse. In tali i-potesi lo stesso piano può dichiarare, ove ricorrano i presupposti, lapubblica utilità, nonché l’indifferibilità e l’urgenza delle opere da essopreviste.Ed ancora la Legge Regionale del Lazio del 22 dicembre 1999 n.38all’articolo 20 dispone che il piano territoriale provinciale generale -con funzioni di piano territoriale di coordinamento provinciale ai sensidell’allora art. 15 della legge n.142/90 ed attuale art. 20 del d.lgs.n.267/2000 – determina gli indirizzi generali dell’assetto del territorioprovinciale dettando accanto alle disposizioni programmatiche anche

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disposizioni strutturali. Le disposizioni programmatiche stabilisconole modalità ed i tempi di attuazione delle disposizioni strutturali, lequali stabiliscono in particolare, tra l’altro, le prescrizioni di ordineurbanistico-territoriale necessarie per l’esercizio delle competenzedella Provincia.Le prescrizioni immediatamente vincolanti nell’ambito degli aspetti dicompetenza del piano territoriale di coordinamento provinciale si ri-tiene abbiano efficacia temporale limitata in ragione dell’applicazione,in via estensiva, della disposizione di cui all’art. 2 della leggen.1187/1968 che ha disposto la decadenza, decorso il termine di cin-que anni, delle prescrizioni del piano regolatore generale che impon-gono vincoli di inedificabilità o vincoli preordinati all’esproprio. Ciòperaltro non opera nel caso di vincoli connaturati all’essenza del bene(es. vincoli paesistici su beni che hanno il carattere di bellezza natu-rale).La limitazione oggettiva dell’ambito applicativo della norma (ai soliPiani regolatori generali) trova una giustificazione semplicementenella inesistenza, all’epoca della sua emanazione, di piani di livellointermedio. Si può pertanto ritenere che, in considerazione della ratiolegis, il legislatore, nello stabilire il suddetto limite temporale, abbiainteso fare riferimento ai vincoli ablativi comunque imposti.Di conseguenza si ritiene che i vincoli previsti dal piano territoriale dicoordinamento provinciale possano essere attuati solo entro cinqueanni dalla data di approvazione del piano.

Ciò posto, si rammenta che il tema dei rapporti tra piani territorialiprovinciale e atti di pianificazione comunale - sebbene non può dirsiancora esistere un orientamento giurisprudenziale, visto il ridotto nu-mero di contenziosi sviluppatisi - è stato oggetto di una significativapronuncia del Consiglio di Stato (sez. IV, 20 marzo 2000 n.1493).I giudici di Palazzo Spada, in particolare, attesa la natura di coordina-mento e di indirizzo tipico della programmazione intermedia, hannoavuto modo di affermare che “la regolamentazione urbanistica comu-nale non si riduce ad una mera specificazione delle scelte compiute amonte da Regione e Provincia, pur essendo delimitata dal quadro ob-bligatorio adottato dall’ente titolare di poteri di coordinamento. Per-tanto il piano provinciale non può imporre soluzioni in ambiti di e-sclusiva spettanza comunale o sostituire con scelte della Provinciaquelle già formalizzate in modo puntuale dai Comuni con proprie de-

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terminazioni, imponendo modificazioni che non siano riconducibili aduno specifico interesse pubblico riservato alla Provincia”.Il governo del territorio, si legge nella sentenza, è in definitiva artico-lato su una pluralità di poteri, di sicura valenza politica, insediati nellerispettive Comunità di riferimento e caratterizzati, peraltro, dal princi-pio di sussidiarietà che stabilisce la sostanziale riconducibilitàdell’intero complesso di scelte e di compiti relativi ad una dimensioneterritoriale dell’ente esponenziale della relativa Comunità.Così, affermano i giudici di Palazzo Spada, atteso che il piano territo-riale di coordinamento provinciale è atto di indirizzo, lo stesso nonpuò introdurre nel PRG di un Comune, con forza innovativa e cogen-te, prescrizioni e vincoli privi di una specifica causale legislativa onon riferibili ad una attribuzione riservata della Provincia stessa.La sentenza, pertanto, nell’ottica di quanto affermato nell’articolo 20,co 2 del d.lgs. n.267/2000 che, nel conferire alla Provincia il potereprimario di pianificazione, fa espressamente salve le competenze deiComuni, esclude che la Provincia possa introdurre, per forza propria,modificazioni alla pianificazione comunale.Resta, comunque, salvo il compito assegnato alla Provincia di accerta-re, in ogni caso, la compatibilità degli strumenti di pianificazione ter-ritoriale predisposti dai Comuni con le previsioni del piano territorialedi coordinamento, ai fini del coordinamento e della approvazione ditali strumenti comunali (art. 20. comma 5 d.lgs. n.267/2000).I Comuni, inoltre, nell’esercizio della attività di pianificazione devonoconformarsi ai piani territoriali di coordinamento delle Province.

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1 APPUNTI PER UNA STORIA DELLA PIANIFICAZIONE

TERRITORIALE IN ITALIA

Umberto De Martino4

La storia della pianificazione territoriale è in Italia abbastanza recentee si potrebbe articolare in tre periodi.Le esperienze dalle origini agli anni ’70, per le quali l’attore principaleè lo stato.Le esperienze degli anni ‘70-’90, per le quali gli attori principali sonole regioni.Le più recenti esperienze, dagli anni ’90 ad oggi, per le quali, pur inpresenza di un ruolo principale delle province, non è più facilmenteindividuabile un unico attore al quale attribuire la completa paternitàdella pianificazione-gestione del piano.

Le esperienze dalle origini agli anni ’70.

Com’è noto è solo con la legge urbanistica n. 1150 del 17 agosto 1942che nel panorama legislativo italiano compare per la prima volta lapianificazione territoriale.I contenuti urbanistici della precedente legge 25 giugno 1865, n. 2359(sull’espropriazione per pubblica utilità) si erano infatti limitatiall’ambito comunale, con i Piani regolatori edilizi (Capo VI) e con iPiani di ampliamento (Capo VII).Tuttavia prima della legge urbanistica del 1942 vi sono state esperien-ze, in campo nazionale e internazionale, che hanno contribuito a defi-nire i contenuti della legge stessa in materia.In campo internazionale, per esempio, si deve fare riferimentoall’esperienza dei Polders olandesi. Dovendosi procedereall’individuazione di ambiti territoriali ai quali allargare l’ottica delpiano regolatore dei primi anni ’30, al fine di inquadrare Amsterdamin un più vasto ambito territoriale e di precostituire una riserva di spa-zi per l’attività produttiva e la futura urbanizzazione, venne redatto unpiano di area vasta che connetteva fortemente il territorio delle città

4 prof. Umberto De Martino, professore ordinario della facoltà di Architettura Lu-dovico Quaroni dell’Università di Roma La Sapienza

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che contornavano lo Zuiderzee (Amsterdam prima di tutte, ma ancheHilversum e altre) con le nuove terre conquistate al mare.Gli elementi principali di questo piano riguardavano: la nuova viabi-lità ed il suo raccordo con quella esistente (strade principali, strade dicollegamento, ferrovie); le zone da destinare ad attività produttiveprimarie; le zone boschive e incolte da destinare a conservazione; larete delle nuove città, dal capoluogo dei Polders (Lelystadt) al sistemadi centri urbani gerarchicamente organizzati, nonché le aree internealla zona urbana.In Italia vi era stata negli anni ‘36-’37 l’esperienza pilota del Piano re-golatore della Valle d’Aosta, redatto dalle migliori firmedell’architettura dell’epoca (G.L. Banfi, L.B. di Belgiojoso, P. Botto-ni, L. Figini, E. Peressutti, G. Pollini, E.N. Rogers) su iniziativa di A-driano Olivetti5 ma la connessione più diretta tra esperienze proget-tuali e il successivo (e conseguente) articolato legislativo del 1942 sideve far riferire al caso delle bonifiche che si andavano concludendoin Italia in attuazione della legge Serpieri.Tra queste particolarmente significativa è stata l’esperienza della boni-fica pontina, applicata ad uno specifico territorio segnato da una parti-colare problematica (la bonifica idraulica e la riutilizzazione agricola).Anche in questo caso, come nell’esperienza similare dei Polders olan-desi, si è conquistato un nuovo territorio, solcato da un nuovo sistemainfrastrutturale (strade di vario livello e funzione, canali idraulici e ac-quedotti, rete elettrica) con una immissione di nuovi residenti insediatiin una struttura gerarchica di nuove città costituite dalla capitale delterritorio bonificato (Littoria oggi Latina) e da vari centri superiori(Pomezia, Aprilia, Sabaudia) fino ad una fitta rete di borghi agricoli.Un territorio destinato prevalentemente alla produzione agricola e conuna riserva significativa dell’ambiente preesistente che poi costituiràla parte prevalente del Parco del Circeo.I due articoli (5 e 6) che nella L.U. del 1942 sono dedicati ai Piani ter-ritoriali di coordinamento, nascono da questa esperienza6. Ma sono

5 Carlo Olmo (a cura di), “Costruire la città dell’uomo. Adriano Olivetti el’urbanistica”, Edizioni di Comunità, Torino, 2001

6 Art. 5. Formazione ed approvazione dei piani territoriali di coordinamento.Allo scopo di orientare e coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinateparti del territorio nazionale, il Ministero dei lavori pubblici ha facoltà di provvedere,su parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, alla compilazione di piani terri-toriali di coordinamento fissando il perimetro di ogni singolo piano.

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anche diretta conseguenza del momento storico, politico, culturale nelquale hanno visto la luce. Come per la restante parte della legge, in-fatti, l’attore principale è rappresentato dallo stato (il Ministero dei la-vori pubblici) in una visione verticistica tipica del periodo.Si tratta di un piano sovraordinato, redatto senza alcuna partecipazionedegli enti locali, calato dall’alto e approvato senza prevedere alcunafase di osservazioni da parte della collettività.La guerra e la successiva ricostruzione hanno ritardato l’avvio (anche)della pianificazione territoriale in Italia. Quando poi ci si è avviati allasua attuazione, ci si è trovati a dover applicare la L.U. in un contestopolitico del tutto diverso da quello del 1942.Comunque, all’inizio degli anni ’50 i Provveditorati regionali alle ope-re pubbliche, emanazione territoriale decentrata del Ministero dei la-vori pubblici, iniziarono un po’ in tutta Italia ad affrontare questo li-vello di piano.L’esperienza non è andata a buon fine, per una serie di motivi. Anzi-tutto il Ministero dei lavori pubblici (e per esso i Provveditorati) nonera mai stato, in Italia, un dicastero con compiti di pianificazione. Es-

Nella formazione di detti piani devono stabilirsi le direttiva da seguire nel territorioconsiderato, in rapporto principalmente:

− alle zone da riservare a speciali destinazioni ed a quelle soggette a specialivincoli o limitazioni di legge;

− alle località da scegliere come sedi di nuovi nuclei edilizi od impianti diparticolare natura ed importanza;

− alla rete delle principali linee di comunicazione stradali, ferroviarie, elettri-che, navigabili esistenti e in programma.

I piani, elaborati d’intesa con le altre Amministrazioni interessate e previo pare delConsiglio superiore dei lavori pubblici, sono approvati con decreto Reale su propostadel Ministro per i lavori pubblici, di concerto col Ministro per le comunicazioni,quando interessino impianti ferroviari, e col Ministro per le corporazioni, ai fini dellasistemazione delle zone industriali nel territorio nazionale.Il decreto di approvazione viene pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno, ed alloscopo di dare ordine e disciplina anche all’attività privata, un esemplare del piano ap-provato deve essere depositato, a libera visione del pubblico, presso ogni Comune ilcui territorio sia compreso, in tutto o in parte, nell’ambito del piano medesimo.Art. 6. Durata ed effetti dei piani territoriali di coordinamento.Il piano territoriale di coordinamento ha vigore a tempo indeterminato e può esserevariato con decreto Reale previa la osservanza della procedura che sarà stabilita dalregolamento di esecuzione della presente legge.I Comuni, il cui territorio sia compreso in tutto o in parte nell’ambito di un piano ter-ritoriale di coordinamento, sono tenuti ad uniformare a questo il rispettivo piano re-golatore comunale.

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so era stato sempre utilizzato per la realizzazione di specifiche opere(scuole, ospedali, strade, dighe, porti, eccetera) decise, localizzate efinanziate dallo stato. In particolare questo organismo, e ancor più lesue strutture regionali decentrate, mancavano di esperienza e di perso-nale preparato in campo urbanistico7. Tanto più, quindi, per una atti-vità urbanistica così particolare come quella della pianificazione ter-ritoriale che, come dice Dino Borri8, è un “processo di formulazione egestione di un piano al livello di un territorio più o meno ampio (defi-nito in base a perimetrazioni amministrative o di altro tipo), finaliz-zato al conseguimento di obiettivi generali di sviluppo economico esociale della comunità, di uso ottimale delle risorse, di protezione edassetto ottimale dell’ambiente”.Questo tipo di processo, tra l’altro, postula l’esistenza di un decisorepolitico (non tecnico) che formuli obiettivi, che scelga possibili opzio-ni, che allochi le risorse disponibili rispetto a programmi articolati neltempo, che risponda delle sue scelte rispetto ad una cittadinanza che logiudicherà al momento del voto. Insomma tutti compiti che non sonopropri di un organismo tecnico-esecutivo.Un piano urbanistico, poi, comunale o territoriale, richiede la disponi-bilità delle risorse necessarie per la realizzazione delle opere in essoprogrammate, risorse che fanno capo ad una miriade di organismi di-versi ma non ai Provveditorati regionali alle OO.PP.Si avviò quindi una esperienza, più che di pianificazione, di analisidello stato di fatto, di valutazione delle carenze e dei fabbisogni, distudio delle tendenze in atto, che i Provveditorati non riferirono a“determinate parti del territorio nazionale” ma all’intero territorio diloro competenza, alle regioni, avendo come riferimento una specificapubblicazione edita dal Ministero dei lavori pubblici9 dove venivanofornite indicazioni per la raccolta dei dati statistici (in una elencata ti- 7 Secondo la nota definizione datane da Giovanni Astengo, l’urbanistica studia tutti gliaspetti dei fenomeni urbani, anche al fine di “pianificare il loro sviluppo sia attraversol’interpretazione, il riordino, il risanamento, l’adattamento funzionale di aggregati ur-bani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso la riforma el’organizzazione ex novo dei sistemi di raccordo degli aggregati fra loro e conl’ambiente naturale (Giovanni Astengo, voce “Urbanistica” dell’Enciclopedia Univer-sale dell’Arte, vol. XV).

8 Dino Borri, “Lessico urbanistico”, Edizioni Dedalo, Bari, 1985.

9 Ministero dei lavori pubblici, “Criteri di indirizzo per lo studio dei piani territorialidi coordinamento in Italia”, 1953.

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pologia di settori) e per la loro elaborazione fino alla definizione dellascala della rappresentazione grafica. Il Ministero continuava ad assu-mere un ruolo centralistico, che doveva favorire il suo compito di e-saminatore dei piani, senza tener conto delle enorme diversità - eco-nomiche, dimensionali, sociali- che caratterizzavano le regioni italia-ne.Per la verità all’inizio vi fu un caso di libertà interpretativa e di mag-giore aderenza ai dettami della L.U., in particolare (ma non solo) perquanto riguarda l’individuazione dell’ambito di applicazione del pianoterritoriale (determinate parti del territorio nazionale e non le regionitout court). E’ quello dello “studio territoriale della regione marsica-na”, correttamente definito studio e non piano, e dove al termine“regione” bisogna ovviamente dare un significato geografico e nonamministrativo. Si tratta di uno studio affidato all’inizio degli anni ’50dal Provveditorato ad un gruppo di giovani e validi urbanisti (Leonar-do Benevolo, Mario Coppa, Federico Gorio, Giampaolo Rotondi, Mi-chele Valori e Marcello Vittoriani), pubblicato nel 195510.Esso iniziava individuando l’area ottimale di studio, comprendente ilterritorio di recente bonifica del lago Fucino e la corona di monti cir-costanti ove era insediata la popolazione che, successivamente, oltre acontinuare ad emigrare in altre regioni, si trasferì parzialmente nelleterre bonificate. Nello studio si descriveva poi lo stato del territorio,con riferimento all’andamento demografico, al rapporto popolazione-servizi e infrastrutture, al rapporto popolazione reddito11.Pur senza arrivare ad un piano vero e proprio, dall’analisi tra la demo-grafia e il reddito ricavabile dall’uso del suolo ne derivava un surplusdi disoccupazione e, in modo esplicito, in assenza di nuovi interventistrutturali, l’esigenza di dover continuare a ricorrere all’emigrazione.Come alternativa si prospettava l’apertura verso altre e nuove fonti direddito (come il turismo, allora agli albori, e l’industria) allargandoperò il bacino di analisi e di lavoro alle circostanti zone utilizzabili per

10 Ministero dei lavori pubblici, Provveditorato alle opere pubbliche per l’Abruzzo,“Studio territoriale sulla regione marsicana”, Roma, Istituto poligrafico dello Stato,1955.

11 Ne deriva uno spaccato della situazione di una regione depressa italiana nel primodopoguerra oggi difficile da immaginare per le nuove generazioni. Data la difficoltà direperire la pubblicazione citata è comunque significativa la lettura del famoso roman-zo di Ignazio Silone, Fontamara.

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attività sportive e ricreative bistagionali e, per lo sviluppo industriale,alla valle del Pescara fino all’Adriatico.Per il resto i Provveditorati produssero non piani territoriali ma analisiconoscitive, talvolta approfondite, che comunque risultarono utili perla conoscenza del territorio e delle sue recenti trasformazioni. A talfine, per mancanza di idonee strutture specializzate al loro interno, sirivolsero quasi sempre a professionisti di nota competenza. Ad esem-pio il Provveditorato alla Campania affidò una serie di studi economi-ci a qualificati studiosi come Nino Novacco, Manlio Rossi Doria eFerdinando Ventriglia ed altri, nonché studi urbanistici a studiosi al-trettanto qualificati, tra i quali Carlo Cocchia, Corrado Beguinot, Do-menico Andriello12.Ma per quanto approfonditi tali studi non potevano trasformarsi inpiani veri e propri per le motivazioni sopra riportate.Sempre più ci si rendeva conto che i piani urbanistici (comunali maancor più quelli territoriali di coordinamento) dovevano essere redatticon riferimento alla programmazione economica del territorio di com-petenza. Tanto è vero che nel 1960 l’Istituto Nazionale di Urbanistica(INU) presentò al congresso nazionale tenutosi a Roma una propostadi nuova legge urbanistica nella quale questi principi venivano espli-citamente espressi. Tuttavia il momento politico nazionale (a cavallotra gli anni ’50 e ’60) non era ancora favorevole. La contrapposizionetra i blocchi conservatore e progressista era molto forte, in un clima diguerra fredda mondiale. Il liberismo del dopoguerra aveva prodotto unnotevole sviluppo economico, pur esaltando i divari e le sacche di e-marginazione (si vedano le emigrazioni di milioni di persone dal Me-ridione all’estero e nelle zone del triangolo industriale italiano).Da più parti, non soltanto dalla sinistra ma anche dal mondo cattolico,avanzava la richiesta di una maggiore giustizia sociale e di una mi-gliore utilizzazione delle risorse per mezzo di una politica di pro-grammazione. Nacque così all’inizio degli anni ’60 il primo governodi centro-sinistra e venne istituito il Ministero per la programmazioneeconomica.Anche in questo caso, come già abbiamo visto per la nascita della leg-ge urbanistica del 1942, l’istituzione del nuovo Ministero era statapreceduta da varie iniziative che ne prepararono il terreno, tra le quali:il piano Vanoni, alla fine degli anni ’50; la relazione di Giulio Pastore,

12 Ministero dei lavori pubblici, Provveditorato OO.PP. Campania e Molise, “Pianoregionale della Campania”, 5 voll. Napoli, 1956

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presidente del comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, presentata nel1961; la “Nota aggiuntiva” presentata da Ugo La Malfa nel 196213.Tuttavia è solo con la nascita del nuovo Ministero che si avvia la pro-grammazione economica, sia a livello nazionale (col “Progetto di pro-gramma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-69” presen-tato dal Ministro Pieraccini, ed approvato come “Programma econo-mico nazionale 1966-70”) che a livello regionale.Anche a livello regionale, infatti, si capì che era necessario riferire ipiani territoriali di coordinamento redatti dal Ministero dei lavori pub-blici ad un quadro economico di sviluppo che non poteva essere de-mandato al Ministero stesso. In attesa che venissero istituite le regioni(organo democratico a ciò abilitato) furono quindi nominati con de-creto del Ministero del bilancio i Comitati regionali per la program-mazione economica (CRPE), composti dai presidenti delle province,dai sindaci dei comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti,dai presidenti delle Camere di commercio, da esperti, da funzionaridelle amministrazioni centrali, da rappresentanti dei sindacati dei la-voratori e delle organizzazioni degli imprenditori. I CRPE nel periodo1966-’69 portarono avanti in ogni regione studi e ricerche sulle varierealtà regionali, finalizzati alla redazione di progetti regionali di svi-luppo. Insieme a questi vennero anche avanzate ipotesi di assetto ter-ritoriale regionale che, tra l’altro, vennero utilizzate dagli organi na-zionali della programmazione per una ipotesi di assetto territoriale ar-ticolato regionalmente14.Ma anche questa esperienza, pur rappresentando un passo in avanti,non poteva arrivare a conclusione in quanto i CRPE, oltre a non essereprovvisti di risorse proprie, non erano organi elettivi e quindi non era-no rappresentativi della volontà popolare; in sostanza non potevanoassumere direttamente decisioni. Resta comunque, anche in questo ca-so, un bagaglio di studi, di conoscenze, di proposte che hanno rappre-sentato un fertile terreno per i successivi sviluppi della pianificazionedi area vasta.

13 Per l’analisi di queste vicende si rinvia a: Manin Carabba, “Un ventennio di pro-grammazione 1954/1974”, Editore Laterza, Bari, 1977.

14 Ad esempio nel Lazio venne redatta dal Provveditorato alle OO.PP. e presentato alCRPE nel 1967 una “Ipotesi di assetto territoriale per il programma regionale di svi-luppo”, a cura di un gruppo di esperti coordinati da Luigi Piccinato.

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Successivamente le vicende dalla pianificazione economica seguironofasi alterne, connesse alla vita politica italiana, agli “anni di piombo”,alla nascita dei movimenti e delle lotte per la casa.Dal punto di vista disciplinare, però, si deve registrare un indubbiosuccesso culturale. Per la prima volta, infatti, mentre si avviava il di-battito per la redazione di un secondo programma economico nazio-nale, sulla base di un “Rapporto preliminare al programma economiconazionale 1971-‘75”, più noto come “Progetto ‘80” gli studi di pro-grammazione economica vennero accompagnati da un lavoro direttodall’Istituto di studi per la programmazione economica – ISPE – e af-fidato a un gruppo di esperti presso il centro di studi e piani economici(tra i quali F. Archibugi, A. Busca, V. Cabianca, M. Di Palma, B. Fer-rara, A. Lacava, C. Morelli, P. Moroni, O. Piacentini) dal titolo “Leproiezioni territoriali del Progetto’80”15, che venne inserito nel citato“Rapporto preliminare”. Il lavoro dell’ISPE veniva illustrato con unaserie di cartografie nelle quali, preso atto del “modello di assetto ter-ritoriale attuale”, quale derivava dall’analisi dello stato di fatto, si a-vanzava un “proposta di un modello programmatico”, quale si sarebberealizzato a seguito delle azioni previste nel programma economico. Inparticolare venivano anche proposte modalità di attuazione, sia delmodello programmatico per i sistemi metropolitani e per il sistemarelazionale, sia del modello per il sistema delle aree per il turismo e iltempo libero.Per la prima volta, nel momento più alto e mai più raggiunto del di-battito sulla programmazione economica nel Paese, si realizzò un e-semplare raccordo con la pianificazione territoriale. Dopo di alloraquesta tensione si annullò, in parte per l’esaurirsi della spinta riforma-trice dei partiti della sinistra nella ricerca di nuove formule di governo(gli equilibri più avanzati, il compromesso storico) e in parte per lanascente iniziativa delle regioni, i nuovi soggetti democratici che ver-ranno incaricati dalla programmazione economica e della pianifica-zione territoriale in un’ottica di decentramento dei poteri.Non è possibile tuttavia concludere questa prima parte dedicata allapianificazione territoriale in Italia fino agli anni ’70 senza citarel’esperienza di alcuni piani territoriali effettivamente redatti e realiz-

15 Ministero del bilancio e della programmazione economica, Centro di studi e pianieconomici, “Le proiezioni territoriali del Progetto ‘80”, Collana di studi e ricerche,1971.

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zati: i piani delle aree di sviluppo industriale istituiti dalla Cassa per ilMezzogiorno.Esaurita la prima fase di infrastrutturazione diffusa e di interventi “apioggia”, con la legge n. 717 del 1965 si consentì alla Cassa di con-centrare i propri interventi attorno a “poli di sviluppo”. Nacquero così,in ben definiti punti del territorio meridionale, le aree di sviluppo in-dustriale (ASI) il cui assetto territoriale venne affidato alla redazionedi PTC ai sensi della legge urbanistica del 1942, sovraordinati allapianificazione comunale.

Le esperienze degli anni ‘70-’90.

Con il DPR 15 gennaio 1972, n. 8, vengono trasferite alle regioni lefunzioni amministrative statali in materia di urbanistica e di viabilità,acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale.Naturalmente ci sono voluti alcuni anni per le messa a regime di que-sti nuovi organismi: per la formazione di una nuova classe politica;per l’organizzazione delle strutture tecniche-amministrative, in granparte composte da personale proveniente dalle più varie amministra-zioni; per risolvere i problemi logistici.Così come c’è voluto un certo tempo per predisporre e approvare lenecessarie leggi urbanistiche regionali, tempo che è stato assai diversodi caso in caso16.Comunque sia, l’entrata in campo delle regioni ha rafforzato la dimen-sione regionale della pianificazione territoriale e quasi tutte le nuoveamministrazioni, chi prima chi dopo, hanno avviato la redazione dipiani territoriali di coordinamento. Anche in questo caso sono venutealla luce le diverse capacità che differenziano le varie regioni. Afronte di alcuni casi di consolidata efficienza (per esempio della re-gione Emilia-Romagna) si sono manifestati casi di evidente incapacitàdi darsi uno strumento di assetto territoriale.Sono venuti a galla vecchi vizi, che si sperava potessero essere elimi-nati dal nuovo soggetto politico al cui interno venivano accomunate lecompetenze sia della programmazione economica che della pianifica-zione territoriale. A meno di pochi casi esemplari, infatti, le regionihanno mancato nel fornirsi di uno strumento di programmazione eco-

16 Ad esempio, nel Lazio la prima legge urbanistica è stata approvata nel 1999 mentre,nello stesso tempo, altre regioni sono passate attraverso più esperienze legislative.

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nomica, preferendo la vecchia prassi della “navigazione a vista”. Maanche nei casi migliori, è mancato quasi sempre un chiaro ed esplicitoraccordo con la pianificazione territoriale (e viceversa).In realtà, anche se non sono mancati esempi di studi approfonditi e diproposte complessive di assetto, il problema in cui si sono trovate adibattere le regioni è stato per molto tempo quello della ricerca delladimensione ottimale delle aree da sottoporre a PTC. Mentre in alcunipochi casi (Umbria, Friuli V.G.) veniva confermata la dimensione re-gionale, in molte altre regioni, specialmente in quelle di più elevatadimensione territoriale, ci si rese presto conto che un PTC non potevaessere applicato a territori così estesi e si tentò di articolare il piano inaree più ridotte di livello comprensoriale.Infatti il dibattito di quegli anni si era concentrato sulla ricerca di unanuova “dimensione” nella quale articolare le regioni: i comprensori.Quasi come reazione al centralismo, all’autoritarismo, all’imposizionedall’alto, ci fu un grande impegno politico e civile per favorire la par-tecipazione dei cittadini, in particolare nella gestione dei servizi so-ciali: le scuole, gli ospedali, gli impianti sportivi. Nacquero i distrettiscolastici, le ASL, i bacini ottimali per la gestione di particolari servi-zi, dimensionati su ambiti non troppo piccoli per consentire al lorointerno la pluralità delle offerte (ad esempio tutti i livelli di scuole finoalle superiori comprese) ma allo stesso tempo non troppo grandi perconsentire alle comunità dei cittadini di partecipare alla loro gestione.I territori di molte regioni (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagma,Lazio, eccetera) vennero articolati e suddivisi per comprensori, luogoe dimensione ottimale per la pianificazione dei servizi. In conseguenzasi passò ad una articolazione per comprensori in molti piani territorialiregionali. Ad esempio la regione Lazio, con deliberazione n. 155 del1976, approvò la suddivisione del proprio territorio in 19 comprensorieconomico-urbanistici, riferimento per il programma di sviluppo re-gionale 1977-1981.Ma anche la articolazione del PTC in piani comprensoriali non si ri-velò feconda. In parte perché la loro dimensione limitata, se poneva inprimo piano il problema del soddisfacimento dei servizi, era peròtroppo piccola per un quadro di sviluppo economico integrato. Ma, efondamentalmente, perché i comprensori, organi non elettivi, non a-vevano alcun potere, politico ed economico, nella scelta degli obietti-vi, nella disponibilità delle risorse, nella gestione del piano.Per alcuni anni, mentre con alterna fortuna e con più o meno convintoimpegno, a seconda delle specifiche realtà regionali, si conduceva