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MILENA SANTERINI PIERPAOLO TRIANI PEDAGOGIA SOCIALE PER EDUCATORI

MILENA SANTERINI PIERPAOLO TRIANI PEDAGOGIA SOCIALE … · 2018. 3. 12. · M. Santerini, P. Triani - Pedagogia sociale per educatori 6 Educatori sono stati in passato i precettori,

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EDUCattEnte per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica

Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.72342235 - fax 02.80.53.215e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione)

web: www.unicatt.it/librarioISBN 978-88-8311-542-4

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MILENA SANTERINI - PIERPAOLO TRIANI

PEDAGOGIA SOCIALE PER EDUCATORI

Milano 2007

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© 2007 Università Cattolica del Sacro Cuore - diritto allo studio (I.S.U. - EDUCat) Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.72342235 - fax 02.80.53.215 e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione) web: www.unicatt.it/librario ISBN: 978-88-8311-542-4

L’editore è disponibile ad assolvere agli obblighi di copyright per i materiali eventualmente utilizzati all’interno della ™pubblicazione per i quali non sia stato possibile rintracciare i beneficiari.

Questo volume è stato stampato nel mese di novembre 2007 presso la LITOGRAFIA SOLARI - Peschiera Borromeo (Milano)

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INDICE

Capitolo primo L’EDUCATORE NELL’AMBITO SOCIALE

1.1. Immagini dell’educatore............................................................................. 5 1.2. Cura di sé e cura dell’altro........................................................................12 1.3. L’educatore debole .....................................................................................16 1.4. Responsabilità verso la polis.....................................................................24

Capitolo secondo IL DIBATTITO SULL’EDUCATORE

2.1 .La ricerca di una distinzione con altre figure .....................................29 2.2. L’identità dell’educatore tra ‘modelli forti’..........................................35

2.2.1. Prima area .........................................................................................35 2.2.2. Seconda area.....................................................................................39

2.3. La dialettica unità-molteplicità e la dialettica professione-mestiere .........................................................................................................43 2.3.1. L’educatore tra unità e molteplicità...........................................43 2.3.2. L’educatore tra professione e mestiere ......................................48

Capitolo terzo LE LOGICHE DI AZIONE EMERGENTI

3.1. Progettazione...............................................................................................53 3.2. Rete ................................................................................................................70 3.3. Empowerment.............................................................................................84 4.4. Strada.............................................................................................................95 4.5. Animazione............................................................................................... 108

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Capitolo quarto I CONTESTI EDUCATIVI

4.1. Case di accoglienza per bambini in difficoltà................................... 125 4.1.1. Ambiente educativo e progetto................................................ 131

4.2. Comunità per adolescenti..................................................................... 134 4.2.1. Un progetto differenziato ......................................................... 140

4.3. Le comunità per tossicodipendenti .................................................... 151 4.4. Case di riposo, istituti, residenze sanitarie assistenziali ................. 164 4.5. Educare sulla strada................................................................................. 174

4.5.1. L’adolescenza difficile................................................................. 175 4.5.2. Violenza e rischio......................................................................... 179 4.5.3. Minori e criminalità organizzata ............................................. 188 4.5.4. Educatori sulla soglia .................................................................. 194 4.5.5. Tra i nomadi ................................................................................. 197

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Capitolo primo L’EDUCATORE NELL’AMBITO SOCIALE*

A differenza di ciò che comunemente si crede, forse non esiste il “buon educatore”. È invece certo che tra le caratteristiche di questa figura vi debba essere la capacità di comprensione e interpretazione dei diversi contesti in cui avviene l’azione educativa. L’identificazione dell’educatore resta peral-tro difficile.

1.1. Immagini dell’educatore

Mentre nella tradizione pedagogica esiste una amplissima letteratura sull’insegnante, è ben più difficile individuare identità, funzioni e ruolo so-ciale di quelli che oggi definiamo educatori.

Marrou ha sottolineato l’evoluzione semantica che ha dato al termine pedagogo (all’inizio lo schiavo che nella società ellenistica accompagnava il ragazzo nel tragitto da casa a scuola) l’attuale significato di “educatore”. Egli scrive: «questo umile schiavo esercitava nella formazione del fanciullo una funzione più importante di quella del maestro di scuola; costui non è che un tecnico che si occupava di un settore limitato dell’intelligenza; al contra-rio il pedagogo sta vicino al fanciullo per tutta la giornata, l’inizia alle buone maniere e alla virtù, gli insegna a comportarsi nel mondo e nella vita, cosa più importante del saper leggere e scrivere», ed ancora: «tutta l’educazione morale è affidata al “pedagogo”»1.

* Tratto da: M. Santerini, L’educatore tra professionalità pedagogica e responsabilità so-

ciale, La Scuola, Brescia 1998, pp. 69-96. 1 H.I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità (trad. dal francese), Studium, Roma

1971, p. 298. Tra i molti testi sulla figura dell’educatore, cfr. M. Groppo (a cura di), Profes-sione educatore. L’operatore socio-psico-pedagogico, Vita e Pensiero, Milano 1994; M. Grop-po (a cura di), L’educatore professionale oggi. Figura, funzione, formazione, Vita e Pensiero, Milano 1992; D. Demetrio, Educatori di professione. Pedagogia e didattiche del cambiamen-

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Educatori sono stati in passato i precettori, le nutrici, i rieducatori dei giovani delinquenti, i vigilanti nei collegi, e, in epoca moderna gli scouts, i catechisti negli oratori, gli operatori nel campo della pedagogia speciale2. L’immagine tradizionale dell’educatore ha finito tuttavia per corrispondere a chi si occupa di emarginazione, handicap, devianza. Fino agli anni ’60, in-fatti, era impiegato soprattutto per indicare i ruoli educativi all’interno de-gli istituti di assistenza. In seguito, la crescita di differenziazione e di com-plessità della società contemporanea ha fatto nascere diverse specializzazioni accanto alle funzioni tradizionali dell’insegnante e dell’educatore per i ragazzi difficili. Tale processo, tuttavia, è ancora in cor-so.

L’azione dell’educatore/educatrice è difficile da descrivere, tanto da es-sere quasi “ineffabile”. Per parlarne bisogna ricorrere all’immaginario indi-viduale e sociale, ad alcune “metafore” utilizzate correntemente.

Molti educatori/educatrici, per descrivere il proprio lavoro, utilizzano l’immagine dell’accompagnamento. In senso metaforico accompagnare il bambino, il ragazzo o l’adulto nel percorso della sua esistenza evoca la stra-da fatta insieme, l’uno accanto all’altro, al di là dei rispettivi ruoli. Nel signi-ficato etimologico tradizionale dell’ex-ducere, invece, compare una sfuma-tura diversa. Si cammina insieme anche in questo caso, ma l’educatore conduce fuori, guida gli altri: qui l’azione educativa sembra simile a quella del pastore che guida e protegge allo stesso tempo. In questa accezione resta

to nei servizi extra-scolastici, La Nuova Italia, Firenze 1992; M. Donati, M. Maffetti (a cura di), L’educatore indispensabile, Vita e Pensiero, Milano 1992; AA.VV., La formazione degli educatori nella prospettiva della cultura degli anni Novanta, Atti del XXXIII Convegno di Scholè, La Scuola, Brescia 1995. Inoltre P. Zaghi, L’educatore professionale. Dalla pro-grammazione al progetto, Armando Armando, Roma 1995; P. Caspari, L’educatore profes-sionale. Una provocazione per la pedagogia contemporanea, Anicia, Roma 1995. Nel settore sociosanitario e dell’handicap. cfr. A. Canevaro (a cura di), La formazione dell’educatore professionale. Percorsi teorici e pratici per l’operatore pedagogico, Nis, Roma 1991; L. Tosco, Professione educatore. L’operatore pedagogico nel settore socio-sanitario, Franco Angeli, Mi-lano 1994.

2 Per un panorama dal punto di vista francese, valido anche per l’Italia, sul ruolo dell’educatore e sulle altre professioni sociali cfr. F. Le Poultier, Recherches évaluatives en travail social, Presses Universitaires de Grenoble, Grenoble 1990, p. 27; J.L. Martinet, Les éducateurs aujourd’hui, Privat, Toulouse 1993.

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Capitolo primo - L’educatore nell’ambito sociale

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intatta l’asimmetria del rapporto educativo, il mettersi alla testa di un gruppo.

L’accompagnamento, invece, richiama l’idea del mescolarsi al gruppo, e camminare insieme. Non stupisce che, tra le due possibilità, la sensibilità attuale scelga la funzione di “accompagnare”, di accostarsi per un tratto breve o lungo della vita di un altro, lasciando la propria via3. Si mette così in risalto l’incertezza di tutti, la condivisione delle difficoltà della vita, il valore pedagogico del viaggio in un mondo in cui anche l’educatore va alla scoper-ta del futuro4. Il viaggio si effettua nel mondo fisico, ma allo stesso tempo è un cammino interiore, una trasformazione, una crescita. C’è in questa acce-zione la risonanza dell’educazione democratica, la lezione delle pedagogie non direttive, il rifiuto della rigida separazione tra maestro e discepolo.

Un’altra metafora educativa è quella del servizio. Ereditata dalla tradi-zione filantropica e dalla pedagogia cristiana, l’immagine ricorda la dignità dell’altro, specie se piccolo o malato o straniero, e la necessità di piegarsi per servirlo.

Educare come dono di sé resta la convinzione etica della maggior parte degli educatori in servizio, ispirati religiosamente. Sintesi della vocazione dell’educatore cristiano a dare la sua vita per la crescita dei più piccoli, la dimensione del servizio si concretizza nella vita di educatori con don Mila-ni, don Bosco o Gandhi5.

Nella versione laica, educare nel senso di servire significa svolgere una funzione critica nei confronti dell’ordine sociale, coltivare da parte del-l’educatore una tendenza “ascetica”, prendere decisamente la parte degli emarginati, sviluppare in modo particolare il rifiuto del consumismo attra-verso un’etica della equità e della solidarietà.

3 Alcune metafore sono in C. De Jonckeere, Images de l’éducateur, Les Èditions I.E.S.,

Genève, 1987, p. 76. 4 M.T. Moscato, Il viaggio come metafora pedagogica: introduzione alla pedagogia inter-

culturale, La Scuola Brescia 1994. 5 Si veda in questo senso la lettera pastorale di C.M. Martini, Dio educa il suo popolo,

Centro Ambrosiano di Documentazione e Studi religiosi, Milano 1987. Sull’identità pro-fessionale dell’educatore nel senso del servizio e sulle competenze, si veda S.S. Macchietti, “Relazione introduttiva: La formazione degli educatori nella prospettiva della cultura degli anna Novanta”, in La formazione degli educatori nella prospettiva degli anni Novanta, Atti del XXXIII convegno di Scholè, La Scuola, Brescia 1995, pp. 18 ss.

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L’immaginario collettivo attuale, però, anziché l’aspetto della condivi-sione, accentua maggiormente la dimensione di sacrificio o di eroismo del servizio. Si sottolinea sempre più la necessità di realizzazione di sé dell’educatore e si diffida dell’altruismo e della prosocialità che impedireb-bero di soddisfare i propri bisogni per dedicarsi a esigenze di altri. L’educazione come vita spesa per gli altri è sempre più sostituita dall’interpretazione di vita con gli altri. Tuttavia, in questo caso, l’evoluzione del sentire comune non fa giustizia del significato più profon-do di questa scelta. Nel servizio non c’è tanto l’annullamento di sé, quanto l’espressione del senso attribuito alla propria vita rispetto a qualcosa di più importante.

Emmanuel Lévinas, ricordando la responsabilità verso il volto dell’altro riporta all’atteggiamento dell’educatore. L’altro, diverso da me, mi convoca e costituisce la mia identità. Di fronte all’altro io sono responsabile non perché mi somiglia, né solo per una causa comune che unisce: «il fatto ori-ginario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come assolutamente estraneo»6. L’identità dell’educatore, quindi, non è conculcata ma è realizzata nella responsabilità verso l’altro. Il lavoro educativo, vissuto nella maggior parte dei casi davanti al limite, all’isolamento ed alla sofferenza suo popolo, degli altri, si costitui-sce nella responsabilità e nel servizio verso di loro.

Il tecnico si occupa di riabilitare, ripristinare, restaurare, riparare quei meccanismi che hanno subito un guasto o si sono inceppati o deteriorati. Il meccanismo preesistente si suppone funzionante; la tecnica – è un’ulteriore metafora – deve individuare il blocco e intervenire, interessandosi dei mez-zi appropriati per raggiungere il fine.

Al contrario dell’educatore centrato sul servizio, infatti, il tecnico pone fiducia negli strumenti del mestiere anziché nella forza interiore o nel cari-sma personale. Rifiuta di agire a mani nude, ma ripara con strumenti, uten-sili, tecniche, metodi, griglie, giochi, attività che garantiscono la funzionali-tà dell’intervento al di là della soggettività personale.

Nel campo della pedagogia speciale è la rieducazione il principale tipo di intervento tecnico. Si rieduca un ragazzo caduto nelle maglie della legge, così come un arto fratturato, perché possa riprendere la sua funzionalità nel

6 E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (trad. dal francese), Jaca Book; Milano 1990, pp. 219 ss.

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Capitolo primo - L’educatore nell’ambito sociale

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contesto. Rieducare indica un processo di reiterazione di qualcosa che non è andato a buon fine, perché insufficiente o non utilizzato. Negli usi correnti la funzione rieducativa è ormai trascurata, quanto e più di quella educativa, in quanto evocatrice di processi di intervento “dall’esterno” che plasmano la persona riducendola ad un ruolo passivo7. Curiosamente, analogo desti-no non è avvenuto per la parola formazione, che conosce una sempre mag-giore diffusione nonostante l’etimologia che richiama chi, servendosi di uno stampo, dà una forma predefinita ad una materia inerte.

Tra le tecniche educative, Foucault ha messo in luce la disciplina delle menti e del corpo, il controllo ed il potere esercitato dalla società. Il tecnico, in questo modo, è anche colui che opera un “raddrizzamento”, riporta sulla via “retta” e rimette le persone “in piedi” con un intervento riabilitativo8. Ancora, il tecnico tenta di rendere adatti gli inadatti, modificando le per-sonalità perché si adattino al contesto e non viceversa, rendendo possibile l’inserimento sociale di chi è messo ai margini perché sia riaccolto.

L’educatore tecnico, in questo modo, trova irrisolta la contraddizione tra i compiti di integrazione e quelli di rispetto della libertà, tra prendersi “carico dell’altro e lavorare per la sua autonomia, tra spingere fuori a tentare l’avventura della vita e tenere dentro con il consenso di tutti. Tale contrad-dizione è insita nei compiti educativi e incombe su tutti gli educatori, ma il tecnico si fornisce di strumenti per risolvere i problemi, anziché sostenere la tensione ed il difficile equilibrio tra accoglienza e libertà, tra cura e spinta all’autonomia.

Anche se nella letteratura specialistica è d’uso, criticare l’immagine eroi-ca dell’educatore carismatico, bisogna ammettere, come scrive Chartier, che «con gli adolescenti difficili quelli che si allontanano troppo da questo modello non sono accettati. Più l’educatore si avvicina al polo tecnocratico, razionalista e statico, più sarà vissuto come incompetente»9. Ciò vale anche per il lavoro con bambini, persone con handicap, tossicodipendenti o an-ziani. Si può aggiungere che, di fronte alle spinte aggressive, ai bisogni in-

7 P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di interven-

to, La Nuova Italia, Firenze 1993. 8 C. De Jonckeere, Images de l’éducateur, pp. 81-89. 9 J.P. Chartier, Les adolescents difficiles. Psychanalyse et éducation spécialisée, Privat,

Toulouse 1991, p. 124.

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controllati o alla difficoltà di relazione la personalità stessa dell’educatore costituisce il più efficace strumento di aiuto10.

L’immagine del bricolage, usata frequentemente a proposito degli inse-gnanti, rispecchia la crisi attuale dell’educatore e dell’educatrice, che si rive-la anche nella loro autocoscienza. Alcune ricerche mostrano come scegliere il mestiere di educatore sia “un affare di famiglia”, nel senso che fatti, episo-di o caratteristiche della propria vita familiare (genitori che hanno fatto la stessa professione, presenza di problemi tra i congiunti, etc.) spingono su questa strada11.

Altre ricerche mettono in luce come gli educatori, per lo più giovani, in maggioranza donne, pongano in primo piano gli aspetti di molteplicità e cambiamento difendendosi contro ogni oggettivizzazione del loro lavoro. Scrive Chartier sintetizzando i risultati di una ricerca: «Gli educatori met-tevano avanti la quasi impossibilità di una definizione precisa e definitiva del loro mestiere “indescrivibile”»12.

Per molti, l’educazione è la funzione naturale dell’adulto responsabile, del buon padre (o della buona madre) di famiglia: in questo caso chi educa non è altri che colui o colei che utilizza gli elementi della cosiddetta psicolo-gia comune o popolare di cui si è parlato, cioè l’esperienza saggia e quotidiana dei genitori. Per altri, invece, è un eroe rivoluzionario; per altri ancora un semplice elemento all’interno di un complesso meccanismo sociale ed isti-tuzionale. Si potrebbe continuare con altrettante immagini per quanti sono gli educatori.

Posto fuori dall’istituzione rassicurante – anche se decaduta – della scuola, dotato di scarsi strumenti, con un’identità sociale ancora in costru-zione, assediato da professionalità forti come il medico o lo psicologo, l’educatore rischia di essere superfluo. Né genitore, né insegnante, né medi-co, finisce così per tentare di assomigliare a tutte queste figure, associandovi anche l’animatore e l’assistente sociale.Opera un bricolage tra funzioni ed obiettivi, collocandosi nel mare aperto dell’educazione informale, protetto solo in parte dalle strutture di accoglienza; Allo stesso tempo, c’è chi prende

10 M. Groppo, “Educazione e riabilitazione. Modello medico e modello pedagogico a

confronto, in M. Groppo (a cura di), Professione educatore, pp. 109-110. 11 A. Vilbrod, Dévenir éducateur: une affaire de famille, L’Harmattan, Paris 1994. 12 J.P. Chartier, Les adolescents difficiles, p. 107.

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Capitolo primo - L’educatore nell’ambito sociale

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il suo posto: giudici, assistenti sociali, animatori teatrali ed altri ancora ten-dono ad assumere funzioni educative.

Il cammino percorso in Italia con l’istituzione del corso di laurea in Scienze dell’Educazione per educatori professionali extrascolastici ha ini-ziato un circolo virtuoso di definizione della sua identità professionale. La rivalutazione della figura dell’educatore, tuttavia, non dipende solo da un titolo di studio, ma soprattutto dalla sua effettiva rispondenza ai problemi sociali. In questo senso si assiste ad un processo ambivalente e non privo di ambiguità. Da una parte l’educatore diviene necessario a causa, della sempre più diffusa delega e debolezza della famiglia. È stato messo in rilievo ad e-sempio da Remo Fornaca come l’estensione dell’extrascolastico possa essere funzionale al ritiro della famiglia dalle sfide educative. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la scuola, in cui esiste ancora la tendenza a scindere la sfera educativa da quella dell’istruzione, respingendo la prima all’esterno. Ciò avviene ormai più per motivi di saturazione (gli insegnanti denunciano una responsabilizzazione eccessiva che grava su di loro) che per cause ideo-logiche, salvo ricorrenti tentativi di scolarizzare il tempo libero degli alunni.

D’altro canto (ed è l’altra faccia della medaglia) la crescita dei bisogni educativi è connessa all’espansione dei luoghi esterni, pubblici. La presenza degli educatori in questi luoghi, nelle pieghe del sociale, soprattutto, sulla “soglia” tra dentro e fuori, tra integrazione e marginalità, costituisce un in-dubbio vantaggio; anche nei servizi pubblici lentamente gli educatori stan-no conquistando uno spazio.

Esiste, dunque, un rischio di banalizzazione del lavoro educativo. Tale pericolo va contrastato realizzando un profilo professionale distinto e ori-ginale in complementarità con gli altri, ma soprattutto respingendo ogni connotazione tecnicistica (senza naturalmente rinunciare alla competen-za), sottolineando, come ha scritto Vattier, il ruolo dell’educatore come a-gente di promozione umana, individuale e collettiva, nonché la «ricchezza di questo mestiere, lo straordinario potenziale di innovazione e di progresso costituito dalla sua esperienza, la sua capacità di riflessione, la diversità delle situazioni sperimentali da lui vissute»13.

L’efficacia dell’esperienza di vita e della maturità personale non è in con-traddizione con la competenza e la capacità critica. Al contrario, la varietà

13 G. Vattier, Les tâches actuelles de l’éducateur spécialisé, Privat, Coll. Mésopé, 1977, pp. 33-34.

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dei compiti da affrontare spinge a concepire un educatore non specializza-to, che utilizza contenuti e metodi non del tutto definibili a priori, capace cioè di interpretare e comprendere i diversi contesti con rigore critico.

Chartier elabora a questo proposito tre profili o modelli di educatori, che si attraggono e si respingono all’interno dello stesso campo. I tre poli sono costituiti dal religioso, dal tecnico, e dal politico, dimensioni apparen-temente inconciliabili di un triangolo al centro del quale c’è l’educatore. Il livello politico riguarda il riformatore sociale, quello religioso l’educatore carismatico e militante, quello tecnico il professionista della relazione. L’educatore “ideale” non esiste. Ma chi vive lo sforzo di comprendere la real-tà sta al centro di questo triangolo, pur avvicinandosi all’uno o all’altro polo in funzione della sua storia personale e familiare, della sua cultura e forma-zione14. È colui-colei che associa alla dimensione di servizio e di accompa-gnamento una padronanza di strumenti, anche “assemblando” diversi livelli di intervento. L’efficacia della sua azione risiede non nella carismaticità, né nell’uso di strumenti sofisticati, ma nella capacità interpretativa e relaziona-le nel contesto, unendo osservazione critica, elaborazione approfondita de-gli elementi in gioco, progettualità.

1.2. Cura di sé e cura dell’altro

Tra i compiti dell’educatore vi è il contributo alla formazione della per-sonalità, lo sviluppo dell’io, la crescita armonica del sé. Ognuno di questi concetti corrisponde a diversi significati, a seconda dell’ambito disciplinare e del mondo culturale che li ha espressi, sul piano storico, psicologico, an-tropologico e così via. In ogni caso, l’educazione ha a che fare con il posto dato all’individuo nella nostra società, con l’idea di realizzazione di sé e di sviluppo della personalità. Esiste una storia dell’io, che mette in rilievo la formazine dell’idea di individuo, a partire dalla filosofia greca attraverso la tradizione cristiana15. Numerosi percorsi di ricerca hanno tentato di rico-struire la genesi e lo sviluppo del sé, sia dal punto di vista della mentalità collettiva che del pensiero sociologico, nonché dal punto di vista psicoana-litico.

14 J.P. Chartier, Les adolescents difficiles, pp. 113-115. 15 L. Dumont, Saggi sull’individualismo (trad. dal francese), Adelphi, Milano 1993.

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Capitolo primo - L’educatore nell’ambito sociale

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Si potrebbe ipotizzare che, anche per operare una ricerca intorno al pro-filo dell’educatore, sia necessario prendere in considerazione la disputa sull’io, il significato attribuito a quella “invenzione” moderna ed occidenta-le costituita dall’individuo, tentando di valutare criticamente l’azione edu-cativa rispetto a questo versante culturale.

Foucault ricostruisce la storia della cura di sé a partire dalla filosofia gre-co-romana, in cui occuparsi di se stessi veniva ritenuta una delle regole fon-damentali della condotta sociale e dell’arte di vivere16 . La cura è messa in relazione alla conoscenza di sé; ma se in un primo momento occorre cono-scere per esercitare sollecitudine, via via nel tempo il secondo precetto prende il sopravvento, oscurando il primo. Nel pensiero cristiano la cura verrà guardata con maggiore severità; secondo Foucault il pensiero moder-no sarebbe erede di questa tradizione del pensiero giudaico-cristiano, che diffonde la rinuncia a se stessi, la conoscenza come denuncia delle proprie tentazioni e desideri e la necessità di essere liberi dal peso dell’io17.

Il tema, in Foucault, è assunto come filo conduttore della genesi della mentalità collettiva, attraverso una serie di passaggi. All’inizio la cura di sé rappresenta un’ingiunzione corrente nella filosofia greca, a partire da So-crate, colui che vigila perché i suoi concittadini si preoccupino di se stessi; in secondo luogo Foucault concentra la sua attenzione sulle tecniche, le tecnologie, con cui si esercita questa attenzione: esercizi, pratiche, attività, esami di coscienza, mettendo in evidenza la connessione con il pensiero e la pratica medica.

Infine, il pensatore francese afferma che tutte le tecniche sono orientate ad uno scopo: la conversione a sé, cioè ritrovarsi interiormente come in un’oasi, una fortezza protetta dal mondo esterno. Si tende ad un’etica della padronanza, del dominio, attraverso il puro piacere tratto da se stessi e dalla soddisfazione della propria compagnia18.

Questo punto di vista è diffusamente ripreso – non certo casualmente – nel pensiero attuale. In una società senza padri viene sentita l’esigenza di

16 M. Foucault, “Tecnologie del sé”, in L.H. Martin, H. Gutman e P.H. Hutton (a cura

di), Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault (trad. dall’inglese), Bollati Borin-ghieri, Torino 1992, p. 15.

17 Ivi, p. 18. 18 M. Foucalt, La cura di sé. Storia della sessualità 3 (trad. dal francese), Feltrinelli, Mi-

lano 1991, pp. 68-69.

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costruzione di un’etica laica, per alcuni da fondarsi proprio sulla base della cura di sé. L’etica che scaturisce dalla preoccupazione per se stessi non viene considerata una forma di egoismo, in quanto egoista è chi si occupa di ciò che ha, non di ciò che è; la preoccupazione per sé non escluderebbe quella per gli altri in quanto si perviene all’impegno verso l’esterno solo attraverso l’accesso alla ragione, che mette in comunicazione universale con gli altri. La cura di sé, in questo senso, potrebbe sostituire la responsabilità.

Oggi, quindi, la cura di sé rimane un valore, ma in senso molto diverso dall’accezione di cui si è parlato. La sollecitudine socratica verso la crescita interiore e la profondità di pensiero, l’amore per la propria cultura, non sembrano al centro dell’ansia dell’uomo moderno, ossessionato – più spesso – dal problema del possesso dei beni. All’opposto, è nelle forme più dete-riori che la nostra società sembra sempre più interessata alla cura di sé. Uno degli aspetti più significativi è la proliferazione della dimensione terapeuti-ca. Fin dalle origini la psicoanalisi ha costituito, ad esempio, uno degli e-sempi di tecnologia del sé che ha affrontato le paure e le angosce dell’uomo. La diffusione ormai universale della vulgata psicologica, delle attenzioni minuziose ai propri desideri e pulsioni, sembra far parte di questa inarre-stabile tendenza. La cura, anziché assumere la forma di crescita interiore, diviene la chiusura, il rifugio dell’io minacciato dal mondo esterno. Descri-vendo il mondo attuale, Lasch ha definito narcisista una società minacciata dalla disintegrazione in cui, si potrebbe dire, predomina la cura di sé. L’io minimo della nostra società occidentale è narcisista non nel senso che ama se stesso, come Narciso che si specchia e si innamora di sé, ma al contrario perché si fonde nella realtà esterna, annulla la differenziazione, fa crollare i confini tra sé e l’esterno, il mondo reale della responsabilità. La maturità dell’identità personale si attua, dal punto di vista dello sviluppo sia psichico sia culturale, attraverso la divisione tra interno ed esterno, tra interiorità ed esteriorità; ciò avviene di norma nella prima infanzia, con la separazione dalla madre. L’io immaturo, invece, a livello individuale, ma anche come soggetto collettivo, non perviene ad operare questa oggettivazione19.

19 Per l’analisi che segue si fa riferimento a C. Lasch, L’io minimo. La mentalità della

sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano 1985; dello stesso autore, cfr. anche La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni col-lettive, Bompiani, Milano 1981.

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Il narcisismo è definito dai propri interessi e desideri, subordinati al cal-colo costi-benefici; in questo senso, tuttavia, è il contrario dell’amore di sé, in quanto il desiderio che non si compie in intenzionalità impedisce la for-mazione di una individualità socializzata. Infatti, passa in secondo piano l’importanza della politica, del foro pubblico, esterno, delle azioni oggettive che si compiono, e del giudizio della comunità sulla vita dei suoi membri20.

Alcuni – quello che Lasch definisce il partito del super-io – pensano che per contrastare tale crisi occorra ripristinare l’obbedienza alle norme, la di-pendenza dalla natura, e combattere ogni velleità di eccessiva libertà del-l’uomo, riaffermando il valore dei comportamenti appresi. La critica al su-per-io, alla staticità delle norme e delle tradizioni culturali ereditate dalle generazioni precedenti, è stata condotta soprattutto dalla tradizione libera-le che «sta dalla parte della razionalità, del realismo, dell’io, sia contro gli impulsi che contro l’etica ereditata»21. Altri ancora propendono verso il narcisismo, nel senso di ritenere l’idea di individuo ormai obsoleta, e tenta-no di superare il dualismo con la natura, di annullare la divisione tra l’uomo e il mondo esterno, tra persona e società attraverso una nuova fusione, una perfetta armonia. Sono esemplari in questo senso i movimenti new age, che tendono al recupero della dimensione immanente e olistica.

Per Lasch, sia coloro che esaltano la razionalità dell’io, sia coloro che an-nullano il dualismo tra l’io e il mondo, perdono ciò che vi è di valido nell’individualismo, e cioè la tensione ed il conflitto. È necessario invece af-fermare una salda concezione dell’individualità purché nella «consapevo-lezza critica della natura divisa dell’uomo. L’individualità si esprime nella forma di una coscienza colpevole, la dolorosa consapevolezza dell’abisso che vi è tra le aspirazioni e i limiti umani»22. La risposta non è di conseguenza nella rigidità dell’affidamento ad una superiore autorità sociale, né nell’an-nullamento del mondo della realtà oggettiva per rifugiarsi nell’intimità, ma nella coscienza critica su di sé e sui limiti dell’uomo.

La cura di sé ha senso soltanto all’interno della “struttura ternaria”, pro-posta da Ricoeur, cioè accanto alla cura dell’altro e alla preoccupazione per-ché vi siano istituzioni giuste: «non ci sarebbe un soggetto responsabile se

20 R.N. Bellah, Le abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa

(trad. dall’inglese), Armando Editore, Roma 1996, p. 167. 21 C. Lasch, L’io minimo, p. 143. 22 Ivi, p. 179.

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questi non potesse stimare se stesso in quanto capace di agire intenzional-mente, cioè secondo delle ragioni riflesse, e se non fosse capace di inscrivere le sue intenzioni nel corso delle cose, mediante iniziative che intrecciano l’ordine delle intenzioni con quello degli avvenimenti del mondo. La stima di sé, così concepita, non è una forma raffinata di egoismo o di solipismo. Il termine sé è là per mettere in guardia contro la riduzione ad un io centrato su se stesso»23.

1.3. L’educatore debole

Ci si può chiedere se anche gli educatori non siano immersi in un clima caratterizzato dalla propensione alla cura di sé come «riduzione ad un io centrato su se stesso», alla prevalenza della dimensione terapeutica, all’autoesame. Va detto che oggi sempre più spesso identità, vita sociale, at-teggiamenti, comportamenti, vengono posti sotto il dominio del terapeuti-co. Ciò avviene quando le esigenze etiche vengono subordinate ai criteri della realizzazione personale, da affidare appunto alla terapia, cioè all’insistenza sull’espressione dell’io, alla mitigazione dei propri problemi, insomma alla cura di sé24. Gli altri, nella visione “terapeutica”, vengono considerati solo nella misura in cui aiutano tale realizzazione, e non come parte della rete di rapporti, del dialogo che caratterizza lo scambio interper-sonale. I legami con la polis, con la sfera pubblica, con il mondo sociale, pas-sano di conseguenza in secondo piano25.

Le parole d’ordine dell’espressione e della realizzazione personale inva-dono la sfera educativa e impegnano l’educatore nella costruzione della propria identità, in analogia con l’atteggiamento di molti genitori che ve-dono in ogni caso come prioritario il diritto alla propria realizzazione. An-che molti educatori considerano prevalente sui bisogni delle persone il di-ritto alla propria realizzazione. Ne è prova l’attenzione sempre maggiore rivolta all’autoesame da parte dell’operatore pedagogico, testimoniata dalla diffusione di un’ampia letteratura sullo stress e sui rischi derivanti da rap-

23 P. Ricoeur, Persona, comunità e istituzioni, pp. 78-79. 24 C. Taylor, Radici dell’io: la costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano

1993, p. 616. 25 Ivi.

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porti ansiogeni, e l’ampliamento della ricerca nella direzione delle sue proiezioni e aspettative.

La conoscenza di sé da parte dell’educatore è parte integrante dell’ap-proccio interpretativo e comprensivo che abbiamo proposto. Gran parte delle azioni, degli atteggiamenti, delle immagini che confluiscono nelle scel-te educative, infatti, derivano dal mondo interno e dai precedenti incontri interiorizzati con persone significative. Quando si educa, emergono in mo-do inconscio tali modelli, proiezioni, o immagini, e si tende a riprodurre le situazioni educative che si sono vissute nella propria storia. La differenza con l’educazione “naturale” risiede anche nella capacità di conoscenza del peso della propria storia personale nella pratica educativa.

In questo senso non sono da trascurare i richiami all’esplicitazione dei propri modelli di lavoro, concezioni dell’educazione e ipotesi interpretati-ve, che rimangono per lo più impliciti. I modelli teorico-disciplinari devono essere confrontati in quanto, più meno consciamente, agiscono già sulla pratica, sia che si faccia riferimento ad approcci umanistici, di tipo compor-tamentista, ispirati alla prospettiva fenomenologica, o, più o meno compiu-tamente, a criteri interpretativi. Anche le abitudini di pensiero, le esperien-ze maturate, le consuetudini naturali, richiedono di essere espresse, esaminate, discusse, interpretate per poter aprire il confronto ed il miglio-ramento delle proprie azioni educative. La formazione dei formatori, in questo senso, si basa in larga parte sulla esplicitazione, capacità di critica e allargamento di conoscenze pedagogiche già acquisite26.

Tuttavia, conoscenza di sé non significa orientare la propria pratica dan-do spazio preponderante ai propri sentimenti, immagini, percezioni. Certo, sono innegabili i rischi di frustrazione e insoddisfazione. L’esperienza della ricerca sulla didattica e sugli insegnanti mostra che una maggiore conoscen-za dei meccanismi psicologici, delle potenzialità della comunicazione verba-le e non verbale, dei modelli etici di riferimento ha prodotto un migliora-mento dell’insegnamento. Il rischio di bruciarsi, tuttavia, sia nel lavoro educativo che didattico, va affrontato rafforzando le motivazioni ed il signi-ficato che scaturisce dal dialogo e dall’affettività matura, imparando a cono-

26 Cfr. P. Zaghi, L’educatore professionale, pp. 30-33; M. Venturello, L’educatore e la

conoscenza di sé nella relazione educativa, in «Animazione Sociale», 8/9 agosto-settembre 1994, pp. 47-52.

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scere i propri limiti e a sostenere la tensione tra la realtà e il progetto, non “ricaricandosi” o creando artificialmente una distanza nelle relazioni.

La tendenza attuale di parte della pedagogia a virare verso la clinica, da una parte esprime la necessità di aprire all’educazione il campo del rapporto con il “cliente” che ha bisogno di aiuto, dall’altra rischia di accentuare l’aspetto puramente terapeutico di cui si è parlato. Molte nuove tendenze della cultura della formazione soprattutto nel campo degli adulti – si collo-cano sul filo del rasoio che vede da una parte l’attenzione all’individuale al percorso di vita, all’idiografico; e dall’altra una preoccupante mancanza di obiettivi e di finalità a parte quelli della generica realizzazione di sé.

L’assimilazione al modello terapeutico avviene anche nella quotidianità, nella divisione dei ruoli professionali all’interno del lavoro d’équipe (dove l’educatore rappresenta l’anello debole), nella diffusione di modelli ripresi dalla pratica psicologica: dinamiche di gruppo, case-work, simulazioni. È noto che il ruolo dell’educatore mostra, come si è detto, una dipendenza e un rischio di appiattimento da modelli culturali e professionali più forti, come quello medico27. Groppo ha messo in luce come quest’ultimo impli-chi il processo che va dalla diagnosi clinica alla prescrizione di una terapia per la soluzione del caso, mentre l’intervento educativo «è centrato sul rapporto interpersonale tra l’educatore e l’educando, in un tempo lungo e continuativo e con una consistenza quotidiana molto rilevante, finalizzato ad una progressiva maturazione personale», concludendo che la differenza sta proprio nella qualità del rapporto, nella sua durata e nella sua finalità28.

Anche nella pratica educativa si tende a riprodurre l’atteggiamento tera-peutico, e cioè un rapporto «tipicamente distante, circoscritto e asim-metrico»29. L’asimmetria è un elemento fondamentale nell’azione educati-va, in quanto consiste nell’azione anticipatrice, nel tempo e nella progettualità, da parte dell’educatore30. Chi educa non ha una superiorità di status, ma anticipa, progetta, propone: ed in ciò risiedono il valore ed il senso dell’asimmetria. Nella visione terapeutica, tuttavia, l’asimmetria com-

27 La differenza tra il modello psicoterapeutico e quello educativo è in L. Pati,

L’educazione nella comunità locale. Strutture educative per minori in condizione di disagio esistenziale, La Scuola, Brescia 1990, pp. 254 ss.

28 M. Groppo (a cura di), Professione educatore, pp. 101-102. 29 R.N. Bellah, Le abitudini del cuore, p. 161. 30 M. Postic, La relazione educativa, pp. 120-121.

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comporta la “neutralità” di chi cura, l’intervento misurato e calcolato, l’enfasi sull’ascolto, ponendo in secondo piano lo scambio, l’incoraggiamento, il consiglio, la correzione, il dissenso.

La distanza costituisce un elemento di difficile integrazione nella rela-zione pedagogica, costruita sull’empatia, la partecipazione, la relazione rav-vicinata. Ancora, lo stesso si può dire del rapporto circoscritto, tipico della pratica terapeutica o psicanalitica o medica, in cui il medico (o terapeuta) cura il “paziente” per un periodo di tempo limitato, fuori dal suo ambiente di vita, con regole prefissate, in un ambiente particolare, su argomenti spe-cifici. L’educatore, al contrario, vive la quotidianità, la condivisione dell’ambiente di vita e soprattutto l’interpretazione e l’azione dentro il con-testo anziché in un ambiente terapeutico predeterminato, contemperando dimensione sociologica (cioè i riferimenti territoriali), con quello psicologi-co e pedagogico31.

Come è stato individuato in un documento elaborato da un gruppo di esperti per fare il punto sull’identità professionale dell’educatore, le sue ca-ratteristiche distintive e specifiche sono la «condivisione della vita quoti-diana» e da stimolazione e valorizzazione delle risorse personali e del con-testo familiare dei soggetti, oltre che di quelle del territorio; dell’attivazione di processi di cambiamento nella prospettiva di una costruzione della co-munità locale, in un’ottica preventiva e promozionale da un lato, compen-satoria e integrativa dall’altro»32.

L’atto educativo, a differenza dell’azione terapeutica, didattica o sociale, si iscrive nella pratica quotidiana, domanda di essere individualizzato per contribuire a costruire l’identità della persona e si inserisce in una dimen-sione sociale. Anziché offrire o scambiare valori d’uso, reca nella relazione valori “simbolici” come autostima, rappresentazione del mondo, l’autonomia33. La situazione che rende molto particolare l’azione educativa è la condivisione di un vissuto quotidiano attraverso la mediazione di molti

31 C. Scurati, “La figura dell’educatore professionale”, in M. Groppo, L’educatore pro-

fessionale oggi, p. 37. 32 Centro Studi E Formazione Sociale “Fondazione E. Zancan”, L’educatore professio-

nale, in «Animazione Sociale», 8/9, agosto-settembre 1996, pp. 16-26. 33 D. Demetrio, Lavoro sociale e competenze educative. Modelli teorici e metodi di inter-

vento, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1988, p. 40.

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piccoli atti e l’impegno in un qui e ora con il giovane, la famiglia e il suo ambiente34.

Il Sé terapeutico poggia su «una considerazione dei rapporti interper-sonali centrati sullo scambio contrattuale, stabilito nella comunicazione e nella negoziazione, e fondato sulle responsabilità ultime di ogni uomo e di ogni donna solamente verso se stessi», cioè su una forma particolare di «contrattualismo»35.

Negoziazione e contrattualismo rappresentano concetti operativi anche in campo pedagogico. Costituiscono le basi delle pedagogie di stampo ro-gersiano, che hanno aperto alle pratiche educative le porte dell’ascolto em-patico e dell’accoglienza dell’altro. Nel campo dell’educazione degli adulti la loro partecipazione alla loro formazione rappresenta il punto cardine del-la filosofia formativa. Huberman, sulla scorta dei lavori di Kidd, ha elabora-to ad esempio in chiave contrattualista alcune ipotesi fondamentali che de-vono guidare l’educazione degli adulti: – affidare agli adulti la responsabilità della loro istruzione; – l’insegnamento deve essere basato sulla realtà quotidiana e su esperienze

significative strettamente legate al suo quadro sociale; – i programmi devono essere basati su obiettivi significativi, che l’adulto

può scegliere; gli obiettivi della formazione non devono contrastare con progetti di sviluppo dell’adulto;

– occorre prendere come punto di partenza la competenza reale dell’adulto;

– il formatore non deve creare una situazione di ricezione passiva; la rela-zione formatore/discente deve essere rispettosa, perché l’adulto non la avverta come minaccia al sé e attui quindi una resistenza al cambiamen-to36. La pedagogia del contratto rappresenta un opporto nuovo e imprescin-

dibile nel panorama dell’educazione degli adulti e dell’istruzione scolastica, a causa dell’importanza accordata alla partecipazione nel processo formati-vo. Tuttavia oggi si assiste anche ad uno svuotamento dei suoi molteplici significati, fino a generare soprattutto le parole d’ordine di una certa for-

34 J.L.Martinet, Les éducateurs aujourd’hui, p. 110. 35 R. Bellah, Le abitudini del cuore, p. 169. 36 A.M. Huberman, Gli adulti imparano?, in «Quaderni dell’Istituto R. Owen», Mi-

lano, 1984.

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mazione di tipo aziendale, che, pur costituendo a tutti gli effetti un mercato in forte espansione, presenta anche una «miseria culturale e effettiva inani-tà operativa»37.

Contrattualismo, negoziazione e transazione, come ha osservato Postic, costituiscono aspetti importanti della relazione educativa, soprattutto nella scuola. Indicano la possibilità da parte di bambini, adolescenti e adulti di partecipare a pieno titolo e come parte attiva al dialogo educativo. Nella transazione è messo in evidenza soprattutto il vantaggio che la persona da educare (in particolare l’alunno) pensa di ricevere stabilendo in anticipo condizioni dello scambio con l’insegnante. Il contratto, di conseguenza, è una metodologia pedagogica estremamente rimotivante nei confronti di bambini e ragazzi in difficoltà o che hanno avuto esperienze negative in campo scolastico e che possono far valere le proprie ragioni nei confronti degli adulti. Nel contratto è messa in rilievo la reciprocità, la scelta di regole che guidino il rapporto permettendo alle parti di ottenere ciò che desidera-no dall’altro (ad esempio ascolto e giustizia da parte degli insegnanti, parte-cipazione e disciplina da pate degli alunni)38.

È stato tuttavia osservato che la contrattazione, sul piano educativo, ha anche altri scopi. Come ha messo in rilievo Postic, commentando le ricer-che di J. Filloux, attraverso di essa le parti stabiliscono le regole del rappor-to, diritti e doveri reciproci, ma soprattutto si tutelano da ogni incertezza definendo i limiti da non oltrepassare. Il contratto costituisce una difesa dalle possibili aspettative dell’altro e sposta la relazione su un piano imper-sonale. Così il rapporto di diritto “maschera”gli aspetti di dominio e potere presenti in ogni relazione educativa, sotto un’apparenza purificata da ogni conflittualità39.

Questa analisi basata sul potere non viene qui richiamata allo scopo di annullare l’asimmetria del rapporto educativo, specie nel caso dei bambini, con la relativa conclusione di considerare ogni rapporto come manipola-zione; tale tendenza radicale è già stata ampiamente discussa negli ultimi

37 R. Massa, Educare o istruire, Unicopli, Milano 1987, p. 27. Sul rapporto tra educa-

zione e formazione, cfr. R. Massa, “La formazione oggi come campo di interventi e di sape-ri: il rapporto con la pedagogia”, in F. Gambi, E. Frauenfelder (a cura di), La formazione. Studi di pedagogia critica, Unicopli, Milano 1994, pp. 285-303.

38 M. Postic, La relazione educativa, pp. 122-138. 39 Ivi, pp. 131-132.

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decenni, a partire dalle ricerche della pedagogia istituzionale, delle tesi de-scolarizzatrici, e così via. Si vuole invece porre l’attenzione sulla funzione di controllo presente anche nei rapporti “paritari” o contrattuali. La parteci-pazione dell’altro (tanto più se adolescente, giovane o adulto) è indispensa-bile; ma la contrattazione anticipata, la fissazione di regole, la negoziazione dei rispettivi ruoli non devono costituire una difesa, da parte dell’educatore, nei confronti delle attese di personalizzazione, attenzione, affetto, coinvolgimento dell’altro. È debole non l’educatore che instaura una dinamica educativa partecipata ed attiva, ma quello che si nasconde da-vanti all’imprevisto.

Un altro tipo di ruolo assunto frequentemente da insegnanti e educatori è quello di mediazione. Si tratta di un compito necessario nella complessità delle situazioni e del contesto; tuttavia l’educatore non è necessariamente ostaggio della complessità. La società attuale, nella sua multiformità, pre-senta all’interno legami deboli e allentati. La crisi della famiglia e delle isti-tuzioni tradizionali come la scuola, la labilità delle appartenenze in un mondo sempre più allargato, la proliferazione dei mass media che permet-tono la comunicazione a distanza configurano un quadro di rapporti tenui e differenziati. Il nuovo tipo di società, in cui si trovano molteplici e diversi tipi di relazioni, crea la necessità di un educatore che sappia gestire la com-plessità.

Molti contesti educativi presentano, in scala, la stessa situazione di si-stema a “legame debole”, caratterizzata cioè da precarietà, indeterminatez-za, temporaneità40. Se si escludono le istituzioni totali come i vecchi collegi o i carceri, gli altri contesti (in particolare i servizi sociosanitari) possono presentare una mancanza di chiarezza nel rapporto tra mezzi e fini, a causa delle differenze tra le persone impegnate, a differenze interne come l’incertezza sul proprio ruolo, o esterne, nell’ambiente sociale. Di conse-guenza pongono alla persona il problema di ridefinire continuamente il proprio ruolo e le proprie funzioni in una situazione che presenta molte va-riabili, senza soccombere di fronte alla complessità41.

L’educatore, in questa concezione, diviene il “nodo” della rete costituita dalle relazioni sociali, parentali, affettive in un determinato sistema. Egli si

40 O. Liverta Sempio, “Il lavoro dell’educatore nei sistemi di relazione”, in M. Groppo (a cura di), Professione educatore, p. 132.

41 Ivi, pp. 135 ss.

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trova spesso a dover effettuare un lavoro di sintesi, il punto di incontro di numerose aspettative ed esigenze, divenendo l’interfaccia che permette a due mondi – la persona da educare e la società – di comunicare.

Il lavoro sociale di rete, i cui principi sono stati elaborati in Italia sulla base degli studi anglosassoni, apre all’assistente sociale un ruolo di attivato-re delle risorse della comunità42. L’operatore, e queste indicazioni sono va-lide anche per l’educatore, ha il compito di integrare il mondo dei servizi formali con quelli informali (famiglia, parentela, rapporti amicali, vicinato), superando la separazione tra competenza specialistica e capacità umana di appoggio, sostegno, cura. Non si tratta di scegliere tra il lavoro sul caso o quello sulla comunità, ma incrementare la comunicazione e agire sulla co-munità attraverso i singoli e sui singoli attraverso la comunità43.

Alcuni principi del lavoro di rete possono arricchire il quadro dell’identità dell’educatore: in primo luogo quello appena enunciato di in-tegrazione tra intervento tecnico e intervento umano, separati dalla logica burocratica che vede i servizi socioeducativi strutturati e competenti, men-tre quelli informali, come la famiglia e la comunità, inabili. Questo pregiu-dizio, nato dallo sviluppo del Welfare state in forma autoreferenziale, im-pedisce di sfruttare le risorse del contesto sociale44.

Una seconda dimensione messa in rilievo nell’ottica del lavoro di rete è quella della reciprocità, ossia della possibilità di scambio, e non solo di rice-zione passiva, da parte delle persone aiutate. Il termine “utente” utilizzato nel servizio sociale, e purtroppo in molti casi anche dagli educatori, è scor-retto sotto vari profili; ma lo è soprattutto in quanto mette in luce solo la situazione di bisogno e di carenza di risorse delle persone, dimenticando la forza, la dignità personale, l’esperienza, l’affettività che le persone possono dare e non solo ricevere45.

Tuttavia, assimilare tout court il lavoro di rete all’interno del lavoro edu-cativo senza verificarne gli obiettivi rischierebbe di trasformare l’identità dell’educatore. I compiti di mediazione, infatti, non esauriscono il suo pro-

42 F. Folgheraiter, Operatori sociali e lavoro di rete. Saggi sul mestiere di altruista nelle so-

cietà complesse, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento 1990; si veda anche L. Sanicola (a cura di), Reti sociali e intervento professionale, Liguori, Napoli 1995.

43 Ivi, pp. 176-77. 44 Ibidem. 45 Ivi, pp. 188-189.

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filo, in quanto rimane centrale la dimensione del rapporto interpersonale intenso, interpretato, storicizzato, la capacità progettuale, e la funzione cri-tica, nei confronti dell’ambiente sociale a livello micro e macro. Come, la scuola ogni contesto educativo extrascolastico, sia un centro, una comunità o la strada, è un campo dove si affrontano/confrontano forze sociali, diver-se, visioni del mondo, culture, modi di pensare, agire e parlare condizionati dall’influenza, del proprio ambiente di provenienza. In questo senso l’educazione non è neutrale, ma critica, in quanto è consapevole del “mar-chio” sociale e culturale delle situazioni.

La presenza dell’educatore, la carattetistica del suo lavoro concreto e quotidiano accanto alle pesone, la ricerca di significati per la loro vita crea, come scrive Olga Liverta Sempio, un «legame “forte” anziché “debole”, su più piani, da quello della vicinanza anche fisica a quelli del coinvolgimento, della durata, della significatività in rapporto al lavoro»46. All’interno di un sistema a legami deboli l’intervento educativo deve presentare caratteristi-che “forti” non per eludere la complessità o cercare di dominarla, ma per affrontare con strumenti originali l’ambiguità, (contraddittorietà e fragilità, dei rapporti umani e delle caratteristiche organizzative nei contesti in cui lavora. Infatti, la mediazione diviene un’operazione fine a se stessa quando non si stabilisce un obiettivo comune di intervento sulla realtà che ricon-duce ad una reponsabilità qualificabile come politica.

1.4. Responsabilità verso la polis

Il mondo terapeutico ideale fin qui descritto anche nelle sue espressioni educative, è senza politica e quasi senza comunità47. In realtà questi due ambiti di relazione costituiscono la dimensione essenziale per la costruzio-ne dell’identità del singolo. Mentre si ammette facilmente che le persone hanno bisogno di legami, amicizie, impegno, in una parola di una comunità di vita in cui lavorare ed impegnarsi, allo stesso tempo, come ha scritto Bel-lall, «proprio il linguaggio dei rapporti terapeutici sembra togliere ogni

46 O. Liverta Sempio, “Il lavoro dell’educatore nei sistemi di relazione”, in M. Groppo

(a cura di), Professione educatore, 152. 47 Un quadro di tale tendenza nella società americana è in R. Bellah, Le abitudini del

cuore.

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possibilità di altri rapporti che non siano quelli guidati dall’interesse perso-nale»48. La comunità sociale, così come la famiglia, rappresenta secondo questa visione un luogo di dare-avere, dove esprimere e soddisfare i propri bisogni, un rimedio temporaneo contro la solitudine.

Oltre all’enfasi sul sé – sempre più spesso definito come Sé – sono dun-que le dimensioni sociali e politiche che appaiono trascurate in una società (e in un’educazione) di tipo narcisista. È inclinata verso la dimensione te-rapeutica la società che vive un’inflazione della psicologizzazione, cioè la trasformazione di un problema che andrebbe definito storicamente, so-cialmente e politicamente in una situazione il cui senso si esaurisce nella dimensione psicologica49. Non si vuole naturalmente mettere in questione l’uso corretto della psicologia, ma discutere l’eccesso di codici individualiz-zanti applicati a situazioni che possono essere descritte, spiegate ed affron-tate a livello di sviluppo economico, caratteristiche sociali, tradizioni an-tropologiche e così via50.

Anche l’approccio educativo sembra progressivamente voler fare a me-no, della politica e della comunità. La società viene assunta come sfondo, un contesto che a volte viene tratteggiato dagli educatori esclusivamente come scenografia su cui si svolge l’azione. La dimensione sociopolitica, co-me hanno messo in rilievo molte ricerche nell’ultimo decennio, spaventa soprattutto i giovani a causa della complessità. L’educazione si fa terapeuti-ca e si allontana dalla funzione critica, tentando di occuparsi esclusivamen-te dell’individuo. L’attenzione per il piano storico e sociale, invece, conduce a leggere la realtà non soltanto in base a ciò che è percepito soggettivamente dalla psiche.

Nessun intervento educativo è mai neutrale rispetto alle visioni di socie-tà assunte – anche implicitamente dall’educatore e veicolate attraverso l’azione, il comportamento, il linguaggio. L’assunzione del livello sociopoli-tico consiste nell’esplicitazione, da parte dell’educatore, della sua visione di società e di una scelta di trasformazione dei rapporti sociali all’interno del lavoro di comprensione, in un progetto per la persona e per la società sulla

48 Ivi, p. 181. 49 Tale rischio è evidenziato in R. Castel, Verso una società relazionale. Il fenomeno “psy”

in Francia (trad. dal francese), Feltrinelli, Milano 1982, p. 38. 50 Ivi, p. 44.

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base dell’etica ternaria di Ricoeur: stima di sé, dell’altro in istituzioni giu-ste51.

Infatti l’educazione stessa, come fenomeno intersoggettivo, si colloca nel campo dell’etica52. Si tratta di un compito politico, di interesse per la polis, per la convivenza umana ed è essenzialmente un compito di responsabilità, come indica ancora una volta il pensiero di Ricoeur. Secondo il filosofo francese, la responsabilità non consiste infatti nell’indicare se stessi come autori dei propri atti (sarebbe poco), ma è rivolta verso l’altro e verso il fu-turo.

La capacità di essere responsabili diventa attuale e reale, viene risvegliata, soltanto dal richiamo dell’altro. Il Volto dell’altro, nell’etica di Lévinas, si impone e mi costituisce. Come ha scritto Simon, attingendo al pensiero di Lévinas e Ricoeur, «la responsabilità così come si presenta, suppone dun-que un’alterità (quella dell’altro), un’ingiunzione ed un appello che emana-no dal “volto” dell’altro e iniziano il percorso etico»53.

Ma la responsabilità non è soltanto verso l’altro come singolo, nella vita privata, cioè quella che Ricoeur definisce la «relazione corta» verso il pros-simo; essa consiste anche nella «relazione lunga», che considera le implica-zioni economiche, sociali, politiche, istituzionali54. È questo lo spazio della politica, il “terzo” verso cui si attua la corresponsabilità del singolo. Non si può concepire una relazione intersoggettiva indipendentemente dalla terza istanza delle regole sociali. L’altro non è soltanto il prossimo, ma anche il socio: «in questo ordine di realtà, il rapporto dell’uomo verso l’uomo è in-diretto e passa attraverso la mediazione oggettiva delle istituzioni, delle leg-gi, del diritto. L’altro è incontrato, non nell’epifania irriducibile del suo vol-to, in quello che ha di unico e di ineffabile, ma nell’anonimato di strutture impersonali: il prossimo si nasconde dietro il socio». E ancora «la relazione corta ha bisogno del sostegno e della protezione della relazione lunga. A sua volta, quest’ultima ha bisogno di essere rigenerata continuamente dalle e-nergie della prima per evitare l’oggettivizzazione spersonalizzante

51 P. Ricoeur, Persona, comunità, istituzioni, p. 90. 52 M. Hellemans, Senso o non senso di una pedagogia cristiana, in «Pedagogia e Vita»,

1, 1992, pp. 7-17. 53 R. Simon, Ethique de la responsabilité, Les Èditions du Cerf, Paris 1993, p. 63. 54 Ivi, pp. 71 ss.

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Capitolo primo - L’educatore nell’ambito sociale

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dell’istituzione e della legge, e la riduzione del soggetto all’anonimato dei rapporti tecnici, sociali, politici»55.

La responsabilità dell’educatore, quindi, non è soltanto nella relazione interpersonale, ma nell’ampliare la sua attenzione ai processi collettivi gui-dati dalle norme della vita civile. L’“educatore politico” è colui che associa, nella distinzione di Weber, l’etica della convinzione (la forza dell’ideale, l’utopia) a quella della responsabilità (attenzione dell’efficacia e le conse-guenze degli atti), l’amicizia e la giustizia, individualità e interessi collettivi, utopia e realismo56.

La responsabilità si attua verso «il richiamo venuto dal fragile». Il fragi-le è tale per debolezza naturale o è minacciato dalla violenza storica. Fragili sono gli individui, i gruppi, le comunità, l’umanità stessa, e in particolare l’infanzia, le persone che soffrono, deboli, isolate, anziane. Ma anche la convivenza umana è fragile57. Fragile è anche ciò che è minacciato dalla vio-lenza storica, è ciò che viene dimenticato, e di conseguenza l’educatore ha anche un compito di memoria.

La politica è altresì agile, perché si innesta all’incrocio tra due dimen-sioni: una orizzontale, che riguarda la convivenza tra gli uomini, e una ver-ticale, che fa riferimento alla gerarchia, all’autorità, al potere58. Tra le due dimensioni esiste una contraddizione, e allo stesso tempo l’una degenere-rebbe senza l’altra. L’educazione, in questo senso, può essere considerata politica in quanto collegata alla dimensione orizzontale, al voler-vivere-insieme dei cittadini ed è qui che crea risorse, mette in campo progetti ed energie, per sostenere e motivare la convivenza.

Le implicazioni pedagogiche di questa impostazione sono chiare. L’azione educativa non è un intervento sull’altro, ma insieme all’altro sulla realtà. Questo avviene in un triplice senso: da una parte l’orizzonte sociale e politico rientra nella responsabilità di chi educa, è iscritto nella sua stessa azione.

A partire dalle relazioni vere ed autentiche che si creano con le persone viene assunto anche il loro contesto di vita e gli aspetti regolativi e normati-vi della vita sociale. In questo modo gli educatori divengono agenti di cam-

55 Ivi, p. 154. 56 Ivi, p. 74. 57 P. Ricoeur, Persona, comunità, istituzioni, pp. 108-109. 58 P. Ricoeur, La critica e la convinzione, Jaca Book, Milano 1997.

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biamento, promotori di trasformazioni sociali, non solo nell’ambito del territorio, ma anche in un contesto più vasto.

Inoltre, educare significa rendere responsabili verso l’altro e verso la so-cietà, indicare la presenza del prossimo e del terzo costituito dall’ordine so-ciopolitico. Ciò vale per l’educazione del bambino che cresce in una comu-nità di vita, per il ragazzo difficile che apprende a rispettare la legge, ma anche per adulti o anziani che apprendono non solo la cura di sé, ma so-prattutto la cura dell’altro, restituendo dignità e significato alla loro esi-stenza.

Infine, l’educazione aperta al contesto ed all’azione civile, sociale e poli-tica, crea ciò che Gadamer ha definito una «fusione di orizzonti», ovvero la capacità di incontrarsi tra persone diverse e lontane a partire da uno sco-po comune. È il “segreto” dell’educazione, che crea coesione all’interno del gruppo e tra gruppi, della capacità aggregativa e di amicizia che trova motivi per voler-vivere-insieme, la prospettiva che pone nella finalità di reciproco interesse da raggiungere la sfida della comprensione e della convivenza tra diversi.

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Capitolo secondo IL DIBATTITO SULL’EDUCATORE*

2.1. La ricerca di una distinzione con altre figure

In stretta correlazione con la logica dell’appartenenza, il dibattito sull’educatore si è caratterizzato per una logica di distinzione. La distinzio-ne si è andata caratterizzando, principalmente, alla ricerca di che cosa speci-fichi il lavoro educativo1 all’interno del lavoro sociale e di che cosa connoti la figura educativa rispetto ad altri operatori sociali, soprattutto l’assistente sociale.

A questo proposito, è opportuno riprendere il pensiero di Folgheraiter il quale propone una distinzione tra “servizio sociale” ed “educazione socia-le”. Egli precisa così il suo approccio. “Abbiamo visto che il servizio sociale e l’educazione sociale possono definirsi tali (sociali) avendo essi un comune denominatore quanto al loro oggetto: l’attenzione alla capacità di azione per il benessere (classificabile nei tre livelli conosciuti come autosufficienza, autorealizzazione e eterorealizzazione). Dal momento che queste profes-sioni non fanno entrambe la stessa cosa, come è evidente, né operano nello stesso modo, ci si è interrogati su quale sia il ‘numeratore’ di ciascuna, vale a dire quale sia la loro specificità”2.

* Tratto da: P. Triani, Sulle tracce del metodo, Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cat-

tolica, Milano 2004, pp. 26-50. 1 Accanto alla distinzione tra lavoro educativo e lavoro sociale, diversi autori operano

una distinzione tra lavoro educativo e lavoro pedagogico per distinguere un’azione educa-tiva spontanea da un’azione realizzata invece attraverso un’adeguata preparazione teorico-pratica. Nel contesto della presente riflessione, si è ritenuto opportuno non affrontare di-rettamente questa distinzione.

2 F. Folgheraiter, Teoria e metodologia del servizio sociale, op. cit., p. 165.

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Il servizio sociale è caratterizzato, principalmente, dalla logica dell’assistenza, “con tutte le sue sfaccettature possibili, di organizzazione, di soluzione di problemi e di controllo”3. Per questo consiste “nel fronteggia-mento a breve, o nel lungo periodo, di situazioni o problemi di vita intesi come conseguenze dirette o indirette di carenze strutturali di capacità di azione delle persone interessate”4. L’assistente sociale, in quanto figura spe-cifica del servizio sociale, opera come guida dell’azione a livello assistenziale. I processi di aiuto che egli mette in atto sono rivolti “al fronteggiamento di compiti il cui contenuto primario” è “la compensazione, il riarrangiamento o il puntello nel tempo – a breve o a lungo periodo – di difficoltà sociali dovute a carenza d’azione, senza pertanto l’intendimento esplicito di recu-perare tale carenza individuale”5.

L’educazione sociale, correlativamente, “mira a una correzione struttu-rale della capacità di azione compromessa o in via di compromissione, nel senso di favorire il processo di maturazione personale, ovvero l’apprendimento o il riapprendimento di necessarie competenze o atteg-giamenti adattivi”6. Gli educatori professionali hanno così un compito di guida dei processi al livello riparativo7, essi intervengono per far recuperare o – in una accezione maggiormente preventiva – sostenere, le capacità di azione.

La strada percorsa da Folgheraiter8, dunque, è costruita su una distin-zione di livello di intervento a cui corrisponde una distinzione di oggetto di

3 Ibi, p. 159. 4 Ibi, p. 150. 5 Ibi, p. 165. 6 Ibi, p. 150. 7 Cfr. Ibi, pp. 165-166. 8 Collegandosi esplicitamente al lavoro di Folgheraiter, recentemente, R. Franchini ha

proposto l’articolazione di ‘quattro figure professionali dei servizi sociali’, suddivise su due ‘comparti’: sociale e educativo. Ogni comparto si caratterizza per la presenza di una profes-sione maggiormente orientata alla ‘guida’ dell’azione, al coordinamento e di una seconda professione maggiormente orientata alla declinazione operativa dei progetti e alla gestione concreta dei processi. Ne deriva un quadro d’insieme delle professioni dei servizi sociali caratterizzato da: operatore socio-sanitario; assistente sociale; educatore professionale; pe-dagogista. Cfr. R. Franchini, Costruire la comunità-che-cura, FrancoAngeli, Milano 2001, pp. 62-84.

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Capitolo secondo - Il dibattito sull’educatore

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lavoro. In questa prospettiva l’educatore trova una sua specificità in quanto figura che opera sull’apprendimento del soggetto, sul suo cambiamento.

Evidentemente questa posizione, seppure utile a tracciare alcune distin-zioni, non è esente da difficoltà, di cui è consapevole Folgheraiter stesso. Si può tracciare un confine netto tra assistenza e riparazione? È realmente possibile distinguere tra intervento che opera sulle condizioni di vita delle persone e intervento che sostiene un nuovo apprendimento nella ‘capacità di azione’?

Nel tentativo di superare queste difficoltà, il lavoro di riflessione sull’educatore ha costantemente cercato di specificare su quale cambiamen-to l’educatore operi e soprattutto come egli agisca.

Su questa linea si colloca il lavoro di Demetrio che precede di alcuni an-ni il lavoro di Folgheraiter.

Demetrio ha ben presente la difficoltà di tracciare una separazione netta tra lavoro dell’assistente sociale e lavoro dell’educatore, dal momento che anche la vita professionale del primo è caratterizzata dall’intrecciarsi conti-nuo di momenti contrassegnati dall’uso di riflessioni e tecniche pedagogi-che sia implicite che esplicite9. Nonostante questo, egli ritiene fondato il tentativo di specificare il lavoro educativo, e quindi l’azione dell’educatore professionale. Nella sua posizione sono rintracciabili, alcuni in modo chia-ro altri solo accennati, quelli che oggi sono considerati nella cultura dell’educatore i fattori di maggiore distinzione.

In primo luogo il lavoro educativo non opera per un cambiamento qual-siasi, ma per accrescere nel soggetto un più alto “valore di scambio”, attra-verso una nuova rappresentazione di sé10. Scrive Demetrio: “quando un e-ducatore entra dunque in scena, bussa alla porta di qualcuno, o la apre, ha una proposta ben diversa da una semplice (seppure necessaria) offerta di sostentamento e assistenza. (…) L’educatore ha quindi il delicatissimo compito di proporre agli altri una o più alternative rappresentazionali: di spingerli ad accettare il fatto che una sostituzione rappresentazionale (in termini banali di sentirsi dire ‘mi drogavo, ora non più’, ‘avevo paura, ora

9 Cfr. D. Demetrio, Lavoro sociale e competenze educative. Modelli teorici e metodi di in-

tervento, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1988, p. 23. 10 Cfr. ibi, p. 40.

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non più’, ecc) è più conveniente. Sul piano materiale, mentale, relazionale, pratico, sociale”11.

L’educatore offre ‘risorse’ non con il fine che siano soltanto consumate, ma affinché vengano rielaborate dal soggetto in una nuova energia. “L’educatore cambia lo stato dell’energia del soggetto: mostra all’handicappato che la sua mente e la sua fisicità può ottenere risultati mi-gliori; al bambino maltratto che qualcuno gli dà ascolto; al malato, che esi-stono ‘oggetti’ diversi dalla sua malattia sui quali è possibile impegnare le risorse residuali”12.

Il primo fattore di distinzione è, dunque, rappresentato da una maggiore focalizzazione dell’educatore su un nuovo apprendimento del soggetto. Sep-pur con sfumature diverse, la riflessione sull’educatore converge nell’attribuire alla crescita, allo sviluppo, al ‘cambiamento’ parola usata or-mai come termine rappresentativo, un primo dato distintivo.

Ma vi sono due domande che mettono, in un certo senso, in crisi questo primo fattore. La prima potrebbe essere formulata in questo modo: su quali cambiamenti del soggetto opera l’educatore?

Questa domanda rimanda alla necessità di delineare una teoria dell’apprendimento ed una teoria del formarsi del soggetto. È per questo che Demetrio, nella sua proposta, precisa ulteriormente (lo vedremo ancora nel corso del presente lavoro) il lavoro educativo in rapporto a quelle che egli chiama le tre intelligenze dell’individuo: l’intelligenza cognitiva, corpo-rea, relazionale13. Nell’autore in questione siamo in presenza di una presen-tazione sistematica, ma essa non rappresenta un caso diffuso. Molte volte la riflessione sul lavoro dell’educatore tende a precisare gli obiettivi del cam-biamento del soggetto senza precisarne la dinamica formativa sottostante. Anche questo tema richiederebbe un’analisi specifica.

Ora, invece, si intende solo sottolineare come di fronte alla domanda sopra formulata la risposta più diffusa si presenti come un richiamo, molto ‘carico’ valorialmente, al prendersi cura della vita della persona nel suo in-sieme. Un esempio è rappresentato dal già citato saggio di R. Maurizio che, parlando del contributo specifico dell’educatore, scrive: “il contributo spe-

11 D. Demetrio, Educatori di professione, op. cit., p. 69. 12 Ibi, p. 67. 13 Ibi, p. 93.

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Capitolo secondo - Il dibattito sull’educatore

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cifico si è orientato sui processi di crescita, d’apprendimento, di reinseri-mento sociale, sulla prevenzione, con una rilevante e costante attenzione: – alla persona nella sua globalità, alla valorizzazione delle risorse e al recu-

pero delle potenzialità e dell’espressione; – allo sviluppo della partecipazione degli individui, dei nuclei familiari,

degli ambienti relazionali e comunitari; – alla dimensione dell’ascolto ed al valore di libertà delle persone; – al dare senso e significato all’esperienza; – alla mediazione con la realtà di riferimento; – alla dimensione infomale della vita delle persone e dei gruppi sociali”14.

Questa descrizione dice bene l’ampiezza del campo di lavoro dell’edu-catore, ne dice bene anche la ricchezza e la complessità. Separata, però, da una descrizione dettagliata dei rapporti tra campo d’intervento, obiettivi, contenuti, dinamiche formative del soggetto, azioni, rischia di essere depo-tenziata. E, purtroppo, questo accade spesso. Coloro che operano come e-ducatori descrivono il loro oggetto di lavoro solo come un qualcosa di mol-to vasto che coincide con la vita della persona nel suo insieme. Una formulazione troppo generica del campo di interevento, ma soprattutto una non esplicitazione delle dinamiche di cambiamento sottostanti, accre-sce invece che limitare la debolezza dell’educatore.

La seconda domanda che mette in difficoltà l’azione per il cambiamento come tratto distintivo può essere formulata nel seguente modo: in che modo peculiare l’educatore opera sui cambiamenti del soggetto? Questa domanda sorge, di solito, dalla constatazione che lo sviluppo, la crescita del soggetto possono avvenire anche senza una azione diretta dell’educatore. Tale osser-vazione ha portato a ritenere insufficiente il primo fattore per una adeguata distinzione, alimentando così la ricerca di altri fattori che maggiormente delineassero un modo proprio del lavoro educativo.

Siamo così ad un secondo fattore, accennato da Demetrio quando scri-ve: “l’attività pedagogica, in quanto attività elettivamente metabletica [n.d.r. che ha a che fare con il cambiamento] di tipo intenzionale, tenterà di costruire le condizioni strutturali più adatte perché abbiano luogo i proces-si che possano consentire ai soggetti (in qualsiasi età o condizione essi si trovino) di ri-rappresentarsi”15. In questa breve citazione compare il fattore

14 R. Maurizio, op. cit., in AA.VV, La professione di educatore, op. cit., p. 142 15 D. Demetrio, Educatori di professione, op. cit., p. 74. (Il corsivo è nostro).

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dell’intenzionalità16 che rappresenta certamente uno dei temi più ricorrenti quando si parla oggi dell’azione dell’educatore professionale. Esso, ed è que-sto che ora si vuole sottolineare, trova continue ragioni di rafforzamento nella preoccupazione di distinzione che stiamo prendendo in esame.

Accanto all’intenzionalità, compare poi un terzo fattore, anch’esso ac-cennato in Demetrio. “L’educatore svolge, per noi, un lavoro sociale rile-vante perché, nella nostra ipotesi interpretativa, attua un lavoro il cui con-tenuto simbolico è maggiore di quello che produce colui che non intrattiene rapporti continuativi con l’utenza”17. Si tratta della sottolinea-tura del carattere continuativo e quotidiano della relazione dell’educatore. Si è andata delineando in questi anni la figura dell’educatore come colui che opera nella quotidianità, intendendo con questo termine sia un aspetto temporale (egli è colui che tutti i giorni intesse relazioni a servizio delle per-sone) sia un aspetto spaziale (egli è colui che vive nei luoghi in cui le perso-ne svolgono la vita di ‘tutti i giorni’ e spesso svolge con loro le ‘cose’ di tutti i giorni).

Infine l’analisi della riflessione di Demetrio mette in luce un quarto fat-tore di distinzione: “come abbiamo visto, per definirsi educatori, distin-guendosi da altri operatori sociali è necessario organizzare un ‘fare’ che metta gli altri nelle condizioni di modificare nel breve o nel lungo periodo la rappresentazione, il concetto, l’opinione di sé. Perché il lavoro educativo, attraverso le sue didattiche e le condizioni in cui esse hanno luogo, produce, metableticamente, una trasformazione nelle esistenze, nei saperi, nel saper fare degli individui e dei gruppi”18. Si tratta della dimensione organizzativa del lavoro, a cui si farà ancora cenno tra breve in quanto connessa ad altri dati del dibattito, che ha trovato in questi anni nelle parole programmazio-ne e progettazione i maggiori punti di riferimento.

In sintesi, dunque, se la logica dell’appartenenza al lavoro sociale ha ali-mentato la dimensione relazionale del lavoro educativo, la logica della di-stinzione ha rafforzato l’individuazione e l’elaborazione di alcuni tratti oggi

16 Per un approfondimento della nozione di intenzionalità, nel campo pedagogico, si

rimanda al capitolo quarto del presente volume. 17 D. Demetrio, Lavoro sociale e competenze educative, op. cit., p. 27. (Il corsivo è nel te-

sto). 18 D. Demetrio, Educatori di professione, op. cit., p. 235.

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Capitolo secondo - Il dibattito sull’educatore

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ritenuti peculiari nell’agire dell’educatore: la centratura sul cambiamento, l’intenzionalità, la continuità-quotidianità, la strutturazione del lavoro.

2.2. L’identità dell’educatore tra ‘modelli forti’

La figura educativa, in questi anni, ha cercato una propria identità, non solo attraverso una dinamica di distinzione dall’assistente sociale, ma anche attraverso la sollecitazione e la provocazione proveniente da figure ritenute più “forti”19 in quanto dotate di un maggior peso (e prestigio) sociale e di caratteri distintivi più chiari. Una chiarezza, dovuta ad una pluralità di fat-tori individuabili, a seconda dei casi, nella forma del lavoro e della sua strumentazione, nel campo di intervento, nella funzione sociale.

Il confronto si è andato delineando con diverse figure sostanzialmente riconducibili a due grandi aree.

2.2.1. Prima area Un prima area vede l’educatore posto a confronto con coloro che ope-

rano nelle agenzie formative ‘classiche’, in particolar modo l’insegnante e il genitore.

Occorre prendere atto che il confronto con queste due figure va artico-landosi sempre di più sulla base di un crescente – duplice e reciproco – ri-conoscimento: – Sia il genitore, che l’insegnante, che l’educatore svolgono un’‘azione e-

ducativa’. Sono tutti ‘volti’20 di un intervento non racchiudibile in un’unica agenzia e in un unico operatore.

– È sempre più necessario un lavoro di integrazione tra le diverse forme di intervento e i diversi operatori. Ad una logica di separazione si sta cer-cando di sostituire una logica di sinergia, da declinare ogni volta concre-tamente in modo diverso.

19 Kaneklin parla di ‘modelli forti’. Cfr. C. Kaneklin, Fantasmi, fantasie e progetto edu-

cativo, in M. Donati – M. Maffetti (a cura di), L’educatore indispensabile, Vita e Pensiero, Milano 1992, p. 14.

20 A questo proposito Cfr. C. Scurati (a cura di), Volti dell’educazione, La Scuola, Bre-scia 1996.

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Dal momento, però, che l’integrazione si ha tra elementi considerati come ‘diversi’ e viene richiamata pertanto la questione dell’identità, è com-prensibile che non sia diminuita (anzi, in un certo qual modo, sia cresciuta) la ricerca del ‘punto centrale’, dell’‘elemento portante’ dell’operare dell’educatore, in rapporto all’insegnante e al genitore.

Appare utile, a questo proposito, prendere in considerazione l’intervento di C. Kaneklin pubblicato nel 199221, la cui posizione verrà sintetizzata attorno a tre punti.

Primo. L’educatore trova un suo ruolo principalmente in un’opera di ‘supplenza’ di altre realtà educative. Per questo egli “…interviene allora con persone rispetto alle quali gli esiti dell’intervento di genitori e insegnanti sono o sono risultati insufficienti o fallimentari. Magari anche temporane-amente, in un momento particolare della vita del soggetto: basta ad esem-pio pensare ai blocchi di crescita in età adolescenziale”22.

Secondo. L’educatore non può operare allo stesso modo delle realtà che è chiamato a supplire. Kaneklin è molto chiaro a questo proposito quando afferma:

“in questo momento fare l’educatore significa assumere questa dimensione dell’incertezza, anche in riferimento ai costrutti culturali e professionali che ci sono stati o ci vengono trasmessi. E ciò si fonda su alcune osservazioni. La prima è che i modelli professionali forti, quelli legittimati dalla nostra società sono i ruoli e i modelli professionali dei genitori e degli insegnanti; ma che questi stessi modelli forti non possono essere utilizzati per l’azione, per-ché se avessero funzionato non ci troveremmo con il tipo particolare di utenti e di domande che implicitamente rivolgono ai servizi educativi. Sono questi stessi modelli anzi che molto spesso ‘aiutano’ ad aumentare il numero di ‘clienti’ dell’educatore”23.

21 Cfr. C. Kaneklin, op. cit., in M. Donati – M. Maffetti (a cura di), op. cit. 22 Ibi, p. 10-11. 23 Ibi, p. 11 (il corsivo non è presente nell’originale). Nello stesso volume, l’intervento

di Nicora Prodi contiene una osservazione analoga: “il lavoro educativo in area extrascola-stica (cioè quella appunto di pertinenza dell’educatore professionale) può mutuare ben poco dalle proposte pedagogiche tradizionali pertanto va riformulata una nuova pedagogia di supporto”. A. Nicora Prodi, Il modo di pensare il tirocinio: la scuola di Trento, in M. Donati – M. Maffetti (a cura di), op. cit., p. 198.

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I modelli genitoriali e i modelli scolastici sarebbero, secondo l’autore in questione, portatori di una prospettiva pedagogica ormai insufficiente e i-nadeguata all’oggi, definita ‘modello e scarto’. “Una pedagogia dove è previ-sto il modello del sapere e dell’essere e dove l’operazione educativa è essen-zialmente centrata sulla verifica dello scarto rispetto al modello”24.

Kaneklin, dunque, individua un secondo punto di diversità dell’educatore nel proprio modo di agire definibile, in termini negativi, come modo non-scolastico e non-familiare25. In termini, invece, positivi, si caratterizza come un “lavorare mettendo in connessione richieste esterne di controllo-contenimento sociale – secondo la logica della collettività – e la necessità di consentire un campo di azioni simboliche e interpersonali volte all’individuazione del soggetto – secondo la logica dell’individuo –. Il pro-blema diventa: come posso fare in modo che questo contenimento non si esprima solo come repressione, ma si esprima come possibilità di crescita”26.

Terzo. In rapporto a questo lavoro di connessione tra contenimento e promozione dell’individuazione dei soggetti, l’educatore si trova a svolgere un ruolo incerto, che tuttavia può trovare una sua ‘consistenza’. Più volte la figura educativa nel sociale cerca di contenere l’ansia derivante dal ruolo in-certo in due direzioni controproducenti: attraverso l’identificazione in al-tre professioni, attraverso un’eccessiva e impropria ricerca di ‘supervisio-ne’27. La consistenza dell’identità e del ruolo dell’educatore ha al centro l’acquisizione da parte dell’educatore stesso di una alta capacità di osserva-zione, analisi, interpretazione della situazione.

“Lo sviluppo della facoltà di elaborare dati e informazioni prima di agi-re, consente l’accesso a comportamenti educativi complessi da verificare nel tempo al fine di riorientarsi continuamente verso obiettivi difficili (…) La costruzione del proprio ruolo passa così attraverso uno sforzo di elabora-zione e comprensione dei dati e delle informazioni che sono nel contesto;

24 C. Kaneklin, op. cit., in M. Donati – M. Maffetti (a cura di), op. cit., p. 12. 25 È opportuno rilevare come spesso sia presente un’interpretazione delle agenzie for-

mative ‘classiche’, soprattutto quella scolastica, troppo generica, che non rende giustizia della loro articolazione di interventi, di modelli, di ricerca continua di strade nuove.

26 C. Kaneklin, op. cit., in M. Donati – M. Maffetti (a cura di), op. cit., p. 15. 27 Cfr. ibi, p. 17. Evidentemente l’autore non nega il valore della supervisione, ma come

egli precisa nella stessa pagina: “La supervisione è uno strumento formativo delicato nel senso che, per esperienza, mi sembra poter dare buoni frutti all’interno di due sets precisi”. (Il corsivo è nell’originale).

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attraverso uno sforzo di attribuzione di senso a quei dati che sono presenti; un cammino che è faticoso, perché per tutti noi è più facile andare a memo-ria e pensare che sia possibile anticipare il futuro sulla base dell’esperienza passata”28.

Ciò che dà forza al lavoro dell’educatore, in ultima istanza, è la “capacità di prendere parte con ‘azioni pensate’, con ‘comportamenti interpretativi di tipo non verbale e verbale’, in processi trasformativi terapeutico-rieducativi”29. La ‘consistenza’ dunque della figura educativa è direttamente proporzionale al suo grado di consapevolezza di un agire ‘pensato’ in rap-porto al contesto. Per questo è opportuno da parte della riflessione e della formazione “portare l’attenzione su ciò che succede nella mente dell’operatore”30.

Se il primo punto della posizione di Kaneklin (il ruolo di supplenza)

appare oggi modificarsi in una prospettiva di collaborazione e integrazione tra le diverse figure educative, gli altri due punti risultano ormai come dati costanti della riflessione sull’educatore.

Perciò, in merito al rapporto tra insegnante-educatore, è ancora forte la tendenza a pensare al proprio agire come fortemente diverso dalla logica scolastica e il connotare quest’ultima soltanto nei termini di trasmissione di saperi disciplinari31. Questo ha generato, a mio parere, nella cultura dell’educatore una sorta di frattura con il mondo della scuola, da cui deri-vano almeno due conseguenze.

In primo luogo si assiste ad una incomunicabilità tra ‘mondi’, che al di là dell’impegno dei singoli, si basa spesso su una lettura stereotipata. Se è vero che la scuola non è esente da errori e difficoltà, è altrettanto vero che

28 Ibi, p. 23. 29 Ibi, p. 20. 30 Ibidem. 31 Si prenda, come esempio, quanto afferma P. Marcon: “Egli [l’educatore] esprime la

sua attività promozionale non attraverso l’insegnamento di contenuti culturali, ma attra-verso la condivisione, attraverso la partecipazione alle vicende, agli avvenimenti, non di rado imprevisti o imprevedibili, come si è detto, della vita di ogni giorno: un amico, com-pagno di cammino, lungo la strada che conduce alla maturità nel tentativo di recuperare al processo di crescita le tante occasioni, umili talora, ma non insignificanti, offerte dalla vita di ogni giorno”. P. Marcon, L’educatore professionale nell’orizzonte educativo, in “I proble-mi della pedagogia”, 1-3/1997, p. 171.

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Capitolo secondo - Il dibattito sull’educatore

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l’educatore rischia molte volte di non riconoscerne la complessità e la plu-ralità di azioni, restando ancorato ad una propria immagine di scuola.

Una seconda conseguenza, ancora più decisiva, è la delega al mondo sco-lastico della trasmissione dei saperi, per riconoscere come proprio il campo della relazione. Questo sostanziale misconoscimento dei contenuti cultura-li come proprio oggetto non corrisponde alla realtà del lavoro quotidiano dell’educatore che non è solo persona che si relaziona, ma persona che ope-ra su determinati contenuti che chiedono di essere insegnati.

Vi è una sorta di resistenza psicologia ad utilizzare la parola insegnamen-to nel lavoro dell’educatore, ma ciò comporta il tracciare un campo di in-tervento spesso troppo generico e vago, e, conseguentemente, rafforzare, invece, l’importanza della figura dell’educatore stesso.

In merito al rapporto tra genitore ed educatore professionale il quadro appare meno netto ma il risultato finale sembra essere lo stesso. Si ritiene generalmente che l’educatore, in quanto figura deputata, debba operare con una attenzione, con uno ‘sguardo’, con una logica di intervento, con una capacità di tenere insieme, non sempre riscontrabile nei genitori. Anche in questo caso ciò che dà forza al ruolo dell’educatore è connesso così al suo grado di consapevolezza nell’azione.

2.2.2. Seconda area Un seconda area vede l’educatore porsi a confronto con le figure che

svolgono un compito prevalentemente terapeutico32. Si tratta di figure con cui l’educatore non attiva un confronto solo a distanza (come capita soli-tamente con gli insegnanti e i genitori) ma ‘in presenza’, attraverso il lavoro comune, la condivisione di responsabilità, di spazi, di obiettivi.

In termini generali il confronto non si opera tanto con il medico, quan-to piuttosto con le altre professioni sanitarie della riabilitazione che hanno trovato (accanto all’educatore professionale dell’area sanitaria) una loro re-cente formalizzazione legislativa nel Decreto del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica del 2 Aprile 2001: Determinazione delle classi delle lauree universitarie delle professioni sanitarie. Rispetto a

32 Ho utilizzato l’avverbio ‘prevalentemente’ nella consapevolezza che alcune figure,

soprattutto lo psicologo, non possono essere circoscritte alla sola area del recupero.

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queste figure, l’educatore cerca una propria identità soprattutto distin-guendo il suo operare da una prospettiva strettamente ‘medica’.

Nel 1994, proprio in rapporto a questa preoccupazione, Groppo ebbe modo di proporre la distinzione tra modello medico e modello educativo.

“L’intervento medico implica una diagnosi clinica che definisce il caso nella situazione della manifestazione acuta della patologia e ne prescrive la terapia che può essere realizzata o con l’intervento chirurgico, o con la cura farmacologia, o anche con la manipolazione ortopedica o fisioterapica, che comunque si realizza in un tempo preciso e stabilito”33.

“L’intervento educativo o rieducativo invece è fondato su una concezio-ne profondamente diversa in quanto esso è centrato sul rapporto interper-sonale tra educatore – educando in un tempo lungo e continuativo e con una consistenza quotidiana molto rilevante, finalizzato ad una progressiva maturazione personale fino al raggiungimento di una autonomia piena, là dove è possibile, e fondata su un’identità personale costruita su valori mora-li e religiosi, che riguarda l’intera persona”34.

Se il medico cura attraverso la diagnosi, la definizione del caso, l’intervento da attuarsi in un tempo definito, l’educatore invece si prende cura attraverso una relazione caratterizzata dalla quotidianità e da tempi lunghi35.

33 M. Groppo, Educazione e riabilitazione: modello educativo e modello medico a con-

onto, in M. Groppo (a cura di), Professione: educatore, op. cit., p. 101. 34 Ibidem. 35 Riprende la distinzione in termini più problematici L. Tosco. “…si potrebbe parlare

di modello medico (prevalenza della salute come assenza di malattia e dell’educazione co-me pedagogia dello scarto) e di modello socio educativo (prevalenza della salute come ben-essere e della educazione come pedagogia della concertazione). A questo proposito è però necessario fare alcune precisazioni:

– i due paradigmi costituiscono una tipologia e quindi uno strumento concettua-le/astratto per analizzare la realtà;

– questa realtà è estremamente complessa e pertanto i vari modelli si collocano all’interno di un continuum tra le due polarità, con diversi gradi di ‘prevalenza’ dell’una o dell’altra;

– la prevalenza non è peculiare di specifiche figure professionali. In altre parole, un educatore professionale può utilizzare un modello medico e un medico quello educativo.

In termini generali, si può però dire che nelle professioni educative occorre prevedere ed agire un modello socio-educativo, utilizzando aspetti di quello medico in relazione a

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In termini più specifici, il confronto più problematico è con la figura dello psichiatra e soprattutto dello psicologo. Se infatti il campo della psi-chiatria appare più circostanziato, più vasto e confinante con il lavoro dell’educatore appare il campo dell’intervento psicologico36. Si è soliti, però, riconoscere allo psicologo un ruolo di comprensione dettagliata del com-portamento e di accompagnamento clinico ed invece all’educatore un ruolo di accompagnamento quotidiano e di facilitatore di determinati apprendi-menti37.

Si tratta di un confronto che chiama in causa diversi livelli (in primis: la storia professionale dei diversi ruoli, il rapporto tra cultura sociale e cultura

specifici contesti e situazioni”. L. Tosco, Gli intrecci. Percorsi accidentati: progettare dentro l’esperienza del limite, in AA.VV., La professione di educatore, op. cit., p. 122.

36 Distinguendo tra una logica terapeutica e una logica educativa, ha cercato una possi-bile strada di chiarificazione Pati, che scrive: “la differenza tra i due [metodo psicoterapeu-tico e metodo educativo, ndr.] può essere così tratteggiata: la psicoterapia si prefigge lo scopo di sanare un danno psichico, di ricucire una lacerazione emotivo-affettiva, di guarire una malattia interiore. Può quindi riguardare lo studio delle radici incosce della condotta umana per risolvere al meglio settoriali problemi di crescita in un limitato arco di tempo. Ne scaturisce spesso la necessità d’isolare il ‘paziente’ rispetto al contesto di vita, per me-glio osservarlo e chiarire i moduli di comportamento. L’educazione mira a ridestare le po-tenzialità individuali, correlandole ai vari ambiti di esperienza. Essa si occupa dei compiti di sviluppo, che coinvolgono in maniera diretta e attiva l’educatore e l’educando. Prospetta modalità relazionali intenzionalmente e axiologicamente circostanziate, guidando il sog-getto in istato di bisogno, alla consapevole assunzione delle stesse. Per tali ragioni, colloca l’intervento individualizzato nel più vasto clima educativo generale e privilegia l’organizzazione dei tempi lunghi”. L. Pati, L’educazione nella comunità locale, op. cit., pp. 254-255.

37 A tal proposito può essere utile riportare quanto affermato dal Responsabile di un servizio di Alcologia, che si caratterizza per la compresenza dello psicologo e dell’educatore. Alla domanda ‘Perché ha ritenuto importante inserire in questo servizio l’educatore professionale?” il Responsabile ha risposto: “Per garantire la continua risposta educativa nell’arco della giornata. L’educatore professionale nel nostro Servizio si occupa, infatti, di garantire che gli obiettivi educativi individuati dall’equipe vengano perseguiti quotidianamente sia nei momenti strutturati (con il supporto di strumenti quali il grup-po) sia nei momenti più conviviali”. In R. Bombelli, La metodologia educativa nei servizi alcologici. Il caso del servizio di alcologia della A.O. “Ospedale Maggiore di Crema”, Tesi di Laurea in Scienze dell’Educazione, Università Cattolica del Sacro Cuore, Sede di Brescia, A.A. 1999/2000, p. 208.

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sanitaria) non analizzabili nell’economia del presente lavoro. Si intende so-lo operare alcune considerazioni per evidenziare un dato fondamentale.

Anche in rapporto alle figure della riabilitazione, l’educatore sconta l’assunzione di un oggetto di lavoro difficilmente circoscrivibile. Senza un setting preciso e stabile con cui potersi identificare (l’educatore non lavora solo in palestra, oppure in ambulatorio, o nello ‘studio’), con un’area di in-tervento non racchiudibile in un’unica e costante struttura di operazioni, l’educatore, anche in questo caso, cerca un rafforzamento della sua identità sottolineando il modo con cui opera. Un chiaro esempio di questa dinami-ca è riscontrabile in quanto scritto da un gruppo di educatori operanti nei Sert e pubblicato su Animazione Sociale38. L’educatore svolge una funzione di sostegno e promozione del cambiamento dei soggetti “con consapevolez-za, intenzionalità, competenza e continuità”39.

Alla luce della loro esperienza quotidiana, però, essi riconoscono l’im-possibilità di circoscrivere la competenza educativa ad un’unica figura: “si è dovuto riconoscere che la dimensione educativa è presente anche nelle altre figure professionali (…) A questo punto è sembrato non più corretto ragio-nare in termini di pertinenza esclusiva, quanto invece di prevalente compe-tenza educativa, psicologica, medica, assistenziale da parte delle diverse fi-gure professionali”40. L’educatore è tale quindi nella misura in cui fa proprio un compito educativo diffuso, declinandolo attraverso un deter-minato modo di relazionarsi, comunicare, strutturare l’azione, collaborare.

Stretto tra modelli più chiari, l’educatore può fare forza su stesso. Pove-ro di strumentazione, l’educatore può avvalersi della sua consapevolezza e in ultima istanza della sua ‘personalità’. Per questo Scaratti afferma: “il primo strumento è l’educatore stesso”41 e, sulla stessa linea, Nicora Prodi precisa: “Il suo esserci è l’unico strumento del lavoro professionale”42.

38 Cfr. AA.VV., Il tavolo e la quarta gamba: l’educazione nel Sert, in “Animazione So-

ciale”, 11/1995, pp. 91-94. 39 Ibi, p. 92. 40 Ibi, p. 92. 41 G. Scaratti, Metodi e tecniche dell’intervento educativo. Suggerimenti metodologici per

l’assunzione del ruolo di educatore professionale, in M. Groppo (a cura di), Professione: edu-catore, op. cit., p. 174.

42 A. Nicora Prodi, Educatore professionale e percorso formativo nell’esperienza di una scuola triennale, in M. Groppo (a cura di), Professione: educatore, op. cit., p. 242.

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Capitolo secondo - Il dibattito sull’educatore

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La dialettica con ‘modelli forti’ porta alla luce un’ulteriore chiave inter-pretativa del metodo dell’educatore di estrema importanza: la centralità della persona stessa dell’educatore.

Tale centralità, a sua volta, porta con sé la sottolineatura della valenza etica attribuita alla figura educativa43 e la risonanza esistenziale del suo la-voro. Ogni lavoro sociale è esistenzialmente ‘denso’, ma questa dimensione è ulteriormente rafforzata da un modo di comprendere l’educatore in cui l’attore e le vie di azione tendono generalmente all’identificazione.

Non essendoci nulla all’esterno che può rafforzarlo, l’educatore, nella ri-flessione attuale, è invitato ad assumere su di sé delle caratteristiche ‘forti’, “non per eludere la complessità o cercare di dominarla, ma per affrontare con strumenti originali l’ambiguità, contraddittorietà e fragilità dei rappor-ti umani e delle caratteristiche organizzative nei contesti in cui lavora”44.

2.3. La dialettica unità-molteplicità e la dialettica professione-mestiere

In stretta connessione con i nodi sopra esaminati, è opportuno ora prendere in considerazione altri due elementi problematici attorno ai quali si è trovata impegnata, sovente, la riflessione sull’educatore, allo scopo di cogliere come anch’essi siano una fonte della cultura metodologica che stiamo cercando di precisare. Si tratta di due questioni separabili solo in termini di analisi, ma che nella discussione reale sono spesso (come d’altronde le altre già considerate) unite insieme.

2.3.1. L’educatore tra unità e molteplicità Nell’esperienza quotidiana del lavoro sociale, l’azione genericamente de-

finita come educativa si trova declinata con una pluralità di soggetti,

43 M. Santerini, ad esempio, declina la valenza etica dell’educatore in corrispondenza

alle categorie di Ricoeur. “La funzione dell’educatore si trova invece nella struttura terna-ria proposta da Ricoeur: cura di sé e dell’altro all’interno di istituzioni giuste. Si tratta, quindi, in senso lato, di una funzione politica in quanto viene esercitata un’azione di re-sponsabilità verso la comunità di vita e la polis, un’attenzione per la persona nel quadro del contesto storico e sociale”. M. Santerini, L’educatore tra professionalità pedagogica e respon-sabilità sociale, La Scuola, Brescia 1998, p. 7.

44 Ibi, p. 91.

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all’interno di servizi differenti, attraverso l’esercizio di molte mansioni e operazioni. Troviamo l’educatore che opera con i ragazzi e quello che opera con l’anziano; l’educatore che opera nei servizi di prevenzione e colui che opera nel recupero; l’educatore che utilizza principalmente il gioco e l’educatore che opera attraverso uno sportello informativo o attraverso la conduzione del gruppo.

Vi è quindi un carattere di molteplicità che appartiene all’ordine dei dati di fatto.

Essa può essere deputata, certamente, alla debolezza di ruolo già richia-mata; ma solo in parte. Un’altra ragione risiede nella difficoltà oggettiva di ricondurre ad un quadro unitario i numerosi aspetti del lavoro educativo. Scurati, che ha dedicato diversi riflessioni specificatamente a questo nodo, a tale proposito scrive: “Non è certo un segreto per nessuno, che da questo punto di vista, ci si trovi di fronte ad una molteplicità mansionistica estre-mamente ampia e che appare particolarmente resistente a lasciarsi riordina-re e sistemare in un quadro dalle più ridotte e, soprattutto organiche di-mensioni”45.

Nonostante la difficoltà di ricomporre la molteplicità, la riflessione sull’educatore si è da sempre mossa alla ricerca di una qualche unità, non semplicistica, non banale; questo in forza della convinzione che solo la ri-conduzione ad una forma di unità può impedire una eccessiva frammenta-zione operativa, un ulteriore indebolimento del ruolo, una frantumazione nel quadro dei saperi che sostengono la preparazione pedagogica degli ope-ratori.

La dialettica tra molteplicità e ricerca di unità ha un suo riferimento importante nella ricerca comparata svolta in Emilia-Romagna e in Puglia, data alla stampe nel 1984 sotto la cura di P. Bertolini46.

Questa ricerca, che ha rappresentato un punto di riferimento importan-te per le riflessioni successive, metteva in luce innanzitutto una eterogeneità del quadro delle figure educative superiore perfino alle attese.

“Uno dei risultati più evidenti anche se non inaspettati della ricerca è costituito da una larga conferma, anzi da una conferma che è andata assai al

45 C. Scurati, La figura dell’educatore professionale, in M. Groppo (a cura di),

L’educatore professionale oggi, op. cit., p. 31. 46 P. Bertolini (a cura di), L’operatore pedagogico. Problemi e prospettive, Cappelli Edi-

tore, Bologna 1984.

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Capitolo secondo - Il dibattito sull’educatore

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di là delle previsioni che avevamo fatto all’inizio sulla base di semplici in-tuizioni o di informazioni parziali e/o settoriali, che quello dell’operatore pedagogico, o come lo si voglia definire, risulta essere un settore professio-nale poco definito e perciò complesso e non privo di vere e proprie con-traddizioni. (…) Lo dimostrano i dati, ormai ben noti, relativi alle anagrafi delle due Regioni, i quali presentano una quarantina di qualifiche diverse e solo in parte sovrapponibili molte delle quali ancora presenti nei campioni degli operatori che hanno risposto al nostro questionario”47.

Nel tentativo di dare ordine al materiale emerso, la ricerca giungeva all’inserimento delle diverse figure, allora esistenti nelle due Regioni, in cinque raggruppamenti.

Primo raggruppamento: animatore socio-culturale; animatore culturale; operatore culturale; operatore culturale CSPCR (Centri di servizi e pro-grammazione culturale regionale).

Secondo raggruppamento: animatore del tempo pieno; programmatore scolastico; psicopedagogista; operatore dei centri ricreativi; operatore edu-cativo-culturale CRSEC (Centri regionali servizi educativi e culturali).

Terzo raggruppamento: bibliotecario; ludotecario. Quarto raggruppamento: coordinatore d’équipe; esperto in scienze

dell’educazione; pedagogista. Quinto raggruppamento: educatore terapeuta; assistente/educatore de-

gli handicappati; vigilatrice d’infanzia e assistente di gioco ospedalieri; pe-dagogista o educatore sanitario; educatore degli appartamenti.

Accanto alla molteplicità, la ricerca però riconosceva la presenza di una prospettiva pedagogica comune alle diverse figure, tale da consentire “di in-terpretare la professione dell’operatore pedagogico come una professione unitaria pur nella molteplicità delle sue specificazioni”48. Da qui la proposta di ricondurre le diversità ad una forma di unità, attraverso il potenziamen-to di una figura dotata di alta competenza pedagogica, applicabile in diverse realtà con modalità differenti, definibile come “operatore pedagogico”49, da formarsi in ambito universitario.

47 Ibi, pp. 268-269. 48 Ibi, p. 287. 49 Cfr. ibi, p. 23.

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Pur all’interno di un vivace dibattito50, la via di una composizione della molteplicità ha visto in questi anni crescere i consensi, fino a diventare una convinzione comune del mondo degli educatori. Ne è un chiaro esempio quanto scritto dal documento elaborato dalla Fondazione Zancan: “La prima convinzione, pur riconoscendo che i diversi ambiti di azione dell’educatore introducono esigenze di specializzazione (a livello di metodologie e di di-mensioni organizzative), ritiene che queste possano fare riferimento a un’unica figura denominata educatore professionale. Un unico profilo vuol dire maggiore arricchimento professionale, più ragguardevole mobilità e (probabilmente) maggiore benessere (nel senso della prevenzione del burn-out)”51. L’unità è sostanzialmente rappresentata da un insieme organico di compiti: affrontare la complessità della società e dei bisogni degli individui; attivare/accompagnare processi di crescita sia individuali che collettivi; svi-luppare potenzialità; attivare risorse nei diversi contesti relazionali; integrare diversi saperi; lavorare in gruppo; costruire una professionalità in senso evo-lutivo e compartecipato52.

La salvaguardia di una unità della figura educativa nel contemporaneo riconoscimento dei diversi campi di azione ha attivato un processo di tra-sformazione di un possibile punto debole (la molteplicità) in un possibile punto di forza, attraverso la valorizzazione della capacità dell’educatore di

50 Scurati agli inizi degli anni ’90 scriveva: “la ricerca stessa di un fulcro basilare comu-

ne della prestazione (e conseguentemente della formazione) – il bisogno? il territorio? il contenuto pedagogico? – appare tutt’altro che compiuta”. C. Scurati, L’educatore profes-sionale. Una formazione difficile, ma necessaria, in M. Groppo (a cura di), Professione edu-catore, op. cit., p. 43. Nella stessa pagina egli solleva alcune obiezioni alla proposta del-l’operatore pedagogico: “Le obiezioni critiche a questa impostazione mettono sostanzialmente in evidenza, questa volta un eccesso di contrazione categoriale, che con-duce a tre principali osservazioni: – la restrizione disciplinare alla ‘pedagogia’ non lascia il dovuto spazio ad altri settori, che

invece hanno avuto ed hanno un ruolo di predominanza nell’attrezzatura tecnico-metodologica necessaria per l’adempimento dei compiti richiesti;

– il campo in esame comprende un insieme di compiti, da quelli medico-assistenziali a quelli clinico terapeutici, che va al di là dell’accezione pedagogica tout court;

– l’apertura di un ‘ombrello’ così vasto apre il varco ad analogie ed apparentamenti – come quello con le professioni didattiche fuorvianti ed, alla fine, poco desiderabili”. 51 Centro Studi e Formazione Sociale ‘Fondazione E. Zancan’, op. cit., p. 19. (Il corsivo

è nell’originale). 52 Cfr. Ibidem.

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Capitolo secondo - Il dibattito sull’educatore

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saper agire in più campi, grazie ad una base fondamentale di conoscenze te-oriche e metodologiche.

Dal punto di vista della cultura metodologica dell’educatore, ciò ha comportato il sorgere e il rafforzarsi di un principio che si potrebbe definire di polivalenza.

L’educatore è caratterizzato dalla polivalenza, in quanto “può operare in una gamma variegata di servizi e per questo necessita di possedere un pac-chetto di conoscenze di base e di tecniche che gli permettano di affrontare problematiche multiformi e la progettazione di interventi mirati alla speci-ficità dell’utenza e del bisogno”53.

L’azione dell’educatore sembra così caratterizzarsi attraverso due piani. Un piano generale comune a tutti coloro che svolgono intenzionalmente un lavoro educativo, caratterizzato dai saperi fondamentali, sempre validi in o-gni situazione. Un piano specifico, differente a seconda dei casi, caratterizza-to da conoscenze e metodologie ad hoc.

In quanto esigenza di saper mettere in atto una serie di azioni in situazioni diverse, il principio della polivalenza porta con sé il principio dell’adesione al contesto. Diversi autori sottolineano il carattere ‘contestuale’ del lavoro educa-tivo, con le conseguenti capacità di saper leggere il contesto e di saper interagire con esso. “La professionalità di un operatore come l’educatore, nella sua com-ponente di insieme di conoscenze ed abilità per produrre, risulta concernere non solo quanto l’educatore come singola persona conosce e padroneggia di-rettamente, ma anche ciò che in strumenti, abilità e saperi sa reperire e attivare nel determinato ambiente sociale e fisico in cui si trova. Il lavoro diventa il prodotto della interazione del soggetto con il contesto fisico e sociale…”54.

La prospettiva della polivalenza, inoltre, va a caratterizzare l’educatore co-me figura di sintesi. All’educatore oggi è richiesto di ricomporre le diverse do-mande e le diverse risorse dei protagonisti e del contesto; di operare una sintesi della situazione che favorisca nei protagonisti stessi una nuova comprensione della realtà; di ricondurre tutti i suoi interventi ad un quadro organico che sap-pia dare senso e ragione alle singole azioni.

53 A. Mongelli, La costruzione della professionalità dell’educatore, FrancoAngeli, Milano

1997, p. 30. 54 O. Liverta Sempio, Il lavoro dell’educatore nei sistemi di relazione, in M. Groppo (a

cura di), Professione: educatore, op. cit., p. 150.

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La polivalenza di unica figura capace di operare in molteplici contesti pone a sua volta la questione di come sia possibile fare sintesi, mettendo co-sì in forte rilievo una questione, che finora si è spesso intravista tra le righe: l’esigenza di identificare anche per l’educatore un modo proprio (visibile e riconoscibile) di organizzare il proprio lavoro. Tutto il dibattito dà voce a questa esigenza; è però in rapporto alla questione della valenza professiona-le dell’educatore che essa acquista una particolare decisività.

2.3.2. L’educatore tra professione e mestiere I titoli di diversi volumi dedicati alla figura dell’educatore55 (e più volte

richiamati anche nel corso del presente lavoro) testimoniano una linea cul-turale orientata ad attribuire al lavoro educativo nel sociale il carattere di professione. Linea che trova nell’utilizzo dell’espressione educatore professio-nale, ormai presente sia nel gergo quotidiano che nel linguaggio formale, un’ulteriore conferma.

L’attribuzione del carattere professionale, in chiara continuità con quanto visto precedentemente, presenta però i caratteri di questione irrisol-ta, tanto che possono valere per la figura educativa gli interrogativi che Fol-gheraiter pone in rapporto al lavoro sociale nel suo insieme: “le professioni sociali usurpano il loro titolo o lo portano in giro, per così dire, legittima-mente? In altre parole possono qualificarsi come autentiche professioni?”56.

Questa domanda attraversa continuamente il dibattito sull’educatore, in quanto si ritiene che dal grado di legittimazione con cui si utilizza il ter-mine professione dipende, in un certo qual modo, anche la legittimazione e la forza sociale dell’educatore stesso. Vi è, inoltre, una sorta di effetto psico-logico del termine che lo rende particolarmente attraente; effetto che pre-senta un duplice aspetto. Il mondo degli educatori, sempre chiamato a fare i conti con una identità difficile, trova nella parola professione e nell’aggettivo professionale una certa sicurezza; ha come la sensazione che

55 Si possono ricordare, senza nessuna pretesa di esaustività: D. Demetrio, Educatori di Professione, op. cit.; M. Groppo (a cura di), L’educatore professionale oggi, op. cit.; M. Groppo (a cura di), Professione: educatore, op. cit.; A. Mongelli, La costruzione della profes-sionalità dell’educatore, op. cit.; AA.VV., La professione di educatore, op. cit.

56 F. Folgheraiter, Teoria e metodologia del servizio sociale, op. cit., p. 186. Per una pa-noramica storica sul dibattito in merito al carattere professionale del ‘servizio sociale’ cfr. F. Villa, Dimensioni del servizio sociale, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 161-201.

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Capitolo secondo - Il dibattito sull’educatore

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in questo modo gli sia riconosciuto finalmente un sapere e un compito. Dall’altro lato il termine genera un po’ di inquietudine, perché si intravede il rischio di indebolire la carica umana dell’azione educativa in un ‘freddo tecnicismo’.

Si può rilevare, perciò, un doppio campo di discussione. Da una parte si cerca di individuare meglio in che senso si possa parlare di ‘professione’; dall’altra si attivano considerazioni che mirano a tutelare dal rischio di as-sumere a-criticamente la valenza professionale.

Per quanto riguarda il primo campo, la riflessione in atto ha cercato, ri-facendosi principalmente alla sociologia delle professioni, di rispondere in-nanzitutto alla domanda circa che cosa renda ‘professione’ una determinata attività. Si possono ricordare qui alcune posizioni.

Donati e Maffetti riprendono la definizione di Butera: “professione è una occupazione basata su conoscenze tecniche sistematiche acquisite sia attraverso l’esperienza, ma soprattutto attraverso una lunga formazione, prescritta e certificata il cui esercizio è codificato da norme deontologiche e giuridiche a difesa del pubblico”57.

Villa invece ricorda le condizioni perché una professione si sviluppi: “ta-li condizioni sono: l’esistenza di un insieme sistematico di conoscenze spe-cializzate (body of theory), una conseguente autorità professionale che deri-va dal possesso di tali conoscenze, un’associazione di categoria che promuova e tuteli gli interessi della professione, i riconoscimenti formali da parte della comunità, il codice etico”58.

Per L. Tosco, “i fattori che costituiscono la ‘forza’ di una professione possono essere così sintetizzati: – definizione di un profilo professionale che individui competenze ed

ambiti operativi; – legittimazione formale dello stesso; – codice deontologico che indichi scelte e responsabilità in riferimento a

principi e valori etici; – riconoscimento formale del titolo per l’esercizio della professione;

57 M. Donati – M. Maffetti, op. cit., p. 118. 58 F. Villa, Profilo e criteri di formazione dell’educatore professionale, in M. Groppo (a

cura di), L’educatore professionale oggi, op. cit., p. 191.

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– definizione formale dell’assetto istituzionale e delle sedi di formazione, degli ordinamenti didattici, nonché degli indirizzi generali relativi agli obiettivi e ai diversi percorsi formativi;

– presenza di un insieme sistematico di conoscenze e abilità attinte da va-rie teorie e discipline e organizzate secondo un modello coerente con il profilo e i fondamenti della professione. Quest’ultimo aspetto sintetiz-zabile con il termine di modello teorico-operativo risulta a mio avviso cruciale per fondare una professione in grado di agire con intenzionalità progettuale”59. A fronte di questo insieme ‘ideale’ di caratteri, il lavoro educativo è con-

siderato, si potrebbe dire unanimemente, in una situazione di forte incer-tezza. Per un serie di ragioni le condizioni individuate, in misura diversa, non trovano ancora (ma potranno trovarlo in futuro?) un chiaro adempi-mento. Il carattere professionale del lavoro educativo assume così contorni particolari. Villa parla di “professione debole”60, Ronda di “processo di pro-fessionalizzazione” (e perciò di una professione in costruzione). Fogherai-ther perfino di “iperprofessioni”61, indicando con questo termine una pos-sibile nuova generazione di professioni dove la prestazione è caratterizzata da una sinergia di competenze professionali ed esperienziali.

Per quest’ultimo (al di là dell’espressione un po’ provocatoria di ‘iper-professioni’) tutte le professione sociali hanno un carattere un po’ parados-sale, in quanto “devono rinunciare a definire come loro i problemi su cui si applicano. Devono per così dire condividerli con gli stessi clienti che ri-chiedono la prestazione professionale”62.

A. Dhers, infine, evidenzia la non misurabilità del suo oggetto, per cui: “se consideriamo le professioni la cui produzione non è misurabile, che si tratti di aiuto, di educazione, di animazione, noi abbiamo sempre a che fare con pratiche sociali che sono beni simbolici, non mercantili”63.

La preoccupazione di innalzare la valenza professionale del lavoro edu-cativo si declina attraverso diverse strade. Dal punto di vista metodologico

59 L. Tosco, op. cit., in AA.VV., La professione di educatore, op. cit., pp. 119-120. 60 F. Villa, op. cit., in M. Groppo, L’educatore professionale oggi, op. cit., p. 192 61 F. Folgheraiter, Teoria e metodologia del servizio sociale, op. cit., p. 190. 62 Ibi, p. 189. 63 A. Dhers, Indeterminazione e tecnicità nel lavoro sociale, in L. Sanicola (a cura di), Re-

ti sociali e intervento professionale, Liguori, Napoli 1995, p. 346.

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Capitolo secondo - Il dibattito sull’educatore

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essa rafforza la necessità di avere un modo di operare che, mentre permette all’educatore di rispettare e contenere la vastità del campo, possa avere una strutturazione tale da dare organicità, visibilità, e riconoscibilità al proprio lavoro.

La dimensione del progetto, declinato nel sociale con la duplice caratteristi-ca di realtà strutturata e dinamica, ha assunto con sempre maggior forza il compito di assolvere a questa esigenza, fino a diventare una delle parole chiave dell’azione dell’educatore. Attraverso il progetto si ritiene che i caratteri della relazione, dell’intenzionalità, della continuità possano uscire da una condizio-ne di genericità per assumere invece forme maggiormente definite. Il progetto permette all’educatore di avere un oggetto più specifico su cui operare, di cui discutere, su cui attuare una valutazione.

Attraverso un impianto progettuale si cerca una salvaguardia dalla bana-lità e dalla disorganicità, lo ricorda P. Reggio quando scrive: “la tematica della progettazione viene oggi considerata cruciale da coloro che sono im-pegnati in attività di carattere animativo e socio-educativo (…) La strategia progettuale viene infatti vista come garanzia nei confronti dei rischi di epi-sodicità, frammentarietà e disorganicità degli intereventi”64.

Il progetto perciò si ritiene possa rendere meno incerta e vaga la posi-zione dell’educatore: “infatti avere uno o più progetti ed attuare una peda-gogia per progetti, offre all’educatore una posizione più forte perché il pro-getto gli permette d’avere il coraggio di andare avanti, di cambiare, di trasformare”65.

Si tornerà più volte nel corso di questo lavoro sul tema del progetto e della progettazione, anche per mostrare come dietro la stessa parola dimo-rino diverse logiche; per ora è sufficiente porre in evidenza come il dibattito

64 P. Reggio, La progettazione degli interventi di animazione di comunità, in “Anima-

zione Sociale”, 10/1995, p. 72. 65 J. Huet, Cambiamento, asse portante dell’educatore professionale, in “L’Educatore

Professionale”, Maggio-Agosto 1998, p. 13. In merito all’importanza attribuita oggi al te-ma del progetto, è significativo, ad esempio, notare come un articolo dedicato alla metodo-logia dell’intervento educativo in una Rivista ‘di settore’ inizi la riflessione: “Per realizzare un intervento, anche un intervento tipicamente educativo, nei vari ambiti nei quali gli Operatori Sociali sono chiamati ad interagire, un primo necessario passo è quello di sten-dere un Progetto, di formulare delle ipotesi di lavoro intese come linee operative da svi-luppare”, A. Bellizzi, Appunti di metodologia per l’intervento educativo, in “L’Educatore Professionale”, Maggio-dicembre 1995, p. 22.

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sull’educatore abbia evidenziato la centralità metodologica di una struttu-razione consapevole e razionale del proprio agire.

Mentre afferma l’esigenza di una strutturazione che dia organicità e quindi “peso sociale” al compito educativo, la cultura dell’educatore vede però alcuni rischi. Se infatti il lavorare con un progetto può contenere quel-lo che Scurati chiama il “tradizionalismo sentimentalistico”, esso può a sua volta generare un “mansionarismo impiegatizio”, un “ingegnerismo proget-tualistico”, un “produttivismo tecnologistico”66.

A fronte di questi rischi, più volte, la riflessione sull’“educatore di pro-fessione” approda alla considerazione della necessità di non disgiungere il carattere professionale dalle cosiddette componenti artistiche e artigianali dell’azione educativa. Perciò, senza negare l’esigenza di una professionalità, alcuni introducono i termini di ‘mestiere’ e di ‘artigianato’ nel tentativo di mettere in evidenza l’importanza della creatività, dell’intelligenza del fare, della capacità di saper leggere una determinata situazione e di saper agire a misura di essa.

È il caso di M. Donati: “quando ci si avvicina al mestiere concretamente nella formazione, o nell’incontro con i servizi, colpisce questa capacità di inventare questo artigianato sociale; vi si trovano soluzioni ideative originali sia sul piano della risposta ai bisogni dell’utenza e sul piano organizzativo, che negli strumenti di lavoro degli educatori, pur coniugandosi in modo ta-lora visibilmente contraddittorio con la riproposizione, ripresentazione a-critica di modelli organizzativi educativi interiorizzati o dalla famiglia o dalla scuola”67.

All’interno della dialettica tra mestiere e professione, la riflessione di questi anni ha quindi tracciato una figura dell’educatore a cui è chiesto di coniugare la capacità di strutturare e tenere insieme le diverse componenti dell’intervento con la capacità di misurarsi creativamente e intelligente-mente con le singole situazioni.

66 Cfr. C. Scurati (a cura di), Volti dell’educazione, op. cit., p. 7. 67 M. Donati, Il mestiere di educare, in M. Donati – M. Maffetti, op. cit., p.69

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Capitolo terzo LE LOGICHE DI AZIONE EMERGENTI*

Per ognuna delle logiche, a partire dalla progettazione, si cercherà di ar-ticolare la riflessione in tre passaggi:

A. il nucleo portante Una logica di azione possiede alcune ragioni d’essere, alcune idee fon-

damentali che concorrono a costituirne un nucleo portante. Quali sono i significati che sostengono una determinata logica di intervento? Che rap-porto hanno questi significati con il lavoro educativo?

B. i diversi modelli Ogni logica si declina concretamente in una pluralità di modelli.

C. le principali operazioni Pur nella pluralità di modelli, è comunque possibile individuare un pa-

trimonio comune di operazioni.

3.1. Progettazione

La progettazione costituisce oggi nel campo sociale la principale logica di lavoro. Una logica che chiede un continuo lavoro di riflessività, affinché non cada nella banalizzazione e non rimanga un mero uso formale delle pa-role. “La progettazione è cruciale per chiunque faccia lavoro sociale. Non si può non progettare. Eppure più si legge, si fa, si riflette sulla progettazione e più si è costretti a complessificare”1.

* Tratto da: P. Triani, Sulle tracce del metodo, Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cat-

tolica, Milano 2004, pp. 62-137. 1 F. Olivetti Manoukian, Generare progettualità sociale, in Quaderni di Animazione e

Formazione, La progettazione sociale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999, p. 5. Tutto il

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In rapporto alla sua centralità e alla sua ‘densità’, è importante quindi interrogarsi sul nucleo portante di questa logica. Ciò permetterà di com-prendere anche il motivo per cui la progettazione rappresenta l’opzione metodologica base, non solo del lavoro sociale in senso stretto, ma della di-namica socio-organizzativa nel suo insieme.

A. Il nucleo portante La progettazione – ed insieme il termine, a cui costantemente si collega,

‘progetto’, – si presentano come parole dense di significato. Pertanto se non ci si accontenta di una vaga idea attorno a questi termini, o di un loro uso meramente strumentale, ma si cerca di andare in profondità, ci si accorge, immediatamente, come diventi difficile trovare una definizione insieme sintetica ed esaustiva. Piuttosto che idee chiare e distinte, si presentano alla nostra mente metafore, immagini. Ed è proprio con alcune immagini che si intende introdurre la riflessione.

Facendo riferimento sia al termine in generale sia (in termini più speci-fici) al campo del lavoro sociale ed educativo, la progettazione evoca innan-zitutto l’idea dell’esercizio dell’immaginazione, della creatività, attraverso la costruzione di una figura, richiamando correlativamente le nozioni di possi-bilità e di prefigurazione. Una prefigurazione dove non solo sono immagi-nati i contorni generali della figura finale, ma dove sono delineati a grandi linee i rapporti tra i diversi elementi e i processi di costruzione.

La progettazione suscita inoltre l’immagine dell’edificare uno spazio in cui poter vivere, abitare, transitare. Inoltre richiama all’importanza del co-struire, trovare, dare un senso (un valore, una direzione) a questo determi-nato spazio di vita.

A. Saint-Exupery scrive: “ho scoperto una grande verità: e cioè che gli uomini abitano e che il senso delle cose per loro muta secondo il significato della casa....L’uomo non è un bestiame da ingrasso e l’amore per lui conta più dell’uso. Non puoi amare una casa che non ha un volto e nella quale i passi non hanno alcun senso”2.

Credo possa essere importante, ed utile, per chi svolge un lavoro sociale, pensare alla prospettiva progettuale innanzitutto come collaborazione al

Quaderno rappresenta un punto di riferimento importante per approfondire la tematica in questione.

2 A. Saint – Exupery, Cittadella, Borla, Roma 1978, p. 23 e p. 25.

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Capitolo terzo - Le logiche di azione emergenti

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prendere forma di uno spazio in cui abitare, transitare, in cui permettere alla vita di crescere. Uno spazio in cui non si chiudono le persone, ma in cui chi vi ‘abita’ apprende e insegna.

In termini esistenziali sintetizzerei, perciò, la progettazione sociale ed educativa in questo modo: il costruire uno spazio di vita sensato, attraverso una continua apertura creativa alla vita e alle sue possibilità.

Sostenuti dalla forza delle immagini, non ci si può, però, sottrarre alla

‘fatica del concetto’. È bene perciò tentare di delineare meglio i contorni della logica della progettazione, allo scopo di portarne alla luce le ragioni e i significati.

La situazione contemporanea richiede modalità di azione che si caratte-rizzino non solo per la loro stabilità ma anche per la loro flessibilità, per una più alta capacità di rispondere rapidamente ai cambiamenti. La progetta-zione si rapporta innanzitutto a questa esigenza, veicolando l’intenzione di coniugare un’azione che abbia insieme solidità e duttilità. Ha osservato L. Guasti: “la natura della progettazione risponde, invece ad una forma di le-game debole con lo sviluppo e si colloca sul versante della rapidità della ri-sposta, della flessibilità dei modelli, della duttilità degli strumenti operativi. Nello stesso tempo introduce una percezione dello sviluppo di tipo dina-mico, legata al contesto operativo, basata sugli attori del sistema e sulla rela-tiva instabilità della situazione”3.

La progettazione inoltre intende esprimere uno spostamento da una lo-gica strettamente istituzionale, dove al centro sta la permanenza di uno schema di comportamento predefinito e generalizzato per ogni situazione, ad una logica maggiormente ‘etnografica’ “centrata sull’analisi della situa-zione e sulla capacità di affrontare la soluzione in tempi ‘educativamente’ adeguati, cioè proporzionati alla manifestazione del bisogno”4. Ciò non si-gnifica cadere in un lavoro senza alcun punto di riferimento, ma piuttosto l’avere uno schema talmente agile che sappia coniugarsi con la specificità dei singoli problemi.

3 L. Guasti, Introduzione, in L. Guasti – P. Plessi, Rapporto sul progetto giovani nella

Scuola Secondaria Superiore di Piacenza, Università Cattolica di Brescia – Provveditorato agli Studi di Piacenza, Brescia 1999, p. 13.

4 Ibidem.

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L’intenzione di coniugare l’esistenza di uno schema di riferimento con la singolarità degli oggetti si rapporta con un’altra caratteristica fondamen-tale, rappresentata dal cercare di tenere insieme razionalità e creatività. La progettazione si presenta infatti come la possibilità di accordo tra l’esigenza di analizzare, connettere, sistematizzare le azioni, di dare ordine ad una idea e l’esigenza di creare qualcosa di nuovo, di stare aperti a nuove comprensio-ni e a nuove piste di lavoro, che le sollecitazioni provenienti dalla realtà, continuamente, suscitano. “Progettare può essere quindi un tentativo di scompaginare un ordine esistente, ma anche certamente di costruire un or-dine. È sempre utile a questo proposito domandarsi per quale ordine si la-vora, per l’ordine di chi, a quali destini si indirizza l’equipe o il servizio”5.

La progettazione nella sua valenza creativa è espressione di desideri, che chiede di essere declinata in un’apertura alla dimensione della possibilità. Il progetto prende corpo infatti quando si va nella direzione del possibile: “Chi progetta si trova a confrontarsi col rapporto conflittuale tra fantasie e possibilità (…) La progettazione ossia la capacità non solo di ideare, ma an-che di realizzare un disegno prefigurato, si colloca tra desiderio e possibilità. Essa richiede la capacità di assumere una posizione depressiva, il saper quindi accettare i limiti del proprio potere, rinunciando sia ad agire secon-do fantasie di onnipotenza, sia a ripiegarsi su una visione di onnipotenza”6. La logica progettuale si va dunque caratterizzando come apertura creativa e realistica al cambiamento, come sguardo nuovo ma insieme ‘disincantato’ sul reale.

Ha scritto Kilpatrick che “il progetto è un caso di attività intenzionale: un perseguimento di un proposito”. Non si ha progetto quindi solo con la presenza un proposito, ma anche con un’azione che mira a perseguirlo. Ciò significa che le possibilità, a loro volta, richiedono delle scelte. Non tutto ciò che è idealmente possibile può essere fatto, occorre prendere delle direzioni, abbandonandone altre, occorre decidere. La decisione a sua volta si apre alla prova dei fatti e quindi alla possibilità di essere valutata e messa in discus-sione. La progettazione si presenta in quest’ottica come una logica orienta-ta a costruire un circolo virtuoso tra possibilità, decisioni e nuove possibili-tà.

5 A. Orsenigo, Progettare: alcuni nodi critici, in Quaderni di Animazione e Formazio-ne, La progettazione sociale, op. cit., p. 29.

6 Ibi, pp. 32-33.

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Capitolo terzo - Le logiche di azione emergenti

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Infine, la progettazione si fa portatrice di una logica di costruzione in si-tuazione: “la progettazione risponde invece alla logica del non permanente, del contingente, dell’intervento funzionale alla risoluzione di un problema, con una dimensione costruttiva piuttosto breve nel tempo”7.

A chi è progetta è chiesto, alla luce di una reale apertura al contesto, di definire il rapporto tra le diverse componenti e l’articolazione delle diverse fasi. Non si tratta semplicemente di declinare un disegno definito a tavoli-no, ma di saper gestire un complesso intreccio di soggetti, tempi, risorse. La progettazione si presenta perciò caratterizzata non da una logica meramen-te applicativa, quanto piuttosto da una logica ‘combinatoria’, in cui la for-ma finale degli elementi in gioco è mano ai protagonisti del progetto stesso.

B. I diversi modelli La progettazione, dunque, è un orientamento di fondo che attraversa

tutto il mondo del sociale. “L’operatore si confronta con la complessità del-la progettazione ogni qualvolta deve immaginare o creare un nuovo inter-vento sociale, gestire o risolvere un problema, cambiare o trasformare una situazione. Nei servizi si è quasi tutti coinvolti in attività di progettazione: l’educatore nel dover costruire un progetto educativo, il dirigente nell’immaginare un nuovo intervento sanitario, l’èquipe nel creare una nuova modalità di accoglienza degli utenti, il consulente nel riorganizzare un servizio”8.

In questo ruolo di logica fondamentale, la progettazione, ancor più di al-tre prospettive, subisce però il rischio di svuotamento e di trasformazione in semplice parola slogan. Si possono verificare casi in cui si parla di proget-tazione, senza mettere in conto analisi, confronti, delineazione di propositi precisi; oppure si afferma di avere elaborato un progetto soltanto perché una persona ha steso un elenco di azione da compiere. La consapevolezza di questo rischio ha portato, opportunamente, alla elaborazione di strumenti di guida per la costruzione dei progetti, dove si indicano gli elementi da te-nere in considerazione e i passaggi da compiere.

Ma, dovrebbe ormai essere chiaro, la progettazione non coincide mai con un semplice elenco di elementi in gioco, in quanto essi diventano pro-

7 L. Guasti, Introduzione, in L. Guasti – P. Plessi, op. cit., p, 13. 8 F. D’Angella – A. Orsenigo, Tre approcci alla progettazione, in Quaderni di Anima-

zione e Formazione, La progettazione sociale, op. cit., p. 53.

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cedura concreta attraverso un determinato modo di pensare l’articolazione delle parti e lo svolgimento delle azioni.

Se vi è dunque una logica generale della progettazione sociale, portatrice di una prospettiva ‘di costruzione’ capace di coniugare ordine e disordine, desideri e possibilità, generale e particolare, è altrettanto vero che all’interno di essa prendono forma logiche particolari, che danno una con-figurazione più precisa all’orientamento fondamentale. Queste logiche ve-dono al loro interno il prevalere di determinati concezioni dell’organizzazione, dell’azione, della conoscenza che possono, in certi casi, entrare in forte contraddizione con il nucleo portante della stessa prospet-tiva progettuale.

Una classificazione, oggi molto diffusa, riconosce la compresenza all’interno della progettazione sociale di tre logiche diverse9, distinte tra lo-ro principalmente per la concezione di ‘ragione’ che sostiene il processo di costruzione progettuale. Queste tre logiche danno origine a tre approcci.

– Progettazione come pianificazione Il primo approccio pone al centro del suo processo una concezione mol-

to forte di ragione; una ragione “assoluta”10, capace di prevedere i rapporti causa-effetto e mezzo-fine in termini molto chiari.

Le operazioni del progetto sono perciò articolate principalmente in un’ottica di linerarità, in quanto, in termini di ideal-tipo, “progettare vuol dire prefigurare, prevedere e pianificare, razionalmente e a priori le azioni che le persone dovranno eseguire per raggiungere gli obiettivi prestabiliti”11.

9 Cfr. innanzitutto Quaderni di Animazione e Formazione, La progettazione sociale,

op. cit. La classificazione si muove in un’ottica sincronica, cercando di cogliere in che mo-do oggi viene declinata la logica progettuale. Sarebbe interessante integrare questa lettura con una sguardo diacronico nel tentativo di individuare quali orientamenti ha assunto, durante i cambiamenti di questi anni, la progettazione. Un esempio di analisi diacronica è rappresentato da M. Lussignoli, Cultura e metodo del progetto nella rivista “Animazione Sociale”, Tesi di Laurea in Scienze dell’Educazione, Università Cattolica del Sacro Cuore, Sede di Brescia, Anno accademico 1998/1999. Lussignoli riconosce la successione di tre orientamenti teorici: dialettico, razional-lineare, sistemico.

10 Cfr. F. d’Angella – A. Orsenigo, op. cit., in Quaderni di Animazione e Formazione, La progettazione sociale, op. cit., p. 54.

11 F. d’Angella, Per un approccio dialogico alla valutazione, in Quaderni di Animazione e Formazione, La progettazione sociale, op. cit., p. 170.

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Capitolo terzo - Le logiche di azione emergenti

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Questo approccio si muove dunque nella direzione della costruzione di una sequenza logica generalizzabile e nella direzione di una standardizza-zione delle procedure. “La standardizzazione delle procedure offre la possibilità di definire programmi di azione che una volta appresi, possono essere riprodotti senza bisogno di attivare processi di progettazione ogni qual volta il soggetto persegue un obiettivo noto e famigliare”12. In questo modo si attiva una forte attenzione ai modi e agli strumenti per declinare procedure e per raggiungere fini, a scapito spesso di una riflessione sul senso delle azioni che si stanno compiendo.

La costruzione di questo approccio, proprio per la sua logica sottostante, rischia perciò di perdere di vista alcuni significati portanti della progetta-zione sociale (in primis l’attenzione al contesto applicativo e alla coniuga-zione tra razionalità e creatività) e di essere sostanzialmente inefficace in contesti di grande turbolenza ambientale.

Per questi motivi, da più parti13, si sottolinea da un lato l’opportunità di non generalizzare questo approccio alla pluralità dei livelli e delle situazioni della progettazione sociale e dall’altro, comunque, la necessità di mettere in atto un’adozione critica.

Infatti, a mio parere, non si tratta di rinunciare alla costruzione di un quadro di intervento coerente e alla individuazione di una procedura che accomuni gli sforzi di tutti. Si tratta invece di non contrapporre la struttu-razione di un intervento con la capacità di costruire continuamente passi nuovi, avendo sempre presente il senso che fonda il processo e che nel pro-cesso stesso va emergendo in aspetti nuovi.

– Progettazione come Problem Solving Questo secondo approccio è sorretto da una concezione della ragione

definita come ‘limitata’. Essa si basa sul riconoscimento dei “limiti oggettivi delle possibilità conoscitive del soggetto, l’impossibilità di prevedere tutte le conseguenze delle azioni, l’incapacità di considerare contemporaneamen-te troppe variabili, l’incertezza interna prodotta dall’ambiente”14.

12 F. d’Angella – A. Orsenigo, op. cit., in Quaderni di Animazione e Formazione, La

progettazione sociale, op. cit., p. 57. 13 Cfr. ibi, p. 58. 14 Ibidem.

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Vi è perciò alla base un orientamento euristico, finalizzato non tanto a delineare a-priori tutto ciò che deve essere fatto, quanto piuttosto a saper riconoscere e affrontare i problemi nel loro reale presentarsi. Si tratta di es-sere continuamente capaci di elaborare informazioni, di rappresentarsi il problema, di scomporlo in elementi sempre più semplici al fine di indivi-duare la soluzione.

Questo approccio non rinuncia all’individuazione di una modalità di a-gire in un certo qual modo generalizzabile. Ma esso non viene pensato co-me una sequenza ordinata di azioni applicabile a più operazioni, quanto piuttosto come un orientamento cognitivo atto a risolvere singoli problemi.

“In questa progettazione, proprio perché vi è la convinzione che i pro-blemi possono essere risolti, vi è un investimento consistente a raffinare le strumentazioni concettuali e operative per scomporre i problemi in parti sempre più semplici e quindi trovarne la soluzione”15. All’interno di questa logica progettuale una organizzazione non tanto tenderà ad uniformare i comportamenti di tutti ad una modalità di azioni, ma cercherà piuttosto di formare aree di competenze specialistiche in rapporto ai singoli problemi.

D’Angella e Orsenigo, pur riconoscendo l’importanza di questo secondo approccio, segnalano tre elementi di problematicità. Il primo è rappresenta-to dalla “convinzione che sia possibile risolvere tutti i problemi attraverso l’applicazione di competenze specialistiche”. Il secondo “riguarda la scom-posizione dei problemi in parti sempre più semplici, che se da un lato con-sente all’operatore di prendere delle decisioni, dall’altro produce una frammentazione e frantumazione della questione problematica tale da ri-schiare di perderne il senso complessivo” In terzo riguarda l’idea che “per ciascun problema sia possibile trovare una soluzione”16; ma spesso nel socia-le si può gestire più che risolvere un problema. Le critiche, dunque, richia-mano globalmente il rischio, per l’approccio del problem solving, di una ec-cessiva semplificazione della realtà e di una dimenticanza del senso globale del progetto.

15 F. d’Angella, Per un approccio dialogico alla valutazione, op. cit., in Quaderni di A-

nimazione e Formazione, La progettazione sociale, op. cit., p. 172. 16 Per tutte le tre citazione riguardanti gli aspetti problematici, Cfr. F. d’Angella – A.

Orsenigo, op. cit., in Quaderni di Animazione e Formazione, La progettazione sociale, op. cit., p. 61.

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Capitolo terzo - Le logiche di azione emergenti

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– Progettazione dialogica Alla luce delle critiche rivolte ai due approcci precedenti, è in atto un o-

rientamento culturale che propone una progettazione definita “dialogi-ca”17. Quest’approccio intende la costruzione del progetto secondo una lo-gica non tanto anticipatrice ed ordinatrice, quanto piuttosto relazionale e concertativa.

In quest’ottica la progettazione è intesa come “un processo inter-soggettivo di ricerca e di costruzione collettiva che avviene mediante scam-bi, negoziazioni tra più soggetti”18. Alla centralità della pianificazione, o alla centralità della scomposizione del problema, viene sostituita la centralità della comunicazione.

Essa richiede il riconoscimento condiviso di una questione, di un nodo, di un problema: “spesso nel riorganizzare un servizio la difficoltà di coin-volgere le persone e il fallimento dei progetti dipende dal fatto che il pro-blema non sia sentito e riconosciuto così importante, essenziale da dover investire delle energie, delle risorse e del tempo”19.

A partire da questo riconoscimento, la comunicazione si declina: – nella costruzione di un significato comune del problema attraverso il

confronto: “la progettazione nel processo di costruzione di un significa-to condiviso del problema è enunciazione, scambio, inter-azione, con-flitto tra le diverse mappe, con il grande sforzo di costruire un modo ‘comune’ di leggere, comprendere e interpretare il problema”20.

– nella costante e progressiva riformulazione degli obiettivi attraverso una co-stante revisione su quanto svolto: “l’equipe che deve riorganizzare un servi-zio costruisce un pensiero sulle azioni da intraprendere e attiva costante-mente un processo di riflessione sulle azioni realizzate. La metariflessione consente di riprogettare gli obiettivi del lavoro. L’inter-azione tra pensiero e azione implica un apprendimento dall’esperienza”21. La prospettiva dialogica, in sintesi, intende costruire il progetto secondo

quattro criteri metodologici:

17 Cfr. Ibi, p. 54. 18 Ibi, p. 62. 19 Ibi, pp. 64-65. 20 Ibi, p. 64. 21 Ibi, p. 65.

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“Il primo è relativo alla comunicazione-conversazione che deve produrre conoscenze sui fatti che coinvolgono gli operatori. Il secondo riguarda la mobi-litazione e l’investimento degli attori a partecipare alla comunicazione: gli ope-ratori di un servizio si impegnano e partecipano alla fatica della comunicazione perché sono mossi da ‘fatti’ che coinvolgono tutti. Il terzo è relativo alla costru-zione di significati comuni dei ‘fatti’, che rendono possibile la formulazione di obiettivi condivisibili. Il quarto concerne le azioni e il pensiero sulle azioni”22.

L’approccio dialogico, sottolineando il ruolo continuamente generativo del processo comunicativo e il ruolo insegnativo dell’esperienza, tende evidente-mente a sfumare le dimensioni strutturali della progettazione.

C. Le principali operazioni Dopo aver preso in considerazione tre logiche specifiche, torniamo ora ad

un livello più generale. Sebbene, infatti, i tre approcci si diversifichino, anche molto, nel modo di

concepire la dinamica progettuale, è comunque possibile riconoscere, innanzi-tutto, una serie di dimensioni fondamentali su cui la costruzione di un proget-to chiede di prendere posizione. È bene, seppur brevemente, soffermarsi su queste dimensioni.

– Il contesto La prima dimensione potremmo definirla ‘contestuale’. Essa presenta al-

meno due aspetti. Nella progettazione è richiesto innanzitutto di ‘avere presente’ il contesto;

di porsi in ascolto per coglierne i bisogni, le domande, le risorse (più o meno ricche), i vincoli23.

In secondo luogo, la costruzione del progetto richiede una ‘contestualizza-zione’ dell’intervento, ossia una delimitazione del campo di intervento in sin-tonia con la reale situazione di riferimento.

22 F. d’Angella, Progettarsi costruendo mondi possibili, in Quaderni di Animazione e

Formazione, La progettazione sociale, op. cit., p. 77. 23 “È diventata necessaria una capacità decentrata se non diffusa di lettura della do-

manda”, A. Orsenigo, La costruzione dell’oggetto di lavoro e il modo di trattarlo nella proget-tazione, in Quaderni di Animazione e Formazione, La progettazione sociale, op. cit., p. 99.

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– I referenti Questa seconda dimensione può essere espressa attraverso la domanda ‘con

chi?’. La progettazione sociale chiama in causa sempre una serie di persone: co-loro che hanno la responsabilità operativa, ma anche i servizi, le istituzioni e, soprattutto le persone, i gruppi, le organizzazioni a cui si intende rivolgere l’azione e che si intende coinvolgere. Ciò comporta, per chi attua il progetto, una chiara consapevolezza dei soggetti in gioco e una presa di posizione in me-rito al ‘valore’ da dare ai destinatari in quanto “i clienti sono rappresentabili con modelli assai diversi: come soggetti passivi, semplici acquirenti del nostro prodotto, o come cittadini attivi”24.

– La ragione fondante (il senso) Perché si mette in atto un progetto? Per quale ragione si chiede ad alcune

persone di mettere in gioco le loro energie? Ogni progetto è costruito in base a delle motivazioni che possono essere, a volte, molto diverse a seconda dei sog-getti protagonisti, perché chiamano in causa in loro orientamento verso la vita. Chiarire le ragioni fondanti un progetto e cercare di creare una base motiva-zionale comune risulta, essere un fatto strategico non secondario per una sua buona riuscita25. Tale base comune, che richiama la questione del senso della propria partecipazione, non è, però, un fatto statico, quanto piuttosto un dato che chiede di essere sostenuti durante il processo.

“È il senso di fondo, spesso inconsapevole, che guida od orienta le azioni e ancor più i pensieri di chi lavora in un progetto (…) Con la progettazione di un intervento sociale possono entrare in contatto, anche in termini conflittuali, visioni, ideologie, sistemi di significato preesistenti. Il senso di un progetto non è quindi necessariamente dato e condiviso tra i vari attori. Esso lo influenza e ne è influenzato. Cosicché un progetto può contribuire alla costruzione del senso di un servizio e allo stesso tempo è sensato in quell’organizzazione, ma potrebbe non esserlo al di fuori”26.

24 Ibi, p. 103. 25 “I presupposti progettuali sono sempre presenti perché propri di ogni attore sociale,

ma spesso non vengono apertamente dichiarati. La loro esplicitazione è utile, invece, ai fini della chiarezza e coerenza progettuali, favorisce il confronto e precisa l’identità stessa dei progetti”, P. Reggio, op. cit., p. 78.

26 A. Orsenigo, La costruzione dell’oggetto di lavoro e il modo di trattarlo nella progetta-zione, in Quaderni di Animazione e Formazione, La progettazione sociale, op. cit., p. 104.

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– Scopi e obiettivi Accanto ad una dimensione motivazionale, la progettazione si caratterizza

per una dimensione che potremmo chiamare finalistica, in quanto chiama cau-sa la questione del ‘verso quale risultato’ ci si intende muovere.

Secondo P. Reggio, a tal proposito, la progettazione richiede innanzitutto una esplicitazione dello scopo che ha una formulazione di carattere generale (“è la finalità, la meta ultima alla quale il progetto tende, che può essere raggiunta anche in tempi che superano il progetto in questione”27) e, successivamente – durante la fase più propriamente definita di programmazione – la precisazione degli obiettivi che rappresentano la declinazione operativa, circoscritta, dello scopo stesso.

Orsenigo, invece, riconoscendo la necessità di una prefigurazione dei risul-tati, introduce il concetto di prodotto, mettendo in luce la sua difficile defini-zione nel campo sociale. Se è relativamente semplice rappresentare il prodotto di chi produce beni materiali, “è assai più difficile da rappresentare per chi ero-ga servizi, ossia oggetti in gran parte intangibili: informazione, educazione, in-tegrazione sociale, salute”28.

– L’oggetto di lavoro La progettazione richiede di lavorare non solo per raggiungere qualcosa, ma

anche di lavorare su qualcosa. Generalmente nel lavoro sociale i contenuti sono presentati sotto la forma di ‘problemi’. Questo termine, tuttavia, chiede di es-sere utilizzato con attenzione, per non cadere in una prospettiva di azione sol-tanto orientata sulla carenza e sulla mancanza. L’oggetto di lavoro, general-mente, non è un dato immediato, perciò la progettazione richiede che si investa sulla sua chiarificazione da attuarsi con un diretto coinvolgimento dei diversi protagonisti. “Esso è individuato, o forse meglio, costruito dall’operatore, in relazione con il cliente e in funzione dei modelli, della routi-ne, della cultura del Servizio, e dell’ambiente in cui opera”29.

27 P. Reggio, op. cit., p. 78. 28 A. Orsenigo, La costruzione dell’oggetto di lavoro e il modo di trattarlo nella progetta-

zione, in Quaderni di Animazione e Formazione, La progettazione sociale, op. cit., p. 101. 29 Ibi, p. 102.

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– Le procedure La questione del come30 è una dimensione pervasiva; la progettazione è in-

fatti nel suo insieme un modo di rapportarsi e di agire sulla realtà. Chi costrui-sce un progetto si trova in realtà sollecitato a considerare un triplice piano di procedure. Vi è innanzitutto un piano generale di procedure costituito dallo schema generale di lavoro (lo richiamerò brevemente anche tra poco) con le sue fasi di analisi, ideazione, strutturazione, esecuzione, conclusione. Vi è quindi il piano caratterizzato dalle procedure che danno concretezza ad ogni singola fase, vi sono operazioni per l’analisi, per il confronto e così via. Infine vi è il piano in cui tradizionalmente si pone la questione del come. È il piano della cosiddetta realizzazione, in cui si attuano specifiche modalità per lavorare sull’oggetto e raggiungere qualche risultato. La decisione di realizzare, ad esem-pio, un percorso per i genitori, richiede la precisazione di quale configurazione dare ad esso e di quali strategie educative mettere in atto.

La costruzione del progetto chiama in causa perciò la sensibilità alla que-stione metodologica, la capacità di articolare un quadro coerente di procedure proprie delle diverse fasi, di definire, in ordine al campo di intervento, appro-priate modalità di azione, di dare concretezza a queste modalità.

– L’aspetto economico La progettazione, anche se può essere svolta con spirito di assoluta gratuità,

ha sempre dei costi concernenti le risorse e la loro gestione. Realizzare un pro-getto comporta l’impegno di valorizzare al meglio i diversi soggetti con i loro ‘talenti’ e le loro energie, di valorizzare il tempo, gli spazi, gli strumenti, il bu-dget a disposizione. Vi è perciò una dimensione, che possiamo chiamare eco-nomica, che va ben al di là del dato monetario. Essa concorre a determinare i limiti della progettazione e richiama gli operatori alla necessità di non separare i desideri dalle possibilità e dalle scelte, all’importanza di considerare le conse-guenze delle azioni in un confronto aperto con la realtà.

– La riflessione e la metariflessione Le dimensioni fino ad ora viste possono essere ‘assolte’ solo nella misura in

cui gli operatori prendono sul serio l’aspetto cognitivo della progettazione. Per progettare occorre analizzare, comprendere, definire, scegliere, analizzare e

30 Cfr. M. Maviglia – T. Rossetto, Il P.O.F. in azione. Pianificare e progettare nella scuo-

la dell’autonomia, Junior, Bergamo 2000, pp. 40-41.

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comprendere ancora. La stessa fase della realizzazione non è un mero momen-to applicativo, ma è un agire che chiede una forte presenza a sé e una forte ca-pacità di capire come si sta svolgendo la situazione. Se viene meno la dimensio-ne riflessiva, il progetto perde di ‘intelligenza’. Non si tratta però solo di essere riflessivi durante l’azione o di mettere l’intelligenza a servizio dei singoli mo-menti del processo: occorre che la riflessività degli operatori investa la proget-tazione nel suo insieme. Nella progettazione dialogica, a tal proposito, si parla di “costante e progressiva riformulazione degli obiettivi alla luce delle azioni”. Essa “implica un costante processo di inter-azione tra la costruzione di un pen-siero sull’azione e l’azione. L’èquipe che deve riorganizzare un servizio costrui-sce un pensiero sulle azioni da intraprendere e attiva costantemente un proces-so di riflessione sulle azioni realizzate. La metariflessione consente di riprogettare gli obiettivi di lavoro. L’interazione tra pensiero e azione implica un apprendimento dall’esperienza”31.

La centralità della dimensione riflessiva conduce all’importanza della valu-tazione non più intesa come operazione connessa alla verifica finale, ma come dispositivo organizzativo e formativo che sostiene tutto il processo.

– L’inter-azione e la comunicazione Uno dei meriti dell’analisi critica portata avanti dall’approccio dialogico è

di avere richiamato il carattere fondamentale dei rapporti e della comunicazio-ne tra le persone nel processo di progettazione. Progettare, nel mondo sociale, non è solo questione di analizzare un dato, definire un problema, prevedere a-zioni; progettare è tessere rapporti, è attivare flussi comunicativi con una plura-lità di soggetti, è entrare in un gioco di potere e autorità. Come la carenza di riflessività rende il progetto meno intelligente, così una cattiva cura della co-municazione tra i protagonisti, lascia ‘al caso’ un aspetto decisivo.

Nella progettazione sociale, inoltre, la qualità del rapporto non è solo con-dizione di funzionamento, ma oggetto stesso di lavoro. È ancora nell’approccio dialogico che si ricorda questo, quando si afferma che: “nella progettazione dia-logica è importante attivare un processo di partecipazione diretta delle persone e nella valutazione del progetto”32.

31 F. d’Angella – A. Orsenigo, op. cit., in Quaderni di Animazione e Formazione, La

progettazione sociale, op. cit. p. 65. 32 F. D’Angella, Per un approccio dialogico alla valutazione, in Quaderni di Animazione

e Formazione, La progettazione sociale, op. cit. p. 176.

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Le operazioni principali della progettazione sociale oltre ad essere delineate

attraverso l’individuazione di diverse ‘dimensioni’, sono solitamente descritte in termini maggiormente mobili, nel tentativo di precisare le fasi del processo di formazione. In quanto azione prospettica, riflessiva, inter-attiva, la progetta-zione richiede una fase di preparazione (in cui prevale un lavoro di analisi, di definizione del problema, di prefigurazione dell’intervento, di discussione e di confronto), una fase di esecuzione (in cui si lavora concretamente sugli oggetti e prende forma il ‘prodotto’), una fase di verifica e di analisi dei risultati.

In questi anni però si è assistito ad un fenomeno di crescente analiticità nel-la descrizione delle fasi e dei passaggi della progettazione Dallo schema classico (analisi; programmazione, azione; valutazione) si è passati a schemi molto più articolati. A titolo esemplificativo ne riporto due.

Uno tratto dall’autore francese Hadji33 (cfr. Figura 1) ha il pregio di mette-re in rapporto le fasi con alcune riflessioni che dovrebbero caratterizzare la ‘mente’ degli operatori.

Figura 1: Tratta da C. Hadji, La valutazione delle azioni educative, op. cit., p. 45.

33 Cfr. C. Hadji, La valutazione delle azioni educative, La Scuola, Brescia 1995.

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Un secondo tratto da A. Orsenigo34 (cfr. Figura 2) ha il pregio di evi-denziare accanto alle fasi, la pluralità dei protagonisti della formazione e di richiamare la funzione di ‘sfondo’ ricoperta dal ‘senso’.

Figura 2: Tratta da A. Orsenigo, La costruzione dell’oggetto di lavoro

e il modo di trattarlo nella progettazione, in op. cit., p. 111.

34 Cfr. A. Orsenigo, La costruzione dell’oggetto di lavoro e il modo di trattarlo nella pro-

gettazione, in Quaderni di Animazione e Formazione, La progettazione sociale, op. cit.

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La progettazione ricopre, sicuramente, una posizione centrale, tra le for-me di lavoro degli operatori sociali. Anche il mondo degli ‘educatori’ ha rico-nosciuto nella progettazione, nella sua dinamica procedurale e combinatoria, una logica adeguata al proprio oggetto ed al proprio compito e una forma di azione capace di rispettare la natura stessa del processo educativo, inteso co-me processo costruttivo e aperto. “Progettare significa disegnare il futuro sul-la base della consapevolezza che gli avvenimenti e i fatti del futuro possono essere determinati anche dalla scelta e dal volere del soggetto; significa eserci-tare consapevolmente selezione, scelta, creatività e implica il rifiuto di quelle posizioni che sono orientate alla meccanica riproduzione di ciò che è dato come risultato dell’esperienza passata”35.

Per quanto riguarda il rapporto tra progettazione e lavoro educativo, sia-mo in presenza di un dato centrale nella cultura metodologica dell’educatore. La crescente importanza attribuita alla logica progettuale ha reso: – la capacità di progetto uno degli elementi costitutivi dell’agire

dell’educatore; – la costruzione di un progetto il dispositivo chiave per l’organizzazione del

lavoro educativo. Una capacità e una costruzione che vedono allargare il loro campo e cre-

scere la richiesta di una maggiora raffinatezza operativa: “da una fase iniziale in cui ha sviluppato competenze nella progettazione

educativa si è man mano confrontato con il non facile compito di ‘progetta-re’; progettare attività e servizi, progettare e realizzare interventi nell’ambito dei progetti europei e nazionali, progettare interventi integrati con altri inter-locutori”36.

In ragione dell’importanza rivestita dalla progettazione per l’educatore, ad essa sarà dedicato ulteriore spazio nei prossimi capitoli. È bene però mettere subito in luce come l’enfasi nell’attuale riflessione, si focalizzi sul progetto in-teso come forma di lavoro dell’educatore, con il rischio di impoverire il suo significato antropologico ed educativo.

35 P. Zaghi, L’educatore professionale. Dalla programmazione al progetto, Armando,

Roma 1995, p. 20. 36 G. Sordelli, Nuovi modi di prendersi cura?, in Animazione Sociale n. 8-9/2001, p. 65.

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3.2. Rete

La nozione di rete, declinata in diverse espressioni non propriamente omogenee tra loro (lavoro di rete, intervento di rete, terapia di rete…37), rap-presenta il punto di riferimento di una seconda prospettiva emergente nel lavoro sociale.

La rete richiama un intreccio tra punti, un insieme di ramificazioni che collega tra loro vari elementi. Questa idea, però, assume una più precisa con-notazione in correlazione al contesto di uso e in correlazione al fatto che pos-sono esservi diversi modi di intendere sia la natura dell’intreccio sia il ruolo giocato dai singoli punti. Per questo, J. Huguet precisa:

“Ogni volta che si parla di rete nel campo delle scienze sociali, la difficoltà maggiore consiste nella necessità di definire di che cosa si tratta. In effetti il termine rete indica da una parte delle realtà spaziali concrete (le reti ferrovia-rie, stradali, la rete delle poste e delle telecomunicazioni che presentano la particolarità di essere delimitabili; è anche un termine tecnico utilizzato in matematica, in cristallografia, nel campo dell’ottica e dell’elettricità), dall’altra il suo utilizzo, per estensione, indica in ambito sociale degli insiemi di relazioni tra persone che non si incontrano obbligatoriamente nello stesso momento e nello stesso luogo. Per definizione la rete di relazioni non la si in-contra se non attraverso contatti diretti tra alcuni degli individui che la com-pongono, dunque in maniera sempre frammentata”38.

Nel campo delle ‘professioni di aiuto’ il concetto di rete, in prima battuta, si declina come ‘rete sociale’ e richiama “l’immagine di un tessuto di legami e relazioni (con altri) in cui l’individuo è strategicamente inserito e imbriglia-to”39. Si usa così il termine rete per indicare un insieme di legami, dove preva-le l’orizzontalità e la partecipazione rispetto ad una rigida gerarchia di rap-porti, dove prevale una comunicazione più agile e informale rispetto ad un

37 Ad esempio per ‘intervento di rete’ si intende nella letteratura specializzata la posi-

zione elaborata dal gruppo canadese guidato da C. Brodeur. In questa nostra riflessione sarà utilizzata l’espressione “lavoro di rete” in quanto più fedele alla logica oggi emergente nel sociale.

38 J. Huguet, Rete di relazione e realizzazione dell’identità individuale, in Quaderni di Animazione e Formazione, L’intervento di rete. Concetti e linee di azione, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995, pp. 17-18.

39 P. De Nicola, L’uomo non è un’isola. Le reti sociali primarie nella vita quotidiana, FrancoAngeli, Milano 1986, p. 29.

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flusso comunicativo molto formalizzato, dove prevale il senso di interdipen-denza e di reciproca necessità tra le parti.

La rete sociale, ed è questo l’aspetto maggiormente rilevante, da semplice oggetto di lavoro ha assunto il valore di termine di riferimento per indicare una logica di azione, un approccio culturale e operativo. “Da qualche anno or-mai in Italia – in stretta connessione con l’evidenza della crisi del welfare sta-te tradizionale – si è iniziato a mettere a fuoco le potenzialità del cosiddetto approccio di rete (…). L’approccio di rete è più una forma mentis che un in-sieme di teorie o di pratiche nuove. Anche pratiche molto tradizionali (cioè non specialistiche) possono essere ricomprese in quest’ottica innovativa, che si ridefinisce pertanto più per le modalità e le qualità degli interventi piutto-sto che per l’intervento in sé”40.

In termini generali, l’idea fondamentale dell’approccio di rete può essere sintetizzata ancora con le parole di Folgheraiter: “lavorare per creare o raffor-zare dei legami, creare integrazione o opportunità strutturali di comunica-zione fra entità (persone, enti, risorse) distinte ma che possono convergere o riannodarsi verso una azione o tensione condivisa”41.

La valorizzazione della rete sociale, intesa come realtà di sostegno, inter-dipendenza, aiuto per le singolarità, ha dato origine ad una prospettiva gene-rale di lavoro di rete che è andata ramificandosi in tre direzioni:

Prospettiva di analisi. In questa direzione la rete è assunta come categoria di riferimento per leggere in termini più vasti e ricchi una determinata situa-zione42; in particolare si assume il concetto di rete primaria per definire me-glio il quadro di un determinato problema sociale.

Prospettiva organizzativa. La rete è intesa come una possibile (e auspicabi-le) forma organizzativa dei rapporti tra i diversi soggetti del lavoro sociale; forma in cui prevalga la circolarità tra le informazioni, la collaborazione, la sinergia.

40 F. Folgheraiter, Lavoro di rete e valorizzazione delle risorse sociali, in Quaderni di A-

nimazione e Formazione, L’intervento di rete, op. cit., p. 26. 41 Ibi, p. 32. 42 “La rete sociale è stata usata sovente come strumento metodologico della ricerca so-

ciale per individuare le reti reali e informali delle persone o delle organizzazioni nell’ambiente sociale”, J. Novak, La pratica delle reti sociali in Germania, in L. Sanicola (a cura di), op. cit., p. 335.

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Prospettiva di intervento. La rete diventa il concetto guida per intendere l’intervento su una determinata situazione o un determinato problema, che avviene appunto attraverso l’attivazione della rete, principalmente la rete so-ciale primaria. In questo caso si parla propriamente di lavoro di rete in senso stretto, lavoro in cui la rete non è compresa come destinataria (si dovrebbe parlare allora di lavoro sulla rete) bensì come una protagonista che chiede di essere sostenuta nello sviluppo. “Quando una rete di persone alle prese con un problema agisce spontaneamente, possiamo definirla una rete informale. Nel momento in cui questa rete interagisce con un operatore, cioè si appog-gia sulle competenze dell’operatore e questi si appoggia sulle competenze del-la rete, in modo che ne esca una superiore organizzazione di azione, abbiamo una realtà diversa, vale a dire una rete di aiuto”43.

Già da queste prime considerazioni, si può cogliere come il tema della ‘re-

te’ presenti non solo una sua peculiare storia44, ma anche confini molto vasti e articolazioni interne difficilmente sintetizzabili in breve. Rimandando per-ciò alla letteratura specializzata45 per una piena comprensione, di seguito si intende proporre una riflessione facendo tesoro di quanto osserva R. Serra:

“in particolare, a tale concetto [di rete sociale] fa riferimento anche la pra-tica e la teoria del servizio sociale, ma – sebbene le ‘intuizioni’ relative alla re-te facciano parte della sua cultura e della sua storia – alla diffusione del lavoro di rete non sembrano corrispondere modelli di riferimento univoci e conse-guenti strumenti operativi”46.

Si cercherà, perciò, di mettere in luce le ‘intuizioni’ che sorreggono l’approccio di rete, i significati che in qualche modo esso intende veicolare,

43 F. Folgheraiter, Il servizio sociale di comunità in un’ottica di rete, in L. Sanicola (a cura

di), op. cit., 281. 44 In merito al tema delle reti (più precisamente delle reti primarie) Donati precisa che:

“non si tratta di un tema nuovo, ma di lunga durata, che rimonta alle origini stesse della sociologia, ad autori come F. Le Play, C.H. Cooley, G. Simmel, F. Toennies e altri via via a noi più vicini”, P. Donati, Prefazione. La riscoperta delle ‘reti primarie’: istanza pratiche, ambiguità ed esigenze di una nuova riflessione teorica, in P. Di Nicola, op. cit., p.7.

45 Cfr. F. Folgheraiter, Teoria e metodologia del servizio sociale, op. cit.; P. Di Nicola, op. cit.; L. Sanicola (a cura di), op. cit.; Quaderni di Animazione e Formazione, L’intervento di rete, op. cit.; R. Serra, Logiche di rete. Dalla teoria all’intervento sociale, FrancoAngeli, Milano 2001.

46 R. Serra, op. cit. p. 11.

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per poi tracciare soltanto una mappatura, obbligatoriamente parziale, dei di-versi modelli e delle diverse operazioni.

A. Il nucleo portante Parlando della ‘rete’ L. Sanicola riconosce che “nelle diverse elaborazioni

si utilizza il termine ‘rete’ facendo riferimento a paradigmi distinti, concer-nenti concettualizzazioni della realtà talvolta molto distanti tra loro”47.

L’autrice individua le seguenti concettualizzazioni della ‘rete’: – Rete come realtà puntiforme; – Reti sociali intese come realtà sociale che si configura in una relazione di

circolarità tra reti primarie (naturali) e reti secondarie (artificiali); – Reti sociali intese come sottosistemi del sistema sociale; – Reti sociali intese come legami signficativi di ‘ego’ intra ed extra familiari

che svolgono una funzione di supporto per il soggetto; – Reti sociali intese come terzo settore48.

Nonostante questa pluralità, ritiene che la rete sociale abbia alcune carat-teristiche, comuni alle diverse posizioni.

“La prima caratteristica è data dal suo configurarsi in una realtà costituita da legami strutturalmente rilevabili; la seconda consiste nel suo funziona-mento che si determina in forza di scambi di natura diversa, fondati sul dirit-to o sul mercato, ma anche scambi di natura simbolica, che comportano tran-sazioni tra i singoli membri di una rete e tra reti di natura diversa; la terza è data dalla proprietà della rete di produrre sostegno nei confronti dei singoli membri che ne fanno parte, con effetti diversi sul piano materiale, informati-vo ed affettivo; la quarta è data dal carattere di reciprocità degli scambi e quindi del sostegno da essi prodotti”49.

La posizione qui esplicitata dalla Sanicola ci sostiene nel tentativo di enu-cleare un insieme di significati, che al di là delle diverse posizioni teoriche, concorrono a costituire la “filosofia comune”50 dell’approccio di rete; filoso-fia che in termini più o meno consapevoli, viene richiamata da coloro che uti-lizzano ‘rete’ come parola essenziale.

47 L. Sanicola, Orientamenti al lavoro di rete approcci teorici e metodologici, in Quaderni di Animazione e Formazione, L’intervento di rete, op. cit., p. 39.

48 Cfr. Ibi, p. 39-40. 49 Ibi, p. 41. 50 Cfr. M. Croce, Il lavoro di rete tra tecnica e partecipazione, in Quaderni di Anima-

zione e Formazione, L’intervento di rete, op. cit., p. 3.

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Si può dire, innanzitutto, che l’approccio di rete intende superare una concezione del lavoro sociale in cui prevale l’idea di isolamento (il problema viene isolato, l’operatore vive una situazione di isolamento con il suo ‘uten-te’). Parlare di rete significa, infatti, portare avanti una prospettiva non-isolazionistica, dove la valorizzazione dei legami acquista un ruolo fondamen-tale e dove l’operatore è sollecitato a non sentirsi l’unico depositario dell’azione. “Il lavoro di rete è l’azione intenzionale di un operatore, o anche di più operatori congiuntamente, che si esplica in una relazione – in pratica: in un’azione che si compenetra – con una rete di persone, cioè con altre rela-zioni preesistenti o potenziali, migliorando in tal modo la reciproca qualità e la reciproca capacità di azione, dell’esperto e della rete, nella ricerca di inde-terminate soluzioni ad hoc, cioè appropriati corsi di azione – concrete cose da fare – incognite alla partenza”51.

Nell’approccio di rete, in secondo luogo, è possibile leggere il tentativo di uscire da una prospettiva centrata esclusivamente sul rapporto tra singolo e servizio e su istituzioni che si pensano in termini chiusi e autosufficienti. La logica di rete intende portare avanti una lettura più articolata della realtà so-ciale, dove interagiscono una pluralità di tipi di rete. “Le reti sociali vengono usualmente distinte in primarie – composte da soggetti e destinatari appar-tenenti alla stessa famiglia, da parenti, da vicini, da amici e da persone ‘vicine’ che prestano aiuto occasionalmente – e in secondarie, sia formali che non formali”52.

51 F. Folgheraiter, Teoria e metodologia del servizio sociale, op. cit., p. 427. 52 R. Serra, op. cit. p. 77. La Sanicola elenca i seguenti tipi di rete: Reti primarie: “si ca-

ratterizzano per scambi improntati alla reciprocità (…) dando forma al mondo affettivo e simbolico dei singoli e dei collettivi”. Ne costituiscono un esempio la rete famigliare e la rete amicale. Reti secondarie informali: “sono quelle che si costituiscono a partire dalle reti primarie, in presenza di un bisogno condiviso, in relazione al quale esse organizzano un aiuto o un servizio”. Ne è un esempio un gruppo di auto-aiuto non formalizzato. Reti se-condarie formali: “si caratterizzano per gli scambi fondati sul diritto (..) Esse erogano pre-stazioni o servizi…” Reti di terzo settore: “sono quelle che si costituiscono come organizza-zioni di servizi non-profit, utilizzando come medium non solo il diritto ma anche la solidarietà” Reti di mercato: sono quelle che coinvolgono le azione, le imprese, le attività di libera professione, ecc. In esse il medium è il denaro e il profitto. Reti miste “sono quelle reti che utilizzano un mix di mezzi di scambio, come ad esempio le cliniche private che, pur agendo nella sfera di prestazioni di diritto erogano le proprie prestazioni sulla base di un corrispettivo in denaro”. (cfr. L. Sanicola, L’esplorazione delle reti primarie, in L. Sani-cola (a cura di), op. cit., pp. 126-127).

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In stretta connessione con una lettura più articolata, l’assunzione dell’idea di rete comporta una concezione più mobile53 e più fluida della realtà sociale. Non ci sono solo le persone e i servizi, ma un tessuto di legami che possiede una sua vitalità54.

L’approccio di rete, quindi, guarda alle reti (e in primis alle reti primarie) e alla relazione tra le reti non come un ostacolo, ma come un dato e una risor-sa. Le relazioni infatti rappresentano una sostanziale componente di soste-gno per la vita delle persone e nella loro dinamica interna possono generare nuove risorse e nuove possibilità55. Ciò non significa misconoscere l’ambivalenza delle reti e il loro possibile ruolo negativo, significa invece porsi nell’ottica di un loro sviluppo positivo. “Nell’intervento di rete si innesca dunque un movimento dall’individuale al collettivo, dall’aiuto all’autoaiuto, dall’intramuros all’extramuros. Passare dall’aiuto all’autoaiuto significa con-tare sulle risorse proprie della rete, scoprirle e metterle in atto. Significa pas-sare dalla riparazione ad un processo di sviluppo. Significa riappropriarsi del proprio sapere. È un cammino verso l’interdipendenza e l’autonomia”56.

Come appare chiaro da quest’ultima citazione, la nozione di rete applicata al lavoro sociale comporta un’idea partecipativa dell’intervento. Operare si-gnifica in quest’ottica promuovere la partecipazione delle diverse realtà e mo-bilitare le risorse esistenti affinché la capacità di azione dei diversi soggetti possa esprimersi al meglio. Scrive a tal proposito Folgheraiter: “quando par-liamo di lavoro di rete, a questo livello, intendiamo appunto lo sforzo di qualcuno (un professionista, un volontario, un familiare a volte) per creare, partendo da una rete spontanea preesistente, una rete con un livello superio-re (che può essere anche relativamente blando) di organizzazione”57.

La mobilitazione delle risorse – che si ricollega ad un’altra logica d’azione che sarà esaminata tra poco: l’empowerment – rende il lavoro di rete una

53 Cfr. J. Huguet, op. cit., p. 18. 54 “La rete naturale è una forza in movimento. Quando qualcuno la vuole aiutare, sa-

rebbe bene lo facesse avendo sufficiente cognizione di che cosa fa. È una forza si è detto, potente perché diffusa, sparpagliata in tante volontà distinte e libere”. F. Folgheraiter, Teo-ria e metodologia del servizio sociale, op. cit., pp. 439-440.

55 Cfr. Ibi, p. 257. 56 C. Besson, Il lavoro di rete. Strategie di azione, in Quaderni di Animazione e Forma-

zione, L’intervento di rete, op. cit., p. 81. 57 F. Folgheraiter, Il servizio sociale di comunità in un’ottica di rete, in L. Sanicola (a cu-

ra di), op. cit., p. 282.

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strategia finalizzata non solo a rispondere a determinati problemi, ma ad a-prire nella realtà in cui si interviene percorsi nuovi di azione58.

B. I diversi modelli La valorizzazione del concetto di rete sociale, si declina in una pluralità di

modi che vengono, a seconda degli autori, ordinati in modo diverso. Pren-diamo in considerazione alcune classificazioni.

Secondo M. Croce la valorizzazione della rete sociale si suddivide in tre macro-modelli.

– Modello egocentrato Appartengono a questo modello gli interventi centrati su un singolo sog-

getto59. Questi è posto al centro delle relazioni ed è considerato il punto car-dine per conoscere e sviluppare la rete sociale60. Si tratta di un modello messo in atto prevalentemente “da operatori che utilizzano la rete sociale in senso terapeutico e di prevenzione secondaria, ed a partire da un caso o da un fami-glia cercano di lavorare considerando o coinvolgendo in vario modo le per-sone che hanno delle interazioni più o meno significative con il paziente”61.

– Modello reti di reti Questo modello pone al centro dell’attenzione la comunità. Si caratteriz-

za per interventi che operano “prescindendo dalla specificità del singolo caso, essenzialmente con l’obiettivo di favorire la comunità nel riconoscere e uti-lizzare le proprie risorse. Ciò può significare, ad esempio e in maniera un po’ troppo sintetica e riduttiva, promuovere capacità e consapevolezza delle po-tenzialità di una comunità nell’affrontare i problemi che in essa esistono (…) Oppure, come l’ala radicale della psicologia di comunità richiama, ‘entrare’

58 “Intervento di rete quindi, non come ricerca o somma di varie persone, come in al-

cuni casi peraltro può essere utile, ma soprattutto come ricerca ed apertura di percorsi”. M. Croce, Il lavoro di rete tra tecnica e partecipazione, in Quaderni di Animazione e Forma-zione, L’intervento di rete, op. cit., p. 7.

59 Cfr. ibi, p. 8. 60 F. Oliva, M. Croce, R. Merlo, Appunti di metodo per un intervento di rete con approc-

cio egocentrato, in Quaderni di Animazione e Formazione, L’intervento di rete, op. cit., p. 70.

61 Ibi, p. 71. Il modello egocentrato, a sua volta, può essere distinto in due tipi: tipo te-rapeutico e tipo psico-sociale. Cfr. ibi, pp. 71-78.

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Capitolo terzo - Le logiche di azione emergenti

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nel nodo del potere, dell’appartenenza, della partecipazione dal basso, empo-werment”62.

– Modello organizzativo Croce, in realtà, non utilizza questa espressione, ma parla semplicemente

di ‘rete secondaria: i servizi e l’organizzazione’, per indicare il centro di que-sto modello. Esso raccoglie gli interventi che “utilizzano il termine rete socia-le riferendosi al coordinamento tra gli operatori, oppure al collegamento tra gruppi e istituzioni o ad una strategia che favorisca le connessioni e l’organizzazione tra risorse formali ed informali”63.

Un’altra classificazione, utile a comprendere la pluralità di modelli, è quel-

la proposta da L. Sanicola. Essa parla di quattro indirizzi64.

– Indirizzo terapeutico Considera la rete “come una realtà ‘curante’ e curabile’”65. In questo indi-

rizzo l’intervento opera, secondo la Sanicola, principalmente ad un livello di “interazioni” e l’azione “si stabilisce nel corso delle sedute di rete, grazie agli scambi informativi tra reti diverse che, concepite come sistemi e sottosistemi, producono interazioni comunicative, scambi nuovi, materiali e affettivi, fino all’esperienza catartica della tribalizzazione o dell’effetto ‘rete’”66.

– Indirizzo organizzativo In questo indirizzo l’intervento mira a “configurare un disegno organizza-

tivo a rete tanto delle risorse istituzionali (servizi), quanto delle risorse natu-rali (rapporti significativi, aggregazioni, gruppi, ecc.)”67. L’azione ha quindi

62 M. Croce, op. cit., pp. 8-9. (Il corsivo è nell’originale). 63 Ibi, p. 9. 64 Cfr. L. Sanicola, Orientamenti al lavoro di rete. Approcci teorici e metodologici, in

Quaderni di Animazione e Formazione, L’intervento di rete, op. cit., pp. 37-52. L’autrice opera una comparazione tra i quattro indirizzi in base al quadro teorico, la dinamica dell’azione, le strategie e il ruolo dell’operatore.

65 L. Sanicola, L’intervento di rete. Una innovazione nel lavoro sociale, in L. Sanicola (a cura di), op. cit. p. 106.

66 L. Sanicola, op. cit., in Quaderni di Animazione e Formazione, L’intervento di rete, op. cit., p. 46.

67 L.. Sanicola, L’intervento di rete. Una innovazione nel lavoro sociale, in L. Sanicola (a cura di), op. cit. p. 106.

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come livello preferenziale l’organizzazione attraverso la promozione di un disegno reticolare di rapporti, con nessi e collegamenti che si sollecitano in funzione della soluzione di uno o più problemi68.

– Indirizzo comunitario All’interno di questo indirizzo, la Sanicola inserisce i modelli di interven-

to che pur tenendo come riferimento l’“ego” (ossia il caso individuale) inten-dono valorizzare le risorse della comunità. In questi modelli l’azione si decli-na attraverso uno sviluppo dei ‘legami’ che possa rendere sempre più capace di azione la rete di riferimento. In questo indirizzo allora “l’operatore è un costruttore di reti, il tessitore di una trama di cui egli possiede il disegno an-che se è pronto a ritirarsi quando l’opera è compiuta, quando la rete può vi-vere anche senza il suo aiuto”69.

In realtà, oltre che in riferimento al caso individuale, questo indirizzo può rivolgersi a specifiche categorie di persone o alla comunità nel suo insieme.

– Indirizzo relazionale Si tratta dell’indirizzo che si rifà all ‘intervento di rete’ elaborato da C.

Brodeur e R. Rousseau70. La dinamica dell’azione riguarda, secondo la Sani-cola, il livello delle “relazioni” ed interessa i vissuti, le rappresentazioni, la di-mensione simbolica dell’esperienza, la cultura di una determinata micro-società71. Si caratterizza perciò per una strategia di intervento situabile tra il clinico e il comunitario. L’operatore “svolge un ruolo di orientamento e di guida relazionale, facilitando processi che portano la domanda dell’utenza dall’individuale al collettivo e dalla dipendenza all’autonomia”72.

68 Cfr. L. Sanicola, op. cit., in Quaderni di Animazione e Formazione, L’intervento di

rete, op. cit., p. 46. 69 Ibi, p. 47. 70 Cfr. ibi, p. 43. 71 Lo stesso Brodeur scrive: “La nostra pratica di rete tende a sviluppare alla base del si-

stema sociale, delle micro-società naturali, che a partire dal piano della cultura, possano ordinare all’apparato economico i prodotti di cui hanno bisogno per il dischiudersi di una vita conforme ai desideri più profondi dell’uomo”. C. Brodeur, Il lavoro di rete alla ricerca della sua teoria di politica sociale, in Quaderni di Animazione e Formazione, L’intervento di rete, op. cit., p. 16.

72 L. Sanicola, op. cit., in Quaderni di Animazione e Formazione, L’intervento di rete, op. cit., pp. 47-48.

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C. Le principali operazioni Alla pluralità dei modelli (e quindi anche alla pluralità di oggetti) in cui

può declinarsi l’approccio di rete, corrisponde una diversificazione degli schemi di azione e degli strumenti utilizzati.

È difficile, perciò, definire con precisione uno schema generale comune valido, ad esempio, sia per chi è intenzionato a ristrutturare l’organizzazione di un servizio, sia per chi è intenzionato ad affrontare direttamente un pro-blema coinvolgendo la rete primaria.

Esaminando la letteratura specializzata, si può comunque riconoscere un nucleo operativo comune, distinguibile in due aree.

In una prima area possono essere raccolti una serie di spunti che concor-rono a costituire il lato operativo della ‘forma mentis’ della logica di rete. Ne emerge una sorta di stile, sintetizzabile nei seguenti passaggi:

– Pensare in rete Si richiede di pensare il proprio campo di azione non semplicemente co-

me un elenco di problemi, ma come una rete sociale che può essere valorizza-ta; richiede di interpretare il problema e la sua possibile ‘soluzione’ non in termini isolati, ma allargando lo sguardo alle reti di riferimento.

– Pensarsi in rete La logica di rete chiede un mutamento anche alla comprensione che

l’operatore ha del proprio ruolo. L’operatore non è fuori da una rete sociale; egli stesso è in rete e la sua azione è nodo di un tessuto di legami più ampio.

– Interagire in rete Non si tratta solo di modificare una comprensione, ma di modificare il

proprio modo di lavorare, innalzando la capacità di interagire con gli altri operatori, di interagire con le figure coinvolte nell’intervento, accrescendo la loro collaborazione e la loro capacità di aiuto.

In un seconda area possono essere raccolti i due passaggi procedurali che,

al di là dei singoli modelli, accomunano l’azione di un operatore che intende valorizzare appieno le reti sociali.

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– Osservare e esplorare le reti Il primo passaggio comporta la capacità dell’operatore di sapere ‘conosce-

re’ la rete di riferimento del problema e la rete di riferimento di un possibile intervento.

Generalmente si sottolinea come in questa fase osservativa sia importante un’esplorazione che permetta l’analisi della configurazione e dei caratteri del-la rete. “L’esplorazione delle reti consiste nel portarsi fuori dal proprio am-biente per introdursi in un ambiente dato, ma non noto, per cercare di cono-scerlo. Consiste inoltre nell’essere in grado di rappresentarlo e di descriverlo, prendendo in considerazione alcuni aspetti specifici secondo precisi indica-tori. Utilizza delle tecniche e degli strumenti appropriati alla peculiarità dell’ambiente da esplorare”73.

Si tratta di una analisi che mira a tracciare le caratteristiche essenziali della rete (l’ampiezza, la densità, l’interconnessione, la settorialità74) attraverso una pluralità di strumenti. La Sanicola, ad esempio, ricorda “le carte di rete, il dia-rio di bordo, la griglia per l’esplorazione morfologica e relazionale delle reti primarie”75.

Ma l’osservazione, secondo Folgheraiter, non può soffermarsi ad una rile-vazione dei legami esistenti76. In stretta connessione con l’intervento è im-portante osservare il modo in cui la rete sta già affrontando il problema. In-fatti una rete “può risultare insufficiente rispetto al compito perché al suo interno non vi sono le azioni necessarie, sia perché non possono esserci di fat-to, sia perché, pur potendo esserci, le azioni non si attivano per mancanza di stimoli opportuni, dati da qualcuno che si accorge che tali azioni mancano e sarebbero necessarie. Un secondo motivo di insufficienza si determina quan-do le azioni ci sono, ma non si collegano tra loro”77.

73 L. Sanicola, L’esplorazione delle reti primarie, in L. Sanicola (a cura di), op. cit., p.

123. 74 Cfr. P. Zaghi, op. cit. p. 100. 75 L. Sanicola, L’esplorazione delle reti primarie, in L. Sanicola (a cura di), op. cit., p.

137. 76 Cfr. F. Folgheraiter, Teoria e metodologia del servizio sociale, op. cit., pp. 265-339. 77 Ibi, p. 328-329.

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– mobilitare la rete e riorentarla nella soluzione del problema Ad una conoscenza della situazione deve rapportarsi, evidentemente, un

intervento che secondo R. Serra si caratterizza per tre azioni congiunte: “si sviluppa innanzitutto un’azione di raccordo, di facilitazione, di sincronismi e di sinergie tra i diversi poli coinvolti nell’aiuto. Contemporaneamente si at-tua un’azione di sostegno alle reti già esistenti e, in terzo luogo, si prevede un’azione di estensione della rete, volta all’attivazione di nuovi soggetti poten-ziali, inseriti soprattutto nelle comunità locali e disponibili a entrare nella re-te come poli di aiuto”78.

Si tratta, per usare altre espressioni, di ‘mobilitare le reti’79, di elaborare congiuntamente dei piani di azioni attraverso la ‘guida relazionale di rete’80.

In questa fase è richiesto all’operatore, perciò, innanzitutto di ristruttura-re la rete attraverso: – una crescita nella conoscenza e nella consapevolezza della propria capacità

di azione; – un allargamento della rete all’esterno; – un aumento delle connessioni e delle interazioni interne.

In secondo luogo, egli deve attivare un processo di sostegno e di guida che orienti la rete verso la soluzione. La guida, ci ricorda Folgheraiter, richiede elaborata consapevolezza metodologica e ‘senso della realta’81.

Il richiamo al senso della realtà ci rinvia infine alla necessità di tenere pre-sente, come richiamano altri autori, l’ambiguità delle reti. Parlando delle reti primarie, M. Cauletin scrive: “sono risorse, ma a volte risorse crudeli e impri-gionanti. Il ricordarlo permette di evitare di assolutizzare sia il ‘naturale’ che il ‘professionale’, poiché vi è il rischio di una deviazione possibile che fa per-dere la possibilità di una visione più complessa e dialettica del reale”82.

La maggiore considerazione (almeno in termini di centralità culturale) ri-

cevuta dall’approccio di rete nel campo del lavoro sociale, ha direttamente coinvolto anche l’azione educativa. Con sempre maggior frequenza la stesura

78 R. Serra, op. cit., p. 201. 79 Cfr. L. Sanicola (a cura di), op. cit., pp. 187-274. 80 Cfr. F. Folgheraiter, Teoria e metodologia del servizio sociale, op. cit., pp. 341-501. 81 Cfr. ibi, pp. 500-501. 82 M. Caueletin, Reti personali, percorso di vita e soggettività. Dall’esplorazione delle reti

personali alla conoscenza delle reti, in L. Sanicola (a cura di), op. cit., p. 361.

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formale dei progetti educativi vede il lavoro di rete tra i presupposti culturali, tra le strategie operative, tra gli obiettivi finali, oppure come elemento tra-sversale a tutto il progetto.

Una maggiore sensibilità culturale verso una costruzione progettuale ca-ratterizzata dalla sinergia, dal coordinamento, dalla collaborazione ha trovato nella logica di rete un proprio punto di forza. Ne è un esempio quanto scritto in merito ad una esperienza di collaborazione tra C.A.G. Scuola e Territorio nella Provincia di Brescia.

“Se pensiamo alla nostra attività sociale, sia essa svolta nella scuola, nel C.A.G. e fra le due realtà, parlare di cultura di rete diventa qualcosa di più dell’integrazione fra i servizi, fra realtà istituzionali. La logica di rete rimanda ad un intreccio tra Affettività, Cultura, Struttura, che si carica di significato in quanto rappresenta il risultato di ‘Visioni’ che interagendo e integrandosi, producono innovazione sociale. Il lavoro di rete si configura come azione consapevole diretta a facilitare le sinergie, i sincronismi tra molteplici poli – formali e informali – coinvolti concretamente nel progetto; accanto a questo lavoro di rete prevede anche un lavoro di supporto a reti già esistenti e un’azione di estensione della rete”83.

Gli educatori non solo sono stati sollecitati a ragionare ed ad agire in una logica di rete ma, con la loro radicata cultura relazionale, hanno contribuito ad una sua diffusione e ad un suo rafforzamento.

“Molti educatori in questi ultimi dieci anni, hanno partecipato e in alcuni casi promosso lavori di rete nei diversi ambiti: – lavori di rete per la soluzione dei problemi dei singoli; – sistemi avanzati di network di servizi; – lavori di promozione della comunità”84.

Come si può notare dalle citazioni riportate, il rapporto tra lavoro di rete e lavoro educativo è attualmente considerato molto importante. Per com-prenderne appieno, però, l’attuale caratterizzazione, è importante riconosce-re l’esistenza di tre diversi aspetti.

Un primo aspetto è nell’ordine della sensibilità culturale e della consape-volezza ‘sociale’. Il lavoro di rete richiama infatti il lavoro educativo all’im-

83 Provincia di Brescia. Assessorato ai Servizi Sociali, CAG Territorio Scuola: quando la

collaborazione diventa possibile (a cura di E. Majer, L. Danieli, gruppo Educatori CAG e Scuola), Formazione e servizi Quaderno n. 18, Brescia 2001, p. 24.

84 G. Sordelli, op. cit., p. 64.

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portanza di pensarsi appartenente ad un contesto e di prendere in considera-zione l’esistenza della rete sociale, come dato e come risorsa.

Sottolinea con chiarezza questo aspetto M. Pollo quando scrive: “il lavoro di rete, infatti prima ancora di essere il collegamento di professionalità e ri-sorse, formali e informali, deve essere la riscoperta dell’appartenenza dell’edu-catore, dell’educando e della comunità locale ad un unico Noi, strutturato da una cultura e da linguaggi particolari e che si incarna in reti di comunicazione definite (…) L’approccio di rete richiede all’educatore un cambiamento del suo atteggiamento. Infatti è necessario per prima cosa che egli sia disponibile ad accettare la parzialità e, quindi, i limiti del suo intervento. Questo significa la capacità di individuare tutte le risorse che, rispetto ai fini che persegue, so-no presenti in un dato tempo e luogo sociale e di attivarle, o più semplice-mente di collegarsi con esse”85.

Un secondo aspetto riguarda invece la dimensione organizzativa. Il lavoro di rete va sollecitando i diversi protagonisti degli interventi educativi a defi-nirsi in termini di ‘non auto-sufficienza’ e di pensare l’articolazione del loro lavoro in termini di sinergia, di articolazione, di creazione di legami positivi. Si tratta di un aspetto fortemente presente nella cultura dell’educatore, solle-citato ormai da più parti a sapersi mettere in rapporto, a sapere connettere i diversi soggetti e le diverse risorse.

Questa dimensione organizzativa appare però di non semplice costruzio-ne. Il territorio non è un luogo ideale dove tutti sono pronti a collaborare e spesso l’educatore si trova ad operare in situazioni in cui uno dei dati preva-lenti è proprio il disinteresse. Perciò oggi lo sforzo più forte appare orientato a ridisegnare in una logica di rete innanzitutto il rapporto generale tra i servi-zi e gli enti, ponendo in secondo piano una logica di rete per l’intervento sul singolo caso.

Un terzo aspetto riguarda l’oggetto di lavoro. L’approccio di rete, soprat-tutto nella sua declinazione di promozione delle reti primarie, ha in sé una forte valenza educativa. L’operatore di rete, infatti, non è soltanto colui che coordina un lavoro, ma è colui che attiva processi innovativi in un gruppo so-ciale allo scopo di migliorane la qualità di vita. In quest’ottica, parlare di lavo-ro di rete, significa comprendere in modo nuovo l’oggetto dell’azione educa-

85 M. Pollo, La società complessa. La professione educativa e la dimensione socio-culturale,

in AA.VV., La professione di educatore, op. cit., pp. 83-84.

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tiva: non solo i singoli, ma le reti che sostengono i singoli; non solo i compor-tamenti, ma le culture di determinati gruppi.

Questo aspetto, però, presenta per l’educatore, che opera attualmente, dei contorni problematici, in quanto la promozione delle risorse di una rete è un ideale che si declina in pratiche tutt’altro che semplici ed omogenee e non sempre conciliabili con l’oggetto di lavoro a cui uno è stato assegnato. La lo-gica della strada (ma in molti aspetti anche l’animazione), che tra poco sarà descritta, concorre a sostenere in questa direzione il lavoro educativo, in quanto essa ha la rete sociale come contesto e come oggetto. Ma la logica del-la strada non chiarisce del tutto il quadro, in quanto resta aperto il problema metodologico di che cosa significhi, per educatori che operano sulla gestione quotidiana di singole situazioni all’interno di singoli servizi, non solo tenere presente la rete primaria, ma promuoverla. Da questo punto di vista è neces-sario innalzare il livello di analisi attraverso ricerche che raccolgono ciò che realmente fa un educatore quando affronta un problema in una logica di rete.

3.3. Empowerment

Nel numero 1/2002 di “Animazione Sociale” – nella sezione dedicata alla discussione sul lavoro sociale – per ben tre volte, in poche pagine, si parla di empowerment come logica importante per un intervento più efficace e più significativo.

Benché oggi sia frequente collegare l’utilizzo di questo termine con il mondo della formazione professionale e delle aziende, è nel più vasto campo dell’azione sociale e politica, agli inizi degli anni ’60, che il concetto di em-powerment ha origine86 ed è soprattutto “nella psicologia di comunità che il concetto è stato e continua ad essere centrale”87.

86 “L’approccio dell’empowerment è piuttosto giovane ed è alla ricerca della propria specificità, sia teorica, sia metodologica. È oggetto di studio e ricerca soprattutto nel nord America. In quel paese nacque, nell’ambito della psicologia sociale e di comunità, degli studi delle minoranze svantaggiate, degli studi sui processi di riabilitazione di portatori di handicap. In anni recenti è stato recepito e sviluppato dal mondo dell’impresa e delle scienze manageriali”, M. Colombo, Empowerment nei servizi residenziali per anziani non autosufficienti, in “Animazione Sociale”, 5/1995, p. 67.

87 C. Piccardo – L. Orso Giacone, Per un approccio di empowerment alle sfide della co-munità, in “Animazione Sociale”, 10/1995, p. 35.

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Nella declinazione ‘sociale’ del suo uso, empowerment, sia che lo si inten-da come ‘condizione psicologica’ di un soggetto, sia come forma di interven-to88, ha al centro l’idea di un rafforzamento del ‘sentirsi capaci di agire’ e un rafforzamento della reale possibilità di azione di un singolo individuo, di una organizzazione, di una comunità. Inteso sia come percorso che come risulta-to89, esso consiste, per riprendere quanto espresso da Rappaport, nell’“accrescere la possibilità dei singoli e dei gruppo di controllare attiva-mente la propria vita”90.

La comprensione però di questo concetto in campo sociale non è priva di ambiguità. È ancora una volta opportuno, a questo riguardo, richiamare Fol-gheraiter, il quale distingue due modi profondamente diversi di intendere l’empowerment all’interno della politica sociale91. Lo si può intendere come “strategia passiva” e quindi come il “lasciare il potere di fare agli interessati”, oppure può essere inteso come “strategia relazionale” ossia come “il reciproco potenziamento del potere di azione”. La prima strategia centrata sull’idea del lasciar fare ha in sé il rischio di essere gravemente inefficace nei confronti di coloro in cui è più alta la carenza di potere di azione92. La seconda strategia, invece, pone al centro un’azione di supporto che non si sostituisca alle perso-ne, ma attraverso una relazione di aiuto incrementi “il senso di poter fare de-gli interessati”93. Nell’attuale letteratura del sociale e nel linguaggio degli ope-

88 Cfr. F. Folgheraiter, Teoria e metodologia del servizio sociale, op. cit., p. 406. 89 “L’empowerment è una parola ‘processo-prodotto’ in quanto dà nome sia al processo

percorso per raggiungere un certo risultato, sia al risultato stesso caratterizzante lo stato empowered del soggetto” (i corsivi sono nell’originale), D. Francescato, Empowerment per-sonale, di gruppo, sociale, in C. Arcidiacono – B. Gelli – A. Putton, Empowerment sociale, FrancoAngeli, Milano 1996, p. 18. La letteratura dedicata all’empowerment presenta al suo interno la distinzione tra empowering (per intendere le azioni di ‘potenziamento’) e empowered (inteso come lo stato finale del soggetto che ha acquisito potere di agire). All’interno della presente riflessione si è ritenuto opportuno non entrare nel merito di questa distinzione ed utilizzare empowerment come parola ‘processo-prodotto’.

90 D. Francescato, op. cit., in C. Arcidiacono – B. Gelli – A. Putton, op. cit., p. 17. 91 Cfr. F. Folgheraiter, Teoria e metodologia del servizio sociale, op. cit., pp. 403-418. 92 “In prima impressione verrebbe da dire che lasciar fare le persone – buttarle a mare

perché imparino a nuotare – sia strategia spiccia ad alto rischio, che può funzionare di tan-to in tanto. Altrettanto spesso, alle persone buttate in acqua, manca il tempo di apprende-re qualsiasi cosa”, Ibi, pp. 408-409.

93 Ibi 410. “L’empowerment attivo è un modo che ha l’esperto di accostare chi ha un problema o coloro che gli sono vicini, in virtù del quale questi sentono di dovere e potere

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ratori è a questo secondo tipo di empowerment (empowerment attivo) che si fa riferimento; ed è all’interno di questa concezione che proseguiamo l’analisi della logica di empowerment, cercando di enuclearne i significati fondamen-tali.

A. Il nucleo portante Il fatto che, anche secondo la letteratura specializzata, la nozione di em-

powerment sia ancora “neonata”94, “controversa”95, e la sua teoria di riferi-mento “in qualche modo enigmatica”96, non facilita il tentativo di sintetizza-re in poche righe quelle che possono essere considerate come le idee fonda-mentali, che l’uso del termine empowerment intende introdurre e realizzare nella pratica del sociale. Tuttavia appare possibile sottolinearne alcune che, attualmente, sembrano costituire un quadro concettuale e valoriale di riferi-mento. Esse, come si vedrà, si presentano in stretto rapporto con le idee por-tanti della progettazione e della rete.

L’idea centrale, sopra cui sembra posare le fondamenta la logica del-l’empowerment, è quella di potenziamento della gestione della propria vita, che ha uno stretto legame con l’idea, socialmente più carica di storia, di e-mancipazione97. In termini lapidari Piccardo e Orso Giacone scrivono: “il concetto di empowerment è fondamentalmente costruito intorno al fatto di ‘prendere in mano’ la propria vita”98.

Non si tratta, evidentemente, di considerare le persone (o le comunità) capaci di tutto, quanto piuttosto di contrastare una logica che veda in termi- fare qualcosa per aiutarsi più di quanto potrebbero fare se si trovassero nelle seguenti due condizioni: a) se fossero lasciati soli, nel qual caso è più probabile che si sentirebbero so-praffatti dalle difficoltà e in preda all’impotenza e b) più di quanto anche potrebbero fare se fossero aiutati appunto nel modo sbagliato, cioè con approcci che li sostituissero nella soluzione, impedendo loro di agire”, ibi, pp. 410-111.

94 C. Piccardo – L. Orso Giacone, op. cit., p. 42. 95 F. Folgheraiter, Teoria e metodologia del servizio sociale, op. cit., p. 405. 96 M.A. Zimmerman, Empowerment e partecipazione della comunità, in “Animazione

Sociale”, 2/1999, p. 18. 97 “Le attività di empowerment cercano di pervenire all’emancipazione di questi sog-

getti, al raggiungimento non solo del controllo sulle loro vite, della loro dignità e del loro senso di orgoglio, del loro rispetto di sé, ma anche della loro capacità di influenza econo-mica e politica, sfidando in qualche modo le relazioni di potere tipiche della nostra socie-tà”, C. Piccardo – L. Orso Giacone, op. cit., p. 35.

98 Ibi, p. 37.

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ni assolutamente separati, il lato di colui che sa, dal lato di colui che non sa, il lato di chi è esperto e il lato di chi è utente, il lato di chi ha potere e quello di chi non ne ha. L’empowerment intende potenziare la possibilità di vita e la capacità di azione dei soggetti, attraverso una strada che integri le conoscen-ze, le capacità, le energie dei servizi con le risorse dei ‘destinatari’.

Ciò significa portare avanti una logica di intervento che, mentre non è cieca sulle mancanze, intende operare sulla valorizzazione delle risorse. “I va-lori dell’empowerment spingono a promuovere il benessere invece di limitar-si a prevenire la malattia, a identificare i punti di forza invece che catalogare i fattori di rischio e a incrementare le opportunità invece di fissarsi sui pro-blemi”99. In quest’ottica si possono comprendere i gruppi di auto-aiuto, che la logica dell’empowerment promuove.

La valorizzazione delle risorse comporta che il soggetto possa riconoscerle e possa utilizzarle. In questo senso empowerment significa lavorare per incre-mentare l’accesso alle risorse: “si riconosce che nella nostra società ci sono al-meno quattro tipi di potere: la forza, la legge, il denaro e la conoscenza, che sono distribuiti in modo ineguale tra gli individui e nei diversi gruppi sociali ed etnici. Al tempo stesso si postula che la persona che si sente impotente, spesso non riconosce né utilizza le risorse accessibili sia personali che socia-li”100. Si possono, dunque, distinguere due categorie di risorse: le risorse in-terne al soggetto e le risorse esterne. Sono esempi della prima categoria: la motivazione, la capacità di analizzare e risolvere i problemi, la capacità di or-ganizzare l’azione, la conoscenza dei dati; sono esempi della seconda, la quali-tà dei rapporti sociali, la situazione economica, la situazione organizzativa di una data realtà. È necessario tenere presenti entrambi i tipi di risorse. L’esclusiva attenzione, infatti, alle risorse interne rischia di far perdere al con-cetto di empowerment la sua valenza socio-politica, limitando il concetto di ‘autonomia’ che ne consegue alla sola dimensione psicologica.

Non basta accedere alle risorse, occorre avere il potere di trasformarle in azione. L’empowerment, dunque, ripone al centro l’idea di potere come og-getto di lavoro e come dimensione su cui vigilare. Il potere, che la logica di empowerment intende rafforzare nei soggetti, non è da intendersi sempli-cemente con il “possesso di qualcosa” (sono potente perché ho denaro, ho

99 M.A. Zimmerman, op. cit., p.11. 100 D. Francescato, op. cit.,, in C. Arcidiacono – B. Gelli – A. Putton, op. cit., pp. 15-

16.

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conoscenze), ma soprattutto come l’avere la forza e la possibilità di fare qual-cosa, di agire in un determinato modo.

La forza di fare qualcosa richiede secondo Zimmerman: controllo, consa-pevolezza critica, partecipazione. “Sono tre i concetti fondamentali che strut-turano la teoria dell’empowerment attraverso i diversi livelli di analisi. Questi concetti sono il controllo, la consapevolezza critica e la partecipazione. Il con-trollo si riferisce alla capacità, percepita o attuale di influenzare le decisioni. La consapevolezza critica consiste nella comprensione del funzionamento delle strutture di potere e dei processi decisionali, di come i fattori in gioco vengono influenzati e le risorse mobilitate (cioè identificate, ottenute, ge-stite). La partecipazione rimanda all’operare per ottenere risultati desi-derati”101.

I tre concetti indicati da Zimmerman ne chiamano in causa altri. Operare per accrescere il controllo, la consapevolezza critica, la partecipazione com-porta l’agire sull’autostima dei soggetti, sull’aumento delle competenze perso-nali, attraverso percorsi che pongono al centro la maggiore responsabiliz-zazione possibile. Ma qui entriamo in una tematica molto spigolosa, in quanto, se è relativamente semplice affermare in linea di principio l’impor-tanza di responsabilizzare le persone ed i gruppi, sul piano dei fatti ciò può declinarsi in una pluralità di forme spesso molto distanti tra loro.

Il potere di azione di un determinato soggetto inoltre non può essere di-sgiunto dal contesto di riferimento. Per questo la logica di empowerment non dovrebbe perseguire una concezione astratta di potenziamento e di auto-nomia, quanto piuttosto contestualizzare l’intervento in rapporto ad una de-terminata situazione. “L’empowerment non può essere la stessa cosa per ado-lescenti che lottano per l’affermazione della propria identità e per cittadini che lavorano per impedire installazioni pericolose sul loro territorio. (…) Allo stesso modo l’empowerment può essere qualcosa di sensibilmente diverso anche per una stessa popolazione se considerato in contesti diversi”102.

Rappaport, come ci ricordano Piccardo e Orso Giacone, per sottolineare “l’importanza di tenere conto di tutte le interazioni tra possibili variabili in-tervenienti nello studio di determinati contesti” parla di teoria ecologica di empowerment103.

101 M.A. Zimmerman, op. cit., p. 14. 102 Ibi, p.12. 103 Cfr. C. Piccardo – L. Orso Giacone, op. cit., 38.

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Parlare di empowerment, infine, significa anche vigilare sul potere in un’ottica di lavoro che, senza cadere in una prospettiva semplicistica104, com-prenda in termini meno autoritari e più partecipativi la relazione di potere, innanzitutto quella tra operatore e ‘utente’. Per questo “come atteggiamento metodologico l’empowerment è la strategia fondamentale per la quale un o-peratore sociale ‘cede potere’ terapeutico o di problem solving ai suoi interlo-cutori, evitando di bloccarli nell’azione possibile solo perché istituzionalmen-te dovrebbe agire lui. L’operatore si toglie parte del suo potere e colloca idealmente quel corrispondente potere da lui perso in capo ai suoi interlocu-tori”105.

B. I diversi modelli L’attuale letteratura in materia è solita classificare le forme di empower-

ment secondo tre diversi campi di intervento: singolo individuo, organizza-zione, comunità. “L’empowerment è sia un valore di orientamento per il la-voro nella comunità, sia un modello teorico volto alla comprensione del processo e dei risultati derivanti dagli sforzi tesi a esercitare controllo e in-fluenzare le decisioni che incidono sulla propria vita, sul funzionamento delle organizzazioni e sulla qualità della vita della comunità”106.

– L’empowerment individuale È il livello di azione che ha come oggetto principale il potenziamento del-

la vita dei singoli, soprattutto di coloro che, per diversi motivi, vivono una situazione di difficoltà e di disagio. In alcuni autori questo livello è definito anche self-empowerment, proprio per indicare un’azione di intervento sulla percezione e sulla rappresentazione cognitiva che un soggetto ha di sé, allo scopo di muoverlo verso l’emergere di nuove possibilità di essere e di agire107. “Il self-empowerment vuole lottare contro le vite sospese tra possibilità im-maginate e mai tentate, contro le vite dimezzate, contro il progresso bloccato dentro di sé (...) contro i morti viventi (chi ha rinunciato a lottare) o i mal

104 “Non sarebbe realistico studiare l’empowerment senza considerare anche le diffe-

renze di poteri, i rapporti con i mediatori fra poteri o alcune caratteristiche delle strutture di potere”, M.A. Zimmerman, op. cit., p.19.

105 F. Folgheraiter, L’operatore sociale del welfare mix, in op. cit., p. 22. 106 M.A. Zimmerman, op. cit., p. 10. 107 Cfr. M. Bruscaglioni, M. Capizzi, S. Gheno, Orientamenti operativi per la consulen-

za al self empowerment, in C. Arcidiacono – B. Gelli – A. Putton, op. cit., pp. 38-52.

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viventi (chi vive male), contro la prigionia dello scacco matto (…) Per vivere in modo significativo occorre avere davanti a sé un qualche possibile, ritrova-re l’alba di una nuova vita riprendendo in mano la propria strada e il proprio destino”108.

– L’empowerment organizzativo Con questa espressione si intende in senso generale l’azione mirante a

promuovere una innovazione nel modo di operare e di decidere di una qual-siasi realtà organizzata. Usualmente è però applicata con un riferimento par-ticolare alle organizzazioni lavorative. “Ad esempio, in una organizzazione si devono rafforzare le competenze dei lavoratori, mutare gli stili di leadership, riorganizzare i lavoratori in gruppi autonomi (self empowered work team), mutare i sistemi premianti in modo che valorizzino sia prestazioni individua-li che di squadra; creare sistemi informativi computerizzati che rendano ac-cessibile a tutti le informazioni, ridurre gli strati gerarchici, elaborare valori di base e un senso di mission condivisi”109.

In riferimento al campo delle organizzazioni, la Piccardo distingue due approcci di empowerment: psico-sociologico e socio-organizzativo110.

Il primo ritiene che operare in una logica di empowerment significhi in-nanzitutto “lavorare contemporaneamente sulle dimensioni individuali e or-ganizzative”, affinché le persone “possano sviluppare contemporaneamente un sentimento del proprio lavoro e un maggior controllo sulla situazione la-vorativa”111. Il secondo approccio prende in considerazione “il funzionamen-to organizzativo negli aspetti sociali e tecnici, sia a livello micro-organizzativo, che comprende i sottosistemi (le singole unità di lavoro, i mec-canismi di integrazione e controllo e in particolare i gruppi di lavoro auto-nomi) che a livello macro-organizzativo (mission dell’azienda, clima, cultura, sistemi premianti, ecc.)”112.

– L’empowerment di comunità Parlando di empowerment di comunità (oppure empowerment di rete o,

in termini più generici, empowerment sociale) ci si riferisce principalmente

108 C. Piccardo, Empowerment, Cortina, Milano 1995, p. 55. 109 D. Francescato, op. cit. in C. Arcidiacono – B. Gelli – A. Putton, op. cit., p. 21. 110 Questa distinzione è riportata in ibi, p 19. 111 Ibidem. 112 Ibidem.

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“all’azione collettiva per il miglioramento della qualità della vita nella comu-nità e alla connessione tra organizzazioni e agenzie della comunità”113. Il po-tenziamento della comunità114 si articola in diverse strade: il lavoro con le reti primarie, la promozione delle sinergie fra i diversi soggetti della vita sociale, la cura e lo sviluppo delle strutture, dei mezzi, dell’organizzazione di un deter-minato territorio. Come ha notato Zimmerman, “l’empowerment organiz-zativo e comunitario non si riduce all’aggregazione di più individui a loro volta empowered, ma include anche l’attivazione di alcuni fattori di contesto che accrescono le opportunità di empowerment individuale”115.

C. Le principali operazioni La declinazione operativa dell’empowerment, ha raggiunto, almeno nel

nostro paese, forme di strutturazione molto diversa a seconda dei campi di intervento. Accanto a proposte di Self-empowerment (soprattutto nel campo lavorativo) articolate su specifici passaggi, si trovano proposte in cui l’empowerment è posto sostanzialmente come ‘valore di riferimento’.

La logica dell’empowerment appare principalmente come un orientamen-to di fondo, che prende forma concreta nei diversi livelli di intervento, attra-verso dispositivi e strategie diversificati116. Per questo, non è facile individua-re con precisione un insieme di operazioni che concorrano a costituire una sorta di struttura di base comune ad ogni lavoro che voglia definirsi di em-powerment.

Si può registrare, invece, innanzitutto la presenza di alcune indicazioni o-rientative generali, che si ritiene importante siano tenute presenti nel lavorare secondo una logica di empowerment. Si possono considerare tali le quattro

113 M.A. Zimmerman, op. cit., p. 17. 114 “Per i nostri scopi definiremo la comunità in senso generale in modo tale da com-

prendere in questo concetto ogni luogo o ambito nei confronti dei quali gli individui ab-biano un senso di identità e di appartenenza, un sistema comune di simboli (per esempio linguaggi, rituali, cerimonie), valori e norme comuni, reciproca influenza, bisogni simili e il comune impegno di soddisfarli e infine legami emotivi condivisi”, M.A. Zimmerman, op. cit., p. 16.

115 Ibi, p. 17 (Il corsivo è nell’originale). 116 Cfr. D. Francescato, op. cit., in C. Arcidiacono – B. Gelli – A. Putton, op. cit., p.

20. L’autrice parla di strategie di intervento di Psicologia di comunità per favorire l’empowerment personale, di gruppo e sociale.

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costanti proposte da Le Bossé e Lavallée, e riprese da Piccardo e Orso Giaco-ne: – l’empowerment è collegato con certe caratteristiche individuali; – l’empowerment implica che sia azione; – l’empowerment si esprime e si sviluppa in relazione con l’ambiente; – l’empowerment è un processo.

In secondo luogo è possibile riscontrare una comune rappresentazione ge-nerale del processo di empowerment come passaggio da una presa di coscienza della situazione, delle risorse, dei desideri, alla reale sperimentazione di nuove possibilità. Un esempio di rappresentazione del processo, in un contesto di Self-Empowerment, è riportato nella figura 3.

Figura 3, tratta da M. Bruscaglioni, M. Capizzi, S. Gheno, Orientamenti operativi per la consulenza al self empo-

werment, in C. Arcidiacono, B. Gelli, A. Putton, Empowerment sociale, op. cit., p. 42.

Un altro esempio, tratto invece dall’empowerment comunitario, indivi-dua i seguenti passaggi: “– la presa di coscienza di bisogni, desideri, problemi, disagi, potenzialità e

risorse (aumento della consapevolezza);

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– la socializzazione delle conoscenze relative ai bisogni, desideri, disagi, ecc. e agli strumenti necessari per fare qualcosa;

– l’organizzazione e l’azione; – la verifica e la valutazione”117.

Come si può notare, il processo di empowerment ha nelle sue diverse rappresentazioni uno stretto rapporto con le strategie connesse con la ri-cerca-azione. Non a caso, Zimmerman osserva che “la ricerca azione parte-cipata è uno degli aspetti fondamentali dell’empowerment”118.

Infine è possibile riscontrare una serie di direttrici di azione. In senso

molto generale esse possono venire sintetizzate in “lo spingere a” e “connet-tere con”119. In termini più analitici, si può affermare che il lavoro di em-powerment comporta il lavorare attorno ai seguenti punti: “– una rilettura delle cause degli eventi che restituisca all’individuo l’idea di

incidere sulla situazione e di potere orientare l’evoluzione (internal locus of control);

– la percezione di disporre di spazi di influenza e di intervento; – lo sviluppo del pensiero positivo e della fiducia in sé appresa (learned

hopefullness); – il riconoscimento del possesso di abilità e percezione della loro efficacia

(self-efficacy); – la costruzione di nuove pensabilità di sé; – l’elaborazione dei desideri in concreta possibilità di scelta”120.

È opportuno ora fare alcune considerazioni finali. L’empowerment rive-

la a chiare lettere la dimensione educativa insita nel lavoro sociale. Ne è un esempio questo passaggio, un po’ altisonante, presente in un articolo pub-blicato su Animazione Sociale: “l’empowerment rappresenta la prima vera proposta per realizzare l’organizzazione a ‘misura di uomo’, per promuove-

117 E.R. Martini, Ricerca partecipata e sviluppo di comunità, in C. Arcidiacono – B. Gel-

li,. A. Putton, op. cit., 209. 118 M.A. Zimmerman, op. cit., p. 11. 119 M. Bruscaglioni, M. Capizzi, S. Gheno, op. cit., in C. Arcidiacono – B. Gelli – A.

Putton, op. cit., p. 39. 120 M. Colombo, op. cit., p. 64.

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re il ‘lato umano’, per dare dimensione concreta a tutti i progetti che pun-tano al rilancio della qualità totale…”121.

Per quanto riguarda, però, l’applicazione operativa e la concretizzazione in specifiche forme di azione di questa logica nell’ambito della professione educa-tiva, l’attuale letteratura si presenta ancora piuttosto rada.

Il richiamo all’empowerment assume generalmente il ruolo di ‘orienta-mento generale’ per il progetto e di ‘senso globale’ dell’intervento. La spie-gazione di questo fenomeno può essere individuata in almeno due ragioni.

La prima consiste nel fatto che il lavoro educativo è generalmente pensato, da coloro che cercano di attuarlo, come lavoro di promozione e potenziamen-to. Da questo punto di vista, la parola empowerment, in qualche modo, è per-cepita come un rafforzativo del senso generale dell’azione educativa ed, in effet-ti, i significati portanti della logica in questione presentano una forte assonanza con diversi temi centrali nella pedagogia contemporanea (l’attivismo, la moti-vazione, le competenze…). Per questo sembra quasi che la declinazione specifi-ca dell’empowerment da parte dell’educatore appaia non necessaria, in quanto ogni azione educativa che voglia essere realmente tale è in fondo una azione mirata al rendere i destinatari più autonomi, più responsabili, più forti.

La seconda ragione consiste nel fatto che il lavoro quotidiano dell’edu-catore ha molto spesso a che fare con situazioni fortemente segnate dalla debolezza di soggetti ‘depowered’. In rapporto a questo contesto è come se si generasse una sorta di resistenza culturale nell’utilizzare la parola empo-werment in quanto essa appare troppo intensa rispetto agli obiettivi che si ritengono realmente raggiungibili.

Chiaramente queste ragioni sono qui solo accennate e richiederebbero un’analisi più dettagliata. Al di là, però, di una modellistica operativa anco-ra poco definita, resta evidente che la logica dell’empowerment si presenta, sempre di più, come una sollecitazione importante per il lavoro educativo, per muoversi nella direzione di una maggiore attenzione alle risorse e alla forze dei soggetti in educazione.

121 P. Brustia – N. De Piccoli, Percorsi identitari ed empowerment sociale, in “Anima-

zione sociale”, 10/1996, p. 64.

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4.4. Strada122 “La strada, il viaggio, l’avventura non sono temi nuovi per i giovani, per chi lo è stato, e per chi continua ad esserlo (…) Ciò che appare nuovo ed assolu-tamente interessante – almeno per quanto riguarda il crescente interesse che tale fenomeno sta assumendo nel nostro paese – è invece pensare la strada come luogo di intervento sociale con le dimensioni, la diffusione, l’interesse, la ricchezza di esperienze e le aspettative che tale pratica sembra assumere”123. Tralasciando le azioni assistenziali ed educative che grandi figure del

passato hanno messo in atto scendendo direttamente ‘tra la gente’, e limi-tando l’attenzione a quello che Regoliosi chiama “il lavoro di strada nella sua accezione moderna”124, possiamo individuare, nell’attenzione italiana alla strada come luogo di intervento sociale, almeno tre fasi.

Una prima fase, iniziale, si caratterizza per l’attivazione delle prime e-sperienze soprattutto ad opera del mondo del volontariato125. Il lavorare sulla strada appare come una forma di azione ‘di rottura’ rispetto alle logi-che consolidate e il rapporto con i servizi formalmente istituiti appare de-bole e, a volte, conflittuale. “Le prime esperienze d’intervento di strada in

122 Anche sulla strada come ‘luogo e forma di educazione’ e, soprattutto, sul ‘lavoro di

strada’ esiste ormai una letteratura abbastanza ampia, in cui sono affrontate questioni an-che molto specifiche, come la valutazione del lavoro e la dimensione organizzativa. Per un primo approfondimento si rimanda a: Quaderni di Animazione e Formazione, Il lavoro di strada, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995; Quaderni del Centro nazionale di docu-mentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Dossier Monografico: In strada con bambini e ragazzi, Pianeta Infanzia Questioni e Documenti N. 12, Istituto degli Innocen-ti, Firenze, 1999; L. Regoliosi, La strada come luogo educativo. Orientamenti pedagogici sul lavoro di strada, Unicopli, Milano 2000.

Nel contesto del presente lavoro si intende mettere in luce solo i caratteri generali: per dare una prima idea in merito alla nozione di strada e al lavoro di strada come logica di a-zione.

123 M. Croce, La strade nel mito e il mito della strada, in Quaderni del Centro naziona-le di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Dossier Monografico: In stra-da con bambini e ragazzi, op. cit., p. 62 e p. 64.

124 L. Regoliosi, La strada come luogo educativo, op. cit., p. 41. 125 Per una prima ‘sguardo storico’ sul lavoro di strada oltre ai volumi già richiamati si

veda anche F. Santamaria, Il lavoro di strada, in “Animazione Sociale”, 6-7/1998, pp. 33-44.

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Italia si sviluppano all’inizio degli anni settanta, ad opera di diverse realtà del volontariato (…). Solo nei primi anni Ottanta, però, si comincia a parla-re in modo specifico e significativo di lavoro di strada, grazie anche agli scambi professionali e culturali realizzati con operatori francesi e tede-schi”126.

Alla fase iniziale fa seguito, negli anni novanta, una crescente organiz-zazione e riflessività all’interno del lavoro di strada, testimoniata dal mol-tiplicarsi di incontri, seminari, convegni e dalla produzione di diverse ‘Car-te’127 aventi lo scopo di tracciare con più precisione i contorni dell’interven-to. In stretta correlazione con questo processo, si assiste anche ad una progressiva accoglienza e riconoscimento del fenomeno da parte dei servizi pubblici, degli enti locali e della legislazione.

Questa accoglienza però ha originato una terza fase (l’attuale), piuttosto delicata, nella quale l’assunzione del lavoro di strada non è sempre accom-pagnata da una sufficiente consapevolezza, trasformandosi così piuttosto in una ‘tendenza’. A questo proposito, già nel 1995, R. Maurizio notava che: “si deve sovente registrare un notevole pressappochismo in chi promuove, progetta, coordina e gestisce interventi denominati di strada, sulla profes-sionalità degli operatori in essi impegnati e sugli aspetti organizzativi”128.

Gli stessi operatori di strada, come dimostra la Carta di Bologna del 1999, invitano perciò le amministrazioni pubbliche a muoversi con mag-giore attenzione: “proprio in ragione della diffusione degli interventi edu-cativi di strada, ancor più rafforzata con l’implementazione della legge n. 285/97, alle pubbliche amministrazioni è richiesto di delineare strategie e modalità di azione utili a superare – anche solo parzialmente – le dimen-sioni di criticità connesse all’attivazione di interventi di strada al fine di rendere tali interventi realmente incisivi nel territorio e non soltanto l’adozione di un metodo alla moda”129.

126 L. Regoliosi, La strada come luogo educativo, op. cit., pp. 45-46. 127 Cfr. la sezione Documenti in Quaderni del Centro nazionale di documentazione ed

analisi per l’infanzia e l’adolescenza, op. cit. 128 R. Maurizio, Introduzione, in Quaderni di Animazione e Formazione, Il lavoro di

strada, op. cit., p. 10. 129 Carta di Bologna degli operatori delle Unità di strada, in Quaderni del Centro na-

zionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza, op. cit., p. 313.

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L’attuale fase, con questi aspetti controversi, rivela un nodo peculiare del lavoro di strada. Non è sufficiente intendere con questa espressione un nuovo campo di intervento, o addirittura semplicemente uno spostamento di spazio di un determinato servizio che da stabile si trasforma in ‘mobile’. Fermarsi a questa interpretazione significa correre seriamente il rischio di replicare “fuori dalle mura”, forme di azione e di organizzazione proprie di altri tipi di intervento, o addirittura inseguire il desiderio, più o meno con-scio, di estendere il controllo dell’educazione a luoghi fin ora lasciati libe-ri130. Occorre invece comprendere il lavoro di strada come logica di inter-vento cercando di approfondire i significati che il termine strada, come idea guida, porta con sé.

A. Il nucleo portante Approfondire il significato della strada come forma di azione sociale si-

gnifica innanzitutto riconoscere il rischio di una idealizzazione. Il mito del-la strada, infatti, ci consegna l’idea di uno spazio di vita caratterizzato dalla spontaneità, dalla presenza della vita vera, più libera e autentica e per que-sto spazio del ‘vero apprendimento’. Questa rappresentazione mitica indu-ce forti distorsioni della realtà. La prima si caratterizza per una eliminazio-ne di tutti i caratteri fortemente problematici e inquietanti che lo spazio della strada, per definizione di transito e poco controllato, contiene. La se-conda si caratterizza per una indebita separazione tra una vita ‘vera’ e una vita ‘meno vera’, perché inserita in una organizzazione più strutturata dello spazio e del tempo. Questa seconda distorsione è, per l’azione dell’operatore sociale e soprattutto per quella dell’educatore, particolar-mente carica di conseguenze nel momento in cui ad esempio, porta a pen-sare che l’adolescente di un centro giovanile sia meno autentico di uno in-contrato in un bar e che i momenti vissuti a scuola appartengano meno alla vita di quelli passati durante il sabato sera.

Richiamato il rischio del mito della strada come unico spazio di vita, possiamo proseguire nella riflessione riconoscendo come, nel campo del so-ciale, strada indichi sia un contesto di vita sia una idea guida.

130 A questo proposito sarebbe opportuno riprendere in considerazione il fenomeno

che R. Massa ha chiamato “pedagogizzazione forsennata di ogni forma di cultura”, in R. Massa, Sugli usi della fenomenologia nella pedagogizzazione attuale delle forme di cultura, in “Encyclopaideia”, Luglio-Dicembre 1997, pp. 9-30.

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In quanto contesto (o luogo, o spazio) la strada si caratterizza “come microcosmo, come scenario abitato da una porzione di umanità che lì tra-scorre una parte del proprio tempo e della propria vita”131. Se essa non è il luogo per eccellenza della vita, è comunque “un luogo di vita, un ‘laborato-rio’, un percorso e un cammino, oltre che uno spazio di incontro e di scon-tro di culture e sub culture, luogo di socializzazione e di scambio, e come tale presenta problemi ed opportunità, rischi e potenzialità”132. È il luogo dell’informalità, del rischio, della soglia, della marginalità133 (tratti che pre-valgono l’uno sull’altro a seconda delle zone e delle culture). Strada indica un spazio dai contorni indefiniti che abbraccia tutte le forme di vita appa-rentemente meno strutturate nel loro originarsi e svolgersi. “Nell’accezione più ampia dobbiamo quindi considerare come strada ogni luogo di incon-tro spontaneo…ogni ambito in cui la relazione si gioca nel suo tutto e nel suo legame simbolico al di là del ruolo e dell’autorità costituita. Strade quindi, strade di terra, strade di asfalto, di sabbia, di cemento, di pau-ra…”134.

In stretta connessione con la sua rappresentazione socio-culturale, la strada assume anche il ruolo di idea guida per l’intervento, caricandolo di significati che vanno al di là dei caratteri che la stessa strada come luogo sembra possedere.

Parlare di lavoro di strada significa, innanzitutto, porre al centro dell’attenzione non un semplice luogo, ma lo spazio di vita di un soggetto e di un gruppo, il loro ‘mondo’ nel suo quotidiano articolarsi.

Il lavoro di strada, in secondo luogo, si fa portatore di una interpreta-zione dell’intervento sociale secondo una logica di apertura, di ricerca, di movimento; come un andare verso le persone là dove esse vivono. “È l’operatore (l’educatore) a raggiungere le persone là dove esse sono, incon-trando i giovani (singoli e gruppi) nella loro quotidianità di vita, al di fuori

131 L. Regoliosi, La strada come luogo educativo, op. cit. p. 11. 132 E.R. Martini, Fare ricerca sociale in strada, in Quaderni del Centro nazionale di do-

cumentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza, op. cit., p. 50. 133 Cfr. L. Regoliosi, La strada come luogo educativo, op. cit. p. 14. 134 D. Squassabia, Lavoro di strada, FrancoAngeli, Milano 2001, p. 19.

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dei luoghi e degli ambiti strutturati di aggregazione e di educazione, come l’associazione, l’oratorio, il centro socio-educativo, la scuola, ecc”135

L’intenzione di ‘intercettare’, di ‘incontrare’ le persone dove vivono por-ta con sé la necessità di abbassare la soglia. Sebbene utilizzata più spesso ne-gli interventi con i tossicodipendenti, questa espressione indica bene l’intenzione del lavoro di strada di rimuovere gli ostacoli che rendono diffi-coltosi i rapporti tra i servizi e la vita delle persone, di diminuire la distanza psicologica136, culturale, organizzativa che spesso separa un intervento dai potenziali ‘fruitori’.

Il lavoro di strada, inoltre, intende sottolineare il valore euristico e ope-rativo della vicinanza, della compartecipazione, dello stare in mezzo alla vita nel suo quotidiano fluire, per ascoltare domande inespresse, per leggere bi-sogni, desideri, determinati processi, per ‘toccare con mano’ aspetti non vi-sibili in altro modo. Esso si caratterizza perciò per una modalità di inter-vento dove il setting è pensato in modo fortemente destrutturato: “la strada emerge come un ‘setting’ particolare in cui avviare un lavoro educativo. La particolarità è data dal luogo fisico in cui esso si realizza (…), dalle regole che governano la relazione, improntate a un patto libero e fiduciario tra educatore e gruppo, dal fatto che l’educatore si gioca direttamente come persona e non come ruolo/funzione attribuitogli da una istituzione”137.

La destrutturazione del setting non significa necessariamente creare una contrapposizione tra formale e informale, tra luoghi istituzionali e ‘quoti-dianità’. Il lavoro di strada, nella sua natura di intervento sociale, si presenta invece animato da una logica di mediazione tra le diverse forme sociali e da una logica di mediazione culturale affinché ‘mondi’ diversi possano incon-trarsi.

Il lavoro di strada, in quanto portatore di una prospettiva di apertura e di mediazione, intende farsi carico di un’azione capace di muoversi in con-

135 F. Santamaria, Per una qualificazione educativa del lavoro di strada, in “Animazione Sociale”, 6-7/1998, p. 58.

136 “La soglia, infatti, non è tanto un fatto materiale, ma ancor prima e ancor di più è un fatto simbolico e relazionale. Simbolico perché le distanze vivono nelle nostre teste a partire dai modi con cui ci rappresentiamo la realtà; relazionale perché i gesti e gli atteg-giamenti, la sensibilità con cui ci incontriamo, possono favorire l’incontro o lo possono bloccare”, M. Campedelli. Educativa di strada e riduzione del danno, in Quaderni di Ani-mazione e Formazione, Il lavoro di strada, op. cit., p. 63.

137 F. Santamaria, Per una qualificazione educativa del lavoro di strada, op. cit., p. 67.

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fini incerti. Non è facile trovare i confini fisici e relazionali in uno spazio che, per definizione, è senza pareti e con un basso grado di formalità. La strada è un luogo ‘opaco’138, dove non è facile tracciare un confine netto tra ciò che è urgente e ciò che si può rimandare, tra il bene apparente e il bene reale; dove è alto il rischio di oltrepassare il confine dell’altro facendo sì che esso si senta disturbato o, addirittura, invaso. All’interno di confini incerti, l’intenzione del lavoro di strada non è quella di eliminare l’incertezza, né quella di ‘perdersi’ rinunciando a forme organizzative, a valori di riferimen-to, a proposte concrete. Esso invece si muove nell’ottica di un lavoro nego-ziale, interattivo, segnato da una ‘costruzione continua’139.

Il lavoro di strada è sottoposto allo stesso rischio di idealizzazione a cui è sottoposto il concetto di strada. A questo si aggiunge la possibilità che il la-voro di strada sia deformato nei suoi significati da una prospettiva ‘avven-turistica’, oppure da una prospettiva ricurva sul ‘controllo’.

Si è in presenza della prima, quando chi pensa l’intervento di strada lo immagina come un lavoro svolto dall’eroe senza macchia e senza paura, ca-pace di stare in mezzo ai problemi finalmente libero dagli impicci delle or-ganizzazioni.

Si è in presenza della seconda, quando ad esempio coloro che propon-gono di lavorare con gli adolescenti nei bar e nei luoghi di ritrovo non cer-cano tanto di incontrare, di comprendere, di promuovere la vita dei ragazzi quanto piuttosto, seppur animati da buona intenzione, di tenerli anche in quei luoghi sotto controllo. In questo modo però, di fatto, si impedisce agli adolescenti stessi di avere un loro spazio in cui possono imparare a vivere legittimamente ‘da soli’.

Il lavoro di strada vorrebbe essere invece, nel suo nucleo portante, una logica che, partendo dalla valorizzazione del mondo vitale che le persone abitano, cerca di fare incontrare i diversi ‘spazi’ della vita, di mediare il for-male con l’informale, l’andare con il lasciare, lo stare con il mettersi da par-te, la proposta con la libertà delle persone.

138 Cfr. M. Bonessio, Lavorare ai confini, in “Animazione Sociale”, 8-9/1997, p. 76. 139 Cfr. G. Scaratti, Il lavoro di strada tra psyche e techne. Considerazioni metodologiche e

strumentali, in Quaderni del Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza, op. cit., p. 115.

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B. I diversi modelli Come ci ricorda Santamaria: “Seppure non si sia ancora approdati a una

modellizzazione condivisa, disponiamo di una serie di tipologizzazioni si-gnificative per un primo bilancio delle esperienze di lavoro di strada. Si tratta di modelli di lettura che incrociano condizioni di agio (benessere) e di disagio o devianza, nonché processi educativi e preventivi, sui quali le o-pinioni scientifiche non sempre convergono, ma che rappresentano lo sfondo teorico e concettuale cui le tipologie sono strettamente correlate”140.

Senza nessuna pretesa di coprire l’attuale panorama, è sufficiente alla scopo (introduttivo) del nostro lavoro richiamare tre posizioni che concor-rono a delineare un quadro sufficientemente esaustivo della prassi in corso.

La prima è quella di R. Maurizio, che ha elaborato una classificazione individuando quattro diverse ‘centrature’141.

– Interventi centrati sulla prevenzione Questi interventi, diffusi nelle esperienze italiane, si caratterizzano per

una “particolare attenzione agli adolescenti e ai gruppi naturali (alle bande e alle compagnie) e alle tematiche della comunicazione, dell’animazione del tempo libero nel caso della prevenzione del disagio ed una maggiore atten-zione ai singoli adolescenti che, per varie ragioni, vengono identificati come soggetti particolarmente esposti al rischio di intraprendere una carriera di emarginazione e/o deviante”142.

– Interventi centrati sulla devianza e sull’emarginazione In questo caso l’attenzione è focalizzata sui soggetti che vivono ai mar-

gini della società: “senza fissa dimora, tossicodipendenti, giovani che si pro-stituiscono o che infrangono la legge”143. Si interviene per ridurre sofferen-za e rischi e, quando è possibile, per mettere in moto processi di recupero.

140 F. Santamaria, Il lavoro di strada, op. cit., p. 38. 141 Cfr. R. Maurizio, Il lavoro di strada in Italia: rassegna di eventi e temi, in Quaderni

del Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza, op. cit., pp. 13-15.

142 Ibi, p. 14. 143 Ibidem.

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– Interventi centrati sulla partecipazione sociale e politica Secondo Maurizio questa tipologia di interventi è maggiormente diffusa

nell’esperienze dell’America Latina. Essi si caratterizzano per una “atten-zione particolare alle forme con cui bambini e bambine e giovani possono diventare effettivamente protagonisti della loro vita, alla loro capacità di auto-organizzarsi divenendo, così, i primi portavoce della propria condi-zione in rapporto alle istituzioni sociali e politiche”144.

– Interventi centrati sulle comunità locali In questa categoria l’autore in questione inserisce gli interventi che si

specificano per un’attenzione agli adulti e alle loro relazioni sociali, “ai mo-di che essi hanno di rappresentarsi la realtà, il territorio, i problemi esistenti e le soluzioni adottabili, alle possibilità di auto-organizzarsi e diventare ca-paci anche di interlocuzione con istituzioni ed organizzazioni sociali”145.

La seconda prospettiva si può invece incontrare nel lavoro di M. Croce

che parla di tre aree (dette anche filoni)146.

– Filone ecologico e di sviluppo di comunità Si tratta di un modello centrato sulla prevenzione attraverso

l’attenzione allo sviluppo del territorio e della comunità locale. Si cerca di operare affinché vi sia l’assunzione “da parte dei cittadini dei problemi e delle soluzioni legate alla sicurezza sociale, alla vivibilità delle aree urbane e al senso di appartenenza, di partecipazione e di cambiamento in una co-munità”147.

– Filone pragmatico e di riduzione del danno All’interno di questa area sono inseriti gli interventi mossi principal-

mente dall’esigenza di tamponare delle emergenze e dei rischi. Si tratta principalmente di interventi rivolti all’ambito della tossicodipendenza148.

144 Ibidem. 145 Ibidem. 146 Cfr. M. Croce, Tra la via emilia e il Sert, in “Animazione Sociale”, 8-9/1997, p. 22. 147 Ibidem. 148 Cfr. Ibidem.

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– Filone educativo Croce con questo filone si riferisce agli interventi focalizzati sull’area del

disagio e della devianza minorile. “Tale approccio, che si muove anch’esso sulla base di una critica dei tra-

dizionali interventi nei confronti della devianza e del disagio minorile, si differenzia dal primo [filone ecologico] per una precisa definizione (o ac-cettazione) di chi è il destinatario dell’intervento e dal secondo [filone pragmatico] per il rifiuto di modelli riduttivi che non pongono l’obiettivo principale di favorire anche il cambiamento di situazioni suscettibili di evo-luzione”149.

Su più piani si muove infine il terzo tentativo di classificazione che esa-

miniamo, quello elaborato da Regoliosi. Egli, all’interno di un percorso di ricerca, ha proposto innanzitutto una distinzione ipotizzando l’esistenza di due differenti setting: il lavoro di strada ed il lavoro di territorio. Nel primo caso l’operatore interviene nei luoghi pubblici informali agendo “in assenza di un contratto relazionale predefinito e tra i suoi compiti vi è dunque, so-prattutto la costituzione di un setting che dia legittimità al rapporto”150. Il lavoro di strada, a sua volta, si caratterizza per quattro forme specifiche: – gli interventi di riduzione del danno; – l’educazione di strada; – l’animazione di strada; – la rilevazione di strada.

Nel secondo caso l’operatore, pur agendo in luoghi informali, “fa co-stante riferimento alle sedi formali dei servizi” e opera “in base ad un man-dato formale sia nei confronti delle istituzioni, sia nei confronti dell’utenza, il che gli consente di definire un preciso setting fin dalle prime fasi del rap-porto”151. Questo lavoro di territorio si declina in due tipologie di interven-to: – l’educativa territoriale; – l’animazione di territorio e di comunità.

La distinzione tra lavoro di strada e lavoro di territorio, nel corso della ricerca, è stata sottoposta a diverse critiche. Per queste ragione Regoliosi è

149 Ibidem. 150 L. Regoliosi, La strada come luogo educativo, op. cit., p. 60. 151 Ibidem.

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giunto ad una nuova classificazione, caratterizzata da tre orientamenti. Questa classificazione tripartita, che oggi appare la più diffusa nel contesto italiano, comprende:

– riduzione del danno Rientrano in questo gruppo gli interventi rivolti ai “soggetti in situazio-

ne di grave emarginazione che non hanno rapporti con i servizi sociosanita-ri”152. Questo tipo di lavoro di strada mira ad attivare dei contatti con si-tuazioni di particolare marginalità sociale, cercando innanzitutto di rispondere ad alcuni bisogni immediati e di prevenire e ridurre i possibili danni (si pensi ultimamente al rischio di diffusione dell’AIDS tra i tossico-dipendenti)153. La centratura sulla ‘riduzione’ non impedisce però a questi interventi di porsi anche nella prospettiva di uno sviluppo della “progettua-lità individuale”.

– l’educazione di strada Appartengono a questo gruppo gli interventi destinati a “minori singoli

o aggregati in gruppi informali, che non partecipano ad ambiti istituzionali di aggregazione e formazione, soggetti a rischio di disadattamento o de-vianza; soggetti in situazione di grave emarginazione”154. In questo caso, è prevalente non tanto una prospettiva di recupero, quanto piuttosto di pre-venzione (primaria e secondaria) e di promozione.

– l’animazione di strada e di comunità Questo gruppo raccoglie tutti gli interventi destinati alla popolazione in

generale nella pluralità delle sue componenti (“adolescenti, giovani e adulti aggregati in gruppi informali; testimoni privilegiati; istituzioni, agenzie, servizi e gruppi sociali del territorio”155). Gli interventi sono attivati princi-palmente allo scopo di sviluppare i processi partecipativi, la soggettività po-litica, un più alto grado di connessione tra i diversi soggetti di un territorio.

152 Ibi, p. 62. 153 Cfr. ibi, p. 63. 154 Ibi, p. 64. 155 Ibi, p. 65.

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C. Le principali operazioni Anche il lavoro di strada, sebbene si articoli al suo interno in diverse ti-

pologie, è andato, in questi anni caratterizzandosi, attraverso l’individuazione di una serie di passaggi operativi che costituiscono quasi una struttura base dell’intervento. Già nel 1994, nella Carta di Certaldo possiamo leggere: “i progetti di lavoro di strada nascono per conseguire fi-nalità differenti, sia rispetto al target a cui sono rivolti che rispetto all’obiettivo che si prefiggono. (…) Pur tenendo presenti queste differenze è stato messo in evidenza che esistono delle modalità comuni nell’impostazione e nello sviluppo di questi progetti”156.

Facendo tesoro delle diverse “Carte” e delle ricerche di diversi autori, l’impostazione del lavoro di strada può essere declinata in una serie di pas-saggi.

– Mappatura e ricognizione Il lavoro di strada, innanzitutto, richiede una conoscenza “dell’ambiente

considerato nei vari livelli: economico, sociale, urbanistico, ecc. tramite at-tività di ricerca intervento, osservazione partecipante, raccolta di biografie di vita”157. Si tratta perciò di realizzare una mappatura del territorio (defi-nendo il profilo territoriale, demografico, economico, istituzionale, dei ser-vizi158), dei gruppi delle relazioni.

Alla mappatura si accompagna un lavoro di osservazione-ricognizione sul campo, allo scopo di definire meglio “il target” dell’intervento, la sua cultura e le sue abitudini. Si tratta di una osservazione ‘sul campo’; per que-sto, già da questa fase, l’educatore entra in relazione con il territorio e cerca di acquisire ‘confidenza’ con esso.

– Contatto e approccio con i destinatari Il lavoro di strada richiede, successivamente, un contatto con i destina-

tari “al fine di creare le condizioni per l’inserimento e l’accettazione da par-

156 Carta di Certaldo, in Quaderni del Centro nazionale di documentazione ed analisi

per l’infanzia e l’adolescenza, op. cit., p. 294. 157 Carta di Candia, in ibi, p. 302. 158 Cfr. S. Bertolino, G. Gocci, F. Ranieri, Strada facendo, FrancoAngeli, Milano 2000,

p. 42.

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te dei singoli e dei gruppi con cui si è deciso di lavorare”159. Come ricorda la Carta di Certaldo: “le modalità di contatto e di presentazione possono av-venire in base a precise richieste degli utenti, oppure per iniziativa degli o-peratori con comunicazioni dirette o mediate da iniziative di animazione. (…) Risulta immediata l’importanza di esplicare e chiarire il proprio ruolo, definendo ciò che si è e ciò che non si è, con la propria presenza, l’esserci’, ma anche grazie al proprio ‘fare’”160.

La modalità dell’approccio deve essere dunque orientata, come sottoli-neano gli operatori stessi, a creare una relazione significativa e un clima di fiducia per potere arrivare ad un progetto comune.

– Strutturazione stabile Il passaggio successivo è quello della proposta che può concretizzarsi at-

traverso diversi tipi di progetti. Gli autori del volume Strada Facendo elen-cano i seguenti “microprogetti”: “– per gli aspetti del tempo libero: aumentare la capacità organizzativa, di-

versificare le attività da fare; – per l’autopercezione di sé: fermare l’autoidentificazione come persone

devianti, arrestare l’isolamento del target, aumentare la capacità di ma-turare scelte;

– per i rapporti di rete: aumentare le relazioni del target con l’esterno, cre-are identità, accettare e valutare le differenze;

– per i rapporti con le istituzioni: aumentare i rapporti con i servizi; – per il rapporto con l’eventuale uso di sostanze: favorire un atteggiamen-

to critico sulla droga-spaccio, modificare l’atteggiamento nei confronti del denaro, aumentare la conoscenza e quindi la consapevolezza sulle so-stanze”161.

– Distacco Un’ultima fase è quella del ‘distacco’. Si tratta, da parte dell’operatore, di

concludere uno specifico intervento o, comunque, di muoverlo verso nuovi obiettivi, cercando di evitare che si crei una eccessiva identificazione tra una determinata realtà e un determinato gruppo di operatori.

159 Carta di Candia, in Quaderni del Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza, op. cit., p. 302.

160 Carta di Certaldo, in ibi., pp. 294-295 161 S. Bertolino, G. Gocci, F. Ranieri, op. cit., pp. 49-50.

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Trasversalmente alle diverse fasi, il lavoro di strada richiede una efficace

collaborazione tra i diversi operatori: non a caso esso si va sempre più con-figurando come intervento realizzato non da un solo operatore ma da un gruppo di lavoro. Inoltre richiede una attenta gestione delle risorse e dei processi organizzativi e relazionali e una particolare cura nella gestione dell’immagine del lavoro di strada “sia per quanto riguarda la necessità di attivazione di processi di cambiamento dell’immagine (solitamente negati-va) dei ragazzi e dei contesti in cui vivono, sia per quanto riguarda la neces-sità di costruire una rappresentazione del lavoro di strada che eviti la bana-lizzazione di questa modalità di intervento nel panorama delle pratiche di lavoro sociale”162.

L’attuazione dell’intervento richiede il sostegno di un insieme di tecni-che, riassunte da Regoliosi nelle seguenti categorie: tecniche di ricerca; tec-niche di coinvolgimento; tecniche di intervento educativo (counseling, o-rientamento, accompagnamento), tecniche organizzative163.

In generale i passaggi individuati dall’attuale letteratura e la loro descri-

zione indicano un modo di operare che, accanto ad una articolazione basata su una logica di analisi e di progressiva strutturazione dell’azione, si caratte-rizza per quattro principi guida: ascolto, osservazione, relazione, costruzio-ne di un progetto condiviso.

Il lavoro dunque si rivela come un chiaro esempio di una cultura del so-ciale che cerca di coniugare l’esigenza di un intervento controllato nella sua costruzione e l’esigenza di porre al centro la relazione, di aprire gli orizzon-ti, di valorizzare le diverse risorse. All’aumento di attenzione verso il lavoro di strada hanno contribuito, in modo determinante, coloro che nel sociale operano con esplicita intenzione educativa, a cui è chiesto oggi un ulteriore sforzo in ordine alla riflessività. Come ricorda Maurizio: “lo sviluppo cultu-rale e professionale delle pratiche educative e animative di strada è forte-mente legato alla capacità degli operatori di strada e delle organizzazioni che attivano e sorreggono interventi di strada di riflettere sulle esperienze al

162 Carta di Candia, in Quaderni del Centro nazionale di documentazione ed analisi

per l’infanzia e l’adolescenza, op. cit., p. 302. 163 Cfr. L. Regoliosi, La strada come luogo educativo, op. cit., pp. 84-85.

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fine di delineare, in modo sempre più preciso, gli elementi caratterizzanti queste modalità di lavoro e le condizioni di successo e di criticità”164.

La logica della strada, che sostiene in diversi modi i differenti modelli di lavoro di strada, può non solo indicare all’educatore nuovi ambiti di azione ma, soprattutto, rappresentare (con il suo richiamo ad intrecciare formale e informale, al saper lavorare su diversi livelli, a saper riconoscere e abitare i confini, a saper intercettare il mondo del soggetto) un forte invito ad uscire dalla ‘sicurezza dello schema’ per operare (anche tra le mura) in termini più creativi ed euristici.

4.5. Animazione

Analogamente alle altre parole prese fino ad ora in esame, anche il ter-mine animazione non si sottrae ad un gioco di interpretazioni molto varie-gato. Occorre perciò fare subito una prima precisazione: il termine anima-zione sarà qui assunto avendo come contesto di riferimento il lavoro sociale e principalmente quello italiano.

Anche nella cultura italiana del sociale, però, la parola animazione si presenta con un doppio volto, in quanto può contemporaneamente indica-re nella mente degli operatori, degli amministratori, degli studiosi, qualcosa di molto debole e qualcosa di molto forte.

Nella sua accezione debole, l’animazione è circoscritta alle attività con-nesse al ‘semplice’ divertimento e considerata, rispetto all’intervento socio-assistenziale o socio-educativo nel suo insieme, meno decisiva, meno nobile, meno impegnativa.

Nella sua accezione forte, invece, è intesa come “un’azione sociale di promozione umana e di coscientizzazione personale e comunitaria”165. In-tesa in questo modo, l’animazione si trova in stretto contatto con la nozio-

164 R. Maurizio, Il lavoro di strada in Italia: rassegna di eventi e temi, in Quaderni del

Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza, op. cit., p. 21. 165 G.A. Ellena, Voce “Animazione”, in J.M. Prellezo, C. Nanni, G. Malizia (a cura di),

Dizionario di Scienze dell’educazione, Elle Di Ci – L.A.S. – S.E.I., Torino 1997, p. 62.

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ne di educazione, dando origine così ad un problema di distinzioni e di rap-porti reciproci di non facile soluzione166.

Nella presente riflessione, l’animazione viene presa in considerazione nella sua accezione forte di azione sociale, intendendola come quell’insieme organizzato e progettualmente co-costruito di azioni che, avendo come fi-nalità ultima la promozione della significatività delle persone, mira ad ac-crescere la vitalità, l’espressione dei singoli, la partecipazione, la soggettività culturale delle persone, dei gruppi, delle organizzazioni, attraverso inter-venti di carattere espressivo, culturale, ludico, ricreativo, in una logica di crescente coinvolgimento167.

Come si può intuire, e come si è potuto notare più volte nel corso del questo capitolo, l’azione animativa presenta diversi punti di contatto e di intreccio con le prospettive di intervento viste precedentemente. Credo, però, nonostante questo, sia lecito e opportuno riconoscere nel termine a-nimazione una logica specifica di intervento sociale, che opera in sinergia con le altre. La specificità è data dal fatto che parlare di animazione come pratica sociale significa accentuare determinati significati e operare attra-verso una precisa struttura metodologica.

A. Il nucleo portante “Se c’è un elemento su cui tutte le attività di animazione, nonostante le

profonde differenze, convergono, è quello della tensione verso la liberazio-ne della persona. Non importa poi se alcuni pensano a questa liberazione in termini politici, altri in termini creativi e psicologici e altri ancora in termi-ni trascendenti. L’importante è la liberazione della persona umana da quei condizionamenti che ne limitano la realizzazione e la capacità di governo della propria esistenza individuale e collettiva”168.

La passione verso la liberazione della persona può essere considerata si-curamente come una caratteristica fondamentale dell’animazione, ma, co-

166 Per un approfondimento cfr. Quaderni di Animazione e Formazione, L’animazione socioculturale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2001; L. Cadei, Radici pedagogiche dell’animazione educativa, I.S.U. Università Cattolica, Milano 2001; M. Pollo, Animazio-ne culturale, L.A.S., Roma 2002.

167 Cfr. P. Triani, Ipotesi sul metodo dell’animazione, in Quaderni di Animazione e Formazione, L’animazione socioculturale, op. cit., p. 173.

168 M. Pollo, La storia dell’animazione, in Verso un documento di base dell’animazione, in “Animazione Sociale”, 5/1998, p. 33. (Il corsivo è nell’originale).

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me si è già visto, in realtà questa passione appartiene ormai ai significati fondanti del lavoro sociale nel suo insieme. È necessario, perciò, individuare alcune caratteristiche che possono specificare meglio la logica animativa e lo faremo prendendo come riferimento principale le dimensioni del vivere umano in rapporto alle quali la stessa identità dell’animazione si costituisce.

A questo riguardo, Pollo parla di uomo come “essere progettuale, cultu-rale e simbolico”169; Cadei pone al centro “l’uomo come essere in tensione, l’uomo come essere per la relazione e l’uomo come essere d’espressione”170; sempre in uno schema triadico anch’io ho cercato, in un precedente lavoro, di evidenziare il nesso inscindibile tra la pratica animativa e le seguenti di-mensioni della vita umana: il sentire la vita, la capacità di esprimere la vita, l’intersoggettività171.

L’animazione si presenta innanzitutto come una azione mirante ad ope-rare sull’energia vitale delle persone e dei gruppi, sulla loro vitalità. “L’animazione educativa dispone un percorso di risignificazione, che pren-de le mosse dalla forza propulsiva della vita. La tensione vitale, nucleo di fondo della struttura umana, suggerisce all’animazione di prestare atten-zione alla sensibilità cosciente da suscitare, promuovere, far esprimere in ciascuno”172. Più del concetto di ‘potere’, richiamato nell’empowerment, sono perciò la nozione di energia, di forza vitale ad essere chiamate in causa; e su queste nozioni è opportuno, oggi, che sia attivata anche nel campo so-ciale un’analisi più approfondita, che vada al di là di alcuni brevi richiami filosofici.

Gli interventi animativi intendono alimentare la vitalità, spesso ‘morti-ficata’, delle persone e dei gruppi. Per fare questo, l’animazione cerca in-nanzitutto di accrescere la capacità di “sentire” del soggetto. Non si tratta semplicemente di permettere ai soggetti di percepire alcuni dati e di far provare loro delle emozioni; in senso ben più forte, si tratta di sensibilizzare le persone, di far sentire a loro in modo cosciente, cioè attento, intenso, se-lettivo, la presenza di situazioni, risorse, problemi, desideri, significati.

169 M. Pollo, Animazione culturale, op. cit. p. 61. 170 L. Cadei, Prospettive di animazione in un orizzonte educativo, in Quaderni di Ani-

mazione e formazione, L’animazione socioculturale, op. cit., p. 59. 171 Cfr. P. Triani, Ipotesi sul metodo dell’animazione, in Quaderni di Animazione e

formazione, L’animazione socioculturale, op. cit., pp. 171-185. 172 L. Cadei, Radici pedagogiche dell’animazione educativa, op. cit., p.162.

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L’animazione viene, in quest’ottica, pensata come opera di coscientizzazio-ne, essa “mira anzitutto a far prendere coscienza all’individuo, a ‘coscientiz-zarlo’, per impiegare un termine caro a Paulo Freire, in virtù di un accosta-mento autentico a realtà significative”173.

Un altro significato fondamentale della logica animativa riguarda la va-lorizzazione dell’espressività dell’uomo. Animare significa perciò cercare di potenziare la capacità del soggetto di ‘dire’ la vita, di ‘dare un nome alle co-se’, operare per far esprimere le persone attraverso la pluralità di forme di comunicazione e linguaggi che l’uomo possiede ed ha costruito; significa promuovere e rafforzare, attraverso l’attivazione, la soggettività culturale. “Il concetto di attivazione è essenziale per l’Animazione che punta a far muo-vere, rendere protagonista, far costruire all’utente. La produzione non ri-guarda l’animatore, ma l’utente. L’animatore non fa ma ‘fa fare’”174. Si trat-ta perciò di una attivazione strettamente connessa al concetto di esperienza: “L’animazione fa suo il principio del ‘fare proposte facendo fare esperienze’. Il principio dice la necessità di operare sempre in modo concreto e rispetto-so della sperimentalità delle proposte, facendo quasi toccare con mano i ‘contenuti’ a cui sollecita dal punto di vista sia socializzante che educante e dunque dal punto di vista sia della loro acquisizione che della personale e creativa rielaborazione”175.

L’animazione intende prendere sul serio la capacità di ogni uomo di ela-borare cultura, affinché la produzione culturale non sia più “intesa come esperienza privilegiata, fatto straordinario o appannaggio di alcune mino-ranze, ma come un’esperienza che può vivere ciascuno e come compito che devono avere tutti”176. Si tratta di promuovere una capacità di significare il mondo non in termini autoreferenziali, ma con uno sguardo che, consape-vole del proprio terreno culturale, si apra sempre verso orizzonti più ampi. Scrive a questo proposito Floris: “l’animazione si è esercitata come luogo di dibattito culturale tutt’altro che astratto, teso sempre a lottare dalla parte

173 Ibi, p. 25. 174 G. Contessa, L’animazione, CittàStudiEdizioni, Milano 1996, p. 59. 175 F. Floris, Il processo di apprendimento esperienziale, in Quaderni di Animazione e

Formazione, L’animazione con gruppi di adolescenti, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995, p. 45.

176 C. Laneve, L’animatore, in C. Scurati (a cura di), Volti dell’educazione, op. cit., pp. 107-108.

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degli ultimi e teso ad aprire le nuove generazioni a disegni grandi, di vasto respiro, aperti ad una discussione sui valori e sui principi etici, muovendosi su un terreno animato da un senso profondo – spesso ispirato alla fede cri-stiana – in cui tutti si riconoscevano”177.

In quanto azione di promozione dell’espressività, l’animazione sottoli-nea con forza la dimensione creativa del soggetto. Animare è operare per-ché la creatività delle persone possa emergere, possa sperimentare forme concrete di realizzazione e trovare nuove strade in cui declinarsi. Come ha sottolineato Laneve, si tratta di “far recuperare a ciascun individuo il gusto della scoperta, dell’invenzione, della costruzione personale nella ricerca di risposte incisive e cariche di significatività da offrire alle forme complesse di problematicità che il mondo odierno propone”178.

Accanto alla vitalità e alla espressività, l’animazione opera sulla intersog-gettività del soggetto, sulla sua capacità di partecipazione.

È nell’incontro con l’altro e nel prendere parte con l’altro, nel far parte a lui di qualcosa di sé, che la soggettività culturale dell’uomo si arricchisce e si approfondisce. “È attraverso le relazioni con le persone, con le istituzioni, con la cultura e la natura che ogni individuo disegna i suoi confini indivi-duali e sociali, si autocomprende e comprende, dandogli una forma intelli-gibile, il mondo che abita (…) La relazionalità è per questo motivo uno dei concetti chiave della teoria e del metodo ovvero della pratica dell’animazione”179.

In rapporto al valore dell’intersoggettività, la logica animativa ha dato in questi anni molta importanza alla forma del gruppo e alle sue dinamiche180. A volte gli operatori sono incorsi nell’equivoco di ritenere sufficiente “fare gruppo” per attivare un processo di animazione. Il gruppo chiede invece di essere inteso come “luogo antropologico, ovvero quello spazio umanizzante che oltre a fornire un sistema relazionale particolare collega l’individuo a

177 F. Floris, Quando si può parlare di animazione?, in Quaderni di Animazione e for-

mazione, L’animazione socioculturale, op. cit., p. 148. 178 C. Laneve, op. cit., p. 107. 179 M. Pollo, La mappa dei concetti dell’animazione, in Verso un documento di base

dell’animazione, in “Animazione Sociale”, 5/1998, pp. 48-49. 180 Per un approfondimento sul ruolo educativo del gruppo nella prospettiva

dell’animazione cfr. M. Pollo, Il gruppo come luogo di comunicazione educativa, Elle Di Ci, Leumann 1990.

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una storia, lo sostiene nel suo cammino identitario, e, infine, gli offre un principio di senso”181.

L’animazione, ponendo al centro la capacità di partecipazione, intende non solo far partecipare i soggetti, ma, in termini ancora più forti, rendere i soggetti partecipi di un progetto condiviso, attraverso l’esercizio del dialogo. Vi è una espressione molto significativa di Freire a tal proposito. Egli, par-lando, del dialogo scrive “poiché è un incontro di uomini che danno un nome al mondo, non deve essere elargizione degli uni agli altri. È un atto di creazione”182.

Infine l’animazione si presenta con i tratti della divergenza e della provo-cazione. Essa, infatti, ha come suo carattere peculiare quello di presentarsi come azione che mira a suscitare nuove energie, nuove interpretazioni, che sollecita ad assumere nuovi linguaggi, che spinge ad accostarsi alla realtà at-traverso forme più attive e creative e spesso inusuali per i soggetti coinvolti.

È in rapporto alla forza di provocazione e di rendere ‘diverso’, ‘provo-cante’, ‘stimolante’, l’approccio alla realtà che va compresa la curvatura di divertimento che la pratica animativa generalmente assume e la connessa valorizzazione del gioco. Parlare di divertimento non significa semplicemen-te ‘distrarre’, ‘far riposare la mente’, ma piuttosto ‘divertere’ l’accostamento che il soggetto ha ad una realtà, per ‘accendere’ in lui interesse e curiosità, per provocare nuove comprensioni e nuove azioni183. Appare chiaro allora perché l’animazione dia tanta importanza alle forme ludiche, in quanto il gioco permette al soggetto di entrare nella realtà da ‘un altro lato’, di ap-prodare ad una dimensione che non toglie dalla vita, ma permette di acco-starla con linguaggi, schemi, dinamiche diverse. M. Pollo, a tal proposito, dopo avere riconosciuto al gioco le qualità particolari di gratificazione e di gratuità, ne ricorda quattro funzioni fondamentali: – l’ampliamento delle possibilità;

181 M. Pollo, Il percorso ovvero il metodo dell’animazione, in Verso un documento di base dell’animazione, in “Animazione Sociale”, 5/1998, p. 55.

182 Citato in P. Triani, Ipotesi sul metodo dell’animazione, in Quaderni di Animazione e Formazione, L’animazione socioculturale, op. cit., p. 180.

183 Osserva Cadei (parlando della proposta di Contessa): “l’etimologia di divertente è la medesima di divergente. Divertere significa voltare l’angolo e il divertimento adulto si lega, perciò, ad una qualche diversità. L’esperienza proposta deve aprire alla novità e indi-care qualcosa di non conosciuto”. L. Cadei, Radici pedagogiche dell’animazione educativa, op. cit., p. 31.

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– la liberazione della fantasia; – la ricerca della felicità (“il gioco è il luogo in cui ogni persona può speri-

mentare la possibilità reale della felicità nello spazio-tempo della vita umana”);

– la stabilizzazione del sistema sociale184. Il gioco è assunto dall’animazione come forma propria dell’umano al di

delle singole età e, per questo, come possibile strada per l’apprendimento in ogni momento della vita. “Il gioco è proprio dell’animo umano. È una sot-tolineatura necessaria. Non è vero che la predisposizione al gioco sia esclu-siva dei bambini o dei ragazzi, è un fattore che ci portiamo dentro per tutta la vita. Ci è capitato diverse volte di proporre giochi di gruppo a persone adulte. L’interrogativo era: ‘Si divertiranno, non si vergogneranno a gioca-re?’ Il risultato è stato quasi sempre sorprendente: i ‘grandi’ si rivelavano ‘peggio’ (lo diciamo in senso scherzoso…) dei bambini; per partecipazione emotiva, passione, disponibilità a fare cose all’apparenza strane e stravagan-ti”185.

Riconoscere l’importanza del gioco non significa fare coincidere l’animazione con l’attività ludica. Anche il gioco, tuttavia, è spesso sottopo-sto a letture riduzioniste, per cui si ritiene sufficiente la sua presenza per rendere l’intervento animativo. In realtà esso chiede di essere assunto e rea-lizzato non semplicemente come una modalità di attuazione ma, all’interno della logica dell’animazione nel suo insieme, come una prospettiva di azio-ne che ha nella provocazione, nel ‘divertimento’, nella ‘liberazione’, nella gratuità, nella fantasia i suoi aspetti peculiari.

B. I diversi modelli I diversi contenuti che concorrono a costituire il nucleo fondamentale

trovano una differente valorizzazione in rapporto ai diversi modi con cui la pratica animativa viene intesa. Come ci ricorda Floris: “il campo d’azione dell’animazione ha nel tempo sviluppato diversi ‘modelli operativi’, met-tendo a frutto, di volta in volta aspetti peculiari dell’animazione. Ognuno

184 Cfr. M. Pollo. Il gioco come luogo di animazione, in Quaderni di Animazione e for-

mazione, L’animazione socioculturale, op. cit., p. 163; pp. 166-167. 185 G. Carpi, Giocaperché Giocaquando, Elle Di Ci, Leumann, Torino 1996, pp. 30-31.

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di questi modelli, nell’esaltare un aspetto rischia di perdere la visione dell’insieme e il senso stesso dell’animazione”186.

Floris individua quattro modelli:

– modello ludico-creativo Questo modello pone al centro le dimensioni del gioco, della festa, della

produzione creativa. “Da sempre l’animazione si è connotata come avven-tura collettiva nel gioco e nella festa, nel fare teatro e nell’espressione cor-porea e artistica, mettendo al centro da una parte la presa di distanza dal ‘quotidiano’ per restituirgli un significato e dall’altra l’emersione di un ‘immaginario collettivo’ capace di andare oltre la sensazione di essere privi di libertà”187.

– modello politico-comunitario Appartengono a questo gruppo gli interventi incentrati “sul principio

attivo della responsabilità collettiva nel far fronte a problemi e sfide”188. In questo modello, per usare categorie sopra richiamate, prevale la coscientiz-zazione delle comunità locali e la promozione del senso di partecipazione sociale.

– modello aggregativo-comunicativo Questo modello è “incentrato sul principio attivo del gruppo come luo-

go privilegiato per la costruzione di una identità personale capace di sot-trarsi al peso dei condizionamenti familiari e sociali e capace di ‘entrare’ nell’orbita della vita sociale per non rischiare di sfraccelarsi o di rimbalzare per finire nello spazio senza ritorno”189.

– modello culturale Questo modello è centrato sul principio della “immersione delle perso-

ne nel ‘brodo culturale’”190 allo scopo di promuovere una maggiore coscien-za critica e una capacità di produzione culturale.

186 F. Floris, Dove va l’animazione socioculturale?, in Quaderni di Animazione e forma-zione, L’animazione socioculturale, op. cit., p. 8.

187 Ibidem. 188 Ibidem. 189 Ibi, p. 9. 190 Ibi, p. 9.

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Presenta alcune differenze la classificazione proposta da M. Pollo, il qua-le sembra utilizzare un diverso criterio, ponendo maggiore attenzione non tanto ai principi prevalenti, quanto invece al retroterra culturale che sostie-ne le diverse tipologie di animazione. Non a caso egli scrive: “in Italia non può esserci una sola storia dell’animazione per la ragione prima detta della presenza di una pluralità di lingue e di culture che fondano i molti modelli attraverso cui l’animazione si esprime nella vita sociale”191. Egli individua sei modelli.

– Animazione teatrale Rappresenta un modello molto ‘forte’ nel periodo iniziale del movimen-

to dell’animazione e ha al centro la valorizzazione dell’espressività, princi-palmente attraverso il linguaggio teatrale. “Questo tipo di animazione, nato sotto il segno della liberazione dell’espressività e della fantasia attraverso la festa e il gioco, è andato progressivamente estendendosi ai problemi della vita quotidiana e del territorio”192.

– Animazione socio-culturale Secondo Pollo questo modello “è stato ben rappresentato dalla rivista

‘Animazione Sociale’ quando aveva sede a Milano e dal suo fondatore Don Aldo Ellena”. L’animazione qui è intesa principalmente come una “pratica sociale liberatrice che si avvale, oltre che dell’azione del territorio, dell’uso dell’azione psicosociale per promuovere la capacità espressiva delle perso-ne”193.

– Animazione culturale È il modello a cui dichiara di appartenere lo stesso Pollo e che fa capo al-

la rivista ‘Note di Pastorale Giovanile’. “L’animazione culturale secondo questa accezione è una vera e propria teoria educativa fondata su concezio-ni filosofiche-antropologiche, su un metodo validato e su una strumenta-zione particolare”194.

191 M. Pollo. La storia dell’animazione, op. cit., p. 29. 192 Ibi, p. 30. 193 Ibidem. 194 Ibidem.

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– Animazione di tipo ludico-ricreativo o espressivo È il modello che raccoglie gli interventi che intendono agire principal-

mente sulla dimensione del tempo libero e dell’attività ludica per promuo-vere “la riappropriazione della propria espressività, per la scoperta o per il recupero della creatività e in cui possano sfuggire all’uso alienato del tempo libero”195.

– Animazione come insieme di tecniche È un modello che concepisce l’animazione principalmente come utilizzo

di tecniche espressive, e di comunicazione interpersonale. Questa conce-zione è evidentemente riduttiva, in quanto non bastano le tecniche a ren-dere animativo un intervento sociale.

– Animazione come divertimento turistico Altrettanto riduttiva (seppur per motivi diversi) è la concezione che a-

nima questo modello, citato da Pollo “solo per motivi statistici”. Esso “rag-gruppa quelle attività di animazione cresciute all’ombra dei villaggi turisti-ci, ma la cui dignità educativa, sociale, espressiva e culturale è tutta da dimostrare”196.

Le classificazioni, proprio per la loro natura, non riescono ad esaurire la

ricchezza di un determinato oggetto. Le proposte di classificazione prese in esame, però, permettono di avere un primo ordinato quadro di riferimento, presentando bene la pluralità di interventi animativi oggi esistenti e dando la possibilità di cogliere comunque la presenza di alcuni significati portanti per la logica dell’animazione.

C. Le principali operazioni La logica dell’animazione si concretizza attraverso una pluralità di ope-

razioni che acquisiscono una specifica organizzazione a seconda dell’orientamento e del modello di riferimento. Ad esempio, negli scritti di

195 Ibi, p. 31. 196 Ibidem. Evidentemente la critica di Pollo all’animazione turistica chiede si essere

collocata (e eventualmente contro criticata) nel quadro della teoria dell’animazione dell’autore in questione.

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Pollo, troviamo una precisa declinazione metodologica dell’‘animazione culturale’197.

Nonostante questo, non appare privo di fondamento il tentativo di in-dividuare una struttura base dell’azione animativa, che costituirebbe una sorta di metodo fondamentale dell’animazione. Questa struttura trova le sue ragioni nelle dimensioni antropologiche che l’animazione come pratica sociale intende valorizzare: la sensibilità, l’espressività, la partecipazione. Ho esposto questa ipotesi in un mio precedente saggio, in cui ho cercato di mettere in rapporto l’idea generale di metodo, i significati dell’animazione, la struttura dell’animazione in quanto metodo. Per questa ragione, attingo ora alla parte finale di quel saggio198, apportando alcune leggere modifiche, nel tentativo di proporre al lettore il quadro delle operazioni che sorreggo-no trasversalmente ogni azione animativa che voglia essere tale.

Ponendosi dal punto di vista dell’animatore, ritengo che le operazioni che strutturano il metodo possano essere raccolte attorno ad una trama esi-stenziale e ad un doppio movimento: quello che l’animatore compie verso l’esterno, verso l’altro e quello che compie verso se stesso. Inoltre occorre riconoscere che il metodo dell’animazione presenta una sua ‘razionalità’.

a) La trama esistenziale L’animazione prende forma innanzitutto attraverso lo strutturarsi di

una ‘trama esistenziale’. Non c’è animazione dove non c’è contatto, non c’è animazione educativa se non si crea un intreccio di relazioni positive e non si ‘respira’ la situazione in cui ci si trova.

Questa trama si costruisce e si mantiene attraverso determinate opera-zioni. In primo luogo lo stare. L’animazione chiede che l’animatore stia dentro la situazione, la ‘abiti’ senza identificarsi con essa. Lo stare dell’animatore è cosi strettamente connesso all’accogliere. L’animazione si sostiene su una accoglienza delle persone e della loro capacità di essere vita-li, di esprimere, di partecipare.

Lo stare e l’accogliere dell’animatore, a loro volta chiedono di essere co-niugati con un’altra operazione: quella di creare fiducia. L’animazione può

197 Cfr. M. Pollo, Animazione Culturale, op. cit., pp. 249-387. 198 Cfr. P. Triani, Ipotesi sul metodo dell’animazione, in Quaderni di Animazione e

formazione, L’animazione socioculturale, op. cit., pp. 180-184. Questo saggio con lo stesso titolo è stato precedentemente pubblicato su “Animazione Sociale” 2/2001, pp. 70-81.

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realizzarsi efficacemente quando la trama dei rapporti si colora di apertura, quando il fidarsi comincia a circolare tra i soggetti in questione.

A sua volta, questo creare fiducia richiama una quarta operazione: il cre-are comunicazione. L’animazione è sostenuta dall’azione continua dell’animatore per sviluppare contatto, scambio, rapporto, relazione. Egli è invitato alla ‘gestione sapiente del processo comunicativo’ e alla efficace ‘tessitura di reti’199.

Questa trama è esistenziale, perché segna costantemente l’esistenza del processo animativo200. In quanto esistenziale, non è ciò che semplicemente va fatto prima di altre operazioni, ma è ciò che sta alla base, ciò che perma-ne, ciò su cui le altre operazioni possono svolgersi efficacemente. L’importanza di questa trama rende ragione anche della continua sottoli-neatura, già sopra richiamata, che nel campo dell’animazione si opera in merito al gruppo. Il gruppo è un dispositivo importante in quanto rende concreti i significati che l’animazione in sé intende promuovere. Esso, inol-tre, permette di dare ‘spessore’ alla trama esistenziale che, lasciata ai sempli-ci rapporti duali, rischierebbe di restare debole e vaga.

Su questa trama l’animazione si sviluppa e prende forma concreta, attra-verso un doppio movimento attuato dall’animatore.

b) Il movimento verso l’esterno In primo luogo possiamo riconoscere un movimento verso l’esterno, ca-

ratterizzato da quattro operazioni (o forse sarebbe meglio dire da tre più una).

La prima è vitalizzare/sensibilizzare. Il movimento dell’animazione ha inizio attraverso un’azione grazie a cui l’animatore cerca di rendere vitali le persone, cerca di stimolare la loro capacità di sentire, cerca di sintonizzare la loro sensibilità verso ciò su cui si intende lavorare insieme. Perciò, non si tratta solo di stupire e meravigliare le persone, ma di ‘accendere’ la loro ‘sin-tonia’ con una determinata situazione.

La seconda è far esprimere/promuovere forme. L’animatore fa in modo che le persone possano esprimere la loro vita, fa in modo che possano impa-

199 Cfr. M. Pollo, La funzione dell’animatore, in Verso un documento base sull’anima-

zione, in “Animazione Sociale”, Maggio 1998, p. 65 e p. 68. 200 Anche nel più volte citato ‘Verso un documento di base dell’animazione’ si parla di

trama esistenziale. Cfr. ibi, p. 55.

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rare a dare ‘forma’ (comunicabile) ai significati che incontrano e che ‘elabo-rano’. Egli stimola l’espressione e la significazione attraverso l’attivazione di diversi canali espressivi, attraverso la costruzione e la realizzazione di pro-getti, attraverso l’accompagnamento nella fatica di ‘trovare le parole’. In questa prospettiva, l’animatore ha fiducia nella possibilità di ognuno di es-sere generatore di ‘forme di senso’, di essere capace di dire (e balbettare) la vita.

La terza operazione è far partecipare/rendere partecipi. L’animazione si compie facendo in modo che le persone mettano in comune il loro modo di vedere, di agire, di elaborare il loro rapporto con il mondo. Sottolinea que-sta operazione Floris quando scrive: “l’animazione evoca un’impresa collet-tiva, un qualcosa che viene progettato e organizzato insieme, in cui ognuno possa esprimere se stesso dentro un sentire comune”201.

A queste tre operazioni ne va aggiunta un’altra che si colloca in una po-sizione, si potrebbe dire, trasversale. Essa è connessa alle dimensioni della provocazione e del ‘divertimento’ sopra esposta, e può essere sintetizzata attraverso la formula del provocare. Ogni animazione ha un oggetto di lavo-ro (si concretizza attraverso un fare qualcosa) che è connesso ai significati che si intende esprimere e promuovere. Nel suo processo attuativo, l’animazione comporta sempre una provocazione all’oggetto. Fa questo l’animatore turistico quando dice “ora che siete caldi impariamo una nuova danza!”, lo fa l’animatore educativo quando al gruppo di adolescenti pro-pone di costruire delle maschere, oppure di realizzare un laboratorio teatra-le nel quartiere, o agli adulti di fare un gioco sulla comunicazione Nell’animazione tramite la provocazione si cerca di creare un rapporto tra i soggetti e il significato che chiede di essere elaborato, espresso, attuato. È l’incentivare non solo una esecuzione ma una ‘significazione’. In questo senso l’animatore è colui che ‘stimola’, che ‘chiama fuori’, che ‘invita verso’. La provocazione non viene necessariamente dopo la vitalizzazione o dopo le altre operazioni. Essa può essere momento a parte, oppure continua. Per questo può essere intesa come trasversale alle altre tre.

201 F. Floris, Quale animazione con adolescenti e giovani?, in “Animazione Sociale” 3/

1996, p. 95.

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Capitolo terzo - Le logiche di azione emergenti

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c) Il movimento verso di sé Il metodo dell’animazione si realizza in modo peculiare nella misura in

cui l’animatore, mentre realizza le azioni sull’esterno, mette in atto anche delle operazioni che hanno come oggetto il proprio comportamento. Vi è dunque un movimento verso sé, strettamente connesso al movimento verso l’esterno. Esso appare come decisivo nell’animazione educativa.

Nel processo animativo, la vitalizzazione e la sensibilizzazione rimandano all’importanza che l’animatore stesso attivi la sua sensibilità, tenga continua-mente ‘accesse le proprie antenne’. Possiamo chiamare questa operazione: esse-re attento o porsi in attenzione. Il processo cresce se l’operatore dell’animazione, mentre cerca di creare un contesto vitale, mette in atto una continua attenzio-ne a ciò sta accadendo, a ciò che egli percepisce, prova, comprende. Questo gli permette di adattare la sua azione, ma anche di prendere pienamente parte a ciò che si sta svolgendo.

La provocazione comporta nell’animatore l’operazione del lasciarsi pro-vocare egli stesso da ciò che intende proporre e da ciò che emerge. Il lato ‘at-tivo’ di questa operazione è l’andare in profondità e guardare la realtà con occhi creativi202, ossia interrogare ed elaborare radicalmente ciò che prende vita dal processo e ciò egli che vuole porre all’attenzione degli altri. Per po-ter muovere la superficie e spingere oltre, altrove, dentro, l’animazione chiede all’operatore di essere uomo di profondità e di creatività.

Il promuovere la parola e il rendere partecipi si coniugano dal lato dell’animatore in tre operazioni: il dare un nome, il mettersi in gioco, il la-sciare spazio.

Mentre cerca di promuovere le persone nel cammino di ‘significare’, os-sia di esprimere ed elaborare ciò che si vive, si desidera, si incontra, si com-prende, si costruisce, l’animatore stesso è sollecitato a vivere la fatica e la bellezza dell’esprimersi e di ‘dare un nome’. Mentre cerca di attuare una re-ale partecipazione dialogante, l’animatore stesso è sollecitato (pur nella di-versità) a non essere solo il regista, ma a prendere parte (il che non vuol dire necessariamente mettere mano) a ciò che si sta realizzando. In questo met-tersi in gioco, però, è solo il ‘lasciare spazio’ all’altro, ai suoi tempi, ai suoi

202 Quest’ultimo punto dedicato alla creatività non era presente nel saggio a cui si sta

facendo riferimento.

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segni, ai suoi silenzi che salvaguarda dal rischio del protagonismo e della manipolazione.

La descrizione del movimento verso sé conclude la presentazione della struttura del metodo schematizzata nella figura 4.

Figura 4: Tratta (con una leggera modifica) da P. Triani, Ipotesi sul metodo dell’animazione, in Quaderni di Anima-

zione e formazione, L’animazione socioculturale, op. cit., p. 184

d) La razionalità del metodo Una terza serie di riflessioni riguarda la razionalità del metodo dell’ani-

mazione, intendendo con questa espressione il modo con cui l’azione, nel suo svolgersi, tiene insieme gli elementi e compie i propri passaggi.

L’animazione, nel suo attuarsi, non può seguire una logica rigorosamen-te lineare: prima si compie sempre una determinata azione, poi l’altra. An-che se l’animazione si svolge con determinate operazioni e l’animatore può prevedere un determinato svolgimento, la realizzazione concreta richiede una logica ‘combinatoria’, che faccia continuamente interagire le diverse componenti del metodo.

Inoltre, l’animazione non può ragionare in termini rigorosamente ‘pre-visionali’. Essa si pone piuttosto in una logica di apertura. In due sensi: in quanto non intende controllare tutto ciò che accade, ma piuttosto lasciarsi provocare; in quanto non determina rigorosamente il risultato, ma agisce in modo che dal processo stesso si aprano strade da percorrere.

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Capitolo terzo - Le logiche di azione emergenti

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In stretta connessione con quanto appena detto, l’animazione non può pensarsi nei termini di mera esecuzione di un piano astratto, essa richiede piuttosto un pensiero costruttivo, capace di determinare certi passi solo nel concreto svolgersi dell’azione. Al tratto costruttivo si accompagna il tratto partecipativo. L’animazione si svolge attraverso una co-costruzione. L’animatore non può pensare di realizzare una azione soltanto indicando cosa fare, bensì deve prendere parte (in forme diverse) all’azione stessa, non può pensare di definire una volta per tutte i confini dei rapporti, ma si tro-va sollecitato a ricostruire continuamente il tessuto relazionale.

È ora di concludere questo lungo capitolo. Abbiamo visto come il lavoro

sociale si caratterizza per una pluralità di logiche di azione che stanno con-correndo ad arricchire il profilo metodologico della stessa professione edu-cativa. In termini sintetici si può dire che: – la progettazione (lo vedremo ancora) richiama all’educatore

l’importanza di pensare l’azione in termine di ‘costruzione’ insieme a-perta e strutturata;

– la rete richiama la centralità del tessuto di relazioni, l’importanza di co-struirle, sostenerle, valorizzarle,

– l’empowerment invita ad un azione capace di responsabilizzare realmen-te le persone;

– la strada porta alla luce l’importanza di incontrare le persone nella loro vita ‘reale’; coniugando le diverse dimensioni che caratterizzano il for-male e l’informale;

– l’animazione richiama l’importanza di azioni che diano energia e ‘parola’ alle persone affinché cresca la soggettività culturale. Tutte queste logiche prese in considerazione si richiamano, evidente-

mente, l’una con l’altra e, come si è visto, non è facile tracciare confini netti. Altrettanto difficile è delineare una gerarchia secondo un criterio di impor-tanza o delineare uno schema che ordini i loro rapporti. Forse una possibile figura di sintesi potrebbe essere rappresentata da una serie di cerchi tra loro intersecantesi. Al centro potrebbe essere posta la progettazione (P) che o-pera come polo unificante di tutti le altre quattro logiche (cfr Figura 5). Ne esce una specie di figura ‘floreale’ da intendersi, però, in termini ‘aperti’, in quanto altre sono le logiche che possono aggiungersi e rendere la figura an-cora più ricca e complessa.

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Figura 5

Le logiche emergenti del ‘sociale’ purtroppo non sono necessariamente le logiche emergenti e vincenti della ‘società’ e dell’attuale contesto cultura-le. Per questo la figura floreale appena tracciata rappresenta innanzitutto una sfida culturale (e educativa) che gli operatori del sociale possono porta-re avanti senza nessuna visione illusoria della realtà, ma con la consapevo-lezza della necessità di declinare in modelli operativi l’anelito di promuove-re la capacità di vita di ognuno.

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Capitolo quarto I CONTESTI EDUCATIVI*

4.1. Case di accoglienza per bambini in difficoltà

Esistono diversi tipi di comunità per rispondere ai bisogni di bambini che provengono da famiglie che li hanno maltrattati, trascurati o non sono in grado per diversi motivi di provvedere a loro. Non si vuole qui descriver-ne finalità e funzioni, ma evidenziare alcune caratteristiche dell’azione edu-cativa svolta da queste strutture1.

La legge 184 del 1983 ha introdotto alcuni criteri di fondo per il tratta-mento di bambini in difficoltà familiari. Il primo riguarda il diritto alla per-manenza del minore nella propria famiglia; in alternativa, prevede l’inseri-mento in comunità di tipo “familiare”. Con questa espressione, a seguito di un lungo dibattito, si è pervenuti a definire come familiari, sulla base di quanto prevede il D.L. 272/89 per gli adolescenti: «comunità che ospitano un numero di minori non superiori a dieci; utilizzano una struttura abitati-va di civile abitazione, con spazi non standardizzati che tutelano la riserva-tezza degli ospiti; si propongono di modificare la situazione di disagio tra-mite progetti educativi; impiegano educatori con idonea formazione; sono aperte, a livello di progetto educativo e sul piano metodologico, alle risorse del territorio»2.

Rispetto al passato sono stati fatti numerosi progressi in questo campo, ed in particolare riguardo al mantenimento del legame con la famiglia

* Tratto da: M. Santerini, L’educatore tra professionalità pedagogica e responsabilità so-

ciale, La Scuola, Brescia 1998, pp. 162-256. 1 Per una descrizione dei diversi servizi per l’infanzia in difficoltà si rimanda a L. PATI,

L’educazione nella comunità locale. 2 Presidenza Consiglio Dei Ministri Dipartimento Affari Sociali, Diritto di crescere e

disagio. Rapporto 1996 sulla condizione dei minori in Italia, Roma 1996.

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d’origine, il rispetto per i diritti del bambino, l’integrazione nella comuni-tà locale. Le cause di ingresso hanno invece subito una significativa evolu-zione. A differenza di alcuni decenni fa, quando le condizioni socioeco-nomiche disagiate delle famiglie rappresentavano il motivo principale per cui i genitori inviavano il figlio in un’istituzione, oggi questa causa non è più prevalente. Il miglioramento delle generali condizioni sociali e gli in-terventi alternativi di sostegno (sussidi, assistenza domiciliare) rendono sempre più raro questo fenomeno. Tuttavia, restano più di 40.000 minori istituzionalizzati. Per quali cause?

L’incapacità dei genitori a provvedere ai figli dal punto di vista psico-logico e morale, non strettamente economico, è messa in primo piano nel-le statistiche. Si tratta di bambini maltrattati, o trascurati, la cui famiglia non offre garanzie sufficienti. Vi sono casi di crisi familiari, di dissidi gravi tra genitori o di famiglie monoparentali. Tossicodipendenza e Aids han-no moltiplicato il numero dei bambini che hanno dovuto essere ospitati in. una comunità. Infine, esistono ancora i bambini internati per cause economiche: sono i figli di genitori immigrati, costretti , a separarsi da lo-ro per mancanza di alloggio, lavoro, mezzi di sostentamento.

Nell’ambito, del progetto Politiche dell’infanzia, il Consiglio d’Europa ha enumerato tra gli altri i seguenti diritti di cui devono godere i bambini nelle strutture di accoglienza: – diritto all’ammissione motivato da necessità assoluta e non da situazioni

di rischio; – diritto di mantenere legami con la famiglia; – diritto al rispetto della specificità culturale e religiosa; – diritto ad una reintegrazione riuscita il più presto possibile.

In realtà, quelli che vengono enumerati come diritti implicano una problematica molto più complessa, a cominciare dal problema del mante-nimento dei legami con la famiglia e della reintegrazione nel nucleo fami-liare.

In un passato recente, più che i diritti del bambino ad avere una fami-glia sono stati affermati i diritti dei genitori ad avere un erede. Oggi, lo svi-luppo di una nuova cultura dell’infanzia ha promosso una diversa visione dei rapporti intrafamiliari, meno centrati sull’importanza del legame di sangue. Lo stesso concetto di filiazione comprende ormai vari significati, tanto da poter distinguere tra filiazione biologica, gestatrice, sociale, giuri-

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Capitolo quarto - I contesti educativi

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dica e affettiva3. Il contrasto tra queste concezioni rende complessa la solu-zione dei dilemmi relativi alla crescita dei minori.

La cultura della famiglia è oggi ambivalente ed è oggetto di prese di posi-zione di carattere ideologico. Da un lato sussiste ancora quella che è stata definita l’enfasi simbolica della famiglia naturale, secondo cui l’amore dei genitori per i figli rappresenta un dato “assoluto”, con la conseguenza di ri-tardare o non procedere al necessario allontanamento di bambini maltrat-tati; in base a ideologie contrapposte, invece, si procede in alcuni casi a sra-dicare indebitamente i figli senza motivi validi4.

La famiglia, i cui diritti, in quanto «società naturale nata dal matrimo-nio», sono riconosciuti dalla nostra Costituzione all’art. 29, presenta una dimensione privata, ma è anche oggetto dell’intervento pubblico. Tale col-locazione tra il pubblico ed il privato, che tocca in particolare il problema dei minori, rende in un certo senso “debole” l’intervento giuridico in quan-to la funzione sociale di protezione dei minori da parte dei genitori è oggi sotto il controllo sociale. Mentre in passato si assisteva ad una forte rilut-tanza a toccare i diritti della famiglia, ed eventualmente erano i genitori stessi a ricorrere volontariamente all’internamento per i loro figli in condi-zioni di necessità, oggi si ritiene che la difesa degli interessi del bambino possa giustificare un’ingerenza nel campo dell’autorità parentale.

Un esempio in questo senso è dato dal maltrattamento dell’infanzia, ri-conosciuto a fatica in molti casi ancora oggi a causa della “impossibilità” a concepire l’abuso come proveniente dalla famiglia stessa. I dati dimostrano invece che la maggior parte delle violenze si consumano proprio all’interno del nucleo familiare, riguardando sia i veri e propri maltrattamenti, sia le violenze sessuali, sia la cosiddetta “trascuratezza” che si configura come una forma di violenza. Da qui la necessità di intervenire sottraendo il minore

3 J.P. Rosenczveig, “Que nous enjoint la loi?”, in AA.VV., Maltraitance: mantien du

lien?, Èditions Fleurus, Paris 1995, pp. 18 ss. L’autore distingue tra maternità biologica e gestatrice per la possibilità attuale di portare a termine una gravidanza al posto di un’altra madre; la filiazione sociale o giuridica può non corrispondere a quella biologica, come nel caso dell’adozione; infine, la filiazione affettiva può rimanere anche nel caso che soprav-vengano altre filiazioni.

4 Sul “mito familiare” si veda F. Emiliani, P. Bastianoni, Una normale solitudine. Per-corsi teorici e strumenti operativi della comunità per minori, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, pp. 33-34.

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con gli strumenti concessi dalla legge per operare affidamenti, adozioni o inserimento in comunità.

In questo senso si può dire che l’educatore nelle strutture di accoglienza si trova tra due mondi in trasformazione: da una parte la famiglia, soggetta a profondi mutamenti negli ultimi anni, dall’altro lo Stato, altresì in cam-biamento per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti del nucleo fa-miliare. Il problema d’altra parte non è solo giuridico, ma specificatamente pedagogico.

I motivi a favore del mantenimento ad ogni costo del legame familiare possono essere sintetizzati nel tentativo di salvare i genitori disturbati o fra-gili attraverso il bambino-terapeuta. Il figlio stesso sarebbe cioè la principa-le, se non l’unica speranza di modificare i comportamenti patologici dei ge-nitori. Un altro motivo che viene addotto fa riferimento al fatto che la peggiore famiglia sia comunque più valida del migliore affidamento all’esterno. Secondo alcuni una “riconciliazione” immaginaria con i propri genitori è una condizione indispensabile per lo sviluppo, ed è facilitata dal mantenimento del legame. A sostegno di tale posizione vi è ancora l’osservazione che ogni disfunzione è a carico della famiglia, ed occorre quindi curarla anziché occuparsi solo del bambino5.

In realtà tali affermazioni devono essere messe alla prova della realtà nel caso di gravi trascuratezze o violenze. Non va nemmeno taciuto il rischio che la permanenza in una famiglia diseducativa ed abusante sia semplice-mente la conseguenza di una indifferenza o mancanza di intervento da par-te dei servizi o delle autorità giudiziarie preposti oppure di una ideologica presa di posizione a favore della famiglia di sangue.

La priorità va data alla protezione del bambino, anche a costo di una se-parazione; curare la famiglia è naturalmente auspicabile, ma non può essere la condizione da adempiere per poter allontanare il bambino. La “Conven-zione Internazionale sui diritti dell’infanzia” del 1989 postula come primo diritto di avere i genitori, «crescere nell’ambiente familiare in un clima di felicità, amore e comprensione». L’art. 7 stabilisce che «il bambino ha, nel-la misura del possibile, il diritto di conoscere i suoi genitori ed essere alleva-to da loro». Infine in base all’art. 9 «gli Stati-parte vegliano perché il bam-bino non sia separato dai genitori contro la loro volontà, eccetto nel caso in

5 S. Tomkiewicz, “Le maintien du lien: pourquoi?”, in Maltraitance: maintien du lien?, p. 114.

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Capitolo quarto - I contesti educativi

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cui le autorità competenti, sotto controllo giuridico, stabiliscano, in accor-do con la legge e i procedimenti applicativi, che tale separazione è necessaria nel maggiore interesse del bambino/a»6.

La problematica cruciale dei legami familiari evidenzia alcuni dei compi-ti educativi posti alle strutture di accoglienza. In linea di principio il di-lemma della separazione va affrontato affermando in primo luogo il diritto a favore della famiglia biologica, ed in secondo piano il diritto ad un’altra famiglia se la prima è mancante o incapace. Occorre a questo punto chie-dersi, all’interno di questo processo, come effettuare la scelta tra l’affidamento ad una famiglia o ad una comunità. Nella pratica, il dilemma viene spesso risolto dalla scarsa disponibilità di famiglie in grado di assolve-re ad un compito così delicato, senza pretendere il “possesso” del figlio affi-dato. Inoltre, in molti casi l’urgenza dei provvedimenti rende indispensabi-le ricorrere a strutture di pronta accoglienza.

Ma, al di là della necessità, un valido contesto di comunità non rappre-senta soltanto un “male necessario”, ma può essere anche un’alternativa po-sitiva ed un’opportunità non trascurabile. In primo luogo esistono casi par-ticolarmente gravi e delicati, per cui non è facile trovare idonea sistemazione familiare. Inoltre famiglie incapaci o fragili, o temporanea-mente inabilitate, madri sole, genitori con disturbi psichici possono essere sostenuti da comunità con educatori che non si pongono come “rivali”, o come famiglia alternativa e riuscita rispetto al loro fallimento. L’interruzione di molti affidamenti mostra la difficoltà di farsi carico di si-tuazioni di bambini o adolescenti con una storia ed una famiglia “pesante” alle spalle.

La struttura di accoglienza può disporre di energie di sostegno che una coppia non sempre ha, in modo da realizzare una effettiva presa in carico di tutto il nucleo. Mentre si sottolinea la differenza tra il nucleo familiare ri-stretto di oggi e la famiglia allargata di ieri, composta da nonni, zii, cugini ed altri parenti, si dimentica che la comunità esprime un modello ancora diverso, la cui forza è proprio nel costituire una terza via tra l’internamento in istituto e la famiglia, un ponte – necessariamente provvisorio – per la crescita dei bambini in un momento difficile della loro vita.

6 La Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e la sua attuazione sono in A.C. Moro,

Il bambino è un cittadino, Mursia, Milano 1991.

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Le comunità inseriscono minori con alle spalle storie di abbandono ma-teriale o psicologico, violenza, divisione. La famiglia resta in ogni caso pre-sente, anche se in una dimensione inconscia o fantasmatica. I problemi de-rivati dalla relazione con i genitori non vengono guariti automaticamente con l’allontanamento, ma il dilemma del conflitto separazione/non separa-zione resta iscritto dentro di loro. Gli educatori interpretano tali situazioni guidando i contatti con la famiglia di origine nelle modalità previste dalla legge, esercitando una reale responsabilità nel recupero, da parte del bam-bino, della sua storia.

Una comunità educativa si trova dunque, come si è detto, di fronte alle problematiche del mantenimento del legame familiare. Affronta però an-che una serie di altre tematiche specifiche, tra cui la realizzazione di un am-biente di vita nuovo, che non è la famiglia, ma deve farne le veci. A diffe-renza di quanto si crede in alcuni casi, comunità “familiare” non significa necessariamente la ripetizione stereotipata dei moduli vissuti da una fami-glia “vera”. Non è possibile, né auspicabile, riprodurre in scala la funzione materna o paterna. La comunità, piuttosto, deve la sua vivibilità non solo alla distanza dal modello istituzionale (ritmi rigidi, anonimato, controllo), ma soprattutto alla sua configurazione originale: educatori al posto dei ge-nitori, eterogeneità di ospiti, provvisorietà.

Si tratta di «un insieme di relazioni sociali, di natura continuativa, tra bambino e adulti, grazie a cui la responsabilità della crescita del primo non è “relegata” alla sola relazione con una figura (la materna), ma ridistribuita fra i numerosi e differenti personaggi che lo popolano»7. Non è famiglia, né lo vuole essere, ma è comunità con le stesse funzioni protettrici, rassicuranti, educative, affettive, di promozione della responsabilità e dell’autonomia.

La stessa definizione di comunità riunisce diversi tipi di case di acco-glienza, caratterizzate da differenti obiettivi, ruoli interni, impostazioni e-ducative. Tra le tipologie esistenti si possono citare le tre immagini indivi-duate nel corso di una recente ricerca. Un primo modello di comunità è stato definito dai ricercatori come esprimi te stesso. Sono comunità laiche, dove lavorano operatori professionali che effettuano rotazioni a turno. La visione pedagogica è maieutica: l’educatore deve cioè aiutare il bambino ad

7 O. Liverta Sempio, “Il lavoro dell’educatore nei sistemi di relazione”, in M. Groppo (a cura di), Professione educatore, p. 149.

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esprimere se stesso, ad emergere liberamente. Un forte accento è dato alla competenza professionale che sostituisce la “vocazione”, mentre il rapporto con i minori ospiti è vissuto generalmente “alla pari”.

Il secondo tipo corrisponde al modello è così che devi essere. Gestita in modo tradizionale, questo tipo di comunità è basata sulla condivisione del-le difficoltà dei bambini e su una visione di riparazione del male da loro sof-ferto. L’asimmetrta e l’organizzazione gerarchica sono più accentuate.

Nel terzo caso – ti accolgo come sei – comunità di volontariato ispirate cristianamente ospitano bambini in una struttura del tutto simile ad una famiglia allargata, anche con altre persone in difficoltà. La relazione è al centro del progetto pedagogico, gestito da poche figure di riferimento sem-pre presenti8.

Al di là di alcune rigidità dei modelli, si può concordare con la comple-mentarità proposta dalle conclusioni della ricerca: la comunità e la casa di accoglienza sarebbero più adatte a bambini la cui famiglia non ha consenti-to l’allontanamento e ha sviluppato una confllittualità verso famiglie alter-native; la casa famiglia del terzo tipo è adatta invece per bambini che neces-sitano di figure forti di riferimento9.

4.1.1. Ambiente educativo e progetto La comunità può essere vista anche sotto l’angolatura del rapporto tra

fattori di protezione e fattori che influenzano negativamente la crescita. Ciò comporta una nuova visione dello sviluppo della persona, visto nel bi-lanciamento tra rischio ed elementi protettivi del contesto.

Lo sviluppo di capacità di adattamento anche in condizioni sfavorevoli, di “resistenza” da parte dei bambini è stata definita come resilience, facendo riferimento alla flessibilità, la qualità di alcuni metalli di resistere a urti o deformazioni. Studi e ricerche sulla resilience hanno messo in luce i fattori di protezione influenti sulla vita di bambini esposti a difficoltà, violenza, traumi. Elementi di resistenza che influiscono positivamente e permettono di contrastare le influenze negative possono essere il successo scolastico, il

8 P. Brustia, B. Massucco, T. Rosso, “Il bambino dove lo metto? Un viaggio nelle co-munità alloggio per minori”, in P. Amerio (a cura di), Forme di solidarietà e linguaggi della politica. Seminari di psicologia sociale e di comunità, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 265-326.

9 Ivi, p. 295.

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senso di responsabilità, la presenza di adulti significativi10. Anche nella co-munità, come in ogni contesto educativo, gioca un complesso equilibrio per bilanciare fattori di rischio attraverso la promozione di nuove capacità pro-gettuali da parte del bambino.

Alcune ricerche ed esperienze mostrano le funzioni principali di una comunità di accoglienza ed in particolare la necessità di continuità e fedeltà nei confronti di bambini che hanno sofferto rotture, traumi, abbandoni. Ciò comporta la necessità di una stabilità di figure educative, anche se non necessariamente l’instaurarsi di una figura di “madre” o di “padre”. La rota-zione degli operatori è accettata facilmente dai minori, purché dentro un quadro di stabilità e con la sicurezza che i legami non verranno interrotti.

Il clima familiare trova un’espressione nella configurazione degli am-bienti, che il bambino deve poter almeno in parte modificare “a sua misu-ra”, nell’uso di arredi, oggetti, giochi. Il contesto stesso – momenti della vita quotidiana, spazi, apertura all’esterno – è educativo11.

Esiste, come hanno scritto Emiliani e Bastianoni, una «interdipendenza tra organizzazione del quotidiano e sviluppo della competenza sociale e co-gnitiva dei minori», per «riannodare i fili della vita quotidiana come un tessuto connettivo di base su cui viene saldata l’esperienza attuale dei mino-ri». Il tempo è poi uno degli aspetti più importanti in quanto molti minori arrivano in comunità dopo aver vissuto esperienze di frammentazione o in-versione dei ritmi della giornata (giorno-notte): si tratta di un tempo irre-golare e dilatato, da trasformare in momenti distinti e significativi, dotati di senso12.

All’interno di un contesto rassicurante e stabile, che offre protezione, ma anche richiesta di responsabilità ed autonomia, vi è però in primo piano il rapporto con gli educatori, capaci di ascolto e di interpretazione dei biso-gni, di filtrare, attraverso i momenti della vita quotidiana, quei messaggi af-fettivi e quelle spinte a chiedere di più a se stessi, che costituiscono le tappe

10 Riferimenti alla resilience si trovano in F. Emiliani, P. Bastianoni, Una normale soli-

tudine, p. 19; si veda anche F. Emiliani, “Processi di crescita tra protezione e rischio”, in P. Di Blasio (a cura di), Contesti relazionali e processi di sviluppo, Raffaello Cortina, Milano 1995; E.J. Anthony, “Risk, vulnerability and resilience: an overview”, in B. Cohler (a cura di), e Invulnerable Child, Cambridge University Press, Cambridge 1989.

11 F. Emiliani, P. Bastianoni, Una normale solitudine, p. 174 12 Ivi, pp. 175 ss.

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della crescita. Tra i due elementi contrapposti della tecnica e della carisma-ticità esiste la lettura e la comprensione paziente e collettiva dei problemi e la creazione di relazioni affettive ogni volta rimesse in questione dalla vita quotidiana. In realtà, come avviene in famiglia, anche nelle comunità il rap-porto diretto e responsabile adulto/bambino viene spesso eluso o reso insignificante. Osserva Emiliani che, anche dove esista un progetto educati-vo derivato da teorie dello sviluppo e dell’educazione, raramente si riscon-tra una centralità della relazione degli adulti con i minori, mentre il pro-blema principale delle comunità consiste nel loro essere fondate «sul sistema di relazioni tra adulti e bambini, che deve essere progettato fin dall’inizio come un sistema stabile, in un processo in cui sia possibile rico-noscere il nesso di causalità fra le azioni e l’evoluzione dei minori ospiti»13.

È necessario sviluppare nelle comunità, anziché un’enfasi sul progetto, una forte coesione tra gli operatori riguardo ai modelli culturali, ai valori, alle concezioni di famiglia e di infanzia e ai relativi strumenti educativi che si intendono utilizzare. Si tratta di una sorta di “carta fondamentale” che deve tener conto di alcuni punti chiave: l’assunzione della storia del minore in tutti i suoi aspetti; la gestione dei rapporti con la famiglia e con l’esterno, in considerazione dei vincoli imposti alle scelte educative; l’organizzazione degli aspetti della vita quotidiana; gli obiettivi per il futuro.

A partire da tale progetto inteso in senso di “carta fondamentale” si svi-lupperanno le tappe significative della crescita dei minori in obiettivi chiari e concreti, tenendo presente che i singoli progetti individuali sono sottopo-sti a incertezza e trasformazioni in base ai tempi, alle circostanze e agli ele-menti del contesto.

13 Regione Toscana-Giunta Regionale, Coordinamento Nazionale Comunità Per Mi-

nori, Educare in comunità. Progetto educativo e qualità dell’intervento, Atti del Convegno di Firenze 30-31 marzo 1992, Quaderni Educare in Comunità 3, Edizioni Regione To-scana, Firenze 1993; sulle storie dei bambini e ragazzi ospiti cfr. Regione Toscana-Giunta Regionale, Coordinamento Nazionale Comunità Per Minori, Vuoi sapere cosa penso io del-la comunità per minori? 56 ragazzi e ragazze si raccontano, Quaderni Educare in Comunità 4, Edizioni Regione Toscana, Firenze 1994.

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4.2. Comunità per adolescenti

Le comunità per adolescenti accolgono ragazzi e ragazze che la famiglia non è in grado di educare e far crescere, o che hanno compiuto reati. Nelle stesse comunità si trovano così minorenni sottoposti a procedimenti am-ministrativi e penali. Tra i primi vi sono ragazzi inviati in comunità per mancanza di un nucleo stabile di accoglienza, o per abbandono, o maltrat-tamenti. Possono essere accolti in comunità anche adolescenti in un mo-mento difficile della crescita, o che rifiutano la situazione familiare. I se-condi sono minorenni inviati dal Tribunale in quanto sottoposti a un procedimento. Le norme in materia sono regolate dal nuovo Codice di Procedura Penale minorile, che ha profondamente modificato la risposta sociale ai reati commessi dai minorenni14. Ispirato alle nuove regole inter-nazionali, tra cui le cosiddette Regole di Pechino, ovvero le Regole minime adottate dall’ONU nel 1985 per l’amministrazione della giustizia minorile, il DPR 448 ha assunto l’interesse del minore come criterio orientativo, nel suo significato di uscita il più rapida possibile dal circuito penale. In questo senso promuove un percorso pedagogico diretto alla responsabilizzazione, ha rivisto il ruolo del giudice ed ha soprattutto perseguito concretamente la possibilità di creare alternative al carcere15. Tra le innovazioni più significa-tive vi è la possibilità di sospendere il processo e affidare in prova al servizio sociale il ragazzo: in caso di esito favorevole è prevista l’estinzione della pe-na.

Oltre alle Regole di Pechino, altri pronunciamenti, tra cui quelli del Con-siglio d’Europa, e soprattutto la Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia, hanno contribuito a sviluppare una nuova cultura intorno ai minori che trasgrediscono le leggi, fondata sulla promozione anziché sulla repressione e tendente ad una complessiva revisione delle pene. L’applicazione di queste norme si colloca tuttavia in un contesto sociale e

14 D.P.R. n. 448 del 22/9/1988, Approvazione delle disposizioni sul processo penale a ca-

rico di imputati minorenni. 15 Un commento dal punto di vista pedagogico al Processo Penale Minorile è in L. Mi-

lani, Devianza minorile. Interazione tra giustizia e problematiche educative, Vita e Pensiero, Milano 1995.

Sullo sviluppo degli interventi istituzionali nei confronti della devianza minorile, cfr. A. Borsani, Istituzioni e devianza minorile. Sanzione e diritto/dovere all’educazione, Franco Angeli, Milano 1997.

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culturale profondamente mutato. La criminalità minorile è in aumento nella maggior parte dei paesi occidentali e non. In Italia, come in altri paesi europei, si registra un sensibile sviluppo dei reati commessi dai minori di 14 anni e, anche se restano prevalenti i reati contro il patrimonio, si assiste ad un rilevante incremento di quelli contro la persona. La maggior parte dei reati viene commessa in concorso e con la partecipazione di maggiorenni. Sono in crescita le trasgressioni connesse allo spaccio di droga.

L’espandersi di questi fenomeni ha creato una forte preoccupazione nell’opinione pubblica, spesso incerta e resistente di fronte alla nuova sen-sibilità espressa dagli educatori e dagli operatori della giustizia. L’immagine prevalente, nelle grandi città occidentali, è quella di minori più “cattivi” e pericolosi, di fronte a cui la legge si rivela inefficace e troppo debole. L’oscillazione della cultura sociale intorno alla delinquenza minorile, d’altronde, si accompagna all’andamento dell’economia e alle diverse perce-zioni del futuro. È stato osservato che, mentre la società opulenta favorisce la tolleranza e la tendenza alla “normalizzazione” delle trasgressioni, al con-trario nelle società della penuria prevalgono spinte alla sicurezza ed alla protezione, ed una maggiore attenzione al rapporto tra costi dell’assistenza sociale o dell’educazione e i benefici raggiunti16.

Il quadro dell’approccio alla delinquenza minorile è dunque composito. Da un lato assistiamo a spinte che invocano il ritorno ad una maggiore se-verità nelle pene (abbassamento dell’età di imputabilità, estensione della pena di morte ai minori), dall’altra le risposte della legge si fanno sempre più articolate nello sforzo di adeguarsi ai bisogni educativi dei minori.

Lo sviluppo delle comunità per adolescenti che accolgono anche minori trasgressori va in questa direzione. L’art. 22 del DPR 448 pone tra le misure alternative alla custodia cautelare il collocamento in una comunità pubblica o convenzionata, specificando però che l’applicazione di questa misura non deve interferire con i processi educativi in atto. Le comunità idonee sono indicate come «comunità pubbliche o private, associazioni e cooperative

16 M. Leblanc, “Une approche criminologique. Vers un modèle différentiel

d’intervention et de prise en charge”, in R.E. Tremblay, A.M. Favard, R. Jost (a cura di), Le traitement des adolescents délinquants. Perspectives et prospectives internationales, Èditions Fleurus, Paris 1985, p. 164.

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che lavorano in campo adolescenziale»17. Le strutture previste sono di due tipi: i centri di prima accoglienza, strutture chiuse destinate ad accogliere minori nel breve lasso di tempo di due o tre giorni tra il fermo e l’udienza, e le comunità vere e proprie.

I centri di prima accoglienza hanno una funzione di osservazione dei ca-si inviati, allo scopo di fornire informazioni utili all’elaborazione di un pro-getto. Attraverso colloqui con i ragazzi e con le famiglie, si cerca di creare una adesione attiva alle proposte presentate, tra cui quelle dell’invio in co-munità. Questo compito è reso difficile dalla contraddizione tra l’invio co-atto dei minorenni e il ruolo educativo delle strutture comunitarie, nonché dal ruolo di struttura di “emergenza” che spesso esime da interventi più propriamente pedagogici18.

Le comunità sono invece luoghi aperti che presentano caratteristiche particolari: organizzazione di tipo familiare; presenza anche di minori sot-toposti a procedimento penale; capienza non superiore alle dieci unità tale da garantire, anche attraverso progetti personalizzati, una conduzione ed un clima educativamente significativi; presenza di operatori professionali; collaborazione di tutte le istituzioni interessate e utilizzazione delle risorse del territorio.

Al momento dell’istituzione delle comunità si è temuto che una loro proliferazione comportasse un bisogno “indotto” e dunque una impropria utilizzazione. In realtà, dopo alcuni anni, occorre osservare che, al contra-rio, le comunità vengono utilizzate in misura minore rispetto alle aspettati-ve, forse per scarsità di offerta, soprattutto nelle zone del Sud dove sarebbe-ro più necessarie, per inadeguatezza delle strutture o per difficoltà nel far accettare questa misura ai ragazzi19.

Le comunità – come alcuni hanno affermato – non sono altro che car-ceri di serie B per ragazzi meno cattivi? La contraddizione tra punire e edu-care, sempre presente nella giustizia minorile, non verrebbe risolta, ma si

17 Le disposizioni sulle comunità sono contenute nell’art. 10 del D. Lgs. n. 272 del

28/7/89, Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del D. P. R. 22/9/88, n.448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni.

18 Su questa contraddizione si veda il commento in L. Milani, Devianza minorile, p. 283 e p. 367.

19 M. Lion, M.T. Spagnoletti, Collocamento in comunità: problemi in ordine alla appli-cazione della misura cautelare, in «Esperienze di giustizia minorile», 1-2, 1995, p. 135.

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creerebbe una struttura «un po’ di punizione e un po’ di educazione»20. Le case di accoglienza, d’altronde, sono sempre state ambivalenti: difesa dei ra-gazzi e allo stesso tempo difesa della società dai ragazzi. Quanto ai vantaggi delle comunità, secondo tale punto di vista, non sarebbero superiori a quelli del carcere.

È giusto affermare che la qualità dell’intervento educativo dipende so-stanzialmente dagli educatori e che quindi la comunità non offre di per sé maggiori possibilità di recupero, ma svolge questo ruolo solo offrendo una presenza di persone competenti ed appassionate; tuttavia per giudicare compiutamente non possono essere ignorati alcuni aspetti in base ai quali la comunità rappresenta una reale alternativa: l’effetto di stigmatizzazione del carcere, la minore possibilità di progettazione in una struttura pubblica imponente, la difficoltà di interazione con l’esterno, etc. Va osservato, so-prattutto, che una comunità valida è quella che offre un’identità, un pro-getto, una coesione tra gli educatori; nasce, non a caso, da iniziative “dal basso” ed esprime una progettualità sociale che crea un clima, un calore, una comunicazione che non si può trovare in un carcere.

Si può anche affermare che la comunità non rappresenta altro che una variante del carcere, un luogo che mira soltanto alla normalizzazione ed alla reintegrazione dei ragazzi nella vita sociale. Le correnti della sociologia ra-dicale hanno messo in evidenza il ruolo della società nel contribuire al pro-cesso di devianza (distanza, etichettamento). Tuttavia si può accettare che il valore educativo, in particolare nelle comunità, abbia una portata “nor-malizzatrice” nella misura in cui non si intende ricondurre i singoli ad una norma uniforme, schiacciando la loro personalità, ma condurli a «adottare condotte sociali che permettano loro di condurre una vita “nonnale”, usu-fruire dei servizi della collettività, far riconoscere i loro diritti, giungere ad uno statuto riconosciuto, accettare i vincoli della vita sociale»21. In questa accezione “normalizzare” significa rendere possibile l’espressione dei propri bisogni e dei propri diritti conducendo a riconoscere allo stesso tempo i di-ritti degli altri e le regole poste dalla società a tutela di tutti.

Esistono molti tipi di comunità, analizzate però prevalentemente se-condo un’ottica organizzativa. Una ricerca sulle strutture residenziali in In-

20 C. De Angelis, Le comunità penali: teorizzazioni, aspettative e realtà, in «Esperienze di giustizia minorile», 1-2, 1995, pp. 140-141.

21 Cfr. F. Le Poultier, Recherches évaluatives en travail social, p. 117.

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ghilterra, ad esempio, individua quattro matrici che costituiscono modelli di tendenza per le comunità: la famiglia, il cui compito è lo sviluppo e la crescita dei figli-ospiti; il collegio, caratterizzato dall’attenzione ai rapporti tra pari; l’ospedale, centrato su cura e accudimento; la struttura custodiale, che ha per obiettivo il contenimento22.

Tuttavia questo tipo di classificazione non rende giustizia della com-plessità della situazione attuale, in quanto si tratta di strutture “idealtipi-che” che non tengono conto della varietà dei modelli educativi presenti all’interno delle comunità.

Per censire le realtà italiane è stata effettuata un’indagine conoscitiva nei primi anni di applicazione del nuovo Codice di Procedura Penale23. Accan-to ai dati sulla struttura, il numero degli ospiti e i ruoli professionali degli operatori, è stata effettuata una classificazione in base a tre modelli, fondati su altrettante logiche. La prima si riferisce alle “teorie comportamentiste” e alla trasmissione di comportamenti adeguati socialmente, sostenuti da rin-forzi; la seconda pone l’accento sull’autocoscienza e sulla autorealizzazione della persona, aiutata dal contesto a definire i suoi obiettivi; infine la terza è legata alla comprensione dei propri comportamenti e della propria identità profonda24. In base ai risultati, le comunità indagate non si riconoscono nel primo modello, ma prevalentemente nel secondo, definendosi cioè come luoghi di ascolto e sviluppo della personalità del minore. I ricercatori osser-vano che l’adesione al terzo modello – caratterizzato dall’attenzione ai vis-suti e ai conflitti anche inconsapevoli dei ragazzi – risulta essere più di principio che realmente operante25.

In generale, le linee di tendenza emerse da ricerche come questa eviden-ziano il forte carattere di “situazionalità”, ovvero di costruzione del proget-to in base alle esigenze delle persone, anziché l’adozione di un programma precostituito; la preferenza per la dimensione del “fare” attraverso gli stru-

22 F. Cardona, “Crescere, educare, curare, contenere: strutture residenziali per adole-

scenti con gravi difficoltà in Inghilterra”, in C. Kaneklin, A. Orsenigo, Il lavoro di comuni-tà, p. 127.

23 S. Casciotti, F. Curti Gialdino, V. De Orsi et Alii, Comunità educative per minori: indagine conoscitiva, in «Esperienze di giustizia minorile» 1-2, 1995, pp. 13-131.

24 Ivi, pp. 38-39. 25 Ivi, p. 41.

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menti delle attività, del lavoro, dello studio, ponendo in secondo piano l’attenzione specifica al “mondo interno” delle persone26.

La visione “densa” che si vuole adottare nel presente lavoro, per garanti-re una comprensione dei fenomeni, suggerisce di prendere maggiormente in considerazione la varietà di elementi che caratterizzano queste realtà col-lettive: ispirazione culturale, figura degli educatori, approccio psicopeda-gogico, uso delle regole, rapporti con l’esterno, etc. La fisionomia delle co-munità è data dal diverso intrecciarsi degli elementi, con prevalenza ora della tendenza al rapporto individuale, ora al lavoro, ora al rispetto dell’ordine interno.

Dall’analisi di alcuni tipi di strutture residenziali per adolescenti emer-gono tre tendenze che non costituiscono “modelli”, ma coloriture del lavo-ro educativo. La prima mette l’accento sulla comunicazione educativa, sulla parola di cui i ragazzi si riappropriano attraverso il rapporto con gli educa-tori. Si tratta di una visione consapevole delle implicazioni sociali e cultura-li che conducono alla devianza, attenta alle differenze e ai percorsi di vita. L’educatore è prima di tutto un adulto testimone di un altro modo di vive-re e di un’attenzione nei confronti dei ragazzi. Le regole si situano, prima ancora che nell’ordine della casa, nel limite posto dal rapporto educativo personalizzato.

Una seconda accezione vede la comunità come luogo di rappresentazio-ne di tutte le dinamiche psicologiche delle persone, una famiglia “simboli-ca” dove occorre aiutare gli adolescenti ad affrontare i fantasmi della loro storia di relazione. La struttura è molto libera e flessibile, le regole si costi-tuiscono in base alle situazioni, gli educatori sono compagni di strada, ma anche “tecnici”, che lavorano sui vissuti e sui comportamenti simbolici ana-lizzandoli di volta in volta.

Nella terza tendenza si trova un tipo di comunità che spinge gli adole-scenti all’interpretazione del significato della loro vita dando particolare at-tenzione al contesto. È il contesto di comunità, diverso da quello di prove-nienza, che mette gli adolescenti in grado di riscoprire il senso esistenziale del gusto di vivere, nel rispetto di sé e dei limiti posti dalle istituzioni socia-li. Non si guariscono i sintomi, ma si conduce all’autonomia attraverso la creazione di legami. La profondità e la costanza di questi legami con gli e-

26 Ivi, pp. 112-113.

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ducatori permettono di lasciar cadere le resistenze ed avviarsi alla risoluzio-ne dei problemi.

4.2.1. Un progetto differenziato Uno degli obiettivi più importanti che il sistema dei servizi socioeduca-

tivi deve raggiungere, cioè un modello differenziato di intervento, è attual-mente uno dei più difficili. Come si è visto, esistono diversi tipi di misure da proporre a giovani che hanno commesso reati, dalla permanenza in casa all’invio in comunità, alla misura di probation; tuttavia mancano criteri e-spliciti che permettano di adeguare nel miglior modo possibile il progetto ai bisogni del minorenne. Alcuni tentativi in questo senso hanno collocato la devianza secondo un continuum che va da una zona di socialità ad una di marginalità per arrivare ad una di criminalità esplicita. Per la prima zona devono essere previsti gli interventi della famiglia, della scuola con l’astensione dall’intervento delle “istanze” giudiziarie. Alla zona di margina-lità appartengono giovani con diverse problematiche psicologiche, cui oc-corre proporre una varietà di misure a seconda dei bisogni. Nella zona di criminalità, infine, l’intervento giudiziario diviene necessario, con le conse-guenti misure di internamento negli istituti di pena27.

Rimane tuttavia difficile, e aleatorio, trovare criteri in base a cui scegliere un tipo di misura o un’altra. Anche in questo caso il compito della comuni-tà si rivela complesso, in quanto necessita di una articolazione di intervento rispetto ai bisogni dei ragazzi, di obiettivi che si vogliono raggiungere e di misure da prendere, vincolate dalla legge.

Il progetto della comunità consiste nell’articolazione condivisa e parte-cipata di questi elementi per anticipare gli obiettivi desiderati ma, in una certa misura, coincide con la stessa vita quotidiana che vi si svolge. In una comunità ogni momento della giornata va concepito come tempo educati-vo: spazio, regole, uso del tempo, scelte di fondo, tecniche, risorse. È stata giustamente sottolineata la necessità di vagliare criticamente la definizione di “organizzazione” di tipo “familiare”, intendendo con ciò non tanto l’ade-guamento ad un’immagine “tipica” che prevede la presenza di una coppia di adulti, quanto il clima di fiducia, dialogo e attenzione ai bisogni della per-

27 M. Leblanc, “Une approche criminologique”, in R.E. Tremblay, A.M. Favard, R. Jost

(a cura di), Le traitement des adolescents délinquants, pp. 172 ss.

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sona che dovrebbero essere presenti in ogni famiglia. In questo senso, parti-colare attenzione deve essere attribuita al momento alla fase dell’accoglienza e all’ammissione che spesso, data la rapidità, non permette una progetta-zione efficace. Nella fase iniziale di accoglienza occorre tener conto di alcu-ni elementi per elaborare il progetto: la storia individuale, la situazione al momento dell’entrata, le reazioni alla vita della comunità, le richieste ed i bisogni impliciti.

La selezione dei ragazzi deve garantire una individualizzazione e una programmazione che tenga conto dei cambiamenti che ogni ingresso com-porta. I minorenni che giungono in comunità a causa di una sanzione ma-nifestano spesso atteggiamenti di chiusura e ribellione e si pone in primo piano la necessità di conquistare la loro fiducia, iniziando da una comuni-cazione chiara dei tempi e delle ragioni della loro permanenza. Altrettanto complessi sono i bisogni dei minorenni giunti per cause imputabili alla fa-miglia: si hanno così spesso atteggiamenti di indifferenza, rassegnazione, apatia o richieste di attenzione formulate in modo implicito.

La permanenza dei ragazzi richiede un progetto flessibile e differenziato: nelle comunità, infatti, convivono ragazzi con situazioni diverse. Le misure cautelari sono previste per breve tempo e non devono essere dilatate in quanto come ha scritto A.C. Moro – la loro finalità resta quella di evitare fughe o altri reati28.

Per consentire un vero e proprio progetto educativo in molti casi si rea-lizza un “incontro” tra il collocamento in comunità in base all’art. 22 e la possibilità di trasformare questo articolo in altri tipi di misure (messa alla prova, ricorso a provvedimenti civili) per progettare l’intervento su tempi medio-lunghi. Altre situazioni riguardano, appunto, ragazzi cui è stata con-cessa la sospensione del processo e per cui occorre fare una seria e concreta programmazione a medio termine; vi sono poi ragazzi in difficoltà, senza procedimenti a carico, che devono essere allontanati dalla propria famiglia di origine con possibilità di decadenza totale o parziale o sospensione della potestà genitoriale; infine minori che necessitano di sostegno per un perio-do di tempo limitato.

28 A.C. Moro, Il bambino è un cittadino, p. 271. Sugli aspetti del progetto nella comu-

nità per adolescenti con problemi penali, cfr. F. Rizzo, Ragazzi in prova. La relazione edu-cativa tra regola e incoraggiamento, Unicopli, Milano 1997.

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La situazione dei minori stranieri, specie se non accompagnati, pone un ulteriore tipo di problemi, in quanto non di rado manca la famiglia, restata nel paese d’origine o dispersa, ed ogni ambiente di riferimento. Questo vuoto, unito alle differenze culturali, spesso non comprese e non ascoltate dagli operatori, crea difficoltà nell’elaborazione di progetti alternativi e conseguentemente un’effettiva disuguaglianza di fronte alla legge rispetto ai coetanei residenti nel nostro paese29.

Un caso particolare è rappresentato dagli adolescenti nomadi, inseriti precocemente nel circuito penale e quasi esclusivamente per reati contro il patrimonio, a differenza dei ragazzi italiani tra cui va aumentando, come si è detto, la percentuale di delitti contro la persona. I dati dimostrano che i ragazzi nomadi sia italiani, sia stranieri, vengono sistematicamente esclusi dalle formule “protettive” del nuovo Codice, come l’irrilevanza del fatto o la messa alla prova. Come è stato osservato «ciò dimostra l’esistenza di una giustizia non ancora eguale per tutti e fortemente condizionata dalla diffe-renza nelle opportunità sociali che sono a disposizione del minore»30.

Da parte degli operatori sembra infatti esistere una certa rassegnazione di fronte a costumi culturali difficili da cambiare, esitazione di fronte a cambiamenti che metterebbero gli adolescenti in conflitto con la loro fami-glia, persuasione che le possibilità lavorative per i nomadi siano scarse31.

Ne deriva una mancanza quasi totale di speranza, progetti e offerte de-stinate ai minori nomadi, mentre d’altra parte emerge la necessità di pensa-re nuove forme di servizi adatte alla loro vita “tra due culture”.

Tutta questa varietà di casi comporta problemi e progetti molto diffe-renti per tempi e modalità della presa in carico. Il “doppio regime” tra chi può allontanarsi e chi no, ad esempio, crea problemi alla gestione della casa. Va aggiunto che non solo il fattore tempo, ma anche le diverse età e soprat-

29 P. Morozzo Della Rocca, “Minori e minoranze: una debolezza moltiplicata”, in P.

Cendon (a cura di), I bambini e i loro diritti, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 333-348. 30 G. Scardaccione, M.T. Spagnoletti, Tipologia della devianza minorile e risposte giudi-

ziarie, in «Esperienze di giustizia minorile», n. 3-4, 1994, p. 95. Sui problemi di devianza di minori stranieri e nomadi, cfr. il numero monografico de «Il bambino incompiuto», n. 3-4, 1996; S. Segre, Immigrazione extracomunitaria e delinquenza giovanile: un’analisi so-ciologica, in «Studi Emigrazione», 111, 1993, pp. 384-415, con un’ampia bibliografia.

31 A. Lo Conte, G. Marotta, Il minore nomade: vittima o autore di reato?, in «Espe-rienze di giustizia minorile», n. 3-4, 1994, p. 59.

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tutto le storie di provenienza rendono la flessibilità una delle caratteristiche più necessarie da attuare nell’intervento residenziale.

Anche in questo tipo di comunità, come nelle altre, l’aspetto chiave del progetto resta la relazione con l’educatore in un contesto che costituisce in-sieme una risorsa ed un vincolo. Risorsa perché la comunità è anche casa, luogo di gioco, di studio, di amicizie; vincolo perché, come nelle comunità per bambini più piccoli o per adulti tossicodipendenti o malati mentali, l’adolescente è sottoposto ad una autorità esterna cui rendere conto della sua vita: in questo caso l’autorità giudiziaria.

Gli educatori si trovano di fronte al problema della violenza dei ragazzi, e a dover adempiere ad una funzione di contenimento. Centrale risulta, a questo proposito, la nozione di limite che l’educatore deve porre: «conte-nere e provvedere alla separazione»32; è affidato all’educatore l’equilibrio tra “fusione” e “lontananza”, la tensione costante verso un contenimento attuato per stimolare l’autonomia, evitando il controllo che serve solo a creare una distanza di sicurezza funzionale alle paure dell’educatore. Tutta-via, senza un’elevata funzione di coordinamento, di passaggio di informa-zioni e un clima di relazioni diverso da quello che il ragazzo ha conosciuto, anche la personalità dell’educatore rischia di restare schiacciata33.

Dall’analisi condotta finora emerge chiaramente come la comunità sia un luogo di sintesi che deve affrontare una complessa modulazione di tem-pi e progetti, in cui la comprensione delle situazioni personali va di pari passo con la predisposizione di progetti concreti, studio e attività lavorati-va. Il lavoro, concepito fin dalle origini dell’istituzionalizzazione dei minori come una dimensione necessaria per rendere i ragazzi devianti “utili alla so-cietà”, nonché per allontanarli dall’ozio, entra oggi come aspetto fonda-mentale del progetto educativo in quanto modalità di responsabilizzazione e allo stesso tempo espressione di intenzionalità costruttiva.

Un elemento centrale e comune a tutte le strutture risulta essere, in sin-tesi, l’apprendimento dall’esperienza, la sperimentazione, il costante lavoro sul vissuto34. «La comunità non è un luogo dove si interviene sui ragazzi,

32 C. Kaneklin, A. Orsenigo, Il lavoro di comunità, p. 62. 33 Ivi, p. 151. 34 G. De Leo, Il collocamento in comunità degli adolescenti nel processo penale minorile.

Come capire ed utilizzare gli insuccessi e le disfunzioni, in «Esperienze di giustizia minori-le», 1-2, 1995, p. 161.

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ma è l’insieme degli interventi di conoscenza, progetto, decisione, invio, ri-sposta che circolarmente costruiscono l’intervento; è l’insieme degli inter-venti e dei rapporti»35. Questa visione ermeneutica riporta anche in questo caso al processo di contestualizzazione dell’esperienza, di interpretazione del vissuto che adolescenti e adulti operano insieme.

Da più parti viene messo in rilievo come il punto centrale del colloca-mento in comunità non sia la custodia, ma l’affidamento in vista di un pro-getto, che non necessariamente deve svolgersi solo all’interno della comuni-tà. Queste caratteristiche fanno della comunità «una misura in cui l’aspetto di sostegno risulta prevalente rispetto a quello di controllo, in cui il ragazzo è chiamato ad un elevato grado di partecipazione consapevole, in cui non si tratta di “non fare”, ma al contrario di impegnarsi a “fare” nel ri-spetto del progetto»36.

Proprio questo aspetto di coinvolgimento e responsabilità, paradossal-mente, risulta il più difficile da comunicare ai ragazzi che sanno di essere chiamati ad uscire da una situazione di passività e di mancanza di progetto per la loro vita (se si eccettua la situazione di quella minoranza che ha più consapevolmente “programmato” l’adesione a schemi criminali). La “scarsa intenzionalità” del giovane deviante è spesso all’origine delle trasgressioni, vissute come un “fare” a propria portata in luogo del ben più difficile pro-getto di vita basato su relazioni, lavoro, costruzione di sé. Ciò induce gli educatori degli istituti penali a sottolineare il difficile passaggio dal carcere alla comunità, che spinge alcuni ragazzi a preferire – paradossalmente – il ritorno nell’istituto penale, «contesto sicuramente più “comodo” in ter-mini di necessità di responsabilizzazione, e che molto spesso induce alla passività»37.

L’intervento educativo è finalizzato a vari compiti, tra cui riveste impor-tanza la transazione. L’interesse del ragazzo, il “vantaggio personale” nel re-stare in comunità e non incorrere in sanzioni si evolve nel riconoscimento dei diritti degli altri, si trasforma in un’occasione educativa attivando un processo di cambiamento al cui centro vi è il rispetto delle regole.

35 Ivi, p. 162. 36 M. Lion, M.T. Spagnoletti, Collocamento in comunità, p. 137. 37 C. De Michelis, L’esperienza di “Casal del Marmo”, in «Esperienze di giustizia mi-

norile”, 1-2, 1995, p. 155.

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Vengono qui di seguito sintetizzati – anche in base alla riflessione ope-rata da Piero Bertolini sui ragazzi difficili – alcuni elementi che possono contribuire alla riflessione sui percorsi educativi da realizzare nelle comuni-tà: centralità del soggetto, comprensione della devianza come forma di agire comunicativo, approccio idiografico anziché nomotetico, visione dei pro-blemi “dall’interno”, conoscenza dei problemi dal punto di vista del sogget-to, promozione delle capacità progettuali, recupero di intenzionalità, valo-rizzazione, flessibilità e graduazione delle richieste38.

La permanenza in comunità è un momento di un processo di rieduca-zione che vede come centrale la responsabilizzazione: l’analisi che segue in-tende individuare le possibilità di suscitare responsabilità nel contesto co-munitario, considerando la riflessione psicopedagogica in questo campo e le possibilità offerte dalle norme in vigore.

Recentemente Gaetano De Leo ha ricostruito la storia e i principi di una cultura della responsabilità nel campo del diritto minorile. La scuola classi-ca (rappresentata soprattutto da Beccaria) ha affermato una visione “mo-derna” di tutela dei diritti dell’uomo, ha messo al centro non la persona ma il suo atto, ed ha sottolineato il ruolo della responsabilità individuale. L’avvento del positivismo ha avuto invece un duplice effetto. Da una parte, la visione della devianza come “patologia” ha permesso di considerare in modo più ampio le implicazioni psicologiche di chi commette reati. D’altro canto, tale posizione ha indotto un rischio di determinismo, sia biologico (la persona “malata”, il delinquente-nato di Lombroso) sia sociale (la socie-tà “colpevole”)39.

La corrente interazionista, nelle sue varie espressioni, ha introdotto la componente del rapporto con la società circostante. L’uomo confronta le proprie esperienze in una rete di relazioni e rapporti sociali. All’interno di tale processo circolare di interazioni si costituisce la devianza. Significativa, a questo proposito, la distinzione di Lemert tra devianza primaria e secon-daria: la prima riguarda comportamenti che infrangono la norma, ma ven-gono normalizzati; la seconda comportamenti di reazione alla reazione del-la società verso la devianza primaria.Tali posizioni, esasperate nella

38 P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili. 39 G. De Leo, L’interazione deviante. Per un orientamento psico-sociologico al problema norma-devianza e criminalità, Giuffrè, Milano 1981, pp. 19-20.

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Labelling eory, hanno sottolineato l’importanza del controllo sociale e dell’etichettamento, lo stigma apposto sul deviante40.

Se la devianza viene vista non come un sintomo, ma come un processo comunicativo interattivo, muta anche l’accezione con cui va visto il concet-to di maturità e di resposabilità41. Quest’ultima va prodotta pedagogica-mente e socialmente, in quanto non è un dato, ma una funzione della socia-lizzazione: «presupporla in ogni caso e per ogni età significa costruirla socialmente e individualmente, come norma implicita, come regola di base, come aspettativa diffusa, come atteggiamento e capacità sul piano psicolo-gico»42.

La responsabilità non va considerata solo sul piano cognitivo, ma so-prattutto sotto il profilo del giudizio morale e va valutata, oltre che sul pia-no intrapsichico, «con riferimento specifico alle azioni concrete e conte-stualizzate messe in atto dall’individuo»43. Sul piano pedagogico ne risulta che la deresponsabilizzazione di soggetti sociali deboli (sia pure con l’intento di evitare misure punitive, «rappresenta per lo più uno degli sno-di cruciali attraverso il quale aumenta la possibilità che si rafforzi il circolo vizioso tra a) meno richieste di responsabilità b) riduzione/confusione nel-le aspettative sociali normative e istituzionali c) cronicizzazione nella mar-ginalità e nella devianza d) ancor meno richieste di responsabilità e così via di seguito»44.

Già ai primi del secolo F.H. Foerster aveva affrontato il nodo pedagogi-co costituito dalla coscienza del reato commesso associata alla considera-zione per la situazione specifica di ogni persona, concludendo che «la pe-dagogia ha altrettanto bisogno del principio oggettivo d’immutabili norme, quanto dell’amoroso addentrarsi nel caso concreto e nella sua storia tutta individuale»45. L’ordinamento oggettivo delle regole della convivenza civi-le, infatti, ha per Foerster un valore educativo, in quanto pone la coscienza

40 Ibidem. 41 Ivi, p. 8; sul tema della responsabilità cfr. anche G. Ponti (a cura di), Giovani, respon-

sabilità e giustizia, Giuffrè, Milano 1985; G. Vico, Educazione e devianza, La Scuola, Bre-scia 1988.

42 G. De Leo, L’interazione deviante, p. 19. 43 G. De Leo, Psicologia della responsabilità, Laterza, Bari 1996, p. 56. 44 Ivi, p. 100. 45 F.W. Foerster, Colpa ed espiazione. Alcune fondamentali questioni psicologiche e peda-

gogiche sul problema della delinquenza e della cura della gioventù, Sten, Torino 1912, p. 33.

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individuale a confronto con la società esterna e le sue norme. Di conse-guenza, la proposta del pedagogista tedesco è in linea con le proposte più attuali in tema di delinquenza giovanile: “prendere sul serio” il reato, pur cercando di evitare la soluzione del carcere. Nelle parole di Foerster si sente l’eco del dibattito che ha attraversato il nostro secolo tra concezione della colpa individuale e colpa sociale e la necessità di esigere un’assunzione di responsabilità dai giovani che hanno commesso reati, senza imporre d’altra parte le conseguenze più negative della carcerazione.

Sia le norme del DPR 448/88, sia i più recenti orientamenti degli studi e delle ricerche hanno assunto una visione che si può qualificare come peda-gogica, in quanto comporta un processo dinamico, di cambiamento e di promozione verso l’assunzione di responsabilità attraverso sollecitazioni degli adulti e della società46. L’incontro con la giustizia è un momento chia-ve per l’adolescente in fase di maturazione, poiché è l’incontro con ciò che è proibito in un ordine normativo e morale super-individuale e valido per tutti. Tuttavia le norme della giustizia minorile, affermato il principio della responsabilità del minore, operano in direzione educativa. Pena e educa-zione non vanno mescolate. Con la prima i minorenni si confrontano con le conseguenze materiali della violazione del proibito; la seconda – in que-sto caso attuata nelle comunità – consiste nelle parole con cui gli adulti spiegano la violazione, la colpa e la pena ai giovani, aiutandoli ad elaborare la nozione di responsabilità, diritto e dovere47.

Nella stessa direzione vanno le interpretazioni e le applicazioni delle norme del processo che prevedono la messa alla prova dei minorenni che abbiano commesso un reato. Il giudice, accertata la colpevolezza del mino-renne e sentiti i servizi sociali, può disporre la sospensione del processo per un periodo variabile (fino a tre anni per i reati più gravi e non più di un an-no negli altri casi) allo scopo di valutare la sua personalità. È chiaro che questa scelta vede la trasgressione come «atto comunicativo di carattere si-stemico, relazionale ed interattivo. In quest’ottica l’atto-reato può aver avu-to senso in un determinato contesto spazio-temporale e perciò può rivelarsi transitorio e, quindi, non indicativo di una scelta deviante definitiva»48.

46 A.C. Moro, Il bambino è un cittadino, p. 264. 47 Su questa problematica si veda anche M. Vaillant, “Adolescence, violences et justi-

ce”, in C. Rey (a cura di), Les adolescents face à la violence, Syros, Paris 1997, pp. 112-123. 48 L. Milani, Devianza minorile, p. 304.

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Da qui la messa alla prova che, oltre a evitare il carcere, ha lo scopo di superare il rischio di passività del ragazzo e di coinvolgerlo nel progetto di recupero. Esso può consistere semplicemente nel reinserimento nel proprio contesto sociale e nel mantenimento di impegni quali lo studio e il lavoro, oppure in progetti di attività socialmente utili (ad esempio di volontariato), o ancora nella permanenza in una comunità (nel caso di tossicodipendenti nella comunità terapeutica). La maggior parte delle esperienze di messa alla prova attuate finora in Italia ha avuto esito positivo; si rileva però una dif-fusione molto diversa a seconda dei territori, e cioè degli orientamenti dei singoli Tribunali per i Minorenni. I progetti rivelano ancora poca concre-tezza o scarsa creatività, in quanto si limitano nella maggior parte dei casi al reinserimento “vigilato” nel contesto di vita.

L’attuazione dell’art. 28 sulla messa alla prova può trovare un’applicazione specifica quando si traduca in un progetto di permanenza in comunità, non come «allontanamento dalla sua realtà e restrizione ob-bligata, ma come prospettiva di inserimento in una struttura aperta con ampi spazi di collegamento con l’esterno e con un progetto di attività allet-tanti ed utili per la propria crescita»49. Occorre naturalmente predisporre un contratto differenziato con i diversi ragazzi all’interno di una solida progettualità50.

I collegamenti della comunità con l’esterno divengono quindi indispen-sabili nell’ottica di un progetto che fa perno sulla loro responsabilizzazione attiva. Il ragazzo, infatti, può allontanarsi dalla comunità solo su autorizza-zione del giudice per esigenze di studio, lavoro o attività utili alla sua educa-zione. Per evitare che i ragazzi restino chiusi in comunità, con il risultato di una mera “privatizzazione” del sistema carcerario, occorre che ci siano le-gami con centri, risorse, aggregazioni, iniziative che si possano frequentare. In caso contrario, come è stato notato, «se all’esterno non c’è nulla, il ra-gazzo rimane chiuso in una comunità-carcere» e lo stesso concetto di re-sponsabilità risulta limitato all’adesione alle regole interne della struttura51.

49 M. Lion, M.T. Spagnoletti, Collocamento in comunità, p. 138; A. Faramo, I giovani

nel circuito penale minorile in comunità: una riflessione del Centro per la Giustizia Minorile di Roma, in “Esperienze di giustizia minorile”, 1-2, 1995, p. 146.

50 G. De Leo, Il collocamento in comunità degli adolescenti nel processo penale minorile, p. 162.

51 A. Faramo, I giovani nel circuito penale minorile in comunità, p. 145.

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Tutte le energie comunitarie devono essere spese per il recupero dei ragazzi e per la prevenzione, vincendo la sfida della collaborazione tra i servizi, la scuola, la famiglia, le associazioni52.

Un altro aspetto del compito di promozione della responsabilità riguar-da la conciliazione e riparazione. Nel sistema giuridico anglosassone esisto-no forme di probation (sottoporre l’imputato ad una serie di prescrizioni) e di mediation (mancato promuovimento dell’azione penale e ricerca di un accordo tra imputato e parte lesa nel corso di un’udienza informale). In Ita-lia la forma più completa in questo senso è espressa proprio dall’art. 28 del DPR 448 di cui si è finora parlato, che prevede che il giudice può «imparti-re prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato».

Secondo Bouchard, la «riparazione delle conseguenze fisiche e morali del reato attraverso l’opera, le parole, i gesti del colpevole appare oggi la vera frontiera su cui rifondare la giustizia penale, non solo minorile». Questa tendenza mira a ridare importanza alla vittima – verso la quale in particola-re la giustizia minorile sente di avere un debito – senza per questo tornare ad una volontà punitiva verso i minori53. Secondo alcuni, il modello ripara-tivo costituisce l’evoluzione più recente del diritto minorile, dopo quello retributivo e riabilitativo54. Infatti, la giustizia “giusta” è quella che riesce a differenziarsi il più possibile dalla violenza che deve impedire, evitando di riprodurre il circolo vizioso della vendetta55. La conciliazione e la riparazio-ne interpretano questo nuovo orizzonte del diritto, rappresentando «mo-delli relazionali ed umani socialmente più costruttivi rispetto all’uso della forza, dell’odio e della vendetta»56.

52 A.C. Moro, Il bambino è un cittadino, p. 273. 53 M. Bouchard, Dove va la delinquenza dei giovani, dove va la giustizia minorile?, in

«Minori giustizia», 4, 1994, pp. 10-18. 54 Sull’evoluzione della giustizia verso forme di riparazione e mediazione si veda U.

Gatti, M.I. Marugo, “La vittima e la giustizia riparativa”, in G. Pomi (a cura di) Tutela del-la vittima e mediazione penale, Giuffrè, Milano 1995, p. 93; G. De Leo, Psicologia della re-sponsabilità, p. 133.

55 Sul tema del diritto contro la vendetta, si veda E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Laterza, Bari 1992.

56 U. Gatti, M.I. Marugo, “La vittima e la giustizia riparativa”, in G.Ponti (a cura di), Tutela della vittima e mediazione penale, p. 109.

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Il risarcimento e la riparazione verso l’offeso mettono in evidenza come la vittima di un reato non sia la società o lo Stato, ma un’altra persona, con-siderata nella sua realtà, nella sua debolezza e nei danni che ha subito57. La conciliazione appare di conseguenza non una forma “primitiva” di giustizia attuata da società semplici, prive di autorità centrale come lo Stato, ma co-me una possibilità da sviluppare, mirante a restituire il processo ai protago-nisti: la vittima e 1’autore del reato. Ciò permette alla vittima di attenuare la tensione derivata dal danno subito e rassicurarsi sul futuro58; per quanto riguarda l’offensore, soprattutto nel caso sia un minorenne, i vantaggi di ti-po psicopedagogico sono stati individuati nel favorire la presa di coscienza, il senso di responsabilità ed il senso di appartenenza alla comunità59.

Il confronto faccia a faccia, indubbiamente, mette la persona di fronte ad una vittima concreta, che ha subito un danno, facilitando la riduzione di stereotipi e la presa di coscienza. Per realizzare tale incontro è necessaria una mediazione, ovvero l’intervento di un terzo (preferibilmente un esper-to, educatore o assistente sociale). Sono in corso varie sperimentazioni in-torno all’azione mediatrice, alla sua applicazione nel campo del diritto mi-norile, alla formazione degli esperti. Tuttavia occorre un maggiore approfondimento della valenza educativa della mediazione nei confronti della devianza minorile.

La conciliazione presuppone l’incontro e il dialogo. La parola possiede sempre un valore umano fondamentale, soprattutto nel caso di minori tra-sgressori abituati al silenzio, con difficoltà di relazione, che spesso non con-siderano le conseguenze delle loro azioni. I termini con cui viene descritta la funzione mediativa, però, in molti casi alludono ad un conflitto nel quale le parti contendono “alla pari” e devono trovare un accordo su una deter-minata contesa. In realtà, nella maggior parte dei casi, i reati che vedono protagonisti i minori sono commessi ai danni di vittime che in nessun mo-do possono essere considerate aggressive o provocatrici, né gli stessi reati possono essere visti come aspetti di un’interrelazione concreta. Un reato non è un conflitto in cui ambedue le parti sono responsabili, come nel caso

57 M. Bouchard, Dove va la delinquenza dei giovani, p. 17 58 G. De Leo, G. Scardaccione, “Esperienze di riconciliazione vittima autore del reato e

ipotesi di applicabilità nel processo penale minorile”, in G. Ponti (cura di), Tutela della vittima e mediazione penale, pp. 151-152.

59 Ivi, p. 108.

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di guerre o di contrasti intrafamiliari. Di conseguenza la modalità educativa della conciliazione è certamente responsabilizzante. Ma occorre esercitare con molta attenzione il ruolo di mediazione senza rischiare di confondere i ruoli delle parti in causa.

In conclusione, va ribadita l’importanza di un forte investimento pro-mozionale sulla responsabilità del minore, sulla sua capacità di orientare la vita e le sue scelte. Ciò consiste anzitutto nell’imparare ad attribuirsi una colpa, e ad assumersi compiti sociali “adulti”. Soprattutto, l’educazione alla responsabilità, come si è detto, si fonda su ciò che è debole, fragile, e che si impone alla nostra coscienza. Il limite di molte teorizzazioni e progetti per la responsabilizzazione dei ragazzi devianti consiste nel limitarsi a costruire una reintegrazione nella società, ignorando il bisogno di dare un senso an-che ai propri sbagli e di essere riammessi nella comunità sociale come per-sone “utili”. Responsabilità non è solo adempiere ai propri doveri, ma ascol-tare un richiamo esterno che aiuta a comprendere se stessi. In termini etici si può dire, con Simon, che nella situazione di responsabilità io non sono immediatamente in una relazione di reciprocità con l’altro: l’alterità dell’altro è ciò che occorre imparare a riconoscere per apprendere il compi-to della responsabilità verso il mondo.

4.3. Le comunità per tossicodipendenti

Le comunità per tossicodipendenti sono state paragonate, con un’im-magine suggestiva, alle esperienze religiose del monachesimo primitivo o degli ordini mendicanti, come i francescani. Luoghi, cioè, dove si respira una ribellione nei confronti del mondo, una radicalità di atteggiamenti, una spiccata condivisione ed una spinta al rinnovamento sociale60. In effetti

60 L. Cancrini, Quei temerari sulle macchine volanti. Studio sulle terapie dei tossicomani, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1982, p. 163 ss. Sono numerose le ricerche sulle comu-nità terapeutiche in Italia. Tra queste, si veda D. Costantini, S. Mazzoni, Le comunità per tossicodipendenti, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1984; G. Bellieni, G. Gambiaso, Co-munità per tossicomani. Esperienze italiane e straniere, Franco Angeli, Milano 1985. Cfr. anche il numero monografico dedicato alle comunità del «Bollettino per le farmacodi-pendenze e l’alcoolismo», 1-2-3, gennaio-giugno 1988; Labos-Ministero dell’Interno. Di-rezione Generale dei Servizi civili, Strategie operative nei servizi per le tossicodipendenze, Edizioni Ter, Roma 1993.

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le comunità, nate da una spinta propulsiva che ha avuto origine circa trent’anni fa, hanno rappresentato qualcosa di più di una risposta a uno dei mali del secolo, la droga. Sono divenute ambiti di elaborazione di nuovi si-gnificati ed anche di cultura anticonsumista e solidale, proponendosi come alternativa alla disgregazione sociale che alimenta il disagio giovanile.

In Italia si possono distinguere tre fasi nella storia delle comunità. Nel periodo dal 1968 al 1975, esse rappresentano luoghi di cultura alternativa non ancora istituzionalizzati e quasi clandestini, in mancanza di una regola-mentazione legislativa. A partire dalla Legge 685 del 1975 le comunità co-noscono una rapida diffusione e comincia una lenta integrazione nella cul-tura sociale; infine, in una terza fase, il fenomeno droga si estende nel mondo giovanile, non riguarda più soltanto una contro-cultura di ribellio-ne al sistema sociale, ma tocca anche giovani “normali”. Di fronte alla com-plessità e alla vastità del problema, le comunità si organizzano, tendono a divenire più professionali, elaborano nuovi metodi terapeutici e educativi, venendo di pari passo legittimate e sostenute dalle istituzioni pubbliche61.

Oggi, il percorso delle comunità sembra attraversare un periodo critico. Da una parte pesa il logoramento scaturito dal conflitto più o meno aperto, anche se in via di superamento, con le strutture pubbliche non residenziali. Una sorta di concorrenzialità tra servizi territoriali pubblici e servizi di ac-coglienza del privato sociale ha impedito infatti in molti casi la crescita di un sistema integrato. Nuovi bisogni e nuovi consumi di stupefacenti hanno creato l’esigenza di approcci differenziati nell’intervento sociale. Un altro motivo di crisi risiede nel fatto che queste esperienze risentono del sospetto e delle critiche mirate ad individuare eventuali derive settarie nelle realtà collettive. In ogni caso, mentre ci si domanda se la parabola delle comunità inizia una fase discendente, va osservato che esse hanno rappresentato, in alcuni periodi, l’unica risposta alla tossicodipendenza e la sola possibilità per le famiglie in cerca di aiuto.

L’origine di tale tipo di servizio è stata individuata in alcuni modelli a-mericani ed anglosassoni nati a partire dagli anni ’30, come Synanon, fon-data nel 1958, Daytop, Phoenix House, definiti concept based, ossia basati su alcuni semplici concetti intorno alle cause di assunzione di sostanze e sulle

61 I Pinzani, Vent’anni di comunità terapeutiche, in «Animazione Sociale», 3, 1996,

pp.17-24.

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strategie per liberarsene62. Le comunità si ispirano in parte a iniziative di trattamento collettivo per alcoolisti o drogati, fondate sull’aiuto reciproco, come Alcoolisti Anonimi, fondata nel 1935; in altri casi nascono dalla tra-sformazione di strutture manicomiali in ambienti più piccoli, a misura d’uomo, dove si sperimentano nuovi tipi di rapporto tra ospiti e personale di assistenza, sul modello delle comunità psichiatriche di Maxwell Jones. Esistono quindi, in origine, due tipi di comunità: quelle nate dal basso, da gruppi di persone che si associano per un mutuo trattamento di aiuto, e le comunità nate dall’evoluzione di strutture istituzionali che divengono man mano più partecipate e coinvolgono attivamente i pazienti nella loro ge-stione63.

La definizione di comunità terapeutica deriva da queste esperienze orien-tate alla risoluzione di “patologie” come la malattia mentale o abuso di so-stanze (il termine è codificato dall’OMS nel 1953 a proposito delle struttu-re psichiatriche). In realtà la qualifica di terapeutica ha alimentato, come vedremo, una vasta discussione sulle finalità, sui metodi e sui principi di queste strutture.

Dal nostro punto di vista, occorre interrogarsi anzitutto non solo sui criteri di “terapeuticità”, ma anche sulla identità educativa di queste strut-ture. Nel contesto delle comunità per tossicodipendenti operano attual-mente numerosi educatori qualificati professionalmente, e soprattutto si tende sempre più a trasformare il ruolo degli operatori in prospettiva edu-cativa. Inoltre, molte esperienze tendono progressivamente ad utilizzare un lessico pedagogico. Va aggiunto ancora che tra le tipologie riscontrate at-traverso le ricerche emergono costantemente interventi educativi. Questi elementi permettono di qualificare anche le comunità per tossicodipenden-ti, alla pari di quelle per bambini ed adolescenti, come luoghi di educazio-ne? Può essere utile, per trattare questo problema, rifarsi alle diverse tipolo-gie utilizzate per descrivere queste realtà complesse.

Tra i primi studi degli anni ’80 troviamo la ricostruzione storica di Co-stantini e Mazzoni e l’analisi di Luigi Cancrini che distinguono tra comu-nità esplicitamente terapeutiche, aventi cioè un programma e fasi preordina-te di trattamento all’interno della struttura, e comunità implicitamente

62 M. Ravenna, “Le comunità per tossicodipendenti”, in A. Palmonari (a cura di), Co-munità di convivenza e crescita della persona, p. 118.

63 Sulla storia delle comunità cfr. L. Cancrini, Quei temerari sulle macchine volanti.

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terapeutiche, ovvero non dichiarate tali ma presentate come una scelta di vita per il tossicodipendente che entra a farne parte. Tra i fattori che evi-denziano la differenza vi sono la durata, la struttura organizzativa, il ruolo del leader e la selezione, quest’ultima attuata nel primo caso con criteri rigi-di, nel secondo operata in base alle possibilità della struttura di ammettere nuovi ospiti64.

Nel modello Daytop, invece, i criteri di terapeuticità attengono alla mo-bilità di ruoli all’interno della comunità, cioè alla mancanza di separazione gerarchica tra guaritori e malati e alla possibilità per le persone residenti di divenire responsabili a loro volta65. C’è ancora chi propone di distinguere le comunità tra “aperte” e “chiuse”, intendendo con questo ultimo termine le strutture che tendono ad isolare il soggetto dall’esterno, in cui il cammino riabilitativo sbocca nell’impegno all’interno della comunità o in un dipen-denza psicologica o affettiva verso la comunità.

C’è da osservare che i tipi di analisi finora descritti, che riguardano so-prattutto l’aspetto organizzativo e i ruoli interni, sembrano avere come cri-terio sottinteso una chiave di lettura pregiudiziale. Essa tende, nell’individuare i principi ispiratori, a denunciare la non terapeuticità delle comunità richiamando l’attenzione su due tipi di pericoli: il primo concer-ne la chiusura verso l’esterno, la rigidità dei ruoli, la gerarchizzazione, l’utilizzo di metodi impropri; il secondo la pretesa nascosta ed implicita di “normalizzazione”, cioè di adattamento ai valori dominanti della società. In realtà, come afferma Mario Cagossi, tutte le comunità sufficientemente strutturate possiedono ad un tempo componenti terapeutiche ed anti-terapeutiche. Il tentativo di classificazione in questo senso rischia di conse-guenza di ideologizzare il dibattito. Anche la funzione “normalizzatrice”, non va considerata naturalmente insita nel lavoro di comunità. Essa, nel suo significato negativo di appianamento delle tensioni e di omologazione, dipende semmai dalla mancanza di un adeguato progetto sul futuro e di una spinta alla crescita. Sembra più utile quindi, anche in questo caso, uti-lizzare una lettura interpretativa mirata a identificare le reali modalità con cui avviene il percorso evolutivo, la cultura di sfondo, i metodi usati, i profi-li degli operatori. In questa direzione si trovano diversi studi che hanno rea-

64 Ivi, pp. 171-172. 65 M. Ravenna, “Le comunità per tossicodipendenti”, in A. Palmonari (a cura di), Co-

munità di convivenza e crescita della persona, p. 130.

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lizzato una certa convergenza. Bellieni e Cambiaso, ad esempio, identifica-no tre gruppi di comunità: comunità di vita che puntano alla condivisione di valori, comunità dove è preminente l’uso di psicoterapia e comunità fon-date sul lavoro. Anche la ricerca di Cagossi individua tre tipi: comunità te-rapeutiche fondate sulla pratica della psicoterapia, comunità di accoglienza, «che offrono un gruppo contenitore non espulsivo, tollerante, dalle rela-zioni dirette e solidali» e comunità di vita, fondate sul lavoro e sulla dimen-sione di responsabilità che questo comporta. In ogni caso le comunità di-vergono secondo Cagossi – soprattutto per il loro punto di applicazione, dando preminenza ora alla sofferenza individuale, ora alle relazioni intra-gruppo, ora alle problematiche familiari, ora alla socializzazione66.

Nella stessa direzione, in una recente ricerca del Labos condotta su 508 realtà residenziali italiane, è stata proposta una classificazione di tipo fun-zionale, basata sulla predominanza di alcune attività sulle altre. Le comuni-tà potrebbero essere raggruppate secondo tre strategie operative: la strategia operativa di base, la più diffusa, che consiste nella ricerca di «armonia nel gruppo di comunità» e di «maggiore equilibrio relazionale» e tende a svi-luppare la responsabilità; la strategia centrata sul lavoro che tende a valoriz-zare elementi educativi quali la responsabilità e la partecipazione all’organizzazione; infine la strategia orientata all’intervento terapeutico, ca-ratterizzata dalla brevità dell’esperienza, dall’altra selettività e dalla profes-sionalità degli operatori67.

La ricerca Labos aggiunge però altre combinazioni di variabili: un ele-mento chiave di distinzione è, secondo i ricercatori, il rapporto tra numero degli operatori e numero dei residenti. In proporzione, le comunità che at-tuano una strategia operativa di base hanno un minore numero di operatori rispetto a quelle orientate all’intervento psicoterapeutico68.

Per Kaneklin, le differenze risiedono invece all’interno delle modalità utilizzate nella interrelazione. In un caso si avrà un orientamento di tipo comportamentista, basato sull’induzione di nuove scelte, antitetiche a quelle dettate dalla dipendenza dai farmaci; qui rinforzi e sostegni esterni, espressi

66 M. Cagossi, Comunità terapeutiche e non, Borla, Roma 1988, pp. 210-211. 67 Labos-Ministero Dell’Interno, Direzione Generale Dei Servizi Civili, Le comunità

per tossicodipendenti. Storia, modelli, stress lavorativo, Edizioni T. E. R., Roma 1994, pp. 98-108.

68 Ivi, p. 101.

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attraverso la approvazione/riprovazione del gruppo, contribuiscono ad in-fluenzare i comportamenti del singolo. Altre comunità, secondo Kaneklin, utilizzano il modello dello sbloccare-nutrire, ovvero condurre la persona a riattivare energie interne; infine c’è il modello della autocomprensione che punta sul ruolo centrale della psicoterapia69.

Molteplici sono poi le letture della tossicodipendenza, che influenzano i vari modelli di comunità: la persona viene vista ora come soggetto in cresci-ta, che deve divenire adulto, ora come membro di una società malata che esprime il suo disagio di vivere, ora come una persona che soffre di disturbi della personalità.

Nella ricerca Labos i modelli di uomo/donna a cui pervenire sono sei: la persona riflessiva, razionale e matura; la persona armonicamente integrata nella famiglia; l’uomo libero dai condizionamenti sociali; il modello dell’Es-sere-al-mondo, cioè di chi progetta la propria vita secondo tappe sempre più alte; l’uomo del disincanto, che si apre alla rivelazione del mondo; ed infine, un ultimo modello vede come punto di partenza l’uomo affetto da patologie e angosce della psiche70.

Ancora più vari sono i profili antropologici delle comunità. Numerose congregazioni religiose hanno attualizzato la loro proposta pedagogica e le caratteristiche della loro vocazione mettendosi al servizio di quella forma di nuova povertà che è costituita dalla tossicodipendenza. In vari casi sono state le personalità carismatiche di responsabili, dotati di grande energia e capacità organizzativa, a costruire strutture di accoglienza. Altre comunità nascono da esperienze alternative ispirate a culture o filosofie orientali e mettono al centro del processo di riabilitazione la trasformazione interiore e spirituale.

Se si guardano le comunità in base all’evoluzione, vi sono invece comu-nità storiche e nuove realtà. Le prime, caratterizzate dal fatto di costituirsi in grandi sistemi di famiglie, si moltiplicano con grande rapidità. In alcuni casi il modello parte dal centro ed è ripetuto nelle varie sedi periferiche; in altri si assiste ad una forma “federalista” in cui le varie comunità sono auto-nome ed aggregate secondo principi di rappresentanza.

69 C. Kaneklin, C. D’Ambrosio, F. Olivetti, A. Orsenigo, Tipologie delle comunità tera-

peutiche per tossicodipendenti, Atti del I Congresso, Sottoprogetto CNR Tossicodipendenze, Firenze 1985.

70 Labos-Ministero Dell’Interno, Le comunità per tossicodipendenti, pp. 18-20.

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In ogni caso il lavoro della comunità è stato definito «una sorta di tera-pia del mondo» in quanto «si applica alle modalità complesse di entrare in relazione, ai processi per attribuire un senso, all’esercizio delle forme più adeguate in rapporto a controllate esperienze vitali»71. In questo senso, per rispondere alla domanda iniziale, si può affermare che le comunità si occu-pano del rapporto della persona con se stessa e con il mondo circostante: hanno, dunque, un compito globalmente educativo. L’intervento educativo non è una parte del loro lavoro, né caratterizza alcune comunità al contra-rio di altre, ma costituisce l’elemento centrale, anche se implicito, di tutte le realtà che si occupano di tossicodipendenti. Nella misura in cui la droga non è un nemico astratto da combattere o una malattia da guarire, ma è la risposta deviata ad un complessivo malessere che investe la capacità di dare senso alla vita, la funzione educativa resta centrale – pur se non riconosciu-ta – anche nelle realtà più strettamente orientate verso la psicoterapia.

La capacità di una comunità di essere educativa e di rispondere ai biso-gni delle persone senza manipolazioni indebite risiede infatti, a nostro pa-rere, nell’equilibrio tra lo spazio lasciato all’esperienza di vita quotidiana nella comunità e quello dedicato alla rielaborazione di tale esperienza. I due aspetti devono rientrare in una circolarità di comprensione e di interpreta-zione. La riflessione, gli incontri di gruppo, i colloqui di psicoterapia devo-no mirare alla rielaborazione dell’esperienza quotidiana, della storia della persona, dei suoi comportamenti, senza costituire un “mondo a parte”. Vi-ceversa, una comunità immersa nell’esperienza, incapace di riflessività, ri-schia di lasciare irrisolti i nodi educativi. Il diverso equilibrio e mixage tra diversi elementi (lavoro, attività, incontri, psicoterapia) dà luogo a diverse formule; tuttavia è il processo di comprensione della vita delle persone e della loro storia, di interpretazione della vita quotidiana e di progettazione del futuro che deve restare al centro.

La comunità come contesto educativo si caratterizza per alcuni elementi fondamentali, tra cui la presenza di adulti capaci di sostenere e aiutare una profonda trasformazione sul piano umano, che comporta una revisione del-le proprie modalità di vita, abitudini, scelte. Ne consegue che la formazione degli educatori, più che la struttura organizzativa, rappresenta di fatto il problema centrale di queste realtà collettive. Tra le funzioni propriamente

71 M. Cagossi, Comunità terapeutiche e non, p. 215.

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educative vi sono colloqui di accoglienza, selezione delle entrate, accompa-gnamento, lavoro con le famiglie, organizzazione del lavoro interno, ani-mazione sociale, formazione, inserimento lavorativo, valutazione dei risul-tati, ed altro ancora.

Le competenze da acquisire per svolgere queste responsabilità sono però di nuovo tipo ed è ancora poco sviluppata una tradizione formativa. In primo luogo, infatti, si tratta di un’educazione sociale rivolta agli adulti, che non riguarda l’apprendimento o le attività parascolastiche: un settore in cui la tradizione pedagogica è meno sviluppata rispetto a quella che si occupa dei minori o, nel campo degli adulti stessi, dell’alfabetizzazione. Inoltre, è lo stesso fenomeno droga, con tutte le sue implicazioni socioculturali, a costi-tuire il terzo elemento, imprevedibile e inquietante, nella relazione tra due persone o tra la persona e il gruppo. Infine, la struttura complessa della co-munità obbliga a elaborare strategie diffuse diverse da quelle tradizionali e non sempre riducibili al rapporto personale.

Gli educatori delle comunità sono consapevoli di questa originalità e del carattere di sperimentazione del loro lavoro. Non a caso esso viene descritto negli stessi termini con cui si cerca di definire il lavoro educativo in campo sociale: un compito difficile, rischioso, da inventare, senza modelli solidi a cui attingere, elaborato in situazione72. Va sottolineato soprattutto l’elemento di complessità, non semplificabile, nel quale l’educatore si trova immerso. Il tossicodipendente presenta problemi legati al suo contesto di origine e alla sua storia familiare; spesso è portatore di elementi e significati inerenti ad una specifica cultura, legata all’assunzione di sostanze, alla socia-lizzazione con altri tossicodipendenti e così via. A questi bisogni l’educatore deve rispondere con un intervento di elevato valore simbolico che incida sull’immagine di sé dell’altro e con una elaborazione di nuovi si-gnificati sociali73. Si tratta della «valenza simbolica dell’agito che si con-fronta nel sistema organizzativo»74.

72 Ivi, pp. 200-201. 73 G. Scaratti, “Spunti per la definizione dello specifico educativo dell’educatore pro-

fessionale nei servizi per la tossicodipendenza”, in M.A. Groppo, G. Scaratti, M. Tomisich (a cura di), L’educatore professionale nei servizi per la tossicodipendenza, Franco Angeli, Mi-lano 1993, p. 135.

74 R. Carli, “Le comunità residenziali come strutture simboliche”, in C. Kaneklin, A. Orsenigo, Il lavoro di comunità, p. 76.

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Se il ruolo degli educatori resta centrale, la peculiarità della comunità per tossicodipendenti risiede nel costituire un ambiente terapeutico nei termini di cui si è già parlato, ovvero un quadro solido di riferimento. La comunità, infatti, si costituisce principalmente come una barriera rispetto all’abuso incontrollato di sostanze, introducendo il tossicodipendente in una cornice di norme e di regole. Essa si concepisce come un luogo dentro la società ma isolata da essa, una piccola-grande società che presenta la spe-cifica caratteristica del contenimento.

Scrive Groppo: «Per ogni adulto vivere il proprio limite, averne co-scienza ed accettarlo, significa costruire realisticamente la propria identità e porre le condizioni per una crescita personale, capace di realizzare una rela-zione educativa adeguata. La relazione educativa con il tossicodipendente pone problemi ulteriori, proprio perché non è soltanto sufficiente una ca-pacità di controllo delle norme stabilite, che porti il soggetto a sperimenta-re la propria autonomia, ma è necessario anche che la figura significativa dell’educatore sia in grado di contenere le spinte aggressive e i bisogni emo-tivi incontrollati, che possono emergere in ogni momento»75.

La relazione è il luogo del limite: tuttavia essa è, a sua volta, inserita den-tro il contesto della comunità. Il contenimento di spinte aggressive e auto-distruttive avviene anche attraverso repressione simbolica dei segni e delle strategie messe in atto: il linguaggio verbale e non verbale, il lavoro, la di-stanza dalla vita quotidiana fatta di riti ripetitivi e ricerca compulsiva di soddisfazione, l’attribuzione di responsabilità, l’inserimento nell’organizzazione sociale. Accanto a questa posizione di equilibrio tro-viamo invece due estremi: un’immagine di comunità come contenitore fisi-co, che costituisce protezione attraverso l’isolalnento, la reclusione, la coer-cizione; e quella che fa soltanto da cornice di accoglienza di un contenimento tutto giocato nella terapia.

Oltre alle regole interne della comunità anche quelle esterne costitui-scono un contenimento. Il tossicodipendente, infatti, è sottoposto alle norme attuali che regolano l’assunzione di sostanze stupefacenti, una legi-slazione definita “debole” in quanto oscillante tra la punibilità e la impuni-

75 M. Groppo, “La coscienza del limite come fondamento per la costruzione del sé”, M.

Groppo, G. Scaratti, M. Tomisich (a cura di), L’educatore professionale nei servizi per la tossicodipendenza, p. 54.

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bilità dei detentori di droghe per uso personale76. In molti casi il trattamen-to in comunità viene scelto per evitare le sanzioni previste. In questo caso cura e controllo sociale vengono a coincidere, con tutta l’ambiguità che ne consegue. Spetta agli educatori muoversi tra l’intervento della comunità in quanto esecutrice di sanzioni e la sollecitazione verso la libertà della perso-na77.

Negli studi sull’argomento viene costantemente sottolineato che la co-munità è un contesto fittizio, un luogo di prova. In effetti, queste microso-cietà autosufficienti dove si dorme, si mangia, si lavora, si parla, si trascorre insomma un periodo della propria vita, sembrano isole al riparo dai pro-blemi del mondo reale. Alcune caratteristiche le rendono di fatto diverse: l’isolamento dalla strada, dall’esterno; la protezione economica, che per-mette di sopravvivere anche se non si lavora; la solidarietà e la condivisione, così diverse dal contesto esterno che il tossicodipendente ha conosciuto, mondo di violenza o di legami funzionali solo alla ricerca della droga. An-cora, sono diversi dal mondo circostante i ritmi di vita disciplinati e collet-tivi, le norme uguali per tutti, le separazioni dei sessi, le limitazioni alle usci-te ed ai contatti con l’esterno.

Tutto concorre a pensare che sia un ambiente artificiale in cui si svilup-pano esperienze positive, generalmente diverse da quelle sperimentate nell’ambiente familiare e sociale di origine. In questo senso le comunità non hanno un metodo ma sono esse stesse un metodo nella misura in cui la vita comune, con le sue caratteristiche terapeutiche, agisce in senso educati-vo su persone dalla vita disgregata.

Più propriamente, allora, occorre dire che la comunità, pur agendo come se fosse il mondo o la società, o la famiglia, e pur senza esserlo, rappresenta comunque una realtà e non una finzione. È una «struttura intermedia sot-to ogni punto di vista, ma tale che possiede gli stessi marchi della realtà pur conservando i caratteri del gioco e dell’immaginario»78. Esercita una fun-zione transizionale, ma le esperienze di solidarietà, controllo di sé, apertura

76 M. Campedelli, Tossicodipendenza: per non essere indifferenti davanti ad un’allusione,

in «Animazione Sociale», 6-7, giugno 1994, p. 21. 77 C.M. Mozzanica, “I Servizi per la tossicodipendenza nella nuova normativa:

l’educatore professionale nei Sert”, in M. Groppo, G. Scaratti, M. Tomosich (a cura di), L’educatore professionale nei servizi per la tossicodipendenza, pp. 91-113.

78 M. Cagossi, Comunità terapeutiche e non, p. 235.

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agli altri, costruzione di significati sono vere e non inventate. Certo, per un tossicodipendente in un ambiente protetto è più facile che all’esterno evita-re l’assunzione di sostanze che fanno da “stampella” alla sua fragilità, inter-rogarsi su di sé con l’aiuto di altri, lavorare senza frustrazioni. Tuttavia il significato positivo che accompagna tali esperienze rimane vero in quanto dimostra di essere possibile, fruibile anche da chi non l’aveva mai provato.

Di conseguenza, il contesto della comunità rappresenta una metafora dell’educazione, sospesa tra il gioco e la realtà. Sono artificiali gli strumenti adottati, ma reali le esperienze che vi si fanno, tanto da poter essere ripetute all’uscita nel mondo esterno. La solidarietà incontrata dentro non è irripe-tibile, in quanto allude a quella che ognuno può costruire di sua iniziativa o con l’aiuto di altri, fuori. Per questo le comunità sono contesti globalmente educativi, in cui si sperimenta una nuova forma di dipendenza affettiva ne-cessaria per vivere legami diversi da quello con le droghe. L’esperienza di fragilità e bisogno di aiuto resta paradigmatica nella vita di una persona che diviene adulta, mentre è proprio la negazione del limite e della dipendenza a far restare adolescenti. Chi educa sa che «una lezione da imparare nella comunità terapeutica è quella che è normale e naturale aver bisogno degli altri. Il successo non è un’indipendenza staccata e progressivamente isolata e isolante, ma piuttosto una rete di contatti e di amici a cui contribuire e da cui essere sostenuti. Il mito dell’indipendenza, visto come legittimo obietti-vo per coloro che lasciano le comunità terapeutiche, deve essere messo in discussione e visto in prospettiva»79. Scrive ancora C. Olievenstein, uno psichiatra tra i precursori degli interventi sulla tossicodipendenza e fonda-tore del Centro Marmottan a Parigi: «Per noi, si tratta di sostituire in colui che si droga una “marmottandipendenza” alla sua tossicodipendenza, di immergerlo in un rapporto in qualche modo simile a quello del bambino con la propria madre. Credo che questo stadio fusionale sia tanto più indi-spensabile in quanto questi giovani, nel complesso, vivono un’adolescenza prolungata e, molto spesso, sono fermi a un momento molto arcaico del lo-ro sviluppo affettivo». E dopo aver ribadito che niente è possibile senza una «relazione di coppia» con il tossicodipendente, aggiunge che man mano bisogna far attenuare fino a scomparire questa dipendenza, creando

79 M. Cagossi, Comunità terapeutiche e non, p. 235.

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un’autonomia interiore. «L’avventura d’amore» costituita da Marmottan o da ogni comunità si deve scegliere e lasciare in piena responsabilità80.

Se prevale l’ipotesi secondo la quale le comunità sono una sorta di para-diso in terra, organizzate secondo le leggi del paese di utopia, allora non è priva di fondamento l’idea che non siano altro che una forma di istituzione totalitaria e che ad esse sia sempre preferibile la permanenza nel proprio ambiente, anche se patogeno. Ma può essere altrettanto fondata la posizio-ne di chi sostiene che esse siano produttrici di cultura alternativa, anticipa-trici di forme di convivenza più solidale rispetto alla disgregazione delle no-stre società.

Con questo non si vuole affermare il primato delle comunità sulle altre forme di intervento come i servizi non residenziali. Nuove iniziative di in-contro con i bisogni sociali, come i servizi a bassa soglia, di cui si parlerà più avanti, rappresentano altrettanti modi di affrontare problematiche così complesse. Va aggiunto che possibili fallimenti nella storia di persone che hanno usufruito di servizi residenziali o non residenziali possono essere in-quadrati e letti in altra chiave e cioè come parte di un lavoro integrato81.

Uno dei problemi centrali nella vita delle comunità è quello della valu-tazione dei risultati conseguiti. Quando si può affermare che un periodo di vita in comunità abbia dato esiti positivi? La prima risposta è naturalmente legata alla remissione nell’uso delle droghe. Gli studi più recenti indicano in almeno tre o cinque anni il periodo di astinenza necessario per poter consi-derare positivo l’esito82.

In realtà l’estrema differenziazione tra le storie personali e i percorsi di vita rendono molto difficili queste prognosi. Le ricerche sulle carriere dro-gastiche e sulla durata dell’assunzione di droga mostrano una certa concor-danza nell’indicare le fasi del processo di addiction (sperimentazione, adat-tamento, abuso compulsivo e stabile) e quelle di deaddiction (ambivalenza,

80 C. Olievenstein C., Non esistono drogati felici (trad. dal francese), Elle Di Ci, Torino

1987, pp. 190-192. 81 Sull’integrazione tra servizi, cfr. C.M. Mozzanica, R. Granata, C. Castelli, Disagio

giovanile negli itinerari della community care, Franco Angeli, Milano 1997; R.C. Gatti, Lavorare con i tossicodipendenti. Manuale per gli operatori del servizio pubblico, Franco An-geli, Milano 1994.

82 M. Clerici, Tossicodipendenza e psicopatologia. Implicazioni diagnostiche e valutazione degli interventi terapeutici, F. Angeli, Milano 1993, p. 49.

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trattamento e cura, emancipazione). Sono però altresì d’accordo nel dichia-rare impossibile una lettura unitaria della carriera di un tossicodipendente, scegliendo piuttosto per un approccio idiografico83.

A partire dalla difficoltà nella valutazione di realtà così complesse, si è affrontata la problematica della produttività delle comunità, cioè il numero di persone che hanno dimesso l’assunzione di droghe e realizzata una vita autonoma, lavoro e stabilità affettiva. Alcune comunità si sono dotate di sistemi di verifica, ancora incompleti, da cui risultano vari elementi da con-siderare. In primo luogo l’indice di efficacia è correlato in maggior misura con il completamento del programma di trattamento. L’interruzione anti-cipata corrisponde nella maggior parte dei casi ad una ricaduta. Il livello di queste ultime è d’altronde molto alto, considerando che il 60% delle perso-ne a carico hanno già passato un periodo di tempo nella stessa o in altre comunità. I drop out che interrompono la permanenza in comunità sono più esposti all’insuccesso nel tentativo di disintossicazione rispetto ai gra-duates (coloro che completano il programma). Riassumendo gli elementi più significativi nelle ricerche attuali, Clerici afferma che essi sono costituiti dai parametri «tempo trascorso in trattamento» e «tipo di conclusione» (concordata o meno coi curanti)84.

Altri studi si orientano verso criteri di tipo qualitativo. Viene così messa in secondo piano l’astinenza dalle sostanze, cui si dà un valore sintomatico, in quanto costituisce la condizione ed il prerequisito per l’entrata in comu-nità, e considerato preferibilmente il risultato che innesca un cambiamento ed una trasformazione nello stile di vita, nella percezione di sé e del mondo circostante. In realtà ancora oggi gli studi in materia hanno uno scarso valo-re predittivo, e resta molto difficile delineare un profilo di tossicodipenden-te da correlare a un certo tipo di servizio (comunità, terapia ambulatoriale, etc.).

Gli ultimi follow up italiani hanno considerato i cambiamenti nei rap-porti con la famiglia, nello stile di vita, nell’assunzione di responsabilità85. Un aspetto interessante di questo tipo di studi è rappresentato dalla valuta-

83 A. Ciocca, Fuori dalla droga. Dati e riflessioni sul processo di emancipazione, Teda E-

dizioni, Castrovillari 1993, in particolare p. 14 e p. 30. 84 M. Clerici, Tossicodipendenza e psicopatologia, p. 50. 85 Si fa riferimento ad un lavoro di ricerca sul follow up, cioè sulle persone uscite dalla

comunità Exodus di Milano, effettuato nel 1994.

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zione soggettiva espressa dalle persone uscite nei confronti dell’esperienza fatta in comunità. Tra gli elementi più positivi considerati nel periodo tra-scorso in comunità vi sono al primo posto amicizia con gli altri, i momenti di incontro e di dialogo, ed al secondo le attività svolte ed il contatto con la natura. I ragazzi che hanno vissuto una parte della loro vita in comunità imputano quasi soltanto a se stessi le occasioni perse o gli insuccessi; mentre rimproverano alla comunità la mancanza di contatti successivi all’uscita o di aiuto nel reinserimento. Questo mostra lo sforzo ancora da fare per non isolare il lavoro di tali realtà, bensì collegarlo con l’esterno, rendendo possi-bile la fruizione di maggiori risorse sociali. Solo l’aiuto da parte di tutta la società permetterà alle comunità di rappresentare non il paese di utopia, ma luoghi di un passaggio educativo essenziale, anche se transitorio, nella vita delle persone in difficoltà.

4.4. Case di riposo, istituti, residenze sanitarie assistenziali

Le comunità per minori, persone con handicap o problemi psichici, so-no nate da un movimento sociale e culturale che ha spinto in direzione del-la chiusura dei grandi istituti di ricovero, spersonalizzanti e offensivi della dignità della persona. Il movimento di difesa dei loro diritti non si è oggi esaurito; anzi, sempre più nella cultura corrente si afferma la convinzione che, pur attraverso un lungo processo, si debba andare verso la completa reintegrazione sociale e familiare della persona istituzionalizzata. Nel caso degli anziani ciò non è del tutto avvenuto. La loro istituzionalizzazione viene considerata un fatto inevitabile, legato allo sviluppo economico ed ai mutamenti nella fisionomia della popolazione occidentale: abitazioni più piccole, famiglie meno numerose, lavoro delle donne.

In realtà, come ormai molti affermano, la dipendenza degli anziani non è l’esito ineludibile dell’invecchiamento del corpo e della mente, ma è il frutto di politiche sociali che omettono di investire in direzioni diverse, come la permanenza a domicilio, o l’integrazione tra servizi sociosanitari86.

86 P. Townsend, “La dipendenza strutturata degli anziani: creazione della politica so-

ciale nel XX secolo”, in D. Giori (a cura di), Vecchiaia e società, il Mulino, Bologna 1984 pp. 117-141. Per uno sguardo generale sulla condizione anziana, si veda S. De Beauvoir, La terza età, Einaudi, Torino 1971.

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Di conseguenza le strutture residenziali non costituiscono, nella mentalità comune, qualcosa che deve essere superato nel tempo, ma al contrario un fenomeno destinato a crescere con lo sviluppo della società industriale e dell’urbanizzazione e con l’evoluzione della famiglia. Ciò spiega, almeno in parte, perché sia così raro un movimento di opinione che affronti la realtà degli anziani ricoverati, o perché manchi una reazione più decisa e diffusa agli abusi di cui spesso si apprende dalla stampa, perpetrati nei confronti di anziani all’interno di case di riposo o cronicari.

Il mondo degli istituti è nascosto agli occhi della popolazione attiva, a causa della separazione fisica delle strutture (spesso collocate in periferia, o poco evidenti) e del silenzio che le circonda. Quando si parla di anziani, si parla di problemi previdenziali, di aspetti legati alla salute, al sistema sanita-rio o alla cultura del tempo libero, raramente di strutture di accoglienza. Invece nella vita di ogni anziano, sia in passato sia ancora oggi, l’immagine del “ricovero per i vecchi” corrisponde alla paura dell’abbandono, alla soli-tudine, alla perdita di progetti per il proprio futuro. Gli adulti, allo stesso tempo, sembrano rassegnati davanti a un processo di emarginazione che fi-nirà con il colpire, presto o tardi, anche loro.

In questo consiste la differenza sostanziale tra le case per anziani e altri tipi di strutture residenziali: nelle prime manca, generalmente, una dimen-sione di progettualità che permetta di restituire, ove sia possibile e in tempi più o meno lunghi, l’ospite alla famiglia nuova o d’origine ed alla società. Nella maggior parte dei casi, l’anziano sa che la sua permanenza non sarà temporanea, ma definitiva, che la nuova residenza sostituisce la sua casa e, allo stesso tempo, sarà molto probabilmente il luogo della sua morte.

Nelle strutture per anziani in Italia vivono quasi duecentomila persone, di cui due terzi nelle regioni settentrionali87. Tra queste vi sono diverse ti-pologie: case di riposo, gerontocomi, istituti geriatrici, comunità alloggio, residenze sanitarie assistenziali. Esistono numerose ricerche sulla situazione di tali luoghi, e non mancano le indagini. Tuttavia restano una realtà diffi-cilmente definibile, specialmente se osservate nell’ottica pedagogica. Dal punto di vista sanitario, le strutture per anziani costituiscono uno degli a-nelli del sistema di cura; in prospettiva sociale, esse rappresentano in un

87 Istat, Anziani in Italia, il Mulino, Bologna 1997.

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certo senso un residuo del passato e raccolgono l’eredità dei vecchi ospizi dove venivano internati tutti gli indigenti.

Come è noto, a partire dal XVIII secolo si è intensificato il processo di ricovero di poveri, anziani, folli abbandonati. L’internamento costituiva una misura di assistenza e insieme di ordine pubblico, nella frequente equi-parazione tra povero e delinquente. Tra gli indigenti la maggior parte era co-stituita da vecchi, inabili al proprio sostentamento. Solo nei secoli seguenti, lentamente, si fa strada una differenziazione dei bisogni specifici delle per-sone e l’affermazione dei loro diritti. Le case per anziani restano però, in-sieme agli ospedali psichiatrici destinati a scomparire, le strutture più simili alla antica istituzione di ricovero dei poveri.

Come si è detto, vi sono varie tipologie di istituti. Vengono definite case di riposo le strutture destinate ad anziani autosufficienti, in mancanza di forme alternative di assistenza, che forniscono trattamento convittuale, servizi di carattere assistenziale, prestazioni di tipo sanitario limitate, servizi di tempo libero88. Come si può notare, l’accento è messo sull’aspetto assi-stenziale, mentre il trattamento sanitario non è previsto. I servizi del tempo libero sembrano invece un eufemismo, in quanto alludono a un’ipotetica fascia di riposo dopo il lavoro che in realtà non c’è più. “Libera” è infatti tutta la vita dell’anziano.

Le comunità alloggio sono destinate ad un numero ristretto di ospiti e sono gestite dagli anziani stessi con il sostegno degli enti locali; le case alber-go sono appartamenti separati, in genere con servizi in comune, per persone autosufficienti che desiderano vivere in un ambiente protetto.

In realtà, come ha messo in evidenza B. Modesti, i due terzi delle strut-ture per anziani esistenti oggi in Italia accolgono anche o esclusivamente anziani non autosufficienti89. Come è chiaro a chi si occupa di terza età, in-fatti, il confine che separa interventi di tipo assistenziale da quelli sanitari è assai incerto. Risulta quindi più corretto includere le case di riposo tra i ser-vizi sociosanitari, sottolineando così la necessità di non separare la pura as-sistenza dagli interventi sanitari, comunque imprescindibili. Tale integra-zione ha inoltre il senso di non “spezzare” la vita dell’anziano, una volta che non sia più autosufficiente, ma di prevedere la sua accoglienza in strutture

88 Cfr. “Il Rapporro Eurispes” in B. Modesti, Vivere in casa di riposo. Le residenze degli anziani. Storia, evoluzione, nuovi orientamenti, Edizioni Lavoro, Roma 1996, p. 63.

89 Ivi, p. 64.

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che rispondano globalmente ai suoi bisogni. Una risposta in tal senso pro-viene dalle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), nate nel 1988, che do-vrebbero svolgere una funzione intermedia tra i servizi del territorio e gli ospedali per malati acuti. Accedono a queste strutture sia anziani che neces-sitano di un periodo di riabilitazione, sia anziani non autosufficienti o in fase terminale90.

Anche se nel mondo occidentale l’invecchiamento fisico è sempre più ri-tardato dal progresso della medicina, la perdita dell’autonomia e dell’auto-sufficienza resta un passaggio cruciale della vita di molte persone. Parlare di anziani significa infatti individuare vari tipi di vecchiaia: una popolazione anziana ancora valida e in buone condizioni di salute, che dispone di tempo libero e gioca un ruolo da protagonista nell’immaginario collettivo e nelle politiche sociali: si tratta dell’anziano giovanile, il nonno ancora sportivo, partecipante ad attività sociali o alla formazione nelle Università della terza età. D’altro canto, si ha la fascia degli anziani ultrasettantenni, ospitati in casa o nelle strutture residenziali, spesso in precarie condizioni di salute, a volte parzialmente non autosufficienti. Infine, coloro che hanno perso qua-si totalmente la capacità di autonomia e dipendono interamente dall’aiuto esterno.

Sarebbe però equivoco pensare a gruppi diversi. Si parla invece, gene-ralmente, della stessa persona, in fasi diverse della sua vita. Per questo non ha senso la separazione tra tipi di intervento sociale, assistenziale o sanitario se non per le esigenze organizzative del sistema che eroga i servizi. Anche se in misura diversa, gli anziani necessitano di tutti questi supporti. Man ma-no che si invecchia, sarà maggiore il bisogno di cure assidue e personali, ma non diminuirà la necessità di assistenza, aiuto, relazioni sociali.

Si pone, a questo proposito, la differenza tra cure e care, dove care ri-guarda la dimensione globale del prendersi cura di qualcuno, in senso più ampio della semplice cura medica. Comprende infatti non solo la promo-zione del benessere del corpo, ma anche l’aiuto a saper convivere con la ma-lattia o con la progressiva perdita di autosufficienza, trovando nuovi equili-bri. Tutto ciò è stato significativamente riassunto nell’espressione «collocare le cure dentro la vita»91.

90 Ivi, pp. 101 ss. 91 P. Taccani, S. Tramma, A. Barbieri Dotti, Gli anziani nelle strutture residenziali, La

Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, pp. 44-50.

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Ne deriva che autonomia o autosufficienza non vanno individuate in a-stratto, come uno stato, ma in termini funzionali. La salute dell’anziano (e di ciascuno) non consiste nella semplice assenza di malattia, ma nella corre-lazione e interdipendenza tra diversi fattori, all’interno dei quali gli aspetti psicosociali e relazionali risultano centrali. La valutazione in termini fun-zionali, di conseguenza, «deve essere in grado di esprimere la salute in ter-mini di autonomia, indipendenza e qualità della vita»92.

Da questi brevi accenni è possibile trarre alcune osservazioni sul ruolo pedagogico all’interno delle case di accoglienza per anziani. La figura dell’educatore, come è noto, è assai incerta dal punto di vista del profilo giuridico-amministrativo. Anche sul piano culturale, si registra ancora un forte ritardo nel prevedere ruoli educativi nell’ambito di vari servizi desti-nati alla persona, ed in particolare di quelli per gli anziani93. Accanto a que-sti ultimi troveremo così, oltre al medico, all’infermiere, all’assistente socia-le, altri ruoli, come l’ausiliario o l’operatore socioassistenziale. La situazione appare però in evoluzione, e pare importante ribadire la necessità di acco-stare, accanto a ruoli sanitari o sociali, una professionalità pedagogica.

Il ruolo dell’educatore, come si è detto, non si identifica con un lavoro di promozione culturale, né di assistenza alla persona; non è d’altronde ne-anche un animatore del tempo libero94. Occorre quindi chiedersi come configurare la sua azione in questo campo. I capitoli precedenti hanno permesso di individuare un educatore che si fa interprete dei bisogni della persona e la sostiene in un progetto di vita. In questo senso, il ruolo educa-tivo non può certo limitarsi al tempo libero, ma comprende tutte le dimen-sioni di cambiamento della sua vita. Un anziano ospite di una casa di ripo-so, o in una struttura di accoglienza, è un anziano sradicato, che ha lasciato la sua casa, i suoi oggetti, il suo mondo. Il trauma rappresentato dall’ingresso in istituto è dimostrato dai dati che indicano come la mortali-

92 L. Palombi, M.C. Marazzi, “Valutazione multidimensionale nell’anziano: la metodo-

logia Oars nel Rome Elderly Study”, in Curare gli anziani a casa: prevenzione, terapia, ria-bilitazione, Atti del Convegno Internazionale ACAP-CEE, Università Tor Vergata, CSPSS, Roma ottobre 1988, p. 20.

93 S. Tramma, Il vecchio e il ladro. Invecchiamento e processi educativi, Guerini e Asso-ciati, Milano 1989.

94 Ivi, pp. 126 ss; P. Taccani, S. Tramma, A. Barbieri Dotti, Gli anziani nelle strutture residenziali.

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tà negli istituti sia più alta di quella degli anziani che restano nelle loro case, e dalla forte incidenza della mortalità nei primi giorni e mesi dell’ingresso nelle strutture residenziali95.

Nella maggior parte dei casi, a parte positive eccezioni, l’ambiente in cui gli anziani si trovano è anonimo e tende alla spersonalizzazione. La progres-siva perdita di autonomia fisica si accompagna allora con una crescente di-stanza sensoriale dal mondo esterno (vista e udito che calano) e soprattutto alla diminuzione delle motivazioni per agire, cambiare, interessarsi. Per che cosa e soprattutto per chi vivere?

Se la salute, come si è detto, è correlata all’interesse per la vita e agli sti-moli ricevuti dall’esterno, la possibilità per gli anziani di mantenere moti-vazioni e desideri è legata anche all’aiuto da parte delle persone accanto a loro a mantenere o ritrovare un attaccamento alla vita. Limitarsi all’animazione presuppone l’assunto erroneo che gli anziani debbano essere “tenuti allegri” nonostante i problemi e le difficoltà legati al loro stato di salute o alla loro solitudine. Più vicine al profilo educativo sono invece tut-te quelle funzioni che attivano risorse umane e sociali intorno alla persona: colloqui, socializzazione, coinvolgimento degli anziani meno autonomi, collaborazione nell’organizzazione della giornata, contatti con le famiglie. L’ottica non può essere quella della gestione del tempo in istituto, ma quel-la della progettualità per la persona: ciò significa prendere in considerazio-ne anche la dimensione esterna (uscite, apertura della casa). Nell’ottica del prendersi cura della persona in tutti i suoi bisogni, l’educatore non si trova in posizione subalterna, ma come una risorsa accanto al resto del personale.

L’invecchiamento rappresenta un momento emblematico per una per-sona: può essere un naufragio quando prevalgono amarezza, rimpianti e senso di abbandono. Ma può anche costituire un approdo di una vita lunga e ricca. Il lavoro educativo con gli anziani non può consistere dunque in at-tività, per quanto bene organizzate, che sfuggano alle problematiche esi-stenziali che gli anziani vivono.

In questo senso l’educatore aiuta gli anziani a costruire o ricostruire un progetto per la loro vita. «Curare e prendersi cura non vuol dire solo porsi in una relazione d’aiuto centrata sui bisogni di tutela e di assistenza, ma an-che farsi carico dei desideri e delle aspettative e vigilare perché chi può tor-

95 M. Pagani, P. Baroni, La vita oltre il muro. Storie e problemi di anziani in istituto, Rosenberg e Sellier, Torino 1992, p. 72.

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nare nel suo habitat naturale sia spinto e sostenuto a farlo»96. La casa è il luogo concreto e simbolico degli affetti e dei ricordi. Molti anziani affron-tano il ricovero pensando di potervi tornare e solo in seguito si rendono conto dell’irreversibilità della loro condizione. Se il lavoro dell’assistente socile deve sostenere, sul piano concreto, la possibilità di un ritorno nel proprio ambiente, quello dell’educatore contribuisce a dare forma ai pro-getti nella prospettiva esistenziale che la persona sta vivendo97.

La scelta dell’educatore va, per quanto possibile, verso i servizi alternati-vi e l’utilizzo di una serie di offerte che il sistema sociosanitario mette a di-sposizione: assistenza domiciliare, day hospital98. Ma questo non sarà possi-bile senza la volontà dell’anziano e soprattutto senza suscitare intorno a lui la collaborazione della famiglia, del vicinato, dei volontari, degli operatori sociali. La dimensione educativa si colloca nell’aiutare gli anziani a risco-prirsi non più soli, ma capaci di progetto, ancora con un futuro.

Molti educatori e gli operatori conoscono il percorso – spesso lento e difficile – per ricostruire un progetto di vita di una persona anziana e rac-contano che «L’anziano, ogni anziano, è un mondo. Ed è più facile trovar-lo chiuso che aperto alle sollecitazioni esterne, alle domande chiare e diret-te, alle offerte di aiuto [...]. Dalle storie raccolte emerge un cammnino lungo, lento, paziente, non alla ricerca della gratificazione facile, durato an-ni, per trovare un varco, per incuneare una chiave, una frase, un gesto»99.

Un altro campo importante riguarda la cultura della vecchiaia. Troppo frequentemente l’anziano – specie nella quarta età o non autosufficiente – viene considerato dalla società una persona i cui diritti sono più facilmente violabili. Ciò avviene a causa della dipendenza, sia economica, sia fisica e per la convinzione che essi siano un peso per chi li assiste, per il silenzio con cui vengono circondati. Una cultura vitalistica e centrata sul benessere ten-derà a nascondere l’anziano come immagine del declino e a descriverlo at-travero tutti i cliché più consueti: sarà così rappresentato privo di memoria,

96 P. Taccani, S. Tramma, A. Barbieri Dotti, Gli anziani nelle strutture residenziali, p.

89. 97 F. Dell’Orto Garzonio, P. Taccani, Conoscere la vecchiaia, La Nuova Italia Scientifi-

ca, Roma 1990. 98 M. Pagani, P. Baroni, La vita oltre il muro, cap. V. 99 Cooperativa “Cultura Popolare”, Anziani scomodi. Una proposta per l’assistenza do-

miciliare, Giuffrè, Milano 1984, p. 100.

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lontano dalla realtà, centrato solo sulla propria salute. Gli anziani stessi as-sorbono la cultura della salute e della vitalità, vergognandosi in molti casi della perdita di autonomia, e del bisogno che hanno degli altri. Le ricerche sulla condizione degli anziani smentiscono le generalizzazioni e gli stereoti-pi sugli anziani e tendono a considerarla come un’età in cui, accanto al re-stringimento di alcune facoltà, convivono interesse, capacità di amore, memoria vigile, generosità e generatività100.

Dove prevale una cultura ingiusta contro gli anziani possono essere più facilmente violati i loro diritti. Gli abusi commessi contro di essi sono fre-quentemente ascrivibili alle omissioni: mancanza di cure, di attenzione, di assistenza. Si tratta di quei «diritti fondamentali, e in particolare quelli che riguardano la dignità e la personalità dell’individuo, spesso violati quando si tratta di anziani e particolarmente di anziani, malati, molto vecchi, non au-tosufficienti»101.

L’istituzionalizzazione può preludere a dimenticare lentamente gli an-ziani. La famiglia si allontana, gli ultimi parenti o amici muoiono. Il vecchio perde la sua storia, spesso anche il suo nome (quanti degenti vengono chiamati con un numero?); viene trattato spesso con impazienza, quasi sempre con paternalismo. La solitudine, la distanza, la mancanza di riguar-do che lo circonda vengono considerati “normali”. La difesa dei diritti degli anziani passa attraverso il rispetto della loro dignità, l’ascolto dei loro biso-gni, il rifiuto di ogni omissione. Essa fa parte dei compiti educativi, in quanto instaura una nuova cultura della vecchiaia, antagonista a quella del-la società, protesa verso falsi simboli di giovinezza.

La vicinanza alla debolezza della vecchiaia, inoltre, evidenzia la recipro-cità di cui si nutre la relazione educativa. Accompagnare la vecchiaia può essere una scuola di vita non solo perché l’anziano è ricco di esperienza e di passato, ma perché è una persona che tocca il limite della forza e della vitali-tà. Questo limite non è solo del malato terminale, della persona con handi-

100 Si veda, a questo proposito, E.H. Erikson, I cicli della vita. Continuità e mutamenti,

Armando Editore, Roma 1993, pp. 59-60. 101 AA.VV., Eutanasia da abbandono. Anziani cronici non autosufficienti: nuovi orien-

tamenti culturali e operativi, Rosenberg e Sellier, Torino 1988; Comunità Di S. Egidio (a cura di), L’età più lunga. Anziani: dall’abbandono alla solidarietà, Edizioni Paoline, Cini-sello Balsamo 1991.

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cap, dell’anziano: è insito nella vita di ciascuno, e l’educazione non è altro che la crescita nella ricerca comune del significato dell’esistenza.

Se si guarda allo scenario socioculturale in cui trovano spazio i servizi per anziani, si assiste generalmente ad una rimozione di questa ricerca di senso. Come osserva Carlo Mozzanica: «Il morire appare esposto al rischio del silenzio e della rimozione; nelle forme più frequentemente assunte della medicalizzazione (come se uno dovesse sempre guarire), spesso contrasse-gnata da tratti infantilizzanti. Così la malattia, assunta nell’orizzonte del sapere medico, appare come evento da cui liberarsi (come guarire); è spesso censurata la dimensione esistenziale che chiede come vivere la malattia, come liberare la malattia, come dare parola alla malattia, soprattutto quan-do essa appare con il volto della cronicità, della inguaribilità, della fine»; e ancora: «solo quando l’educazione raccoglie l’istanza etica la vicenda uma-na degli anziani può diventare ancora “tempo per la vita” e non “tempo do-po la vita”»102.

È necessario dare spazio e dignità al lavoro di assistenza e vicinanza nelle situazioni limite, come nel caso degli anziani cronici e non temere di quali-ficarlo come una funzione espressamente educativa103. Anche la compagnia e l’assistenza a chi deve morire fa parte della dimensione relazionale, centra-le nel lavoro educativo. Qui appare chiara l’esigenza di una maturità perso-nale e di una capacità di non esorcizzare la sorte allontanandola da sé e dagli altri104.

Elizabeth Kubler Ross, un medico che ha dedicato la sua vita all’accompagnamento dei morenti, parla di «dono che viene da ambedue le parti: dal malato, nella forma dell’aiuto, dell’ispirazione e dell’incorag-giamento che egli può dare ad altri in situazioni analoghe; da noi, nella forma della nostra assistenza, del nostro tempo e del nostro desiderio di di-videre con altri quello che loro ci hanno insegnato alla fine della vita»105. E aggiunge: «Noi parliamo della morte, argomento tabù per la società, in

102 C.M. Mozzanica, “Educatore professionale e servizi alla persona: modelli epistemici

e modelli operativi”, in M. Groppo (a cura di), Professione educatore, p. 120 e p. 124. 103 L. Regoliosi, Lo spessore del quotidiano, in «Animazione Sociale», 4, aprile 1996, p.

69. 104 Cfr. F. Dell’Orto Garzonio, P. Taccani, Conoscere la vecchiaia. 105 E. Kubler-Ross, La morte e il morire (trad. dall’inglese), Cittadella, Assisi 1979, p.

286.

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modo franco, con semplicità, aprendo così la porta a un’ampia varietà di conversazioni, permettendo il rifiuto assoluto se questo sembra necessario o parlando apertamente dei timori o delle preoccupazioni del malato se il ma-lato sceglie di farlo. Il fatto che noi non usiamo il rifiuto, che siamo disposti a usare le parole morte e morire, è forse il mezzo di comunicazione più gra-dito a molti dei nostri malati»106.

Anche per chi nega che la morte celi alcun mistero e apra alcuna porta, esiste la necessità di alleviare la solitudine del morente: «Dobbiamo ancora scoprire ciò che gli uomini possono fare per garantire ai loro simili una fine tranquilla e pacifica; l’amicizia di coloro che sopravvivono, la sensazione che devono avere i morenti di non essere d’ingombro fanno senz’altro parte di tale programma [...]. L’etica dell’homo clausus, dell’uomo che si sente so-lo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte accettandola invece come parte integrante della vita»107.

Ne La Morte di Ivan Il’ic, Tolstoj descrive le ultime settimane di un uomo malato, tormentato soprattutto dalla menzogna, accettata da tutti, che lo vuole malato e non moribondo: «questa menzogna lo tormentava, lo tormentava il fatto che non volessero riconoscere che tutti sapevano». La sua agonia «era degradata da tutti alla stregua di qualcosa di casuale e sgradevole, persino indecoroso». La paura della morte e il desiderio di vive-re lo portano a ricordare il suo passato, alla ricerca dei momenti migliori della sua vita, che gli appaiono però diversi: «tutte quelle cose che un tem-po gli erano sembrate delle gioie, si dissolvevano ai suoi occhi e si trasfor-mavano in qualcosa di insignificante, spesso di ripugnante».

Mentre per la pubblica opinione egli saliva la scala sociale, «gli sfuggiva la vita» ed egli si chiedeva perché la vita fosse stata così insensata, e ripu-gnante, e come mai ora dovesse morire: “Forse, non ho vissuto come dove-vo” gli venne in mente all’improvviso. “Ma se ho fatto tutto secondo le re-gole?” disse a se stesso e scacciò via immediatamente come qualcosa di assolutamente impossibile, quell’unica soluzione dell’enigma della vita e della morte»108.

106 Ivi, p. 287. 107 N. Elias, La solitudine del morente (trad. dal tedesco), il Mulino 1985, p. 82. 108 L.N. Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic (trad. dal russo), Garzanti, Milano 1988, p. 62 e

pp. 76-77.

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L’enigma della vita e della morte si presenta come una domanda sulla propria esistenza, che non si può eludere evitandola o credendo di «aver fatto tutto secondo le regole». La «menzogna» intorno a Ivan Il’ic non consiste soltanto nel nascondergli le sue reali condizioni, ma nel rifiuto di comunicare in profondità con chi è morente, aiutandolo ad affrontare l’enigma della vita.

4.5. Educare sulla strada

Come il confine tra scuola ed extra-scuola e quello tra le comunità e la società, anche la strada è un contesto “aperto”, un luogo educativo denso di relazioni, protagonisti, avvenimenti. I problemi che nascono in mare aperto, come quelli legati alla socializzazione degli adolescenti, alle persone senza fissa dimora o nomadi, non possono però essere affrontati con soluzioni fa-cili, né con metodologie elaborate ma astratte.

Sembra piuttosto più importante individuare come gli elementi chiave del lavoro educativo, e cioè la comprensione, la funzione critica e il cam-biamento, possano essere esercitati nell’ambiente della “pubblica piazza”, fuori dalla scuola, dalla famiglia, dalla chiesa, dai centri di aggregazione. E anche qui, come nei precedenti contesti, si cercherà di suggerire quale può essere il ruolo “politico” dell’educatore, ovvero l’attenzione alle dimensioni istituzionali e collettive della vita civile, l’associazione di un’etica della con-vinzione con un’etica della responsabilità.

La strada, di cui ci occuperemo, indica il luogo di collegamento tra le ca-se della città, all’interno dell’ambiente urbano. Nella città la strada assume la caratteristica di reticolo, passaggio, ponte verso altre case e non verso al-tre città o paesi. Essa costituisce uno spazio di collegamento interno anzi-ché verso mondi sconosciuti. L’immaginario giovanile si è nutrito negli an-ni ’60 del sogno di una vita on the road, una riedizione del mito americano del viaggio verso nuove frontiere, non più innocente ma trasgressivo.

Oggi la strada è quella delle metropoli urbane, scenario di guerre civili presenti o future.

Michel Maffesoli ha descritto la socialità attuale come aggregazione e di-sgregazione, confusa, disordinata, imprevedibile, di piccoli gruppi, nuove tribù della città. Si tratta di “comunità di emozioni”, sulla scorta delle anali-

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si di Weber, instabili, anomiche, caratterizzate dalla fusionalità. I gruppi creano calore nel mondo freddo, vivono di sentimenti condivisi, si basano su una “realtà prossemica”, cioè sulla fusione naturale di momenti di vita, su una sensibilità collettiva109. Sono uniti dall’apparenza, il contatto, l’atmosfera. Tutto è centrato sul presente, sull’emozione provata insieme in un dato luogo, in un certo momento, un sentire in comune all’interno di un piccolo mondo, distinto dalla grande società110. Il rito ha la caratteristica di instaurare un campo di forza là dove un’azione, un gioco, una competizione vengono eseguiti e ripetuti collettivamente. Per l’uomo moderno questa ri-tualità sembra a volte essere rimasto l’unico modo per riavvicinarsi a una forma di «comunione mitica»111.

L’uso dello spazio, nelle città e altrove, è influenzato dall’immaginario collettivo. Anche dove sembra esistere solo anonimato, come nei quartieri-dormitorio, lo spazio pubblico assume sempre una carica simbolica112. Il quartiere, la piazza, la via, l’angolo, sono tutti luoghi carichi di significato per chi vi abita e anche per l’osservatore attento. Gli spazi vissuti hanno un’atmosfera, un clima umano, una colorazione o un odore particolari. Il de-siderio di caratterizzare, dare un nome, individuarne i frequentatori è co-mune. E altrettanto lo è, come testimonia la letteratura contemporanea, la ricerca di luoghi-simbolo dove si intrecciano e si riconoscono le storie sin-gole e irripetibili degli abitanti della città. Tali luoghi di comunicazione so-no la risposta alla difficoltà di raccontare e scambiarsi storie nella città.

4.5.1. L’adolescenza difficile Se si considera l’adolescenza, oltre che dal punto di vista della psicologia

dello sviluppo e dei suoi compiti, anche con uno sguardo antropologico, cercando di fare attenzione agli elementi culturali che connotano questa età della vita, si nota come la dimensione dello spazio sia altrettanto importan-te di quella del tempo: ciò che caratterizza l’adolescente non sono soltanto gli anni, ma il contesto di vita, e le due dimensioni non possono essere con-

109 M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individuo (trad. dal francese), Ar-mando Editore, Roma 1988, pp. 55.

110 M. Maffesoli, “Rue, esthétique et socialité”, in A. Vulbeau E J.Y. Barreyre (a cura di), La jeunesse et la rue, Desclée de Brouwer, Paris, 1994, p. 28.

111 G. Dorfles, Nuovi riti, nuovi miti, Einaudi, Torino 1977, p. 147. 112 M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, p. 37.

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siderate separatamente – come spesso si tende a fare – ma in modo com-plementare.

Il lavoro educativo sulla strada, considerata come contesto, chiede di comprendere l’uso dello spazio da parte degli adolescenti, la conoscenza dei luoghi di incontro dei ragazzi, le vie, i cortili, i muretti. La scelta della strada come luogo di incontro nasce a volte dal senso di chiusura, dalle case picco-le, ma anche dalla fuga dalla famiglia. Il mondo sociale è uno spazio simbo-lico. Per gli adolescenti la casa è il luogo dell’intimità (come la camera in cui chiudersi per ore ascoltando musica) ma spesso sembra anche chiusa, soffo-cante, mentre l’esterno (reale o immaginario) sembra loro rassicurante, in quanto permette di essere liberi e di crescere. Gli adolescenti si impossessa-no delle no man’s land lasciate libere dagli adulti, utilizzandole come luoghi privati, passano il tempo sui margini della strada, negli spiazzi in prossimità di bar o luoghi di ritrovo, negli angoli dei parchi.

L’occupazione dello spazio può essere manifesta, per mostrare al mondo degli adulti la loro presenza, con esibizioni, riunioni, intralcio del passaggio, ostentazione pubblica di comportamenti trasgressivi; altre volte può essere segreta, servire a nascondersi o proteggersi, nella ripetizione dei giochi in-fantili in cui ci si costruisce una tana, una sicurezza verso i pericoli, un rifu-gio che nessuno potrà scoprire.

Esistono “punti di anomia”, senza legge, nella città, dove si indebolisco-no i legami di solidarietà e “spazi intermediari” tra il pubblico e il privato113.

Un altro modo di segnare lo spazio è costituito dalle scritte sui muri, modi di segnalare la presenza del proprio gruppo, occupare simbolicamente luoghi pubblici, sporcare o dissacrare ambienti protetti. Ma i graffiti sono anche messaggi creativi, forme artistiche, pittura dentro la realtà urbana. In ogni caso i giovani occupano con interventi personali uno spazio all’interno del vasto affollamento di immagini in cui vivono. L’enorme aumento delle raffigurazioni iconiche (TV, audiovisivi, pubblicità) conduce ad una loro fruizione passiva. Nella serialità delle immagini artificiali il graffito, la scrit-ta, il disegno rappresentano il tentativo di firmare uno spazio pubblico114.

113 L. Roulleau Berger, “Jeunesse, urbanité et accessibilité”, in A. Vulbeau e J.Y. Barre-

yre (a cura di), La jeunesse et la rue, p. 40. 114 M. Featherstone, La città senza luoghi (trad. dall’inglese), Costa & Nolan, Genova

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I muri delle periferie sono invece spesso coperti da scritte cariche di vio-lenza. La chiusura verso gli altri, nei confronti di chi è diverso, sembra de-limitare lo spazio della propria tribù, quella zona di appartenenza e sicurez-za di cui gli adolescenti hanno bisogno. Si costituisce il confine che separa dal vicino, dai nomadi, dalle persone di altre regioni, dagli immigrati, dalla squadra nemica. I gruppi e le bande difendono il territorio ma soprattutto cercano la loro identità penalizzando altri gruppi, specie più deboli. Come ha scritto Lesourd, gli adolescenti «prendono il posto di cui hanno bisogno per costruirsi contro l’altro, il più vicino, quando non possono prenderlo contro l’adulto nella società»: l’altro gruppo, l’altra città, l’altra razza115.

Fattori individuali (insicurezza, frustrazione) si uniscono a fattori sociali (crisi economica, disoccupazione) nell’elaborazione di pregiudizi e compor-tamenti razzisti che hanno come capro espiatorio “gli ultimi arrivati”. Alte-rità e occupazione dello spazio sono intimamente legati.

I segni ed i simboli utilizzati anche nell’abbigliamento non mostrano soltanto il conformismo dei ragazzi, ma sono utilizzati come maschere: «più si avanza mascherati e più si rafforza il legame comunitario»116. Sono usati cioè per riconoscersi, per individuarsi all’interno dello stesso gruppo di riferimento e per comunicare anche senza parole. Altre volte i segni sui muri, così come tutti i simboli usati dagli adolescenti, hanno perso ogni si-gnificato. Alcuni simboli archetipici – la croce, la svastica, il labirinto, la spirate – non hanno più il loro valore culturale, il ruolo di strumento che permette di fare un’astrazione. Nell’eccedenza di simboli della nostra socie-tà, nell’inflazione comunicativa, i segni hanno finito per capovolgere il loro significato di messaggio e diventano un gioco117.

La dimensione privilegiata degli adolescenti è il gruppo ed è al gruppo che si rivolge la proposta dell’educativa di strada. Nella storia dell’educazione la dimensione collettiva è sempre stata centrale: dalle espe-rienze dell’oratorio di don Bosco, ai gruppi di scouts di Baden Powell, dalle

115 S. Lesourd, “Agressivité et extérieur”, in A. Vulbeau., J.Y. Barreyre (a cura di), La

jeunesse et la rue, p. 138. 116 M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, p. 134. 117 G. Dorfles, Nuovi riti, nuovi miti, pp. 263-265; si veda anche R. Firth, I simboli e le

mode (trad. dall’inglese), Laterza, Bari 1977; M. Canevacci, Ragazzi senza tempo, Costa & Nolan, Genova 1992.

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bande di adolescenti di Makarenko alle repubbliche dei ragazzi nel dopo-guerra118.

Nel gruppo si respira la comunità di emozioni, il contatto carico di si-gnificati, il riconoscimento reciproco al di là delle parole. Gli adolescenti ritengono che le attività più importanti del gruppo siano stare insieme e parlare. Esiste una accentuazione del presente, dell’attimo, del qui e ora che coincide con una visione estetica della vita e che viene vissuta per lo più nel gruppo dei coetanei. Ciò che conta è provare, sentire. Dall’esterno, da parte degli adulti, questo “non fare sembra” una perdita di tempo. Tale gratuità nello stare insieme viene interpretata come una sfida simbolica agli adulti, una contrapposizione alla fattività, alle scelte, alla verbalizzazione119.

Non sempre i gruppi hanno una vera unità: più spesso sono frammenta-ti e aggregati occasionalmente. Esiste tuttavia una forte domanda di amici-zia e di dipendenza dai coetanei, una distribuzione di ruoli, una cultura condivisa che cementa l’appartenenza al gruppo e crea identità. Gli adulti la rinforzano considerando il gruppo come un interlocutore monolitico, sen-za distinguere i vari ruoli al suo interno.

Anche l’atto violento è a volte funzionale al riconoscimento pubblico di un gruppo povero di relazioni. In questo modo l’identità negativa data dall’esterno serve a creare unità. L’atto violento di un singolo può servire per recuperare ruolo agli occhi degli altri o per non perdere prestigio, in una “rappresentazione” svolta sotto gli occhi del pubblico costituito dagli adul-ti120.

Per comprendere la vita degli adolescenti occorre utilizzare nuovi codici interpretativi, spesso segreti, che solo i membri conoscono e possono ap-prezzare, usati per allontanare l’estraneo. Sono codici, linguaggi e regole che non devono essere decifrati, pena la perdita dei loro significati allusivi. L’adulto, che tende alla chiarezza, prova fastidio per quella che sembra una inutile complicazione, una difficoltà nel dare un nome a sentimenti e com-

118 A partire dal dopoguerra sono numerose le esperienze di gruppi di adolescenti “sulla

strada”. Si veda F. Deligny, I vagabondi efficaci, Jaca Book, Milano 1977; A.K. Cohen, Ra-gazzi delinquenti, Feltrinelli Milano 1963.

119 A. Fabbrini, A. Melucci, L’età dell’oro: adolescenza tra sogno ed esperienza, Feltrinel-li, Milano 1992.

120 Per il concetto di rappresentazione si veda E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969.

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portamenti; uguale irritazione esiste, da parte degli adolescenti, per la “pro-saica” lettura delle situazioni che tende a ignorare lo spazio del vissuto, delle emozioni, del non detto.

Winnicott ha descritto l’adolescente come un “essere isolato” che difen-de la sua identità e chiede di non essere scoperto e sostiene che «gli adole-scenti formano degli aggregati piuttosto che dei gruppi e, con il sembrare tutti uguali, sottolineano la solitudine essenziale di ognuno di loro»121.

I dinamisni di gruppo di adolescenti e giovani difficilmente assumono la forma di movimenti sociali. Dal vitalismo, dall’aggregazione naturale, effer-vescente, frammentata, raramente scaturisce la proiezione verso l’esterno in forma organizzata, la finalizzazione ad un progetto122. In una parola, diffi-cilmente il gruppo si politicizza per esprimere bisogni o confrontarsi con il mondo degli adulti123. Questo processo non va però escluso, anzi rientra in una possibilità di progetto educativo. Quando i gruppi di adolescenti o di giovani trovano uno scopo, si orientano ad un’azione, entrano nel gioco della verbalizzazione e dell’azione intenzionale, viene recuperata la forza interna del gruppo e la possibilità che al suo interno ognuno venga ricono-sciuto come persona.

4.5.2. Violenza e rischio I fenomeni attuali di violenza giovanile chiedono all’educatore di com-

prendere le diverse forme in cui si esprime: sussulto, esplosione, o vissuto interiorizzato. La violenza degli adolescenti, proteiforme, contagiosa, va in-terpretata. Riveste infatti un carattere comunicativo, anche quando si river-sa ciecamente e gratuitamente verso oggetti innocenti. Richiede la presenza di un altro, spesso assente. La mancanza fisica o psicologica dei genitori, o della famiglia in genere, come luogo di ascolto e di dialogo, è all’origine di una richiesta prepotente, oppure depressa, o aggressiva, di conferma – spes-so disattesa – della propria esistenza.

La spiegazione più diffusa vede la violenza come impeto primordiale ed incontenibile della personalità umana. Nella psicoanalisi freudiana eros e

121 D.W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma 1989, p. 246.

122 A. Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogmi individuali, Il Mulino, Bologna 1982.

123 M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, p. 94.

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thanathos si fronteggiano. L’uomo ha in sé pulsioni vitalistiche e istinto di morte, una spinta all’aggressività e all’odio accanto a quello dell’amore124.

Lo sguardo psicoanalitico, nelle fasi storiche successive, è stato utilizzato per avallare la naturalità della violenza; in realtà la vera lezione di Freud, come ha mostrato Farnè trattando il problema della violenza in campo pe-dagogico, consisteva nel mostrare la sua ambivalenza, l’impossibilità di se-parare la violenza dall’eros125. A questa spiegazione attingono sia le pedago-gie di stampo comportamentistico, che contengono la violenza attraverso la coercizione delle norme sociali, sia i modelli educativi che “distolgono” e sublimano l’aggressività trasformandola in altre forme di lotta e di contra-sto (giochi di guerra, sport)126.

Un’altra visione considera la violenza come processo che gradatamente viene sostituito dalla capacità di risolvere i conflitti pacificamente e con le “buone maniere”, ossia con la crescita di civiltà e l’abbandono dell’uso delle armi per affidare la contesa ad un’autorità riconosciuta127.

Non è possibile in questa sede affrontare il complesso nodo dell’origine della violenza o la sua risposta educativa. Si vuole qui soltanto accennare ad alcune problematiche relative alla violenza giovanile allo stato libero, cioè al di là della trasgressione della norma o della delinquenza vera e propria.

La società intimista e narcisista, dove aree di benessere si alternano a di-suguaglianze e dove tende a diminuire la responsabilità civica, fa prevedere un aumento della violenza gratuita e di quella legata alle nuove tecnologie. Questo fenomeno è sotto gli occhi di tutti e costituisce un’area poco esplo-rata, anche dal punto di vista educativo. Proprio la strada è il suo luogo elet-tivo128.

Alcuni comportamenti di adolescenti, giovani e adulti, spingono a riflet-tere sull’idea di responsabilità e sul nesso che collega le azioni alle loro con-seguenze. L’opinione pubblica si interroga, ad esempio, sulle azioni tragiche

124 Si veda S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1975. 125 R. Farnè, La scuola di “Irene’: Pace e guerra in educazione, La Nuova Italia, Firenze

1989, p. 239. 126 Sul tema della violenza cfr. P. Bovet, L’instinct combatif Delachaux et Niestlé, Neû-

chatel-Paris, 1961. 127 N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna 1982. 128 M. Leblanc, “Une approche criminologique. Vers un modèle différentiel

d’intervention et de prise en charge”, in R.E. Tremblay, A.M. Favard, R. Jost (a cura di), Le traitement des adolescents délinquants, p. 170.

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(lancio di sassi dai cavalcavia delle autostrade sulle automobili sottostanti, tiro a segno sulle persone) che sembrano rivelare l’incapacità di distinguere il bene dal male.

Altrettanto difficili da comprendere risultano i giochi di morte, le azioni a rischio, le gare o le imprese che mettono a repentaglio la propria vita o quella di altri. Le gare di automobili che affrontano incroci pericolosi, sdraiarsi sui binari dei treni, attraversare di corsa la strada senza guardare: sono solo alcuni esempi di passione per il rischio, un fenomeno che si co-mincia soltanto ora ad analizzare129. Non sono d’altronde solo i giovani a vivere questo gioco di equilibrismo che sfiora la rovina. Tutta la società moderna, sull’orlo di crisi ecologiche o di guerre, sembra sotto il segno del rischio, del calcolo estremo. Occorre chiedersi se, dietro la passione per l’azzardo, si intraveda una volontà di morte, di suicidio, di annullamento, o non si scorga piuttosto il desiderio di provare il brivido del rischio per sen-tirsi vivi. Sfiorare la morte coincide in alcuni casi con il desiderio di provare a se stessi di essere coraggiosi o capaci; ma rappresenta anche la ricerca del confine con la vita adulta, con il difficile, anche se è un difficile “artificiale”.

Esiste poi una violenza virtuale rappresentata dalla confusione di imma-gini, dall’intreccio di visioni, in gran parte violente, che si affollano nella memoria informatica ed audiovisiva dei giovani. Attraverso l’analisi delle immagini nei films degli ultimi anni è stato messo in rilievo come la violen-za sia rappresentata sempre di più in modo naturale.

Molti films fanno riferimento ad uno stato primitivo di violenza auto-matica ed accumulatrice130. La violenza è considerata – in questo tipo di prodotti – già presente in ognuno di noi, non come un’esperienza ma come un flusso indistinto nel quale si è collocati una volta per tutte.

Essa non si esprime contro un nemico determinato, né secondo le regole della guerra tradizionale, ma è contro tutti e si svolge all’interno della città stessa: «si è improvvisamente presi nella violenza, non ci si cade né ci si pre-cipita, la violenza è già là: il nemico è nella strada, nella testa e nelle im-magini»131.

129 D. Le Breton, La passione del rischio (trad. dal francese), Edizioni Gruppo Abele,

Torino 1995. 130 O. Mongin, La violence des images, ou comment s’en débarrasser?, Ed. du Seuil, Paris

1997, p. 25. 131 Ivi, p. 28.

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Olivier Mongin ritiene che la visione di questo tipo di immagini non abbia, come alcuni sostengono, un effetto di catarsi. Non servirebbe cioè a purificarsi attraverso un’immersione nel bagno dell’odio. Al contrario, produrrebbe una sorta di de-sensibilizzazione: ci si illude che la violenza non ci riguardi, scorra sullo schermo come in laboratorio, in una fiction cui stiamo soltanto assistendo, che non potrà toccarci e contro cui non po-tremmo in ogni caso fare niente132.

L’ipotesi della catarsi è stata validamente esplorata da Bruno Bettelheim per quanto riguarda la fiaba. Nei racconti anche tragici, in cui i bambini vi-vono la paura della morte, del distacco dalle persone amate, dall’abbandono, si trova la chiave per rispondere al bisogno di affrontare le ansie e vincerle con la rassicurazione133. Al contrario, il flusso naturale della violenza sugli schermi non evoca l’esperienza concreta di una paura vinta, ma l’inevitabilità di quest’ultima. Inoltre lascia soli gli spettatori, rendendo superfluo e pleonastico l’intervento dell’adulto. Che cosa si può fare davan-ti ad una violenza ineluttabile che minaccia tutti?

La socialità dei giovani si esprime nei luoghi di ritrovo pubblici ed in particolare nei riti di massa della musica e dello sport. Dietro un apparente disordine e assenza di progetti, le aggregazioni giovanili rivelano – se viste dall’interno – significati che sfuggono all’adulto distratto. Ciò vale in parti-colare per i rituali dello stadio, e per il confine sottile tra tifo e violenza o vandalismo dei tifosi. Nei fenomeni di “scontro” con l’avversario (i tifosi della squadra rivale) è stata vista ora la ribellione dei giovani delle periferie urbane, ora la degenerazione della competizione sportiva. L’analisi antro-pologica e psicosociale mette invece l’accento sulle regole interne ai gruppi giovanili e ai ruoli interpretati dai membri: il capro espiatorio, il capo, il gregario. Anche se ciò che emerge sono semplici atti di teppismo, nella “rappresentazione” dello scontro trovano posto forza e furbizia, scherma-glie con gli avversari (che non devono generalmente arrivare allo scontro) esibizioni, rituali dell’insulto o dell’aggressione: tutti comportamenti che possono essere decifrati134.

132 Ivi, p. 149. 133 B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle

fiabe, Feltrinelli, Milano 1977. 134 P. Marsch, E. Rosser, R. Harré, Le regole del disordine, Giuffrè, Milano 1984.

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Il pedagogo dell’antichità, come si è detto, era lo schiavo che accompa-gnava i bambini per difenderli dai pericoli della strada. In strada, infatti, non vale la protezione della famiglia, della scuola, del luogo di lavoro. An-che l’educatore si trova senza difese e coperture, privo del tetto di un’istituzione o di un progetto elaborato. Ciò comporta la maggiore im-portanza della messa in gioco dell’educatore come persona. Come si è det-to, il conflitto tra concezione carismatica e visione tecnicistica è un vero e proprio luogo pedagogico. Nel primo caso l’operatore educa solo con la sua persona, nel secondo applica metodi, strumenti e si inserisce nell’intelaiatura di una programmazione. Nell’ambito della pedagogia so-ciale e in una visione dell’educazione come ermeneutica questo conflitto appare superato, come si è tentato di mostrare nel capitolo III.

Non si educa se non attraverso la messa in gioco personale, a prescindere dalle qualità carismatiche che si possiedono. Coinvolgimento dell’educatore non significa tuttavia improvvisazione, né istinto, né imposi-zione delle proprie idee o caratteristiche personali: la relazione personale e contestualizzata, il contrario, diviene progetto pensato e costruito. All’interno del rapporto con gli altri si opera una problematizzazione, si ri-flette sulle contraddizioni, si accolgono bisogni, si cambia il proprio punto di vista, in un lavoro di sintesi che non rinuncia all’osservazione puntuale ed alla sistematicità pedagogica135.

Ciò comporta una disponibilità a un lavoro su di sé. La relazione coin-volge ma va controllata. In questo caso, si rinuncia a guardare l’adolescenza da lontano, come un’età particolare, e a prendere le distanze dalle incertez-ze e sofferenze dei ragazzi, accettando invece di comprendere i loro bisogni come qualcosa che anche gli adulti non lasciano mai definitivamente e fa-cendosi interrogare dalla loro ricerca di identità.

Inoltre, il lavoro di comprensione dell’educatore riguarda anche gli e-ventuali fenomeni di transfert nella sua relazione con l’adolescente e con il gruppo. Come è noto, si indica con il termine transfert l’investimento di forze emotive, per lo più inconsce, e di sentimenti positivi e negativi che il

135 D. Demetrio, “Per una pedagogia del lavoro di strada”, in Il lavoro di strada. Preven-

zione del disagio, delle dipendenze, dell’Aids, «Quaderni di Animazione e Formazione», Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995, p. 50.

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paziente riversa sull’analista proiettando immagini e sentimenti della sua storia precedente136.

Piero Bertolini, affermando la complementarità di pedagogia e psicoa-nalisi, indica l’avvertimento lanciato dalla psicoanalisi sulla “implicazione personale” dell’educatore come uno degli elementi di scambio reciproco tra i due campi e ritiene impossibile un’educazione senza transfert137. Una rela-zione autentica, infatti, si fonda anche sulla condivisione di affinità e su ri-sonanze soggettive che non avrebbe senso ignorare. Aichhorn, a differenza di ciò che avviene nella pratica analitica, ingloba nei termini transfert-controtransfert l’insieme delle relazioni consce ed inconsce e sottolinea la necessità da parte dell’educatore di giocare un ruolo attivo, suscitando il transfert negli adolescenti. L’ipotesi di fondo, ben conosciuta da chi si oc-cupa di adolescenti, è che i ragazzi con problemi tendano a non esprimere domande o bisogni affettivi e che occorra invece stimolarli138.

Tutti gli educatori concordano però intorno alla necessità di un control-lo consapevole su questo processo e soprattutto sul contro-investimento che l’educatore opera, in risposta ad una domanda affettiva da parte del bambino o dell’adolescente, o come suo desiderio139. Il fine è infatti quello di far aprire l’altro e stabilire una relazione disinteressata, non di esercitare un possesso dei minori affidati. Nella relazione con un adolescente deprivato viene messo così in rilievo, sulla base degli scritti di Winnicott, che adulto è colui che sa esercitare un’autorità sicura che contiene l’aggressività, «è in grado di riconoscere le proprie proiezioni sull’adolescente, rispetta la sua autonomia e sa sostenere le sfide che gli vengono lanciate dai ragazzi: in sin-tesi un educatore trasparente ma consapevole»140.

Le competenze dell’operatore di strada hanno trovato varie sistematiz-zazioni negli ultimi tempi. Al di là della mitizzazione che circonda questo tipo di lavoro, o delle motivazioni, a volte ambigue, che orientano la scelta

136 La ricerca più completa dal punto di vista pedagogico sul tema del transfert è in P.

Roveda, Il transfert nell’attività educativa, Vita e Pensiero, Milano 1979. 137 P. Bertolini, L’esistere pedagogico, p. 231; cfr. anche P. Bertolini, M. Dallari, Pedago-

gia al limite, La Nuova Italia, Firenze 1988. 138 J.P. Chartier, Les adolescents difficiles, pp. 165-166. 139 M. Postic, La relazione educativa, pp. 157-168. 140 G. Torre, G.P Prada, La relazione adulto-adolescente deprivato, in “Marginalità e so-

cietà” 18, 1991, pp. 16-17.

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in questa direzione, la presenza di educatori a fianco dei ragazzi, nei loro ambienti di vita richiede una serie di approfondimenti pedagogici141. Alcu-ni mettono in rilievo come siano necessarie a questo scopo le competenze di tipo antropologico, ossia la comprensione, il rispetto, la capacità inter-pretativa, la curiosità, l’analisi dei comportamenti collettivi: in una parola la sensibilità culturale. Si richiede poi la capacità di lavorare sulle stigmatizza-zioni, individuando le valenze simboliche dei comportamenti e delle azioni che possono essere all’origine di etichette negative, come quella di ragazzi di strada142.

L’educatore è al confine in un duplice senso. Si occupa di coloro che non sono inseriti in un preciso ambiente educativo, scolastico, terapeutico ed ha un ruolo di collegamento con i servizi e dei servizi tra loro. Il ruolo di me-diazione, facendo perno sulla persona, favorisce l’incontro con coloro che non chiedono aiuto pur avendone bisogno (tossicodipendenti, malati men-tali, adolescenti difficili). Questa caratteristica permette di accostarsi senza la “pesantezza” dell’intervento riabilitativo o rieducativo143. Tuttavia il ruo-lo mediativo è insufficiente quando la funzione educativa viene intesa sol-tanto come connettivo tra i servizi: l’educatore, al contrario, come si è detto nel capitolo III, deve utilizzare il legame debole che si crea con l’altro per e-sprimere una proposta di vita forte dal punto di vista dell’impegno.

Un’altra competenza particolarmente importante riguarda la capacità di incontrare ragazzi che non attendono l’intervento educativo, ma che vanno cercati. Nel lavoro di strada si gioca d’anticipo attraverso il rapporto perso-nale e la proposta. Anche a questo livello si situa la specificità dell’intervento pedagogico, che non sempre risponde ad un’esplicita richie-sta, anzi contribuisce in molti casi a sollecitare bisogni nascosti, suscitare domande e soprattutto interpretare situazioni complesse. La capacità di ag-

141 A questo tema è dedicato un numero dei «Quaderni di animazione e formazione»,

Il lavoro di strada. 142 G. De Leo, “I contesti simbolici nella sperimentazione territoriale dei giovani a ri-

schio di devianza”, in Progetto Formazione Capodarco (a cura di), L’operatore di strada, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995, p. 63.

143 M. Santerini, “L’adolescente e i suoi luoghi: modelli educarivi”, in AA.VV. Adole-scenti sulla soglia (a cura della Caritas Ambrosiana), Coop. In Dialogo, Milano 1996, pp. 97-110.

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gancio dei ragazzi difficili fa parte del bagaglio dell’educatore, chiamato ad anticipare una proposta anche in situazioni che sembrano chiuse.

Il lavoro con gli adolescenti è una messa alla prova reciproca. All’educatore è chiesta creatività, passione e fedeltà nonostante le difficoltà, gli ostacoli, la diffidenza, la sensazione di essere inutili; ma anche i ragazzi devono essere messi alla prova. L’analisi della ricerca del rischio da parte de-gli adolescenti, la scarsa intenzionalità e presa sulla realtà che si riscontra in molti giovani, mostrano che c’è bisogno e desiderio di sperimentare la vita nella sua realtà senza edulcoramenti pedagogici. Allo stesso tempo le durez-ze della crescita e la fatica di vivere in un mondo poco accogliente rendono necessario l’accompagnamento educativo. Si tratta di creare una educazio-ne al “difficile”, un sostegno nelle prove vere della vita perché non si debba-no inventare competizioni simulate. La dimensione del gioco e dell’avventura è importante, ed altrettanto lo è saper aiutare a vivere il ri-schio della vita reale, dell’inserimento nel mondo degli adulti.

L’adolescenza è l’età dell’iniziazione alla maturità. Come è noto, nelle nostre società il passaggio alla vita adulta è reso sempre più impercettibile. Rispetto alle generazioni precedenti esso è anticipato, per quanto riguarda abitudini di vita e conoscenze; ma è fortemente ritardato, perlomeno nel mondo occidentale, sotto il profilo dell’assunzione di impegni (matrimo-nio, lavoro). I giochi di rischio possono essere considerati, per quanto ri-guarda i giovani uomini, il sostituto delle cerimonie di iniziazione, con cui occorre provare a se stessi e al mondo di essere coraggiosi e forti.

Françoise Dolto, descrivendo il narcisismo adolescenziale, scrive: «se at-tualmente vi è tra gli adolescenti più disperazione – come si dice – con fu-ghe nell’immaginario della droga o nell’immaginario della morte, il suici-dio, penso che ciò avvenga perché mancano riti di passaggio in cui gli adulti decretino: “A partire da questo momento, tu hai importanza, sei una per-sona di valore”»144. I ragazzi si proiettano nel futuro, ma hanno bisogno di essere sostenuti nel desiderio di fare un salto verso la maturità dell’amore e dell’impegno145. Non si tratta quindi di ricreare riti sociali tipici di comuni-tà ristrette e compatte; ma di aiutare a costruire un progetto anche se diffi-cile.

144 F. Dolto, Adolescenza. Esperienze e proposte per un nuovo dialogo con i giovani tra i 10 e i 16 anni, Mondadori, Milano 1995, p. 24.

145 Ivi, p. 70.

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Il senso del presente, ed anche la solitudine dietro il conformismo appa-rente, caratterizzano, come si è detto, l’aggregazione giovanile. I gruppi di adolescenti non possono essere oggetto, per così dire, di accanimento peda-gogico, né si può violare l’ombra in cui vogliono mantenersi, pena il falli-mento educativo. Per realizzare una presenza discreta, alcuni educatori scelgono di essere presenti nei templi del divertimento come le discoteche, le birrerie, etc. Non sempre però l’inseguimento è fruttuoso. I gruppi di a-dolescenti trovano il loro significato anche nella distanza e nella separazio-ne dagli adulti, e alcuni confini del loro territorio devono restare invalicabi-li. Tuttavia esistono progetti difficili cui anche i giovani devono poter partecipare, e che l’educatore deve saper proporre. Al contrario dello spon-taneismo aggregativo, luogo non politico per eccellenza, i progetti di co-struzione di qualcosa di nuovo non sono giochi per adolescenti ma parte della vita adulta, attraenti in quanto veri. Essi vanno però accompagnati da simboli che creino unità, da comunicazione di significati, da una mediazio-ne culturale. Tra l’associazionismo organizzato da un lato, con i suoi riti e le sue strutture, spesso lontano dalla maggior parte dei ragazzi, e la semplice condivisione, c’è la via della proposta di partecipazione alla vita adulta at-traverso l’elaborazione di un progetto che valga la pena di perseguire.

Infine, non si può eludere il nodo della violenza. Ciò significa accettarla come componente sociale ma depurarla della carica fatalistica e naturale che le viene attribuita, e trattarla invece come esperienza di vita: occorre toccare la violenza nella vita quotidiana, sia quella subita, sia quella rivolta contro gli altri. Un progetto educativo non cerca la sublimazione, né consi-ste in un’educazione alla pace che ignori i conflitti, ma accetta il confronto con la violenza come dimensione esperienziale. Attraverso il dialogo, la ri-flessione, l’azione contestualizzata, la violenza si trasforma da flusso natura-le e automatico in processo concreto, potenzialmente iscritto dentro ogni persona, che si può e si deve oggettivizzare e contrastare.

In questo senso la violenza va raccontata. Le narrazioni televisive o fi l-miche tendono a rappresentazioni epiche di lotta tra Bene e Male, in cui un mostro rispecchia la patologia dell’intera società, l’odio viene destoricizzato e collocato nella normalità sociale. La violenza, al contrario, è una storia personale, iscritta nelle vicende della propria vita, da storicizzare, inflitta a noi stessi e agli altri. Il nemico va reso vicino, comprensibile, mostrato nella sua somiglianza con ognuno di noi. Il lato d’ombra che esiste dentro cia-

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scuno va svelato, non solo alla luce di analisi distanziate, ma anche all’interno di un processo di comprensione che aiuti a renderlo inoffensivo.

4.5.3. Minori e criminalità organizzata La realtà di bambini, ragazzi e adulti coinvolti nella criminalità organiz-

zata non è un fatto nuovo nel nostro paese, in particolare nel Sud. Oggi, tuttavia, questo problema viene considerato un’emergenza sociale ed una priorità dagli organi dello Stato, dall’opinione pubblica e dall’intera società civile. Il problema mafia, ad esempio, pur costituendo un’antica piaga sici-liana e di tutto il paese, è stato portato attualmente allo scoperto come mai era accaduto in passato. Fino a pochi decenni fa, infatti, era in gioco la stes-sa ammissione dell’esistenza della mafia, con le sue forme rituali ed organiz-zative. Oggi la presenza di numerose e ramificate “famiglie” ossia di nuclei differenti di affi liati sparsi in varie zone del territorio della Sicilia occiden-tale – che utilizzano però lo stesso “marchio di fabbrica” utile ad accrescere senso di forza e incutere timore all’esterno – viene considerato uno dei problemi principali dell’intero paese146. Dal punto di vista dell’opinione pubblica e della cultura corrente non occorre più dimostrare che la mafia esiste; ma a partire da questa coscienza diviene ancor più fondamentale per gli educatori contribuire a trasformare modalità di convivenza fondate sul potere violento e sulla sopraffazione.

Mafia, camorra, n’drangheta sono realtà diverse ma con tratti comuni. Le loro origini nelle tre diverse regioni (Sicilia, Campania, Calabria) sono in parte comuni, simili le attività criminose cui si dedicano e comune, in particolare, il fatto di «trarre una parte della loro forza dalla profonda sfi-ducia nello Stato e nelle istituzioni pubbliche»147.

Le interpretazioni di questa realtà sono molteplici. Le spiegazioni di ca-rattere storico mettono in rilievo i fenomeni legati alla gestione del latifon-do siciliano e all’utilizzo di mano d’opera armata per tenere l’ordine; alcune correnti storiografiche sottolineano il peso dell’eredità del dominio spagno-lo; in altri casi viene messa in primo piano la mancanza di fiducia ossia di

146 Si veda D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Ei-

naudi, Torino 1992. 147 N. Tranfaglia, La mafia come metodo nell’Italia contemporanea, Laterza, Bari 1991,

p. 36.

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accordo reciproco nel contratto sociale che è alla base della partecipazione alla cosa pubblica; il passaggio all’Italia unitaria è stato altresì considerato cruciale148.

Senza poter entrare negli aspetti più propriamente storici e nella discus-sione sulle origini delle “onorate società”, va però sottolineato che occorre rendere complementari le spiegazioni inerenti ai processi socioeconomici all’interno delle zone in cui queste forme di criminalità sono nate, e la di-mensione più propriamente culturale. Infatti, come è noto, mafia e camorra non nascono come corpi estranei all’interno delle società di appartenenza, ma sono strettamente intrecciate con modi di vita, costumi, tradizioni. Esse restano, tuttavia, organizzazioni criminali che non devono essere viste sol-tanto dal punto di vista culturale o antropologico149.

Il “niente è mafia” del passato ha anche prodotto l’eccesso opposto: “tutto è mafia”, fino a far coincidere la società siciliana con le cosche e a suggerire che fosse impossibile un intervento di estirpazione di quello che alla fine sembrava essere la vera anima di questa regione. Oggi la mafia esi-ste, ma non è più normale: è divenuta visibile, se ne conoscono i contorni attraverso le confessioni dei “collaboratori di giustizia”, ed è soprattutto fatta da persone. A questo mutamento ha dato il suo apporto anche l’educazione. Oggi però è necessario un nuovo progetto che, partendo da un rinnovato impegno, affronti un duplice nodo: l’aspetto biografico, ovve-ro la mafia come reclutamento e adesioni, e la questione del metodo mafio-so, basato su clientele e corruzione, che occorre estirpare da tutta la società. È necessario infatti ricordare che, quando si ricorre sistematicamente all’affermazione dell’interesse particolare contro l’interesse comune, tutta la società diviene mafiosa150.

Per esercitare un’azione educativa nel contesto sociale – letto nella me-tafora della strada – occorre cioè pensare a vari livelli di intervento: la pre-venzione e il trattamento della criminalità vera e propria dei minorenni e soprattutto un’alternativa di tipo culturale alla mentalità di sfiducia, sopraf-fazione, potere e violenza che le mafie portano con sé.

148 S. Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Donzelli editore, Roma

1996; cfr. anche N. Tranfaglia, La mafia come metodo nell’Italia contemporanea; D. Gam-betta, La mafia siciliana.

149 N. Tranfaglia, La mafia come metodo nell’Italia contemporanea, p. 19. 150 Ibidem.

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Dal punto di vista educativo non esiste una società mafiosa, ma è impor-tante cogliere gli aspetti storici, antropologici e culturali che sottostanno ed alimentano questi fenomeni accanto a quelli risultanti dal sistema della de-vianza. Risulta chiaro che non si può comprendere la scelta di un giovane affi liato senza guardare al clima psicologico e culturale in cui è vissuto, ai valori trasmessi direttamente e indirettamente, al senso dell’onore, della protezione o della solidarietà all’interno della “famiglia” che gli è stato in-culcato.

D’altra parte, le mafie non sono soltanto una mentalità: restano asso-ciazioni a fini di lucro fondate sulla violenza e su attività illecite come l’e-storsione ed il traffico di stupefacenti. Hanno ferree leggi economiche in-terne (che vietano il furto), sociali e morali (rispetto della famiglia), ma rifiutano quelle delle istituzioni statali. Sono caratterizzate quindi dall’anomia, unita ad una violenza primitiva che si esprime in forme arcai-che e crudeli, ma testimoniano allo stesso tempo «un bisogno di ordine e quindi di Stato»151.

La mafia stabilisce zone franche dove amministrare la “legge” ed imporla ai singoli cittadini; si sostituisce allo Stato nel garantire “ordine” e gestire la “giustizia”. Si potrebbe dire che proprio la gestione dello spazio costituisce la sua forza. Nell’assenza di autorità dello stato, la famiglia chiude una por-zione di territorio e afferma il suo diritto su di essa. Chi accetta di pagare il prezzo dovuto a questo anti-Stato sarà protetto e non correrà pericoli, anzi goderà di diritti e di giustizia, esattamente come in un qualsiasi paese auto-nomo. In questo le mafie anticipano le forme contemporanee di occupa-zione dello spazio (“secessione”, o “proclamazione di autonomia”) non fondate su identità linguistica o culturale, ma solo sul diritto del più forte. Per diverse cause, di tipo storico, o per motivi di protesta, sono simili a quei movimenti contemporanei che affermano il diritto su uno spazio in base a criteri del tutto artificiali e pretendono di amministrare la loro giustizia su di esso.

L’occupazione dello spazio costituisce però il suo limite. A parte l’esportazione del modello mafioso ad altri paesi, infatti, restano invariabil-mente legati alla dimensione locale. Davanti ad un mondo che tende alla

151 G. Falcone in collaborazione con M. Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli, Mila-

no1991, p. 71.

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globalizzazione, c’è da chiedersi quale sarà il futuro di queste forme di de-linquenza.

«Mafiosi non si nasce, si diventa. I processi che li producono sono mol-teplici. Si può diventare mafiosi per “educazione”, per convinzione, per co-strizione, per paura, per ignoranza» scrivono gli autori di una ricerca socio-logica su questi temi152. In effetti, esiste un vero e proprio sistema di trasmissione di valori che ha indotto a parlare di un “sentire mafioso” che, come è noto, non caratterizza solo gli aderenti, ma anche molti giovani e adulti. In alcuni casi si tratta di una vera e propria carriera criminale, con avanzamento nei vari gradi, in altri di utilizzo di “manovali”, il cui numero tende ad aumentare e la cui età tende ad abbassarsi. Si effettua una trasmis-sione da padre in figlio, ma anche un arruolamento tra i giovani delle cam-pagne e dei quartieri più poveri.

Per quanto riguarda il fiancheggiamento è utile riportare la distinzione tra ragazzi nella e della (mafia o camorra), che può valere anche per altri gruppi153. I primi, organici alla struttura, compiono reati più gravi; la loro esperienza va riportata ad una affiliazione avvenuta per meriti o per prove-nienza familiare; si sottraggono all’intervento educativo ed al reinserimento sociale. I secondi, i ragazzi della mafia o della camorra, non sono parte atti-va, ma sono assoggettati ed utilizzati. Tra loro si trovano gli orfani della camorra, privati dei padri perché morti o detenuti e mantenuti o aiutati dall’organizzazione154.

Disoccupazione, povertà, ignoranza, circolo vizioso dello svantaggio sco-lastico e sociale costituiscono il vero serbatoio delle associazioni per delin-quere su base mafiosa. Ignorare il peso dei fattori socioeconomici equivale a tacere la fonte di cui si alimenta l’emarginazione del meridione. A una let-tura comprensiva dei fenomeni e del contesto, però, non sfugge la portata

152 G. Casarrubea, P. Blandano, L’educazione mafiosa. Strutture sociali e processi di iden-tità, Sellerio editore, Palermo 1991, p. 51. Sui minori nella criminalità organizzata cfr. M. Cavallo (a cura di), Le nuove criminalità: ragazzi vittime e protagonisti, Franco Angeli, Mi-lano 1995.

153 O. Ciampa, “Intervento” al Convegno dell’Associazione Italiana Giudici per i mi-norenni, in P. Andria (a cura di), Criminalità minorile: quanta, quale, perché, Unicopli, Milano 1988; I Merzagora, D. Paolillo, Il coinvolgimento dei minori nella delinquenza organizzata: un tentativo di indagine quantitativa, in «Marginalità e società» 20, 1991, pp. 30-47.

154 Ivi, pp. 31-32.

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dei processi simbolici che hanno un peso altrettanto rilevante. Influiscono sull’adesione alla criminalità organizzata elementi di carattere sociale, che fanno perno sul senso di identità e di appartenenza dei ragazzi; fattori legati alla sicurezza ed al ruolo, collegati alla possibilità di pervenire rapidamente al simbolo di successo per eccellenza, e cioè il denaro; attribuzione di signi-ficati a funzioni e relazioni.

L’inquadramento impostato su criteri gerarchici non viene percepito come un impostazione, ma è apprezzato perché a ognuno è dato «il suo po-sto»155. Ragazzi molto giovani, infantilizzati dalla scuola o dalla società, vengono trattati come adulti e impiegati per compiti di responsabilità. L’organizzazione trasmette regole: onore, autorità, maschilismo, vendetta, fedeltà, cose che valgono per chi detiene il potere e vengono ritenute quindi più che regole valori. Si parla un linguaggio particolare con caratteristiche di segretezza, che contribuisce a creare un confine tra adepti ed esterni: quel segreto che, come si è visto per l’adesione degli adolescenti al gruppo, è for-temente seducente, in quanto consiste nel sottrarre alla verbalizzazione ed alla chiarezza, ricondurre sul piano dell’indistinto, del fusionale, dell’irrazionale156.

L’impegno educativo, per reintrodurre il senso della giustizia sociale, de-ve affrontare tali codici simbolici, ed apprendere ad usarli, entrando cioè nel mondo dei giovani, nei valori e desideri che circondano l’appartenenza ad un’organizzazione. Ciò riguarda gli affiliati, ma soprattutto la massa di ragazzi ai margini e periferici di ogni regione, a cui si rivolge l’educazione “di strada”. Oltre a un’educazione antimafia diretta, infatti, va diffusa una formazione civica globale che non insegna i valori della legalità, ma li tra-smette in contrapposizione all’influenza della criminalità organizzata. In questo senso l’impegno degli educatori assume una rilevanza politica e civi-le, in quanto considera il linguaggio dell’onore, ma allo stesso tempo pro-pone un progetto di revisione di significati che comprende il rapporto con i beni di consumo, le altre persone, lo stato.

Le ragioni della convivenza pacifica e della non-violenza devono trovare spazio nella scuola e fuori di essa. Un fattore importante riguarda, ad esem-pio lo stile educativo con cui crescono bambini e ragazzi. Le analisi sul pro-

155 Ivi, p. 38. 156 F. Di Maria Et Alii, Il sentire mafioso. Percezione e valutazione di eventi criminosi

nella pre-adolescenza, Giuffrè 1989, pp. 17 ss.

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blema della delinquenza organizzata mettono in alcuni casi in rilievo la problematica dell’obbedienza all’autorità, del dogmatismo. Sulla scorta del-le ricerche della scuola di Francoforte si denuncia soprattutto la rigidità dei ruoli familiari che crea personalità dogmatiche, poco flessibili, inclini all’aggressività157. Le stesse osservazioni, per quanto parziali, possono essere fatte per quanto riguarda i ruoli educativi scolastici ed extrascolastici. Da qui è partito un filone pedagogico che ha fatto della non violenza e dell’educazione alla pace la base per combattere la mentalità mafiosa158.

Il ruolo della scuola è stato spesso ricordato a proposito della lotta alla mafia. Durante il ventennio fascista il prefetto Mori, pur smentendo tali asserzioni con l’azione fondata principalmente su metodi repressivi, affer-mava: «La mafia non teme il carcere quanto la scuola [...] non teme il giu-dice quanto il maestro […] non teme il carabiniere quanto il balilla». Tut-tavia è particolarmente evidente che questo progetto pedagogico, pur considerando l’istruzione come un elemento fondamentale, non si esaurisce nella scuola, ma ha bisogno dell’azione extrascolastica (il “balilla”)159.

Alcuni, pur mettendo in evidenza l’importanza dei compiti di preven-zione dell’istituzione scolastica, hanno ricordato che anche i mafiosi ed i loro figli hanno studiato. In questo caso, la trasmissione familiare è stata più forte dell’educazione ricevuta. In altri casi la scuola non solo non riesce a contrastare, ma in molti casi è essa stessa produttrice di disagio sociale160. Espulsione anticipata, mancanza di un reale impegno per creare rapporti personali e coinvolgenti, carenza di differenziazioni nei metodi e nei pro-grammi allontanano dalla scuola e contribuiscono a orientare i ragazzi ver-so carriere illecite.

Una scuola “giusta”, che offre opportunità di uguaglianza, è anche una scuola aperta. La mentalità dei giovani meridionali sta cambiando anche grazie al ruolo svolto da chi, per testimoniare la possibilità di un impegno

157 G. Casarrubea, P. Blandano, L’educazione mafiosa. Strutture sociali e processi di iden-

tità. 158 In questo senso si vedano le esperienze di Danilo Dolci in Sicilia. Cfr. D.Dolci, In-

ventare il futuro, Laterza, Bari 1988. 159 Cit. in G. Casarrubea, P. Blandano, L’educazione mafiosa. Strutture sociali e processi

di identità, p. 21. 160 Ivi, p. 39; sul ruolo della scuola nei confronti dei ragazzi che vivono in contesti dif-

ficili, si veda Comunità Di S. Egidio, La scuola rubata, Franco Angeli, Milano 1992.

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collettivo contro le mafie, ha utilizzato le scuole per aprire questi temi. Un’assemblea aperta, con la partecipazione di testimoni o l’organizzazione di una attività su questi temi, infligge più colpi alla violenza di molti pro-grammi istituzionali. Un progetto di vita vince la fatalistica rassegnazione ed il vittimismo, frutto anche di un’abitudine storica a subire invasioni e governi estranei che contraddistingue il “sentire mafioso”, al di là della vio-lenza esercitata. Anche l’apertura del contesto sociale all’esterno è utile. Ra-gazzi che viaggiano, studiano le lingue, escono dal loro ambiente, si collega-no con internet saranno meno vulnerabili rispetto al richiamo di regole e codici ancestrali e locali.

I progetti per la prevenzione del coinvolgimento di minori in attività criminali organizzate, pur se sperimentali, hanno creato e mobilitato ener-gie verso il sud e verso la mentalità mafiosa presente ovunque. Spetta anche agli educatori creare nuove motivazioni e significati per ricostruire le ragio-ni della convivenza civile.

4.5.4. Educatori sulla soglia Il lavoro di prevenzione della tossicodipendenza ha assunto in questi ul-

timi anni una nuova fisionomia. Come già si è detto a proposito dei pro-grammi scolastici, varie modalità di trasmissione dell’informazione e di coinvolgimento della comunità sono state via via sperimentate e sottoposte a critica, tanto da suggerire il passaggio da una strategia fondata sulla pre-venzione a una fondata sulla promozione. È stato osservato che, in questi anni, sia i progetti basati sull’autonomia e la scelta razionale di soggetti che si accostano consapevolmente ai servizi, sia quelli basati sulla rete di soste-gno, centrati sul soddisfacimento dei bisogni elementari, hanno richiesto profonda revisione161.

Nel campo delle tossicodipendenze, la necessità di trovare approcci nuovi, più rispondenti all’urgenza dei problemi, ha condotto a elaborare la formula della riduzione del danno, cioè l’azione diretta a limitare i danni della tossicodipendenza ed a prevenire in particolare patologie (come l’Aids) o effetti particolarmente nocivi alla salute. Tale tipo di intervento si

161 L. Religiosi, La prevenzione possibile. Modelli, orientamenti, esperienze per l’operatore

di territorio sulla prevenzione della devianza giovanile e della tossicodipendenza, Guerini e Associati, Milano 1992, pp. 229-233.

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mostra tuttavia inadeguato a cogliere la problematica al di là della dimen-sione strettamente sanitaria; si è così preferito la dizione di intervento a bas-sa soglia o di cura della vita, che permette di sperimentare un aiuto provvi-sorio, ma non per questo meno completo, alla persona in stato di dipendenza, senza attendere la richiesta esplicita da parte della persona di disintossicarsi o di uscire definitivamente dalla sua situazione162. Questo tipo di lavoro, essenzialmente socioeducativo, è definito come «l’attivazione di tutte le forme possibili di contatto e di accompagnamento affinché siano garantite le condizioni minime (cliniche, psicologiche, socia-li) che permettano, quando diventa matura l’intenzionalità di cambiare, di poterlo fare, evitando la loro irreversibile compromissione»163. La presa in carico del giovane o dell’adulto in difficoltà si colloca a tre livelli: organiz-zazione dei servizi, cultura sociale e scelte educative. Non si vuole qui pren-dere in esame l’aspetto di prevenzione sanitaria attinente ai due primi livel-li, non pertinenti con il nostro tema e già sottoposti a revisione anche sul piano etico. Interessano invece i programmi di lavoro con la persona che mostrino una valenza specificatamente educativa. Si tratta infatti di incon-trare giovani e adulti in situazioni di disagio, in particolare tossicodipen-denti, o senza fissa dimora, per rispondere ad un bisogno di relazione ed in-tavolare un dialogo senza necessariamente costringere alla scelta di riabilitazione, all’entrata in una comunità o alla fruizione di servizi. Tali o-biettivi restano comunque sullo sfondo, ma non devono creare corti circui-ti nel rapporto con l’educatore. Ciò permette di evitare la standardiz-zazione delle proposte, raggiungere le persone con meno opportunità, creare un rapporto quotidiano164.

Sono stati descritti a questo proposito quattro profili di giovani in stra-da destinatari degli interventi: il giovane “a rischio”, sulla via della margina-lizzazione, ossia sulla soglia tra disagio e devianza; il giovane sradicato ed

162 Caritas Ambrosiana, Riduzione del danno: le comunità s’interrogano, in «Il Regno-Documenti», 21, 1994, pp. 689-694. Sono seguiti altri documenti, tra cui Dalla riduzione del danno all’intervento a bassa soglia (1994) e Cura della vita. Lotta alla droga, prevenzio-ne e recupero: l’impegno delle comunità (1997).

163 M. Campedelli, Riduzione del danno, in «Prospettive Sociali e Sanitarie», 5, marzo 1995, p. 2; dello stesso autore cfr. anche Educativa di strada e riduzione del danno in «Il lavoro di strada», pp. 62-66.

164 L. Grosso, L’individualizzazione degli interventi di riduzione del danno, in “Anima-zione sociale”, 2, febbraio 1995, pp. 17 ss.

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errante; il giovane “leader negativo” disponibile a trascinare altri; il giovane ritenuto “irrecuperabile”. In tutti i casi chiave dell’intervento sarà solo la relazione individuale, centro di un progetto o di un contratto fondato su alcune azioni: socializzare, animare, occupare, separare (come situazione limite di allontanamento dal pericolo)165.

Un lavoro di questo tipo ha per suo luogo elettivo l’ambiente di vita dei giovani border-line, cioè a tutti gli effetti la strada. Ciò permette di conside-rare i problemi in modo globale, evitando di trattarli in diverse sedi: richie-ste inerenti alla salute in sede sanitaria, assistenza nelle istituzioni preposte, e così via. La relazione d’aiuto attiva interventi nel contesto; le persone so-no incontrate nel loro ambiente di vita, senza etichettarle in base ai bisogni che presentano. Soprattutto, il lavoro di strada offre una «messa a parente-si dell’acutezza dei problemi per non agire nella turbolenza dei problemi», sospende l’azione permettendo uno spazio definito, secondo il pensiero “transizionale” di Winnicot166.

In strada vivono soprattutto le persone definite “senza fissa dimora” o senza domicilio. Barboni in Italia, homeless negli USA, clochards in Francia, sono circa 60.000 in Italia i giovani, adulti e anziani che la società del be-nessere ha respinto sui marciapiedi. Destinatari finora solo di interventi as-sistenziali, anche i clochards presentano domande di intervento “a bassa so-glia”, intendendo con ciò l’accostarsi al loro mondo, la conoscenza della loro vita, la comprensione del contesto che li circonda, la proposta di alter-native.

Tuttavia va osservato che tali situazioni, anche se spesso è un evento traumatico a far precipitare situazioni già precarie, non rappresentano sol-tanto un incidente improvviso e marginale nella vita di una persona. Esse sono strettamente collegate con l’ambiente di provenienza, le risorse offerte dalla società, la struttura economica del mondo industriale. In questo senso si può concordare con chi ritiene importante «evitare di isolare i protago-nisti di questa vicenda e di pensare alla fuga, alla povertà, all’isolamento,

165 Ctnerhi (Centre Technique National d’Ètudes et des Recherches sur les Handicaps

et les Inadaptations), Il pubblico del lavoro di strada, in «Animazione sociale» 2, febbraio 1995, p. 33.

166 Ctnerhi, I nodi da sciogliere per un futuro del lavoro di strada, in «Animazione so-ciale» 2, febbraio 1995, p. 51.

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come eventi separati, atomizzati». In realtà, la povertà nei paesi sviluppati come l’Italia, resta un fatto strutturale e non un fenomeno provvisorio167.

I motivi per cui si vive in strada sono molteplici. Storicamente gli homeless sono nati come lavoratori migranti, poveri, vagabondi nell’America della grande crisi. Oggi vi sono tra loro molti alcoolisti, perso-ne separate dalla famiglia, uomini e donne che hanno vissuto lontano dal proprio paese e si trovano al loro ritorno senza mezzi, dimessi dagli ospedali psichiatrici. Crescono i giovani: in maggioranza sono immigrati, costretti alla vita in strada soltanto dalla mancanza di risorse economiche, oppure tossicodipendenti.

I due terzi dei barboni dichiara di voler uscire dalla propria condizione e trovare una residenza fissa. In realtà, l’intervento socioeducativo non può ritenere di dover fornire risposte immediate e risolutive. Molti homeless, ad esempio, rifiutano l’accoglienza in strutture collettive, preferendo la solitu-dine; per altri il reinserimento nel lavoro non può essere considerato un punto di partenza, ma semmai il punto di arrivo di un lungo processo; solu-zioni “intermedie” come la permanenza in strutture protette necessitano di un paziente e accorto lavoro di mediazione.

L’azione a favore delle persone senza fissa dimora richiede quindi una notevole qualità di intervento, capacità di comprensione, pazienza, scelta di adattare il servizio alla persona e non viceversa. Il contesto della strada, con la sua durezza, mette alla prova le soluzioni facili e il desiderio di uniforma-re bisogni e storie uniche e singolari, obbligando allo stesso tempo ad una lettura non ingenua della nostra società.

4.5.5. Tra i nomadi Per concludere questo breve giro d’orizzonte sul contesto della strada,

intesa come ambiente di confine tra le grandi e tradizionali agenzie educa-tive, si deve ricordare la popolazione zingara, che di buon diritto si può de-finire abitante della strada nel senso concreto della parola. Anche un campo

167 R. Rauty, Homeless. Povertà e solitudini contemporanee, Costa & Nolan, Genova

1997, p. 29. Sul tema delle persone senza fissa dimora, cfr. P. Guidicini, G. Pieretti (a cura di), La residualità come valore. Povertà urbane e dignità umane, Franco Angeli, Milano 1993. Si vedano anche della Commissione D’Indagine Sulla Povertà e L’Emarginazione i Rapporti sulla povertà in Italia.

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nomadi costituisce un contesto in cui gli educatori, a partire dalla com-prensione di una realtà complessa, agiscono su di essa.

Originarie dell’India, le popolazioni zingare iniziano le grandi migra-zioni verso occidente a seguito delle pressioni islamiche; vengono segnalati in Persia nel V secolo, mentre l’arrivo in Europa avviene intorno al XI seco-lo. In Italia, le prime cronache testimoniano l’ingresso a Bologna ed in altre città a metà del 1400. Dopo una iniziale reazione di curiosità, cominciaro-no i primi di innumerevoli bandi per allontanarli dai territori, costringen-doli a varie strategie di sopravvivenza. In questo periodo, gli zingari svolge-vano mestieri funzionali al tessuto economico circostante: fabbri, commercianti di cavalli, calderai, organizzatori di spettacoli ambulanti168.

L’origine del nome “zingari” potrebbe venire da atsingani, nome dato in Grecia, ma esistono varie denominazioni per indicare i vari gruppi: kaldera-sha (romeno), lovara (ungherese) xora xane roma, cioè zingari musulmani, rudari.

Oggi il termine rom = uomo zingaro indica l’intera etnia. Nel nostro pa-ese vi sono vari gruppi di cittadinanza italiana. Il più numeroso è quello dei sinti, giostrai e organizzatori di spettacoli ambulanti; i gruppi di origine più antica tra loro sono i sinti piemontesi, lombardi, emiliani, veneti; vi sono inoltre i rom caratterizzati dalla provenienza: rom abruzzesi, calabresi, etc.

I rom sono allo stesso tempo noti a tutti e sconosciuti. Su di loro viene sovrapposta un’immagine uniforme che non tiene conto delle molteplici differenze al loro interno: di nazionalità, (slava, ungherese, romena, italiana etc.), di religione (ortodossa, musulmana, cattolica). La stessa lingua, il ro-manés, ha accolto diversi elementi dai paesi in cui i nomadi hanno abitato. Le migrazioni attuali e passate dei rom testimoniano un equilibrio tra di-namiche di adattamento e sollecitazioni della grande storia, che li ha spesso travolti.

La storia degli zingari presenta infatti un tratto unitario: quello dell’ostilità e del pregiudizio da parte delle popolazioni sedentarie. Presenti ormai da molti secoli nella società occidentale, i rom sono stati sempre di-

168 Per una storia dei Rom si veda L. Narciso, La maschera e il pregiudizio. Storia degli

zingari, Melusina, Roma 1990; F. De Vaux De Foletier, Mille anni di storia degli zingari, Jaca Book, Milano 1978; G. Viaggio, Storia degli zingari in Italia, Anicia 1997; M. Karpa-ti, I figli del vento. Gli zingari, La Scuola, Brescia 1978; M. Olmi, Italiani dimezzati, Edi-zioni Dehoniane, Napoli 1986.

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sprezzati. Le rappresentazioni dello zingaro come mendicante, ladro, sfac-cendato, sono iscritte nell’immaginario popolare. Ancora oggi può capitare che il rapimento dei bambini venga, del tutto fantasiosamente, associato alla presenza di nomadi. Anche l’immagine romantica e nobile dello zinga-ro libero e artista è divenuta in molti casi una manipolazione che non corri-sponde alla realtà di una vita dura e difficile.

Da parte dei governi si sono alternate misure di vera e propria repressio-ne a tentativi di assimilazione culturale, come nel caso dell’Austria dell’imperatrice Maria Teresa in cui i bambini zingari vennero sequestrati e separati dai genitori per farli allevare dallo Stato.

Il culmine delle politiche repressive è raggiunto con il genocidio degli zingari ad opera dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. Mentre è noto l’Olocausto ebraico, è sceso il silenzio sul mezzo milione di zingari de-portati e uccisi nei campi di concentramento. Nella politica hitleriana, che vedeva al vertice la razza “ariana”, gli zingari, pur parlando una lingua aria-na, non vennero mai riconosciuti come tali, ma condannati per motivi di razza e “asocialità”169.

Dopo la seconda guerra mondiale, si assiste a due grandi spinte migrato-rie: una nel 1960, l’altra alla fine del 1980, con la caduta della cortina di fer-ro. Fino ad allora gli zingari erano stati contenuti dai regimi comunisti dove vivevano in uno stato di marginalità e indigenza. Molti sono arrivati dalla Bosnia e dal Kossovo a seguito dalla guerra nella ex Jugoslavia all’inizio de-gli anni novanta. Oggi chiedono diritto d’asilo, ma difficilmente viene con-cesso loro lo statuto di rifugiati politici; in quanto “rifugiati economici” condividono lo stesso rifiuto di tutte le popolazioni che bussano alle porte dell’Europa.

Si calcola che attualmente i rom siano 6-8 milioni in Europa centrale e orientale, meno di un milione in Europa occidentale, di cui 70.000 in Italia. La caratteristica fondamentale del popolo zingaro resta la dispersione. Solo una minoranza è ancora effettivamente nomade, e cioè gli zingari giostrai che trasportano gli spettacoli e i giochi; gli altri semi-sedentarizzati, aspira-no ad una casa, e sono più che altro costretti a spostamenti a causa della

169 D. Kenrick, G. Puxon, Il destino degli zingari. La storia sconosciuta di una persecu-

zione dal medioevo a Hitler (trad. dall’inglese), Rizzoli, Milano 1975.

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mancanza di campi-sosta autorizzati. Il nomadismo attuale diviene sempre più una costrizione, anziché una scelta170.

La metà della popolazione zingara ha meno di 15 anni, e meno del 3% supera i 60 anni. Considerando le varie fasce sociali, ha l’aspettativa di vita più bassa: circa 45 anni. Le cause dell’altissima mortalità, soprattutto tra i bambini, sono da attribuirsi alle condizioni degradate in cui sono costretti a vivere, alla situazione igienico-sanitaria, alle quasi inesistenti misure di pro-filassi, ai frequenti incidenti. In Italia, così come quasi ovunque, va registra-ta la mancanza di campi-sosta attrezzati, nonostante siano previsti in varie normative regionali.

I mestieri tradizionali degli zingari (artigianato, allevamento, commer-cio, esercizio di “arti magiche”) sono entrati in crisi con lo sviluppo econo-mico della società moderna. Restano alcune forme tradizionali come lo spettacolo ambulante, o il riciclaggio. In alternativa, gli espedienti e l’accattonaggio (il mangel delle donne e dei bambini). L’anomia zingara, ovvero il rifiuto di sottoporsi alle leggi sociali del paese in cui vivono, non può tuttavia essere considerato un tratto “intrinseco” alla cultura zingara; esso è piuttosto il risultato di un lungo processo storico di emarginazione, la conseguenza di una separazione tra il mondo zingaro e il nostro e di un atteggiamento di sfiducia e diffidenza originata dall’ostilità di cui sono sempre stati oggetto171.

D’altronde, le famiglie che intendono cercare un lavoro regolare sono poste davanti alla scelta di mimetizzarsi e rinunciare allo loro identità rom. La possibilità di integrarsi viene così a essere condizionata alla perdita della loro cultura.

Anche le politiche attuali sono oscillanti a questo proposito. Prevale la richiesta di assimilazione oppure, al contrario, il rischio di mitizzare costu-mi e tradizioni di una cultura che va sempre compresa nel suo rapporto con la società circostante. Infatti occorre ricordare che «l’aiuto apportato ai Rom non è un contributo per la conservazione di una minoranza esotica,

170 D. Kenrick, G. Puxon, Il destino degli zingari. 171 Sulla vita degli zingari oggi si veda G. Battaglia, La pentola di rame. Frammenti di

vita del mondo dei nomadi, Melusina, Roma 1992.

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ma un contributo allo sviluppo globale della società contemporanea attra-verso le cure prestate a una delle sue componenti»172.

La situazione dei Rom è definita paradossale in quanto, se da una parte costituiscono una minoranza etnico-linguistica protetta, i cui diritti sono riconosciuti in via di principio, d’altra parte dipendono interamente dalla buona volontà e dall’accoglienza degli stati in cui vivono, in un contesto at-tuale fortemente marcato dalla xenofobia173.

Lo statuto degli zingari, come si è detto, è anomalo. Le organizzazioni che curano i loro diritti generalmente non chiedono leggi speciali a tutela di questa minoranza, già sancita dall’art. 6 della Costituzione (La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche), quanto che si applichi-no gli articoli della Costituzione che sanciscono la libertà, l’uguaglianza di tutti i cittadini e la loro piena partecipazione alla vita sociale e politica (artt. 2, 3, 4, 13, 14, ed in particolare l’art. 16 che prevede la libertà di sosta). Si è tuttavia sviluppato anche un processo di sviluppo dell’identità transnazio-nale rom, ad opera di gruppi di intellettuali che in recenti congressi hanno fondato l’Unione mondiale dei rom per affermarne e difenderne i diritti cul-turali.

Ci si può chiedere quali figure professionali debbano essere presenti nell’ambiente dei nomadi, e quali compiti prevedere per gli educatori che si occupano dei loro problemi. A questo scopo vanno presi in considerazione gli obiettivi principali da individuare per contribuire a migliorare la situa-zione delle famiglie zingare174.

Esistono due dimensioni negli interventi a favore degli zingari, collegate tra loro. La prima è di tipo microsociale e riguarda le loro effettive condizio-ni di vita, l’educazione sanitaria, la scolarizzazione dei bambini, la forma-zione professionale. La seconda, di livello macro, consiste in un lavoro di tipo interculturale per promuovere la conoscenza e la comprensione reci-proca tra il mondo rom e il mondo dei gagè (= non zingari). Come si è det-

172 A. Reyniers, Les populations tsiganes et leurs moviments dans les pays d’Europe centra-

le et orientale et vers quelque pays de l’OCDE, Documento OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), Paris 1995.

173 Ivi, p. 39 174 Vi sono finora soltanto pochi esempi, ma sono in aumento le amministrazioni co-

munali che impiegano assistenti sociali, educatori o cooperative di servizi per il sostegno ai nomadi nelle loro zone.

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to, i due aspetti sono profondamente interconnessi tra loro. Ostilità e in-comprensione verso gli zingari non possono essere considerate come un da-to naturale e insuperabile, imputabile al rifiuto da parte nomade di inte-grarsi. La situazione, come si è visto, è molto più complessa.

Se esistono barriere storiche, linguistiche e culturali, va anche detto che è altrettanto vivo il desiderio da parte di molti nomadi, soprattutto delle giovani generazioni, di uscire dal cerchio della miseria e dell’emarginazione. Numerosi fattori ostacolano questo processo. A livello microsociale, come si è detto, occorre un lavoro approfondito con i bambini e i più giovani per-ché si integrino in uno sviluppo sociale e culturale, premessa indispensabile per l’inserimento lavorativo e per evitare fenomeni di devianza. I minori nomadi che compiono reati (nella stragrande maggioranza reati contro il patrimonio, cioè furti, anziché contro la persona, tipo di reato diffuso tra i non zingari) usufruiscono di fatto, come si è detto nel capitolo V, di minori opportunità alternative al carcere rispetto ai loro coetanei. Il processo di prevenzione e integrazione sociale, indubbiamente, parte dalla scuola.

La lunga strada verso la scolarizzazione dei bambini zingari ha attraver-sato due fasi. Nella prima, a partire dal 1963, gli alunni nomadi sono entrati nella scuola in classi sperimentali a loro riservate (le lacio drom); la seconda ha visto l’inserimento nelle classi comuni. Resta ancora da realizzare una terza fase di effettiva uguaglianza di opportunità e di risultati. Infatti, solo la metà dei bambini zingari è oggi scolarizzata, nonostante la volontà posi-tiva delle famiglie in questa direzione175.

Ostacolano la frequenza anzitutto la precarietà della sosta in mancanza di campi autorizzati, sanciti dalla legge, ma mai realizzati: le famiglie ven-gono sgomberate più volte in un anno, senza preavviso, costringendo i figli all’interruzione degli studi. Vi è inoltre la necessità, da parte dei bambini, di sostenere la famiglia con il lavoro o con la questua. Infine, si frappongono le difficoltà relative alla scarsa capacità della scuola di adattarsi ai loro bisogni. Anche la mancanza di educazione prescolastica incide negativamente sulla scolarizzazione.

La presenza di un bambino zingaro a scuola non costituisce un “pro-blema”, ma un’occasione di arricchire ed ampliare le risorse ed offerte di-dattiche a disposizione degli alunni. A partire dal momento

175 J.P. Liégeois, La scolarizzazione dei bambini zingari e viaggianti, Rapporto di sintesi della Commissione della Comunità Europea, Bruxelles, 1987.

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dell’accoglienza, la scuola deve darsi obiettivi di integrazione che si realizzi-no in attività comuni. Risulta collegata a tali obiettivi “minimi” la capacità di comprensione della realtà rom da parte degli insegnanti e una comunica-zione che, come per tutti gli alunni, deve tener conto degli aspetti motiva-zionali, culturali, affettivi dell’apprendimento. Nonostante la collaborazio-ne della maggior parte degli insegnanti, infatti, la scuola appare ancora lontana dalla realizzazione di programmi effettivamente interculturali che faciliterebbero l’inserimento degli alunni zingari176.

La scuola costituisce, per i bambini rom, il primo – se non l’unico – ap-proccio ravvicinato con il mondo fuori del campo. Si presenta quindi come un universo minaccioso e insieme come il luogo dove si dispensano gli stru-menti desiderati della lettura e della scrittura, che aprono le porte all’inte-grazione sociale. Qui si gioca la possibilità di invertire il circolo vizioso del-lo svantaggio, non soltanto conquistando l’alfabetizzazione ma soprattutto imparando a conoscere e a comunicare con la cultura gagé. La sfida, infatti, è prioritariamente culturale nel senso di padronanza degli strumenti di ba-se, ma anche di integrazione a livello di convivenza sociale. Come riporta il Rapporto della Commissione della Comunità Europea sulla scolarizzazione di bambini zingari e viaggianti, sottolineando la relazione tra politiche ge-nerali e situazione scolastica: «fintantoché rimarranno conflittuali le rela-zioni tra le comunità zingare e l’ambiente che le circonda, le relazioni dei genitori e dei bambini zingari con la scuola ne resteranno condizionate»177.

L’intervento di educatori nel contesto di confine tra scuola ed extra-scuola, di cui si è parlato, riguarda anche tale situazione dei nomadi. Una politica educativa completa, quale si profila anche nelle recenti disposizioni legislative a favore dell’infanzia, deve prevedere iniziative che contribuisco-no alla scolarizzazione, e alla prevenzione, agendo sul contesto (attività e-xtrascolastiche, arricchimento culturale, rapporti con le famiglie etc.).

Ancora, a livello microsociale esiste la questione dell’educazione sanita-ria. Il problema della salute dei nomadi richiede interventi educativi, sia a livello dei bambini che delle loro famiglie. Campagne di sensibilizzazione e

176 Sugli aspetti interculturali, cfr. C. Clanet, “L’intégration pluraliste des cultures mi-

noritaires: l’exemple des tsiganes”, in J. Retschitzky, M. Bossellagos, P. Dasen (a cura di), La recherche interculturelle, L’Harmattan, Paris 1989.

177 J.P. Liégeois, La scolarizzazione dei bambini zingari e viaggianti, p. 136.

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di profilassi possono essere condotte dagli educatori, previa una buona co-noscenza delle situazioni sociali in cui devono essere svolte.

La formazione professionale, infine, può riguardare gli adolescenti che abbiano frequentato la scuola e intendano inserirsi a livello lavorativo. I ra-gazzi nomadi vivono oggi una doppia crisi, legata al passaggio all’età adulta e al confronto con la società circostante. La televisione e i mezzi di comuni-cazione hanno ridotto la distanza tra i due mondi, ma non la difficoltà a fa-re parte di quello gagé. I consumi unificano il mondo degli adolescenti, sen-za realizzare una reale integrazione. Gli zingari sono sospesi tra due culture, non più monolitiche e strutturate, ma frammentate e intrecciate. In quella rom vi sono elementi simbolici che costituiscono ancora la loro identità; ma nella seconda, attraverso la televisione, gli adolescenti ne trovano altret-tanti in cui riconoscersi. Il passaggio di sponda è, fino ad ora, traumatico, e comporta la rinuncia all’una o all’altra cultura. A quando la possibilità, per un ragazzo zingaro, di vivere e partecipare ad ambedue?

Come è facile comprendere, il livello macrosociale si intreccia con gli in-terventi di sostegno educativo di cui si è parlato. La situazione sanitaria dei rom, ad esempio, non dipende solo dalla conoscenza di adeguate norme di igiene o di alimentazione. Gli incidenti, le malattie infettive o da raffred-damento, la scarsa alimentazione – cause della elevatissima mortalità infan-tile – dipendono da fattori ambientali e quindi ancora una volta da politi-che sociali e culturali, necessarie per rispettare effettivamente i loro diritti. Si profila così la necessità di un educatore esperto nel campo interculturale, che affronti, a livello di iniziative di educazione degli adulti e permanente, le tematiche del pregiudizio e della convivenza tra diversi.

Sono nate in questo senso varie iniziative che hanno portato alla crea-zione del profilo del mediatore culturale. Tale figura, in genere rappresenta-ta da un membro del gruppo etnico (in questo caso i rom), ha il compito di avvicinare e mettere in rapporto nomadi e istituzioni, come la scuola, le strutture sanitarie, istituzionali etc. Anche un educatore non zingaro può però svolgere un ruolo di mediazione, lavorando a livello della conoscenza e delle informazioni, nonché delle immagini e delle rappresentazioni recipro-che.

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