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1 Recensione del libro di Mauro Di Meglio. La parabola dell’eurocentrismo. Grandi narrazioni e legittimazione del dominio occidentale. Asterios Editore, Trieste, 2008, pagg. 198. di Cristina Carpinelli Nel libro è descritta la parabola dell’eurocentrismo intesa come storia dell’ascesa, dell’affermazione e dell’attuale declino di una grande narrazione della storia del mondo che, a partire dal XIX secolo e attraverso continue riformulazioni in risposta al mutamento delle esigenze organizzative, ha sostenuto e legittimato il ruolo dominante dell’Occidente sulla scena mondiale. Ed è anche la storia delle illusorie aspirazioni e promesse universalizzanti dei saperi eurocentrici, del loro essere parabola nel senso di narrazione dal contenuto morale. È un libro che vuole denunciare la “disuguaglianza” storiografica fra l’Europa (l’Occidente) e il resto del mondo. Un obiettivo, credo, pienamente raggiunto dall’autore, anche se ritengo che nel conseguirlo, Mauro Di Meglio abbia proceduto a delle semplificazioni tali da non far emergere con maggiore energia le contraddizioni e gli antagonismi presenti nello stesso blocco occidentale, e il ruolo forte dell’Urss nel contrastare il dominio statunitense nel mondo. Al di là di un ragionamento che “regge” sulla collusione tra i due blocchi di potere (sovietico e americano) per quanto riguarda la condivisione del dogma illuminista dell’esistenza di un processo storico universale verso la modernità - stadio supremo della storia -, l’esperienza storica dei due blocchi segna, tuttavia, delle differenze profonde e inconciliabili, soprattutto in relazione al loro porsi nei confronti del Terzo mondo. Differenze che, penso, abbiano inciso molto nel cammino storico dell’umanità, e che avrebbero dovuto essere evidenziate dall’autore, il quale invece si concentra troppo sull’impalcatura teorica americana riguardo alla convergenza dei due blocchi di potere (le cui radici starebbero appunto negli elementi comuni alla loro concezione della modernità): un’impalcatura che, partendo dall’assunto della fine delle ideologie, giustificherà la superiorità delle società democratiche liberali, rispetto all’attrazione esercitata dall’idea di giustizia anti-capitalistica e dall’impegno per l’uguaglianza economica e sociale espressi dalle società socialiste. Certo, a un certo punto l’Urss implode proprio perché crolla la prospettiva propagandata per decenni di un benessere (in primis economico) diffuso, universale; e l’implosione è essenzialmente dovuta a cause interne al sistema. Tuttavia, una dose di “responsabilità” è, secondo me, addebitabile anche al grande fardello sostenuto da quel paese per aiutare quelli sottosviluppati del Terzo mondo costantemente ricattati, distrutti o piegati dal ricatto del debito da parte del gigante americano e delle istituzioni finanziarie internazionali (FMI e BM). Non credo che questo “ingrato” compito, che spettò all’Unione sovietica, sia da ricondurre “tout court” ad un piano sovietico meramente espansionistico per spartirsi nel “grande gioco” tra le due potenze le diverse aree d’influenza del mondo. Come non ricordare, ad esempio, il grande impulso fornito dall’Unione sovietica, prima e dopo il secondo conflitto mondiale, al movimento anticolonialista e antirazzista, il fatto che questo paese fu un punto di appoggio per le lotte anticoloniali durante tutto il XX secolo, e per contro l’apporto determinante dei magnati dell’industria, dei grandi proprietari fondiari e dei banchieri occidentali (compresi quelli di Wall Street) alla caduta della repubblica di Weimar e all’ascesa inarrestabile del potere del Terzo Reich impegnato a riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, o le rivolte dei popoli coloniali in Sud Africa e negli Usa, che si ribellavano allo stato razziale e al regime di “white supremacy”? Detto ciò, il grande merito del libro rimane quello di aver tracciato con lucidità intellettuale un lungo percorso di demistificazione della storia dell’Occidente capitalistico moderno (di cui viene di seguito riportata una sintesi) reputato ancora oggi da molta parte dell’umanità come l’unico modello di società soddisfacente, se non ideale. 1. L’Europa al centro L’identità europea si è forgiata dapprima in opposizione all’Asia colta ma dispotica, in seguito all’Islam o ai popoli che continuavano a giungere dalle steppe dell’Asia centrale, da ultimo, nell’età dell’espansionismo coloniale e delle missioni, all’America, all’Oceania e all’Africa, abitate da tribù di “selvaggi”. Ancora nel corso del XVIII secolo, prima che il declino dell’Oriente asiatico e la concomitante “rivoluzione industriale” producessero quella che è stata definita “la grande divergenza” (the great divergence), la percezione dominante che l’Europa aveva dell’Oriente, in

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Libro: La parabola dell’eurocentrismo. Grandi narrazioni e legittimazione del dominio occidentale. Asterios Editore, Trieste, 2008, pagg. 198.Autore: Mauro Di Meglio.Recensione del libro di CRISTINA CARPINELLI "Nel libro è descritta la parabola dell’eurocentrismo intesa come storia dell’ascesa, dell’affermazione e dell’attuale declino di una grande narrazione della storia del mondo che, a partire dal XIX secolo e attraverso continue riformulazioni in risposta al mutamento delle esigenze organizzative, ha sostenuto e legittimato il ruolo dominante dell’Occidente sulla scena mondiale.......".

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Recensione del libro di Mauro Di Meglio. La parabola dell’eurocentrismo. Grandi narrazioni e legittimazione del dominio occidentale. Asterios Editore, Trieste, 2008, pagg. 198. di Cristina Carpinelli Nel libro è descritta la parabola dell’eurocentrismo intesa come storia dell’ascesa, dell’affermazione e dell’attuale declino di una grande narrazione della storia del mondo che, a partire dal XIX secolo e attraverso continue riformulazioni in risposta al mutamento delle esigenze organizzative, ha sostenuto e legittimato il ruolo dominante dell’Occidente sulla scena mondiale. Ed è anche la storia delle illusorie aspirazioni e promesse universalizzanti dei saperi eurocentrici, del loro essere parabola nel senso di narrazione dal contenuto morale. È un libro che vuole denunciare la “disuguaglianza” storiografica fra l’Europa (l’Occidente) e il resto del mondo. Un obiettivo, credo, pienamente raggiunto dall’autore, anche se ritengo che nel conseguirlo, Mauro Di Meglio abbia proceduto a delle semplificazioni tali da non far emergere con maggiore energia le contraddizioni e gli antagonismi presenti nello stesso blocco occidentale, e il ruolo forte dell’Urss nel contrastare il dominio statunitense nel mondo. Al di là di un ragionamento che “regge” sulla collusione tra i due blocchi di potere (sovietico e americano) per quanto riguarda la condivisione del dogma illuminista dell’esistenza di un processo storico universale verso la modernità - stadio supremo della storia -, l’esperienza storica dei due blocchi segna, tuttavia, delle differenze profonde e inconciliabili, soprattutto in relazione al loro porsi nei confronti del Terzo mondo. Differenze che, penso, abbiano inciso molto nel cammino storico dell’umanità, e che avrebbero dovuto essere evidenziate dall’autore, il quale invece si concentra troppo sull’impalcatura teorica americana riguardo alla convergenza dei due blocchi di potere (le cui radici starebbero appunto negli elementi comuni alla loro concezione della modernità): un’impalcatura che, partendo dall’assunto della fine delle ideologie, giustificherà la superiorità delle società democratiche liberali, rispetto all’attrazione esercitata dall’idea di giustizia anti-capitalistica e dall’impegno per l’uguaglianza economica e sociale espressi dalle società socialiste. Certo, a un certo punto l’Urss implode proprio perché crolla la prospettiva propagandata per decenni di un benessere (in primis economico) diffuso, universale; e l’implosione è essenzialmente dovuta a cause interne al sistema. Tuttavia, una dose di “responsabilità” è, secondo me, addebitabile anche al grande fardello sostenuto da quel paese per aiutare quelli sottosviluppati del Terzo mondo costantemente ricattati, distrutti o piegati dal ricatto del debito da parte del gigante americano e delle istituzioni finanziarie internazionali (FMI e BM). Non credo che questo “ingrato” compito, che spettò all’Unione sovietica, sia da ricondurre “tout court” ad un piano sovietico meramente espansionistico per spartirsi nel “grande gioco” tra le due potenze le diverse aree d’influenza del mondo. Come non ricordare, ad esempio, il grande impulso fornito dall’Unione sovietica, prima e dopo il secondo conflitto mondiale, al movimento anticolonialista e antirazzista, il fatto che questo paese fu un punto di appoggio per le lotte anticoloniali durante tutto il XX secolo, e per contro l’apporto determinante dei magnati dell’industria, dei grandi proprietari fondiari e dei banchieri occidentali (compresi quelli di Wall Street) alla caduta della repubblica di Weimar e all’ascesa inarrestabile del potere del Terzo Reich impegnato a riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, o le rivolte dei popoli coloniali in Sud Africa e negli Usa, che si ribellavano allo stato razziale e al regime di “white supremacy”? Detto ciò, il grande merito del libro rimane quello di aver tracciato con lucidità intellettuale un lungo percorso di demistificazione della storia dell’Occidente capitalistico moderno (di cui viene di seguito riportata una sintesi) reputato ancora oggi da molta parte dell’umanità come l’unico modello di società soddisfacente, se non ideale. 1. L’Europa al centro L’identità europea si è forgiata dapprima in opposizione all’Asia colta ma dispotica, in seguito all’Islam o ai popoli che continuavano a giungere dalle steppe dell’Asia centrale, da ultimo, nell’età dell’espansionismo coloniale e delle missioni, all’America, all’Oceania e all’Africa, abitate da tribù di “selvaggi”. Ancora nel corso del XVIII secolo, prima che il declino dell’Oriente asiatico e la concomitante “rivoluzione industriale” producessero quella che è stata definita “la grande divergenza” (the great divergence), la percezione dominante che l’Europa aveva dell’Oriente, in

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particolare della Cina, presentava connotazioni positive, e l’idea che quella parte del mondo fosse un modello da imitare era ben radicata in buona parte dei pensatori del tempo, che ne riconoscevano il primato dal punto di vista della civiltà, dell’economia, della politica e della tecnologia. Adam Smith fu uno degli ultimi, in Occidente, a riconoscere che l’Europa era in ritardo nella corsa alla ricchezza delle nazioni: “La Cina è un paese molto più ricco di qualsiasi parte dell’Europa” - scrisse nel 1776 - non avendo sentore che stava scrivendo ciò agli albori della “rivoluzione industriale”. L’eurocentrismo è un fenomeno tipico della modernità, che - come ha sottolineato Samir Amin - fece la sua comparsa nel XIX secolo. In questo senso, esso costituisce una dimensione della cultura e dell’ideologia del mondo capitalista moderno. Il risultato di questo eurocentrismo è la nota versione della storia occidentale: una progressione che dall’antica Grecia procede attraverso l’antica Roma e l’Europa cristiana dell’epoca feudale fino all’Europa capitalistica. Tuttavia, affinché una tale visione fosse storiograficamente sostenibile, fu necessario procedere ad alcune semplificazioni interpretative. Ciò, richiese, ad esempio, un’operazione di invenzione dell’antica Grecia, ossia la rimozione delle rilevanti radici afroasiatiche della sua cultura, con l’affermazione, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, di un “modello ariano”, che riconosceva esclusivamente le influenze indoeuropee, negando l’esistenza di insediamenti egizi e mettendo in dubbio quelli fenici. In breve, l’importanza del ruolo colonizzatore e civilizzatore svolto in Grecia dalla cultura egizia e fenicia fu man mano negata. Motivo dell’abbandono del modello antico della storia greca era la sua incompatibilità con l’emergente ideologia del progresso. Il modello antico era d’intralcio alla coerenza della visione progressiva della storia e al suo corollario razzista. Se la filosofia e la civiltà avevano avuto origine in Grecia era, dunque, necessario che la cultura greca fosse essenzialmente europea. Gli africani neri dovevano essere tenuti “il più lontano possibile dalla civiltà europea”. Assolse a questo compito il modello ariano, che rese la storia della Grecia e dei suoi rapporti con l’Egitto e il Levante conformi alla visione del mondo del XIX secolo e, specificatamente, al sistematico razzismo del secolo. L’eurocentrismo ha implicato un processo di catalogazione e organizzazione dei popoli di tutto il mondo, delle loro pratiche culturali e delle loro esperienze, entro uno “schema temporale” in cui l’Europa rappresentava il culmine del progresso. Alla realizzazione di questo compito contribuì in maniera decisiva la crescente rilevanza dei saperi storico-sociali, che proprio a partire dalla metà del XIX secolo vennero istituzionalizzati formalmente come “discipline” con specifiche competenze. Queste discipline rivendicarono d’incarnare, nella loro attività di conoscenza, un approccio “scientifico”, che avrebbe permesso di conseguire un tipo e un livello di elaborazione qualitativamente diversi e superiori, rispetto a quelli che avevano contraddistinto i saperi occidentali del passato qualificati in vario modo come “pre-scientifici”. Nella loro lotta contro la speculazione filosofica, tali discipline s’impegnarono ad essere “empiriche” e “imparziali”. Ciò significò il rifiuto di una filosofia della storia ma non l’abbandono dell’uso di una concezione unilineare del tempo e dell’idea che la storia possedesse uno sviluppo e una coerenza interni, ossia che la storia moderna - almeno quella - muovesse in una direzione precisa, e che in essa una posizione privilegiata fosse occupata dall’esperienza dell’Occidente. Nell’insieme, nella storia del mondo moderno, l’Occidente godeva di uno statuto privilegiato, cosicché la storia del mondo coincideva con l’occidentalizzazione (o l’europeizzazione). Centrale nel processo di definizione della professione dello storico, dell’economista o dello scienziato sociale fu la tensione tra l’ethos scientifico (con la richiesta di rigida oggettività e di “astensione da ogni giudizio di valore”) e il ruolo politico e culturale svolto dalla professione stessa. Il cambiamento, sostenuto dagli sviluppi scientifici e tecnologici e dalla conseguente fiducia nelle capacità di controllo e di dominio dell’uomo sulla natura, generò nel tempo un’apprensione verso il futuro colma di speranza e diffuse la convinzione che, dal punto di vista del benessere materiale, questo futuro sarebbe stato sicuramente migliore del passato. Ma la centralità pressoché esclusiva accordata al tempo lineare - che fissava la direzione e l’obiettivo del cambiamento - finì con il negare la molteplicità dei ritmi temporali dei processi storici. Il tempo lineare impose la sua tirannia con profonde conseguenze sulla strutturazione logica delle grandi narrazioni prodotte: “Il

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tempo lineare, cumulativo e irreversibile, coincide a tal punto col tempo della storia che i popoli presso i quali non se ne coglie traccia diventano puramente e semplicemente popoli senza storia (Naturvölker). L’identificazione del tempo della storia col tempo lineare, cumulativo e irreversibile, spiega il sentimento di superiorità generato dal confronto tra presente e passato, la fiducia nel futuro; spiega anche l’eurocentrismo. (…) Il tempo lineare consente, inoltre, d’istituire una gerarchia degli avvenimenti, privilegiando quelli che si crede generino cambiamenti irreversibili. Esso ispira la scelta che si opera tra i candidati al ruolo di protagonisti della storia”. Storia unicamente creata dagli agenti del progresso, sviluppo e modernità (contro le loro immagini speculari in negativo: immobilità, sottosviluppo e tradizione). Contestualmente, le scienze storico-sociali ottocentesche, come conseguenza, negli ultimi decenni del secolo, della crescente importanza della “questione nazionale”, della moltiplicazione delle espressioni nazionalistiche e del ruolo centrale degli stati-nazione nell’elaborazione e nella realizzazione delle strategie politiche, finirono con l’optare per assunti spaziali che enfatizzarono oltre modo la dimensione statale dei processi di cambiamento, rimuovendo, di fatto, dal loro quadro concettuale connessioni e processi che travalicavano i confini nazionali. Lo stato-nazione fu elevato a principale soggetto spaziale della storia e a unità di analisi della teoria economica sociale. Come manifestazioni di un più generale processo di civilizzazione, le molteplici espressioni nazionalistiche furono coniugate per dare vita a un’idea di Europa (o di Occidente), come qualcosa in più di una semplice civiltà accanto ad altre civiltà, ma come l’unica realtà “civilizzata”. L’idea di “civiltà” incarnò così il senso europeo di superiorità sul resto del mondo, divenendo parte integrale dell’ideologia coloniale e offrendo uno strumento e un criterio di misura con cui comparare tutte le altre società, un compito al quale si rivolsero, nel corso del XIX secolo, i saperi sociali nelle loro aspirazioni scientifiche. La storiografia di fine Ottocento e inizio Novecento costituisce il compimento di un lungo percorso di costruzione culturale e politica dell’Europa strutturata, da un lato, sulla convinzione di ciò che costituiva l’essenza della superiorità della civiltà europea e, dall’altro, su una visione del mondo extra-europeo, la cui distanza dal modello ne permetteva la classificazione e ne giustificava lo sfruttamento materiale. Si trattava, in sostanza, della formalizzazione giuridica e della giustificazione da parte degli stati europei, al culmine del loro dominio, della possibilità di negare l’uguaglianza dei diritti agli stati asiatici, africani e dell’Oceania, divenendo un esplicito principio giuridico e parte integrante della dottrina del diritto internazionale: coloro che rispettavano i requisiti dello standard di civiltà avevano accesso alla cerchia degli stati “civilizzati”, mentre coloro che non si adeguavano ad essi ne erano esclusi in quanto “non civilizzati” o addirittura “barbari”, ed erano così soggetti a “trattati ineguali”, “capitolazioni” e “protettorati”, che prevedevano norme extraterritoriali, la cui esistenza era legittimata finché questi paesi non si fossero uniformati agli standard “civilizzati”. La giurisprudenza basata sul diritto naturale, che era stata associata con un atteggiamento più “compassionevole” nei confronti dei popoli considerati selvaggi o barbari, lasciò il posto ad un positivismo giuridico che, sostenuto dalle basi “oggettive” dell’idea della superiorità occidentale offerte dal darwinismo sociale e dal razzismo scientifico, contribuì a fare del diritto internazionale uno strumento della politica del potere e delle sue manifestazioni imperialistiche. In questa grande narrazione, che aspirava ad abbracciare passato, presente e futuro delle diverse società nazionali, partendo comunque dalla convinzione della specificità e della superiorità della civiltà occidentale - modello di riferimento per i suoi principi organizzativi e metro di valutazione di tutte le altre esperienze - un ruolo decisivo fu svolto dalla fiducia nel carattere progressivo del divenire storico, espresso nei diversi miti storiografici della transizione verso la modernità, che per esigenze di approvazione si adeguavano man mano ai nuovi assetti economici sociali e politici. Da questi adeguamenti scaturirono nuove visioni della storia organizzativa della civiltà, vista come graduale avvicinamento all’epoca moderna industriale, dove un ruolo rilevante fu attribuito ai progressi scientifici dello spirito umano, con la centralità del metodo empirico, del primato della tecnica e della manipolazione sociale, e del sistema di fabbrica quale nuovo centro delle relazioni umane e produttive.

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E, tuttavia, la scienza sociale europea, pur affermando la specificità e la superiorità dell’Occidente, assunse un atteggiamento risolutamente universalistico, affermando che, quali che fossero le ragioni che avevano portato, negli ultimi secoli, allo specifico modello di sviluppo europeo, quest’ultimo era replicabile ovunque, poiché rappresentava una conquista progressiva e irreversibile del genere umano e costituiva la realizzazione dei bisogni fondamentali dell’umanità, grazie alla rimozione degli ostacoli artificiali che si frapponevano ad essa. I valori caratteristici dell’Occidente erano destinati ad essere diffusi in tutto il mondo; o comunque si considerava ovvio che i popoli non europei vi si conformassero. A partire da queste premesse, l’unica domanda che poteva essere posta a proposito delle diverse traiettorie di sviluppo dei popoli non europei era: “Che cosa era andato storto?”. Ma questa missione universalistica - che si combinava a particolarismi gerarchizzanti nella visione dei rapporti con la periferia del sistema-mondo - sarebbe stata sostenibile soltanto se orientata, innanzitutto, alla soluzione dei conflitti interni ai paesi del centro. Una soluzione che fu trovata attraverso la concretizzazione di un programma di concessioni (estensione dei diritti politici attraverso il suffragio e, successivamente, di quelli sociali attraverso la costruzione di un welfare state) - in risposta soprattutto alla creazione delle organizzazioni politiche e sindacali delle classi lavoratrici urbane (e bianche) e alle loro istanze - costantemente contenute e intenzionalmente incomplete, con l’obiettivo di rasserenare la situazione soddisfacendo parte delle richieste, senza tuttavia mettere a repentaglio la struttura della società liberale contrattuale, fautrice della libertà individuale, di espressione, di associazione e di coscienza, delle istituzioni democratiche e rappresentative, del diritto individuale alla proprietà. La dimensione “inclusiva” del concetto di cittadinanza fu così sin dal principio circoscritta attraverso la creazione di una serie di antinomie - di ceto, di classe, di genere, d’istruzione, di razza, di etnia - in grado di precisare e giustificare un’impalcatura teorica che potesse servire da fonte di avvallo alla traduzione di queste distinzioni in categorie giuridiche, intese a limitare la misura in cui la proclamata uguaglianza di tutti i cittadini veniva realizzata nel concreto.

Nello stesso tempo, si procedette alla costruzione di comunità nazionali il più possibile “omogenee” - seppure gerarchizzate al loro interno - con l’obiettivo d’istituzionalizzare un nazionalismo razzista integrativo che, riconoscendo alle classi lavoratrici europee lo status di white e di occidentali, permise di giustificare il dominio di alcuni stati su altri, considerati ugualmente omogenei al loro interno ma ad un livello inferiore di civiltà. Non si esitò ad invocare la rilevanza politica di categorie quali l’etnicità, le gerarchie di civiltà, la razza e i legami di sangue per “esternalizzare il male” e rendere legittime le politiche imperialistiche.

In questa prospettiva, la storia del razzismo non appare tanto come un’aberrazione del pensiero europeo o di sporadici momenti di follia, quanto come elemento essenziale dell’esperienza europea. È senz’altro corretto - come fa Hannah Arendt - sottolineare come il profondo nesso storico e culturale fra razzismo e identità nazionali europee abbia contribuito a distruggere la costruzione nazionale di tipo liberale, affiancando agli ideali di uguaglianza propri dell’ordinamento della nazione prassi di violenza colonialista e imperialista sostenute da ideologie razziste. Ma interpretare questa coesistenza in termini di “deviazione” dai presupposti ideali di uguaglianza, o di un loro tradimento, significa fraintendere il nesso strutturale esistente tra queste prospettive ideologiche, che costituiscono, nella loro genesi e articolazione unitaria, elementi inscindibili dal patrimonio culturale liberale, necessari, al tempo stesso, al mantenimento dell’ordine interno ai paesi del centro e all’esercizio del dominio europeo sul resto del mondo. Ed è sufficiente far intervenire nell’analisi lo “spazio profano” (gli schiavi delle colonie e i servi delle metropoli), per accorgersi del carattere inadeguato e fuorviante delle categorie (libertà individuali, antistatalismo ecc.) di solito utilizzate per tracciare la storia dell’Occidente liberale. Questa rappresentazione classica del liberalismo confliggeva, dunque, profondamente con la sua espressione storica concreta, segnata, a dispetto delle pretese universalistiche (avanzate sia al centro che alla periferia del sistema-mondo), dalla sistematica esclusione dai diritti di cittadinanza di individui e popoli. Così, sin dal XIX secolo, la natura necessariamente anti-universalistica dei

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rapporti coloniali di domino, che definivano una relazione esclusiva e coercitiva fra la colonia e uno stato dominante, e dei rapporti di sfruttamento e disuguaglianza cristallizzati in una lunga serie di distinzioni binarie (borghese-proletario; uomo-donna; nero-bianco, europeo-non europeo, e naturalmente la ur-categoria che comprendeva tutte le altre, civilizzato-barbaro), sia al centro che alla periferia del sistema-mondo, si trovò a dover coesistere in profonda tensione con il discorso universalistico che scaturiva dalle idee di libertà e di progresso sociale, una tensione che sarebbe stata aggravata dai profondi cambiamenti che, alla metà del XX secolo, avrebbero portato alla creazione di nuovi soggetti politici su scala mondiale e a nuove e più pressanti istanze di uguaglianza. 2. Il miraggio della modernizzazione

Negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, gli Stati Uniti, usciti vittoriosi dalla guerra contro la Germania, furono costretti a cercare soluzioni teoriche e politiche ai nuovi bisogni organizzativi per la conquista dell’egemonia del sistema-mondo. Le sfide al ruolo guida della nuova potenza egemone giungevano ora, da un lato, dal confronto con l’Unione sovietica (uscita anch’essa vittoriosa dal conflitto bellico) e, dall’altro, dalla comparsa sulla scena politica mondiale dei paesi che avevano conquistato l’indipendenza dal dominio coloniale. La disintegrazione degli imperi coloniali delle potenze europee, con la formazione di numerosi stati di nuova indipendenza, che affermarono con decisione l’esistenza del problema della loro povertà e la necessità di porvi rimedio, pose davanti agli Usa il compito urgente di sostenere con programmi di aiuto questi nuovi stati, per evitare soprattutto che si trasformassero in paesi rivoluzionari, e di contenere, di conseguenza, il temuto espansionismo del comunismo sovietico.

Negli anni cinquanta, la guerra fredda assunse i contorni di un confronto su scala globale e gli sforzi materiali e intellettuali degli Usa furono rivolti alla ricerca di soluzioni al problema del sottosviluppo dei paesi del Terzo mondo. Già nel 1949 Truman invocò la necessità che gli Usa s’impegnassero in un “nuovo audace programma”, che mettesse i vantaggi del progresso scientifico e industriale al servizio del miglioramento e della crescita delle aree sottosviluppate, la cui povertà era percepita come un handicap e una minaccia. Fu così che, mentre la sede principale dell’elaborazione teorica subiva uno spostamento dall’Europa in direzione degli Stati Uniti, le èlite intellettuali statunitensi rivolsero una crescente attenzione ai problemi dello sviluppo economico, della stabilità politica e del mutamento sociale dei paesi dell’Africa, Asia e America latina.

Le temibili forze generate dalla decolonizzazione richiedevano un’analisi sociale rigorosa e l’individuazione di soluzioni alla povertà dei popoli che, sull’esempio di Truman, venivano ora sempre più spesso definiti “sottosviluppati”, con la formulazione di una concezione del divenire storico e di programmi politici, che avrebbero dovuto accogliere, innanzitutto, le richieste nazionaliste di sviluppo degli stati post-coloniali nell’elaborazione delle teorie della modernizzazione e, in secondo luogo, dimostrare ai paesi emergenti che lo sviluppo nel solco liberale e capitalista sarebbe stato in grado di alleviare la povertà ed elevare i livelli di vita con ritmi rapidi e convincenti, finanche superiori a quelli delle alternative marxiste e rivoluzionarie. Chiara era, insomma, la consapevolezza da parte dell’Occidente che “la battaglia contro il comunismo si sarebbe giocata non in Europa ma nei paesi sottosviluppati”. Un programma assai ampio di partecipazione statunitense allo sviluppo economico degli stati sottosviluppati sarebbe stato uno degli elementi di maggiore importanza in un progetto d’espansione del dinamismo e della stabilità del “mondo libero” e di rafforzamento della sua resistenza al richiamo e al fascino esercitato sul mondo dal comunismo.

La strategia staliniana, con la sua capacità di generare industrializzazione, garantendo al tempo stesso la stabilità politica, sembrava aver offerto la prova che la trasformazione di un paese povero - basato principalmente sull’agricoltura - in una potenza industriale non richiedesse istituzioni né capitalistiche né democratiche. L’Unione sovietica era riuscita a dar credito alla propria sfida ideologica nei confronti degli Usa, proponendosi come plausibile alternativa al modello democratico e capitalista della modernità. Nella guerra ideologica che si stava

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combattendo, l’arma più potente che sembrava essere a disposizione dei sovietici, nel loro progetto di espansione mondiale, era l’idea che la storia conducesse inevitabilmente al comunismo. Pertanto, urgente era il bisogno di una narrazione alternativa, di una “bellissima storia”, che potesse competere con quella sovietica.

L’elaborazione di nuove teorie della modernizzazione costituì, dunque, la risposta delle scienze economiche e sociali occidentali al contesto geopolitico del secondo dopoguerra. Esse procedettero ad una riformulazione della grande narrazione eurocentrica ottocentesca. L’America poté contare sui contributi di un’intera generazione di sociologi, scienziati della politica, economisti e psicologi sociali, che offrirono i propri contributi teorici. La formulazione più influente fu indubbiamente quella dello scienziato sociale Walt Whitman Rostow. Il suo nome è quello più comunemente associato alle nuove teorie della modernizzazione, soprattutto dopo la pubblicazione del suo libro The Stages of Economic Growth. A Non-Communist Manifesto (1960), dove egli elaborò la metafora del “take-off”. Nel “racconto” proposto da Rostow, lo sviluppo economico veniva concettualizzato nei termini di una sequenza evoluzionistica di stadi che tracciava il passaggio dalla tradizione alla modernità, e in cui il momento del “take-off” - di fatto una revisione dell’idea di rivoluzione industriale come punto di svolta qualitativo della storia - era assunto quale grande spartiacque nella vita delle società moderne. L’obiettivo della diplomazia economica americana, secondo Rostow, doveva essere quello di affrettare l’avvio del decollo economico nelle nazioni postcoloniali, così da “vaccinarle” contro il comunismo. L’altro grande contributo fu quello del sociologo Talcott Parsons (in stretta collaborazione con Edward Shils), che nel tempo coniugò il carattere prevalentemente strutturale della sua analisi sociale con una componente più dinamica. Egli suggerì che fattori quali la crescita della popolazione, il progresso tecnologico e le variazioni ambientali potessero porre nuove richieste a un dato ordine sociale e, a loro volta, esigere quel cambiamento delle strutture necessario a mantenere il sistema in una condizione di equilibrio. Nel trasformare il suo schema prevalentemente statico in un modello dinamico, giunse sempre più ad utilizzare i termini “tradizionale” e “moderno” non come categorie meramente descrittive ma come termini di una sequenza evolutiva caratterizzata da aumenti delle capacità adattive dei sistemi sociali. Le sue variabili strutturali finirono con l’identificarsi con la categoria weberiana di razionalizzazione intesa come tendenza intrinseca alla modernità. Le società moderne erano state in grado di mantenere l’ordine sociale malgrado i cambiamenti tecnologici, di popolazione o ambientali, grazie alla creazione di istituzioni specializzate, al migliore uso delle risorse naturali, alla formalizzazione dei loro sistemi di valori in norme giuridiche soggette a cambiamenti deliberati e progressivi ecc. ecc. In quest’ottica, le società moderne erano destinate a trionfare con l’eliminazione di tutti gli altri sistemi sociali esistenti, delineando un processo di universalizzazione dell’esperienza storica occidentale, e finendo col legittimare quei progetti di riforma economica e sociale nelle zone post-coloniali sostenuti dai nuovi teorici della modernizzazione.

Nel loro insieme, queste teorie della modernizzazione fornivano un modello di sviluppo graduale, non rivoluzionario, fondato sulla fiducia nel progresso e nella razionalità, che prometteva a tutti una possibilità di successo nel conseguire l’obiettivo della crescita economica e della formazione di istituzioni politiche e culturali moderne, ma a partire da un’equazione eurocentrica, che assimilava modernizzazione e occidentalizzazione. Alla fine degli anni sessanta, l’International Encyclopaedia of the Social Sciences definì la modernizzazione come “il termine corrente per un processo antico - il processo di cambiamento sociale attraverso cui le società meno sviluppate acquisiscono le caratteristiche comuni alle società sviluppate”. Il nuovo concetto di modernizzazione sostituì i vecchi termini - ormai impresentabili - attorno ai quali era stata nel passato organizzata la riflessione del rapporto fra i paesi “civilizzati” e il resto del mondo. I selvaggi, i cannibali e i primitivi di un tempo furono riconcettualizzati in termini di nazioni o popoli sottosviluppati, e la modernizzazione divenne la legittimazione, in forma appunto moderna, dei nuovi colonialismi. Questa mutazione terminologica non comportò di fatto l’abbandono delle idee, dei pregiudizi e delle pratiche del passato, ma li ripresentò in forma più attuale e a malapena più sofisticata.

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Gli espliciti riferimenti al determinismo biologico caratteristici dei saperi del XIX secolo furono sostituiti dall’enfasi crescente sulle spiegazioni culturali dell’arretratezza. Venute meno le determinanti biologiche delle disuguaglianze, i teorici della modernizzazione cercarono di offrire a tutti i popoli sottosviluppati del mondo una speranza, a patto che essi fossero stati in grado di porre rimedio alle cause - ora culturali - della loro povertà. Il loro progresso veniva fatto dipendere in larga misura dall’accettazione della superiorità storica, culturale e psicologica dell’Occidente, sulla base dell’assunto che l’esperienza europea (e poi americana) costituisse il modello paradigmatico della società e civiltà moderne.

La promessa della riduzione della polarizzazione delle ricchezze su scala mondiale venne posta al centro della grande narrazione modernizzatrice. Nella loro attitudine ottimistica, le teorie della modernizzazione sostituirono l’esasperato settarismo razziale del passato con un orgoglio culturale eurocentrico, per rendere plausibile e ragionevolmente rapida la prospettiva universalistica dello sviluppo, attraverso la diffusione di “saperi, capacità, organizzazione, valori, scienza, tecnologia e capitali dai paesi sviluppati a quelli sottosviluppati”.

A partire dalla seconda metà degli anni cinquanta prese, inoltre, forma negli Usa un diffuso consenso sull’inconsistenza delle distinzioni convenzionali tra socialismo e capitalismo, espresso nella ben nota tesi della “fine delle ideologie” introdotta da Edward Shils, resa successivamente più famosa da Daniel Bell. Le elaborazioni teoriche americane misero sempre più in risalto gli elementi comuni alle concezioni della modernità dei due blocchi di potere. Lo stesso Parsons espresse l’opinione secondo cui, al di sotto dei pur rilevanti antagonismi ideologici tra capitalismo e socialismo, era emerso “un importante elemento di diffuso consenso a livello di valori”, basato sul medesimo riferimento alla modernità, stadio supremo della storia: le tendenze universalizzanti dei processi tecnologici, scientifici e d’industrializzazione, proprie ad entrambe le forme statunitense e sovietica, avevano generato l’idea di una loro “sostanziale” convergenza. Da qui, appunto, la tesi della fine delle ideologie. Daniel Bell sostenne che la “politica della produttività”, l’affermazione della civiltà (e società) tecnologica e industriale avevano trionfato anche in Urss, mettendo sotto scacco la retorica ideologica dell’ortodossia sovietica, poiché esse inducevano di fatto verso un’unità strutturale dei due sistemi (sovietico ed americano), trascendendo, almeno in prospettiva, le differenze dei contesti politici. La battaglia ideologica contro l’Unione sovietica era stata ormai vinta! (Edward Shils).

Non era certo difficile comprendere che la creazione di questa impalcatura teorica - ennesima riformulazione delle idee occidentali liberali - partiva dal presupposto e dalla convinzione che le società democratiche liberali disponessero di una risposta valida e migliore rispetto all’attrazione esercitata dall’idea di giustizia anti-capitalistica e dall’impegno per l’uguaglianza economica e sociale espressi dal comunismo. Se non altro per il fatto che il liberalismo era diffidente nei confronti delle grandi strutture di governo e della pianificazione, era ostile al totalitarismo, prediligeva il pluralismo e la democrazia politica, preferiva un managerialismo basato su strumenti tecnico-professionali e non politico-amministrativi (W. Delany, 1964). Inoltre, le politiche riformiste delle socialdemocrazie europee occidentali (introduzione di sistemi di welfare e dell’economia mista ecc.) degli anni sessanta e settanta, combinando crescita economica ed etica dell’ugualitarismo, avevano potentemente contribuito a “neutralizzare” l’idea comunista di una società più giusta e più produttiva alternativa a quella liberale

Ma il programma occidentale liberale, alla prova dei fatti, incontrò il suo limite nell’impossibilità di dar vita ad un sistema di maggiore giustizia distributiva su scala mondiale, dal momento che la sua realizzazione non poteva non interferire con i processi dell’accumulazione di capitale. Il successo di questa ricetta applicata all’interno degli stati centrali era, infatti, dipeso da una variabile nascosta: lo sfruttamento economico e il razzismo rivolto ai danni del Sud del mondo. Le nuove teorie della modernizzazione svelarono alla fine i loro legami profondi e inscindibili con le vecchie formule ottocentesche di progresso.

L’attacco al nucleo ideologico, discorsivo e mitologico della grande narrazione modernizzatrice non tardò ad arrivare. E non soltanto dai paesi del Terzo Mondo. A cavallo tra la

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fine degli anni sessanta e i primi anni settanta il consenso ideologico fino ad allora dominante fu, infatti, incrinato e il liberalismo si ritrovò ad essere solo una fra più ideologie e strategie politiche alternative, con pesanti ripercussioni sul modo di rappresentazione. Evento simbolico di questa svolta fu la rivoluzione mondiale del 1968. Al di là delle differenze, i vari movimenti del ‘68 condivisero un motivo ricorrente di protesta: la netta opposizione all’egemonia statunitense sul sistema-mondo. Essi non nascosero anche il loro disincanto nei confronti dell’Unione sovietica e dei movimenti antisistemici della vecchia sinistra: movimenti socialdemocratici in Europa occidentale, democratici del New Deal negli Stati Uniti, movimenti comunisti nell’Europa dell’Est e in Asia, movimenti di liberazione nazionale e populisti nel Sud del mondo - accusati di aver sì conseguito l’obiettivo di conquista del potere politico ma di aver fallito in quello di trasformazione del mondo per la realizzazione dell’ideale di uguaglianza e giustizia sociale. Fu loro addebitato, in sostanza, di non aver mantenuto la loro promessa storica e di non essere stati, dunque, sufficientemente antisistemici. Fu così che l’universalismo liberale cedette parte del suo spazio ad idee che si richiamavano alla peggiore tradizione ideologica conservatrice, mentre l’ortodossia comunista fu protagonista - dopo la morte di Stalin nel 1953, la rottura sino-sovietica e, dopo i primi successi, il fallimento della rivoluzione culturale cinese - di un’esplosione, che permise di resuscitare molti Marx e l’affermarsi di una variegata e articolata New Left.

La critica rivolta da sinistra nei confronti della grande narrazione modernizzatrice prese le mosse, nel corso degli anni sessanta, da un gruppo di studiosi latino-americani, che si proponevano come “neo-marxisti” e le cui riflessioni muovevano dalla contestazione dell’assunto spaziale che caratterizzava le teorie della modernizzazione, ossia che l’unità di analisi per lo studio dei processi di cambiamento sociale fosse lo stato-nazione. Ciò aveva portato ad oscurare i processi del mercato mondiale e del sistema interstatale. Già la scuola strutturalista dell’economia dello sviluppo aveva evidenziato l’esistenza di un deterioramento di lungo termine dei rapporti di scambio a sfavore dei paesi esportatori di materie prime e a vantaggio dei paesi industrializzati come conseguenza dell’applicazione dei principi del libero scambio internazionale. Il concetto di “scambio ineguale” venne proposto come strumento più adeguato per l’analisi dei processi che, di fatto, riproducevano le condizioni del sottosviluppo e allargavano il divario fra “centro” e “periferia” del sistema mondiale. I teorici della dipendenza avevano sviluppato una struttura concettuale secondo cui lo sviluppo non poteva essere compreso nel contesto di un’esperienza nazionale di tradizione o di modernità, ma entro una cornice mondiale che richiedeva un’analisi dell’articolazione spaziale e del carattere geograficamente ineguale dei processi d’espansione e di sfruttamento capitalistici; processi sistematicamente elusi dalla prospettiva modernizzatrice, che aveva ridotto le disuguaglianze strutturali a temporanee disuguaglianze temporali. In quest’ottica, il sottosviluppo non poteva più essere considerato come un problema interno ai paesi arretrati, ma come una condizione continuamente riprodotta nel corso, e come risultato, dello sviluppo capitalistico mondiale, che produceva, secondo la nota formulazione di Andre Gunder Frank, uno “sviluppo del sottosviluppo”. Questi teorici contestarono, in definitiva, l’assunto secondo cui la diffusione di valori, tecniche e idee “moderne” dal centro alla periferia contribuisse al progresso di quest’ultima, sostenendo, al contrario, che questo processo aveva favorito la subordinazione dei paesi sottosviluppati rispetto a quelli centrali. Sviluppo e sottosviluppo erano il prodotto delle relazioni centro-periferia del sistema-mondo capitalistico, ossia “le due facce di una stessa medaglia”. Il progetto dependentista non fu l’unico ad affermare la propria voce e il proprio punto di vista. Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta nacque il programma di ricerca dei subaltern studies, che rivolse le proprie critiche contro l’Occidente, contro la sua idea di modernità e le sue modalità di conoscenza “orientaliste” denunciate da Said, mirando ad una decolonizzazione dei saperi. Emersero anche altre scuole di pensiero (i cultural studies, i postcolonial studies e i più recenti decolonial studies latino-americani), il cui comune denominatore era in una visione planetaria della modernità intesa “come cultura dell’Occidente (Europa e Usa) in quanto centro del sistema-mondo e come strumento di gestione di questa centralità, da intendere più come frutto della superiorità conquistata rispetto alle altre zone del mondo che come sua causa”. Questi studi segnarono un’interruzione critica di quella

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grande narrativa storiografica occidentale, che aveva dato alla dimensione globale un ruolo subordinato in una storia che poteva essere raccontata essenzialmente dall’interno dei suoi parametri europei occidentali.

A questo punto, il mondo occidentale, verificato che il fallimento del “progetto sviluppo” era stato il risultato del suo successo nella diffusione delle promesse universalistiche e, al tempo stesso, della sua incapacità a renderle concrete, si rivolse ad una più energica messa in discussione delle forme materiali e cognitive che lo avevano sino ad ora sostenuto e legittimato, anche a causa della sopraggiunta crisi di sovrapproduzione e del conseguente declino di redditività dei settori industriali (essi avevano guidato l’espansione a partire dalla fine della seconda guerra mondiale - la c.d. epoca d’oro del capitalismo), che avevano fatto entrare l’economia-mondo in una lunga fase di stagnazione. La risposta che provenne dall’establishment politico, economico e culturale delle zone centrali fu l’abbandono delle prospettive universalizzanti con l’affermazione di posizioni teoriche e politiche palesemente rigerarchizzanti. Forze politicamente conservatrici assunsero programmi che avevano l’obiettivo di ridurre il costo del lavoro, minimizzare i vincoli ambientali sui produttori e ridimensionare pesantemente lo stato sociale.

Gli anni ottanta furono caratterizzati dall’offensiva neoliberista, guidata da Margaret Thatcher in Inghilterra e da Ronald Reagan negli Stati uniti, sostenuta teoricamente dalla controrivoluzione monetarista nel campo degli studi economici, associata al lavoro di Milton Friedman e dei suoi Chicago boys. La creazione di una nuova architettura concettuale segnò una svolta ideologica conservatrice con l’obiettivo di riprodurre e riconfermare la posizione dominante dell’Occidente. 3. The Empire Strikes Back (L’Impero colpisce ancora) Nel corso della seconda metà del Novecento, le crescenti preoccupazioni derivanti sia dall’instabilità nei paesi della periferia (la rivoluzione cubana, i continui smacchi subiti dalle politiche statunitensi in Vietnam, la crescente reazione in molti paesi dell’America Latina e dell’Asia meridionale) sia dalle tensioni politiche interne agli stessi Stati Uniti, minarono gli assunti ottimistici dell’ortodossia modernizzatrice, secondo cui il processo di sviluppo avrebbe comportato una fuoriuscita dei popoli del Terzo Mondo dalla loro condizione di isolamento tradizionale e il passaggio ad un sistema politico moderno partecipativo, pluralistico e democratico.

Apparve, al contrario, sempre più plausibile supporre che l’imposizione di strutture politiche moderne in contesti “arretrati” potesse portare alla creazione di società “prismatiche”, caratterizzate da strutture politiche fragili, con élite politicamente forti, grazie all’assenza di vincoli giuridici e all’uso del controllo militare. Si fece strada l’ipotesi che “forse solo le società moderne con culture politiche moderne….potessero realmente candidarsi alla democratizzazione”. L’affermazione della democrazia su scala globale aveva portato alla manifestazione del suo “paradosso”. Ovvero, che “l’adozione di istituzioni democratiche occidentali da parte di società non occidentali consentiva lo sviluppo e finanche l’avvento al potere di movimenti politici antioccidentali”.

Per questa ragione, gli scienziati della politica smisero di interrogarsi su quale fosse la società giusta e sui modi per realizzarla e si rivolsero a chiedersi quale fosse invece la ricetta per la costruzione di una società stabile. Il cambiamento di tono del dibattito politico interno agli Stati Uniti, sempre più orientato verso i temi dell’autorità, della gerarchia e dell’ordine burocratico, sintetizzati nello slogan law and order, trovò un corrispettivo nella riflessione accademica con uno spostamento di enfasi in direzione del conseguimento dell’ordine politico. La priorità diveniva ora quella di istituzioni politiche efficaci non necessariamente democratiche.

L’emergenza accordata al conseguimento dell’ordine politico ebbe come conseguenza la riconsiderazione della desiderabilità dello sviluppo economico in direzione dell’uguaglianza e delle riforme sociali. Un nuovo consenso andò così strutturandosi attorno all’idea che la stagnazione economica potesse essere il prezzo da pagare per il conseguimento della stabilità politica. Allo stesso tempo, i programmi di riforma sociale, con la redistribuzione di parte della ricchezza agli strati popolari, furono considerati con sempre maggiore scetticismo, nel timore dei loro effetti

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potenzialmente destabilizzanti. Fu Samuel Huntington ad imporsi come riferimento più autorevole in questa svolta concettuale e politica. Secondo questo autore, “curare i mali della democrazia, basandosi sul principio di una maggiore democrazia, sarebbe stato come gettare olio sul fuoco, dal momento che il problema risiedeva in un eccesso di democrazia”. Ciò che occorreva alla democrazia era, invece, un grado maggiore di moderazione. In fondo “…..la democrazia non è che un modo di costituzione dell’autorità, e non è detto che possa essere applicato universalmente”. Inoltre, era arrivato il momento di decretare che non solo negli stati della periferia ma anche nei paesi più ricchi “...in molte situazioni, le esigenze di competenza, di anzianità, di esperienza e di particolari capacità possono avere la precedenza sulle esigenze di democrazia in quanto modo di costituzione dell’autorità”.

Dunque, un eccesso di democrazia era pericoloso per la stabilità del sistema. Affinché la democrazia potesse essere salvata, occorreva che non tutti ne godessero i benefici. I limiti intrinseci all’universalismo occidentale nelle sue concrete manifestazioni storiche venivano ora elevati a principio organizzativo della ristrutturazione del sistema mondiale.

A partire dai primi anni ottanta, il piano d’integrazione del mondo organizzato attorno all’idea e alla promessa dello sviluppo era ormai palesemente in crisi, e fu così oggetto di una drastica revisione. Già negli anni settanta, nei paesi del centro, l’espansione del dopo guerra aveva lasciato il posto a un lungo periodo di stagflazione, a una profonda crisi fiscale dello stato e a una crescente ondata di proteste. Gli shock petroliferi - che contribuirono all’espansione dei mercati finanziari internazionali, impegnati nel riciclaggio dei petrodollari - e la conseguente crisi del debito internazionale accelerarono la trasformazione del FMI e della BM in strumenti di diffusione delle politiche monetariste dagli stati del centro ai paesi della periferia attraverso la negoziazione di programmi di stabilizzazione e di aggiustamento strutturale. La varietà delle risposte politiche trovò un punto di convergenza in programmi che mirarono alla sostituzione di forme di tassazione progressiva con modelli regressivi, al sistematico attacco al potere delle forze del lavoro e delle loro organizzazioni e a una fragorosa ripresa della retorica e delle politiche della guerra fredda. A dare ulteriore impulso alle tendenze innescate dalle politiche neoliberiste di crescita basata su esportazioni, rigore fiscale, deregolamentazioni, privatizzazioni e distruzione dello stato sociale (i noti dettami del Washington Consensus) fu il crollo dell’Unione sovietica, che generò un vuoto enorme nel sistema internazionale. “….il crollo del Secondo Mondo assestò il colpo di grazia all’idea di Terzo Mondo (…) screditando l’intera idea di alternative realistiche a un programma di sviluppo capitalistico…”.

La scomparsa dell’Urss e dei regimi comunisti dell’Europa orientale, simboleggiata dal crollo del muro di Berlino, suscitò un enorme entusiasmo in coloro che lessero in questi eventi il trionfo dell’Occidente e del suo modello di sviluppo, con la vittoria indiscutibile del liberalismo e la scomparsa di ogni altro riferimento ideologico rivale, e che affermarono ottimisticamente che il libero mercato e la democrazia liberale rappresentavano il punto di approdo “naturale” dell’organizzazione sociale. Insomma, “la fine della storia”, nella nota formulazione di Francis Fukuyama.

L’idea che solo un’economia liberista potesse funzionare nel nuovo ordine mondiale fu sistematizzata e trovò appoggio nel grande dibattito sulla globalizzazione, che prese avvio a seguito della caduta del muro di Berlino. Inizialmente concentrato sui temi economici finanziari, diventò ben presto materia d’interesse anche per la letteratura sociologica e la scienza politica, che adottarono il termine “globalizzazione”, per offrire risposte convincenti riguardo alla situazione contemporanea. La globalizzazione - sostenne A. Giddens nel 1990 - è un termine che deve occupare una posizione chiave nel lessico delle scienze sociali. Ebbe, dunque, inizio The Great Globalization Debate, che definiva un proprio lessico e una propria ortodossia concettuale, al cui centro era posta una nuova epoca della storia umana, con la denazionalizzazione delle economie e la costruzione di nuove forme di organizzazione sociale, che avrebbero dovuto soppiantare gli stati-nazione come principali unità economiche, sociali e politiche della società mondiale. Non mancarono certamente coloro che denunciarono il carattere di apparato concettuale e retorico del

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grande dibattito sulla globalizzazione, chiamato in realtà a svolgere unicamente un ruolo di legittimazione del progetto neoliberista su scala globale. In effetti, i cambiamenti degli ultimi decenni del XX secolo non avevano quel carattere di novità rivoluzionaria che veniva ormai associato a loro, né configuravano la creazione di un mercato globale perfettamente integrato e la perdita di rilevanza delle strutture politiche nazionali, né tanto meno un processo di crescente omologazione della cultura occidentale su scala globale.

La teoria e il dibattito sulla globalizzazione andarono configurandosi come una versione rinnovata della teoria e del dibattito sulla modernizzazione. Il potenziale di sviluppo che secondo i teorici della modernizzazione derivava dal contatto con le istituzioni, i valori e la cultura occidentale veniva ora assorbito dall’esposizione alle libere forze del mercato e dall’adesione dei paesi poveri ai nuovi precetti dell’economia mondiale. Sia nella prospettiva modernizzatrice che in quella della globalizzazione il problema della povertà dei paesi in via di sviluppo costituiva un aspetto essenzialmente interno ad essi, dovuto nel primo caso all’isolamento dalle forze della modernità e nel secondo all’insufficiente adozione di politiche e di misure in grado di rendere partecipi questi stessi paesi dei benefici dell’economia globalizzata. Sotto questo aspetto, gran parte della teoria sociale sembrò adeguarsi al punto di vista della BM e del FMI: “La maggior parte dei problemi che impediscono lo sviluppo economico dei paesi poveri - scriveva Giddens - non deriva dall’economia globale in quanto tale, o dal comportamento egoistico delle nazioni ricche. Essi stanno principalmente nelle società stesse: nell’autoritarismo dei governi, nella corruzione, nel conflitto, nell’eccessiva regolamentazione e nel basso livello di emancipazione femminile. Il capitale circolante d’investimento si terrà lontano da questi paesi in quanto il livello di rischio è inaccettabile”. Insomma, il problema era che questi paesi erano “insufficientemente globalizzati”.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Occidente era riuscito a rilanciare la sua missione illuministica e universalistica trovando il nemico nel comunismo e, dal confronto con gli insuccessi di quest’ultimo, a riaffermare continuamente la propria superiorità. Tuttavia, questo gioco era giunto al termine e un fondamento essenziale dell’identità occidentale del XX secolo era venuto meno. Spinta alle sue logiche conseguenze, la tesi di Fukuyama prefigurava, con la scomparsa di ogni alternativa alla civiltà occidentale, la scomparsa dell’Occidente stesso. Ideologicamente, culturalmente, politicamente, era quindi necessario individuare subito un nuovo nemico da combattere. Fu, ancora una volta, S. Huntington a mettere in guardia l’èlite dominante statunitense contro l’ottimismo della tesi sulla “fine della storia”, contrapponendovi le inquietudini derivanti, da un lato, dal venir meno dei fondamenti ideologici dell’identità statunitense - e più in generale del mondo occidentale - e, dall’altro, dalla crescente rilevanza delle appartenenze di tipo etnico, nazionale, religioso e tribale. Non appariva convincente ad Huntington la fiducia di Fukuyama nel trionfo del liberalismo economico, né tanto meno lo persuadeva l’adesione di quest’ultimo all’ideologia della globalizzazione neo-liberista, che lo aveva portato a preconizzare una Common Marketization delle relazioni internazionali e della politica mondiale, con una riduzione delle probabilità dei conflitti fra gli stati. In realtà, per Huntington - in questo certamente più realista e lungimirante di Fukuyama - quello che era avvenuto con il crollo del comunismo non era tanto il trionfo della democrazia liberale su larga scala quanto il trionfo dell’etnicità e del nazionalismo. E venuta meno la democrazia liberale, gli Stati uniti si sarebbero presto uniti all’Unione sovietica nel mucchio di ceneri della storia. A rendere concreta la possibilità che gli Stati uniti - e assieme ad essi l’Occidente - seguissero l’Urss nel mucchio di ceneri della storia era proprio “il trionfo totale della democrazia”. E ciò perché “gli Stati uniti avevano sempre definito se stessi in antitesi a qualcos’altro”. Ecco perché bisognava trovare al più presto un avversario, che rimpiazzasse quello precedente. In questa ricerca, Huntington affermò la centralità storica delle civiltà, teorizzandone l’irriducibile e inconciliabile specificità e la prospettiva di uno scontro tra di esse: “…la fonte principale di conflitto in questo nuovo mondo non sarà primariamente ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte predominante di conflitto saranno culturali. Gli stati-nazione rimarranno gli attori più potenti degli affari mondiali, ma i principali

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conflitti della politica globale avverranno fra nazioni e gruppi appartenenti a civiltà differenti. Le linee di faglia fra le civiltà saranno le linee di battaglia del futuro”.

La sua presa di distanza dalla grande narrazione modernizzatrice classica veniva ora riaffermata con il disaccordo espresso verso ogni ipotesi di costituzione di una civiltà cosmopolita, di un villaggio globale (Marshall McLuhan). Il concetto di civiltà universale era un prodotto distintivo della civiltà occidentale. Era l’ideologia dominante dell’Occidente nei confronti delle culture non occidentali. Ma l’Occidente mostrava ormai molte delle caratteristiche proprie di una civiltà matura sull’orlo del decadimento: “L’Occidente occupa oggi una posizione dominante e resterà il numero uno in termini di potere e influenza per buona parte del secolo XXI. Nel contempo, tuttavia, si sta verificando un graduale, inesorabile e fondamentale mutamento nei rapporti di forze tra le varie civiltà, e il potere dell’Occidente in rapporto a quello di altre civiltà continuerà a declinare. (…) L’aumento di potere più significativo viene oggi registrato, e continuerà ad esserlo in futuro, dalle civiltà asiatiche, con la Cina che sta gradualmente assumendo il ruolo di maggiore antagonista dell’Occidente in fatto di influenza su scala mondiale. Tali spostamenti di potere tra civiltà portano e porteranno anche in futuro le società non occidentali a un maggiore desiderio di affermazione culturale e a rifiutare sempre più decisamente la cultura occidentale”.

In un mondo multipolare, composto da più civiltà, la responsabilità dell’Occidente era di rafforzare i propri interessi, non quella di promuovere gli interessi di altri popoli, né tanto meno di risolvere quei conflitti tra altri popoli che avevano su di esso conseguenze limitate se non nulle. Per l’Occidente il problema stava nel conservare il proprio dinamismo e la propria coesione. Era, insomma, giunto il momento - abbandonata l’illusione universalistica della promozione e del consolidamento della democrazia in tutto il mondo - che esso promuovesse la sua forza e vitalità all’interno di un mondo a più civiltà. A legittimare l’ambizione di una nuova fase di prosperità e influenza dell’Occidente, Huntington invocava l’unicità della civiltà occidentale e la peculiarità dei suoi valori e delle sue istituzioni, che “comprendono in particolare il cristianesimo, il pluralismo, l’individualismo e lo stato di diritto, che ha permesso all’Occidente d’inventare la modernità, espandersi in tutto il mondo e suscitare l’invidia di altre società”. In fin dei conti, come Arthur Schlesinger Jr. aveva già sancito, l’Europa era “la fonte, l’unica fonte degli ideali di libertà individuale, democrazia politica, stato di diritto, diritti umani, libertà culturale….Tutti questi sono ideali europei, non asiatici, africani, né mediorientali, se non per adozione. Essi fanno della civiltà occidentale qualcosa di unico e la rendono dunque importante non perché universale ma perché unica”. La nuova ideologia occidentale e americana fondeva ora elementi di individualismo etico con spiegazioni delle cause dell’ineguaglianza sociale basate su un neorazzismo culturalista e differenzialista, ormai privo della prospettiva e della promessa di un annullamento delle disuguaglianze, istituendo - attraverso la formulazione della tesi di un nuovo barbarismo, in cui la violenza era ricondotta esclusivamente a matrici culturali, con l’omissione di ogni riferimento a dinamiche politiche ed economiche - una contrapposizione fra civiltà razionali ed irrazionali.

Abbandonata la tensione universalistica che aveva caratterizzato gli orientamenti del XIX e XX secolo, l’Occidente ripiegava sempre più su un atteggiamento di matrice reazionaria e conservatrice nei saperi e nelle politiche. Ma questa indisponibilità e questa incapacità rivelavano di fatto il fallimento nell’imporre - con la retorica della globalizzazione e le politiche fondate sull’idea di global governance e sulle parole d’ordine di esportazione della democrazia e dei diritti umani - una nuova versione egemonica del divenire storico e nuove efficaci strategie di gestione del sistema-mondo (in tempi passati l’espansionismo coloniale fu giustificato in nome dell’esportazione della civiltà, in tempi recenti - in nome dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani). Al tempo stesso, esse testimoniavano della consapevolezza dei profondi cambiamenti prodottisi negli ultimi decenni nella gerarchia globale della ricchezza e del potere - con il declino dell’egemonia statunitense e l’imperiosa ascesa di altri stati e continenti, in primis dell’Asia orientale - e delle incerte prospettive di riorganizzazione dell’ordine mondiale che i mutati equilibri nei rapporti di forza su scala mondiale avevano indubbiamente aperto.